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11.06.2013 Views

terza parte Il cammino dei santi Il cammino è una strada, un solco in un territorio. Il territorio di cui ci stiamo occupando è lo spazio istituito dalle forze del rito. In questo spazio scolpito da vibrazioni e movimenti il rito sviluppa un suo cammino. Nuovi paesaggi si aprono al viandante nel corso delle sue trasformazioni, nel tracciato della santería, letteralmente via dei santi. Il rito percorre un solco che le sue forze ogni volta scavano a disegnare la via per raggiungere i santi, per incarnarli. In questo cammino i partecipanti tutti, fedeli o meno, viaggiano gli uni accanto agli altri, poiché tutti sono presi dalle forze del rito. È il corpus simbiotico che traccia uno svolgimento, muovendosi con la forza delle vibrazioni e delle oscillazioni. Le connessioni, i movimenti e le improvvisazioni risentono sempre del potere delle forze, in ogni momento del suo svolgimento. Anche nella fase dell’incandescenza rituale (wemilere) le attenzioni di questo lavoro rimarranno concentrate sulle dinamiche partecipative e sul corpus, perché questi hanno svelato un’esperienza vissuta sulla sola base della diffusione e della trasformazione del riverbero musicale in oscillazioni e danze. Questa riflessione proseguirà nel solo ambito delle azioni partecipative. Qui non è rilevante stabilire se sia il santo a calarsi nella testa del ballerino 223 o se il ballerino si suggestioni a tal punto da trasformarsi in un’alterità religiosa 224 . In questo lavoro tali interpretazioni sono fuori luogo, perché esso si concentra su una nuda arena di scambi. La soggettività stessa è stata messa in sospensione dall’agire: seguendo l’andamento delle forze rituali, sarà semplicemente la traccia percorsa a disegnare la diffusione del riverbero verso nuove corporeità, che la grammatica locale potrebbe qualificare come altre realizzazioni identitarie. Il rito a questo punto è incandescente. La descrizione delle forze connettive si è interrotta nel momento cruciale della festa, dove la sincronizzazione ha portato uno sviluppo tale da aprire la possibilità di una trasformazione radicale, un’evoluzione che ha finito per colorare l’intero rito di toni drammatici. Le forze non hanno generato solo un’affascinante connessione ma hanno proiettato attorno ai corpi uno spazio aperto e fertile di sensi, proprio perché ogni agire ha sciolto il suo ancoraggio con gli sfondi quotidiani. L’inerenza si è fatta mobile, ambigua, multivoca; si è diffusa, trasformata, ha compiuto dei salti di territorio, ridisegnando i connotati del suo stesso spazio. La superficie del rito ora si presenta ancora più 223 Questa è un’interpretazione diffusa in quasi tutte le società africane – o nate dal contatto con popoli africani – per descrivere la presenza della divinità incarnata nel rito di possessione. 224 Questa è invece una descrizione che rivela un diverso ordine di idee ed è adottata più spesso da osservatori occidentali o estranei a queste pratiche rituali. IL RITO SOTTRATTO 134

plastica, ondeggiante, capace di mortificare ogni tentativo di stabilire fermamente un contatto. L’inerenza non si può più paragonare a quella che lega le radici alla terra, bensì al contatto che fa scorrere i pattini su una superficie di ghiaccio. In questo modo i corpi rituali possono mettere in vibrazione anche la tensione che scaturisce dalla fugacità delle interazioni, in quanto essi non possono più poggiarsi su qualcosa di solido e compiuto, come una soggettività, una volontà, o almeno una forma del corpo che si conservi stabile, identica a sé stessa. Il terreno è mobile di musiche e di movimenti dalle forme in-formazione che, vibrando in ogni corpo – ma in forme più evidenti in quello del ballerino centrale –, ribadiscono il carattere fugace e oscillatorio del contatto. Del resto non potrebbe essere altrimenti, visto che i corpi mantengono il loro contatto tramite una vibrazione dinamica e cangiante, che li porta a condividere le stesse dinamiche nel processo della loro incorporazione. Una forma compiuta, un’inerenza solida, sembrano porsi più in là, lontane come un faro per i naviganti, la cui intermittenza li informa che il contatto fermo, che porterà il viaggio al suo compimento, non si trova nel mare delle onde sonore ma oltre, su un'isola di terra ferma, su un corpo che vibra da solo nel silenzio del corpus, quasi fosse un suo volere. Come se apparisse di nuovo un soggetto, individuabile dentro i confini di un’etnia e di una grammatica. Il rito, col suo crescendo e accelerando, mostra che la simbiosi tra ritmi, danze e canti si è instaurata, ma questa è ancora lontana dall’essere espressa in forma piena, dal toccare in profondità i corpi. Quell’amalgama di forze che sembrava equilibrarsi da sé nella descrizione del corpus rituale ora si tende di una tensione che lo muove, che segna un cammino, seguendo un’accelerazione che, destabilizzandolo ancora di più, mostra la possibilità di un nuovo equilibrio. Il corpus così costituito non mostra un’apertura ma la reclama, come se questa non fosse una semplice possibilità di compimento tra le tante, ma come se fossero proprio queste accelerazioni a dover colmare al più presto una mancanza, dolorosa come una ferita 225 , come una parte essenziale al senso di tutta questa unione collettiva 226 . L’intensificarsi delle forze avviene naturalmente: non appena il corpus si dinamizza, mostrando la sua unione di corpi, questo cresce a dismisura di intensità, mostrando non un volere soggettivo quanto un movimento insito in una corporeità collettiva. I corpi si giovano della loro unione evolvendola dinamicamente. I repentini cambi, le tante trasformazioni in uno spazio che non è mai pienamente soddisfatto, fanno emergere la corporeità esperenziale del colmare una mancanza, 225 Il dolore non colma la mancanza; la espone, gli dà voce e corpo, perchè «siamo organizzati per il senso, e la sua perdita ci incide, ci ferisce. Il dolore […] ne è soltanto la lama, la bruciatura, la pena» [Nancy J. – L., Corpus, p. 68]. 226 É questo il senso della possessione costruito sulla base di una logica sacrificale: «le cavalcature di queste divinità non sono degli esseri sacri in permanenza, che incarnerebbero un principio divino fissato nel loro corpo, quanto piuttosto degli esseri sacrificali ripetutamente, periodicamente messi a morte dal loro invisibile sposo» [Beneduce R., op.cit., p. 127]. IL RITO SOTTRATTO 135

plastica, ondeggiante, capace di mortificare ogni tentativo di stabilire fermamente un contatto.<br />

L’inerenza non si può più paragonare a quella che lega le radici alla terra, bensì al contatto che fa<br />

scorrere i pattini su una superficie di ghiaccio. In questo modo i corpi rituali possono mettere in<br />

vibrazione anche la tensione che scaturisce dalla fugacità delle interazioni, in quanto essi non<br />

possono più poggiarsi su qualcosa di solido e compiuto, come una soggettività, una volontà, o<br />

almeno una forma del corpo che si conservi stabile, identica a sé stessa. Il terreno è mobile di<br />

musiche e di movimenti dalle forme in-formazione che, vibrando in ogni corpo – ma in forme<br />

più evidenti in quello del ballerino centrale –, ribadiscono il carattere fugace e oscillatorio del<br />

contatto. Del resto non potrebbe essere altrimenti, visto che i corpi mantengono il loro contatto<br />

tramite una vibrazione dinamica e cangiante, che li porta a condividere le stesse dinamiche nel<br />

processo della loro incorporazione. Una forma compiuta, un’inerenza solida, sembrano porsi più<br />

in là, lontane come un faro per i naviganti, la cui intermittenza li informa che il contatto fermo,<br />

che porterà il viaggio al suo compimento, non si trova nel mare delle onde sonore ma oltre, su<br />

un'isola di terra ferma, su un corpo che vibra da solo nel silenzio del corpus, quasi fosse un suo<br />

volere. Come se apparisse di nuovo un soggetto, individuabile dentro i confini di un’etnia e di<br />

una grammatica.<br />

Il rito, col suo crescendo e accelerando, mostra che la simbiosi tra<br />

ritmi, danze e canti si è instaurata, ma questa è ancora lontana dall’essere espressa in forma<br />

piena, dal toccare in profondità i corpi. Quell’amalgama di forze che sembrava equilibrarsi da sé<br />

nella descrizione del corpus rituale ora si tende di una tensione che lo muove, che segna un<br />

cammino, seguendo un’accelerazione che, destabilizzandolo ancora di più, mostra la possibilità<br />

di un nuovo equilibrio. Il corpus così costituito non mostra un’apertura ma la reclama, come se<br />

questa non fosse una semplice possibilità di compimento tra le tante, ma come se fossero proprio<br />

queste accelerazioni a dover colmare al più presto una mancanza, dolorosa come una ferita 225 ,<br />

come una parte essenziale al senso di tutta questa unione collettiva 226 . L’intensificarsi delle forze<br />

avviene naturalmente: non appena il corpus si dinamizza, mostrando la sua unione di corpi,<br />

questo cresce a dismisura di intensità, mostrando non un volere soggettivo quanto un movimento<br />

insito in una corporeità collettiva. I corpi si giovano della loro unione evolvendola<br />

dinamicamente. I repentini cambi, le tante trasformazioni in uno spazio che non è mai<br />

pienamente soddisfatto, fanno emergere la corporeità esperenziale del colmare una mancanza,<br />

225 Il dolore non colma la mancanza; la espone, gli dà voce e corpo, perchè «siamo organizzati per il senso, e la sua<br />

perdita ci incide, ci ferisce. Il dolore […] ne è soltanto la lama, la bruciatura, la pena» [Nancy J. – L., Corpus, p. 68].<br />

226 É questo il senso della possessione costruito sulla base di una logica sacrificale: «le cavalcature di queste<br />

divinità non sono degli esseri sacri in permanenza, che incarnerebbero un principio divino fissato nel loro corpo,<br />

quanto piuttosto degli esseri sacrificali ripetutamente, periodicamente messi a morte dal loro invisibile sposo»<br />

[Beneduce R., op.cit., p. 127].<br />

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