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IL RITO SOTTRATTO - DSpace@Unipr

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che il rito sottratto non individua con un termine mancante ma solo come una tendenza della<br />

motilità. Tale mancanza non trova facilmente il suo compimento e perciò si tinge di toni sempre<br />

più drammatici 227 . Ma la mancanza qui non deve essere intesa come mancanza di qualcosa: nel<br />

rito sottratto non vi è lo spazio per nessuna ipostasi ideale che salvi il corpus dalla sua<br />

incandescenza. Per «mancanza» qui si intende una motilità tendenziale, uno stile corporeo che<br />

ruota attorno al perno della vacuità. Così un “senso” di incompiutezza si diffonde tra i<br />

partecipanti, che si informano tra loro con clamore, quasi fossero uno stormo di passeri in<br />

allarme. Ciò che manca non è una cosa, né un’idea, né un senso. É uno spazio a mancare. O<br />

meglio, lo spazio è stato dispiegato dalle connessioni rituali ma la vacuità del corpo centrale<br />

mostra che vi è un luogo che non è stato ancora abitato, che ancora non è stato percorso dalle<br />

vibrazioni fatte pelle, incarnate. Perveniamo così al movimento come al cammino verso una<br />

pienezza, una totalità che andrà incorporata. Inoltre l’incandescenza rituale stanca i corpi, li pone<br />

in forme estenuanti al punto essi stessi reclamano la stabilità e il riposo come il compimento del<br />

rito. L’esperienza rituale incappa in uno svolgimento che non ammette alcuna marcia indietro. Il<br />

rito sta facendo vibrare i suoi corpi, la cui insoddisfazione dinamica li fa addentrare in un<br />

cammino necessario a toccare un livello più profondo di soddisfazione collettiva.<br />

La diffusione delle vibrazioni nei corpi li ha scossi a liberare forme<br />

di danza, di canto e di ritmo in un circolo partecipativo. Così il rito ha generato la sua struttura<br />

rigenerante, sempre sincronica pur nella sua andatura tradizionale, che condurrà i suoi corpi ad<br />

assumere quelle linee di tendenza e quegli sviluppi finalistici che esso ha già avuto in passato 228 .<br />

Il rito è tradizionale così come lo è un gesto acquisito: pur sottraendone le entificazioni, ovvero<br />

gli orichas, la sua corporeità basta a esporre il suo sapere, derivato dalla reiterata unione di<br />

partecipanti in un corpo comune. Questo istituisce il santo come il termine estremo – esterno al<br />

rito sottratto – con cui completare la sua costruzione. Ma la riflessione che ha portato questo<br />

lavoro alla sottrazione di ogni oggetto formato non può riferirsi agli orichas: tuttavia essa può<br />

fornire una corporeità fertile per la loro emersione, una motilità descrivibile attraverso il<br />

cammino del corpus nello svolgersi del rito tradizionale. L’oricha diviene il riferimento religioso<br />

e il termine linguistico che la comunità usa per indicare il superamento e il completamento della<br />

sua vacuità corporea. Ma il rito sottratto non ha alcuna fretta di oggettivare, anche perché sa<br />

denudare la sua attesa di ogni velo ostensivo: non è attesa di qualcosa, ma è il senso che emerge<br />

227<br />

La trance, ci dice Rouget, «è sempre una crisi», specie nel momento in cui ci si addentra in essa. [Cfr. Rouget G.,<br />

op. cit., p. 60].<br />

228<br />

Ciò non rientra solo nel rito, ma è il tratto comune di ogni nuova conoscenza che all’inizio, per formare un nuovo<br />

concetto, usa vecchie funzioni secondo nuovi usi: «la nuova intenzione significante conosce se stessa solo ricoprendosi<br />

di significati già disponibili, risultato di precedenti atti d’espressione. I significati disponibili si intrecciano subito […] e<br />

[…] un nuovo essere culturale ha cominciato a esistere» [Merleau-Ponty M., op. cit., p. 254].<br />

<strong>IL</strong> <strong>RITO</strong> <strong>SOTTRATTO</strong> 136

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