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dalle sole tensioni del corpus che, sulla base di un legame armonico, ha prodotto<br />
un’amplificazione più grande delle sue parti, al punto tale che la corporeità che si manifesta non<br />
può più trovare una piena rispondenza in quegli spazi fin troppo vibranti. Quindi, prima di<br />
riferirsi a una mancanza – la cui grammatica è fin troppo sbrigativa a mostrare i suoi riferimenti<br />
ostensivi –, è necessario intendere il crescendo delle forze rituali come l’espressione di<br />
un’insofferenza generale. Una tensione del corpo, pur non finalizzata ad alcun compimento,<br />
viene sempre espressa con un comportamento. Quando una tensione preme sugli spazi del corpo,<br />
questo non può mantenersi quieto, anche se non sa dove dirigere i suoi movimenti; allora avviene<br />
una liberazione di forme che vanno intese nel senso di un reclamo attivo: il corpo esige un<br />
cambiamento, un’evoluzione. Non è ancora una mancanza di qualcosa, ma una mancanza<br />
sottratta, un’insofferenza cieca e attiva, che ha il valore di aprire nuove spaziature, tracciando nel<br />
contempo un cammino sulla nuda arena del rito.<br />
La simbiosi che ha istituito il corpus rituale ha necessitato di tutte<br />
le qualità partecipative del corpo, a scapito di ogni riflessione egoica e di ogni atto intenzionale,<br />
perché ogni parte è impegnata a rispondere alle forze che premono sulla sua pelle. La coscienza<br />
individuale è stata sospesa per mantenere la riflessione nei limiti imposti dalla presenza<br />
partecipativa al rito. Ora che questa costruzione sta prendendo vita, il suo intero svolgimento<br />
prosegue secondo un crescendo di tensioni, un’accelerazione dei ritmi, un’amplificazione dei<br />
canti che arrivano a essere urlati 229 . L’intera costruzione oscilla oltre le sue possibilità strutturali,<br />
aprendosi a un’ampiezza pericolosa, che la potrebbe anche far crollare; ora i corpi non<br />
contengono più le loro forze, immensamente amplificate. L’intensità ha privato anche i danzatori<br />
esperti di ogni residuo di intenzionalità, di controllo consapevole dei loro movimenti. Se ci fosse<br />
ancora qualcosa da sottrarre, i corpi potrebbero privarsene pur di mantenere la simbiosi in questo<br />
stato di accelerazione. Ma questi ora sono come le cellule di un organismo risonante, la cui pelle<br />
si è tesa ai limiti della sua elasticità per via del calore che esso stesso diffonde. Ognuno sente il<br />
peso drammatico di questo sforzo sovrumano, concentrato nel centro danzante, in un corpo solo,<br />
sottoposto alla fatica di sostenere da solo tutte le forze del rito. Sotto queste pressioni il corpo del<br />
ballerino è trasfigurato, scosso, invaso in tutta la sua arealità. La sua presenza si diffonde in tutto<br />
il corpus, che grida e danza e batte le mani, incitandolo, facendo eco alla sua disperazione.<br />
Preannunciando la sua caduta 230 . Ecco allora che la totalità delle parti si incarna nelle spaziature<br />
229<br />
Come ogni atto impressionante, il grido svolge un ruolo importante in molti riti di possessione. A tale proposito<br />
cfr. Rouget G., op. cit., pp. 153-154.<br />
230<br />
Si tenga presente ancora che questa è una descrizione sottratta, concentrata sul solo ambito aperto dalle forze del<br />
rito. Se poi ricollochiamo il fenomeno nel suo involucro culturale, possiamo notare che lo stesso rito è cominciato<br />
con delle preghiere, con i canti rivolti ai santi, con i ritmi dell’oricha. Allora il rito riacquista un suo volere, dove<br />
l’insofferenza delle pressioni viene oggettivata dall’oricha, la cui focalizzazione traccia una direzione, un cammino<br />
la cui prossimità al santo rende ancora più intensa l’insofferenza del momento. I fedeli sanno di percorrere il<br />
<strong>IL</strong> <strong>RITO</strong> <strong>SOTTRATTO</strong> 137