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IL RITO SOTTRATTO - DSpace@Unipr

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degli omaggi verbali agli orichas è un silenzio acustico, non è un vuoto di vibrazioni. Il<br />

sacerdote amplifica questo silenzio con la sua voce, che dà forma alle invocazioni, alle preghiere,<br />

agli omaggi ciclici. La sua voce si direziona sull’altare in quanto centro delle attenzioni<br />

collettive; egli usa la forma verbale dell’invocazione, letteralmente del chiamare-dentro lo<br />

spazio cerimoniale, con tutta la sua prassi di senso verbale. Così il corpus tutto è immerso nella<br />

“forma del dialogo” con l’altare, dove l’atto del chiamare è un uso linguistico che<br />

quotidianamente è rivolto a un essere vivo. “Chiamare” è toccare un corpo che si apre a<br />

rispondere; “chiamare l’altare” trasforma un uso linguistico da quotidiano a extra-quotidiano,<br />

rivolge il toccare nei confronti di un oggetto inanimato 177 , che per rispondere dovrà “farsi vivo”,<br />

assumere un corpo vocale e parlare. Così il rito muove le sue parti: corpi che risuonano suoni,<br />

danze, gesti, corporeità pragmatiche sottratte dal loro contesto quotidiano ma nondimeno forti<br />

della loro espressione collettiva. Quando i movimenti del corpus mantengono lo stesso tono dei<br />

ritmi e delle danze, diviene più facile comprendere la forza del canto nell’incrementare le<br />

tensioni, che possono arrivare a sincronizzare la collettività secondo una risonanza più intensa.<br />

Pur lasciando inalterata la struttura melodica di riferimento, il contenuto dei canti può avviare<br />

uno svolgimento interno a questa fase musicalmente stabile, allo scopo di accrescerne<br />

gradualmente la tensione, fino a reclamare la necessità di un ritmo differente e di un tempo più<br />

veloce. Sottraendo il peso dei contenuti, la forma dell’invocare svela i suoi tratti: la sua<br />

pragmatica è scarna del timore reverenziale che un occidentale si aspetterebbe, conformato<br />

com’è a una forma invocativa ben differente. La forma del dialogo diretto e confidenziale, già<br />

attuata da ogni fedele con l’altare, viene esasperata dalle tensioni rituali, quando per esempio la<br />

trance tarda a manifestarsi: in questi casi può accadere che vengano intonati con rabbia dei canti<br />

offensivi nei confronti degli orichas, allo scopo di provocarli pur di farli manifestare. Ortiz<br />

riporta alcuni canti del genere:<br />

«Eru, Oggodo, kpa mi» (schiavo!, Changò, uccidimi)<br />

«Amalà kpata, ki idya, arò» 178 (‘donna da cucina’, non lottare, medita)<br />

Tali canti non sono eccezioni sporadiche ma rientrano nel<br />

repertorio tradizionale; addirittura alcuni di questi canti vengono tradotti ritmicamente dai<br />

177<br />

In questo modo, il corpo assume la veste simbolica di «luogo materiale […] di comunicazione con le potenze<br />

religiose. Tabernacolo, «altare vivente» o ancora: corpo animalizzato, ciò che introduce nella possessione i<br />

paradossi propri alla logica sacrificale» [Beneduce R., op. cit., p. 124].<br />

178<br />

Ortiz F., La Africanìa de la mùsica folklòrica de Cuba, p. 211 (trad. mia). Il canto è rivolto a Changò, oricha<br />

della forza e della virilità.<br />

<strong>IL</strong> <strong>RITO</strong> <strong>SOTTRATTO</strong> 106

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