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Introduzione

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Premesse generali<br />

<strong>Introduzione</strong><br />

Delineare una tipologia della donna nel Decameron significa necessariamente<br />

analizzare l’intera silloge: la presenza femminile è, infatti, un elemento talmente<br />

importante nella narrazione boccacciana, da assumere, già ad una prima lettura del<br />

Proemio, il significato di vera e propria base tematica dell’opera. Dal punto di vista<br />

statistico, inoltre, pur escludendo le figure femminili che, in quanto parte della<br />

brigata, sono coinvolte attivamente nel raccontare, e che rappresentano una<br />

maggioranza schiacciante rispetto ai narratori (sette a tre), rileviamo che delle 101<br />

novelle (prendendo in considerazione anche quella „fuori serie” che introduce la<br />

quarta giornata) ben poche mancano dell’apporto di almeno un personaggio<br />

femminile: solo diciassette novelle, infatti, sono prive di questo fondamentale<br />

“fattore” (I, 1, 2, 3, 6, 7, 8; II, 1; VI, 2, 5, 6, 9; VIII, 5, 6; IX, 4, 8; X, 1, 2). Questo<br />

elementare calcolo statistico si riveste di un significato ancora più pregnante se ci<br />

rifacciamo, appunto, alle parole del Proemio, con le quali Boccaccio dichiara<br />

apertamente che le novelle sono state scritte per un pubblico di donne 1 : il<br />

1 A proposito della riflessione che Boccaccio utilizza per dare inizio al suo Proemio, da<br />

Branca messa in parallelo con Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono... per introdurre uno<br />

studio su Implicazioni espressive, temi e stilemi fra Petrarca e Boccaccio (in Branca<br />

1996:300-303), non possiamo dimenticare le critiche rivolte da Russo al tono pesante ed<br />

involuto, che pure vengono attenuate dalla intenzione di ravvisare nella prima pagina un<br />

mezzo sorriso pieno di sottintesi (Russo 1977:9-10). Il critico siciliano ricorda poi come la<br />

dichiarazione boccacciana (E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle<br />

vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? (Pr., 9)) e quanto segue si colleghino al<br />

fatto che la scrittura in volgare del Medioevo era anche praticamente sentita come rivolta alle<br />

donne, in quanto esse non conoscevano il latino, anche se siamo in realtà in presenza di una<br />

diversa concezione della letteratura: le donne sono soltanto il simbolo del mondanizzarsi<br />

della poesia: si abbandona il concetto meramente teologico e dotto della poesia, e si accede<br />

a un concetto più terrestre. Le donne sono precisamente una metonimia per indicare le Muse<br />

stesse, che evadono dal sopramondo della teologia e della filosofia e si fanno più concrete,<br />

muse di questo mondo, esperte e de li vizi umani e del valore. (ivi:11) L’analisi portata avanti<br />

dal Getto a proposito delle pagine proemiali tende piuttosto a legare tutto il tono di esse ad<br />

una linea stilnovistica, al significato mondano dell’esperienza letteraria, alla comunicazione<br />

di un significato riassuntivo di nobile sentire e di vistuoso operare, di colto costume e<br />

1


sostentamento, il conforto che il poeta deve necessariamente donare a chi soffre le<br />

afflizioni d’amore, è dovuto più alle vaghe donne che agli uomini (Pr., 9), e proprio<br />

per la capacità – che esse dimostrano – di sopportare le innumerevoli pressioni cui<br />

sono sottoposte, giorno per giorno, dall’ambiente esterno. Queste pressioni, opposte<br />

alle amorose fiamme che le donne tengono nascoste nei dilicati petti, si<br />

distribuiscono secondo una triplice scala di intensità (voleri, piaceri, comandamenti)<br />

in cui Boccaccio condensa espressivamente tre atteggiamenti della comunità civile<br />

verso le donne, comunità costituita dalle diverse autorità (padri, madri, fratelli,<br />

mariti) che esercitano il loro potere sulle donne, secondo appunto i tre momenti del<br />

volere, del piacere, del comandare. A questi tre atteggiamenti è legata la materia<br />

narrativa di gran parte delle novelle del Decameron: il “conflitto” alla base della<br />

narrazione trova origine appunto nel momento in cui la protagonista si confronta con<br />

una imposizione – esplicita o meno – proveniente da una di queste autorità, e<br />

partendo da questo confronto l’autore ci manifesta non soltanto il dissidio interno<br />

della protagonista, ma le differenti modalità di reazione che di volta in volta si<br />

verificano. Trattandosi dunque di un libro che parla di donne, e che viene inviato ad<br />

un pubblico di lettrici, dobbiamo puntualizzare che le destinatarie dell’opera del<br />

Boccaccio non sono tutte le donne in senso assolutamente lato e, diremmo,<br />

anagrafico, ma quelle possibili lettrici o ascoltatrici che condividono, in qualche<br />

maniera, caratteristiche di gentilezza, bellezza, sensibilità d’animo e di costumi, che<br />

in tal modo divengono chiavi di lettura per molti dei personaggi femminili dell’opera<br />

stessa. Non è un caso che, escluse le figure femminili non meglio tratteggiate (aventi<br />

ruoli secondari o terziarii, oppure chiuse nell’immagine di una folla, di una comunità,<br />

del vicinato, del contado, etc.), solo due donne vengono munite dal Boccaccio di una<br />

„bruttezza” esemplare, che rispecchia nello stesso tempo la loro infima condizione<br />

spirituale, più che semplicemente sociale: sono esse la Nuta (VI, 10), corteggiata da<br />

civilissima esistenza (Getto 1958:5). L’attenzione della critica al Proemio si è comunque<br />

concentrata soprattutto sulle suggestioni letterarie e metaletterarie di esso: sull’immagine<br />

ovidiana delle donne fantasticanti dell’ozio, per esempio, come sulla descrizione del genere<br />

(o piuttosto dei generi) di racconti che comporranno la silloge (v. Muscetta 1972:158, Bruni<br />

1990:39-40; 235).<br />

2


un par suo, il pittoresco Guccio Imbratta servitore di Frate Cipolla, e la Ciutazza<br />

(VIII, 4), utilizzata per denigrare un componente del clero animato da troppo focosi<br />

spiriti nei confronti di una gentildonna 2 . Altre fantesche, quelle che affollano almeno<br />

la metà delle novelle del Decameron (e non si può negare a questa componente del<br />

„quarto stato domestico” una funzione di primaria importanza proprio nello<br />

svolgimento dei meccanismi preposti alle unità narrative), sono talvolta descritte con<br />

benigna approvazione, ma comunque senza indicazioni apertamente negative<br />

riguardo al loro aspetto, che in qualche modo ha il dovere di uniformarsi a quello<br />

delle “signore”.<br />

Il motivo dell’imposizione di voleri, piaceri e comandamenti, origina dunque nel<br />

Decameron la contrapposizione di una schiera di belle e gentili donne, ad un insieme<br />

di uomini – e talvolta di donne – che alle prime sono legati (o si legano) dai legami<br />

più diversi e che, essenzialmente, per quanto ci vengano presentati sotto una luce<br />

positiva o negativa, tentano tutti di imporre la loro supremazia sull’elemento<br />

femminile che, a sua volta, cerca di „emanciparsi” per forza di atti e parole,<br />

riuscendo non poche volte a uscire vincitore da questo confronto. Proprio per questo<br />

motivo ci sembra che la presenza della donna nel Decameron, a differenza di quello<br />

che era avvenuto precedentemente nell’esperienza letteraria e di quanto accadrà<br />

sovente nella letteratura posteriore, significhi una vera svolta non soltanto per un<br />

atteggiamento generalmente positivo che l’autore manifesta, ma soprattutto per la<br />

funzione di nuovo spessore che i personaggi femminili assumono.<br />

Prima di accingerci ad analizzare più da vicino le tipologie dei personaggi femminili<br />

del Decameron, dobbiamo interrogarci su come affrontare generalmente e<br />

praticamente la questione. Nel suo saggio sulla donna nella letteratura italiana,<br />

2 Monna Beritola Caracciolo, protagonista della II, 6, rappresenta un caso particolare, in<br />

quanto la sua metamorfosi, che la assomiglia ad una capra e ce la descrive davvero salvatica<br />

e irta di ben poco femminino pelame, si configura come necessaria conseguenza della perdita<br />

dell’iniziale stato sociale, dei figlioli soprattutto, e dunque di quel romitaggio che costituisce<br />

un momento essenziale per lo sviluppo della novella nel suo meccanismo delle agnizioni<br />

ripetute ed incrociate.<br />

3


Marina Zancan si chiede se si debba occuparsi della donna come soggetto ovvero<br />

come oggetto della letteratura, lamentando la scarsa disponibilità di studi, più<br />

sull’argomento della donna-soggetto che su quello della donna come oggetto della<br />

rappresentazione letteraria (Zancan 1986:765): dopo la descrizione della<br />

problematica alle origini della nostra letteratura, che naturalmente ripercorre proprio<br />

il periodo che più di ogni altro si è occupato della donna come “argomento”,<br />

addirittura parlando di letteratura che parla attraverso figure femminili (ivi:768), un<br />

excursus a parte è dedicato a Boccaccio, dapprima quale autore della Elegia di<br />

madonna Fiammetta, in cui Fiammetta, in prima persona, narra una passione<br />

amorosa, poi come “organizzatore” della nuova funzione letteraria della figura<br />

femminile :<br />

Quando poi Boccaccio, con il Decameron, dopo un lungo periodo di<br />

esercizio letterario, sceglie di raccontar novelle con l’ambizione e la<br />

persuasione di muoversi ai livelli alti della nuova tradizione letteraria, la<br />

figura femminile, oltre ad essere figura d’amore, avrà la funzione<br />

poetica e ideologica di elaborare la piena trasformazione del concetto<br />

d’amore e di motivare e di legittimare, attraverso questo, l’adozione del<br />

nuovo genere come scrittura letteraria. (ivi:773)<br />

Ritorna dunque il riferimento alla funzione stessa della donna – delle donne –, di<br />

pubblico cui l’opera si rivolge, pubblico chiaramente esplicitato nella dedicatio ben<br />

espressa, ma anche e soprattutto nel fatto che la brigata sia composta soprattutto da<br />

donne: continuando dunque ad attribuire alla donna la funzione del narrare,<br />

Boccaccio riesce ad offrire una esperienza di lettura ben diversamente guidata nella<br />

stessa introspezione psicologica, che indaga nelle pieghe riposte dell’animo delle<br />

narratrici. Un’altra convenzione, rilevata da Vittore Branca nelle prime note della sua<br />

edizione del Decameron, è quella di incorniciare ogni riferimento al pubblico<br />

facendo riferimento alle graziosissime donne, dunque – per convenzione – ignorando<br />

gli uomini. Tale convenzione, se da un lato sembra soddisfare la velocità dell’inserto,<br />

4


dall’altro non sembra giustificata da altro, se non dal fatto di sottolineare chiaramente<br />

quale sia il pubblico al quale il narratore di turno si rivolge. Del resto, il Decameron<br />

ci presenta, nel suo esordio e nella sua iterata dedica, la commistione di due topoi: da<br />

una parte il tipo di esordio da Curtius definito con l’espressione «chi possiede la<br />

sapienza ha il dovere di comunicarla agli altri» (1993:102), già sperimentato da<br />

Orazio e Seneca, e poi utilizzato anche da numerosi autori romanzi (Chrétien e<br />

Dante, per esempio), ora diretto ad una “categoria” particolare; accanto al quale<br />

Boccaccio perfeziona quella invocatio che, partendo dal riferimento classico alla<br />

Musa, si era poi diversificato nelle letterature romanze, arrivando proprio con gli<br />

stilnovisti e con Dante ad una codificazione (si vedano i numerosi componimenti di<br />

Guinizzelli che cominciano con i vocativi Madonna, Donna, Gentil donzella,<br />

Madonna mia; di Cavalcanti (O tu, O donna mia) o di Lapo Gianni (Gentil donna,<br />

Angelica figura, Donna, Angioletta); fino alle più prossime espressioni di Cino<br />

(Come non è con voi a questa festa, donne gentili..., Or dov’è donne, quella...) e<br />

Dante (Donne ch’avete intelletto d’amore...)) che si pone alla base dell’uso<br />

decameroniano.<br />

Una volta considerato il riferimento alle donne come destinatarie dell’opera,<br />

bisognerà necessariamente domandarsi se esiste la possibilità di delineare tipologie<br />

precise, rispondenti ad una schematizzazione dei personaggi in rapporto alle “griglie”<br />

narrative del Decameron.<br />

Una rigida divisione tematica e tipologica delle novelle, che ci permetta di isolare<br />

tipologie coerenti dei personaggi femminili, appare pressoché impossibile, in quanto<br />

più volte tipologie e motivi in contatto si incrociano 3 : d'altro canto, è necessario<br />

sottolineare che, come abbiamo già indicato, Boccaccio cade facilmente vittima di un<br />

3 Vogliamo inoltre credere che, nonostante i numerosissimi tentativi di ingabbiare l’opera di<br />

Boccaccio in una serie di possibili schemi perfetti, l’opera letteraria, come ricordava<br />

provocatoriamente Almansi in una sua riflessione intitolata La bassa voglia, tenti piuttosto di<br />

ricondurre l’ordine verso il caos, che il caos negli angusti limiti dell’ordine: prova ne siano i<br />

di volta in volta diversi atteggiamenti dell’autore nei confronti di situazioni simili ricorrenti<br />

in novelle differenti, nonché le rivoluzionarie prese di posizione cui si farà riferimento nel<br />

corso della nostra analisi.<br />

5


non sappiamo quanto inconscio, ma senza dubbio „naturale” condizionamento<br />

psicologico, che lo porta costantemente a gratificare di attributi positivi, o<br />

quantomeno non negativi, le figure femminili 4 , in questo modo escludendo una<br />

divisione netta tra personaggi di valenza opposta, che pure rappresenterebbe una<br />

prima importante categorizzazione. È per questi motivi che allo studio delle diverse<br />

tipologie procederemo, dopo una definizione della „tipologia fisiologica” femminile<br />

(ovvero della rappresentazione del corpo femminile nel Centonovelle), ad una<br />

suddivisione per tre campi tematici: comportamentale, sociale e retorico.<br />

Per tipologie comportamentali intendiamo gli atteggiamenti delle protagoniste<br />

femminili di fronte agli eventi, quali si presentano nei momenti cruciali della<br />

narrazione: individueremo così gli atteggiamenti 1) della resistenza “passiva”, 2)<br />

dello spirito di iniziativa e della reazione verbale, 3) del gesto esemplare.<br />

Delle tipologie sociali fanno parte le tipologie già in gran parte individuate dalla<br />

critica, soprattutto in virtù degli “elementi di novità” del Decameron; tali<br />

classificazioni sono, a nostro giudizio, accorpabili in 1) olimpo femminile:<br />

principesse, regine, marchese e badesse; 2) donne borghesi; 3) donne del popolo.<br />

Infine, le tipologie retoriche si riferiscono sia alla dimensione retorica interna alla<br />

narrazione stessa, che alla possibilità di individuare nell’opera di Boccaccio dei<br />

richiami a tradizioni e stereotipi particolarmente significativi per il valore epocale del<br />

Decameron. Parleremo dunque di 1) dimensione retorica del discorso femminile:<br />

la perorazione d’amore; 2) continuazione di un topos stilnovistico: le donne<br />

4 Si tratta, invero, di un condizionamento che nell’opera viene di volta in volta arricchito di<br />

argomentazioni, come ad esempio quelle contenute nell’introduzione alla quarta giornata, ed<br />

a cui Vittorio Russo ha dedicato una monografia. In fondo, possiamo affermare che<br />

nonostante esistano, nel Decameron, figure femminili sicuramente riprovevoli – e soprattutto<br />

dal punto di vista morale –, l’autore non abbia esitato ad usare un occhio di cortesia nei loro<br />

confronti, cosa che non è accaduta con molti personaggi maschili.<br />

6


angelicate; 3) pregiudizio e riabilitazione negli stereotipi dell’adultera e della<br />

vedova.<br />

Precedenti letterarii<br />

Non possiamo immaginare, però, che il Certaldese sia stato il primo ad aver diretto la<br />

scrittura verso una preponderanza di personaggi femminili. Dobbiamo partire dunque<br />

dai precedenti, e ve ne sono di numerosi e di illustri 5 : se davvero Boccaccio pensava<br />

di „rivoluzionare” l’ottica di considerazione della donna come vigeva ai suoi tempi,<br />

avrà dovuto “fare i conti” con almeno due diversi atteggiamenti, da un lato quello<br />

della letteratura di matrice misogina in senso lato, dall’altro quello della letteratura<br />

cortese e stilnovistica, senza però con questo escludere che esistano contatti tra le<br />

mentalità che soggiaciono alle concezioni del mondo rappresentate da queste diverse<br />

tendenze. Le due caratterizzazioni si arricchiscono poi di numerose sfumature, a<br />

causa della possibilità di „creare” personaggi femminili che proprio in virtù della<br />

loro descrizione psicologica assumono dei caratteri latamente e dettagliatamente<br />

paradigmatici. La ricognizione riguarda dunque le differenti tipologie femminili che<br />

si impongono alla nostra attenzione sia nella storia letteraria che in quella spirituale<br />

dell’Europa medievale: naturalmente, esistono fonti – letterarie, storiche,<br />

agiografiche – privilegiate in forza dell’importanza culturale che acquistano proprio<br />

in virtù di una maggiore diffusione presso i lettori del continente, né possiamo<br />

dimenticare che tale importanza facilita persino una diffusione orale, popolare,<br />

difficilmente controllabile.<br />

Le sante<br />

Se dovessimo giudicare quale sia, per la natura dell’opera boccacciana, la tipologia<br />

(apparentemente) più distante, non esiteremmo a reperirla nelle opere di agiografia<br />

che, nell’Europa mediterranea soprattutto, privilegiano lo studio della santità di<br />

5 Per quanto riguarda, più in generale, il discorso sulle fonti dell’opera, si veda lo studio del<br />

Bruni Sulla “traduzione degli autori e dei generi letterari nel sistema della novella, che<br />

individua una serie di “contatti” tra generi letterari (exemplum, fabliau, commedia elegiaca,<br />

lirica) e novelle (Bruni 1990:289-345).<br />

7


alcune donne. Non sono pochi gli studi sulla santità del Medioevo, secondo cui essa<br />

risulta avere caratteristiche ben differenti a seconda che ci muoviamo nell’Europa<br />

mediterranea, in quella dei regni centrorientali, ovvero nelle terre più “lontane”<br />

dell’ambito britannico o scandinavo (v. soprattutto Vauchez 1999:355-374): senza<br />

ora soffermarci sulle pur interessantissime considerazioni che emergono a proposito<br />

della composizione sociale di intere “schiere” di santi, rimarcheremo come la santità<br />

femminile del Medioevo si carichi anche di un significato di “compensazione”<br />

rispetto alla considerazione a priori negativa della donna proveniente dal pregiudizio<br />

biblico 6 . L’ambito stesso entro cui le sante si muovono è diviso tra il contatto con il<br />

6 L’analisi di questa problematica coinvolge tutto il pensiero “sulla donna”, quale si riflette<br />

negli scritti di natura più varia, e non solo durante il Medio Evo: punto di partenza<br />

fondamentale per la proliferazione di una lettura – più o meno spiccatamente – misogina<br />

della storia dell’uomo è sicuramente l’interpretazione dell’episodio della tentazione che<br />

provoca il peccato originale, accolto da diversi lettori e commentatori (San Girolamo,<br />

Gregorio Magno, Rabano Mauro, Ugo di San Vittore, etc.) come un momento in cui si<br />

evidenzia la dicotomia tra Eva come carne e Adamo come spirito (v. a questo proposito la<br />

sintesi di Duby 1999:35-55). La caduta in tentazione e, di conseguenza, nel peccato, viene<br />

chiaramente addebitata alla cupiditas femminile, che condiziona persino fisiologicamente le<br />

funzioni biologiche della donna: un esempio classico della valenza negativa della natura<br />

femminile risiede nell’inquietudine che l’uomo del Medio Evo sente di fronte al sangue<br />

mestruale, testimoniata dal vero e proprio “catalogo” di malefatte compiute da tale elemento,<br />

spesso associato al veleno (v. Thomasset in Duby-Perrot 1998:56-87); la donna mestruata –<br />

allo stesso modo della donna non più in grado di generare, dunque considerata nel periodo<br />

seguente la menopausa, quando non ci sono più le mestruazioni a consentirle di liberarsi<br />

delle “cose superflue” e, quindi nocive – ha uno sguardo che appanna gli specchi, dunque<br />

emana proprio da quell’organo che dalla poesia sarà deputato a “trasmettere<br />

l’innamoramento”, il flusso mefitico che proviene dalla sua intimità. Da qui a porre la donna<br />

in stretto rapporto con il mitridatismo, il passo è breve, con tutte le conseguenze – anche<br />

metaforiche – che ciò implica, come il bacio avvelenato, il coito utilizzato come arma fatale,<br />

e così via: non dimentichiamo che tali credenze si sono conservate nel profondo della cultura<br />

popolare europea, e che ancora a metà del ventesimo secolo vivevano “indisturbate” tanto da<br />

motivare l’interesse di un grande studioso come Ernesto de Martino (Sud e magia, apparso<br />

nel 1959, dedica numerosi capitoli alla dimensione magica della fisiologia femminile). La<br />

donna, dunque, porta dentro di sé una condanna biologica che viene talvolta vissuta in<br />

maniera problematica, specialmente nel momento in cui ci si accosta alla fede nella<br />

dimensione “privilegiata” dell’aspirazione alla santità: il discrimen temporale della fioritura<br />

della spiritualità mariana (dal XII secolo in poi) è un momento significativo per la<br />

rivalutazione del ruolo delle donne nella storia della salvezza (Vauchez 1999:356-358) e per<br />

lo sviluppo di forme nuove di vita religiosa adattate ai bisogni delle donne (le beghine,<br />

8


mondo e l’isolamento da esso: sostanzialmente, mentre è piuttosto l’uomo a poter<br />

decidere di interrompere i legami con la famiglia e l’autorità paterna, la donna è<br />

comunque soggetta, almeno in prima istanza, all’ottica del matrimonio imposto come<br />

“normale cornice” della vita 7 . Non sono rare infatti le donne che raggiungono la<br />

santitudine dopo il matrimonio, nella vecchiaia o in seguito alla vedovanza, e che nel<br />

ritiro in convento o nel farsi “murare” presso una chiesa ritrovano una dimensione<br />

intima favorevole ad una diversa impostazione della loro vita spirituale. Queste<br />

donne sante riescono ad avere una incredibile forza di suggestione sulle masse che le<br />

circondano, sia per l’esempio di ricongiungimento alla divinità che riescono a dare,<br />

sia per il loro porsi a giudici della comunità, che talvolta teme addirittura le critiche<br />

da esse mosse ai comportamenti generali ed individuali 8 .<br />

Quelle che con felice espressione sono state chiamate le poetesse di Dio, ovvero le<br />

mistiche che dall’XI secolo sono sempre più presenti nella vita spirituale europea,<br />

rappresentano per la nostra analisi un momento particolarmente importante di<br />

riflessione: si tratta infatti di donne coscienti del loro compito intellettuale, che con<br />

diverse testimonianze rappresentano un aspetto illuminante per comprendere una<br />

funzione “unica” della donna nella società medievale. Molte di esse fondano<br />

monasteri o divengono priore, badesse, ma non sono rari i casi di predicatrici, come<br />

oppure la possibilità di perseguire la santità senza entrare in convento, ma in domibus<br />

propriis), che spiegano la fioritura della santità femminile laica dal Duecento in poi.<br />

7 Non bisogna dimenticare che il matrimonio è stato istituito da Dio stesso in Paradiso: è<br />

dunque il più antico degli “ordini” (et erunt duo in carne una (Genesi, 2, 24)), ed insieme<br />

condizione a che si realizzino i due imperativi divini (crescite et multiplicamini (Genesi, 1,<br />

28)) su cui si basa la continuità della vita stessa sulla terra. Il matrimonio antico e medievale,<br />

inoltre, non era soltanto un “cambiamento di stato”, ma comprendeva un lungo processo di<br />

cerimonie, di rituali, di lenta realizzazione di interdipendenze sociali, grazie al quale già in<br />

epoca romana era evidente il rapporto tra legame matrimoniale e storia della repubblica,<br />

rapporto poi riesaminato e ritenuto ancora valido da Sant’Agostino, che vede in esso<br />

l’istituzione fondamentale per costruire la pace nella comunità politica (Owen Hugues in De<br />

Giorgio-Klapisch-Zuber 1996:5-13).<br />

8 Ciò vale sia per le fondatrici di monasteri e per le badesse, che per le “recluse”, che<br />

rappresentano un tramite tra la divinità e la vita spirituale della comunità di cui – pur essendo<br />

nominalmente da essa escluse – fanno parte: in generale, le forme di vita spirituale che<br />

necessitano della pratica della clausura, sembrano autorizzare le recluse ad un rapporto di<br />

superiorità nei confronti del “mondo”.<br />

9


quello della celebre Margherita Porete: sia nelle opere che esse ci hanno direttamente<br />

lasciato, che nelle biografie compilate dai promotori delle loro canonizzazioni,<br />

vediamo apparire forte la coscienza di quanto fosse importante – oltre l’esempio<br />

verbale – che la parola scritta si ponesse a custodia della memoria di alcuni percorsi<br />

di vita che nell’epoca di massima fioritura culturale ed economica dell’Europa<br />

medievale (XI-XIV secolo) si ponevano in stridente contrasto con quelli che oggi<br />

chiameremmo il progresso e la diffusione della società dei consumi.<br />

Molte di queste personalità, infatti, muovevano, come i loro omologhi maschili,<br />

aspre critiche ad una società in corso di stabilizzazione, che vedeva nell’accumulo<br />

delle ricchezze un mezzo privilegiato per assicurarsi una solidità che le cronache<br />

testimoniavano nuova, dopo secoli bui di incertezze e timori: l’atteggiamento della<br />

più importante monaca dell’XI secolo, Ildegarda di Bingen, può essere<br />

paradigmatico di questa facoltà di criticare i “nuovi costumi”, se è vero che anche<br />

nella fondazione e organizzazione dei monasteri riteneva fondamentale che si<br />

conservasse il privilegio nobiliare (Ennen 1991:163), ma poi non risparmiava critiche<br />

ai sacerdoti che con la loro vita sempre più mondana si allontanavano dal giusto<br />

modello comportamentale, prestando così il fianco agli attacchi mossi dai movimenti<br />

ereticali (ivi:164). Se le donne che accettano di servire Iddio nel chiuso del convento<br />

costruiscono implicitamente un mondo a loro misura, un mondo generalmente<br />

femminile (ma non sono pochi i casi di donne che governano un monastero<br />

maschile), quali sono le loro opinioni sulla donna in quanto tale, in quanto messa in<br />

rapporto con l’uomo? Nel brano in cui rievoca la prima coppia della Terra, Ildegarda<br />

ricorda che, mentre l’amore dell’uomo per l’amore della donna è ardente quanto il<br />

fuoco dei vulcani che difficilmente può spegnersi e diventa poi un fuoco di legna che<br />

si spegne facilmente, al contrario l’amore della donna per l’amore dell’uomo è come<br />

un dolce calore che viene dal sole e che porta frutti; si muta in fuoco di legna molto<br />

ardente ed è per questo che, nel bambino, porta un frutto di dolcezza (Poetesse<br />

1994:52). Nel prologo al suo Specchio delle anime semplici annientate, Margherita<br />

Porete parte, per spiegare le ragioni che hanno spinto l’Anima a scrivere il libro,<br />

dall’esempio della fanciulla innamorata del re Alessandro, la quale compone<br />

10


un’immagine dell’amato per poterlo vagheggiare, onde superare la distanza che da<br />

esso lo supera (ivi:154): nella descrizione di questo amore di lontano, che pure non<br />

deve aver fatto a meno di suggestioni culturali contemporanee, la figura della<br />

fanciulla è vista nel suo afflato più puro verso l’amore, nonostante questo le causi<br />

dolore e pena. Il culmine della scrittura mistica femminile può essere rappresentato, a<br />

nostro avviso, da Santa Caterina da Siena, che vive durante la seconda metà del<br />

Trecento e rappresenta la sintesi di tutto un movimento “italiano” in cui sono<br />

comprese Chiara d’Assisi (†1253), Margherita da Cortona (†1297), Angela da<br />

Foligno (†1309): dalla storia del proprio annientamento in Dio, che si realizza con le<br />

privazioni e le autoumiliazioni, possiamo avvicinarci ad un immaginario che anche<br />

per Caterina indica il tentativo di raggiungere l’unione mistica, il matrimonio<br />

perfetto con Cristo (Pagano 2002:104), senza necessariamente implicare la<br />

cancellazione della femminilità.<br />

Le figure delle sante medievali sono comprese da un sentimento di amore e di totale<br />

dedizione, che difficilmente si potrebbe allontanare da una esperienza totalizzante, in<br />

cui è proprio la sensibilità femminile ad essere chiamata in causa, come la più adatta<br />

a piegarsi al desiderio di asservimento esclusivo al Signore, ovvero perché la donna<br />

che sceglie la via della santità, rinuncia ad un altro genere di vita attiva, riscattato<br />

dall’esempio della Vergine.<br />

Non dobbiamo poi dimenticare che alcune figure di sante, come quella di Maria<br />

Egiziaca, rinunciano pubblicamente ad una vita traviata per seguire un percorso<br />

morale e spirituale (attraverso la cura disinteressata dei bisognosi, l’eremitaggio, etc.)<br />

che le pone al di sopra della comunità maschile predestinata a governarle: proprio<br />

uno dei più importanti repertori “esemplari” precedenti il Decameron, l’opera<br />

agiografica di Domenico Cavalca, dedica un’attenzione particolare alla santità<br />

femminile di questo genere, da un lato esaltando proprio la particolare storia di Santa<br />

Maria Egiziaca – letta attraverso la testimonianza di Zozima (Cavalca 1926:203-221)<br />

–, dall’altro inserendo, nel racconto agiografico di Malco monaco, il motivo del<br />

matrimonio come imposizione spiacevole, questa volta dal punto di vista maschile<br />

(Istoria d’un monaco di Siria, che fu preso e datogli moglie per forza, ma non però<br />

11


perdette la sua verginità.). Il tentativo di suicidio del monaco siriano fatto<br />

prigioniero e poi “ammogliato” suo malgrado, viene scongiurato dalle<br />

argomentazioni della donna, intenzionata a leggere gli eventi secondo una chiave di<br />

evangelico ottimismo: Perché dunque ti vuoi uccidere per non congiugnerti, poiché<br />

io vorrei innanzi morire che consentirti, eziandio se tu volessi? Tiemmi dunque per<br />

compagna di pudicizia, e più ama l’anima mia che lo corpo. Leggiermente faremo<br />

credere a’ nostri signori che tegnamo matrimonio se ci vedranno stare insieme e<br />

portarci amore; e nientedimeno Cristo ci vedrà stare insieme e portarci amore come<br />

sirocchia e fratello. (ivi:180-181). Come ha già notato Carlo Delcorno in un suo<br />

studio, la diffusione dell’opera di Cavalca deve essere all’origine dei numerosi<br />

riferimenti decameroniani all’eremitismo (che è la dimensione centrale delle Vitae<br />

cavalchiane) sia come citazioni dirette del fenomeno, sia come spunti per alcune<br />

“situazioni” che Boccaccio utilizza in vario modo, specialmente nella novella di<br />

Alibech ed in quella di madama Beritola (Delcorno 1989:354-363): aggiungeremo<br />

che la narrazione “soggettiva” delle vicende vissute da Alatiel (II, 7) ricalca non solo<br />

motivi arturiani (come sottolinea la Delcorno Branca, parlando di strategie allusive<br />

(1991:20-22)), ma in qualche modo si affida allo schema “avventuroso” delle<br />

narrazioni agiografiche del predicatore pisano, in cui i propositi onesti dei<br />

protagonisti vengono spesso contrastati da “elementi di disturbo” contraddistinti da<br />

un uso arbitrario della violenza.<br />

Le donne dei fabliaux<br />

Dovendo considerare i precedenti della letteratura profana, ci sembra necessario<br />

partire da un genere narrativo particolare, quello dei fabliaux, da cui spesso<br />

Boccaccio prese temi e svolgimenti delle sue novelle 9 , e che sicuramente<br />

9 Nella questione delle “fonti” un ruolo peculiare è rivestito dai fabliaux, sia per l’evidente<br />

parentela di alcuni di essi con diverse novelle boccacciane, sia per le novità dei<br />

rimaneggiamenti intrapresi dal Boccaccio: parlando di questi due generi letterari in contatto,<br />

Bruni affronta il parallelo tra il genere narrativo in versi ormai esaurito all’altezza<br />

cronologica del Decameron (1990:308) e le novelle del Certaldese, puntando sulle capacità<br />

boccacciane di fornire una diversa impronta ai meccanismi di base suggeritigli dagli<br />

12


costituivano, se non un modello universale, un riferimento costante per il racconto<br />

comico.<br />

Per quanto riguarda il fablel, sappiamo che la situazione comica da esso preferita è<br />

essenzialmente quella del triangolo amoroso (in cui il terzo è quasi sempre un<br />

chierico o uno studente, talvolta un cavaliere), e che il meccanismo del tradimento,<br />

dell’adulterio, la presenza addirittura di un patto tra la donna infedele al marito e<br />

l’amante, al fine di godere soprattutto della beffa ordita ai danni del marito, offrono<br />

una duplice possibilità di giudizio nei confronti dei personaggi: da una parte si<br />

stigmatizza la gelosia o la poca prestanza fisica del marito, dall’altra è la virtù della<br />

donna ad essere messa continuamente in discussione, tanto che si potrebbe dire che<br />

gli autori del genere portino avanti la convinzione essenziale che la donna, di<br />

qualunque classe sociale sia, porti in sé il germe della corruzione, nonostante ciò<br />

venga descritto con il sorriso “accomodante” di chi deve far divertire la propria<br />

platea. Lo studio per molti versi ancora attuale di Per Nykrog sui Fabliaux dedica<br />

un’ampia riflessione alla donna come appare in questo genere narrativo (Nykrog<br />

1957:193-207): lo studioso svedese si chiede se sia possibile immaginare contrasto<br />

più stridente di quello che esiste tra le donne di cui si legge nei fabliaux e quelle<br />

dipinteci da romanzi e novelle della letteratura cortese. Alle virtù fisiche e morali<br />

superlative di queste ultime si contrappongono quelle di una protagonista-tipo dei<br />

fabliaux, definita la figure la plus bassement terrestre: envieuse, gloutonne,<br />

mensongère, querelleuse, acariâtre, rusée, libidineuse (ivi:193). Questa spietata<br />

enumerazione è un riferimento all’opera di Andrea Cappellano, citazione di quel<br />

terzo libro del trattato sull’amore che, assai poco ovidianamente, è incaricato di<br />

offrire un remedium amoris fondato sull’atteggiamento radicalizzante di rifiutare<br />

qualsiasi legame amoroso, proprio in virtù delle qualità femminili. Il trattato del<br />

Cappellano, però, è evidentemente improntato al gioco con le istituzioni dell’amore<br />

cortese, di cui vengono narrate le aberrazioni che ne fanno, spesso, una passione<br />

antecedenti, in definitiva affermando la netta originalità del narrare decameroniano rispetto<br />

ad un genere in contatto, di cui smussa i tratti estremi (per violenza o volgarità) nella ricerca<br />

di quella medietas che, secondo Bruni, caratterizza la vera novità dell’opera boccacciana (per<br />

cui parla di invenzione della letteratura mezzana).<br />

13


ludica dal carattere crudele ed artificioso: i vizi che le donne dei fabliaux esprimono<br />

sono tutti contenuti in quelli che Andrea Cappellano attribuisce alle donne<br />

nell’ultima parte della sua opera, e la presenza di donne di raffinata cultura e di ancor<br />

più raffinati comportamenti, non esclude che esse possano rivelarsi diverse<br />

nell’intimo. Nel fabliaux è innanzitutto l’immagine esteriore ad essere invertita, per<br />

fornire con l’aiuto di un realismo truce, le immagini di donne irradianti una<br />

sensualità che non sarà raro trovare in molti personaggi femminili boccacciani:<br />

sostanzialmente, le caratteristiche di immoralità mostrate dalle donne nei fabliaux<br />

vengono „temperate” dal grado di maggiore negatività degli uomini che sono loro<br />

accanto 10 .<br />

Tra letteratura didattica ed exempla<br />

Tra i modelli che ispirano la vena “realistica” del Decameron possiamo, oltre a<br />

quello dei fabliaux, nei quali la misoginia è elemento costituente ma relativamente<br />

„edulcorato” dalla ragione stessa del narrare, annoverare quella letteratura didattica<br />

di ambiente settentrionale (i Proverbia quae dicuntur de natura foeminarum – in<br />

quanto più antico – è il più rappresentativo testo misogino in volgare italiano) e<br />

l’insieme degli exempla che genericamente tendono a “criminalizzare” la donna in<br />

virtù delle sue caratteristiche di fomentatrice del peccato 11 : l’atteggiamento misogino<br />

influisce secondo uno schema di patente conseguenzialità, secondo il quale 1) ogni<br />

donna è falsa, lussuriosa e avida, per cui 2) è impossibile instaurare con lei un<br />

rapporto basato sulla fiducia reciproca, inoltre 3) bisogna sempre diffidare di lei, in<br />

10 A questo proposito, si rimanda alla bella introduzione di Rosanna Brusegan che apre<br />

l’antologia di Fabliaux pubblicata da Einaudi (in bibliografia come Fabliaux 1980), per<br />

l’icasticità della presentazione critica dell’argomento. Particolarmente significative sono le<br />

considerazioni della studiosa sulla lettura dei fabliaux come una rivalutazione del negativo<br />

sotto l’apparente condanna della beffa, messa accanto all’iperbole, alla frenesia di<br />

movimento, alla creazione di frontiere che indicano un tentativo di sintetizzare uno spazio e<br />

un’esperienza disordinata... (ivi:XV)<br />

11 Tra gli storici che si sono interessati della fedeltà dell’exemplum alla rappresentazione di<br />

alcuni motivi attuali della vita e della situazione sociale, dobbiamo ricordare Jacques Le<br />

Goff, che in numerosi suoi scritti si occupa dell’analisi di tali fonti letterarie in generale ed in<br />

particolare (in 1998:57-74, 117-121; 1999:145-162).<br />

14


quanto possiede le armi capaci di portare l’uomo alla rovina, quindi 4) conviene<br />

approfittare di lei e ricavarne il massimo piacere possibile, riservandole semmai la<br />

giusta dote di disprezzo, giusta perché prima o poi, data la sua natura, ella sarà<br />

autrice di nuovi tradimenti. La tradizione del misoginismo, al di là delle<br />

considerazioni contingenti, rappresenta una legittima posizione argomentativa nella<br />

letteratura del Medioevo: l’immaginario dell’uomo medievale ritrova nell’odio<br />

nutrito nei confronti della donna come prima causa del peccato originale, un “alibi<br />

morale” valido per ogni manifestazione della vita. Alle caratteristiche negative della<br />

donna abbiamo già accennato a proposito del giudizio radicale espresso da Andrea<br />

Cappellano nel terzo libro del suo trattato; la letteratura misogina in volgare, unita<br />

alle immagini provenienti dagli exempla, costituisce sicuramente una possibilità di<br />

lettura degli atteggiamenti di alcuni dei personaggi maschili boccacciani. 12<br />

La letteratura cortese<br />

Se finora abbiamo considerato le linee portanti della descrizione dei personaggi<br />

femminili nella letteratura agiografica e nelle espressioni letterarie di forte influenza<br />

misogina, per riconoscere gli elementi caratterizzanti della tipologia femminile non<br />

possiamo ignorare le suggestioni della letteratura cortese e cavalleresca, sia per il<br />

discorso generale sulle fonti del Decameron, sia per il fatto che comunque la<br />

tipologia della donna in esso presente vuole rappresentare un nuovo percorso di<br />

considerazione della personalità femminile.<br />

12 La suggestione che la letteratura esemplare ha esercitato su Boccaccio si esprime, secondo<br />

Bruni (1990:302-308), soprattutto nella citazione di riti, superstizioni, incantesimi e così via:<br />

sulla scia delle ormai datate ma sempre valide argomentazioni di Arturo Graf (2002:305-<br />

321), siamo anche noi convinti della modernità dell’atteggiamento del Boccaccio nei<br />

confronti dei pregiudizi diffusi nella letteratura esemplare (v. la nostra trattazione delle<br />

differenze di giudizio sull’ebraismo tra Boccaccio e Sacchetti in Sciacovelli 2000a:69-75);<br />

più diffusamente, a tale proposito, argomenta Ó Cuilleanáin nel settimo capitolo del suo<br />

saggio su Religione e clero nel Decameron (1984:209-244), che si occupa della presenza del<br />

soprannaturale nel Centonovelle.<br />

15


Maria di Francia<br />

Un esempio unico nella poesia europea resta quello dei Lais di Maria di Francia:<br />

senza giungere a considerare le possibilità di una lettura protofemminista dell’opera,<br />

come elogio incondizionato dell’amore o apologia del “sesso debole”, dobbiamo<br />

notare come dei motivi di impellenza femminile rappresentino momenti di grande<br />

importanza per lo sviluppo del tessuto narrativo. È così, per esempio, che in Yonec 13<br />

il lamento della malmaritata evoca l’apparizione del misterioso cavaliere, ma è<br />

anche pur la grant joie u ele fu/ que suvent puet veeir sun dru,/esteit tuz sis semblanz<br />

changiez (Maria 1983:190): la vicenda della donna amante del cavaliere-astore si<br />

complica vieppiù, con il tradimento posto in opera dal marito, ma sembra risolversi<br />

con la vendetta che il figlio, natole dal cavaliere misterioso, porterà a termine nei<br />

confronti del crudele marito; se non che, la donna si abbatte morta sulla tomba del<br />

suo sfortunato amante, con un movimento che troveremo, con numerose varianti,<br />

immortalato proprio nei gesti di alcune delle eroine del Decameron (la figlia di<br />

Tancredi in IV 1, la Simona in IV 7, la Salvestra in IV 8, la moglie di Guiglielmo<br />

Rossiglione in IV 9), e che rivela il diverso sentire della donna di fronte al dolore<br />

della separazione dall’amante. Stessa sensibilità, che proietta il dolore della<br />

separazione in una dimensione simbolica fortemente allusiva, è quella della<br />

protagonista femminile del Laustic, che di fronte alla morte dell’usignolo (anche qui<br />

avremo una riscrittura boccacciana di alcuni particolari nella V 4, la novella<br />

dell’usignolo appunto) ricorre ad una comunicazione non verbale per comunicare al<br />

suo amato l’impossibilità di continuare ad amarsi. L’accentuata soggettività del<br />

discorso amoroso dal punto di vista femminile è sicuramente uno dei motivi per cui<br />

la poesia narrativa di Maria di Francia rappresenta un momento del tutto diverso<br />

13 La possibilità che questo importante segmento della letteratura romanza medievale sia<br />

stato presente a Boccaccio nel momento della composizione delle sue novelle, è ancora<br />

oggetto di discussione: l’analisi di Bruni a proposito del Laustic (1990:364-367) e della<br />

Battaglia Ricci a proposito di Yonec (2000:187), fanno riflettere su evidenti parentele e<br />

parallelismi narrativi, a proposito dei quali ci sembra che molto sia ancora da scrivere, sulla<br />

scia delle considerazioni suggestive fatte dalla Delcorno Branca (1991:introduzione).<br />

16


nella rappresentazione della donna, rispetto a quello del romanzo bretone in generale,<br />

del romanzo francese o della lirica trobadorica.<br />

Le bugie di Isotta<br />

Una delle figure fondamentali per comprendere il particolare atteggiamento della<br />

letteratura nei confronti della donna, lo ritroviamo nella personalità – spesso ambigua<br />

– di Isotta. Nel Tristano, infatti, l’aspetto più inquietante è lo sdoppiamento della<br />

donna, che si manifesta anche fisicamente, quando di fronte all’impossibilità di<br />

sposare l’Isotta moglie di Marco, e di cui egli stesso è innamorato, Tristano sposa<br />

un’altra Isotta! Quest’ultima, conscia di avere una rivale e nemica nell’altra che non<br />

conosce, precipita il marito inutile nella morte: il circolo dell’amore femminile,<br />

adultero e muliebre, si chiude all’interno dello stesso nome, come se ci fosse<br />

presentata una doppia Isotta, un’Isotta dalla doppia personalità che si estende su due<br />

momenti stessi della storia e della vita di Tristano. Ma, soprattutto, la vera Isotta è<br />

quella che stupisce per la sua astuzia e capacità di contrastare le avversità del destino<br />

che di volta in volta si accanisce contro di lei. Se non possiamo dimenticare che<br />

Isotta rappresenta essenzialmente la tipologia della donna adultera – suo malgrado –<br />

cui però viene negata la possibilità di generare 14 , dunque viene privata di parte della<br />

sua integrità ed essenza femminile, dobbiamo ammettere che le sue “bugie” sono lo<br />

specchio del suo timore di fronte al controllo da parte dell’autorità coniugale e della<br />

corte di Marco (Fumagalli Beonio Brocchieri 2002:27-29): si tratta di un<br />

meccanismo che nelle novelle di Boccaccio costituirà un momento fondamentale per<br />

lo svolgimento dell’azione da parte delle donne desiderose di contrastare questo<br />

controllo, mediante un comportamento che evidenzia diversi gradi di cautela e di<br />

possibilità di difendersi.<br />

14 L’intuizione di Georges Duby (2002:118) si appoggia sul ragionamento secondo cui<br />

l’argomento doveva essenzialmente essere un tabu, e sulla credenza che comunque la donna<br />

adultera sarebbe stata colpita dalla sterilità: da questo punto di vista, il ruolo di Isotta diviene<br />

quello della perfetta compagna del gioco d’amore.<br />

17


Le tipologie femminili della lirica due e trecentesca<br />

A ridosso dell’esperienza letteraria di Boccaccio si pongono poi le tipologie<br />

femminili portate avanti dal filone della poesia trobadorica-siciliana-toscana-<br />

stilnovista: se consideriamo che tale tipologia si differenzia ad ogni passaggio,<br />

dobbiamo ammettere che esiste un argomento fondamentale, il servigio d’amore, che<br />

condiziona anche la narrazione boccacciana e che costituisce un motivo “rubello” in<br />

ognuno dei rapporti amorosi descritti. Senza necessariamente giungere fino alle<br />

novità tematiche del Corbaccio (cui accenneremo comunque nel corso della nostra<br />

trattazione), possiamo rilevare di volta in volta la capacità di alcuni personaggi di<br />

restare fedeli al messaggio trobadorico-stilnovistico o di superarlo, pur rimanendo<br />

all’interno dello “sbarramento comportamentale” del servigio d’amore: per questo, la<br />

figura della donna esce dall’alone di immobilità figurativa sperimentato in<br />

precedenza, che la vuole legata al ruolo comprimario di oggetto del desiderio,<br />

finendo per essere coinvolta direttamente nei meccanismi narrativi. Quella donna che<br />

aveva pazientemente – e non di rado cinicamente – osservato l’affannarsi del<br />

corteggiatore, diviene adesso protagonista (o antagonista) di una schermaglia<br />

amorosa di cui può essere ella stessa la promotrice, senza che ciò pregiudichi<br />

immediatamente la sua condizione di “attrice privilegiata”: nella narrazione<br />

boccacciana, così come nei Lais o nei romanzi tristaniani, più diretta è l’osservazione<br />

– da parte del poeta – dei meccanismi di reazione ed interazione sociale che al<br />

comportamento femminile corrispondono, soprattutto per quanto riguarda il rapporto<br />

della donna con l’autorità (paterna, maritale, etc.).<br />

L’interesse della storiografia<br />

Oltre a considerare le diverse “letture letterarie” della rappresentazione dei<br />

personaggi femminili nel periodo precedente la composizione del Decameron,<br />

dobbiamo ad ogni modo riflettere sull’interesse particolare che la storiografia ha<br />

dedicato, negli ultimi decenni, ad una migliore “identificazione” delle figure<br />

femminili della storia quotidiana – e non – del Medioevo: se da un lato è forte la<br />

tendenza a leggere proprio le opere letterarie come delle fonti per una comprensione<br />

18


del ruolo della donna nella vita dell’epoca, numerose sono le analisi in grado di<br />

fornirci elementi di giudizio attendibili per una lettura “attualizzante” di elementi che<br />

sfuggono al lettore del ventesimo secolo.<br />

Numerosi degli autori che maggiormente hanno scandagliato la storia delle donne, li<br />

troviamo nel volume miscellaneo curato da Klapisch-Zuber nella serie della Storia<br />

delle donne in Occidente, ma anche nella antologia di scritti che delinea una Storia<br />

del matrimonio (sempre a cura di Klapisch-Zuber): insieme ai lavori di Duby, Ennen,<br />

Power, Leclerq, Vauchez, Le Goff e molti altri, si delinea chiaramente un interesse a<br />

che la storia delle donne di questo periodo guadagni una propria “autonomia”<br />

nell’ottica più generale, non per costituire una storia alternativa a quella degli<br />

uomini, ma per meglio comprendere il quadro generale di evoluzione della società<br />

occidentale nei secoli fondamentali per il passaggio dall’evo antico a quello<br />

moderno.<br />

D’altronde, già con l’opera fondamentale di Marc Bloch La società feudale, intesa<br />

come grandiosa summa di una vasta rete gerarchica di subordinazioni e rapporti di<br />

dipendenza reciproca che aveva catalizzato l’evoluzione dell’Europa almeno fino alla<br />

“rinascita” del tredicesimo secolo, si era potuto apprezzare il ruolo dei rapporti<br />

umani nella realizzazione di un sistema politico e sociale, in cui proprio i rapporti di<br />

parentela rappresentavano i cardini non solo del mantenimento, ma dell’evoluzione<br />

stessa di determinate situazioni familiari: questo era accaduto anche in maniera<br />

macroscopica nella creazione della nuova struttura del lignaggio, passato<br />

dall’elemento unico della gens romana a quello duplice per cui già nell’antica<br />

Germania ogni individuo aveva due categorie di parenti: gli uni «della spada», gli<br />

altri «della conocchia», ed era solidale, per gradi d’altronde differenti, tanto con i<br />

secondi come coi primi. (Bloch 1982:162) Se questo poteva causare dei problemi di<br />

“competenza” e di fragilità interna alle famiglie stesse, la presenza di questa doppia<br />

appartenenza testimonia l’importanza dell’elemento femminile (soprattutto nelle<br />

questioni di dote, che spesso appaiono anche in alcune novelle del Decameron a<br />

ricordarci questi aspetti venali ma pure importanti dei rapporti sociali) in una<br />

19


strutturazione sociale che ancora nel Trecento aveva una sua attualità – quantomeno<br />

letteraria.<br />

Con i cambiamenti e le novità importati dall’affermarsi del modello comunale, che è<br />

rappresentativo del Decameron, la questione non scompare, ma si fa differente,<br />

coinvolgendo equilibrii delicati, fino alla realtà – non tipica soltanto degli ambienti<br />

mercantili italiani – delle donne imprenditrici che devono amministrare patrimonii<br />

vedovili.<br />

Senza per questo sovradimensionare il ruolo della donna in una storia scritta – ed in<br />

gran parte fatta, pertanto – dagli uomini, dobbiamo ad ogni modo ricordare questa<br />

nuova attenzione ai fenomeni sociali, economici e latamente politici, di cui si<br />

scoprono sempre più importanti componenti femminili.<br />

Anche da questo punto di vista le protagoniste del Decameron, pur nella finzione<br />

letteraria, rappresentano una testimonianza dell’attenzione di un letterato sensibile ai<br />

cambiamenti della propria epoca – ed autore di un trattato De mulieribus claris, per<br />

di più – verso una componente fondamentale della società, osservata secondo le<br />

ottiche più diverse, ma generalmente da un punto di vista benevolo, se non<br />

apologetico.<br />

Come abbiamo detto all’inizio, la donna si trova spesso in contrasto con i<br />

regolamenti e le imposizioni che vede rispecchiati negli atteggiamenti autoritarii di<br />

mariti, padri, fratelli: la letteratura rappresenta, dunque, una sorta di evasione da una<br />

realtà in cui ella è costretta a cercare continuamente di imporre le sue ragioni, che<br />

non sono automaticamente prese in considerazione in quanto legittime. Le vere e<br />

proprie “eroine” di questo conflitto – secondo la lettura che Boccaccio ce ne offre –<br />

hanno anche diverse chiavi di interpretazione, che traspaiono da gesti, parole, opere e<br />

comportamenti riflessi, come speriamo di riuscire a dimostrare nel corso della nostra<br />

trattazione.<br />

20


La raffigurazione del corpo femminile<br />

La tipologizzazione boccacciana dei personaggi femminili non può fare a meno di<br />

soffermarsi sulle qualità fisiche dei soggetti rappresentati, continuando la tradizione<br />

delle topiche classiche – e medievali – inerenti alle descrizioni delle diverse<br />

componenti della natura 15 . Tra queste topiche una delle più complesse – e ricorrenti –<br />

è quella del locus amoenus (che Boccaccio rinnova completamente attraverso una<br />

lunga serie di esempi disseminati nel corso della sua opera tutta) e, così come esiste<br />

non un solo paesaggio ideale, possiamo affermare che esista non una sola “donna<br />

ideale”: la poesia lirica aveva man mano raffinato, attraverso un’amplia<br />

codificazione, prima di Boccaccio, i tratti caratteristici della donna ideale poi<br />

confluita nella “donna angelicata”, tratti che il poeta di Certaldo utilizza<br />

abbondantemente nelle prime Rime, spesso in combinazione significativa con alcuni<br />

loci amoeni:<br />

Intorn’ad una fonte, in un pratello<br />

di verdi erbette pieno e di bei fiori,<br />

sedean tre angiolette, i loro amori<br />

forse narrando, e a ciascuna l bello<br />

viso adombrava un verde ramicello<br />

ch’i capei dor cingea, al qual di fuori<br />

e dentro insieme i dua vaghi colori<br />

avolgeva un suave venticello.<br />

(Rime, I, 1-8)<br />

15 A tal proposito si vedano le considerazioni di Curtius (1993:118-122) e di Battaglia Ricci<br />

(2000a:109-111) sulla rappresentazione di questi “modelli” in connessione con la topica del<br />

locus amoenus: in altra sede abbiamo argomentato a proposito della capacità di Boccaccio di<br />

superare la tradizione del locus amoenus a lui precedente proprio in slcune descrizioni<br />

decameroniane (Sciacovelli 2003:128-145).<br />

21


All’ombra di mill’arbori fronzuti,<br />

in abito leggiadro e gentilesco,<br />

con gli occhi vaghi e col cianciar donnesco<br />

lacci tendea, da lei prima tessuti<br />

de’ suoi biondi capei crespi e soluti<br />

al vento lieve, in prato verde e fresco,<br />

una angiolella; a’ quai giungeva vesco<br />

tenace Amor, e ami aspri e acuti.<br />

(Rime, II, 1-8)<br />

...vid’io colei, che l ciel di sé innamora,<br />

e ‘n più donne far festa: e aureo vello<br />

le cingea ‘l capo in guisa che capello<br />

del vago nodo non usciva fuora.<br />

(Rime, III, 5-8)<br />

...quando mi parve udire un canto lieto<br />

tanto che simil non fu consueto<br />

d’udir già mai nelle mortali scuole.<br />

Per ch’io:«Angela forse, o ninfa, o dea<br />

canta con seco in questo loco eletto»,<br />

meco diceva, «degli antichi amori».<br />

Quinci madonna in assai bel ricetto<br />

del bosco ombroso, in su l’erbe e in su’ fiori,<br />

vidi cantando, e con altre sedea.<br />

(Rime, IV, 6-14)<br />

Non credo il suon tanto soave fosse<br />

che gli occhi d’Argo tutti fé dormire,<br />

(...)<br />

22


quantuna voce ch’io d’unangioletta<br />

udi’, che lieta i suoi biondi capelli<br />

cantand’ornava di frond e di fiori.<br />

(Rime, V, 1-2; 9-11)<br />

Questi primi esempi (che Boccaccio, insieme alla Caccia di Diana, riconosce in una<br />

sua epistola come “debito di appartenenza” al modello petrarchesco (in Surdich<br />

2001:9)) sono riconducibili ad una serie di influssi stilnovisti e danteschi, che man<br />

mano Boccaccio integrerà con nuclei tematici originali: uno dei quali è sicuramente<br />

l’accentuazione della sensualità delle rappresentazioni, come è possibile reperire<br />

nella prima delle Rime di dubbia attribuzione:<br />

Iscinta e scalza, con le trezze avvolte,<br />

e d’uno scoglio in altro trapassando,<br />

conche marine da quelli spiccando,<br />

giva la donna mia con altre molte.<br />

E l’onde, quasi in sé tutte raccolte,<br />

con picciol moto i bianchi piè bagnando,<br />

innanzi si spingevan mormorando<br />

e ritraensi iterando le volte.<br />

E se tal volta, forse di bagnarsi<br />

temendo, i vestimenti in su tirava,<br />

sì chio vedeo più della gamba schiuso,<br />

oh, quali avria veduto allora farsi,<br />

chi rimirato avesse dov’io stava,<br />

gli occhi mia vaghi di mirar più suso.<br />

(Rime, 1)<br />

Il corpo femminile, dunque, viene rappresentato dal punto di vista del poeta-amante,<br />

che lo guarda e – quasi – lo spoglia con lo sguardo: l’attenzione passa dal biondo dei<br />

23


capelli al nitore dei piedi e delle gambe, suggerendo la completezza dell’apparizione.<br />

Ancor più particolare è la prospettiva che Boccaccio ci propone nella Fiammetta,<br />

quando la protagonista si esamina e scopre di possedere bellezze che esercitano una<br />

irresistibile attrazione nei confronti degli altri:<br />

E come la mia persona negli anni trapassanti crescea, così le mie<br />

bellezze, de’ miei mali speciale cagione, multiplicavano. Ohimè! che io,<br />

ancora che picciola fossi, udendole a molti lodare, me ne gloriava, e<br />

loro con sollecitudini e arti faceva maggiori. Ma già dalla fanciullezza<br />

venuta ad età più compiuta, meco dalla natura ammaestrata sentendo<br />

quali disii a’ giovani possono porgere le vaghe donne, conobbi che la<br />

mia bellezza, miserabile dono a chi virtuosamente di vivere disidera, più<br />

miei coetanei giovanetti e altri nobili accese di fuoco amoroso.<br />

(Fiammetta 1952:1062-3)<br />

La bellezza si identifica dunque con il desiderio sensuale, ma si propone anche – nel<br />

caso di Fiammetta – come valore oggettivo in cui la protagonista stessa si riconosce.<br />

Nel Decameron ben più complessa si presenta la caratterizzazione fisica dei<br />

personaggi femminili: se è vero che nella maggior parte delle novelle Boccaccio<br />

privilegia una tipologizzazione sommaria, che si informa ad uno schema formulare<br />

alquanto rigido, sono proprio le eccezioni, ovvero le narrazioni in cui maggiori sono i<br />

particolari descrittivi della bellezza femminile, a costituire il campo di indagine più<br />

interessante da questo punto di vista 16 .<br />

16 L’attenzione della critica si è diretta piuttosto verso la trattazione dell’erotismo come di<br />

una delle componenti insieme più apertamente presenti eppure più metaforicamente<br />

affrontate dalla trattazione boccacciana: costituendo questo una delle questioni più spinose<br />

della ricezione stessa dell’opera, ci troviamo spesso di fronte a posizioni critiche ambigue, in<br />

cui si cerca di attribuire alla “vena erotica” del Boccaccio, di volta in volta, o una esagerata<br />

licenziosità, o una fin troppo arguta e raffinata capacità di travestire l’istinto carnale e di<br />

ingentilirlo (v. l’Eros secondo Asor Rosa in 2000:68-72).<br />

24


La descrizione che rappresenta, per completezza ed intensità, un momento unico di<br />

abbandono al piacere della contemplazione erotica (e che si pone anche<br />

“topograficamente” in rilievo, in quanto inclusa nella prima novella della quinta<br />

giornata, dunque della seconda parte del Decameron) è sicuramente quella di Ifigenia<br />

dormiente, vista con gli occhi di Cimone:<br />

Per lo quale andando, s’avenne, sì come la sua fortuna il vi guidò, in un<br />

pratello d’altissimi alberi circuito, nell’un de’ canti del quale era una<br />

bellissima fontana e fredda, allato alla quale vide sopra il verde prato<br />

dormire una bellissima giovane con un vestimento addosso tanto sottile,<br />

che quasi niente delle candide carni nascondea, e era solamente dalla<br />

cintura in giù coperta d’una coltre bianchissima e sottile; (...)<br />

La quale come Cimon vide, non altramenti che se mai più forma di<br />

femina veduta non avesse, fermatosi sopra il suo bastone (...) la<br />

incominciò intentissimo a riguardare; (...) E quinci cominciò a<br />

distinguer le parti di lei, lodando i capelli, li quali d’oro estimava, la<br />

fronte, il naso e la bocca, la gola e le braccia e sommamente il petto,<br />

poco ancora rilevato: e, di lavoratore, di bellezza subitamente giudice<br />

divenuto seco sommamente disiderava di veder gli occhi, li quali ella da<br />

alto sonno gravati teneva chiusi... (V, 1, 6-9)<br />

Proprio questo passo presenta dei tratti comuni con la rima di dubbia attribuzione<br />

suaccennata: la descrizione minuta delle grazie fisiche di Ifigenia, nei colori delle<br />

quali predominano i toni che rendono inclini alla mitezza (candide carni, capelli<br />

d’oro), è strumentale al cambiamento che il sentimento amoroso provoca nel petto di<br />

Cimone, e soprattutto deve mantenersi nella topica della descrizione della donna<br />

leggiadra, che dovrà avere tutto proporzionato ad un ideale medio (di qui il<br />

particolare del petto, poco ancora rilevato, che ricorda quelle poppelline tonde e<br />

sode e dilicate, non altramenti che se d’avorio fossono state (II, 3, 32) intuite da<br />

Alessandro nell’atto di posare la mano sul petto del misterioso abate). La peculiare<br />

25


forza attrattiva di questa bellezza verginale 17 si manifesta tutta nel desiderio di<br />

Cimone di veder gli occhi della giovane donna: le luci del volto, che lungo tutto<br />

l’itinerario della lirica romanza medievale avevano conservato un primato<br />

innegabile, dominano la scena di questo “idillio pastorale”, pur in absentia. Nella<br />

sesta novella dell’ultima giornata saranno Ginevra ed Isotta, con la loro formidabile<br />

grazia, a ripetere l’incantesimo del rapimento erotico, ma con una dinamicità che si<br />

differenzia assolutamente dall’immobilità quasi contemplativa della bella Ifigenia:<br />

... entrarono due giovinette d’età forse di quindici anni l’una, bionde<br />

come fila d’oro e co’ capelli tutti inanellati e sopr’essi sciolti una<br />

leggera ghirlandetta di provinca, e nelli lor visi più tosto agnoli parevan<br />

che altra cosa, tanto gli avevan dilicati e belli; e eran vestite d’un<br />

vestimento di lino sottilissimo e bianco come neve in su le carni, il quale<br />

dalla cintura in sù era strettissimo e da indi ‘n giù largo a guisa d’un<br />

padiglione e lungo infino a’ piedi. (X, 6, 11)<br />

La rappresentazione della nudità assoluta del corpo femminile si verifica però nella<br />

settima novella dell’ottava giornata, nel momento – significativo per la narrazione –<br />

in cui lo studente, beffato dalla vedova, si prende la sua rivincita sottoponendo la<br />

bella donna ad un terribile contrappasso: mentre la bella Elena aveva tormentato il<br />

corpo dello studente con il freddo della candida neve, la vendetta consisterà nel far<br />

“cuocere” il bianco corpo di lei dal sole ferventissimo. Prima che la vendetta possa<br />

compiersi, però, il giovane viene colpito dalla bellezza della sua primitiva carnefice,<br />

che Boccaccio ci descrive giocando sul contrasto del buio con il nitore delle carni:<br />

17 Nel suo ampio studio su Boccaccio visualizzato, Vittore Branca ha illustrato quanto grande<br />

sia stata la suggestione di questa – e non solo di questa – novella su una serie di illustrazioni<br />

che passeranno agevolmente dalla funzione “endotestuale” (quella cioè di rappresentare la<br />

scena ai lettori dell’opera stessa) a quella archetipica – ed “esotestuale” – per alcuni<br />

esponenti delle arti figurative, a partire da Botticelli (Branca 1989:288-290).<br />

26


... e passandogli ella quasi allato così ignuda e egli veggendo lei con la<br />

bianchezza del suo corpo vincere le tenebre della notte e appresso<br />

riguardandole il petto e l’altre parti del corpo e vedendole belle ... (VIII,<br />

7, 66).<br />

L’apparizione notturna della vedova nuda, che vince le tenebre della notte, è l’ultimo<br />

addio – prima dello strazio – a quel corpo che ha animato prima il desiderio d’amore,<br />

poi la sete di vendetta. Naturalmente, queste descrizioni possono assumere, come ha<br />

ricordato Branca (1996:112-119), il significato di un richiamo stilistico ben<br />

particolare, quando – come in questi esempi – si riferiscono al mondo del ben vivere,<br />

degli alti ideali del dover essere, piuttosto che in un’ottica generale: gli echi letterari<br />

della nobilitazione dell’animo umano in ragione della funzione catalizzatrice della<br />

bellezza e dell’amore sono evidentissimi, eppure utilizzati con una spregiudicatezza<br />

nuova, che non ci sembra di poter cogliere nelle espressioni degli stilnovisti. Gli<br />

esempi citati ci rafforzano chiaramente nell’opinione che la sensualità delle<br />

descrizioni provenga non tanto dalla bellezza in sé, quanto dalla possibilità che la<br />

grazia delle membra femminili venga “incorniciata” da un contesto capace di<br />

produrre, per contrasto o per trasparenza, un effetto ottico particolare: la coltre<br />

bianchissima e sottile che ricopre le pudenda di Ifigenia, il vestimento di lino<br />

sottilissimo e bianco che avvolge le due fanciulle, ed infine la luminosità del corpo<br />

della vedova di contro all’oscurità circostante, significano la “evidenza” sensuale del<br />

corpo femminile oltre la pura e semplice dichiarazione di bellezza.<br />

Per quanto riguarda invece la caratterizzazione generica della bellezza femminile,<br />

abbiamo già accennato al fatto che essa, nel Centonovelle, assume – proprio a causa<br />

della frequenza con cui lo scrittore la adopera – una struttura formulare, che notiamo<br />

già nella definizione “collettiva” della bellezza fisica delle sette giovani donne che<br />

compongono la brigata: anche in virtù della loro età, che chiaramente indica la<br />

fioritura delle doti fisiche femminili, le sette future narratrici sono ciascuna (...) bella<br />

di forma e ornata di costumi (I, Intr., 49). La bellezza delle forme è naturalmente<br />

27


associata al portamento: la caratterizzazione, che esclude una descrizione dettagliata<br />

di particolari esteriori, sembra voler significare un anonimo modello di bellezza<br />

femminile, a cui i lettori sono in qualche modo “abituati”, e che ritroveranno nelle<br />

successive descrizioni. Infatti, a partire dalla marchesa del Monferrato, fino a<br />

Griselda, la maggior parte delle protagoniste del Decameron coniuga<br />

necessariamente la bellezza fisica all’onestà ovvero alla piacevolezza, quali si<br />

manifestano evidentemente nel portamento (non possiamo non associare questa<br />

corollarietà ai versi danteschi di Tanto gentile e tanto onesta pare...), nonostante le<br />

virtù siano talvolta assenti, semplicemente “evocate” dalla bellezza esteriore.<br />

Le bellissime<br />

L’uso del superlativo è d’obbligo, dalla descrizione in absentia della marchesa del<br />

Monferrato (...quanto tra’ cavalieri era d’ogni virtù il marchese famoso, tanto la<br />

donna tra tutte l’altre donne del mondo era bellissima e valorosa... (I, 5, 6)) alla<br />

“visione” di maestro Alberto da Bologna (...avendo veduta a una festa una bellissima<br />

donna chiamata (...) madonna Malgherida dei Ghisolieri... (I, 10, 10)); si ripete per<br />

la castellana che soccorre Rinaldo d’Asti (Egli era in questo castello una donna<br />

vedova, del corpo bellissima quanto alcuna altra... (II, 2, 19)) e nel momento della<br />

“rivelazione” del giovane abate, compagno di viaggio di Alessandro (Alessandro,<br />

quantunque non la conoscesse (...), lei stimò dovere essere nobile e ricca, e<br />

bellissima la vedea... (II, 3, 34)).<br />

Il giudizio morale di Boccaccio sui costumi della giovane truffatrice di Andreuccio<br />

da Perugia (...disposta per picciol pregio a compiacere a qualunque uomo... (II, 5,<br />

4)), non implica una svalutazione delle virtù fisiche della donna (... una giovane<br />

ciciliana bellissima... (II, 5, 4)), mentre per Teodolinda la bellezza è contrapposta<br />

alla “sfortuna in amore” (... Teudelinga, (...) la quale fu bellissima donna, savia e<br />

onesta molto... (III, 2, 4)). Le mogli bellissime ornano tre novelle della terza<br />

giornata, quella cosiddetta del Zima (... e avea lungo tempo amata e vagheggiata<br />

infelicemente la donna di messer Francesco, la quale era bellissima e onesta molto.<br />

(III, 5, 5)), la novella napoletana degli intrighi amorosi di Ricciardo Minutolo (Il<br />

28


quale, nonostante che una bellissima giovane e vaga per moglie avesse, s’innamorò<br />

d’una la quale, secondo l’oppinion di tutti, di gran lunga passava di bellezze tutte<br />

l’altre donne napoletane ... (III, 6, 4)) ed infine la narrazione dell’inganno ordito ai<br />

danni dello sciocco Ferondo (... e in questa dimestichezza s’accorse l’abate Ferondo<br />

avere una bellissima donna per moglie... (III, 8, 5)). La prima e la penultima novella<br />

della quarta giornata sono parimenti illuminate da donne bellissime, Ghismonda (Era<br />

costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai... (IV, 1,<br />

5)) e la moglie di Guiglielmo di Rossiglione (... avendo messer Guiglielmo<br />

Rossiglione una bellissima e vaga donna per moglie... (IV, 9, 6)); a cui fanno<br />

riscontro, nella giornata successiva, l’amata di Martuccio Gomito (...non è ancor<br />

gran tempo fu una bellissima giovane chiamata Gostanza... (V, 2, 4)), quella di<br />

Pietro Boccamazza (... il quale s’innamorò d’una bellissima e vaga giovane<br />

chiamata Agnolella... (V, 3, 4)) ed infine la giovane contesa da Giannole e Minghino<br />

(La quale crescendo divenne bellissima giovane quanto alcuna altra che allora fosse<br />

nella città... (V, 5, 7)). La settima giornata si apre con le fattezze della moglie di<br />

Gianni Lotteringhi (Ora aveva costui una bellissima donna e vaga per moglie... (VII,<br />

1, 6)) e continua con le mogli di due gelosi (A costui fu data per moglie una<br />

bellissima donna... (VII, 4, 5) e Fu dunque in Arimino un mercatante ricco e di<br />

possessioni e di denari assai, il quale avendo una bellissima donna per moglie di lei<br />

divenne oltre misura geloso... (VII, 5, 7)); per concludersi con un omaggio alle<br />

donne senesi (Il quale Tingoccio insieme con Meuccio visitando alcuna volta questa<br />

sua comare, la quale era una bellissima e vaga donna... (VII, 10, 11)). Seguono<br />

l’adescatrice di Salabaetto (A Salabaetto pareva essere in Paradiso, e mille volte<br />

aveva riguardato costei, la quale era per certo bellissima... (VIII, 10, 19)), Madonna<br />

Francesca (Dico adunque che nella città di Pistoia fu già una bellissima donna<br />

vedova... (IX, 1, 5)) e la Lisa, innamorata di re Piero (... era in Palermo un nostro<br />

fiorentino speziale, chiamato bernardo Puccini, ricchissimo uomo, il quale d’una sua<br />

donna, senza più, aveva una figliuola bellissima e già da marito. (X, 7, 4)).<br />

Quest’uso del superlativo, che in qualche modo riecheggia l’invocazione dell’incipit<br />

(graziosissime donne), ha il compito di proiettare il corpo delle protagoniste in una<br />

29


dimensione estetica unica, quella in conseguenza della quale i protagonisti maschili<br />

non potranno – o solo difficilmente riusciranno a – resistere alla tentazione di<br />

avvicinare i volti meravigliosi ed i corpi armoniosi di questo esercito di donne.<br />

Altri esempi, simili a quelli sinora citati, sono quelli in cui la bellezza diviene<br />

leggendaria, in quanto priva di paragone, in senso spaziale (assoluto o locale) o<br />

temporale: è il caso di Alatiel (Aveva costui (...) una figliuola chiamata Alatiel, la<br />

qual, per quello che ciascun che la vedeva dicesse, era la più bella femina che si<br />

vedesse in que tempi nel mondo... (II, 7, 9)), della moglie di Ricciardo di Chinzica<br />

(... messer Lotto Gualandi per moglie gli diede una sua figliuola (...), una delle più<br />

belle e delle più vaghe giovani di Pisa... (II, 10, 6)), della sventurata figlia del re di<br />

Tunisi (D’altra parte era, sì come altrove, in Cicilia pervenuta la grandissima fama<br />

della bellezza parimente e del valor di lei... (IV, 4, 7)), della figlia di Lizio da<br />

Valbona (La quale oltre a ogni altra della contrada crescendo divenne bella e<br />

piacevole... (V, 4, 5), dell’affascinante monna Giovanna, lungamente vagheggiata da<br />

Federigo degli Alberighi (... una gentil donna chiamata monna Giovanna (...), ne<br />

suoi tempi tenuta delle più belle donne e delle più leggiadre che in Firenze<br />

fossero... (V, 9, 6)), di madonna Beatrice (... e udendogli fra sé ragionare delle belle<br />

donne di Francia e d’Inghilterra e d’altre parti del mondo, cominciò l’un di loro a<br />

dir che per certo di quanto mondo egli aveva cerco e di quante donne vedute aveva<br />

mai, una simigliante alla moglie d’Egano de’ Galluzzi di Bologna, madonna<br />

Beatrice chiamata, veduta non avea di bellezza... (VII, 7, 6)), della moglie di Talano<br />

d’Imola (Costui, avendo una giovane, chiamata Margherita, bella tra tutte laltre<br />

per moglie presa... (IX, 7, 4)), mentre una bellezza particolare risplende nella<br />

monotonia dei volti velati di un convento in IX, 2 (... v’era una giovane di sangue<br />

nobile e di maravigliosa bellezza dotata... (IX, 2, 5)). Nella novella di Tito e<br />

Gisippo, infine, ritorna il motivo della bellezza singolare unita ad eccezionali natali<br />

(... e trovarongli una giovane di maravigliosa bellezza e di nobilissimi parenti<br />

discesa... (X, 8, 10)).<br />

30


Parallelamente a questi superlativi – assoluti ed indiscutibili – troviamo delle forme<br />

di gradazione più caute, per donne introdotte nella narrazione in quanto rivestite di<br />

un ruolo filiale o sororiale, come la figlia di Gurrado Malaspina (... la quale, essendo<br />

assai bella e piacevole e giovane... (II, 6, 35)), Alibech (... un ricchissimo uomo, il<br />

quale tra alcuni altri suoi figliuoli aveva una figlioletta bella e gentilesca, il cui<br />

nome fu Alibech. (III, 10, 4)), Lisabetta da Messina (... e avevano una loro sorella<br />

chiamata Elisabetta, giovane assai bella e costumata... (IV, 5, 4)), l’Andreuola (...<br />

Andreuola, giovane e bella assai... (IV, 6, 8)); ma anche per donne vagheggiate a<br />

lungo, come l’amata di Tedaldo (Fu adunque (...) in Firenze una giovane assai bella<br />

e leggiadra ... (III, 7, 6)), Restituta (...fu già tra l’altre una giovinetta bella e lieta<br />

molto... (V, 6, 4)), la “comare” di frate Rinaldo (... e amando sommamente una sua<br />

vicina, e assai bella donna e moglie d’un ricco uomo... (VII, 3, 4)), madonna Isabella<br />

(Nella nostra città, copiosa di tutti i beni, fu una giovane donna e gentile e assai<br />

bella... (VII, 6, 4)), madonna Ambruogia (Pose costui, in Melan dimorando, l’amor<br />

suo in una donna assai bella chiamata madonna Ambruogia... (VIII, 1, 6)). A questa<br />

schiera si aggiungono poi la vedova vagheggiata dal preposto di Fiesole (Ora<br />

avvenne che, usando questa donna alla chiesa maggiore ed essendo ancora assai<br />

giovane e bella e piacevole... (VIII, 4, 6), le mogli protagoniste del ménage a quattro<br />

dell’ottava novella dell’ottava giornata (... e ciascuno di loro avea per moglie una<br />

donna assai bella. (VIII, 8, 5)), la moglie dell’oste (Ora aveva costui una sua moglie<br />

assai bella femina, della quale aveva due figliuoli: e l’uno era una giovanetta bella e<br />

leggiadra... (IX, 6, 5)) ed addirittura Griselda (Erano a Gualtieri buona pezza<br />

piaciuti i costumi d’una povera giovinetta (...), e parendogli bella assai... (X, 10, 9)).<br />

Bellezze “comuni” e bellezze “singolari”<br />

Non sono poche le descrizioni in cui si ricorda una bellezza al “grado positivo”,<br />

seppure animata da diverse considerazioni che la rendono a suo modo esclusiva,<br />

come nel caso della bella moglie di Bernabò, esaminata dal perfido Ambrogiuolo (...<br />

vide che così era bella ignuda come vestita... (II, 9, 27), oppure la protagonista del<br />

corteggiamento “mediato” dall’ignaro confessore in III, 3 ( Nella nostra città (...) fu<br />

31


una gentil donna di bellezze ornata e di costumi... (III, 3, 5)); simile semplicità di<br />

raffigurazione vale per la moglie del medico che crede morto il suo amante<br />

nell’ultima novella della quarta giornata (... presa per moglie una bella e gentil<br />

giovane della sua città... (IV, 10, 4)) e per la giovane amata da Teodoro, figlia di<br />

messer Amerigo (... una sua figliuola chiamata Violante, bella e dilicata giovane...<br />

(V, 7, 6). La bellezza della “eroina” dei diritti civili delle donne pratesi è completata<br />

dalla citazione della sua indole amorosa (... avvenne che una gentil donna e bella e<br />

oltre a ogni altra innamorata... (VI, 7, 5)).<br />

Anche Peronella, nonostante la bassa estrazione sociale, si inserisce in questa<br />

“categoria” (... un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovinetta... (VII,<br />

2, 7)), in cui rientrano anche Lidia (In Argo (...) fu già uno nobile uomo il quale<br />

appellato fu Nicostrato, a cui già vicino alla vecchiezza la fortuna concedette per<br />

moglie una gran donna non meno ardita che bella... (VII, 9, 5)).<br />

Calandrino è sposato ad una donna rappresentata con il metro dell’assennatezza<br />

popolare (Era per avventura la moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella<br />

e valente donna, in capo della scala... (VIII, 3, 51)), mentre assai più complesso il<br />

giudizio sulla tentatrice di Calandrino, la Niccolosa che, nonostante la sua<br />

professione poco onorevole, vede la propria miseria morale illuminata da quattro<br />

giudizi estetici positivi, la bellezza fisica, il “ben vestire”, la grazia dei costumi e del<br />

conversare (Aveva costei bella persona e era ben vestita e secondo sua pari assai<br />

costumata e ben parlante... (IX, 5, 9)), come anche la miseria di compare Pietro è<br />

consolata dalle grazie della bella consorte (Compar Pietro d’altra parte, essendo<br />

poverissimo e avendo una piccola casetta in Tresanti appena bastevole a lui e a una<br />

sua giovane e bella moglie... (IX, 10, 8)).<br />

La nobiltà si accompagna infine ad una semplice ma penetrante bellezza nella<br />

novella di ambientazione udinese (In Frioli (...) è una terra chiamata Udine, nella<br />

quale fu già una bella e nobile donna, chiamata madonna Dianora... (X, 5, 4)).<br />

Nella gran parte di queste caratterizzazioni si notano delle espressioni formulari, in<br />

cui la coppia di aggettivi (bell(issim)a-nobile, bell(issim)a-vaga, bell(issim)a-<br />

32


giovane, bell(issim)a-costumata, e così via) costituisce un accessorio immancabile<br />

della figura femminile. L’indefinitezza che deriva dall’uso di un binomio (talvolta la<br />

caratterizzazione è affidata a tre o quattro elementi) variabile in diverse direzioni, che<br />

quindi offre una serie di modulazioni nell’associazione di aggettivi al grado positivo<br />

o superlativo, nell’uso dei termini di paragone che accentuano il carattere iperbolico<br />

delle attribuzioni; coincide con quella usata dal Boccaccio per le sette giovani<br />

dell’allegra brigata, e sembra che sia intenzione dei dieci narratori non uscire, se non<br />

per particolari eccezioni, da questo ambito.<br />

La dimensione sociale della bellezza nella sua espressione “comica”<br />

Nell’opera incontriamo però delle bellezze femminili che, per necessità narrative,<br />

vengono caratterizzate da attributi ben più “popolareschi”: ciò accade per la consorte<br />

di frate Puccio (La moglie, che madonna Isabetta aveva nome, giovane ancora di<br />

ventotto in trenta anni, fresca e bella e ritondetta che pareva una mela casolana...<br />

(III, 4, 6)), appetita da dom Felice, ma anche alla sfortunata coniuge di Pietro di<br />

Vinciolo (... la moglie la quale egli prese era una giovane compressa, di pel rosso e<br />

accesa (...), veggendosi bella e fresca e sentendosi gagliarda e poderosa ... (V, 10, 7-<br />

8)).<br />

Monna Nonna de’Pulci, che mette a tacere il vescovo di Firenze, è rappresentata nel<br />

fiore della sua “vaghezza” (... la quale essendo allora una fresca e bella giovane e<br />

parlante e di gran cuore... (VI, 3, 9)), così come anche l’antipatica nipote di Fresco<br />

(... la quale, ancora che bella persona avesse e viso, non però di quegli angelici che<br />

già molte volte vedemmo... (VI, 8, 5)); una descrizione che ha richiamato l’attenzione<br />

di lettori e critici – e che per tono richiama quella sopra accennata di madonna<br />

Isabetta (III, 4) – è, per la sua “rustichezza”, quella della contadina desiderata dal<br />

prete di Varlungo (... una sopra tutte ne gli piacque, che aveva nome monna<br />

Belcolore (...); la qual nel vero era pure una fresca e piacevole foresozza, brunazza<br />

e ben tarchiata e atta a meglio saper macinar che alcuna altra... (VIII, 2, 8).<br />

33


Da questi ritratti, sempre benevoli (anche quello della nipote di Fresco si compiace<br />

della bellezza della giovane, purtroppo incompatibile con il di lei carattere), esula il<br />

prototipo dell’antidonna, la fantesca per cui spasima il servitore di Fra Cipolla,<br />

Guccio:<br />

Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago di stare in cucina che sopra i<br />

verdi rami l’usignuolo, e massimamente se fante vi vedeva niuna,<br />

avendone in quella dell’oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal<br />

fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame e con un<br />

viso che parea de Baronci... (VI, 10, 21)<br />

E come nella Fiammetta, anche se stavolta animata da una evidente ironia, è presente<br />

nella novella di frate Alberto ed in quella di Nastagio degli Onesti, persino una forma<br />

di ”autoglorificazione”, che conduce ad atteggiamenti di superbia mal conciliantisi<br />

con la “vera” bellezza femminile:<br />

«Deh, messer lo frate, non avete voi occhi in capo? paionvi le mie<br />

bellezze fatte come quelle di queste altre?(...) ché sarei bella nel<br />

Paradiso». (IV, 2, 13)<br />

... tanto cruda e dura e salvatica gli si mostrava la giovinetta amata,<br />

forse per la sua singular bellezza o per la sua nobiltà sì altiera e<br />

disdegnosa divenuta... (V, 8, 6)<br />

L’oggetto del desiderio carnale<br />

Diverso è l’atteggiamento verso il corpo femminile visto nel momento del piacere:<br />

l’atto sessuale viene inteso sovente dal Boccaccio come un gioco (ricordiamo le<br />

schermaglie amorose in I, 4 del giovane monaco e della fanciulla da lui introdotta<br />

nella propria cella: E mentre che egli, da troppa volontà trasportato, men cautamente<br />

con le’ scherzava... (I, 4, 7)), e non sono rare le espressioni che – senza<br />

34


necessariamente eufemizzare – ci consegnano una idea ludica dell’amplesso. In due<br />

novelle notiamo però come la caratterizzazione del corpo femminile venga rapportata<br />

direttamente ad uno degli animali che meglio simboleggiano il trasporto sensuale in<br />

tutta la sua carnalità, ovvero il cavallo 18 . La prima di queste è la novella di Peronella,<br />

con il suo finale “incalzante” in cui i corpi degli amanti subiscono una vera e propria<br />

metamorfosi di sapore non propriamente ovidiano:<br />

... e in quella guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d’amor<br />

caldi le cavalle di Partia assaliscono... (VII, 2, 34);<br />

mentre nella novella di Donno Gianni ci troviamo di fronte al tentativo del vispo<br />

uomo di chiesa di compiere una apuleiana – equina e non asinina, però! –<br />

metamorfosi: Boccaccio riproduce minuziosamente il rituale inventato sul momento<br />

da Donno Gianni, mettendo in sincrono l’opera delle mani imposte al corpo di<br />

Gemmata, con l’incantesimo delle formule verbali (che dovrebbero trasformare le<br />

sembianze umane in equine):<br />

... e con le mani cominciandole a toccare il viso e la testa (...); e<br />

toccandole i capelli (...); e poi toccandole le braccia (...); poi toccandole<br />

il petto e trovandolo sodo e tondo (...); e così fece alla schiena e al<br />

ventre e alle groppe e alle cosce e alle gambe... (IX, 10, 18).<br />

Il corpo della donna, palpato ed accarezzato, non riesce però ad acquistare quella<br />

luminosità che abbiamo visto in Ifigenia e nelle fattezze della bella Elena: la stessa<br />

rappresentazione dell’atto sessuale mediante una serie di allusioni oscene<br />

18 Il nostro uso dell’avverbio direttamente non è casuale, in quanto che la possibilità di una<br />

allusione al parallelismo di donne e cavalli è insita anche nella novella del Zima, dove però<br />

lo scambio – che davvero avviene, nonostante le precauzioni di messer Francesco dei<br />

Vergellesi! – tra donna e palafreno si realizza in tutt’altre condizioni. A questo proposito è<br />

illuminante il saggio di Franco Fido su Silenzi e cavalli nell’eros del Decameron (1988:103-<br />

110).<br />

35


appartenenti al mondo agricolo (il piuolo, il solco) riporta la tensione della scena alle<br />

miserie paesane che avevano aperto la narrazione.<br />

Se considerato da questo punto di vista, uno degli aspetti che più a lungo ha<br />

pregiudicato l’opera di Boccaccio, il fatto cioè che si tratti di un fascio di descrizioni<br />

lussuriose, dove la carne ha il sopravvento sullo spirito, si presenta in tutta la sua<br />

statistica modestia: assai più attento all’allusione alle bellezze interiori, a quelle<br />

provenienti dagli atteggiamenti, dai costumi, dal “saper vivere”, Boccaccio dedica<br />

solo di tanto in tanto un accenno alle manifestazioni più “scabrose” del sesso,<br />

osservato ad occhio nudo. La bellezza femminile, al centro dei desideri, rifugge le<br />

descrizioni minute e discinte, per affermare la sua presenza come una componente<br />

stessa ed irrinunciabile dell’atmosfera del racconto.<br />

36


Tipologie comportamentali<br />

37


La resistenza “passiva”<br />

Tra le figure femminili più emblematiche, e meglio connesse alla generale tradizione<br />

europea medievale, troviamo nel Decameron alcune protagoniste che spiccano per la<br />

loro passività, per un atteggiamento – diversamente motivato di volta in volta – di<br />

mutismo e, sovente, di rassegnazione, che pur rappresentando in qualche modo una<br />

volontà di opporsi a voleri, piaceri, comandamenti imposti dalle varie autorità, non<br />

trova espressione che in un comportamento di apparente non-reazione.<br />

Le motivazioni di questi atteggiamenti e comportamenti sono differenti caso per<br />

caso, come anche diversi sono i risultati che questi comportamenti originano: una<br />

volta trovatasi in una situazione di svantaggio o di pericolo, la protagonista può<br />

scegliere la possibilità di tacere, di non reagire né con le parole né con gli atti alle<br />

pressioni cui è sottoposta, ma in questo modo sa bene di dover subire tutte le<br />

conseguenze del suo agire.<br />

Lisabetta<br />

L’apice della tragicità di questo atteggiamento si trova, a nostro parere, nella figura<br />

di Lisabetta da Messina, protagonista della quinta novella della quarta giornata:<br />

diretta discendente di Ghismonda, per la sua condizione di ragazza non maritata<br />

(Ghismonda era vedova e non più rimaritata, ma anche nel caso di Lisabetta la<br />

responsabilità del suo essere “zitella” viene addossata ai fratelli, i quali che che se ne<br />

fosse cagione, ancora maritata non aveano (IV, 5, 4)), per la sua scelta di tenere<br />

occulta la relazione con Lorenzo, per la differenza sociale che esiste tra lei e<br />

l’amante, per la maniera violenta con cui la famiglia di provenienza decide di<br />

strapparle l’amato bene, Lisabetta sceglie una strada del tutto diversa da quella di<br />

Ghismonda, per reagire alla tragedia amorosa 19 : Ghismunda ha affrontato il padre<br />

19 Se Baratto (1986:135-137) aveva parlato di novella al limite dell’elegia, di un romanzo<br />

tutto sofferto, cercando l’elegia nella logica interna di Lisabetta, e cogliendo in un verbo<br />

come si stava (IV, 5, 11) tutta la staticità, l’immobilità della giovane donna rispetto<br />

all’azione; Mazzamuto (1983:165-168) aveva rilevato il cronotopo insulare, scoprendo nella<br />

38


con un discorso che ha messo il genitore in imbarazzo, lo ha sminuito per statura<br />

morale, ne ha messo in luce i caratteri più «femminei», mentre Lisabetta sceglie di<br />

chiudersi nel silenzio, nell’inedia, nella non-reazione. Anche nel suo caso, di fronte<br />

alla violenza operata nei confronti della vittima designata, Lisabetta decide di<br />

immolarsi, sebbene il suo martirio sia più lento, addirittura in odore di<br />

sadomasochismo, se notiamo con quale efferata cerimoniosità spende ogni sua<br />

energia per lavare con il proprio pianto la testa di Lorenzo, per irrorare di lagrime il<br />

basilico, per accudire quel silenzioso sepolcro domestico con lungo e continuo studio<br />

(lo studium inteso come cura, passione) (IV, 5, 19): risultato ne sarà la perdita della<br />

bellezza, che non era avvenuta per Ghismonda (ma anche la Simona immolerà la<br />

propria bellezza nel dimostrare di quale morte sia deceduto Pasquino, piegandosi<br />

dunque alla metamorfosi inquietante indotta dagli effetti del veleno in IV, 7) e che<br />

segna un carattere specifico di questa novella (anche nella VIII, 7 la vedova Elena<br />

viene fiaccata nella bellezza, dalla vendetta dello studente), in cui la fiera bellezza<br />

femminile si vede minacciata dalla decadenza, dalla rovina, spezzato il filo della sua<br />

ragion d’essere, l’amore.<br />

Il comportamento di Lisabetta è in un certo senso esemplare, da un altro punto di<br />

vista ella sceglie di non arrecare danno alla propria famiglia, in questo caso aderendo<br />

al proposito stesso dei fratelli (acciò che né a loro né alla sirocchia alcuna infamia<br />

ne seguisse (IV, 5, 7)), e pertanto decide di non rivelare l’omicidio, di non accusare i<br />

fratelli manifestamente, di non attentare all’onore della famiglia per rivendicare il<br />

«insularità» di questa storia (...) certa intensità ora eroica ora tragica della passione<br />

amorosa, tutt’uno con una componente di pregiudizialità e fatalità che potrebbe definirsi di<br />

tipo arabo-siculo; e Getto aveva invece sottolineato l’approfondimento della figura tragica di<br />

Lisabetta nella sua volontà di agire di fronte alla visione, e nel suo atto di spiccare il capo di<br />

Lorenzo dal cadavere del giovane, che il critico ricollega chiaramente al gusto tipicamente<br />

medievale delle reliquie, ponendo in risalto il profilo silenzioso di Lisabetta rispetto alla<br />

solennità magnanima delle parole e dei gesti di Ghismonda e della moglie del Rossiglione<br />

(1958:128-129): ci sembra che questi tre pareri critici, che in qualche modo sono un<br />

campione della vasta e “multidirezionale” possibilità di lettura, concordino comunque<br />

sull’elemento del silenzio come “voce della sofferenza”, e sulla necessità di differenziare<br />

questa novella dalle altre della giornata, pur partendo da una lettura comune con le altre due<br />

di Ghismonda e della moglie di Guglielmo di Rossiglione.<br />

39


proprio diritto ad una giustizia che, probabilmente, non sente consona al proprio<br />

comportamento 20 : conscia di aver agito contro il volere dei fratelli, Lisabetta china il<br />

capo di fronte alle scelte violente ed alle intimidazioni di essi (Se tu ne domanderai<br />

più, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene (IV, 5, 10)), e si chiude in un<br />

comportamento che ha scelto già nel momento in cui ha deciso di avere una relazione<br />

segreta con un uomo di altra condizione sociale che la sua. Con tale comportamento,<br />

Lisabetta rafforza un atteggiamento di “connivenza”, per cui di fronte alla violazione<br />

di alcuni diritti “umani” (parliamo dell’omicidio di Lorenzo) si pone più importante<br />

la difesa dell’onore sororale: di contro a tale drastica soluzione, la scelta della donna<br />

è quella di affrontare volontariamente il martirio, nonostante la soluzione<br />

“ponderata” dai fratelli avesse mirato proprio ad evitare che il marchio dell’infamia<br />

ricadesse sulla donna e sulla famiglia. Paradossalmente, la tragedia viene vista – dai<br />

fratelli di Lisabetta – come una “liberazione”, addirittura come la “fine di un<br />

incubo”, se sommiamo la successiva visione ed il fatto che i giovani, dopo<br />

l’omicidio, collegano l’assenza di Lorenzo ad una pratica pressoché quotidiana –<br />

dieder voce d’averlo per loro bisogne mandato in alcun luogo, il che leggiermente<br />

creduto fu, per ciò che spesse volte eran di mandarlo da torno usati (IV, 5, 9) –: non<br />

ci risulta che alcun commentatore abbia letto in questo breve passo un commento<br />

ironico e pressoché cinico all’atto compiuto dai sangimignanesi, rilevando che<br />

quanto essi dicono risponde a verità (certo, un po’ come lo direbbero i masnadieri<br />

che Rinaldo d’Asti aveva incontrato in II, 2), cioè che effettivamente essi hanno<br />

mandato Lorenzo in alcun luogo, proprio per loro bisogne: da qui arguiamo che quel<br />

timore irragionevole di Lisabetta (temendo e non sappiendo che (IV, 5, 11)) sia<br />

originato proprio da un anormale spargere la voce (dieder voce), che per sostanza<br />

verbale è contrario alla natura chiusa e silenziosa della ragazza. La punizione,<br />

20 In questo caso, però, non ci sostiene un discorso quale quello tenuto dalle protagoniste di<br />

IV, 1 e 9, poiché le argomentazioni di Lisabetta non sono esplicite, ma irradiate “di<br />

riflesso”: quasi come, in altra disposizione di spirito, sarà per il dialogo-monologo del Zima<br />

(III, 5), in cui pure alla moglie di messer Francesco de’ Vergellesi viene intimato di non<br />

parlare, anche in questa novella è Lorenzo a parlare per Lisabetta, e sono i suoi fratelli a<br />

testimoniare il fatto che la giovane cerchi “anche verbalmente” il suo amato.<br />

40


dunque, che i mercanti offesi nell’onore comminano a Lorenzo, ricade per scelta<br />

volontaria su Lisabetta, che sceglie – spezzando il filo della propria giovinezza<br />

mediante l’atto di recidere il capo del suo amato dal corpo senza vita di questi – però<br />

di consumarsi lentamente, senza far rumore né scandalo, come era invece avvenuto<br />

per la morte – sempre suicida, ma “pubblica” – di Ghismonda, testimoniando quindi<br />

una diversa eroicità. Questa eroicità si connette, naturalmente, alla scelta di abolire la<br />

possibilità di reagire anche verbalmente all’imposizione che viene dal contesto<br />

familiare. Con la grande finezza psicologica che gli è propria, Boccaccio ci dipinge<br />

dei quadri in cui regna, sovrano, il silenzio, ovvero ci appaiono sovente scene di<br />

tacite assemblee, di sussurrati concilii: l’innamoramento tra Lisabetta e Lorenzo è<br />

innamoramento di sguardi, che non abbisogna della parola, e così i loro incontri<br />

devono esser necessariamente privi di colloquii festosi, tanto che persino<br />

l’apparizione in sogno di Lorenzo si concreta in un discorso udibile soltanto in una<br />

dimensione onirica, dunque non avvertibile “all’esterno”. Da notare, poi, che il<br />

comportamento rispettoso dell’onorabilità è silenzioso, addirittura “omertoso” (senza<br />

far motto o dir cosa alcuna (IV, 5, 6) il fratello di Lisabetta che scopre la relazione<br />

riflette sulla sua scandalosa scoperta), e che esso viene imposto alla giovane sotto<br />

minaccia, al che questa non può che rinunciare a domandare di Lorenzo (la giovane<br />

dolente e trista, temendo e non sappiendo che, senza più domandarne si stava (IV, 5,<br />

11)) ed a riferire poi ai fratelli il contenuto della visione (non avendo ardire di dire 21<br />

alcuna cosa a’ fratelli (IV, 5, 14)). In questa novella potremmo addirittura scorgere<br />

un’allusione ad un quadro comportamentale generale, che non è solo di questa<br />

giovane donna, e dei suoi fratelli, e dei vicini di casa che concorrono ad aggravarne<br />

la situazione, ma che risiede in una mentalità isolana ormai acquisita anche dai<br />

mercanti sangimignanesi: nella sua lettura (meta)bachtiniana della novella, Pietro<br />

Mazzamuto aveva fatto osservare che nel Decameron convergono due cronotopi,<br />

quello della dimora signorile e quello dei traffici mercantili, che a loro volta si<br />

21 Sembra quasi un bisticcio di parole, questo ardire di dire, eppure ha un effetto fonico<br />

sorprendente, se pensiamo che ben tre volte si ripete una traccia del verbo dire, verbo quasi<br />

bandito dalla novella.<br />

41


innestano su di un asse cronotopico, quello dell’area mediterranea, al centro della<br />

quale il cronotopo privilegiato è proprio la Sicilia, che non smentisce, anzi<br />

documenta in forme esemplari, il cronotopo mercantile e signorile, economico e<br />

politico, proprio di tutto il Decameron (Mazzamuto 1983:166); nella novella di<br />

Lisabetta il carattere di «insularità» rientra nella caratterizzazione delle novelle<br />

siciliane di Boccaccio, soprattutto nella intensità ora eroica ora tragica della<br />

passione amorosa, tutt’uno con una componente di pregiudizialità e fatalità che<br />

potrebbe definirsi di tipo arabo-siculo (ivi: 167). In questo modo, viene accentuato in<br />

Lisabetta il desiderio di spogliarsi della sua “sangimignanesità” e di acquisire un<br />

habitus che la rende ligia alle norme della sacralità e dell’autorità domestica (ivi:<br />

168).<br />

Una silenziosa giovinetta<br />

La prima novella del Decameron in cui appaia una figura femminile, è la quarta della<br />

prima giornata, la cosiddetta “novella del monaco e dell’abate”: il tema centrale della<br />

novella, quello cioè dell’accusato che si discolpa dimostrando che l’accusatore ha<br />

commesso lo stesso delitto, era (I, 4, n.1) già nella LIV del Novellino, ma di certo la<br />

novella boccacciana presenta una elaborazione assai più complessa, a partire<br />

dall’ambientazione (in un monastero, invece che nel vescovado), alle impietose<br />

descrizioni dello spiare-origliare del monaco e dell’abate, fino, e soprattutto, alla<br />

caratterizzazione della fanciulla. Nella novella detta del Piovano Porcellino, infatti,<br />

spicca per veemenza l’amante del vescovo, che ha quasi i tratti della venale<br />

Belcolore, per il suo implorare denari e chiedere che le promesse vengano rispettate<br />

(io voglio li danari in mano (62)), mentre la “contadinotta” della novella<br />

decameroniana ha sin dal principio i tratti della fanciulla ingenua e facilmente<br />

“abbindolabile”.<br />

La giovinetta appare sulla scena della narrazione ad esasperare gli appetiti tenuti vivi<br />

dal vigore immarcescibile del giovane monaco 22 : gli venne veduta, quasi preda che<br />

22 A proposito del comportamento di questo monaco e dell’eremita che accoglie Alibech (III,<br />

10), dobbiamo notare che, tutto sommato, sono proprio i digiuni e le veglie ad accrescere il<br />

42


appare al cacciatore, dopo di che si svolge la scena – rapidissima – della seduzione<br />

verbale e della introduzione della ragazza nel monastero. Se però mettiamo da parte<br />

la prospettiva del giovane monaco e le sue pulsioni erotiche, ed osserviamo i fatti da<br />

un’altra ottica, è questa la scena tipica dell’iconografia del diavolo tentatore sotto le<br />

spoglie della bella donna: tutti dormono 23 , il monastero stesso si trova in un luogo<br />

assai solitario, ed ecco che appare la giovinetta, assai bella 24 ed armata – suo<br />

malgrado – di una capacità di affascinare che Boccaccio descrive sotto l’insegna del<br />

gioco, dello scherzare quasi infantile: pure, la sua presenza è silenziosissima, quasi<br />

inavvertibile, e si conosce chiaramente come ella non sia altro che l’oggetto<br />

designato dei piaceri del monaco prima, e poi dell’abate, che cerca di instaurare con<br />

lei un rapporto di maggiore tenerezza, addirittura assumendo una posizione<br />

“contronatura” (la stessa che originerà la gravidanza di Calandrino in IX, 3).<br />

Completamente diversa rispetto alla dinamica e persino insolente Alibech (III, 10),<br />

questa giovinetta è dotata delle tre caratteristiche di passività elencate nella<br />

introduzione da Filomena (mobili, pusillanime e paurose), che ne condizionano il<br />

comportamento e, in qualche modo, ne influenzano persino il destino di donna<br />

destinata ad accondiscendere ai voleri degli uomini che incontra 25 . La vera<br />

complessità della descrizione del suo comportamento sta, a nostro parere, nel fatto<br />

che è lei a rappresentare l’elemento diabolico che entra nel luogo consacrato,<br />

nonostante viva questa particolare dimensione senza mostrare – apparentemente –<br />

alcuna volontà di corruzione, quasi lasciando che l’estraneità immorale della sua<br />

desiderio, al contrario di quanto generalmente argomentato, sia – per esempio – a proposito<br />

del rustico prete di Varlungo (VIII, 2) che a proposito, in generale, dei chierici, nel De amore<br />

del Cappellano, secondo il quale poiché difficilmente si vive senza peccati carnali e la vita<br />

dei chierici per troppo ozio ed eccesso di cibo è naturalmente soggetta alla tentazione del<br />

corpo più di tutti gli uomini al mondo (Cappellano 1992:114-115).<br />

23<br />

Ricordiamo che la stessa situazione sarà “scatenante” anche nella novella di Masetto da<br />

Lamporecchio (III, 1), di cui si parlerà più avanti.<br />

24<br />

Ma chiaramente di condizione non elevata (forse figliuola d’alcuno de’ lavoratori della<br />

contrada) e quindi più facilmente “raggiungibile” dal monaco.<br />

25<br />

Nel corso dell’analisi della seconda giornata vedremo quanto questo venga<br />

paradigmatizzato nel caso di Alatiel, e poi nella terza giornata addirittura esasperato nel falso<br />

mutismo di Masetto: si vedano a questo proposito le considerazioni di Fido 1988:103-110.<br />

43


presenza si diffonda da sola per quei luoghi ormai profanati da una donna. Di fronte<br />

alle parole del giovane monaco, la ragazza si arrende con stupefacente rapidità (...con<br />

lei entrò in parole e tanto andò d’una in altra, che egli si fu accordato con lei... (I, 4,<br />

6)), tanto da divenire di lì a poco quasi inanimata (men cautamente con lei scherzava<br />

(I, 4, 7)) e da rappresentare, per l’abate che ne coglie la presenza, qualcosa di<br />

diabolicamente trascendente: manifestamente conobbe che dentro a quella [dentro la<br />

cella] era femina (I, 4, 7). A questo punto l’attenzione del narratore si concentra sui<br />

sospetti del monaco, che dapprima riesce a spiare il comportamento del superiore,<br />

poi ad architettare una soluzione, senza del suo cruccio niente mostrare alla giovane<br />

(I, 4, 9)! La ragazza viene rinchiusa nella cella, poi “consegnata” per mezzo di una<br />

comunissima chiave all’abate, infine viene sedotta (per la seconda volta in un<br />

giorno!) dal capo della comunità monastica, che non deve far altro che consolarla per<br />

aprirle il suo disidero. In questa impressionante sequenza di eventi non abbiamo<br />

colto che pochissimi riferimenti alla effettiva esistenza di questa donna: sono questi<br />

le voci che l’abate sente venire dalla cella, nonché le lacrime della giovane colta dal<br />

vegliardo nella cella del monaco, ma nel corso della vicenda sono gli uomini a<br />

parlare, a convincere, ad architettare, ad accusare ed a discolparsi, senza che la ignota<br />

fanciulla possa uscire dal suo atteggiamento di – ormai – usuale passività ed<br />

accondiscendenza.<br />

Alatiel<br />

44


La settima novella della seconda giornata è un piccolo romanzo 26 d’avventura,<br />

interamente percorso da un topos intramontabile: quello dell’eterno femminino.<br />

L’ambientazione stessa, che si richiama evidentemente alla tradizione del romanzo<br />

greco e del racconto orientale, vuole ammantare di esotico le caratteristiche di una<br />

donna, Alatiel, la cui bellezza diviene esemplare, unica, irresistibile: potremmo dire<br />

addirittura che la donna – in quanto tale, e nell’ottica boccacciana – scompaia, per<br />

lasciare il posto ad una figurazione trascendentale (Almansi, in 1974:156, parla di<br />

personaggio mitico o, quanto meno, imparentato con un mito), che solo alla fine<br />

della narrazione acquisterà realtà, in virtù della riacquisita possibilità di espressione<br />

verbale. Già la descrizione iniziale (per quello che ciascun che la vedeva dicesse, era<br />

la più bella femina che si vedesse in que’ tempi nel mondo (II, 7, 9)) pone il lettore<br />

davanti ad un ideale irraggiungibile, più che di fronte ad una bellezza – quali ne ha<br />

già incontrate nelle novelle precedenti, per esempio, come la Marchesa del<br />

Monferrato (I, 5), bellissima; Margherida dei Ghisolieri (I, 10), bellissima vedova; la<br />

bellissima vedova che accoglie Rinaldo d’Asti (II, 2); la figlia del re d’Inghilterra (II,<br />

3), anche lei bellissima, e così via, ad libitum –, in quanto che la assolutizzazione<br />

26 Date anche le dimensioni della novella, che è la più lunga dell’intero Decameron, e le<br />

caratteristiche della giornata, che esprime la sua prevalente vocazione romanzesca,<br />

allungando a dismisura, rispetto all’originario nucleo novellistico, l’orizzonte del narrativo<br />

(Asor Rosa 2000:59), ci troviamo di fronte ad una unità di particolare importanza per la<br />

struttura della novella singola rispetto a o indipendentemente dall’opera tutta: Baratto ci<br />

ricorda che le descrizioni veloci e le ripetizioni potrebbero darci l’impressione di uno stile<br />

sciatto, ma non è così, perché lo scopo di Boccaccio è di illuminare le vicende di Alatiel<br />

della luce della normalità, intesa come normalità di vivere tante relazioni una dopo l’altra<br />

(Baratto 1986:97-101); Mazzacurati vede proprio nella vicenda di Alatiel fra «commedia» e<br />

«tragedia», quella condizione di ambivalenza che tornerà nella categoria del «romanzo»<br />

(...); questa potenzialità è già viva nella sua struttura double-face, dove si consuma il gioco<br />

delle parti, nell’incomunicabilità e nella alienazione che investe lei e i suoi successivi<br />

detentori: in un dramma borghese forse il suo ruolo sarebbe stato ridotto a quello di una<br />

sorta di enigmatica «mantide religiosa» (Mazzacurati 1996:57-58); ed Almansi, che ha<br />

dedicato ad Alatiel una delle sue Tre letture boccaccesche, ricorda che questa novella vuole<br />

imporre al lettore una concezione sacrale dell’atto d’amore, e per far questo i personaggi<br />

amanti devono non soltanto scomparire dalla scena dopo l’esperienza «terminale», decisiva:<br />

devono morire, distruggere le loro vite, scomparire «with a bang and not with a whimper»<br />

(Almansi 1974:158). Sono tre tracce di lettura che inseriscono questa novella nel sentiero di<br />

una evoluzione dell’unità-novella, sempre in dipendenza dall’unicità dell’elemento<br />

femminile in essa presente.<br />

45


(triplice) è insieme dell’attributo, nel tempo e nel luogo. Questa bellezza rara è<br />

concessa ad una donna che quasi non vediamo, durante le prime fasi del racconto, e<br />

che anzi si confonde con il proprio seguito femminile, in una sorta di involucro che<br />

deve proteggerla dagli sguardi esterni: involucro che si rompe, fatalmente, con il<br />

naufragio. È questo il primo momento in cui vediamo Alatiel agire, nonostante sia<br />

quasi mezza morta (II, 7, 14), e cadere in balia dello smarrimento: questa sensazione,<br />

che comincia con il risveglio dal naufragio, la accompagnerà per quasi tutta la<br />

novella, diventando un elemento fisso di ogni sua peripezia, insieme con la sua<br />

impossibilità di esprimersi 27 . In contrasto con la “mancanza di favella”, Alatiel parla<br />

un linguaggio del corpo ben più esplicito, nonostante proprio lei ne sia all’oscuro: se<br />

nella novella di Andreuccio l’incontro con Fiordaliso ed il passaggio per la stanza<br />

della donna si concentrano sulla visione del bellissimo letto incortinato (II, 5, 17) che<br />

dovrebbe preannunciare l’avventura galante e quindi la sostituirà in toto, in quanto<br />

visione, nel momento in cui Andreuccio si vedrà rivelata la parentela con la sirocchia<br />

sconosciuta; nel caso di Alatiel è il candore della donna ancora “inesperta” a<br />

provocare i concupiscibili appetiti del primo suo detentore, Pericone: il ritratto di<br />

Alatiel è sempre in penombra (quantunque pallida e assai male in ordine della<br />

persona (II, 7, 21)), ma Pericone coglie facilmente il tesoro nascosto sotto quelle<br />

apparenze poco attraenti (pur pareano le sue fattezze bellissime a Pericone (ibidem))<br />

e decide addirittura di prenderla per moglie! Il proposito, per quanto viene dichiarato<br />

nella narrazione, è dunque “puro” (amore onesto), nonostante il comportamento di<br />

Pericone tenda a sfruttare i punti deboli del sesso femminile, cioè la sensibilità<br />

all’alcool e l’ebbrezza che viene dalla danza, per ottenere una maggiore<br />

arrendevolezza da parte della donna (amore per diletto): non dobbiamo spingerci a<br />

cercare testimonianze antropologiche per comprendere che nella doppia ebbrezza del<br />

vino (alla donna piaceva il vino, sì come a colei che usata non era di bere per la sua<br />

27 Abbiamo in altra sede trattato il problema dell’impossibilità di esprimersi verbalmente e<br />

della connessione di esso con la perdita della verginità, mentre la riacquisizione della<br />

possibilità di esprimersi, o meglio la riacquisizione della possibilità di comunicare nella<br />

propria lingua, porterà Alatiel a riacquistare – virtualmente, si direbbe oggi – la sua verginità<br />

(v. Sciacovelli 1998)<br />

46


legge che il vietava (II, 7, 26)) e della danza (veggendo alcune femine alla guisa di<br />

Maiolica ballare essa alla maniera allessandrina ballò (II, 7, 27)) si nasconde un<br />

rituale di corteggiamento che imita quello animale, caratterizzato dall’ebbrezza che<br />

danno le secrezioni glandulari e dal fascino dei movimenti ritmici (pensiamo alla<br />

ruota del pavone), e che ciò è necessariamente un modo di ovviare alla mancanza di<br />

comunicazione verbale. L’uomo e la donna, dunque, sono riportati ad una sorta di<br />

stato primordiale (ben diverso da quello che si verifica nel caso di madama Beritola),<br />

in cui anche le difese della “pudicizia” vengono meno (con la donna solo se ne entrò<br />

nella camera: la quale, più calda di vino che d’onestà temperata, quasi come se<br />

Pericone una delle sue femine fosse, senza alcuno ritegno di vergogna in presenzia<br />

di lui spogliatasi, se n’entrò nel letto (II, 7, 29)): il comportamento di Alatiel ricalca,<br />

in qualche modo, quello della “donna impudica” che, nell’infuriare della pestilenza,<br />

non curava d’avere a’ suoi servigi uomo, qual che egli si fosse o giovane o altro, e a<br />

lui senza vergogna ogni parte del corpo aprire non altramenti che a una femina<br />

avrebbe fatto (I, intr. 29). È in questo momento che, grazie ad un atteggiamento<br />

doppiamente arrendevole, la femminilità di Alatiel si rivela in tutta la sua naturale<br />

inclinazione al piacere (senza considerare il pericolo della perdita della verginità, che<br />

ritornerà in quanto tale alla fine della novella) e, narrativamente, continua la<br />

“zoomorfizzazione” della descrizione dell’atto erotico (non avendo mai davanti<br />

saputo con che corno gli uomini cozzano (II, 7, 30)), proponendosi come elemento<br />

costante che ovvia alla privazione dell’espressione verbale. L’allusione<br />

moderatamente oscena nasconde però la vera relazione tra i due amanti, in quanto<br />

che la donna è alla mercé del suo ospite, alle attenzioni del quale non può opporre<br />

alcuna resistenza, che non sia quella di concedersi a lui passivamente. 28 Nonostante<br />

Alatiel possieda il privilegio della nobiltà e di una bellezza abbagliante, ella ci appare<br />

forse più vicina, per comportamento, alla cavalla-Gemmata tanto fantasticata – da<br />

28 Nel momento in cui Alatiel “conosce” Perdicone, come accade del resto per Alibech o<br />

addirittura per il giovane Allessandro quando viene accarezzato dalla figlia del re<br />

d’Inghilterra, si spezza un delicato equilibrio, quello dell’innocenza: la perdita della verginità<br />

rappresenta comunque la sottomissione ad un individuo che esercita una forza o addirittura<br />

una violenza, perché possa avvenire un passaggio fondamentale nell’esperienza esistenziale.<br />

47


compar Pietro da Tre Santi –in IX, 10. Nel corso delle numerose avventure che dal<br />

momento del rapimento ordito da Marato le capitano, Alatiel è un elemento in balìa<br />

di questo mare funzionale e simbolico (Almansi 1974:151), ed è dalla velocità dei<br />

flutti sospinta verso sempre nuove “avventure”, è una sorta di “pescato miracoloso”<br />

(anche lei è muta, come i pesci) che si sposta da un punto all’altro di questo<br />

Mediterraneo popolato di pescatori bramosi di una preda eccezionale, ed insieme<br />

condannati a morire dopo il primo contatto con essa. È interessante – e viene<br />

spiegato con il proverbio posto alla fine della novella – come questo continuo<br />

avvicendarsi di eventi e di relazioni amorose, non causi nessun trauma nell’animo<br />

della donna: a madama Beritola, protagonista della novella precedente, era bastato<br />

vedersi sola, abbandonata sull’isola disabitata, per perdere i sensi ed avviarsi poi ad<br />

una strana metamorfosi, mentre Alatiel, nonostante tutto, sembra avere sempre una<br />

speranza di poter, in qualche modo, sopravvivere a questa tirannide del desiderio che<br />

la incalza. L’incontro con Antioco prima, e poi con Antigono (che con i loro nomi,<br />

dichiaratamente appartenenti al mondo dell’Oriente classicheggiante e romanzesco<br />

che Boccaccio cala in questa novella, sembrano mostrarsi contrari – per il comune<br />

prefisso Anti – al comportamento generale degli uomini che incontrano Alatiel),<br />

significano per la donna la liberazione dall’autoproibizione di parlare, ed insieme il<br />

recupero della propria natura umana nella capacità di comunicare verbalmente con<br />

gli altri: liberazione e recupero che segnano la fine della contraffazione fisica legata a<br />

quella dell’identità (Alatiel si era finta muta per non destare sospetti con il proprio<br />

idioma, essendo “in campo nemico”, ma per questo non aveva potuto mai reagire –<br />

almeno a parole – agli “assedi” degli uomini che l’avevano desiderata), e l’inizio di<br />

una nuova contraffazione, di una nuova menzogna, che potrebbe far parte di quelle<br />

bugie di Isotta di cui parla la Fumagalli Beonio Brocchieri (v. Bibliografia). Il<br />

discorso, suggerito da Antigono, è infatti una chiara dimostrazione di quella<br />

inclinazione alla menzogna che ha alimentato, tra gli argomenti del misoginismo<br />

medievale, l’idea che le donne abbiano una capziosità superiore a quella del diavolo,<br />

fino a favorire una identificazione, nell’iconografia soprattutto, del diavolo con la<br />

donna (identificazione “supportata” dal problema della tentazione): le allusioni<br />

48


disseminate nel testo, però, parlano al lettore, che conosce quello che è veramente<br />

accaduto, mentre il testo in sé non è altro che una variante possibile dell’avventura<br />

raccontata dalla novella, che presenta – per motivi tutti femminili – una sostituzione<br />

del prevalente elemento maschile (nella realtà, cioè nella vicenda di Alatiel) con un<br />

elemento femminile (e di volta in volta legato a pratiche monastiche, ovvero a<br />

pratiche religiose di altro genere, come il pellegrinaggio in Terra Santa) che diventa<br />

preponderante e rassicurante.<br />

Il silenzio è d’oro<br />

Nella quinta novella della terza giornata, detta del Zima, ci troviamo di fronte ad una<br />

donna di cui non ci viene rivelato il nome e che – sulle prime – è onesta molto,<br />

sposata ad un uomo molto ricco e savio e avveduto per altro ma avarissimo senza<br />

modo (III, 5, 4). Sappiamo bene quanto sia critico l’atteggiamento di Boccaccio nei<br />

confronti dell’avarizia (la settima novella della prima giornata è una duplice<br />

stigmatizzazione di questo vizio), che viene vista come un impedimento morale alla<br />

nobilitazione dell’uomo: perciò in questa novella, che anticipa per alcuni tratti il<br />

sentimento di sacrificio presente nella novella di Federigo degli Alberighi (V, 9),<br />

sono in contrapposizione un uomo nobile, ricco e di grande peso civile, ed un uomo<br />

di umili natali, che si disputano – per così dire – la moglie del primo, onesta<br />

oltremodo, che viene corteggiata in tutti i modi dal secondo, senza concedergli nulla.<br />

Quando però il ricco cavaliere, per ottenere dal Zima un meraviglioso cavallo, chiede<br />

alla donna di concedere udienza al suo corteggiatore ma senza profferir verbo, la<br />

dedizione della dama nei confronti del marito comincia a vacillare: biasimò molto<br />

questa cosa, ma pure, convenendole seguire i piaceri del marito, disse di farlo (III, 5,<br />

9). L’atteggiamento della donna si conforma prefettamente a quel rispetto della<br />

sacralità domestica che non in un’occasione viene messo in crisi dai meccanismi<br />

narrativi del Decameron (pensiamo al caso di madonna Dianora). Ancora una volta,<br />

dopo l’episodio di Alatiel, Boccaccio utilizza l’espediente del silenzio per illustrare<br />

da un punto di vista privilegiato un meccanismo di seduzione: la donna deve star<br />

49


zitta, per questo sarà il Zima ad interpretare tutte e due le parti del dialogo 29 . Al<br />

lettore non sfugge però che mentre il Zima viene caratterizzato da una logorroicità<br />

imposta dalla situazione, la presenza della donna da lui corteggiata è meglio definita<br />

dall’apparire delle reazioni al sincero sfogo amoroso del giovane: cominciò a sentire<br />

ciò che prima mai non aveva sentito (III, 5, 17), non potè per ciò alcun sospiretto<br />

nascondere (ibidem), veggendo alcun lampeggiar d’occhi di lei (III, 5, 18). Ben più<br />

complesso di quello del Zima, dunque, è il linguaggio di minutissimi segnali che la<br />

donna deve utilizzare per far capire qualcosa che ella stessa sta appena vivendo come<br />

una novità: dal biasimo provato nei confronti del marito, si passa poi a quel<br />

ragionamento tra sé, tutto interrogative concitate che si affollano intorno al desiderio<br />

di portare a compimento il nuovo sentimento d’amore: Che fo io? Perché perdo io la<br />

mia giovanezza? Questi se ne è andato a Melano e non tornerà di questi sei mesi; e<br />

quando me gli ristorerà egli giammai?quando io sarò vecchia? E oltre a questo,<br />

quando troverò io mai un così fatto amante come è il Zima? (III, 5, 30). L’incalzare<br />

delle domande è assai simile, anche per il tono delle domande, a quanto si chiede<br />

l’abate della I, 4 di fronte alla possibilità di poter approfittare della giovane entrata di<br />

nascosto nella cella del monaco: tutti e due, la moglie di messer Francesco<br />

de’Vergellesi e l’abate, cercano una giustificazione che permetta loro di compiere<br />

quello che desiderano, scaricando in parte la coscienza dal peso del peccato e del<br />

rimorso. In questo caso, però, la donna deve mostrare al marito un’accondiscendenza<br />

passiva – e, diremo, immotivata – che si deve realizzare nella muta resistenza agli<br />

assalti del giovane corteggiatore. Il doppio compito che l’avido marito affida alla<br />

moglie è inevitabilmente destinato a danneggiare lui stesso, ma apparentemente tutto<br />

si svolge come messer Francesco ha architettato, né il Zima può lamentarsi di non<br />

aver ottenuto quanto sperava: in realtà, è la donna a doversi piegare ai voleri di<br />

ambedue gli uomini che impongono su di lei la loro differente autorità.<br />

29 Sviluppando ulteriormente l’indagine sulla connessione tra silenzio ed attività erotiche<br />

individuato già da Segre a partire dalla novella di Alatiel, Fido si sofferma proprio<br />

sull’analisi di questo dialogo e sulle connessioni nuove tra silenzio, attività erotiche e cavalli<br />

che rendono la novella del Zima ben prossima a quella di Donno Gianni (IX, 10) (Fido<br />

1988:105-106).<br />

50


Griselda<br />

Una delle figure immortali del Decameron, ed insieme delle più studiate, è quella di<br />

Griselda, protagonista dell’ultima novella della raccolta: data la posizione di questa<br />

unità narrativa, ed il fatto che la racconti Dioneo – depositario del diritto di narrare<br />

liberamente –, si tratta senza dubbio di una novella che ricopre una funzione<br />

particolare rispetto alle altre. 30<br />

Il vero protagonista della novella, se dobbiamo attribuire ai protagonisti anche il<br />

privilegio di “muovere” le azioni, è però il marchese Gualtieri: di fronte alla<br />

prospettiva di una vita familiare che prima o poi gli verrà imposta, il giovane<br />

marchese non pensa che a cacciare ed a godersi la vita, riservandosi forse per un<br />

tempo a venire il cruccio di cercare una compagna adatta al proseguimento della<br />

schiatta (né di prender moglie né d’aver figliuoli alcun pensiero avea; di che egli era<br />

da reputar molto savio (X, 10, 4)). Sono però le pressioni continue dei suoi vassalli a<br />

spingerlo ad esasperare la propria idiosincrasia nei confronti dell’istituto<br />

matrimoniale, e quindi ad esporre la propria teoria riguardo un tema di eterna<br />

attualità, ovvero la possibilità che due persone possano convivere in armonia:<br />

«Amici miei, voi mi strignete a quello che io del tutto aveva disposto di<br />

non far mai, considerando quanto grave cosa sia a poter trovare chi co’<br />

suoi costumi ben si convenga e quanto del contrario sia grande la copia,<br />

e come dura vita sia quella di colui che a donna non bene a sé<br />

conveniente s’abbatte. E il dire che voi vi crediate a’ costumi de’ padri e<br />

delle madri le figliuole conoscere, donde argomentate di darlami tal che<br />

mi piacerà, è una sciocchezza, con ciò sia cosa che io non sappia dove i<br />

padri possiate conoscere né come i segreti delle madri di quelle:<br />

30 Oltre al naturale confronto-parallelo tra I, 1 e X, 10, ovvero tra Ser Cepparello e Griselda,<br />

pensiamo anche al fatto che, essendo questa l’ultima occasione di narrare, in essa si<br />

raggiungono degli estremi semantici finora non raggiunti, sia per la situazione narrativa che<br />

per il profilo psicologico dei personaggi che entro essa si muovono.<br />

51


quantunque, pur conoscendogli, sieno spesse volte le figliuole a’ padri e<br />

alle madri dissimili... (X, 10, 6-7)<br />

Il ragionamento di Gualtieri è assai contraddittorio, pur se pare avere una sua<br />

coerenza interna di alquanto grossolana misoginia: stupisce infatti che il maggiore di<br />

una casa “regnante”, investito della responsabilità di governare non soltanto nella<br />

dimensione del presente, ma sempre con un occhio al futuro, possa pensare di<br />

sottrarsi all’obbligo, strettamente connesso alla ragion di stato, di costituire una<br />

famiglia che, oltre a simbolizzare per se stessa l’integrità dello stato, avrebbe fornito<br />

il successore al comando di esso. La preoccupazione dei vassalli, ovvero dei<br />

consiglieri del marchese, è dunque giustificata in quell’ottica di limitazione<br />

dell’arbitrio personale che riguardava la vita privata dei governanti, limitazione cui il<br />

marchese Gualtieri vuole palesemente sfuggire, tanto da argomentare di seguito:<br />

Ma poi che pure in queste catene vi piace d’annodarmi, e io voglio esser<br />

contento; e acciò che io non abbia da dolermi d’altrui che di me, se mal<br />

venisse fatto, io stesso ne voglio essere il trovatore, affermandovi che,<br />

cui che io mi tolga, se da voi non fia come donna onorata, voi proverete<br />

con gran vostro danno quanto grave mi sia l’aver contra mia voglia<br />

presa mogliere a’ vostri prieghi. (X, 10, 8)<br />

Il discorso di Gualtieri sembra voler prevenire le conseguenze di una situazione<br />

simile a quella della nona novella della terza giornata, in cui il re di Francia, guarito<br />

da Giletta di Nerbona, acconsente a che ella sposi Beltramo di Rossiglione, cui però<br />

deve imporre questo matrimonio:<br />

«Beltramo, voi siete omai grande e fornito: noi vogliamo che voi torniate<br />

a governare il vostro contado e con voi ne meniate una damigella la<br />

quale noi v’abbiamo per moglier data».<br />

52


Disse Beltramo: «E chi è la damigella, monsignore?»<br />

A cui il re rispose: «Ella è colei la quale n’ha con le sue medicine sanità<br />

renduta». (...)<br />

«Monsignore, dunque mi volete voi dar medica per mogliere? Già a Dio<br />

non piaccia che io sì fatta femina prenda giammai». (...) «Monsignore,»<br />

disse Beltramo «voi mi potete torre quanto io tengo, e donarmi, sì come<br />

vostro uomo, a chi vi piace; ma di questo vi rendo sicuro che mai io non<br />

sarò di tal maritaggio contento».<br />

«Sì sarete » disse il re «per ciò che la damigella è bella e savia e amavi<br />

molto: per che speriamo che molto più lieta vita con lei avrete che con<br />

una dama di più alto legnaggio non avreste». (III, 9, 19-25)<br />

Il compromesso a cui il re di Francia deve piegarsi è quasi inspiegabile, soprattutto<br />

agli occhi del giovane conte: dimenticare del tutto l’importanza del lignaggio,<br />

sopravvalutare doti umane (la damigella è bella e savia e amavi molto) oggettive<br />

rispetto al valore “universale” della nobiltà di sangue (che legittima il re stesso, in<br />

quanto depositario dell’autorità feudale (voi mi potete torre quanto io tengo, e<br />

donarmi, sì come vostro uomo, a chi vi piace)), soltanto per tenere fede ad una<br />

promessa! 31<br />

Nel caso di Gualtieri, dunque, non si vuole che la responsabilità della scelta ricada su<br />

altri che non sul soggetto stesso del matrimonio: per questo motivo egli capovolge la<br />

situazione di III, 9, mettendosi “al posto del re” e scegliendo la futura moglie per le<br />

sue qualità umane (Erano a Gualtieri buona pezza piaciuti i costumi d’una povera<br />

giovinetta che d’una villa vicina a casa sua era, e parendogli bella assai estimò che<br />

con costei dovesse potere aver vita assai consolata. (X, 10, 9)), escludendo subito la<br />

possibilità di sceglierla in base al lignaggio. In questo momento appare per la prima<br />

31 Davvero è possibile che il re decida per questo strano maritaggio anche in base al<br />

ragionamento per cui la casata dei conti di Rossiglione comunque non si estinguerà, mentre<br />

in un altro caso “increscioso” Boccaccio aveva ritenuta necessaria addirittura l’intercessione<br />

del Papa, nella terza novella della seconda giornata, quando un giovane senza lignaggio e la<br />

figlia del re d’Inghilterra decidono di consacrare la propria unione.<br />

53


volta una descrizione usuale della protagonista femminile, che pure non ha ancora<br />

una sua personalità, ma soggiace all’autorità paterna: Gualtieri infatti, come è<br />

naturale, fattosi il padre chiamare, con lui, che poverissimo era 32 , si convenne di<br />

torla per moglie. (X, 10, ) Segue la descrizione dei preparativi delle nozze, che<br />

assumono il valore simbolico di una “prova” per tutti: per i sudditi che dovranno<br />

accettare di avere per “signora” una donna che proviene dal ceto più umile della<br />

comunità, per Gualtieri che con quest’atto deve necessariamente ovviare al naturale<br />

comportamento dell’aristocrazia, ed infine per Griselda, che dovrà impersonare un<br />

ruolo per cui non è nata (ma Boccaccio ci dimostrerà che non sempre ciò è<br />

necessario, come aveva già fatto in III, 9).<br />

Il giorno delle nozze Gualtieri si dirige a casa di Griselda, ma – come aveva già fatto<br />

in precedenza – parla prima di tutto con il padre di lei, dopo di che espone alla<br />

giovane il proprio volere, piacere e comandamento:<br />

... e domandolla se ella sempre, togliendola egli per moglie,<br />

s’ingegnerebbe di compiacergli e di niuna cosa che egli dicesse o<br />

facesse non turbarsi, e se ella sarebbe obediente e simili altre cose assai,<br />

delle quali ella a tutte rispose di sì. (X, 10, 18)<br />

L’accettazione unilaterale di questo patto, in cui Gualtieri promette soltanto di<br />

prendere Griselda per moglie, evidenziando il ruolo di esclusiva attività del marito<br />

nei confronti di quello di schietta passività della moglie, addirittura facendo<br />

presentire la “particolarità” del legame in quel di niuna cosa che egli dicesse o<br />

32 L’lemento oggettivamente più assurdo di questo iter è il fatto che lo spregiudicato “gioco”<br />

di Gualtieri escluda uno dei principali moventi dei matrimoni dell’aristocrazia, ovvero quello<br />

di sancire alleanze, di unire patrimoni, che costituiva anche una delle finalità massime<br />

dell’unione matrimoniale come simbolo di armonia sociale. L’esemplarità dell’episodio, che<br />

da questo punto di vista si ricollega al topos illustrato in II, 3 e che comunque appartiene<br />

soprattutto alla letteratura fantastica ed alla fiaba di magia, rende naturalmente giustificato il<br />

comportamento altrettanto esemplare dei “coprotagonisti”, ovvero di quei personaggi che in<br />

virtù di queste unioni matrimoniali riescono a scalare la gerarchia sociale ed a raggiungerne<br />

l’apice.<br />

54


facesse non turbarsi, indica chiaramente la volontà di Griselda di sottomettersi ad un<br />

volere superiore, non crediamo per spirito di sacrificio esemplare, quanto piuttosto<br />

per una sorta di abitudine all’obbedienza, ben racchiusa in quei costumi osservati da<br />

Gualtieri all’inizio della sua riflessione sulla futura sposa. Nella sequenza successiva<br />

la reificazione di Griselda raggiunge il culmine nella scena della vestizione:<br />

possiamo immaginare che una povera contadina non fosse abituata a farsi spogliare e<br />

vestire come era invece abitudine aristocratica, e qui il cerimoniale della vestizione<br />

della sposa è intessuto di una serie di fattitivi (la fece spogliare, la fece vestire e<br />

calzare, le fece mettere una corona (X, 10, 19)) che nonostante sembrino indicare un<br />

diritto della nuova condizione sociale di Griselda, in realtà sottintendono la sua<br />

trasformazione in oggetto nelle mani di Gualtieri, addirittura in una specie di<br />

bambola che spogliamo e vestiamo per averne divertimento. Questo è almeno il<br />

parere di Gualtieri, che cerca in Griselda quella molle cera da plasmare a suo<br />

piacimento, a che l’armonia del matrimonio sia perfetta, sacrificando quella che<br />

potrebbe essere la personalità della sposa, ed annullandola.<br />

Boccaccio ci presenta poi la “nuova” Griselda, che altro non è che una proiezione<br />

della signora ideale, come Gualtieri aveva desiderato che fosse: le virtù naturali,<br />

accresciute dalla nuova condizione, cancellano – apparentemente – il passato di<br />

Griselda, confermandone però quelle due virtù (tanto obediente al marito e tanto<br />

servente (X, 10, 24)) che condizionano il suo comportamento a venire. Dobbiamo<br />

ricordare che l’obbedienza al marito costituisce uno dei fondamenti stessi dell’unione<br />

matrimoniale, anche se di epoca in epoca l’interpretazione di questo precetto ha<br />

subito dei cambiamenti: da questo punto di vista, la novella si pone il giusto<br />

interrogativo – che la morale applica a molte delle situazioni ordinarie e straordinarie<br />

della vita dell’umanità – se sia possibile discernere il limite oltre il quale questa<br />

obbedienza si scontra con gli altri principi morali alla base dell’esistenza umana,<br />

quali il diritto di conservazione della vita, l’amore verso i propri figli, il rispetto della<br />

dignità umana, e così via.<br />

Quell’armonia che regna tra Gualtieri e Griselda, infatti, viene turbata dal marchese<br />

stesso, che in base ad un suo piano prestabilito, inizia progressivamente ad attaccare<br />

55


il complesso dei sentimenti umani di Griselda, ed insieme a soffocarne la dignità di<br />

donna, signora, madre, sposa.<br />

Da questo momento è il narratore a guidarci nella osservazione del(l’inspiegabile)<br />

comportamento di Griselda, attribuendole formule di risposta che denotano la<br />

volontà di umiliarsi completamente di fronte all’autorità maritale (e signorile)<br />

rappresentata dall’arbitrio di Gualtieri: alla prima richiesta, quella del sacrificio della<br />

figlia nata dalla loro unione, Griselda dimostra prima di non essere in alcuna<br />

superbia levata per onore che egli (Gualtieri) o altri fatto l’avesse (X, 10, 29), poi di<br />

non esitare neanche davanti al sacrificio della propria creatura, che pure non viene<br />

esplicitamente dichiarato dal servo incaricato di portargliela via (Egli m’ha<br />

comandato che io prenda questa vostra figliuola e ch’io...» e non disse più 33 (X, 10,<br />

30)). La caratterizzazione psicologica risiede tutta in quel come che gran noia nel<br />

cuor sentisse, senza mutar viso in braccio la pose al famigliare (X, 10, 31) in cui<br />

Boccaccio riesce a sublimare l’atteggiamento passivo di Griselda verso quanto<br />

avviene intorno a lei, e la riguarda direttamente, invocando la sua responsabilità di<br />

madre: la giustificazione di questo agire viene offerta dalla donna stessa, che la fonda<br />

su quella cieca obbedienza che ha giurato al marito, e che in qualche modo serve a<br />

colmare l’enorme distanza sociale fra i due («Signor mio, fa di me quello che tu credi<br />

che più tuo onore o consolazion sia, che io sarò tutta contenta, sì come colei che<br />

conosco che (...) io non era degna di questo onore al quale tu per tua cortesia mi<br />

recasti.» (X, 10, 28)).<br />

Quando poi Gualtieri manda per lo figliuolo, è addirittura egli stesso a meravigliarsi<br />

dell’atteggiamento impassibile della moglie: il dubbio che lo assale è che Griselda<br />

possa non aver affetto per i figli, dubbio che sembra svanire di fronte alla certezza di<br />

una profondità della sua disposizione materna (e se non fosse che carnalissima de’<br />

figliuoli, mentre gli piacea, la vedea (X, 10, 38)). Eppure proprio in questo<br />

approfondimento della riflessione dilemmatica di Gualtieri, il narratore ci propone<br />

33 La reticenza lascia soltanto intendere qualcosa di terribile a venire, ma in realtà nulla viene<br />

dichiarato apertamente: su questo gioco di sottintesi si fonda poi anche la richiesta seguente<br />

di Gualtieri, diretta all’allontanamento dell’altro “contestato” frutto della sua unione con<br />

Griselda.<br />

56


una interessante lettura della reazione “razionale” di Griselda: e se non fosse che<br />

carnalissima de’ figliuoli, mentre gli piacea, la vedea, lei avrebbe creduto ciò fare<br />

per più non curarsene, dove come savia lei farlo cognobbe. (X, 10, 38) Siamo<br />

alquanto dubbiosi sul significato di quel savia, che Dioneo potrebbe usare<br />

ironicamente, e che in qualche modo riflette la coerenza dell’agire di Griselda con<br />

quanto da lei prefissosi al momento dell’impegno matrimoniale. Il fatto che sia savia<br />

indicherebbe allo stesso tempo il fatto che Griselda non è folle, nel senso di madre<br />

snaturata, ma addirittura che tale comportamento, di cui lo stesso marchese<br />

riconosce l’eccezionalità (seco stesso affermava niuna altra femina questo poter fare<br />

che ella faceva (X, 10, 38)), è indice di saggezza, ovvero di un comportamento<br />

lineare, razionale addirittura!<br />

È a questo punto che, come avviene in altri momenti della narrazione boccacciana,<br />

interviene il commento della comunità (come nel caso di Ghismunda: con general<br />

dolore di tutti i salernetani (IV, 1, 62)) che non è disposta a tollerare tali<br />

“ingiustizie” ed immediatamente riconosce in Griselda la vittima del despotismo di<br />

Gualtieri (reputavanlo crudele uomo e alla donna avevan grandissima compassione<br />

(X, 10, 39)): anche in questo caso, però, la donna non è disposta a venir meno al suo<br />

voto di obbedienza, se risponde alle donne che con lei de’ figliuoli così morti si<br />

condoleano, di essere totalmente (e passivamente) sottoposta al volere dell’autorità<br />

maritale: quello ne piaceva a lei che a colui che generati gli aveva (X, 10, 39).<br />

L’accettazione delle imposizioni che vengono dal potere dispotico di Gualtieri,<br />

nonostante di volta in volta apra larghe ferite nel cuore della donna, non riesce a<br />

generare una forma di reazione – più o meno orgogliosa – che si manifesti anche al<br />

di là di quanto è evidente si verifichi nel profondo dell’anima di Griselda: quando<br />

Gualtieri appronta l’ultima prova, che mira ad umiliare l’orgoglio di sposa della<br />

moglie che tanto affezionata si è sinora dimostrata, finalmente vediamo addotta una<br />

motivazione umana al dolore, parendole dovere sperare di (...) vedere a un’altra<br />

donna tener colui al quale ella voleva tutto il suo bene, forte in se medesima si dolea<br />

(X, 10, 41), dovuta probabilmente al fatto che in questa riflessione la donna vede<br />

annullarsi tutti i sacrifici sinora accettati, alla base dei quali c’era la fiducia<br />

57


nell’istituzione matrimoniale intesa come totale dedizione all’uomo che si ama, e che<br />

in questo caso le era stato imposto di amare, non senza chiedere, però, la sua<br />

accondiscendenza. Il discorso con il quale Griselda accetta di rinunciare al suo<br />

vincolo coniugale, una volta esibite le false lettere del pontefice che sanciscono<br />

l’annullamento del matrimonio, non manca anch’esso di una sua “perversa” logica,<br />

assai simile a quella in principio di novella addotta da Gualtieri a spiegare le ragioni<br />

della sua antipatia per il matrimonio: non valgono le leggi dell’amore, dell’affetto<br />

coniugale, già abbondantemente ignorato negli episodi precedenti che avevano visto<br />

turbata l’armonia stessa della famiglia, su tutto prevale quel privilegio di lignaggio<br />

che sembrava non aver importanza alcuna all’inizio della narrazione. Per uno strano<br />

paradosso, il comportamento anomalo di Gualtieri (prendere in moglie una donna<br />

senza rango) viene commendato dalla presa di posizione di Griselda, che così<br />

argomenta:<br />

«Signor mio, io conobbi sempre la mia bassa condizione alla vostra<br />

nobilità in alcun modo non convenirsi, e quello che io son stata con voi<br />

da Dio e da voi il riconoscea, né mai, come donatolmi, mio il feci o tenni<br />

ma sempre l’ebbi come prestatomi; piacevi di rivolerlo, e a me dee<br />

piacere e piace di renderlovi: ecco il vostro anello col quale voi mi<br />

sposaste, prendetelo. (X, 10, 44)<br />

La condizione di Griselda regredisce dunque a quella di concubina, di madre di figli<br />

naturali, che sicuramente aveva ed avrebbe avuto una sua collocazione sociale e<br />

familiare ben precisa, non solo in seno alle famiglie nobili ed aristocratiche, ma<br />

anche in quelle della media ed alta borghesia: l’arditezza dell’immagine giuridica è<br />

più che altro stupefacente, in quanto parla di un vincolo matrimoniale che oggi si<br />

definirebbe “in comodato”, e che contiene una implicita negazione dei principi di<br />

indissolubilità del legame coniugale. L’accettazione passiva di questa oltremodo<br />

giuridicamente non troppo chiara imposizione, se da un lato rende ancora più salde la<br />

fiducia e l’ammirazione del temerario marchese nei confronti di Griselda, rendendola<br />

58


ai suoi occhi donna di statura morale irraggiungibile (soprattutto nella fermezza del<br />

comportamento), dall’altro ci convince dell’assoluta mancanza, da parte di Griselda,<br />

di un giusto metro di interpretazione del sistema di diritti e doveri su cui si basano i<br />

rapporti umani. Nell’ultimissima umiliazione, il confronto tra Griselda e la nuova<br />

sposa, troviamo l’interpretazione definitiva che la figlia di Giannucolo offre del<br />

proprio comportamento:<br />

ma quanto posso vi priego che quelle punture, le quali all’altra, che<br />

vostra fu, già deste, non diate a questa, ché appena che io creda che ella<br />

le potesse sostenere, sì perché più giovane è e sì ancora perché in<br />

dilicatezze è allevata, ove colei in continue fatiche da piccolina era stata.<br />

(X, 10, 59)<br />

Si tratta di un’analisi sociologica precisa, che si potrebbe a posteriori applicare<br />

all’assurdo atteggiamento sinora tenuto da Griselda, per giustificarlo, ma che<br />

potremmo addirittura impiegare per comprendere altre figure, che ben altrimenti<br />

reagiscono all’arbitrio di padri, fratelli e mariti: l’animo temprato da fatiche,<br />

difficoltà ed umiliazioni, riesce a sopportare meglio le imposizioni arbitrarie<br />

dell’autorità paterna o maritale, di quanto faccia l’animo di chi cresce tra le<br />

raffinatezze; di conseguenza, chi appartiene ad una classe sociale privilegiata,<br />

proprio per l’attitudine a non accettare passivamente le imposizioni, deve di necessità<br />

comportarsi secondo quanto ci si attende dal suo lignaggio.<br />

Ne deriva una svalutazione della virtù intrinseca di Griselda (che pure Gualtieri sa<br />

non essere sciocca, essendo certo ciò per mentecattaggine non avvenire, per ciò che<br />

savia molto la conoscea (X, 10, 58)) che va però tutta a vantaggio della nuova<br />

considerazione che del loro signore avranno i sudditi, i quali savissimo reputaron<br />

Gualtieri, come che troppo reputassero agre e intollerabili l’esperienze prese della<br />

sua donna (X, 10, 66): in questo modo si ricostituisce quella armonia che era stata<br />

creata con il matrimonio e poi lentamente e temerariamente distrutta<br />

dall’esperimento del marchese. La bella favola della contadina che diventa marchesa<br />

59


è passata attraverso prove di indicibile disumanità, che Griselda ha accettato con<br />

silenziosa rassegnazione, rafforzando il campo delle figure femminili del Decameron<br />

che scelgono di non opporsi a soprusi ingiustificati.<br />

60


Come abbiamo visto, queste figure femminili che rappresentano la tipologia<br />

comportamentale della resistenza passiva agli eventi, vengono caratterizzate<br />

innanzitutto dalla “menomazione” verbale: per conseguenza degli eventi negativi in<br />

cui si trovano coinvolte, la loro funzione espressiva si concreta diversamente, ad<br />

esempio nell’uso del fascino sensuale, o nella comunicazione attraverso il sogno,<br />

ovvero con l’esternazione mediante minuscoli movimenti del volto. Lo scopo di tutto<br />

questo è confrontarsi con la situazione conflittuale senza scegliere la strategia<br />

dell’attacco, ma quella di una difesa motivata dal rispetto di valori spesso messi in<br />

pericolo dalla stessa situazione di conflitto.<br />

61


Lo spirito di iniziativa e la reazione verbale<br />

Uno schema di caratterizzazione delle protagoniste del Decameron, che Boccaccio<br />

adotta spesso e volentieri (e che in fondo caratterizza, in chiave di approccio intimo,<br />

tutto il disegno compositivo della Elegia di madonna Fiammetta) in contrasto<br />

stridente con il comportamento di altre figure “animate” da una passività disarmante<br />

ed esasperata (Alatiel, Lisabetta, Griselda), è quello di una inusitata reazione verbale<br />

agli elementi di pressione autoritaria: tale caratterizzazione ha, come risultato<br />

immediato, quello di sminuire i personaggi maschili che provocano il conflitto, e ci<br />

sembra che i critici dell’opera boccacciana si siano soffermati piuttosto su questo<br />

aspetto del confronto, attribuendo la funzione retorica delle protagoniste – in tal<br />

modo sovradimensionate, per così dire – ad una sorta di incarnazione dello spirito<br />

d’amore, quindi non sempre cogliendo il paradigma di novità che probabilmente<br />

Boccaccio si prefiggeva rispetto agli schemi della letteratura tradizionale. Getto<br />

aveva infatti inquadrato la novella – secondo noi esemplare – di Ghismonda nella<br />

volontà dell’autore di cimentarsi in una vera e propria storia d’amore (1958:95),<br />

facendo risalire questo tentativo alle prove precedenti (a partire da I, 5 e 10) e<br />

riducendo l’analisi della novella allo schema del «triangolo», che comunque<br />

caratterizza gran parte delle unità narrative dell’opera, e da cui risulta un’attenzione<br />

maggiore al comportamento di inferiorità di Tancredi rispetto alla levatura morale<br />

della figlia; Muscetta, appellandosi alla conferma che trova in Baratto, Almansi e<br />

Moravia, rinsalda l’opinione che questa tragedia abbia per protagonista Tancredi e<br />

il suo «tenero amore» per la figlia; nella sua monografia sui problemi strutturali<br />

della IV giornata, Forni richiama l’attenzione del lettore sulla sconcertante<br />

somiglianza tra l’episodio narrato da Fiammetta e la storia di Paolo e Francesca (con<br />

la possibilità che Boccaccio abbia rimodellato la versione della pietosa storia dei due<br />

amanti romagnoli, nelle Esposizioni, richiamandosi alla propria novella) per<br />

ricondurre lo schema narrativo stesso della giornata ad una serie di ritratti di<br />

personaggi maschili in contrasto fra di loro (Tancredi–Guiscardo, fratelli di<br />

Lisabetta–Lorenzo, Guglielmo–Guglielmo), accanto ai quali le “eroine” sono<br />

62


chiamate a rappresentare la carnalità (Forni 1992:69-99). A noi pare però importante<br />

sottolineare che la caratterizzazione tipologica che Boccaccio adotta nel caso di<br />

Ghismonda e negli esempi che con esso hanno una intrinseca relazione di parentela,<br />

risponda piuttosto al desiderio di dare diversa centralità al personaggio femminile<br />

coinvolto, al fine di esprimerne la diversa valenza rispetto ad altre figure presenti in<br />

altre novelle.<br />

Ghismunda<br />

In apertura della quarta giornata, dunque, Fiammetta narra una novella di<br />

ambientazione normanna, per la scelta dei luoghi e dei nomi, e che si basa<br />

sicuramente su alcune suggestioni “longobarde” che influiscono sul tono “orrido”<br />

della novella 34 e che imprimono un carattere peculiare alla protagonista femminile di<br />

essa, la bella Ghismunda. Unica figlia di Tancredi, principe di Salerno, andata sposa<br />

giovanissima ad un figlio del duca di Capua, poco tempo dimorata con lui, rimase<br />

vedova e al padre tornossi (IV, 1, 4). In poche significative e quotidiane parole,<br />

Boccaccio ci dipinge tutta la transitorietà dello stato di Ghismunda: la sua condizione<br />

di vedova non le consente altra scelta che il ritorno al paterno ostello, ed il genitore<br />

(tenero padre (IV, 1, 5)) non fa nulla per farla risposare 35 . Ghismunda vive la sua<br />

condizione femminile secondo una dicotomia (indicata chiaramente da Vittorio<br />

34 Il particolare del cuore nel calice è un forte richiamo all’episodio di Rosmunda ricordato<br />

da Paolo Diacono, ed anche l’evidente consonanza dei due nomi femminili riesce a<br />

conservare questa suggestione.<br />

35 La tragedia della novella si manifesta sin dall’inizio nelle annotazioni che subliminalmente<br />

l’autore pone nei suoi commenti, a rivelare anzitempo la natura dell’amore di Tancredi per<br />

Ghismunda: non tutti i critici sono però d’accordo nel leggervi la possibilità di un amore<br />

incestuoso, se è vero che per Petrini è l’oratoria di Ghismunda a costituire il vero interesse<br />

per questa novella definita alta anche per l’estremismo della tragedia (1986:56); per Russo<br />

il principe Tancredi è in tutto e per tutto un personaggio mancato, è soltanto un pover’uomo<br />

(1977:162); opinione che Getto confutò ricordando quanto sia efficace quest’uomo che non<br />

sa dominare gli eventi, che crede di guidarli e se ne fa travolgere (1958:101); è Almansi a<br />

portare chiaramente la sua analisi (Tancredi e Ghismonda) sul percorso indicato da<br />

Muscetta, per cui sarebbe Tancredi il vero protagonista della novella, ed a prolungarlo nel<br />

senso per cui, nonostante il sentimento incestuoso sia fuori della novella, il testo è un<br />

continuo invito al lettore a compiere questo atto intuitivo (1972:163).<br />

63


Russo in 1983:96-97) per cui ella è insieme «donna» per la sua saggezza e<br />

«femmina» per la sua bellezza: bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra<br />

femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si<br />

richiedea (IV, 1, 5) 36 . Dunque, Ghismunda è «femmina» per quanto riguarda le sue<br />

pulsioni erotiche (si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un<br />

valoroso amante (IV, 1, 5)), mentre è «donna» quando riflette (l’occultamente<br />

appena citato è un chiaro esempio di saggia discrezione), quando argomenta e<br />

delinea le proprie ragioni (nel discorso che chiude il suo rapporto filiale ed umano<br />

con Tancredi), e la narrazione sembra attenersi a questa binomia. Boccaccio,<br />

generalmente attento alle espressioni significative “nascoste” nel testo (si veda per<br />

esempio l’uso degli avverbi nella I, 4), è ora attentissimo alla traccia semantica che<br />

individua di volta in volta l’«anima» di femmina o di donna di Ghismunda: quando<br />

deve escogitare il modo di aver convegno con Guiscardo, ella è donna (IV, 1, 9) o<br />

innamorata donna (IV, 1, 10); dal punto di vista di Tancredi, si tratta di una figliuola<br />

(IV, 1, 16, 25, 29, 46, 47, 59 ma nell’italiano meridionale la parola ha piuttosto il<br />

significato di giovanetta), che di fronte al dolore non si comporta come il più le<br />

femine fanno (IV, 1, 30) e davanti al rimprovero non si rifugia nello status di dolente<br />

femina (IV, 1, 31); infine, posta di fronte alla possibilità del sacrificio della propria<br />

vita, piange senza fare alcun feminil romore (IV, 1, 55) ed affida l’ultimo messaggio<br />

al padre da «donna» (Al quale la donna disse... (IV, 1, 60)). La sua perorazione<br />

d’amore ha avuto illustri commentatori, e rientra in quella serie di “discorsi” che<br />

Boccaccio mette in bocca a personaggi femminili onde difendere determinate<br />

posizioni e scelte, discorsi di cui si vede il primo importante esempio nella novella di<br />

Allessandro (II, 3): ci preme però, in questo caso, rilevare un momento “logico” che<br />

proprio in questa giornata degli amori tragici conquista una sua autonomia, quello<br />

cioè per cui, esistendo una vittima designata (Guiscardo, Lorenzo, Guiglielmo<br />

Guardastagno) ed una vittima volontaria (Ghismonda, Lisabetta, la moglie di<br />

36 Ci sembra logico il riferimento ad una donna “straordinaria” come la Ginevra di II, 9, in<br />

cui Boccaccio “volge” queste evidenti doti di saggezza nel sistema di valori della<br />

mercatantia.<br />

64


Guiglielmo Rossiglione), la prima diviene vittima della vendetta “giusta” per un<br />

imperativo sociale, la seconda si offre spontaneamente, per condividere la sorte<br />

dell’amante, ovvero per porre un sigillo di legittimità alla vendetta precedentemente<br />

attuata, così che l’equilibrio delle aspettative sociali si realizzi al di là del volere<br />

collettivo. Quest’ultima precisazione ci sembra dovuta, nel caso di questa novella<br />

(ma si vedrà come abbia giustificazione anche negli altri casi), per l’inciso che<br />

Fiammetta pone in chiusura di narrazione (dopo molto pianto e tardi pentuto della<br />

sua crudeltà, con general dolore di tutti i salernetani (IV, 1, 62)) e che indica<br />

chiaramente una disapprovazione collettiva dell’atto, altrimenti genericamente<br />

giustificato da un diritto paterno inalienabile (proprio in principio avevamo letto che<br />

il padre, per l’amor che egli le portava, poca cura si dava di più maritarla, né a lei<br />

onesta cosa pareva il richiedernelo (IV, 1, 5)) che proprio in questa giornata pare<br />

oscillare pericolosamente verso diritti “naturali”, pur contrastati finché non si verifica<br />

la “tragedia” (il caso dell’Andreuola, e l’argomentazione addotta dal padre,<br />

sembrano contraddire ad un determinato comportamento, comunque diversamente<br />

adottato da Currado Malaspina in II, 6, o da Lizio di Valbona in V, 4).<br />

Ghismunda, dunque, è caratterizzata sia in quanto oggetto dell’amore di Tancredi e<br />

Guiscardo, sia in quanto protagonista del tentativo di opporsi – con la propria vis<br />

retorica – al precipitare degli eventi. A questo punto si inserisce il vero nucleo della<br />

novella, la perorazione d’amore di Ghismunda, che solleva una serie di interrogativi<br />

di varia natura.<br />

Prima questione fra tutte è quella della legittimità del rapporto amoroso: la giovane<br />

vedova «confessa» di aver amato e di amare Guiscardo, ed addebita la necessità di<br />

questo amore a tre elementi, che coinvolgono tutti e tre i protagonisti, ovvero tanto la<br />

mia feminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine del maritarmi e la virtù di lui<br />

(IV, 1, 32). La gerarchia di questi tre elementi vuole chiaramente sminuire la «colpa»<br />

di Ghismonda, in quanto proveniente da un istinto naturale e, perciò, in parte<br />

giustificabile, porre sotto accusa la responsabilità di Tancredi, che non ha agito come<br />

avrebbe dovuto un padre sollecito, ed infine esaltare la virtù di Guiscardo in quanto<br />

amante discreto. Il primo elemento viene poi ampliato in una lunga disquisizione<br />

65


sulle leggi della giovanezza: si tratta di una conseguenziale disanima dell’influsso<br />

delle pulsioni erotiche sulle relazioni umane e sociali, che era stata in qualche modo<br />

anticipata dall’apologo delle «papere» nell’<strong>Introduzione</strong> a questa giornata.<br />

Una volta giustificata la necessaria emergenza delle proprie pulsioni naturali con le<br />

leggi di natura che il padre non avrebbe in nessun modo dovuto ignorare, Ghismonda<br />

passa a descrivere l’accaduto dal proprio punto di vista. Dobbiamo ricordare, a<br />

questo punto, che Tancredi aveva dato una sua versione dei fatti, comunicata sia a<br />

Guiscardo (Guiscardo, la mia benignità verso te non avea meritato l’oltraggio e la<br />

vergogna la quale nelle mie cose fatta m’hai, sì come io oggi vidi con gli occhi miei<br />

(IV, 1, 22)) sia a Ghismunda (Ghismunda, parendomi conoscere la tua vertù e la tua<br />

onestà, mai non mi sarebbe potuto cader nell’animo (...) se io co miei occhi non<br />

l’avessi veduto, che tu di sottoporti a alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse,<br />

avessi, non che fatto, ma pur pensato; (...) ma fra tanti che nella mia corte n’usano<br />

eleggesti Guiscardo, giovane di vilissima condizione, nella nostra corte quasi come<br />

per Dio da piccol fanciullo infino a questo dì allevato... (IV, 1, 26-27)), arrogandosi<br />

il diritto di non ascoltare le ragioni del primo, di concedere invece all’amata figlia la<br />

possibilità di discolparsi o, quantomeno, di portare delle attenuanti che rendano meno<br />

mostruosa quella gran follia.<br />

Continuando dunque il suo ragionamento sulla giustezza di rispondere alle pulsioni<br />

naturali, Ghismunda descrive la gran follia come comportamento lucido e<br />

perfettamente animato dalla coscienza di obbedire alla propria volontà, vieppiù<br />

confortato dalla divina disposizione che rende gli uomini uguali in forze, potenze,<br />

vertù:<br />

Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello a che elle mi<br />

tiravano, sì come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. E certo in<br />

questo opposi ogni mia vertù di non volere a te né a me di quello a che<br />

natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare,<br />

vergogna fare. (...) Guiscardo non per accidente tolsi, come molte<br />

fanno, ma per diliberato consiglio elessi innanzi a ogni altro e con<br />

66


avveduto pensiero a me lo ‘ntrodussi e con savia perseveranza di me e<br />

di lui lungamente goduta sono del mio disio.<br />

(...) tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere e da uno<br />

medesimo Creatore tutte l’anime con iguali forze, con iguali potenze,<br />

con iguali vertù create. (IV, 1, 35-39)<br />

L’accusa di follia, che pure nasconde il tentativo di Tancredi di scagionare<br />

Ghismunda dall’accusa di aver volontariamente deciso di compiere un atto tanto<br />

disonesto, viene ribaltata dal discorso della giovane donna, che fa appello a diritti<br />

naturali, in un primo momento presentati sotto la luce del concupiscibile disidero e<br />

del natural peccato, poi conseguenzialmente accostati al principio della naturale<br />

nobiltà che in ogni persona alberga non per discendenza, ma per virtù di costumi. Un<br />

posto privilegiato, nell’argomentare di Tancredi e di Ghismunda, è accordato agli<br />

occhi, che diventano garanti di verosimiglianza per quanto accade: la colpa dei due<br />

amanti è effettiva in quanto avviene sotto gli occhi di Tancredi, pertanto Ghismunda<br />

oppone il giudicio sulla persona di Guiscardo a quello dei propri occhi (IV, 1, 41),<br />

testimoni dell’apprezzamento che Tancredi aveva mostrato per il valletto (IV, 1, 42).<br />

Gli occhi sono doppiamente protagonisti, in quanto sede del pianto che Tancredi non<br />

riesce a frenare, al contrario della figlia, che conclude la sua arringa capovolgendo il<br />

rapporto uomo-donna ed intimando al padre di ritirarsi con le femine a spander le<br />

lagrime (IV, 1, 45). Unico pianto che la giovane si consenta è quello pietoso<br />

dell’omaggio al defunto Guiscardo: fedele ad un motivo che troviamo sin dall’orrido<br />

cominciamento, Boccaccio riproduce nella meticolosità del gesto affettuoso di<br />

Ghismunda (sopra la coppa chinatasi piagnendo cominciò a versar tante lagrime,<br />

che mirabile cosa furono a riguardare, basciando infinite volte il morto cuore (IV, 1,<br />

55)) il momento della consolazione, privo però del feminil romore, in quanto non<br />

sarebbe stato consono al comportamento finora avuto dalla donna.<br />

67


Il capovolgimento delle premesse della cornice<br />

Proprio il riferimento alla complessa personalità di Ghismunda, ci porta a<br />

considerare nuovamente il senso della femminilità nel Decameron, quale si manifesta<br />

nel corso dell’opera come insieme di atteggiamenti muliebri.<br />

Al quadro di infinite sofferenze che l’autore ci offre come orrido cominciamento,<br />

succede una nuova descrizione, avvolta nell’atmosfera di quiete e sacralità della<br />

venerabile chiesa di Santa Maria Novella: la presenza contemporanea di sette donne,<br />

in un luogo sacro e dopo la messa, è in evidente contrasto con la desolazione che<br />

Boccaccio ha sinora lamentato come segnale inquietante di nuovi comportamenti<br />

indotti dal morbo ferale e dalla sua furia distruttrice. Queste sette giovani donne,<br />

inoltre, smentiscono con la loro presenza addirittura il crollo dei legami di parentela<br />

e di vicinato che Boccaccio aveva appena ricordato (I, intr., 27, 32-35), essendo tutte<br />

l’una all’altra o per amistà o per vicinanza o per parentado congiunte (I, intr., 49).<br />

Sappiamo bene che la situazione stessa della cornice deve attenersi ad alcuni<br />

particolari che permettano un migliore “funzionamento” della vicenda 37 , ma qui ci<br />

pare che l’incontro, in seguito definito casuale (non già da alcuno proponimento<br />

tirate ma per caso in una delle parti della chiesa adunatesi, quasi in cerchio a seder<br />

postesi (I, intr., 52)), si contrapponga con forza a quel senza aver molte donne da<br />

torno che contraddistingueva i trapassi ratti e pressoché inosservati di quella lugubre<br />

stagione. Inoltre, le sette giovani donne sono quasi in cerchio a seder postesi, per<br />

pregare, dunque stanno “mimando” il pianto rituale delle esequie attraverso la<br />

preghiera al Padre (il dir de’ paternostri), in questa maniera testimoniando la loro<br />

volontà di “reintegrare” quella virtù femminile (la donnesca pietà) che<br />

37 Le donne si ritrovano in chiesa un martedì mattina, quindi in un giorno in cui l’edificio<br />

sacro è meno affollato che nei giorni festivi; inoltre, il fatto che si conoscono, oltre a<br />

rientrare nel topos della costituzione di una sorta di corte, dove tutti i membri sono noti a<br />

tutti, e quindi non c’è bisogno di lunghi discorsi introduttivi né di dialoghi agnitivi, scavalca<br />

anche la questione di come impostare la “comunicazione” tra queste giovani che sono<br />

pressoché coetanee, ma pure conservano, all’interno del loro “schieramento”, una più o<br />

meno coerente gerarchia dipendente dall’età e dalle caratteristiche implicite del loro<br />

carattere.<br />

68


precedentemente avevamo vista posposta al nuovo uso di congedare i morti (risa e<br />

motti e festeggiar compagnevole).<br />

Pampinea come donna-simbolo della brigata<br />

Nel discorso di Pampinea ritornano le immagini del rito funebre e della consolazione,<br />

illuminate però dalla presenza di queste giovani che sono – loro malgrado, sottolinea<br />

l’oratrice – testimonie di quanti corpi morti ci sieno alla sepoltura recati (I, intr.,<br />

56). Di una forse numerosa “famiglia”, ovvero della servitù della giovane donna, non<br />

rimane, significativamente, che la sua fante: anche questa asserzione vuole opporsi<br />

allo scandaloso comportamento della maggioranza delle donne (senza alcuna<br />

vergogna ogni parte del corpo aprire non altrimenti che a una femina), aggravato<br />

dal pericolo di una più aggressiva libido che coinvolge persino chi è legato alla<br />

castità dai voti religiosi. Significativa la conclusione del suo discorso, che oppone<br />

l’onestamente andare allo star disonestamente (I, intr., 72): i due binomi avverbio-<br />

verbo e verbo-avverbio, posti in discreta posizione di chiasmo proprio alla fine della<br />

perorazione, riassumono circolarmente tutto il discorso boccacciano sulla corruzione<br />

dei costumi e – allo stesso tempo – sulla speranza che essi possano venir ricostituiti<br />

dalla “parte sana” dell’umanità, quella ancora non corrotta dalla peste biologica e<br />

morale. La lamentazione dell’autore, infatti, avevano preso inizio dai toni apocalittici<br />

della punizione divina, per presentare il cedimento della società umana, come ultima<br />

conseguenza del comportamento stesso degli uomini di fronte alla disgrazia: non<br />

crediamo sia necessario un confronto con le grandi figurazioni bibliche di Sodoma e<br />

Gomorra, poiché le inique opere ricordate al principio della descrizione della<br />

pestilenza non si riferiscono sicuramente alla corruzione totale degli animi e dei<br />

corpi, mentre la presenza del morbo, che attacca fisicamente la comunità umana, ne<br />

distrugge progressivamente anche le fondamenta morali, ingenerando una disonestà<br />

diffusa che, come Boccaccio si affretta a precisare, è nuova, e per questo è<br />

sorprendente quanto in fretta sia riuscita a radicarsi.<br />

Pampinea è dunque la prima figura di donna-oratrice o peroratrice del Decameron, e<br />

nel suo discorso riconosciamo chiaramente la disposizione retorica necessaria ad<br />

69


affrontare gli argomenti trattati, sin dal principio, per poter sostenere la coincidenza<br />

di honestum e salus (v. Muscetta 1972:308) e per riuscire, dopo aver tracciato anche<br />

lei un quadro fosco degli eventi cittadini, quasi immediatamente a convincere le altre<br />

(quasi, quindi levandosi da sedere, a mano a mano dovessero entrare in cammino (I,<br />

intr., 73)) della necessità di evadere da un ambiente che ha perso ogni caratteristica<br />

di umanità: proprio nel suo levarsi a parlare per prima, in quanto maggiore di età, da<br />

quel consesso di donne ordinate in cerchio per pregare, Pampinea rappresenta la<br />

volontà di cambiare il corso delle cose, di opporsi ad un “immobilismo” pernicioso,<br />

anzi addirittura fatale, e di ricostituire fuori dalla città in cui imperversa il morbo,<br />

quelle consuetudini di comodità femminile (prendendo le nostre fanti e con le cose<br />

opportune faccendoci seguitare (I, intr., 71)) che devono pur adattarsi alla tragicità<br />

dei tempi, ma che in tal modo riscattano lo scandalo dei nuovi, terribili costumi che<br />

la pestilenza ha reso tanto minacciosamente abituali. Nella descrizione di Pampinea<br />

troviamo forse un riferimento a quella presenza di spirito, a quella vocazione<br />

all’autorità, che dovevano avere le donne poste a capo di conventi e monasteri: lo<br />

scopo stesso della sua perorazione, tenuta in una chiesa, è quello di separare quella<br />

piccola comunità di donne dal mondo, per portarsi in un luogo e vivere in letizia<br />

(allegrezza e festa prendendo che questo tempo può porgere (I, intr., 71)), ma<br />

soprattutto per scampare ai pericoli della città ormai “babilonizzata”. L’impetuosità<br />

di Pampinea (che appunto è rigogliosa e dinamica come i pampini della vite), viene<br />

subito frenata da una figura più pallida, e contestatoriamente misogina: nella sua<br />

disquisizione sul carattere delle donne e sulla impossibilità per queste di<br />

autogovernarsi, Filomena ci appare rassegnata ad accettare tutti i luoghi comuni sulla<br />

inferiorità della donna rispetto all’uomo, quasi a confermare che quanto sinora<br />

lamentato da Boccaccio e da Pampinea riguardo allo star disonestamente, trovi la sua<br />

giustificazione nell’indole stessa delle donne, mobili, riottose, sospettose,<br />

pusillanime e paurose (I, intr., 75). Sono, questi, tutti attributi che squalificano la<br />

fermezza di volontà, la capacità di affrontare con animo saldo le vicende della vita:<br />

dal più grave, il primo, che si riferisce alla gran facilità con cui le donne cadono<br />

vittime delle passioni, percorriamo una scala di virtù negative che avvicinano<br />

70


l’indole della donna a quella dei fanciulli, o addirittura dei bambini, fino a quello che<br />

è quasi un binomio sinonimico (pusillanime e paurose) e mette le altre giovani di<br />

fronte al dubbio di riuscire a portare a termine quel ritiro idilliaco tanto ben proposto<br />

da Pampinea. La contrapposizione dei due discorsi non impone che una tesi escluda<br />

l’altra, se è vero che è proprio Pampinea a cogliere, nell’entrata dei tre giovani, il<br />

segnale della sorte (fortuna a’ nostri cominciamenti è favorevole (I, intr., 80)): dopo<br />

che al dialogo di Filomena e Pampinea si sono unite Elissa e Neifile, è sempre la<br />

“rigogliosa” a fare il primo e decisivo passo verso i tre giovani uomini, a manifestare<br />

la sua fermezza di propositi ma anche la capacità di prendere l’iniziativa che è<br />

implicitamente connessa al suo ruolo di “maggiore”: queste virtù saranno poi<br />

sottolineate da Dioneo, il primo degli uomini a prendere la parola, quando<br />

riconoscerà che il vostro senno più che il nostro avvedimento ci ha qui guidati (I,<br />

intr., 93) e darà modo a Pampinea di argomentare completamente a proposito di<br />

quanto si ha da fare nel luogo in cui la brigata è convenuta.<br />

Ancora una volta la giovane donna rivolge agli astanti un discorso compiuto<br />

sull’organizzazione della piccola comunità – l’allegra brigata –, partendo<br />

dall’abituale considerazione generale (per ciò che le cose che sono senza modo non<br />

possono lungamente durare(I, intr., 95)) e richiamandosi alla necessità di eleggere un<br />

capo (estimo che di necessità sia convenire esser tra noi alcuno principale) che non<br />

sarà, come forse avremmo estrapolato dalle parole dette il giorno prima da Elissa, per<br />

forza di cose un maschio (Veramente gli uomini sono delle femine capo e senza<br />

l’ordine loro rade volte riesce alcuna nostra opera a laudevole fine (I, intr., 76)), ma<br />

di volta in volta ognuno dei presenti, acciò che ciascun pruovi il peso della<br />

sollecitudine insieme col piacere della maggioranza 38 . Pampinea si impone dunque<br />

38 Pampinea aggiunge: e, per conseguente da una parte e d’altra tratti, che il commento di<br />

Branca interpreta come una ulteriore specificazione della sollecitudine e del piacere,<br />

escludendo la tesi dei critici che vedevano in questa specificazione la possibilità che<br />

Pampinea citi chiaramente la scelta alternata di re e regine: non ci sembra però che tale<br />

interpretazione sia tanto precaria, soprattutto se la intendiamo in senso lato, cioè nel senso<br />

che ad ognuno deve essere, per conseguenza, data la possibilità di “governare” una giornata,<br />

indipendentemente dal sesso di appartenenza e dalla disparità numerica esistente tra i due<br />

sessi.<br />

71


con la sua personalità forte e dinamica, che preclude chiaramente a molte delle<br />

protagoniste “attive” delle novelle successive. La cornice non termina però con<br />

l’introduzione alla prima giornata, continuando lungo tutte le giornate e riservandoci<br />

più di un excursus, a farne un’unità narrativa di particolare valore: quello più<br />

significativo, almeno da un punto di vista nominale, consiste nella visita alla Valle<br />

delle Donne 39 . Questa visita avviene, a conclusione della sesta giornata, in un<br />

momento di grande imbarazzo per le donne: il tema proposto da Dioneo per la<br />

giornata seguente, infatti, non sembra a tutte adatto a che ne parlino delle onorate<br />

giovani (pareva a alcuna delle donne che male a lor si convenisse (VI, concl., 7)),<br />

per questo la proposta di Elissa di andare a visitare una valle poco lontana, viene<br />

accolta come la possibilità di ricreare quella intimità di discorsi femminili che<br />

avevamo osservato nel primo consesso delle donne in Santa Maria Novella. La<br />

suggestione idilliaca, ultraidilliaca o edenica che irradia dalla Valle si nasconde, a<br />

nostro parere, nella dimensione ludica del bagno: non dimentichiamo che proprio nel<br />

loro incontro in chiesa, il lugubre abito che pesava, con il suo lutto, sui loro corpi<br />

giovani e vigorosi, era il segno della tragedia quotidiana, che ormai le giovani<br />

sembrano aver rimossa. Nella cornice, infatti, le componenti la brigata si liberano di<br />

volta in volta del peso di quanto hanno lasciato in città: in più di una novella, a<br />

partire dalla prima, incentrata sulla morte subitanea – e sospetta – di Ser Cepparello,<br />

e soprattutto in alcune della quarta giornata, ritroviamo il tema della peste, del morbo<br />

inquietante che alloggia nella memoria di narratori e narratrici, riproponendosi di<br />

volta in volta. Ciò ha termine, però, con la sesta giornata, se le successive tre giornate<br />

trattano temi leggeri, scherzosi, e l’ultima, all’insegna della liberalità e della<br />

magnificenza, si collega all’imminente ritorno in città e quindi alla possibile<br />

ricostituzione di un modus vivendi simile a quello precedente la peste.<br />

39 Si tratta di un elemento che alcuni critici hanno voluto mettere in rapporto strutturale con<br />

l’abluzione catartica nel Paradiso terrestre (Battaglia Ricci 2000a:35), mentre per altri si<br />

tratta di un nuovo modo di affrontare il topos del locus amoenus, di superare l’idillio<br />

tralasciando dimensioni favolose e magiche (Petrini 1986:145-154)<br />

72


Le galline della marchesana<br />

Nella novella della marchesana del Monferrato alle prese con gli appetiti del re di<br />

Francia, la narrazione viene introdotta da una classica questione d’amore (come nel<br />

De amore del Cappellano o nel Filocolo stesso) sulla possibilità, per una gentil<br />

donna, di respingere le avances di un uomo di maggiore lignaggio di lei 40 . La<br />

questione è raccontata, non dimentichiamolo, da una delle protagoniste femminili<br />

della brigata, Fiammetta, che vuole dunque rovesciare la situazione iniziale della<br />

novella precedente, munendo adesso la protagonista di quella verve necessaria a<br />

“liberarsi” dalla minaccia della seduzione non desiderata 41 : la marchesana è in un<br />

certo qual modo figurazione di quell’ideale di donna dinamica e piena di spirito di<br />

iniziativa, che abbiamo già osservato in Pampinea, e per questo, per non smentire<br />

questa tipologia dai tratti essenziali, eppure dotata di una sua peculiare funzione<br />

imitativa dello spirito maschile 42 , la narrazione ci propone una serie di descrizioni<br />

sommarie ed iterate delle sue virtù. La prima delle quali è quella in absentia, che<br />

scatena il desiderio del re di Francia, Filippo il guercio: fu per un cavaliere detto non<br />

esser sotto le stelle una simile coppia a quella del marchese e della sua donna: però<br />

che, quanto tra’ cavalieri era d’ogni virtù il marchese famoso, tanto la donna tra<br />

tutte l’altre donne del mondo era bellissima e valorosa (I, 5, 6). L’antonomasia è<br />

40 Come ricorda il Russo, l’esordio della novella è un coro femminile di protesta contro lo<br />

sporcissimus Dioneo (1977:95-103): a questa protesta si aggiunge anche tematicamente la<br />

storia della marchesana del Monferrato, che Russo interpreta alla luce della massima di<br />

Fiammetta (negli uomini è gran senno il cercar d’amar sempre donna di più alto legnaggio<br />

che egli non è, così nelle donne è grandissimo avvedimento il sapersi guardare dal prendersi<br />

dell’amore di maggiore uomo che ella non è (I, 5, 4)) richiamandosi al precetto per cui la<br />

donna deve trovarsi sempre in uno stato di superiorità. Fatto sta che questa novella vuole<br />

proprio sottolineare una superiorità intellettuale e di sentire della donna, che non possono<br />

non accompagnarsi all’onestà e fedeltà muliebri.<br />

41 In un nostra nostra lettura della novella di Alatiel (Sciacovelli 1998:188) abbiamo già<br />

ricordato come sia importante, non soltanto nel Decameron, la funzione verbale e narrativa<br />

in quanto tale: cosa che nella contrapposizione di queste due novelle emerge ancora più<br />

forte, se consideriamo che all’opposizione Dioneo-Fiammetta scorre parallela quella di<br />

monaco-giovinetta e marchesana-re, è a dire che il filo di narrazione e contestualizzazione<br />

dell’identità dei narratori, si polarizza verso una valenza forte delle opposizioni funzionali,<br />

non senza il ribaltamento della situazione di “imbarazzo sociale”.<br />

42 Di cui parleremo più ampiamente a proposito della figura di Ginevra, moglie di Bernabò<br />

da Genova (II, 9).<br />

73


iferita in un primo momento alla coppia, anzi, vorremmo precisare, all’armonia<br />

della coppia, dunque ad un’unità pressoché inscindibile che pare garantita nella sua<br />

indivisibilità da quel sotto le stelle: in seconda battuta, viene confrontata la virtù<br />

cavalleresca del marchese con le virtù fisiche e morali – i valori esteriori ed interiori<br />

– dell’altra metà della coppia. L’ambientazione storica geografica e socioculturale<br />

della novella ci mettono in sospetto riguardo all’identità “letteraria” della marchesa:<br />

dovrebbe ella infatti essere il prototipo della castellana 43 , che al momento della<br />

partenza del coniuge deve sostituirlo soprattutto in quanto rappresentante<br />

dell’autorità signorile, quindi caricandosi degli obblighi dovuti ai suoi superiori;<br />

fuori della simbologia feudale, però, Boccaccio ci ricorda che la marchesa conosce<br />

bene le cose di questo mondo, e che quindi coglie nell’intenzione del re il proposito<br />

nascosto: per questo motivo, le qualità esteriori ed interiori della donna si<br />

arricchiscono di un altro elemento fondamentale, legato all’ingegno, che è il vero<br />

gran protagonista del Centonovelle: La donna, savia e avveduta, lietamente rispose<br />

che questa l’era somma grazia sopra ogn’altra e che egli fosse il ben venuto (I, 5, 9).<br />

La letizia originale viene solo per un attimo confusa dal pensiero che questo volesse<br />

dire, dopo di che viene ribadita la virtù della donna, come valorosa donna dispostasi<br />

ad onorarlo: si tratta, per questa occasione, di una duplice virtù, che da un lato deve<br />

continuare quel lietamente della risposta data al sovrano, dall’altro deve architettare<br />

una “risposta” capace di evitare il peggio senza offendere il re in visita.<br />

La terza – e decisiva – descrizione è invece data al momento dell’incontro tra la<br />

donna ed il sovrano: riguardandola, gli parve bella e valorosa e costumata, e<br />

sommamente se ne maravigliò e commendolla forte, tanto nel suo disio più<br />

accendendosi quanto da più trovava esser la donna che la sua passata stima di lei (I,<br />

5, 11). Vogliamo sottolineare, sempre nel confronto con la precedente unità<br />

narrativa, che come la giovinetta veduta dal monaco instaura una reazione per cui né<br />

prima veduta l’ebbe, che egli fieramente assalito fu dalla consipiscenza carnale (I, 4,<br />

5), così la vista della marchesa e la dimestichezza con i suoi modi aumentano nel re<br />

di Francia un desiderio già esistente – pur se non “generalizzato” come nel caso del<br />

43 Ben diversa da quella che troveremo nella novella di Rinaldo d’Asti (II, 2).<br />

74


monaco! – creato da quella passata stima che avevamo incontrato al principio della<br />

narrazione. Le poche parole che nella I, 4 avevano portato alla veloce seduzione della<br />

giovinetta, sono adesso sostituite dagli sguardi del re (riguardandola (11), con diletto<br />

talvolta ... riguardando (13), con lieto viso rivoltosi verso lei (14)) che viene confuso<br />

e turbato dalla risposta della marchesa: notiamo come Boccaccio sottolinei<br />

l’insperata casualità per cui il re pone proprio la domanda a cui la marchesa aveva<br />

preparato la risposta ad hoc, quasi voglia far notare al lettore da un lato l’infallibilità<br />

del funzionamento della “trappola simbolico-gastronomica” 44 , dall’altro la fatalità<br />

delle combinazioni dei meccanismi narrativi, che devono inevitabilmente portare alla<br />

realizzazione di un fine preciso. Nel veloce dialogo tra il sovrano e la marchesa è<br />

importante sottolineare come la tipologizzazione dell’elemento femminile passi per<br />

una varietà lessicale che non è reperibile nei passi precedenti della novella:<br />

«Dama, nascono in questo paese solamente galline senza gallo alcuno?»<br />

(...)<br />

«Monsignor no, ma le femine,quantunque in vestimenti e in onori<br />

alquanto dall’altre variino, tutte per ciò son fatte qui come altrove». (I,<br />

5, 15).<br />

Significativo è che mentre il re verbalmente offre il suo tributo alla dignità della<br />

donna, la marchesa volutamente svaluta il proprio sesso, utilizzando la parola femina<br />

che – come vedremo soprattutto nella prima novella della quarta giornata – si oppone<br />

dal basso a donna: nonostante le sue “cattive intenzioni”, il sovrano non può fare a<br />

meno di onorare la dama che ha davanti, anche perché in quel momento ella<br />

rappresenta il “suo uomo”, il suo diretto sottoposto nella gerarchia feudale. La dama,<br />

a sua volta, pone la giusta distanza tra sé e le femine, quasi ad escludere parte della<br />

propria identità – quella insidiata dal re.<br />

44 Non è questa l’unica novella del Decameron in cui la funzione del cibo va ben oltre quella<br />

dell’ambientazione contestuale, se pensiamo alla gru cucinata da Chichibio, al falcone di<br />

Federigo degli Alberighi, alla dieta consigliata da Ghino di Tacco all’abate di Cluny, e così<br />

via.<br />

75


La gentil donna di Guascogna<br />

Nella nona novella della prima giornata Boccaccio ci propone ancora una volta<br />

l’incontro tra una gentil donna ed un re: la situazione, per altro già velocissimamente<br />

schizzata nella LI del Novellino, mostra la superiorità morale della gentil donna nei<br />

confronti di un re tardo e pigro (I, 9, 7), dunque anch’egli – come Filippo Augusto –<br />

segnato da un comportamento non adeguato alla regalità che impersona. L’offesa<br />

fatta alla donna diviene, nel testo di Boccaccio, addirittura figurazione del delitto di<br />

lesa maestà (contro allo onore della sua corona). La ricostituzione di un equilibrio<br />

originario (quasi dal sonno si risvegliasse) è dunque chiaramente attribuita<br />

all’iniziativa di una donna che riesce addirittura ad ironizzare sulla propria sventura<br />

(la quale, sallo Idio, se io far lo potessi, volentieri te la donerei, poi così buono<br />

portatore ne se’ (I, 9, 6)) e mordendo, anzi trafiggendo l’amor proprio del sovrano,<br />

ristabilisce un ordine morale fino a quel momento escluso dal campo del possibile.<br />

La personalità della donna non viene tratteggiata maggiormente, di lei conosciamo<br />

soprattutto il dolore per l’oltraggio subito durante il pellegrinaggio in Terra Santa: il<br />

suo comportamento però è coerente con quell’ideale di donna forte e sicura di sé, che<br />

cerca giustizia e riesce a fronteggiare i casi più amari della sorte. Il suo rivolgersi al<br />

sovrano è diretto, sfrontato e, come abbiamo già sottolineato, addirittura carico di<br />

ironia: sappiamo bene come l’ironia abbia il potere di scuotere gli animi pigri, ma in<br />

questa caratterizzazione la funzione del discorso della donna diventa strumentale alla<br />

dimostrazione di una dignità che deriva dallo spirito stesso di iniziativa. In<br />

conclusione, se la donna è stata disonorata nel corpo dai suoi aggressori, le sue<br />

qualità spirituali la pongono assai più in alto del re che si lascia disonorare<br />

nell’animo per la sua inerzia scandalosa: da questo punto di vista, viene difeso il<br />

diritto della donna a considerare il proprio onore come indipendente da quello che la<br />

mentalità del suo tempo considera strettamente collegato al suo comportamento<br />

sessuale in senso passivo ed attivo 45 .<br />

45 Né è questa l’unica novella in cui ravvisiamo queste allusioni, pensiamo al proverbio che<br />

chiude la novella di Alatiel, o alla riforma dello statuto di Prato motivata dall’arringa di<br />

madonna Filippa (VI, 7)<br />

76


La bella castellana<br />

La prima figura femminile della seconda giornata è la “castellana” che<br />

amorevolmente accoglie Rinaldo d’Asti, appena scampato ai suoi rapinatori: una<br />

donna vedova, del corpo bellissima quanto alcuna altra, la quale il marchese Azzo<br />

amava quanto la vita sua e quivi a instanzia di sé la facea stare (II, 2, 19). Si pensa<br />

subito ad una delle tante “recluse” che appaiono nel Decameron (l’anonima giovane<br />

di I, 4 viene rinchiusa nella cella dal giovane monaco prima, poi dall’abate, perché<br />

possa accondiscendere ai desideri dei due religiosi; anche Alatiel – in II, 7 – viene<br />

continuamente privata della libertà di movimento, a causa della sua bellezza;<br />

Boccaccio utilizzerà inoltre una espressione simile a questa in IX, 5, 8 – a sua posta<br />

tenendola in una casa – a proposito della Niccolosa, di cui si innamorerà<br />

Calandrino), e che sviluppano il topos della bella castellana sottoposta ai desideri di<br />

un signore, assente nel momento in cui l’eroe si presenta al castello 46 : accanto a<br />

questo tratto, di notevole forza suggestiva per quanto seguirà nell’azione del<br />

racconto, dobbiamo comunque sottolineare che si tratta di una vedova, ovvero di una<br />

46 Quello che però maggiormente si richiama ad una tradizione cospicua che molti critici<br />

hanno ricondotto ad alcune tracce provenzali (v. n.1 in II, 2, 1,), è il motivo dell’accoglienza<br />

amorosa che viene “arbitrariamente” accostata al culto dell’ospitalità incarnato in San<br />

Giuliano, la cui legenda è comunque legata al tragico frainteso per cui Giuliano uccide i<br />

propri genitori, di cui ignora l’identità ed ai quali sua moglie ha offerto ospitalità, vedendoli<br />

nel proprio letto, e credendo si tratti di un adulterio commesso dalla propria moglie con un<br />

estraneo! Da questo punto di vista, non sappiamo quanto consciamente, nel richiamo ad una<br />

possibilità di ospitalità amorosa sotto il segno di San Giuliano, ci sembra addirittura di<br />

scorgere un cinico riferimento alla legenda del Santo. Nel suo studio su San Giuliano nel<br />

Decamerone e altrove, in cui Graf ha affrontato la tradizione che a tale proposito nasce nella<br />

letteratura italiana (Graf 2002:323-330), lo studioso dice la novella poco edificante, convinto<br />

del fatto che il buon albergare di cui Boccaccio racconta, non potesse essere accostato a<br />

tanto profani segni di ospitalità: in virtù delle considerazioni di Bruni sulla perdita di<br />

importanza – nel Decameron – della tripartizione di amore per diletto, onesto e utilitario,<br />

noteremo però come l’accoglienza di Rinaldo d’Asti da parte di una vedova preannunci<br />

anche il coinvolgimento erotico (Bruni 1999:245-246), nel senso che il risveglio del<br />

concupiscibile appetito – da parte della vedova – non è altro che il segnale delle sue esigenze<br />

di donna che non partecipa di un “regime matrimoniale regolare”, e che già “per definizione”<br />

gode di questo ambiguo genere di ospitalità, grazie al signore del luogo.<br />

77


delle tipologie femminili preferite di Boccaccio 47 . La complessa situazione sociale<br />

delle vedove è dal Certaldese, in più di un’occasione, fatta oggetto di riflessione per<br />

quanto riguarda le connessioni tra la vita privata della donna ed i suoi obblighi nei<br />

confronti della famiglia di provenienza (è il caso di Monna Giovanna in V, 9):<br />

diverso il caso di questa novella, in cui la donna ci viene presentata quasi “alla<br />

mercé” del potente marchese, subito dopo la morte del marito, se è vero che nel<br />

momento in cui Rinaldo viene accolto gli fece apprestare panni stati del marito di lei<br />

poco tempo davanti morto (II, 2, 27, e altrimenti non comprenderemmo perché<br />

conservi quegli abiti, una volta “trasferitasi” negli appartamenti di volta in volta<br />

utilizzati dal marchese Azzo). La condizione di amante del signore del luogo ci<br />

presenta una donna sicura in ogni suo gesto (ma pare caratteristica delle vedove,<br />

intese come donne esperte e dunque meglio preparate ad affrontare gli eventi, in uno<br />

spettro che va dai due estremi di Ghismonda (IV, 1) e della fiorentina Elena (VIII,<br />

7)), che Boccaccio non manca di farci notare, soprattutto nell’attitudine a comandare:<br />

la donna, un poco sconsolata, non sappiendo che farsi, diliberò d’entrare nel bagno<br />

fatto per lo marchese (II, 2, 21); chiamata la sua fante, le disse: «Va sù e guarda<br />

fuori del muro a piè di questo uscio chi v’è e chi egli è e quel ch’egli è e quel ch’el vi<br />

fa» (II, 2, 22); «Va e pianamente gli apri; qui è questa cena e non saria chi<br />

mangiarla, e da poterlo albergar ci è assai» (II, 2, 25); lietamente il ricevette e seco<br />

al fuoco familiarmente il fé sedere (II, 2, 32); al quale la donna avendo più volte<br />

posto l’occhio addosso e molto commendatolo, (...) nella mente ricevuto l’avea (II, 2,<br />

35). I gesti, il lampeggiar degli occhi (II, 2, 38), le frasi della donna, sono carichi di<br />

una abitudine al comando, e ci rivelano allo stesso tempo quanto sia solita ottenere<br />

quanto desidera, tanto da fare di Rinaldo un oggetto del proprio desiderio frustrato<br />

dall’assenza del marchese. La vedova agisce per ripicca contro il proprio amante e<br />

signore, e su questa volontà di vendetta (addirittura riempie di denari la borsa di<br />

Rinaldo!) si sposta il nucleo del racconto, che infatti si compie secondo due cicli, la<br />

rapina – che si conclude con il ritrovamento degli averi di Rinaldo e l’impiccagione<br />

47 Ricordiamo che vedove – talvota risposate, come è il caso di Teudelinga – sono<br />

protagoniste delle novelle I, 10; III, 2; IV, 1; V, 9; VIII, 4 e 7; IX, 1.<br />

78


dei masnadieri – e l’avventura amorosa – che comincia con la delusione della donna<br />

e si conclude con la soddisfazione di ambedue. In questa maniera è la donna<br />

autoritaria a porsi come antagonista “caratteriale” di marca positiva, nei confronti di<br />

Rinaldo che ha già incontrato i suoi antagonisti negativi, i masnadieri: la donna lo<br />

salva, la donna decide i momenti dei riti domestici (il discorrere davanti al fuoco,<br />

l’abluzione delle mani, la cena), la donna intraprende il corteggiamento e congeda lo<br />

sconosciuto, dopo averlo identificato con il proprio marito (veggendovi cotesti panni<br />

indosso, li quali del mio morto marito furono, parendomi voi pur desso (II, 2, 37)) ed<br />

il proprio amante (e già, per lo marchese che con lei doveva venire a giacersi, il<br />

concupiscibile appetito avendo desto nella mente ricevuto l’avea (II, 2, 35)). Questa<br />

doppia identificazione è palesemente simbolica della contraffazione dell’identità di<br />

Rinaldo, messa in opera dalla vedova, ed operata coscientemente secondo due<br />

schemi concettuali: soddisfare i propri desideri carnali giustificando la tensione – il<br />

concupiscibile appetito – con la “nostalgia” del legame matrimoniale originario, e<br />

beneficare il povero Rinaldo d’Asti, in ottemperanza alle “direttive” di San Giuliano.<br />

Lo spirito d’iniziativa della castellana è quindi legato al carattere autoritario del suo<br />

esprimersi, alla sorprendente padronanza dei gesti, degli atti e delle formule con cui<br />

seduce Rinaldo d’Asti e dirige il corso degli eventi.<br />

La figlia del re<br />

Una donna altrettanto intraprendente è la figlia del re d’Inghilterra, protagonista della<br />

parte finale – e decisiva – della terza novella della seconda giornata, il cui<br />

protagonista maschile, pur caratterizzato da una intensa attività nella prima parte<br />

della narrazione (il quale messo s’era in prestare a baroni sopra castella e altre loro<br />

entrate, le quali da gran vantaggio bene gli rispondeano (II, 3, 13)), ci sembra<br />

rimanga solo un nome, data la sua passività nei confronti degli eventi. Alla stregua<br />

però di Allessandro, che seppur giovane deve occuparsi degli affari dei tre prodighi<br />

fiorentini, anche la fanciulla, travestita da uomo (come capiterà anche nella II, 9 a<br />

Ginevra) a causa del fatto che mala tempora currunt (nacque in Inghilterra una<br />

guerra tra il re e un suo figliuolo (II, 3, 14)), si dirige a Roma dal Santo Padre per<br />

79


ottemperare alla volontà del proprio padre, ed in un momento di pericolo per la<br />

propria terra, è lei a doversi occupare del patrimonio regale messo in pericolo dalla<br />

crisi politica (mi vedete fuggita segretamente con grandissima parte de’ tesori del re<br />

d’Inghilterra mio padre (II, 3, 37)). Il travestimento – la fanciulla è negli abiti di un<br />

abate accompagnato da un gran seguito – è altamente simbolico della missione che la<br />

ragazza deve compiere: Boccaccio dice infatti che si tratta di un abate bianco (II, 3,<br />

17), che se da un lato ha un riscontro nel bianco usato effettivamente da alcuni ordini<br />

benedettini, pure non manca di suggerirci il riferimento alla purezza della giovane,<br />

come pure i due cavalieri antichi e parenti del re (ibidem) (che per inciso<br />

Allessandro conosce, immaginiamo per quella confidenza “creditizia” ormai<br />

maturata con i nobili inglesi) sono figurazioni della saggezza, della nobiltà, della<br />

regalità che accompagnano questa apparizione improvvisa sulla strada che porta i<br />

viandanti fuori da Bruges. Queste virtù – sinora soltanto celate in alcuni segnali<br />

simbolici – appariranno poi in tutta la loro espressione verbale nel discorso che la<br />

giovane terrà al Papa: tra il momento dell’apparizione dell’abate e l’arrivo della<br />

compagnia a Roma, però, c’è il segmento narrativo più “intimo”, quello cioè della<br />

conoscenza carnale della reginotta e di Alessandro, segmento durante il quale si nota<br />

con maggiore evidenza il carattere determinato della donna, che pure deve, come<br />

capita a più di una delle “eroine” di questa giornata, saper conciliare gli eventi<br />

fortunosi con le forze della Natura. Sentendo avvicinarsi l’occasione propizia alla<br />

“conquista” del giovane fiorentino, la giovane riflette: «Idio ha mandato tempo a’<br />

miei disiri: se io nol prendo, per avventura simile a pezza non mi tornerà» (II, 3, 28).<br />

Ci sembra questo un ragionamento in consonanza con quello dell’abate<br />

coprotagonista della I, 4, che dice fra sé: «Questo caso non avverrà forse mai più: io<br />

estimo ch’egli sia gran senno a pigliersi del bene, quando Domenedio ne manda<br />

altrui» (I, 4, 16), e che ci autorizza addirittura a pensare che – paradossalmente – la<br />

ragazza ragiona come un abate, anche perché, nella finzione narrativa, il lettore<br />

ancora non sa di trovarsi davanti ad un travestimento, e fino a questo momento si è<br />

parlato semplicemente di un abate troppo giovane che va a Roma per ottenere una<br />

dispensa de defectu aetatis dal successore di Pietro! Davanti allo stupore di<br />

80


Allessandro, la donna si rivela per quello che è davvero, ma subito frena l’approccio<br />

del bel giovane (prestamente abbracciatala la voleva basciare (II, 3, 32)), facendogli<br />

presente la sua situazione di donna innamorata, che infrange il volere paterno<br />

decidendo nello stesso tempo di stabilire ella stessa chi debba essere il proprio<br />

sposo 48 . Come accade sovente a questi personaggi femminili animati da un<br />

particolare spirito di iniziativa, agli atti seguono le parole, che sono generalmente<br />

parole di saggezza o, quantomeno, espressione di un forte atteggiamento autoritario<br />

(come nel caso della castellana di Rinaldo d’Asti).<br />

Alle parole segue il rito di questo matrimonio “locandiero”, celebrato davanti ad una<br />

tavoletta dove Nostro Signore era effigiato (II, 3, 35), che culmina con la promessa<br />

solenne (gli si fece sposare (ibidem), in cui il fattitivo sembra sottolineare vieppiù la<br />

determinatezza della giovane) e, finalmente, con gli abbracci d’uopo. Una donna<br />

determinata, dunque, decisa a cogliere l’attimo fuggente, e per questo null’affatto<br />

intimorita dalla figura del Pontefice, cui rivolge un discorso dal quale sono bandite le<br />

formalità: questo discorso, che fa parte della serie di discorsi “femminili” di cui è a<br />

doppia trama intessuto il Decameron 49 , si basa su di una serie di topoi argomentativi,<br />

come quello del “vivere bene e onestamente” (II, 3, 37), della contrapposizione di<br />

una sposa giovane ad un “vecchissimo” marito (ibidem), della paura di contravvenire<br />

48 Una delle questioni sociali più interessanti, per l’atteggiamento mostrato da Boccaccio nel<br />

Decameron in più luoghi, è questa del “matrimonio naturale” e delle conseguenze che questo<br />

genere di scelta porta con sé: esempi paradigmatici sono da un lato la novella dell’Andreuola<br />

e di Gabriotto (IV, 6), per il fatto che si dichiara apertamente il carattere di “matrimonio<br />

segreto” dell’unione dei due, ma anche per la riflessione del padre della donna sulla<br />

possibilità di darle il marito che lei avrebbe desiderato; e dall’altro quella cosiddetta<br />

dell’usignuolo (V, 4), in cui le intenzioni di Messer Lizio paiono confortate da un progetto<br />

inconscio della figlia, se in quel “mettere in gabbia l’usignuolo” non vediamo soltanto il<br />

desiderio di appagare il giovanile desiderio dei giovani, ma quello di “chiudere” il loro<br />

legame entro un ben preciso ambito, come anche dimostrato dalla palesità del luogo degli<br />

appuntamenti amorosi, situato nella casa stessa dei genitori della giovane.<br />

49 Essi si differenziano per intensità, per stili o per argomenti, passando – per esempio – da<br />

questo della figlia del re d’Inghilterra alla completamente diversa perorazione di Alatiel (II,<br />

7), dal virilissimo discorso di Ghismonda (IV, 1) alle sciocche elucubrazioni di madonna<br />

Lisetta (IV, 2). Per uno studio puntuale della problematica della perorazione d’amore si<br />

rimanda allo studio di Vittorio Russo Perorazione d’amore da parte di «donne» e «femine»<br />

nel Decameron (1983:89-107) ed al capitolo da noi dedicato in questo saggio.<br />

81


alle leggi divine ed all’onore regale a causa di una tanto infelice unione (II, 3, 38), ed<br />

infine quello di mettere l’interlocutore davanti all’evidenza di quanto è già accaduto<br />

e, perciò, immutabile 50 (Lui ho adunque preso e lui voglio, né mai alcuno altro avrò,<br />

che che se ne debba parere al padre mio o a altrui (II, 3, 40); acciò che per voi il<br />

contratto matrimonio tra Alessandro e me solamente nella presenza di Dio io facessi<br />

aperto nella vostra (ibidem)). Al travestimento come contraffazione della propria<br />

identità, motivato dalla situazione di pericolo in cui la protagonista si trova, non si<br />

aggiunge la menzogna come contraffazione della verità: Boccaccio evita di regalare<br />

ai suoi lettori un’altra Isotta. Il discorso, che convince per la bellezza “naturale” delle<br />

sue argomentazioni, è però una vera e propria “dichiarazione di guerra” alle<br />

convenzioni sociali, ponendosi come pericoloso argomentare, se riferito alla figlia di<br />

un re, naturalmente sottoposta non soltanto allo jus paterno che dice di non voler<br />

accettare, ma anche a degli obblighi istituzionali che non possono essere messi da<br />

parte, e che con la loro inosservanza danno a questa novella tutto il sapore di una<br />

fiaba 51 . La personalità della giovane e futura regina di Scozia (secondo l’illazione<br />

contenuta in II, 3, 48) è comunque vivacissima, e fortemente contrasta con la<br />

passività di Alessandro e l’accondiscendente placidità del Pontefice: la<br />

determinazione a voler volgere gli eventi a proprio vantaggio trova fertile terreno<br />

nella capacità di affrontare con sincerità la situazione, senza perdere la testa (Molti<br />

sono li quali, semplicemente parlando, dicono che Amore trae altrui del senno e<br />

quasi chi ama fa divenire smemorato. Sciocca opinione mi pare: e assai le già dette<br />

50 Completamente diversi saranno gli atteggiamenti di Alatiel (II, 7) e di Alibech (III, 10), e<br />

valga comunque il proverbio in chiosa alla II, 7, secondo cui «Bocca basciata non perde<br />

ventura, anzi rinnuova come fa la luna» (122)<br />

51 Grandissimo è stato ed è ancora l’interesse verso questa tematica, di grande importanza<br />

per considerare anche in quest’ottica la storia della civiltà europea nel Medioevo: illuminanti<br />

rimangono le analisi di Bloch nella seconda parte della sua Società feudale (1982:323-362),<br />

la fortunata monografia di Duby sul matrimonio nella Francia feudale (Duby 1997) e quella<br />

su Amore e matrimonio (Duby 2002a), la terza parte – La famiglia – dello studio di Ariès su<br />

Padri e figli nell’Europa medievale e moderna (Ariès 1994:397-477), la monografia La<br />

famiglia nel Medioevo compilata da D. Herlihy (Herlihy:1999). È però nella Storia del<br />

matrimonio curata da De Giorgio - Klapisch-Zuber, che troviamo contributi più pertinenti<br />

alla situazione italiana (De Giorgio - Klapisch-Zuber 1996:5-148)<br />

82


cose l’hanno mostrato, e io ancora intendo di dimostrarlo. (VII, 6, 3)) e soprattutto<br />

considerando strategicamente il momento ed il luogo in cui la confessione<br />

dell’infrazione deve avvenire (ma più si maravigliarono li due cavalieri e sì si<br />

turbarono, che, se in altra parte che davanti al Papa stati fossero, avrebbono a<br />

Alessandro e forse alla donna fatta villania. (II, 3, 42)).<br />

La figlia del re d’Inghilterra, dunque, se da un lato esprime naturalmente l’autorità<br />

che le viene dai suoi natali illustri, in realtà dimostra il suo spirito d’iniziativa proprio<br />

in coincidenza con le situazioni di pericolo a cui è esposta. Il travestimento da abate<br />

deve celare la sua vera identità, ma non riesce a nascondere la sua forza d’animo e le<br />

caratteristiche spirituali della donna, che quindi si arricchisce di nuova nobiltà e<br />

nuova autorità, che sfociano nel discorso fatto al Pontefice.<br />

Madonna Fiordaliso<br />

Rari sono i mercanti che disdegnano le avventure amorose nel Decameron: uno di<br />

questi è Andreuccio da Perugia, che viene attirato dalla speranza di un amore<br />

“esotico” in casa della ciciliana bellissima, Madonna Fiordaliso: generazioni di<br />

critici sono rimaste affascinate da questa figura femminile cui davvero Boccaccio ha<br />

dedicato un ruolo fondamentale nella quinta novella della seconda giornata, e che<br />

occupa da dominatrice tutta la prima parte dell’azione 52 . Madonna Fiordaliso è<br />

innanzitutto, però, una prostituta 53 . Disposta per picciol pregio a compiacere a<br />

52 Per riassumere le tre linee più importanti di questa attenzione della critica a madonna<br />

Fiordaliso, ricorderemo l’attenzione dedicata da Croce alle capacità istrioniche di questa<br />

affascinante isolana, nella sua analisi della novella di Andreuccio (Croce 2001: 60-62); la<br />

lettura di Getto (1958:84-87) che ne accentua il carattere di donna avida, tutta tesa alla<br />

conquista dei denari del malcapitato perugino; l’analisi di Russo (1977:142-145) che si<br />

concentra sulla bellezza dell’incontro tra Fiordaliso e Andreuccio, un incontro che deve<br />

comunicare all’ospite sensazioni di fiducia, di familiarità.<br />

53 Una interessante analisi del fenomeno della prostituzione nel Medioevo è la monografia di<br />

J. Rossiaud, La prostituzione nel Medioevo (Rossiaud 1995), che chiarisce la funzione della<br />

prostituzione all’interno di una società complessa quale quella medievale, in cui i rapporti tra<br />

i giovani (soprattutto nelle città) sono vincolati da un regime di maggiore austerità proprio<br />

per la prospettiva del matrimonio: la frequentazione delle prostitute, secondo le forme più o<br />

meno organizzate di volta in volta presenti nelle diverse zone d’Europa e nei diversi periodi<br />

dell’età di mezzo, significava dunque una valvola di sfogo per la violenza ingenerata nei<br />

83


qualunque uomo (II, 5, 4), è la definizione sottile che Boccaccio ci offre, forse per<br />

differenziarla da altre donne – non prostitute – disposte per “gran pregio” a cedere le<br />

loro grazie (pensiamo alla moglie di Gasparruolo in VIII, 1, ma anche alle pretese,<br />

certo comprensibili in un ambito rurale perché meno uso al contatto con il denaro, di<br />

Monna Belcolore in VIII, 2), ma soprattutto, crediamo, per definire da subito la<br />

personalità ambigua di questa donna, che si serve della contraffazione – della propria<br />

identità e della verità – per soddisfare la sua bramosia di denaro. Infatti, il pensiero<br />

che segue è già rivelatore («Chi starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei?»<br />

(ibidem)) di ben più losche occupazioni di Madonna Fiordaliso (che addirittura, per<br />

causa del suo lenone, viene allusivamente accusata di operare sovente tali<br />

adescamenti – con un tragico finale –, in II, 5, 60), e per questo si pone<br />

immediatamente in contrasto con il sistema di valori boccacciano, che stigmatizza un<br />

vizio tanto contrario all’amore, quale è l’avarizia. Da questo punto di vista, la<br />

giovane siciliana perde la possibilità di muoversi sulla scena del racconto come<br />

figura reale, visto che la menzogna di cui si serve, non la obbliga a conquistare<br />

Andreuccio con la sua bellezza, con le sue grazie (come avverrà invece per<br />

Salabaetto nella novella-gemella di questa, VIII, 10). Anzi, per tutto quel denaro che<br />

gli sottrae, non è disposta neanche a concederglisi (altro che il piccol pregio<br />

dell’inizio!). Madonna Fiordaliso, che deve conquistare la fiducia di Andreuccio<br />

attraverso una serie di “prove” che sono altrettante espressioni di menzogna 54 , è<br />

maschi da severe regole di “astinenza”. La prostituta di cui parla Boccaccio è inquadrata in<br />

un ambiente di malavita (esiste un’allusione ai bassifondi napoletani in quel nome di<br />

Malpertugio, che poi Croce dimostrò non avesse in realtà il senso che Boccaccio le dava nel<br />

testo!), dal quale può entrare ed uscire a suo piacimento: non in tutte le città d’Europa,<br />

infatti, le prostitute erano obbligate a portare segni di distinzione (la proibizione di portare il<br />

velo come le donne oneste, oppure l’obbligo di apporre sul vestito un nastrino di colore<br />

vivace, un segno d’infamia) (Rossiaud 1995: 73-88), per cui non siamo sicuri che<br />

Andreuccio, per quanto ingenuo, non avrebbe saputo riconoscerla, in presenza di un segnale<br />

siffatto; se supponiamo però che quest’obbligo esisteva, il fatto che la donna abbia mandato<br />

una servetta ad “adescare” Andreuccio si potrebbe spiegare, oltre che con la proiezione<br />

dell’apparenza di avere a che fare con una gentildonna, anche con l’impossibilità di<br />

mostrarsi senza il segno distintivo!<br />

54 Queste prove-menzogne sono: l’invito ad Andreuccio, l’abbraccio e l’augurio (O<br />

Andreuccio mio, tu sii il ben venuto! (II, 5, 15)), le apparenze della camera della donna, il<br />

84


presente come “donna” solo “in effigie”, in quella frase pronunciata dalla fanticella,<br />

che tanto stimola la fantasia dell’inesperto cozzone perugino: «Messere, una gentil<br />

donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria volentieri» (II, 5, 10); e negli<br />

arredi, nei profumi della stanza che Andreuccio visita, ancora preso dall’emozione<br />

dell’avventura (in II, 5, 17), non presentendo la stonatura di quella frase breve eppure<br />

tanto efficace, tanto piena di intimità (come ricordò efficacemente il Russo) detta<br />

ancora una volta dalla fanticella: «Ecco Andreuccio» (II, 5, 14). Una volta svoltasi<br />

l’agnizione architettata dalla donna, anche queste piacevoli aspettative cadono, e di<br />

Fiordaliso non ci rimane che l’immagine di una buona padrona di casa, che si<br />

preoccupa per il suo ospite, che non vuole farlo andare in giro per una città<br />

pericolosa di notte, che gli pone qualcuno accanto, nel caso abbia bisogno di aiuto:<br />

dov’è finita la ciciliana bellissima? Alla giovane ed affascinante cortigiana si è<br />

sostituita la figura – fittizia – della sorella che con un atteggiamento materno<br />

accudisce il fratello appena ritrovato, organizza il pranzo, dirige una casa non<br />

lussuosa ma probabilmente ricca. Con l’autorità che emana dalla sua recitazione, con<br />

l’auctoritas dei fatti che racconta ad Andreuccio, e che rispondono in parte a verità,<br />

madonna Fiordaliso riesce a dirigere il corso degli eventi ed a predisporre l’animo<br />

del giovane perugino alla fiducia illimitata.<br />

Ella torna a rivelarsi nel momento in cui la caduta di Andreuccio fa accorrere da lei il<br />

giovinetto: riappare la donna avida, in preda ad una fretta ingiustificata (dato che<br />

Andreuccio è ormai “fuori gioco”), che Boccaccio sottolinea con una frase piena di<br />

termini densi di “velocità”: corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni<br />

v’erano (II, 5, 40). E noi vediamo tutta l’impazienza, quasi infantile, di toccare quel<br />

denaro, di sentirne il peso, di vederne gli aurei riflessi. Con questa immagine si<br />

congeda dal lettore una personalità femminile che indirizza lo spirito di iniziativa e la<br />

discorso di agnizione, l’invito a cena, il messaggio ai conoscenti di Andreuccio, la<br />

preoccupata esortazione a non aggirarsi per Napoli di notte. La contraffazione di parole,<br />

gesti, oggetti, luoghi (credendosi in uno onestissimo luogo andare e a una cara donna (II, 5,<br />

14) è il pensiero di Andreuccio nel percorrere le vie di quella contrada del Malpertugio!),<br />

abitudini familiari, rappresenta lo strumento che madonna Fiordaliso ha a disposizione per<br />

deviare il corso della propria fortuna, influendo naturalmente su quella del povero cozzone<br />

umbro.<br />

85


prontezza della reazione verbale agli scopi che Boccaccio meno condivide (madonna<br />

Fiordaliso è “costretta” da una pulsione della propria natura, eccezionalmente non<br />

carnale: il passaggio ad un altro genere di desiderio sembra però indotto dal fatto che<br />

la sua condizione di prostituta introduce nella narrazione soltanto l’amore di tipo<br />

utilitario, venale, se non addirittura per causa di una propensione a confondere il<br />

piacere fisico, anche se illecito o immorale, con quello dell’arricchimento, anche se<br />

illecito o immorale, appunto). Il testo stesso, nella esclamazione stupefatta e delusa<br />

di Andreuccio, ci consegna tutto il carattere effimero di questa parentela siciliana: ma<br />

se pur son sì fatti i parentadi di Cicilia, che in sì piccol termine di dimentichino... (II,<br />

5, 46).<br />

Madonna Filippa, la riformatrice<br />

La novella narrata da Filostrato nel corso della VI giornata ci presenta la pronta e<br />

piacevol risposta data da madonna Filippa al podestà di Prato: accusata di adulterio,<br />

la donna dovrebbe esser condannata alla pena capitale, secondo quanto stabilito dallo<br />

statuto pratese, ma riesce a scagionarsi argomentando in maniera tale da riuscire<br />

addirittura a modificare lo statuto stesso. La rubrica della novella pare sminuire la<br />

grande tensione che è sottesa allo svolgersi dell’azione, visto che si concentra tutta<br />

sulla prontezza e piacevolezza della risposta 55 . Se però spostiamo la nostra ottica<br />

sull’episodio in se stesso, e sulla figura di madonna Filippa, vedremo chiaramente<br />

quanto più complessa possa essere la lettura di questa unità narrativa, per la<br />

caratterizzazione della protagonista, che istintivamente collocheremo nel paradigma<br />

magistralmente adottato per Ghismunda dal Boccaccio. I casi tragici d’amore della<br />

quarta giornata prevedono una punizione comminata soprattutto ai protagonisti<br />

maschili delle relazioni amorose (Guiscardo, Lorenzo, Guglielmo, mentre le loro<br />

amanti scelgono volontariamente di immolarsi, nonostante la comunità decida di non<br />

55 La rubrica della novella ha una struttura che procede per opposizioni binarie ( 1) dal<br />

marito – un suo amante, 2) trovata – chiamata in giudicio, 3) sé libera – fa lo statuto<br />

modificare) e sembra preannunciare una narrazione assai rapida nella sua schematicità, in cui<br />

alla “scoperta” del marito succede un “processo per direttissima”, che addirittura porta ad<br />

una riforma costituzionale, nel giro di meno di venti capoversi!<br />

86


punirle direttamente), mentre in questa novella è la comunità – indirettamente, in<br />

quanto rappresentata da uno statuto – a scagliarsi contro l’adultera. La tensione cui<br />

abbiamo accennato è introdotta dal cenno di storia giuridica che il Boccaccio usa nel<br />

principio del narrare:<br />

Nella terra di Prato fu già uno statuto, nel vero non men biasimevole che<br />

aspro, il quale senza alcuna distinzion far comandava che così fosse arsa<br />

quella donna che del marito fosse con alcun suo amante trovata in<br />

adulterio, come quella che per denari con qualunque altro uomo stata<br />

trovata fosse. (VI, 7, 4)<br />

L’adulterio dunque, aggravato dalla flagranza, viene posto sullo stesso piano della<br />

prostituzione, anche nella possibilità di sfuggire proditoriamente alla pena mediante<br />

la fuga e, quindi, abbracciando una forma indiretta di esilio volontario (di voler più<br />

tosto, la verità confessando, con forte animo morire che, vilmente fuggendo, per<br />

contumacia in essilio vivere... (VI, 7, 9)): madonna Filippa accetta le conseguenze<br />

del suo atto, ma proprio nella decisione di comparire davanti al magistrato afferma la<br />

diversa qualità del suo rapporto amoroso rispetto all’amore mercenario. Ciò si nota<br />

nella scena composta dal Boccaccio per descrivere l’ingresso dell’accusata nel<br />

palazzo del podestà, dove ella si reca assai bene accompagnata di donne e d’uomini,<br />

da tutti confortata al negare: persino il podestà, che deve far rispettare la legge che<br />

rappresenta, cominciò di lei a aver compassione (VI, 7, 11)!<br />

Con un atteggiamento di fermezza simile a quello di Ghismonda, madonna Filippa<br />

comincia il suo discorso di difesa senza sbigottire punto, con voce assai piacevole, e<br />

si richiama, come aveva fatto la figlia di Tancredi, ad una serie di diritti umani,<br />

naturali e biologici (l’espressione di questi ultimi continua in qualche modo la<br />

considerazione “scandalizzata” di Masetto: Madonna, io ho inteso che un gallo<br />

basta assai bene a diece galline, ma che diece uomini posson male o con fatica una<br />

femina soddisfare... (III, 1, 37)):<br />

87


1)... le leggi deono esser comuni e fatte con consentimento di coloro a<br />

cui toccano.<br />

2) Le quali cose di questa non avvengono, ché essa solamente le donne<br />

tapinelle costrigne, le quali molto meglio che gli uomini potrebbero a<br />

molti soddisfare;<br />

3) e oltre a questo, non che alcuna donna, quando fatta fu, ci prestasse<br />

consentimento,<br />

4) ma niuna ce ne fu mai chiamata... (VI, 7, 14)<br />

Il discorso della donna incriminata è diretto a dimostrare l’illegittimità delle leggi<br />

fatte dagli uomini, così come Ghismonda aveva giustificato con il principio di<br />

uguaglianza degli uomini il suo legame con Guiscardo, a lei inferiore di lignaggio:<br />

l’infondatezza del principio legale dello statuto adultericida viene confermata dal<br />

giudizio morale sulla legge (malvagia si può chiamare), sull’esecutore di questa (E<br />

se voi volete, in pregiudicio del mio corpo e della vostra anima, esser di quella<br />

essecutore, a voi sta...) ed infine sulla situazione generale delle “donne innamorate”,<br />

a cui si era accennato nell’argomentazione 2), per cui la concessione di sé, dunque<br />

l’essere consenzienti ai doveri coniugali, può essere quantificata ma non mercificata.<br />

Nella difesa della donna di fronte all’imputazione si nota subito come la reazione<br />

verbale voglia richiamare gli astanti alla qualità peculiare del corpo femminile: la<br />

forza espressiva di quel debbolo io gittare a’ cani?, che richiama le parole<br />

dell’Evangelo di Matteo, nega chiaramente che il corpo di madonna Filippa, in<br />

quanto donna rispettosa del legame matrimoniale, sia considerato meno prezioso per<br />

il fatto che ella lo doni liberamente ad un gentile uomo che più che sé m’ama! In IV,<br />

9 la moglie di Guiglielmo di Rossiglione si era appellata al diritto coniugale nel<br />

senso della responsabilità di chi sceglie liberamente di donare a qualcuno un corpo<br />

che non è più proprio, ma appartiene al consorte, mentre in questa novella l’ottica<br />

giuridica si ampia ed apre, a tutto vantaggio di madonna Filippa – e poi delle donne<br />

pratesi in generale – un capitolo nuovo nella considerazione dei rapporti<br />

extraconiugali, richiamandosi proprio ad un ideale dell’amor cortese, sottolineato in<br />

88


quell’amare più di sé stessi che riecheggia il servigio d’amore e la diversa qualità<br />

della relazione extraconiugale rispetto a quella matrimoniale (ma nel caso di<br />

Federigo degli Alberighi madonna Giovanna non sarà di questo parere!).<br />

Ginevra<br />

Ha un nome di ormai classica diffusione, nel Trecento, la protagonista della nona<br />

novella della seconda giornata, novella che pone al centro del proprio nucleo<br />

narrativo il travestimento, per dipanare le maglie della complicata situazione in cui la<br />

protagonista viene a trovarsi. 56 Prima che Ginevra/Zinevra appaia, come sovente<br />

succede per la presentazione delle figure femminili, ne vengono descritte le qualità:<br />

una donna perfetta, dotata persino delle virtù che competerebbero all’altro sesso (la<br />

più compiuta di tutte quelle virtù che donna o ancora cavaliere in gran parte o<br />

donzello dee avere (II, 9, 8)), come anche di abilità tutte maschili (la commendò<br />

meglio saper cavalcare un cavallo, tenere uno uccello, leggere e scrivere e fare una<br />

ragione che se un mercatante fosse (II, 9, 10). Il discorso di Bernabò, pur se limitato<br />

alla persona della sua consorte, è entusiasta di questo primato, e si oppone<br />

radicalmente a quello di Ambrogiuolo, che sulla base del pregiudizio fondato sulla<br />

lettura capziosa della Scrittura, nega la perfezione alla donna, riservandola all’uomo.<br />

Riuscito l’inganno di Ambrogiuolo, Bernabò è convinto di essere stato tradito da sua<br />

moglie, e davanti a questa delusione invia un suo servo ad ucciderla: il dialogo –<br />

56 A proposito della soluzione di questa situazione, ricorderemo due chiavi di lettura<br />

particolarmente interessanti: Bruni propone un interessante accostamento per via<br />

differenziale tra la novella di Alatiel e questa di Bernabò e Ginevra: In una scala che<br />

misurasse la reazione dei personaggi ai casi della fortuna, madonna Zinevra occuperebbe<br />

l’estremità opposta a quella di Alatiel. (...) Tale è la differenza di comportamento, che<br />

mentre Alatiel si salva accentuando la sua caratteristica di animale erotico, madonna<br />

Zinevra si taglia i capelli, indossa abiti maschili e, «trasformatasi tutta in forma d’un<br />

marinaro» diventa «Sicuran da Finale» e s’imbarca su una nave catalana. (1999:268-269);<br />

la differenza sta anche nella capacità di saper usare il mezzo linguistico, visto che Alatiel è<br />

muta e sorda nell’ambiente che le è estraneo, e Zinevra riesce a muoversi perfettamente, pur<br />

da cristiana, alle dipendenze del sultano. Un’altra lettura della novella, quella di Petrini,<br />

tende piuttosto a mettere in luce gli elementi fiabeschi di essa, smontando quanto costruito<br />

dall’analisi di Almansi che si serviva della prospettiva di un personaggio donna-uomo,<br />

proiettandola nel comportamento maschile-mercantile (in Petrini 1986:37-50)<br />

89


ambientato in un vallone molto profondo e solitario e chiuso d’alte grotte e d’alberi<br />

(II, 9, 36) – tra il servo e madama Zinevra ha di per sé un tono inverosimile, in<br />

quell’avvertimento che il domestico, sicuramente intimorito da quanto ha da<br />

compiere, e dalla donna stessa, prima lancia come “buon cristiano” (Madonna,<br />

raccomandate l’anima vostra a Dio (II, 9, 36)), poi complica rispondendo alla<br />

richiesta di chiarimenti da parte della sua vittima, soprattutto contraddicendosi<br />

nell’argomentazione relativa al necesse est: il padrone lo ha infatti minacciato di<br />

farlo impiccare per la gola, nel caso non esegua quanto ha comandato, eppure il<br />

servo lo fa perché: Voi sapete bene quanto io gli son tenuto e come io di cosa che<br />

egli m’imponga possa dir di no: sallo Idio che di voi m’incresce ma io non posso<br />

altro. (II, 9, 38) Di fronte all’indecisione manifestata dal familiare, Ginevra dimostra<br />

– pur con un po’ di paura in principio – di avere i nervi saldi: possiede davvero le<br />

virtù che il marito le attribuiva, e può escogitare subito un primo tentativo di salvare<br />

la pelle, dando a credere a Bernabò di esser morta. Priva della sua identità effettiva,<br />

Ginevra deve cambiarsi d’abito, tagliarsi i capelli e, quel che è più importante,<br />

cambiare nome e stile di vita: diventa un marinaio, simboleggiando con questo la<br />

volontà di partire dal “suolo patrio” per cercare altri luoghi dove nascondere la<br />

propria identità. La contraffazione di ogni livello di identità (il sesso, il nome, lo stile<br />

di vita, gli abiti) è funzionale all’incontro con Ambrogiuolo ed all’occasione di poter<br />

apprendere direttamente da questo le ragioni dell’ira di Bernabò; una coincidenza<br />

vuole poi che di fronte al sultano si venga a trovare, oltre a Ginevra ed Ambrogiuolo,<br />

anche Bernabò. È in questa occasione che Ginevra, nei panni di Sicurano, riesce a<br />

sfruttare la sua doppia identità per chiarire davanti all’autorità di un regnante l’errore<br />

alla base della persecuzione che l’aveva colpita: ancora una volta la determinazione<br />

femminile prende il sopravvento sulla passività dei due uomini, protagonisti attivi<br />

della “scommessa” ed ora chiaramente sottoposti all’autorità di Zinevra.<br />

La quale, per dimostrare quanto ha da dire, compie un gesto plateale (stracciando i<br />

panni dinanzi e mostrando il petto (II, 9, 69)) che pure ha un senso di ciclicità, se era<br />

stato quel neo sotto la mammella sinistra a confortare Bernabò nel sospetto del<br />

tradimento. Il travestimento, contraffazione di tutti i segni di riconoscimento<br />

90


dell’individuo, si pone in questo caso in una direzione obbligatoria, se è vero che<br />

Zinevra possiede già quelle doti maschili che le permetteranno di passare<br />

inosservata: non sono però soltanto le virtù fisiche, diremmo sportive, a<br />

contrassegnare il periodo “maschile” di Zinevra, se è vero che il sultano vede in<br />

Sicurano da Finale un uomo adatto al comando e lo destina alla gestione della<br />

sicurezza del commercio in Acri. Il comportamento autoritario e l’attitudine al<br />

comando, al governo esemplare, caratterizzano anche altre protagoniste del<br />

Decameron, come Griselda o Giletta di Nerbona, ed in qualche modo costituiscono<br />

un contrassegno morale che le oppone all’ingiusto trattamento che viene riservato<br />

loro dai mariti, ma mentre in Griselda non vediamo che l’accettazione rassegnata e<br />

passiva dei voleri maritali, in Zinevra lo spirito di iniziativa, unito alla capacità di<br />

accettare i compromessi strettamente legati all’emergenza delle situazioni, risulta<br />

virtù in grado di capovolgere persino la gerarchia delle autorità familiari (Bernabò,<br />

una volta riconosciuta Zinevra, le si getta ai piedi e le chiede perdono, e ci sembra<br />

che questa umiliazione non corrisponda alle moderate scuse addotte dal marchese di<br />

Salluzzo a Griselda).<br />

La moglie insoddisfatta<br />

In un rapporto di stretta continuità con la novella di madonna Zinevra sta l’ultima<br />

novella della seconda giornata: Bartolomea Gualandi, moglie di Ricciardo di<br />

Chinzica, viene rapita dal corsaro Paganino di Monaco, e decide di restare con<br />

quest’ultimo, rifiutando di tornare con il legittimo marito. Se la terza novella della<br />

stessa giornata aveva sollevato il problema dei pericoli morali che sono sempre in<br />

agguato là, dove la coppia non è abbastanza affiatata, dove troppi sono gli anni di<br />

differenza tra marito e moglie, questo racconto, che parte dalla manifestazione da<br />

parte di Dioneo di tutto il suo scetticismo nei confronti della castità delle mogli –<br />

specialmente di fronte alle malefatte dei mariti –, vuole ribaltare quanto messo in<br />

91


opera dallo smascheramento operato da Zinevra 57 , incentrando la vicenda<br />

sull’incapacità di un giudice ad ottemperare agli obblighi matrimoniali 58 .<br />

L’accorgimento utilizzato da messer Ricciardo per allontanare la “minaccia”<br />

dell’amplesso, è quello di una strenua osservazione dell’astinenza sessuale, imposta<br />

nei dì festivi, e dunque estesa a pressoché tutti i giorni dell’anno: Bartolomea, delusa<br />

e “malinconosa”, la scorgiamo appena, sorvegliata del resto dal marito, gelosissimo,<br />

affinché nessun altro le ‘nsegnasse conoscere li dì da lavorare, come egli l’aveva<br />

insegnate le feste (II, 10, 10). Ed anche il giorno del suo rapimento, non è che una<br />

donna in mezzo ad altre (come per Alatiel al momento del naufragio), ma viene<br />

subito notata da Paganino, che la prende su e la porta via con sé: la situazione si<br />

capovolge, la donna non deve “combattere” la fortuna, ma adattarsi (e per sì fatta<br />

maniera la racconsolò, che, prima che a Monaco giugnessero, e il giudice e le sue<br />

leggi le furono uscite di mente (II, 10, 16)), come aveva fatto la bella Alatiel (la<br />

cominciò per sì fatta maniera a consolare, che ella, già con lui dimesticatasi,<br />

Pericone dimenticato avea (II, 7, 37)). Data la situazione di partenza, la donna non<br />

deve adeguarsi alle vicende avventurose di altre eroine della stessa giornata, non è<br />

costretta a travestirsi o a menomare la propria integrità espressiva: finalmente libera<br />

di vivere intensamente le gioie dell’alcova, si vendica dell’astinenza voluta dal<br />

marito – per legge – legittimo, enumerandogli i vantaggi della sua nuova vita. È il<br />

marito, adesso, ad appellarsi alla “questione morale”, con una non troppo convinta<br />

arringa nei confronti della moglie fedifraga e recidiva: Deh, anima mia dolce, che<br />

parole son quelle che tu di’? or non hai tu riguardo all’onore de’ parenti tuoi e al<br />

tuo? vuoi tu innanzi star qui per bagascia di costui e in peccato mortale, che a Pisa<br />

mia moglie? (II, 10, 35). Se Bartolomea decide comunque di restare accanto al suo<br />

57 ...tutto il discorso femminile, nella sequenza conclusiva della novella, giunge a demolire<br />

un inganno che in una prassi solo verbale si è perpetrato ed ha quindi trovato riconferma.<br />

(Grimaldi 1987:39)<br />

58 Anche questo è un tema di particolare frequenza nel Decameron (si veda la novella di frate<br />

Puccio, III, 4; o quella di Pietro di Vinciolo, V, 10), probabilmente non solo per i risvolti<br />

umoristici degli argomenti che toccano la sfera del rapporto sessuale (pensiamo alla novella<br />

di Calandrino pregno!), ma anche per una diversa “lettura” delle aspettative delle donne sotto<br />

questo punto di vista, anche secondo quanto è argomentato da madonna Filippa in VI, 7.<br />

92


apitore, compie un atto altrettanto coraggioso quanto quello compiuto dalla figlia<br />

del re d’Inghilterra in II, 3 (pur con il fare scherzoso che gli è proprio, Dioneo<br />

sollecita la discussione su di un tema scottante, che di volta in volta tornerà<br />

nell’opera proprio in sede delle discussioni sulla possibilità di amare delle donne,<br />

secondo il loro arbitrio). La moglie di messer Ricciardo, prendendo quella decisione,<br />

attribuisce dunque maggiore importanza alle leggi della natura, che alle convenzioni<br />

sociali. In conseguenza della propria opinione su di un diritto non sempre<br />

inequivocabilmente espresso, ella deve controargomentare alle richieste di Riccardo<br />

di Chinzica forzando su quanto può riuscire umiliante nei confronti del marito 59 .<br />

Le suore e l’ortolano<br />

La prima novella della terza giornata ripropone il motivo della privazione della<br />

parola che, come abbiamo visto in altra sede, ha una valenza che va ben oltre<br />

l’esigenza dei meccanismi narrativi: la situazione vissuta da Masetto da<br />

Lamporecchio ha inoltre una somiglianza formidabile con quella della giovane<br />

contadina in I, 4, in quanto l’introdursi dell’elemento estraneo e turbatore nel<br />

convento è in ambedue le novelle caratterizzato dal silenzio – indice di passività e<br />

accondiscendenza – di questo elemento stesso. Nella novella raccontata da Filostrato,<br />

però, il “rapporto di forza” è invertito rispetto alla I, 4: trovandoci in un convento di<br />

monache, saranno queste ad “abusare” dell’intruso, ed il gioco di “seduzione<br />

gerarchica” si spingerà allo stesso modo fino al vertice dell’istituzione, cioè fino alla<br />

badessa.<br />

A scoprire le virtù nascoste dell’ortolano saranno due giovinette monache: nel loro<br />

dialogo di impressionante vivacità, Boccaccio ci consegna la descrizione addirittura<br />

commovente di due adolescenti che muovono i primi passi nel mondo sconosciuto<br />

del piacere carnale. Il dialogo comincia con il tono “congiuratorio” dei fanciulli (Se<br />

io credessi che tu mi tenessi credenza..., Dì sicuramente, ché per certo io nol dirò<br />

mai a persona) per approdare al tono iperbolico della descrizione del piacere causato<br />

59 In un altro capitolo di questo saggio tratteremo con maggiore dovizia di particolari la<br />

speciale “perorazione” di madonna Bartolomea.<br />

93


dall’unione dei corpi: tutte l’altre dolcezze del mondo sono una beffa a rispetto di<br />

quella quando la femina usa con l’uomo. Le attrattive del gioco di seduzione che la<br />

monaca più spregiudicata (la baldanzosa) propone alla sua compagna, riescono a<br />

vincere ogni resistenza ed ogni paura di ordine morale o biologico: la seduzione vera<br />

e propria, però, è molteplice, in quanto viene esercitata dalla monaca baldanzosa nei<br />

confronti della sua compagna, ma anche dalla presenza stessa di Masetto, che per la<br />

sua condizione di mutismo diviene un seduttore sedotto, lasciando completamente<br />

l’iniziativa alle giovani religiose e tollerando di veder capovolto il suo ruolo pur di<br />

ottenere quanto si era prefisso in principio. Una volta avvenute le seduzioni<br />

successive, si insiste soprattutto sulla insaziabilità delle monache e – soprattutto –<br />

della badessa: la libido scatenata di queste religiose non si riferisce soltanto ad una<br />

critica della smoderatezza di determinati ambienti conventuali, ma – temiamo – ad<br />

una generale disposizione della donna, che sente più intensamente il richiamo dei<br />

sensi, tanto da giungere talvolta a contravvenire, a causa di ciò, a basilari regole<br />

sociali 60 (non stupisce dunque che con Masetto si ritorni alla similitudine già<br />

presente in I, 5 delle galline e dei galli, che completa la caratterizzazione “rustica”<br />

della novella avviata dalla figurazione equivoca dell’orto e dello zappare). La<br />

caratterizzazione parallela delle monache che per prime seducono Masetto, e della<br />

badessa che alla fine della novella non riesce ad imporsi con l’autorità dovuta<br />

all’ortolano ormai spossato dalle richieste sempre più impegnative delle religiose, ci<br />

pone di fronte al confronto tra il giovane monaco e l’abate in I, 4, che pure si fonda<br />

sul maggiore spirito di iniziativa di alcuni, piuttosto che di altri, nei piaceri della<br />

carne. Anche nel caso delle giovani religiose che seducono Masetto, tutto avviene<br />

conformemente ai desideri di chi in quel momento detiene il potere verbale.<br />

60 Esemplare appunto il caso di Bartolomea Gualandi che preferisce restare con il pirata che<br />

l’ha rapita, piuttosto che tornare con il marito che non onora i doveri coniugali (II, 10),<br />

oppure quello di Alibech, che crede inesauribili le forze del suo ospite (III, 10), o Madonna<br />

Filippa che addirittura quantifica il piacere (VI, 7), e così via.<br />

94


Giletta di Nerbona<br />

Anticipazione della ultima novella del Decameron, quella della troppo paziente<br />

Griselda, e parallelo tematico degli eventi contenuti nella novella di Tedaldo degli<br />

Elisei 61 , la novella di Giletta di Nerbona presenta una delle più complesse figure<br />

femminili dell’opera. Donna sapiente ed animata da una inestinguibile passione<br />

amorosa per un uomo di lignaggio superiore, Giletta mostra subito il suo valore<br />

guarendo il re di Francia ed inserendosi nell’atmosfera favolosa del prodigio e della<br />

ricompensa straordinaria che all’apparire di esso gratifica chi il prodigio opera: come<br />

accade al principio della novella di Alatiel, il sovrano esprime la propria<br />

riconoscenza “privandosi” di un elemento della famiglia regale, anche al fine di<br />

meglio stringere il suo rapporto di confidenza con la persona cui è obbligato; ma<br />

Giletta previene la consuetudine, esprimendo il desiderio di un marito tale quale io il<br />

vi domanderò, senza dovervi domandare alcun de’ vostri figliuoli o della casa reale<br />

(III, 9, 16). La richiesta esprime da un lato la fedeltà della giovane all’uomo da lei<br />

amato, dall’altro la volontà di non offendere il proprio re, eppure Giletta – in virtù<br />

del prodigio che sente di poter operare – non prende in considerazione la differenza<br />

di lignaggio tra sé e Beltramo. Questa differenza crea un insopportabile muro di<br />

indifferenza tra i due coniugi, per superare il quale Giletta dovrà affrontare delle<br />

prove impossibili: la prima si inserisce perfettamente nel topos della castellana che<br />

sostituisce il marito assente (come abbiamo visto per la marchesana del Monferrato),<br />

e consiste nel rimettere in sesto la contea di Beltramo, cosa che le guadagna il favore<br />

dei sudditi. Di fronte a questa prima prova di eccellenza, spirito di iniziativa e<br />

predisposizione al comando, Beltramo propone una condizione impossibile al<br />

ritorno, con la chiara intenzione di negare la possibilità che esso avvenga 62 : io per me<br />

61 La dimensione fantastica, anzi favolistica di questa novella, le riserva un posto particolare<br />

nella raccolta boccacciana, come hanno sottolineato Petrini e Branca (1996:200 n.): per<br />

quanto riguarda la sua struttura generale, bisogna sottolineare - come ha ricordato Baratto –<br />

che in questa novella esiste una inversione di tendenza rispetto alla III, 7, di cui appare<br />

diretta discendente per impianto, in quanto la tensione avventurosa non intellettualizza la<br />

passione della protagonista, ma si piega al suo tenace temperamento (1986:143).<br />

62 La richiesta impossibile assumerà carattere davvero iperbolico nella novella di madonna<br />

Dianora.<br />

95


vi tornerò allora a esser con lei che ella questo anello avrà in dito e in braccio<br />

figliuolo di me acquistato (III, 9, 30). Giungiamo in tal modo al vero nucleo tematico<br />

della novella, quello in cui avviene la seduzione, argomento – a nostro parere –<br />

trainante di tutta la terza giornata: con un espediente simile a quello che aveva fatto<br />

cadere Catella nella trappola orditale da Ricciardo Minutolo (III, 6), Giletta procura<br />

di sostituirsi alla donna che suo marito ama, dopo averlo fatto convincere che costei<br />

gli si concederà solo potendo ottenere quell’anello che Beltramo aveva così<br />

maliziosamente inserito nella sua impossibile richiesta.<br />

A consolidare l’autorità di Giletta nell’ottica di una “solidarietà” tutta femminile,<br />

Boccaccio reintroduce il motivo del dialogo tra donne, quando Giletta conversa con<br />

la madre della giovane desiderata da Beltramo, e si avverte negli atteggiamenti e<br />

nelle parole la volontà di un comune intento, che si stabilisce tra le due interlocutrici.<br />

La tenace volontà della contessa appare ben giustapposta all’umiltà ed alla modestia<br />

che spirano dai discorsi della povera donna: le virtù femminili, portate ad un grado di<br />

eccezionalità non troppo frequente nel Decameron, si manifestano in uno spettro<br />

ampio e quantomai vario, che tende in questo caso ad esaltare la costanza, la<br />

perseveranza in un atteggiamento che si conosce giusto, ma che oppone agli attori<br />

degli eventi, difficoltà apparentemente impossibili da sormontare. È così che,<br />

mediante un espediente altrimenti utilizzato per ingannare una donna non<br />

consenziente ad un amore adulterino, viene concesso a Giletta di portare a<br />

compimento la ricongiunzione con il suo legittimo consorte!<br />

In Giletta viene esaltato soprattutto il carattere nobilmente autoritario (nel corso della<br />

narrazione è quasi sempre nominata la contessa, soltanto all’inizio incontriamo il suo<br />

nome di battesimo) e la strenua volontà di reagire agli eventi a costo di qualsiasi<br />

compromesso. Questa volontà si manifesta, naturalmente, nel discorso finale tenuto<br />

al conte, che rappresenta l’umiliazione dell’autorità dispotica del marito. Inoltre, le<br />

parole che Giletta usa per definirsi (Signor mio, io sono la tua sventurata sposa, la<br />

quale, per lasciar te tornare e stare in casa tua, lungamente andata son tapinando<br />

(III, 9, 58)) sono quasi una ripetizione delle parole dette da Ginevra a Bernabò<br />

(Signor mio, io sono la misera sventurata Zinevra, sei anni andata tapinando (II, 9,<br />

96


68)) ed esprimono – nel parallelo tra le due novelle – una comunanza di intenti che<br />

chiaramente riconosciamo nell’agire delle due donne, che infine altro non desiderano<br />

che di ricongiungersi al legittimo consorte: questa intenzione viene sancita<br />

verbalmente dalla citazione della sventura e da quella delle peripezie, ma soprattutto<br />

dallo spirito di rivincita che si ritrova chiaramente in ambedue le protagoniste (con<br />

un risvolto tragico per l’ingannatore Ambrogiolo, che viene orribilmente fatto<br />

suppliziare).<br />

97


Il gesto esemplare<br />

Tra le tipologie femminili del Decameron troviamo alcune figure investite di valore<br />

esemplare nel fatto di compiere un gesto, un atto, con cui riescono a dare una svolta<br />

– nel bene o nel male – alla vicenda di cui sono protagoniste o, in taluni casi, vittime.<br />

Andreuola: sogno ed azione<br />

La protagonista della sesta novella della quarta giornata sembra continuare il<br />

“modello” inaugurato da Ghismonda e Lisabetta: anche qui l’amore diviene<br />

“tragico” 63 ancora quando non è inquadrato in una cornice di legalità, di legittimità,<br />

visto che l’Andreuola sceglie Gabriotto per marito, e la loro unione si svolge secondo<br />

un rituale non pubblico (come era successo in II, 3, prima che il Papa stesso<br />

benedicesse l’unione della figlia del re d’Inghilterra con Allessandro): acciò che<br />

niuna cagione mai, se non morte, potesse questo lor dilettevole amor separare,<br />

marito e moglie segretamente divennero. (IV, 6, 9) Il padre, simbolo della famiglia<br />

generalmente contraria a questo genere di unione, non appare però che alla fine della<br />

novella, e con una presenza davvero “illuminante”, se la confrontiamo con le azioni<br />

poco degne compiute da Tancredi e dai fratelli di Lisabetta: come sarà poi per la<br />

novella-specchio di questa, la settima della stessa giornata, anche in questo caso la<br />

storia dei due amanti si pone in contrasto con la generica posizione giuridica della<br />

collettività nei confronti di un delitto, perpetrato contro un uomo da una donna<br />

(logica prosecuzione di quanto presagito nella novella di Andreuccio, questo casus<br />

sembra un archetipo dettato da una sorta di superstizione arcana, quella del delitto<br />

che reitera l’inganno perpetrato da Eva nei confronti di Adamo) e quindi letto sotto la<br />

luce della seduzione che mira a privare l’uomo della sua facoltà di reagire, che lo<br />

63 Facciamo nostra l’affermazione di Getto a proposito della continuità tra il sogno della<br />

novella di Lisabetta ed il motivo del sogno che domina in questa dell’Andreuola e di<br />

Gabriotto: più che la fenomenologia del sogno, interessa la fenomenologia dell’azione dal<br />

sogno determinata; più che l’arabesco di immagini del sogno, importa il rapporto fra il<br />

sogno e l’azione: l’inserirsi del sogno nell’esistenza (...), o quale premonizione di un evento.<br />

(Getto 1958:131)<br />

98


ende vittima della donna capace – con il suo fascino diabolico – di superare le difese<br />

della forza fisica e della forza di volontà, per impadronirsi della sua volontà. Il<br />

doppio sogno contenuto nella novella sollecita la fantasia del lettore innanzitutto<br />

nella aderenza del messaggio di esso a forme che mutano a seconda del soggetto cui<br />

il sogno si dirige: la donna sogna un atto d’amore, in cui si inserisce una presenza<br />

estranea, una cosa oscura e terribile (IV, 6, 10), in cui potremmo riconoscere tanto<br />

semplicemente la morte – come tale –, quanto l’ombra minacciosa della peste, che si<br />

stende in più di una novella del Decameron, ben oltre la cornice, quanto il peccato<br />

stesso, che generalmente è cosa oscura (in quanto si insinua in noi e non riusciamo a<br />

distinguerla se non in presenza della luce della fede, della rivelazione) e terribile (per<br />

le sue conseguenze) e che punisce privando la peccatrice dell’amato bene,<br />

costringendola – implicitamente, e con il senno di poi del lettore, che conosce la fine<br />

della novella – ad espiare nella maniera più completa, entrando al servizio di Dio.<br />

L’uomo, invece, dando ascolto a quanto affermato già nel Proemio, per cui gli<br />

uomini, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi<br />

da alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca<br />

l‘andare a torno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare... (Pr. 12),<br />

sogna l’attività che meglio gli si addice, quella venatoria, esercitata contro un<br />

animale nobile, la capriola, cui subentra, nella visione, la veltra nera, a caccia, a sua<br />

volta, del cuore di Gabriotto: due animali «femminili», il primo evidente simbolo<br />

dell’attrazione esercitata dalla bellezza femminile, il secondo altrettanto evidente<br />

simbolo della – supposta – vera natura di essa, che dapprima imprigiona l’uomo con<br />

il suo fascino, poi cerca di strapparne il cuore, per ripetere sacrilegamente l'atto di<br />

creazione della donna, mediante quel rodere il fianco sinistro. La visione – doppia ed<br />

inquietante – ha sulla donna lo stesso effetto che avevano avuto le voci messe in giro<br />

dai fratelli a proposito di Lorenzo, su Lisabetta: Andreuola si sollazza con Gabriotto<br />

suspicando e non sappiendo che (IV, 6, 18), ed anche la situazione estrema, quella<br />

dell’abbraccio della giovane con il cadavere dell’amato, sembra riproporsi identica a<br />

quella della novella precedente. Qui è la fantesca della donna ad interpretare il “buon<br />

senso” che aveva spinto i fratelli di Lisabetta a nascondere la loro colpa seppellendo<br />

99


Lorenzo: da un lato la donna – sembra quasi sulla scorta delle esperienze negative<br />

delle precedenti novelle, quindi avendo già tratto utile consiglio dall’opera di cui fa<br />

parte! – spinge Andreuola ad evitare il suicidio, mettendola davanti alla minaccia<br />

della dannazione eterna; d’altro canto, la fantesca propone che Gabriotto venga<br />

seppellito lì, su due piedi, mentre la giovane, risoluta, decide di trasportare tutto il<br />

cadavere, dai parenti di lui. Il motivo del drappo prezioso che avvolge i resti mortali<br />

come reliquie, e quello del trasporto del corpo – qui ampliato rispetto al cuore di<br />

Guiscardo ed alla testa di Lorenzo – vengono asserviti alla complicazione<br />

“andreucciana” dell’incontro con la famiglia del podestà, con l’autorità di polizia,<br />

che viene riconosciuta, da Andreuola, come la possibilità di porre fine alla propria<br />

vita: infatti, quando ella incontra gli sbirri, è detta più di morte che di vita desiderosa<br />

(IV, 6, 32), e la specificazione sembra accennare alla volontà di consegnarsi alla<br />

giustizia nella speranza di espiare con la vita un delitto che non ha commesso<br />

“direttamente”, ma di cui la donna si sente comunque responsabile.<br />

Mentre i gesti finora compiuti avevano lo scopo di dimostrare la propria fedeltà<br />

all’amato, la condotta di Andreuola, durante l’interrogatorio, decide di abbandonare<br />

un semplice atteggiamento di umile sincerità (francamente disse (IV, 6, 32)) per dare<br />

spazio – come capita sovente a queste donne boccacciane, e pensiamo soprattutto alla<br />

Ginevra di II, 9 ed a Ghismonda messa in confronto con il padre Tancredi –, di fronte<br />

all’oltraggio morale che il podestà vorrebbe perpetrare, ad una vera e propria<br />

metamorfosi: da sdegno accesa e divenuta fortissima, virilmente si difese (IV, 6, 35)!<br />

Come si vede, la risolutezza, la determinazione, la forza, esulano da un<br />

comportamento femmineo, e giustificano un avverbio come quel virilmente che ci<br />

manifesta di Andreuola tutta la fermezza morale, unita alla coscienza di avere dalla<br />

propria parte una forza fisica proveniente dalle ultime tragiche esperienze (forza<br />

fisica che, dimostrata nel trasporto del cadavere di Gabriotto, è associabile a quella<br />

necessaria al “taglio della testa” operato da Lisabetta, che pure è operazione che<br />

necessita un vigore virile, in tutti i sensi). Questa fermezza non porta al suicidio, non<br />

porta neanche alla possibilità di immolarsi in virtù di un errore giudiziario (escluso a<br />

priori da quel sentendo costei in piccola cosa esser nocente (IV, 6, 34), in cui pure si<br />

100


sente la condanna di quell’amore fuori dal comune, in quanto non santificato da un<br />

matrimonio pubblico), ma conduce, inevitabilmente, alla monacazione, che delle tre<br />

forme di reazione all’amore tragico finora analizzate (il suicidio violento ed<br />

immediato di Ghismonda, il lento lasciarsi morire di Lisabetta) resta la più lieve, ma<br />

pure la più coraggiosa, paradossalmente, in quanto proietta il motivo dell’espiazione<br />

sul peccato commesso e sulla doppia visione che avrebbe dovuto spingere i due<br />

amanti a ravvedersi.<br />

Simona e la salvia<br />

Nella novella seguente veniamo condotti dagli ambienti nobili e borghesi delle<br />

precedenti, ad un’ambientazione “popolare” e “popolana” 64 : la terza giornata aveva<br />

già visto “donne del popolo” come protagoniste, ed ora la bella Simona diviene –<br />

quasi ad incarnare il corrispondente femminile di quanto sarà Cisti fornaio per<br />

cortesia – testimonianza di come le virtù femminili non siano esclusivo attributo<br />

delle madonne: già lo vediamo sottolineato nella presentazione, una giovane assai<br />

bella e leggiadra secondo la sua condizione (IV, 7, 6), in cui la “restrizione di<br />

campo” sembra mettere in rapporto la giovane tessitrice con l’olimpo di eroine finora<br />

apparse, e ritagliarle il giusto spazio, concesso a chi – nonostante i natali – pure è<br />

disposta a ricevere amore nella sua mente (IV, 7, 6). L’azione della novella ricalca<br />

quasi fedelmente quella della precedente, con la differenza che l’incontro fortuito<br />

con l’autorità in IV, 6 diviene qui una circostanza ben più determinata, in quanto che<br />

la donna viene dai suoi stessi conoscenti riconosciuta come ingannatrice ed<br />

assassina: la frode, l’inganno perpetrato ai danni di Pasquino, sono evidenti sin<br />

dall’inizio ad un personaggio non certo di grande levatura morale quale può essere lo<br />

Stramba. Di fronte al giudizio del tribunale, la povera Simona (cattivella la chiama il<br />

narratore) non può far altro che ripetere il gesto che ha causato la morte del suo<br />

amante: la meccanicità del gesto, che ha la forza del tentativo estremo di convincere<br />

64 Proprio questa novella diventa esemplare, secondo Bruni, per dimostrare la sensibilità<br />

boccacciana all’intreccio di comunicazione verbale e comunicazione gestuale, che viene<br />

esaltata particolarmente dalla presenza di personaggi provenienti dai ceti umili della società<br />

cittadina (1990:385).<br />

101


chi non crede all’evidenza, è talmente disarmante – nonostante la chiosa elegiaca (O<br />

felici anime, ale quali in un medesimo dì adivenne il fervente amore e la vita<br />

terminare!... (IV, 7, 19)), forse più consona a Filostrato che ad Emilia –, da<br />

rappresentare, oltre l’ingenuità, il fatto che l’amore, e per di più la perdita dell’amato<br />

bene, faccia perdere anche la ragione 65 . Il gesto sconsiderato di Simona, compiuto<br />

senza intenzionalità, pure conserva quella istintiva conseguenzialità che emana<br />

naturale dalle tragiche storie d’amore: pensiamo alla storia di Piramo e Tisbe<br />

(Metamorfosi, IV, 55-166), in cui il fraintendimento del velo sporco di sangue causa<br />

il suicidio di Piramo prima e di Tisbe subito dopo, unendo gli amanti non solo nella<br />

morte, ma anche nel «modo» di morire. Il gesto compiuto dalla donna rappresenta<br />

però, sia nella novella boccacciana che nell’episodio ovidiano, anche una imitazione<br />

dell’agire virile: la Simona compie quel gesto, dunque, non solo per scagionarsi e per<br />

una inarrestabile meccanica fatalità, ma anche per riprodurre un momento – estremo<br />

– di quanto è legato alla persona del suo amante, e come nel caso della coppia degli<br />

amanti egiziani, soccombe anch’ella.<br />

Salvestra<br />

Ultima protagonista nella serie ininterrotta di quattro novelle dalla chiara eco di<br />

cronaca cittadina – e quindi legata in una sorta di ciclo tematico alle storie di<br />

Lisabetta, Andreuola, Simona – è la Salvestra, nella ottava unità narrativa di questa<br />

quarta giornata: a differenza delle altre novelle, in cui la tragicità dell’amore pare<br />

quasi discendere dal fatto che esso prenda le forme di una relazione erotica che<br />

effettivamente esiste tra i due amanti, in questa viene accuratamente evitato che si<br />

ovvii alle regole sociali, nonostante il legame affettivo che lega Girolamo e Salvestra<br />

riesca a mantenersi tanto saldo, da causare la morte dei due giovani. La differenza<br />

sociale pende stavolta dalla parte del giovane, che si innamora della figlia di un sarto,<br />

e che viene distolto da questo strano “innesto” da una “saggia” madre (che si credeva<br />

65 Baratto riconosce nella novella un omaggio cortese a due umili amanti, la cronaca<br />

impassibile di un amore plebeo, l’inconsapevole eroismo di personaggi elementari<br />

(1986:372): l’impassibilità si tramuta, nella lettura che la “brigata” è tenuta a considerare<br />

legittima, nella impotenza di fronte all’omnia vincit amor!<br />

102


per la gran ricchezza del figliuolo fare del pruno un melrancio (IV, 8, 7)): dopo una<br />

prolungata assenza, sposatasi la donna con un uomo della sua condizione, Girolamo<br />

torna per rivedere la donna che ha amato 66 .<br />

La situazione che Girolamo sceglie per rivedere la Salvestra è quantomai inusuale:<br />

quella che per Tancredi era stata una intromissione casuale nella vita amorosa della<br />

figlia Ghismonda, diventa per il giovane fiorentino una vera e propria violazione di<br />

domicilio, cui segue un serrato colloquio con l’amata, decisa a difendere il proprio<br />

onore di sposa. Purtuttavia, Girolamo ottiene da lei di poterle stare accanto, in un<br />

letto che vede la donna affiancata da due uomini, il legittimo marito e l’antico<br />

innamorato, e che quindi la mette in una posizione di estremo pericolo; il pericolo,<br />

che minaccia apparentemente – per quanto è logicamente ed immediatamente<br />

intuibile – soltanto l’onore della donna, si rivela in realtà ben più insidioso, se<br />

pensiamo a quanto era avvenuto per la gentildonna di cui è innamorato il Zima (III,<br />

5) e colleghiamo il tutto con il ripensamento di monna Giovanna nei confronti di<br />

Federigo degli Alberighi (V, 9), a rivelarci quanto misteriose possano essere le vie<br />

per le quali il cuore femminile si apre all’amore. Unico segnale di questa nuova<br />

sensibilità della Salvestra, prima che la vicenda giunga al suo epilogo, è lo stupore<br />

per la freddezza con cui Girolamo riesce a sostenere il contatto – di vago sapore<br />

66 Il motivo del ritorno dell’amante, poi abbondantemente utilizzato dalla narrativa<br />

ottocentesca, si può inserire nel più generico schema narrativo dei protagonisti costretti ad<br />

allontanarsi e poi a fare ritorno, nell’interesse di una circolarità “storica” della novella: in<br />

questo senso, Boccaccio non fa differenza tra protagonisti e protagoniste, anzi spesso applica<br />

questo meccanismo addirittura a famiglie intere, come nel caso di madonna Beritola o del<br />

conte d’Anguersa, superando il semplice espediente dell’agnitio e complicando le<br />

conseguenze narrative dell’evento centrale. La novella di Girolamo e della Salvestra viene da<br />

Baratto inserita nello schema della novella-romanzo (1986:133-135): l’analisi del nucleo<br />

tematico principale (il tema cortese-cavalleresco dell’amore possente che riunisce due esseri<br />

«in una medesima sepoltura») è però tutta condotta sulla figura di Girolamo, che rappresenta<br />

– secondo il critico – il vero, se non l’unico, protagonista della narrazione. Questo genere di<br />

posizione, a nostro giudizio, non considera appieno quell’equilibrio sempre importante, nel<br />

Decameron, di azione-verbalità-silenzio, che è riscontrabile soprattutto nell’interazione dei<br />

diversi personaggi: se è vero che l’iniziativa spetta – nella prima parte della novella – tutta a<br />

Girolamo, assai povera sarebbe la narrazione, senza una seconda parte in cui la Salvestra<br />

deve confrontarsi con una situazione quanto mai pericolosa, ed infine con la scoperta<br />

dell’amore!<br />

103


trobadorico – con quello che rappresenta ancora l’oggetto del suo desiderio (Per Dio,<br />

non gridare, ché io sono il tuo Girolamo!, aveva detto al capoverso 18): la giovane<br />

maravigliandosi della sua contenenza (IV, 8, 24) chiama l’incauto visitatore di letti,<br />

e si accorge della sua dipartita. La descrizione dei movimenti della Salvestra presenta<br />

una impressionante corrispondenza con quelli della Simona:<br />

...cominciò a tentare, e toccandolo il trovò come ghiaccio freddo (IV, 8,<br />

25)<br />

... avendolo per ogni parte del corpo cercato e in ciascuna trovandolo<br />

freddo... (IV, 6, 22)<br />

Nonostante l’ansia, il timore provati di fronte a quel cadavere nel suo letto nuziale, e<br />

dopo averlo toccato e constatato il trapasso, la Salvestra trova la forza di chiedere<br />

consiglio al marito cosa farebbe, in una situazione simile (...quello che<br />

presenzialmente a lui [a Girolamo, naturalmente] avvenuto era disse essere a<br />

un’altra avvenuto, e poi il domandò se a lei avvenisse che consiglio ne prenderebbe<br />

(IV, 8, 26)): i tempi sono enormemente dilatati, persino le percezioni vengono<br />

deformate dall’autore (se solo pensiamo a questo marito che se la dorme e non si<br />

accorge di quanto sta succedendo a pochi centimentri da lui!), ma l’agire della donna<br />

è esemplare, accorto e addirittura troppo calcolato, portato avanti quasi con cinismo.<br />

Pure, nonostante questa disposizione all’impassibilità, la Salvestra riesce a mutare<br />

sentimenti nei confronti di Girolamo quando, di fronte alla verità dell’amore<br />

conservato nel cuore fino alla morte, confrontato con la “normalità” dell’unione tra<br />

lei ed il marito, decide di cedere all’eccezionalità del sentimento, compiendo un<br />

gesto – identico per volontà a quello di Girolamo, dunque lasciando che il cuore<br />

imponga la morte al corpo – che implica una doppia rinuncia, anch’essa esemplata<br />

sulla rinuncia che Girolamo aveva abbracciato prima andando via da Firenze, poi<br />

«contenendosi» una volta tornato accanto alla sua amata: Salvestra rinuncia alla vita,<br />

e rinuncia – inconsapevolmente – a toccare con il proprio corpo ancora vivo il corpo<br />

104


già morto di Girolamo, in una scena in cui Boccaccio ricostituisce la situazione<br />

ovidiana degli amanti ricongiunti nell’abbraccio fatale.<br />

Una donna di Provenza<br />

La nona novella è l’ultima della quarta giornata a presentarci un caso di amore<br />

infelice, e sembra che Boccaccio voglia coronare la sua scelta con un omaggio agli<br />

ideatori dell’amor cortese, ai provenzali: la novella dichiara subito questo proposito<br />

(secondo che raccontano i provenzali (IV, 9, 4)) e muove chiaramente nella<br />

direzione di presentare una situazione idilliaca di partenza, turbata da un evento<br />

imprevisto – ma non imprevedibile – quale l’innamoramento di uno dei cavalieri per<br />

la moglie dell’altro. Sin qui, saremmo in una situazione evidentissima di adesione<br />

alla struttura psicologia della fin’amor, persino raffigurata nell’ambito sociologico<br />

ideale (v. Formisano 1994:70-71) della piccola nobiltà e dell’amore adultero: ma<br />

stante la tematica della giornata, è necessario che l’onore ferito del marito trovi il<br />

modo di vendicarsi dell’affronto subito. È in questa circostanza che si rivela la<br />

presenza effettiva della donna, del resto esclusa dall’azione centrale che vede i due<br />

cavalieri intenti ad “attività maschili”, che saranno il pretesto per poter uccidere<br />

l’amante della donna e comodamente estrarre da esso il cuore, come già<br />

esperimentato – dolore di padre! – in IV, 1: anche qui l’offesa fisica (l’uccisione<br />

dell’amato bene) viene superata per intensità e cinismo dall’offesa verbale. Nella<br />

vendetta architettata da Tancredi, il padre manda alla figlia il cuore di Guiscardo con<br />

un messaggio autoreferente: « Il tuo padre ti manda questo per consolarti di quella<br />

cosa che tu più ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli più amava» (IV, 1, 47);<br />

mentre Guiglielmo di Rossiglione accompagna il cuore cucinato del suo rivale con le<br />

seguenti parole, ben più esplicite ed armate di un macabro umorismo: ... né me ne<br />

maraviglio se morto v’è piaciuto ciò che vivo più che altra cosa vi piacque (IV, 9,<br />

20). La risposta della donna è evidentemente allineata con le perorazioni d’amore<br />

presenti in numerose novelle della giornata, ma preferisce evitare i temi emozionali e<br />

genericamente aderenti ad un diritto di amare (come avevamo già notato a partire dal<br />

discorso della figlia del re d’Inghilterra in II, 3), per spostarsi sul terreno della<br />

105


competenza giuridica, del diritto maritale ad esercitare il diritto di possesso entro<br />

determinati ambiti. Anche in questo caso, però, come per Ghismonda, Lisabetta,<br />

Simona e la Salvestra, esiste un nesso di contiguità e conseguenzialità tra la reazione<br />

alla morte dell’amato e la decisione di farsi vittime volontarie: il gesto plateale – e<br />

quasi volgare, umoristico – compiuto dalla donna che si getta dalla finestra, se riesce<br />

ad individuare chiaramente lo spazio del castello, della torre alta e metaforicamente<br />

indica una “caduta” che porta alla morte della protagonista, non più semplicemente<br />

intesa come rinuncia ad una vita priva dell’elemento vitale per eccellenza (...unque a<br />

Dio non piaccia che sopra a così nobil vivanda, come è stata quella del cuore d’un<br />

così valoroso e così cortese cavaliere come messer Guiglielmo Guardastagno fu, mai<br />

altra vivanda vada! (IV, 9, 23)), ma anche come adempimento a quanto vogliono le<br />

regole della lealtà e della moralità (ché se io, non isforzandomi egli, l’avea del mio<br />

amor fatto signore e voi in questo oltraggiato, non egli ma io ne doveva la pena<br />

portare (IV, 9, 23)), quindi in maniera che il suicidio come accettazione volontaria<br />

del martirio per amore, suggelli anche questa novella come la prima di riferimento<br />

(v. Forni 1992:passim) nel senso di una molteplicità di soluzioni che pure tende ad<br />

un’unica, accettabile proposizione: divenire vittima di un meccanismo punitivo che<br />

in prima istanza non è diretto verso la donna (elemento familiare da preservare<br />

fisicamente e nell’onore) ma che, fatalmente, su di essa si dirige per volontà di essa.<br />

Monna Ghita e monna Sismonda<br />

Dopo la lunga serie di amori tragici della quarta giornata, ci soffermeremo su quanto<br />

accade nelle novelle quarta ed ottava della settima giornata: sono queste due delle<br />

narrazioni decameroniane che stigmatizzano la gelosia in quanto virtù contraria al<br />

naturale emergere delle forze d’Amore (come Lauretta sottolinea: – O Amore, chenti<br />

e quali sono le tue forze, chenti i consigli e chenti gli avvedimenti! (VII, 4, 3)),<br />

consolate da consigli e avvedimenti capaci di sostenerle nella lotta impari contro<br />

questo “eccesso” già criticato dalla lirica trobadorica. Nella settima novella della<br />

giornata precedente, madonna Filippa aveva avuto modo non solo di difendere il<br />

proprio diritto ad offrire se stessa – una volta ottemperato agli obblighi coniugali – al<br />

106


proprio amante, ma addirittura aveva reso possibile la modifica dello statuto pratese<br />

in materia di adulterio, adducendo una serie di motivazioni generali sulla legittimità<br />

delle leggi e sulle conseguenze morali di alcune di esse; in questa altrettanto animata<br />

novella, che pure ha come protagonista un adulterio e la scoperta di esso da parte del<br />

marito tradito, diversi sono i meccanismi, affidati alla teatralità dei gesti e dell’agire<br />

combinato di moglie e marito, simili sono le conclusioni, che vedono coinvolta una<br />

sorta di “giuria popolare” questa volta riconoscibile nelle persone dei vicini dei due<br />

protagonisti.<br />

Monna Ghita ci viene presentata, sin dal principio della narrazione, come donna<br />

determinata ed avversa alla gelosia del marito: nel momento in cui scopre questa<br />

poco attraente – ed immotivata – qualità del consorte, la donna resta turbata (prese<br />

sdegno) nel suo più intimo convincimento, ed opta per una “punizione esemplare”,<br />

coadiuvata nel suo progetto dalla coscienza di un altro difetto del coniuge, quello di<br />

procurarsi l’ebbrezza piuttosto con l’aiuto di Bacco che con quello di Venere. La<br />

“flagranza” dell’adulterio avviene questa volta in absentia, in quanto che il geloso<br />

Tofano, resosi conto delle sortite notturne della moglie, pensa di renderne pubblica la<br />

condotta munendola di un “segnale” inequivocabile (altrettanto vorrebbe fare il<br />

geloso marito di donna Sismonda in VII, 8, ed un meccanismo simile è quello usato<br />

da Agilulfo per contrassegnare il palafreniere che aveva oltraggiato l’alcova regale):<br />

la chiude fuori di casa, in questo modo esponendola al pubblico scherno ed indicando<br />

“metaforicamente” l’estromissione della donna adultera dall’ambito domestico 67 . La<br />

reazione di monna Ghita si compone di tre parti, in cui Boccaccio evidenzia la<br />

superiorità d’ingegno della donna, la migliore coordinazione del suo agire, contro<br />

l’avventatezza del marito, spinto dalla gelosia ad una serie di atti privi del necessario<br />

“sangue freddo”: al marito descritto nella posizione statica di chi è pronto a<br />

67 Il carattere simbolico dell’uso letterario dei luoghi e delle dimensioni di interno-esterno,<br />

reclusione-esclusione, anche nel Decameron come in tutta la letteratura medievale (v. Ariès-<br />

Duby 2001:263-270), è ben rappresentato: oltre però ai luoghi consueti (torre, giardino,<br />

camera, etc.), Boccaccio offre nuove suggestive possibilità di ambientazione, tra le quali<br />

spiccano il pozzo ed il sarcofago, che in qualche modo sono dotati di una simbolicità<br />

ampliata, in quanto rappresentano una possibilità di comunicazione con l’aldilà, quindi<br />

estremizzano la rappresentazione delle dimensioni in opposizione.<br />

107


svergognare la moglie colta in fallo (posesi alle finestre (VII, 4, 11)), si sostituisce,<br />

dopo lo stratagemma della pietra buttata nel pozzo, la consorte (andossene alle<br />

finestre (VII, 4, 20)) che ha ripetuto l’intera sequenza delle azioni compiute da<br />

Tofano.<br />

L’inversione dei ruoli di accusatore-accusata in accusatrice-accusato caratterizza<br />

anche la novella di monna Sismonda, ottava della settima giornata: l’elemento di<br />

differenziazione dei comportamenti di moglie e marito è ancora una volta la presenza<br />

– o mancanza – di quel “sangue freddo” necessario a mettere in pratica una<br />

procedura di smascheramento. Così come monna Ghita “fa credere” di essersi gettata<br />

nel pozzo, monna Sismonda “fa credere” al marito di essere a letto, mentre al suo<br />

posto viene ingiuriata e maltrattata la fantesca; anche lo stratagemma del segnale<br />

inequivocabile (il taglio dei capelli, che ha naturalmente anche un significato<br />

simbolico particolare, equivalendo ad una umiliante tonsura, culmine dello strazio<br />

già compiuto con i maltrattamenti fisici che costituiscono l’infierire del corpo intero<br />

del marito (quanto egli poté menare le mani e’ piedi) su quello della donna (tante<br />

pugna e tanti calci le diede, tanto che tutto il viso l’amaccò, e più avanti la ripresa<br />

battutala adunque di santa ragione)) viene vanificato dalla presenza di spirito della<br />

donna, che con il gesto della sostituzione riesce a salvare l’onore ed a capovolgere la<br />

situazione scabrosa che l’attende 68 .<br />

Il gesto esemplare compiuto a salvazione di vita e onore, dunque, si pone in evidente<br />

contrasto con gli atti che confermano l’accettazione volontaria di un tragico destino:<br />

da un lato abbiamo esempi di destrezza e presenza di spirito, dall’altro incontriamo la<br />

fatalità degli atti come atteggiamento di definitiva rinuncia alla difesa del proprio<br />

essere.<br />

68 Per Boccaccio il meccanismo della sostituzione, dello scambio di persona, riveste una<br />

importanza notevole (nella sesta novella della terza giornata, ad esempio, lo stratagemma<br />

ideato da Ricciardo Minutolo implica una doppia sostituzione, complicata dal clima di<br />

sospetto indotto nella “vittima”); di volta in volta, lo scambio di persona acquista significati<br />

diversi, ma rimane uno dei meccanismi principali per il tessuto delle novelle: dalla “doppia<br />

metamorfosi” di Ciappelletto alla cinica rappresentazione inscenata da Gualtieri, in cui finge<br />

che la figlia sua e di Griselda sia la sua promessa sposa, è davvero difficile sfuggire a questo<br />

meccanismo continuamente sotteso allo svolgimento delle storie narrate.<br />

108


Tipologie sociali<br />

109


L’olimpo femminile: principesse, regine, marchese e badesse<br />

Uno degli elementi di novità che maggiormente ha attirato l’attenzione di lettori e<br />

studiosi nei confronti del Decameron, è sicuramente la scelta operata da Boccaccio<br />

nella definizione dei personaggi, la volontà di “movimentare” il repertorio classico<br />

degli attori del racconto, includendo anche i rappresentanti dei ceti più umili: oltre<br />

che epopea dei mercatanti, l’opera boccacciana si configurerebbe dunque come una<br />

svolta, all’interno dei generi narrativi medievali, anche dal punto di vista della<br />

considerazione di personaggi ai margini della società “alta”, che precedentemente<br />

erano stati utilizzati soltanto come contr’altari dei protagonisti nobili di sangue o di<br />

intelletto. Persino il fablel, che aveva attinto a piene mani ad una galleria di<br />

personaggi umili e popolani, dal villano incivile al povero artigiano, dallo studente<br />

nullatenente al fuorilegge che vive di espedienti, aveva incluso le sue tipologie in un<br />

disegno ben preciso di scherno, talvolta di disprezzo, in cui il personaggio di modesta<br />

levatura sociale era quasi sempre un comodo bersaglio per lazzi e considerazioni<br />

generali sulle differenze tra gli uomini. Se Boccaccio, dunque, ci propone dei<br />

personaggi che non rientrano nel novero classico dei protagonisti della letteratura<br />

alta, non è naturale che – per una anacronistica e quindi ingiustificata predilezione<br />

verso i ceti umili della società del suo tempo – i suoi racconti facciano a meno di<br />

quelli che fino a quel momento rientravano pienamente nella tradizione della<br />

narratio brevis: nella centuria di novelle sono numerosissimi, infatti, gli esempi di<br />

protagonisti e coprotagonisti di alto o altissimo rango, né sono poche le riflessioni<br />

sulla continuità della legittimità del ceto nobile da un’epoca all’altra. Alla luce di un<br />

esame quasi araldico di tali personaggi, non può sfuggirci la volontà, da parte del<br />

Boccaccio, di rappresentare il lato aristocratico, del mondo laico come di quello<br />

ecclesiastico, dato che tra i due non doveva esistere, ai suoi tempi, quella differenza<br />

che forse oggi avvertiamo: la nobiltà laica si trasferiva senza difficoltà di sorta tra le<br />

mura di un convento, né mancavano gli esempi di come la nobiltà di sangue potesse<br />

“sentire di gretto” al di là dell’ambiente in cui si trovava ad operare.<br />

110


Un altro elemento di grande importanza per questa caratterizzazione, è l’attenzione<br />

di Boccaccio ai fenomeni di interazione tra nobiltà ed alta borghesia, che proprio tra<br />

Duecento e Trecento avrebbero cambiato il volto delle relazioni sociali non solo<br />

all’interno delle “piccole” comunità cittadine italiane, ma più generalmente nel<br />

rapporto tra i piccoli stati italiani ed i grandi regni europei, in attesa di quella<br />

stabilizzazione che nel Quattrocento avrebbe cancellato molte delle realtà autonome<br />

della penisola: ci riferiamo soprattutto a quella contestualizzazione storica del narrato<br />

che in Boccaccio si manifesta come continua citazione di eventi notevoli per<br />

l’esistenza di non poche famiglie delle aristocrazie comunali (a Genova come a<br />

Ravenna, a Firenze come a Venezia).<br />

Il rapporto del Certaldese con la nobiltà, e di volta in volta con l’aristocrazia di<br />

determinate realtà statali, conserva addirittura degli elementi autobiografici: prova ne<br />

sia la «bella favola» della figlia di re sedotta da Boccaccino, e che avrebbe generato<br />

il poeta nella lontana e favolosa Parigi, cittadella medievale della scienza e mecca<br />

occidentale della mercatura europea (Branca 1977:7). Questa ricostruzione<br />

biografica, che più di un autore riconduceva naturalmente a segnali disseminati per le<br />

opere giovanili, ritenuti allusioni dell’autore alla propria vicenda personale, se da un<br />

lato è stata definitivamente smentita dalle indagini filologiche, rimane indicativa di<br />

un determinato atteggiamento del Boccaccio nei confronti di quel mondo all’ombra<br />

del quale si era formata la propria cultura di uomo di lettere. Lo studio di Giorgio<br />

Padoan su Mondo aristocratico e mondo comunale nell’ideologia e nell’arte di<br />

Giovanni Boccaccio riconduce questo atteggiamento boccacciano ad una più<br />

complessa visione di queste due differenti realtà, in qualche modo incarnate in due<br />

momenti della vita dell’autore: l’esistenza a Napoli di una situazione sociale e<br />

politica tanto diversa dalla fiorentina, ed in genere da quella dell’Italia centro-<br />

settentrionale, non poteva non influire, mediante particolari intuizioni della vita e<br />

dell’arte, anche sulla narrativa; né il Boccaccio certamente si sottrasse a quella<br />

temperie culturale, che anzi egli assimilò rapidamente e profondamente. (Padoan<br />

1978:5)<br />

111


Lo studioso, anche sulla base di quanto indicato nel Profilo biografico di Branca,<br />

richiama la nostra attenzione sull’apertura internazionale dell’ambiente in cui<br />

Boccaccio si formò, individuando una molteplice influenza bizantino-franco-<br />

provenzale nella maniera di accogliere una visione gerarchica tradizionale della<br />

società, nell’immaginario culturale alla base della sua opera. Il riferimento alla<br />

letteratura francese, ai romanzi di avventura ed alle fonti di essi nella letteratura<br />

latina tanto cara a Boccaccio, si unisce ad un modello di vita signorile che certamente<br />

doveva caratterizzare la vita dell’aristocrazia napoletana, come si vede<br />

dall’ammirazione per le abitudini degli ambiti cortigiani, espressa in più di un luogo<br />

della Fiammetta:<br />

La vecchia usanza e la mia nobiltà m’avea tra l’altre donne assai<br />

eccellente luogo servato, nel quale poi che assisa fui, servato il mio<br />

costume, gli occhi subitamente in giro volti, vidi il tempio d’uomini e di<br />

donne parimente ripieno, e in varie caterve diversamente operare.<br />

(Fiammetta 1952:1066)<br />

Gli onori similmente a me fatti per propria cortesia dalle donne, ancora<br />

che forse alla mia nobiltà s’affacessero, quasi debiti cominciai a volerli,<br />

pensando che, al mio amante parendo magnifica, più giustamente mi<br />

gradirebbe... (Fiammetta 1952:1071)<br />

Quivi ancora mi si paravano molte volte davanti giovani nobili, e di<br />

forma belli, e d’aspetto piacvoli, li quali per addietro più volte con atti e<br />

modi diversi tentati aveano gli occhi miei, ingegnandosi di trarre quelli<br />

a’ loro disii. (Fiammetta 1952:1138)<br />

La nostra città, oltre a tutte l’altre italiche, di lietissime feste<br />

abbondevole, non solamente rallegra li suoi cittadini o con nozze o con<br />

bagni o con li marini liti, ma, copiosa di molti giuochi, sovente ora con<br />

112


uno ora con un altro letifica la sua gente. Ma tra l’altre cose nelle quali<br />

essa appare splendidissima, è nel sovente armeggiare. Suole adunque<br />

essere questa a noi consuetudine antica che, poi che i guazzosi tempi del<br />

verno sono trapassati e la primavera con li fiori e con la nuova erba ha<br />

al mondo rendute le sue perdute bellezze, essendo con questo li<br />

giovaneschi animi per la qualità del tempo raccesi e più che l’usato<br />

pronti a dimostrare li loro disii, di convocare li dì più solenni alle logge<br />

de’ cavalieir le nobili donne, le quali, ornate delle loro gioie più care,<br />

quivi s’adunano. (Fiammetta 1952:1144)<br />

La descrizione delle consuetudini cavalleresche e dei modi eletti delle nobildonne e<br />

dei gentiluomini, si configura non soltanto come una ideale cornice al fiorire dei<br />

corteggiamenti ed uno specchio del godimento derivante dalla coscienza di occupare<br />

una posizione privilegiata in seno alla splendida società di uno dei Regni più<br />

dinamici di quel periodo storico, ma soprattutto come una celebrazione di quella<br />

«apparenza» che ha il compito di rappresentare l’elemento nobile dell’umanità nei<br />

momenti pubblici: tale funzione è implicitamente «statica» per le donne, cui si<br />

attaglia perfettamente il compito di rappresentare – con la bellezza del sembiante, il<br />

lusso degli abiti e la compostezza dei modi – una grazia aristocratica di cui sono<br />

immutabilmente depositarie; gli uomini manifestano invece le loro «competenze» in<br />

quell’armeggiare di antico sapore che, perduta la sua funzione pratica di esercizio<br />

delle armi in preparazione ai cimenti bellici, assume il significato dell’attività<br />

nobilmente sportiva, di volta in volta commutabile con quell’ars venandi cum avibus<br />

di cui la novella di Federigo degli Alberighi è mirabile testimone.<br />

Un mondo aristocratico, dunque, si affaccia all’immaginario del Boccaccio con tutte<br />

le sue implicazioni simboliche, ed arricchisce l’universo femminile del Decameron<br />

mediante una serie di figure che possiamo ritenere dei «modelli» rappresentati<br />

dall’autore non solo secondo la tematizzazione stereotipata della letteratura<br />

precedente, ma soprattutto secondo una tendenza peculiare ad esaltare quei tratti di<br />

nobiltà che evidentemente avrebbero dovuto tramandarsi anche nel mondo comunale,<br />

113


al fine di custodire le caratteristiche di un mondo inseparabile dalla cultura europea e<br />

dalla sua produzione letteraria.<br />

È quanto mai interessante che l’attenzione di Boccaccio sia andata ad una tradizione<br />

«isottea» della raffigurazione della giovine donna aristocratica: sia Ghismunda che la<br />

figlia del re d’Inghilterra, che a nostro parere rappresentano i veri modelli di<br />

un’aristocrazia femminile nel Decameron, sono infatti caratterizzate, al di là della<br />

diversa sorte che nelle novelle le accompagnerà, dal sigillo di disobbedienza alle<br />

aspettative sociali e di casta, e da una volontà disperata di realizzare una felicità<br />

sentimentale che leggeremo poi anche nelle aspirazioni di figure femminili di<br />

differente estrazione sociale.<br />

Il ruolo ed il codice comportamentale dell’aristocrazia<br />

La caratterizzazione delle esponenti dell’olimpo femminile dell’opera è naturalmente<br />

data, in prima istanza, dalle descrizioni dell’aspetto fisico, dell’abbigliamento e di<br />

tutto quanto circonda (arredamento, seguito servile, etc.) le protagoniste: la Marchesa<br />

del Monferrato, per cui valgono le formule stereotipate di corrispondenza tra bellezza<br />

esteriore e virtù interiore, mette a disposizione del suo ospite camere ornatissime di<br />

ciò che a quelle, per dovere un sì fatto re ricevere, s’appartiene (I, 5, 12), ed il re<br />

viene di molti messi servito e di ottimi vini e preziosi (I, 5, 13); la figlia del re<br />

d’Inghilterra, travestita da abate, non riesce a nascondere i suoi attributi regali, se<br />

Allessandro vede un abate giovane assai, di persona e di viso bellissimo, e, quanto<br />

alcuno altro potesse essere, costumato e piacevole e di bella maniera (II, 3, 20), e<br />

poi pondera, considerando la compagnia che ella avea, che la fanciulla che gli giace<br />

affianco debba essere nobile e ricca; vera “attrice non protagonista” della novella di<br />

madama Beritola è Orietta, moglie di Currado Malaspina, che anche durante una gita<br />

all’isola di Ponza riesce a far venir vestimenti e vivande (II, 6, 24) per soccorrere<br />

l’inselvatichita profuga, e la accoglie tra le dame della sua compagnia; nella<br />

narrazione seguente, Alatiel viene imbarcata sulla nave che dovrebbe portarla al suo<br />

promesso sposo con onorevole compagnia e d’uomini e di donne e con molti nobili e<br />

114


icchi arnesi (II, 7, 9), ed una volta scampata al naufragio, nonostante sia piuttosto<br />

male in arnese, pure conserva buona parte della sua regalità, se Pericone comprese<br />

per gli arnesi ricchi la donna che trovata avea dovere essere gran gentil donna, e lei<br />

prestamente conobbe all’onore che vedeva dall’altre fare a lei sola (II, 7, 20);<br />

Ghismunda, splendida giovane (bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra<br />

femina fosse mai) eppure abbattuta nello spirito dalla presta vedovanza, si muove in<br />

una stanza da letto maestosa, che l’autore deve necessariamente descrivere per<br />

meglio rappresentare lo svolgimento dell’azione, raccontandoci delle cortine che lo<br />

circondano e dello sgabello-cassapanca (carello) su cui si addormenta, non visibile<br />

agli amanti, Tancredi.<br />

Investita di regalità sia nel portamento che nel comportamento è la quasi leggendaria<br />

Teodolinda, protagonista della seconda novella della terza giornata: la condizione<br />

regale della donna è doppiamente testimoniata dal fatto di esser vedova del re Autari<br />

e, successivamente, sposa dell’altrettanto potente Agilulfo, che proprio mediante<br />

questo matrimonio aveva potuto realizzare le sue ambizioni politiche. Ma è<br />

soprattutto– come abbiamo sottolineato con un imprudente calambour – il<br />

comportamento di questa regina a rivelarci tutta la sua distanza dai modi comuni: la<br />

coppia regale, naturalmente, vive in appartamenti separati, e Boccaccio ce ne<br />

racconta le abitudini coniugali, attraverso quanto scorto dal palafreniere, con tratti<br />

che sanno di favola, specialmente nell’atto compiuto da Agilulfo di percuotere con<br />

una bacchetta una volta o due l’uscio della camera di Teodolinda. A questo gesto,<br />

che denuncia insieme il potere regale e la discrezione del consorte, segue l’apertura<br />

“magica” dell’uscio (incontanente essergli aperto) e l’eliminazione di quella fonte di<br />

luce che darebbe sconveniente pubblicità a quegli abbracci (toltogli di mano il<br />

torchietto). Quando è il palafreniere ad immettersi in questa sequenza di azioni, la<br />

magia scompare (La camera da una cameriera tutta sonnacchiosa fu aperta e il lume<br />

preso e occultato), per riapparire nell’immaginazione di Teodolinda quando il “vero<br />

marito”, nella scena successiva all’inganno perpetrato dal servo, si presenta<br />

nell’alcova: piacevolmente stupita dall’eccessivo zelo di Agilulfo (O signor mio,<br />

questa che novità è stanotte?), la regina mostra tutta la sua discrezione, sia nel<br />

115


icordare quanto è appena accaduto (oltre l’usato modo di me avete preso piacere...),<br />

sia nel richiamare il consorte alla moderazione (ma tuttavia io vi priego che voi<br />

guardiate alla vostra salute...).<br />

Non possiamo però ignorare che la connessione tra le nobili donne citate in alcune<br />

novelle, ed uno dei temi fondamentali di tutta l’opera, l’amore, richiama fortemente<br />

proprio il motivo cortese della «corte d’amore» quale era stato protagonista –<br />

direttamente o indirettamente – di altre opere boccacciane, quali il Filostrato ed il<br />

Filocolo: quello che nelle prime opere del Boccaccio appare per lo più come una<br />

sorta di gioco aristocratico – e che verrà ripreso in due delle novelle della decima<br />

giornata del Decameron – è legato essenzialmente alla discussione della casistica dei<br />

sentimenti (v. Surdich 2001:22-23), e si configura come un esercizio retorico in cui<br />

le diverse qualità delle questioni vengono affrontate da un tribunale mondano, i cui<br />

componenti sono essenzialmente membri dell’aristocrazia, decisamente indirizzati ad<br />

esaminare la casistica da una prospettiva socialmente esclusiva. Da questo discende<br />

che i principii alla base delle discussioni sono essenzialmente la liberalità e<br />

l’adesione agli schemi della concezione cortese-cavalleresca dell’amore, mentre<br />

vediamo che nelle novelle da noi prese in esame le decisioni saranno prese piuttosto<br />

secondo i principi della discrezione, del libero arbitrio personale e di un diritto<br />

naturale che renderebbe gli uomini uguali fra loro: proprio questo scarto tra il<br />

momento della riflessione teorica sui casi d’amore, e quello dell’azione pratica, di fa<br />

comprendere quanto Boccaccio riesca a slegarsi da alcune convenzioni letterarie, per<br />

avere la possibilità di considerare in piena “libertà ideologica” quanto deriva dalla<br />

situazione di conflitto alla base di ogni singola unità narrativa. Questo non esclude,<br />

naturalmente, che il codice comportamentale dell’aristocrazia, una volta adottato il<br />

nuovo metro relativo al caso specifico, riesca ad imporsi comunque come complesso<br />

di qualità e di attitudini, cui Boccaccio non nega un valore di eccezionalità.<br />

Acquisizione della nobiltà<br />

Giletta di Nerbona (III, 9) e Griselda (X, 10) rappresentano la vera svolta nella<br />

considerazione che Boccaccio dovette avere dell’olimpo femminile: nessuna delle<br />

116


due donne proviene dalla nobiltà, eppure tutte e due riescono ad introdursi nel mondo<br />

dell’aristocrazia, ingenerando stupore e meraviglia per la naturalezza con cui si<br />

rivelano, nel loro comportamento, quelle doti che precedentemente si credevano<br />

appartenere soltanto a chi nobile fosse di nascita 69 . Nel momento in cui, per due<br />

motivi differenti, Giletta e Griselda assumono il loro nuovo stato sociale, lo schema<br />

narrativo esige che la situazione di conflitto generata da tale mutamento si faccia<br />

quanto mai aspra e disumana: la contessa e la marchesa, pur conservando – non solo<br />

nominalmente – alcuni privilegi di rango, non possono veder realizzati i loro diritti<br />

umani o, per dir meglio, non riescono ad accedere alla completezza del loro diritto di<br />

mogli, madri e donne. In questa maniera, Boccaccio ci rappresenta una situazione del<br />

tutto opposta per problematicità, a quanto narrato per madonna Beritola (II, 6) ed il<br />

conte d’Anversa (II, 8), che rappresentano nel Decameron i casi più significativi di<br />

perdita e recupero dello stato sociale (nella novella di Andreuccio troviamo un primo<br />

accenno “virtuale” a tale questione, nel discorso capzioso di madonna Fiordaliso, ma<br />

anche la lunga avventura di Alatiel può essere letta all’insegna della tragedia della<br />

perdita del rango, nonostante siano presenti elementi ben più importanti nel caso<br />

della figlia del sultano!): Giletta però, a differenza di Griselda, reagisce ben più<br />

attivamente alla situazione che la priva di una legittimità fattuale, rivelando nella sua<br />

azione la coscienza di quanto sia insopportabile la frattura tra apparenza e realtà, che<br />

pure non le impedisce di apparire in tutta la sua “nobiltà” ai sudditi – come del resto<br />

avviene anche per la moglie del crudele Gualtieri, senza che però quest’ultima<br />

reagisca agli “attentati” del marito. Pur nel differente comportamento delle due<br />

donne possiamo senza dubbio leggere la migliore disposizione dell’autore nei<br />

confronti di quelle che divengono le protagoniste di un rinnovamento della nobiltà<br />

(in questo caso possiamo giungere fino alla considerazione del “caso medio”<br />

69 A proposito dei principi compositivi di queste due novelle del Decameron, Bruni ricorda<br />

che Boccaccio combina in modi diversi situazioni relativamente poco numerose (1990:274):<br />

volendo, potremmo anche partire dal presupposto che Boccaccio tenti di scandagliare,<br />

illustrando una serie di esempi simili o contigui, una realtà complessa nelle sue diverse<br />

sfumature, procedendo gradualmente. Per questo ognuno dei personaggi che partecipa a<br />

questa analisi, diviene uno stadio osservabile di un’articolata fenomenologia sociale.<br />

117


appresentato nel matrimonio tra Federigo degli Alberighi e monna Giovanna in V,<br />

9), in quanto foriere di virtù rinnovate nel loro senso più profondo: del resto,<br />

sappiamo bene che l’arringa contro fortuna e natura posta all’inizio della novella di<br />

Cisti fornaio (VI, 2, 3: ... io non so da me medesima vedere che più in questo si<br />

pecchi, o la natura apparecchiando a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna<br />

apparecchiando a un corpo dotato d’anima nobile vil mestiero...), non solo appare<br />

altrove nel Decameron (V, 7, 43: ...vergognatosi alquanto del peccato della<br />

fortuna...), ma in buona sostanza dimostra la volontà dell’autore di imporre uno<br />

schema di moderno relativismo nella considerazione dei rapporti tra le classi sociali,<br />

visti in una prospettiva di merito comportamentale più che secondo gli schemi<br />

tradizionali di una feudalità che, nel contesto italiano, non riusciva più ad attecchire<br />

secondo i parametri generali europei. La funzione della donna, dunque, come<br />

dimostra anche il topos stilnovistico presente soprattutto nella novella di Cimone, è<br />

quella di suscitare le nobili qualità dell’animo in chi non le possiede, ovvero di<br />

resuscitarle in un contesto che le ha – temporaneamente – perdute (di vista).<br />

È per questo che l’acquisizione della nobiltà si pone come elemento vivificante, cui<br />

Boccaccio conferisce una importanza narrativa centrale.<br />

Nobiltà “ecclesiastica”<br />

Altra caratterizzazione, di minore rilievo forse, è quella delle conduttrici dei<br />

conventi, da Boccaccio poste spesso sotto il fuoco incrociato delle tentazioni<br />

sensuali: il munistero di donne assai famoso di santità dove andrà a servire Masetto,<br />

è governato da una badessa che si presenta caritatevole e benigna al momento<br />

dell’assunzione del volenteroso mutolo (dagli qualche paio di scarpette, qualche<br />

cappuccio vecchio, e lusingalo, fagli vezzi, dagli ben da mangiare (III, 1, 17)), per<br />

poi “approfittarne”, ultima delle nove donne che abitano il convento: l’autore ci fa –<br />

non sappiamo quanto volontariamente – notare che, a differenza delle altre monache<br />

che si accontentavano di incontrare Masetto nel capanno in cui l’ortolano abitava, la<br />

badessa nella sua camera nel menò (III, 1, 35), a sottolineare la differenza di<br />

condizione sociale rispetto alle sue sottoposte, ma anche una certa aristocratica<br />

118


abitudine, di convocare nei propri – in questo caso modesti, dobbiamo supporre –<br />

appartamenti la servitù! La badessa della seconda novella della nona giornata,<br />

madonna Usimbalda – anche lei personaggio fondamentale per lo svolgimento della<br />

novella (rovesciamento della I, 4) – viene presentata come buona e santa donna<br />

secondo la oppinion delle donne monache e di chiunque la conoscea (IX, 2, 7):<br />

trattandosi verosimilmente di un convento di clausura (la protagonista, Isabetta, si<br />

innamora del bel giovane essendo un dì a un suo parente alla grata venuta (IX, 2,<br />

5)), il fatto che la badessa sia tanto conosciuta non può derivare che dalla sua<br />

condizione sociale (cioè da quella precedente l’inizio della vita conventuale, e<br />

insieme da quella conseguente dalla sua funzione di badessa), tanto che la presenza<br />

dell’inusuale saltero fornito dalle braghe del prete, non vuol essere rilevata dalle<br />

astanti.<br />

Un riferimento indiretto – ed ironico – alla nobiltà che alberga nei conventi cristiani,<br />

è quello contenuto nel racconto di Alatiel (II, 7, 109), dove si accenna appunto<br />

all’accoglienza benigna ed onorevole dimostrata dalle religiose nei confronti della<br />

profuga, in considerazione – dobbiamo arguire in base a quanto intuibile dal senso<br />

generale della narrazione – della nobiltà che dalla persona della giovane doveva<br />

irradiarsi: del resto, nonostante gli eventi narrati in riferimento alla vita non<br />

propriamente pia di queste comunità femminili, esse vengono sempre presentate<br />

positivamente, per poi lasciare al lettore il giudizio definitivo riguardo alla “nobiltà”<br />

dei comportamenti, una volta giunti alla fine della narrazione.<br />

Gli ornamenti della nobiltà<br />

Per quanto riguarda poi gli ornamenti esteriori delle appartenenti a questo olimpo,<br />

ornamenti che generalmente nel Decameron vengono investiti di una funzione<br />

notevole 70 , essi non sono sempre del tutto esplicitati, ma limitati ad alcuni segnali<br />

particolari (il vestiario è comunque più importante della foggia dei capelli, o del<br />

trucco, o dei gioielli) incaricati di esprimere la funzione sociale del vestito –<br />

70 A proposito della quale Elissa Weaver ha parlato di una semiotica del vestire (1989:701-<br />

705).<br />

119


soprattutto dal punto di vista del ceto emergente, quindi con maggiore evidenza nel<br />

mondo mercantile italiano –, l’assenza del quale esprime sempre una sconfitta<br />

(Weaver 1989:703-704). È fondamentale, da questa prospettiva, ricordare che i<br />

meccanismi di vestizione e svestizione presenti nell’ultima novella dell’opera,<br />

riescono a rappresentare con grande efficacia – anche in virtù del loro alto significato<br />

simbolico – l’acquisizione e la perdita del rango nobiliare, anche nella psicologia<br />

della protagonista: prima che Griselda venga fatta svestire pubblicamente per sancire<br />

davanti ai sudditi le nozze, Gualtieri fa preparare il corredo principesco della futura<br />

sposa, usando una sorta di “modella” (una giovane la quale della persona gli pareva<br />

che la giovinetta la quale avea proposto di sposare, ma non sappiamo se questa<br />

giovane fosse di nobili natali) al fine di far approntare più robe belle e ricche, oltre<br />

agli “accessori” soliti quali cinture e anella e una ricca e bella corona 71 (X, 10, 14).<br />

Spogliarsi degli abiti sino a quel momento usati e vestire il corredo preparato dal<br />

marchese significano, per Griselda, abbandonare la condizione umile di nascita per<br />

abbracciare un nuovo status, in cui non è però sufficiente apparire, ma bisogna<br />

anche saper ben amministrare il potere che da esso deriva (similmente verso i subditi<br />

del marito era tanto graziosa e tanto benigna (X, 10, 25)): la metamorfosi di<br />

Griselda, che nella finzione viene invertita con l’arrivo della “nuova moglie” di<br />

Gualtieri, nella realtà è incontrovertibile, nonostante la svestizione cui la donna si<br />

sottopone la privi pubblicamente della condizione precedentemente acquisita.<br />

Generalmente gli arredi, i profumi, i tessuti preziosi, si trovano “intorno” alla donna,<br />

a testimoniare la disposizione ad utilizzare gli oggetti esteticamente più consoni al<br />

rango elevato, anche in funzione capziosa: è quanto succede, ad esempio, nella<br />

novella di Andreuccio, dove la rapida occhiata del giovane perugino alla camera di<br />

Fiordaliso, cogliendo i particolari dei profumi delicati e delle molte robe su per le<br />

stanghe, ingenera la convinzione che la bella siciliana debba essere non men che<br />

gran donna (II, 5, 17). Simili effetti avranno su Salabaetto le finezze panormitane<br />

adoperate da madama Iancofiore per irretire l’inesperto commerciante fiorentino<br />

71 È questo un motivo ricorrente, se anche il Saladino, nella X, 9, aveva inviato una corona<br />

alla moglie di messer Torello.<br />

120


(che, così come Andreuccio, stima che ella fosse una gran donna (VIII, 10, 10)): il<br />

contesto “edenico” descritto da Boccaccio nobilita il bagno, luogo abituale degli<br />

incontri amorosi 72 , mediante l’inserimento della servitù numerosa che riceve il<br />

giovane, ed accompagna madama Iancofiore, ma soprattutto grazie ai riferimenti alla<br />

biancheria finissima, ai saponi delicati, infine ai profumi che rendono quasi palpabile<br />

l’aura di nobiltà femminile che emana dal corpo della siciliana. Se questi particolari<br />

servono a creare un’atmosfera ingannevole, puntualmente smentita dalla venalità che<br />

rivela la vera natura di queste donne, non possiamo rinunciare a considerare come le<br />

allusioni dell’autore alla forza delle apparenze, siano in realtà un avviso a meglio<br />

valutare l’aspetto esteriore di persone e cose, ovvero ad apprezzare con maggiore<br />

distacco le qualità superficiali, rispetto a quelle dell’animo: in un olimpo femminile<br />

decameroniano, dunque, non è tanto la nobiltà anagrafica delle protagoniste a<br />

contare, quanto il loro atteggiamento nei confronti del ruolo che rivestono nella<br />

società, la loro capacità di rivelare quelle doti naturali che, nelle donne, si<br />

accompagnano a più appariscenti – e per questo talvolta ingannevoli – bellezze<br />

fisiche.<br />

In virtù della nobiltà alcuni personaggi femminili hanno anche un particolare<br />

comportamento elocutivo, che vedremo più dettagliatamente nel momento<br />

dell’analisi della dimensione retorica dei discorsi femminili, ma che in sostanza si<br />

pone come facoltà di argomentare almeno paritaria, se non superiore, a quella in<br />

possesso degli interlocutori maschili.<br />

72 Non dimentichiamo che le “case di tolleranza” in molte città europee erano, a quel tempo,<br />

null’altro che “stufe”, ciò bagni pubblici in cui altrettanto pubblicamente veniva esercitato il<br />

meretricio. In un bagno, del resto, Ricciardo Minutolo riesce ad adescare e poi a conquistare<br />

la bella Catella (III, 6).<br />

121


Le borghesi<br />

Una caratterizzazione sociale che maggiormente evidenzia le novità del Decameron<br />

rispetto alla letteratura precedente, è quella legata all’ambiente “nativo” di<br />

Boccaccio, ovvero alla borghesia cittadina (non necessariamente o esclusivamente<br />

fiorentina) che è ampiamente rappresentata anche nell’universo femminile delle<br />

novelle: abbiamo già sottolineato come la donna borghese rappresenti un punto di<br />

forza tematico dei fabliaux e come, anche in virtù di questa scelta, essa possa essere<br />

contrapposta per qualità all’ideale femminile della poesia cortese.<br />

Giovanna e Sismonda<br />

Questa affermazione è sicuramente smentita dalle protagoniste borghesi del<br />

Decameron, anche se non sempre possiamo parlare di una appartenenza determinata<br />

a questo ceto, quanto piuttosto di un continuo “travaso sociale” tra nobiltà e<br />

borghesia 73 . Tale fenomeno si manifesta, se guardiamo alla condizione sociale di<br />

73 Partendo dalla definizione branchiana del Decameron come epopea dei mercatanti<br />

(Branca 1996:134-164), Asor Rosa fa notare che la rottura degli schemi adoperata da<br />

Boccaccio, se non privilegia, neppure esclude alcun ceto sociale, nonostante sia evidente una<br />

prevalenza statistica del ceto mercantile nella tipologia dei protagonisti delle novelle<br />

(1992:95): per quanto riguarda i “diritti” dei personaggi che si muovono entro il tessuto<br />

narrativo del Centonovelle, ciò stabilisce in linea di principio una pari dignità tra persone di<br />

assai diversa condizione (ibidem). Altra prospettiva è quella utilizzata da Sallay nel suo<br />

saggio su Movimenti eretici e crisi religiosa della borghesia comunale italiana fino alla fine<br />

del Trecento, in cui, dopo aver evidenziato il contrasto tra popolo grasso e nobiltà come<br />

indice maggiormente rappresentativo dei mutamenti nell’equilibrio politico a Firenze a<br />

partire dalla morte di Manfredi, lo studioso ricorda come il Decameron sia figlio del periodo<br />

più splendido di Firenze, quando ancora sembrava che tutti quegli ideali abbracciati da<br />

Boccaccio, si sarebbero realizzati senza problemi di sorta: nonostante si fosse già all’epoca<br />

del crollo delle grandi banche cittadine, le conseguenze di questo evento non si mostravano<br />

ancora in tutta la loro acutezza (1957:71, trad. di chi scrive). Per quanto riguarda poi la<br />

conciliazione della sensibilità aristocratica con la interpretazione del contegno sociale da<br />

parte della borghesia, non possiamo non ricordare l’analisi della sesta giornata compiuta dal<br />

Getto che, prendendo in esame culto della forma e civiltà fiorentina, rileva i fondamenti<br />

delle istruzioni comportamentali contenute nell’opera attraverso il “filtro” dell’ambiente<br />

inteso quale cornice di eleganti forme del viver civile, in cui si riconoscono personaggi di<br />

ogni estrazione: esempio paradigmatico è quello della novella pratese di madonna Filippa, in<br />

122


alcune protagoniste, come conseguenza del matrimonio come elemento di modifica<br />

della loro situazione all’interno della società 74 . In due novelle, la nona della quinta e<br />

l’ottava della settima giornata, troviamo un riferimento diretto a questi mutamenti:<br />

nella conclusione della prima, monna Giovanna, precedentemente invano corteggiata<br />

da Federigo, morti il marito ed il figlio, decide di sposare il gentiluomo nonostante<br />

egli sia poverissimo. Il parere dei fratelli della donna, evidentemente propensi ad un<br />

matrimonio che possa aumentare il già consistente patrimonio di cui monna<br />

Giovanna dispone in quanto erede unica del defunto marito, è improntato alla beffa:<br />

«Sciocca, che è ciò che tu di’? come vuoi tu lui che non ha cosa del<br />

mondo?» (V, 9, 40),<br />

mentre la risposta della bella e ricca vedova, posponendo l’interesse pecuniario a<br />

quello più spiccatamente umano, da un lato sottolinea il valore morale dell’unione<br />

coniugale, dall’altro “santifica” un legame in cui alla ricchezza patrimoniale si<br />

aggiunge quella della tradizione della nobiltà cittadina:<br />

... ma io voglio avanti uomo che abbia bisogno di ricchezza che<br />

ricchezza che abbia bisogno d’uomo. (V, 9, 42).<br />

cui il critico sottolinea in quale ricca intuizione di vita si inserisca la «pronta e piacevole<br />

risposta» di madonna Filippa, alludendo al clima di coinvolgimento collettivo (del podestà e<br />

del popolo accorso al giudizio) rappresentato da Boccaccio (Getto 1958:152-153).<br />

74 La politica delle alleanze matrimoniali come fondamento delle strategie familiari è<br />

sicuramente uno degli argomenti maggiormente discussi – direttamente ed indirettamente –<br />

dal Decameron, se lo consideriamo come documento dell’epoca in cui viene scritto, anzi<br />

addirittura come documento di un mutamento epocale, relativo, per il passato, almeno al<br />

secolo precedente, ed in qualche modo proiettato verso i secoli futuri: del resto, proprio il<br />

successo del modello socio-economico comunale aveva man mano messo in discussione la<br />

supremazia del legame di sangue, rispetto ad altre forme di solidarietà, in cui spiccavano i<br />

rapporti tra amici, vicini, soci in affari. Le strategie familiar-matrimoniali, dunque, se da un<br />

lato ampliavano le loro potenzialità, diventavano assai più concretamente limiti alla libertà<br />

del singolo, e ciò riguardava tanto la donna quanto l’uomo (v. la trattazione del problema in<br />

De Giorgio-Klapisch-Zuber 1996:93-96).<br />

123


Data la conclusione, che rimette al centro della narrazione il buon Federigo (Il quale<br />

così fatta donna e cui egli cotanto amata avea per moglie vedendosi, e oltre a ciò<br />

ricchissimo, in letizia con lei, miglior massaio fatto, terminò gli anni suoi. (V, 9, 43))<br />

ma non accenna ad una continuazione della sua progenie, non riusciamo ad affermare<br />

inequivocabilmente quale sia stato il vero effetto del matrimonio: il gentiluomo<br />

fiorentino si è “imborghesito”, o piuttosto monna Giovanna ha pienamente acquisito<br />

il nuovo stato sociale? 75<br />

Il caso di madonna Sismonda, nata nobile e data in sposa ad un mercante, è – in virtù<br />

della piega che gli eventi prendono nel corso della narrazione – opposto a quello che<br />

abbiamo appena analizzato: mentre monna Giovanna impone la sua scelta ai fratelli,<br />

la gentildonna fiorentina scampata allo stratagemma del marito geloso, addirittura<br />

rimprovera alla propria famiglia di aver optato per un legame tanto svantaggioso:<br />

Fratei miei,(...) Questo valente uomo, al quale voi nella mala ora per<br />

moglie mi deste, che si chiama mercante e che vuole esser creduto (...),<br />

son poche sere che egli non si vada inebbriando per le taverne e or con<br />

questa cattiva femina e or con quella rimescolando... (VII, 8, 42).<br />

La madre della donna rincara la dose, in una invettiva che possiamo leggere come<br />

l’antiepopea dei mercatanti, ed in cui ritroviamo non solo pregiudizii correnti nei<br />

confronti della borghesia arricchitasi con i commerci, ma addirittura una descrizione<br />

75 Già il Russo, nella sua lettura di questa novella, aveva rilevato il ruolo del figlio di monna<br />

Giovanna, nel momento in cui inizia a prender confidenza con Federigo e con i suoi nobili<br />

passatempi (1977:190-191): ad una lettura più attenta del coinvolgimento psicologico della<br />

donna e del suo figliolo nella sfera di valori che Federigo ed il suo modus vivendi<br />

rappresentano, si nota facilmente come l’interesse del ragazzo per gli intrattenimenti<br />

maschili tipici della classe equestre (cani e falconi da caccia) non sia che l’introduzione<br />

all’iniziazione di monna Giovanna a questo mondo da lei sino a quel momento rifiutato nella<br />

componente cortese-cavalleresca del corteggiamento. Quando la donna giunge, anche se<br />

inconsapevolmente, a cibarsi del falcone, implicitamente accetta le regole impostele dalla<br />

vicinanza con Federigo, che la spingeranno a cercare una unione legittima con quest’ultimo.<br />

124


dell’uso ormai invalso, da parte dei mercanti, di chiedere in moglie delle donne di<br />

nobili natali, con le funeste conseguenze che da esso costume derivano:<br />

Frate, bene sta! basterebbe se egli t’avesse ricolta del fango! Col<br />

malanno possa egli essere oggimai, se tu dei stare al fracidume delle<br />

parole di un mercatantuzzo di feccia d’asino, che venutici di contado e<br />

usciti delle troiate vestiti di romagnuolo, con le calze a campanile e<br />

colla penna in culo, come egli hanno tre soldi, vogliono le figliuole de’<br />

gentili uomini e delle buone donne per moglie, e fanno arme e dicono:<br />

‘I’ son de’ cotali’ e ‘Quei di casa mia fecer così’. Ben vorrei che’ miei<br />

figliuoli n’avesser seguito il mio consiglio, che ti potevano così<br />

orrevolmente acconciare in casa i conti Guidi con un pezzo di pane, e<br />

essi vollono pur darti a questa bella gioia, dove tu se’ la miglior<br />

figliuola di Firenze... (VII, 8, 45-47)<br />

Al di là di questi casi in cui esplicitamente viene citato il matrimonio come elemento<br />

di svolta – negativa o positiva – nell’assetto sociale, l’appartenenza di numerose<br />

delle protagoniste del Decameron al ceto borghese corrisponde ad una particolare<br />

presa di posizione dell’autore, che pur non svalutando questo senso di appartenenza<br />

(anzi, addirittura deprecando le ingiuste incongruenze dei voleri di natura e fortuna,<br />

nella introduzione alla novella di Cisti fornaio!), neanche riesce a privarlo di alcune<br />

caratteristiche negative, talvolta mutuate dalla precedente tradizione letteraria – e<br />

misogina.<br />

Madonna Ambruogia<br />

È il caso, paradigmatico, della prima novella dell’ottava giornata, che si ricollega a<br />

quella tradizione comica del fabliau in cui le esponenti della borghesia mostrano<br />

tutta la loro corruzione morale 76 : madonna Ambruogia, descritta in tutto il suo<br />

76 In questo esse sono variamente giustificate, se pensiamo alla generica motivazione della<br />

frequente lontananza da casa dei mariti impegnati nei traffici più disparati (questo motivo<br />

125


splendore come oggetto del desiderio del soldato di ventura Gulfardo, amata da<br />

questi con discrezione (amandola assai discretamente, senza avvedersene il marito<br />

né altri (VIII, 1, 6)) ed interpellata secondo la formula del servigio d’amore sulla<br />

possibilità di ottenere il desiderato guiderdone (pregandola che le dovesse piacere<br />

d’essergli del suo amore cortese e che egli era dalla sua parte presto a dover fare<br />

ciò che ella comandasse (ibidem)), accetta a condizione che la cosa resti segreta e –<br />

soprattutto – che il guiderdone le frutti una notevole somma di denaro. Sappiamo<br />

bene quanto Boccaccio critichi nella sua opera l’avarizia e la venalità in genere,<br />

partendo dal principio per cui ove questi vizi albergano l’animo non può accogliere<br />

più alte pulsioni: a meglio rappresentare questa posizione, giunge il ripensamento di<br />

Gulfardo, che delibera di mutare in odio l’amore che prima nutriva per la donna,<br />

argomentando per antitesi:<br />

Gulfardo, udendo la ngordigia di costei, isdegnato per la viltà di lei la<br />

quale egli credeva che fosse una valente donna (VIII, 1, 8).<br />

Al giudizio negativo espresso per bocca di Gulfardo, si aggiunge quello del<br />

narratore, che muta il suo giudizio iniziale espresso con la parola donna,<br />

correggendolo in cattiva femina, utilizzando l’antitesi donna-femina in senso morale<br />

e non di distinzione sociale, né alludendo al prevalere degli istinti della carne (come<br />

capita in IV, 1): l’occasione dell’incontro tra Gulfardo ed Ambruogia è data dal topos<br />

del marito in viaggio, e Boccaccio ce la dipinge come una scena dalle forti valenze<br />

simboliche. Il soldato di ventura, che giunge in compagnia all’abboccamento<br />

viene ripreso dal Decameron spesso, addirittura in principio di novella come<br />

“presentimento”, nella novella del Zima), come espressa nel patto tra il chierico e la moglie<br />

fedifraga del possidente di Amiens ne La borghese d’Orleans, oppure alla sorte “estrema”<br />

della figlia del cavaliere data in moglie al ricco villano de Il contadino medico (Du vilain<br />

mire); anzi, pare talvolta normale, addirittura conveniente, che il cappellano o il chierico di<br />

passaggio sostituiscano il marito assente. Nonostante la continua insidia di preti e frati venga<br />

stigmatizzata dal celebre discorso di Tedaldo (III, 7), non sono poche le novelle in cui gli<br />

uomini di chiesa si prodigano in questo senso, dalla quarta novella della prima fino alla<br />

decima della nona giornata.<br />

126


amoroso, usa il suo accompagnatore come doppio testimone (della consegna dei<br />

denari così come dell’avventura erotica, se è vero che nel corso della narrazione non<br />

viene espresso esplicitamente il fatto che abbandoni la casa di Gasparruolo), mentre<br />

la donna cede ad un atto ancor più eloquente della sua ingordigia, mettendosi a<br />

contare i fiorini sopra una tavola: un gesto che doveva essere quello abituale dei<br />

banchieri, ma che compiuto da madonna Ambruogia rende ancora più evidente la sua<br />

disposizione d’animo. In questa maniera, la sua caratterizzazione si oppone ad altre<br />

figure chiave, quali per esempio Lisabetta da Messina, che è al contrario oppressa –<br />

direttamente ed indirettamente – dalla mentalità meschina dei fratelli, allo stesso<br />

modo di monna Giovanna, che disprezza – abbiamo visto – la venalità del proprio<br />

stato sociale ed abbraccia un diverso modo di vedere i rapporti umani.<br />

La femminilità esuberante<br />

Per quanto riguarda invece la corruzione dei costumi, e qui intendiamo una maniera<br />

anche troppo “leggera” di cedere alle lusinghe dei corteggiatori, Boccaccio ci<br />

fornisce una vera e propria galleria di borghesi bendisposte ad accettare una<br />

relazione extraconiugale: nulla sappiamo della condizione sociale dell’amante di<br />

Azzo d’Este, che accoglie con tanta cortesia Rinaldo d’Asti (II, 2), ma possiamo<br />

supporre si tratti di una donna della borghesia (altrimenti non avrebbe accondisceso<br />

ad un legame tanto compromettente, seppure con il potente marchese); mentre<br />

Bartolomea Gualandi, moglie del giudice Riccardo di Chinzica (II, 10), passa dalla<br />

famiglia di antica nobiltà all’unione con un rappresentante della borghesia<br />

amministrativa, per finire concubina di Paganino da Monaco, da lei preferito al<br />

marito legittimo. Nella terza novella della terza giornata ritorna il motivo della nobile<br />

maritata ad un uomo di rango inferiore, che proprio per questo motivo decide di<br />

concedersi a chi risulti degno di tanta nobiltà (Costei adunque, d’alto legnaggio<br />

veggendosi nata e maritata a uno artefice lanaiuolo, per ciò che artefice era non<br />

potendo lo sdegno dell’animo porre in terra, per lo quale stimava niuno uomo di<br />

bassa condizione, quantunque ricchissimo fosse, esser di gentil donna degno (...)<br />

propose (...) di volere a sodisfazione di se medesima trovare alcuno il quale più di<br />

127


ciò che il lanaiuolo le paresse che fosse degno. (III, 3, 6)), motivo variato nella<br />

novella seguente dal tema dell’inconciliabilità di una moglie giovane e fresca, con un<br />

marito vecchio e desideroso di vita casta, ben presto sostituito dal prestante don<br />

Felice; situazione da fablel è quella della novella che ha come protagonista il<br />

ricchissimo villano Ferondo (III, 8), mandato in Purgatorio a causa della passione<br />

nutrita per sua moglie dall’abate, mentre ritorna (per ammissione stessa dell’autore)<br />

nell’ultima novella della quarta giornata il motivo della perdita di uno stato sociale<br />

privilegiato non equilibrato dalla prestanza del marito, già sviluppato in II, 10 (questa<br />

volta il coniuge è un medico, ma basterebbe rileggere la novella di Giletta di<br />

Nerbona per comprendere quanto potesse essere ritenuta inferiore per lignaggio<br />

anche questa categoria professionale, dagli appartenenti alla nobiltà).<br />

La ricchezza patrimoniale del marito sembra catalizzare, oltre che la gelosia del<br />

capofamiglia, anche l’infedeltà coniugale: moglie di un ricco uomo è infatti la<br />

consorte di Pietro di Vinciolo (V, 10), già nell’incipit caratterizzata da ambizioni<br />

poligamiche (una giovane compressa, di pel rosso e accesa, la quale due mariti più<br />

tosto che uno avrebbe voluti (V, 10, 7)), come anche la comare di frate Rinaldo (una<br />

sua vicina, e assai bella donna e moglie d’un ricco uomo (VII, 3)), monna Ghita<br />

(VII, 4) e la moglie del ricco mercante riminese (VII, 5) 77 .<br />

Il culto del denaro, del profitto, in cui queste donne sono immerse per motivi<br />

contingenti, pregiudica, in qualche modo, la loro moralità, anche se non è raro che il<br />

narratore insista sul motivo della rivalsa nei confronti di un coniuge “inadempiente”:<br />

cosa che non avviene, ad esempio, per madonna Filippa (VI, 7) o anche, in altro<br />

contesto, per la moglie di Guiglielmo di Rossiglione (IV, 9), in quanto esse vedono<br />

nel legame erotico extraconiugale la realizzazione di un ideale comportamentale<br />

cortese, disapprovato però dalla legge.<br />

77 Ciò non significa che una condizione patrimoniale meno felice non contempli una simile<br />

buona disposizione alla lussuria, come avviene – ad esempio – nel caso della popolana<br />

Peronella (VII, 2) o della contadina Belcolore (VIII, 2), di cui si parlerà in altra sede.<br />

128


Elementi positivi nell’atteggiamento morale<br />

In altra sede abbiamo parlato della funzione rinnovatrice affidata ad un personaggio<br />

come Giletta di Nerbona, nel momento in cui essa acquista la nobiltà proveniente<br />

dall’unione matrimoniale: nella prospettiva dell’analisi delle qualità attribuite alle<br />

esponenti femminili della borghesia, questa funzione si deve intendere anche riferita<br />

alla più generale capacità di esprimere un atteggiamento morale ben diverso da<br />

quello – stereotipato dallo stesso Boccaccio negli esempi da noi precedentemente<br />

riportati – che vede nell’esuberante femminilità delle donne borghesi l’elemento<br />

preponderante della loro personalità. Nel caso di Giletta, come anche in quello di<br />

Ginevra (II, 9), siamo di fronte ad una fermezza d’animo che l’autore amplifica<br />

grazie alla dinamica delle azioni in cui le due donne sono coinvolte: recuperando gli<br />

schemi narrativi utilizzati nelle odissee di Landolfo Rufolo (II, 4) o di Tedaldo (III,<br />

7), Boccaccio inserisce le sue eroine femminili in strutture evenemenziali tipiche<br />

dell’esaltazione delle qualità di iniziativa attribuite ai mercanti. Del resto, sia la<br />

animosa figlia di Gerardo di Nerbona, che la sventurata moglie di Bernabò, ci<br />

vengono presentate come depositarie di virtù maschili e femminili insieme, che le<br />

rendono adatte ad uscire vincitrici da situazioni estremamente complesse. Al<br />

contrario di quanto avviene con Alatiel, la cui moralità è fortemente messa in dubbio<br />

dagli eventi di cui è vittima – nonostante essa nominalmente riesca a ricostituire la<br />

propria verginità di fronte al consesso civile, grazie alla forza convincitrice del<br />

discorso –, queste eroine borghesi devono necessariamente muoversi nel margine<br />

della conservazione della loro integrità morale: se Ginevra sceglie il travestimento<br />

per occultare la femminilità, in questo modo annullando la causa dell’inganno<br />

perpetrato da Ambruogiuolo e costruendosi un alter ego in grado di preservarla da<br />

altre offese, Giletta deve agire anche lei “nascosta”, sostituendosi alla donna amata<br />

dal proprio legittimo marito, dunque realizzando con l’inganno quelle condizioni che<br />

le consentono di salvaguardare la base morale della sua unione con Beltramo.<br />

Nel momento in cui viene posta di fronte all’ingiusta accusa di tradimento, Ginevra<br />

testimonia la propria innocenza – in maniera ben diversa da quella di monna Filippa!<br />

– chiamando a testimone Dio ed evitando di nominare l’adulterio:<br />

129


Idio, che tutto conosce, sa che io non feci mai cosa per la quale io dal mio marito<br />

debbia così fatto merito ricevere. (II, 9, 39), per poi abbracciare l’incognito, decisa a<br />

pagare comunque con la cancellazione della propria identità il fio di una colpa non<br />

commessa (... io mi dileguerò e andronne in parte che mai né a lui né a te in queste<br />

contrade di me perverrà alcuna novella. (II, 9, 39)).<br />

Giletta dimostra la stessa intraprendenza, quando decide di sfidare l’ostacolo<br />

impossibile a sormontarsi oppostole da Beltramo: con la stessa forza d’animo con cui<br />

si era decisa a sfidare il pregiudizio della corte regale (Il re si fece in se medesimo<br />

beffe delle parole di costei dicendo:«Quello che i maggior medici del mondo non<br />

hanno potuto né saputo, una giovane femina come il potrebbe sapere? (III, 9, 11)), la<br />

giovane accoglie il nuovo cimento con dolore, sì, ma subito illuminata dalla speranza<br />

di poter riuscir vincitrice (dopo lungo pensiero diliberò di voler sapere se quelle due<br />

cose potessero venir fatto (III, 9, 32)). Da quel momento, Giletta si trova immersa in<br />

una situazione diametralmente opposta alla propria: raggiunto Beltramo a Firenze,<br />

scopre che egli è innamorato di una giovane nobile ma povera, e che dovrà superare<br />

la convenienza di quest’ultima per rango, con la forza che le viene dalla legittimità<br />

del proprio legame matrimoniale. Per realizzare questo, però, dovrà sostituirsi alla<br />

giovane, in qualche modo rinunciando alla propria identità e realizzando<br />

“virtualmente” quanto desiderato dal Conte di Rossiglione: nella descrizione di<br />

questo complesso gioco delle parti, Boccaccio chiamerà costantemente contessa la<br />

protagonista, definendo gentil femina (III, 9, 36) la sua concorrente, gentil donna la<br />

madre di quest’ultima, ma ricordandoci continuamente come l’aspetto esteriore di<br />

Giletta non corrisponda al suo effettivo ruolo sociale. Ella è infatti, prima e dopo gli<br />

eventi determinanti per la riuscita del suo progetto, sempre in abito da pellegrina, e<br />

soltanto dopo essere stata legittimata da Beltramo (lei abbracciò e basciò e per sua<br />

legittima moglie riconobbe (III, 9, 60)), riacquista quella nobiltà di apparenze che le<br />

si addice (fattala di vestimenti a lei convenevoli rivestire (III, 9, 61)): anche in questo<br />

caso – poiché Ginevra (II, 9) era stata legittimata nella sua innocenza dall’autorità<br />

del sultano, a lei favorevole per merito delle sue virtù morali – la giovane riesce a<br />

risolvere la situazione conflittuale grazie all’atteggiamento di equità morale che<br />

130


dimostra durante ogni sua azione, in cui persino l’inganno assume una valenza<br />

positiva.<br />

Ci sembra evidente, dunque, come gli esempi virtuosi di queste protagoniste abbiano<br />

il fine di “riscattare” quella immagine della donna borghese che una tradizione<br />

misogina – peraltro non ignorata dal Boccaccio – aveva designato quale esclusiva<br />

possibilità di caratterizzazione: in realtà, ben più complessi sono i meccanismi alla<br />

base di questa tipologia, e proprio nel Decameron ne troviamo numerosi esempi.<br />

131


Le donne del popolo minuto<br />

La gamma di tipologizzazioni sociali delle figure femminili del Decameron<br />

comprende, naturalmente, anche quelle donne che non appartengono né alla<br />

borghesia, né alla nobiltà, né vedranno mutare il loro lignaggio in conseguenza di un<br />

matrimonio quale quello su cui si fonda la vicenda di Griselda: contadine, operaie,<br />

donne che pur nella loro condizione di femine mostrano pulsioni ed ambizioni non<br />

distanti da quelle delle loro consimili di più alto rango.<br />

Monna Belcolore<br />

Gli antecedenti di questa inclusione delle più umili figlie di Eva nel contesto<br />

letterario sono naturalmente da cercarsi nella vena comico-realistica dei fabliaux e<br />

della letteratura misogina precedente il Boccaccio: spicca per la concretezza<br />

dell’esempio una delle ultime trattazioni del primo libro del De amore di Andrea<br />

Cappellano, in cui le contadine, esaminate dal punto di vista del “conquistatore”,<br />

vengono reputate come le più ostiche all’amore, e pertanto meritevoli di violenza:<br />

Ma se ti attrae l’amore delle contadine, ricordati di lodarle molto e, se ti<br />

capita l’opportunità, non indugiare a prendere ciò che vuoi e ad<br />

accoppiarti con la violenza, perché difficilmente potrai addolcirle fino al<br />

punto che decidano di accoppiarsi pacificamente o di permetterti i<br />

piaceri che desideri, se non c’è almeno la medicina di una piccola<br />

costrizione necessaria al loro pudore. (Cappellano 1992:121)<br />

L’amore per le contadine, anzi per una contadina in particolare, è al centro della<br />

seconda novella dell’ottava giornata, in cui il prete di Varlungo si cimenta con gli<br />

insegnamenti del Cappellano, scegliendo l’inganno piuttosto che la violenza vera e<br />

propria: come abbiamo già ricordato a proposito delle tipologie adottate da<br />

Boccaccio per la rappresentazione del corpo femminile, la descrizione di monna<br />

Belcolore, inserita in un più complesso esercizio stilistico atto a rappresentare<br />

132


l’ambiente rustico in cui si svolge la narrazione, da un lato descrive un ideale di<br />

bellezza non perfettamente consono con quello cittadino, dall’altro però esprime una<br />

disposizione d’animo che, con la sua frenetica allegria (era quella che meglio sapeva<br />

sonare il cembalo e cantare L’acqua corre la borrana e menar la ridda e il<br />

ballonchio... (VIII, 2, 9)), corrisponde agli umori del valente prete e gagliardo che,<br />

alla maniera dei religiosi dei fabliaux o di quelli esacrati nella lunga arringa di<br />

Tedaldo, ricreava i suoi popolani; e meglio le lor donne (VIII, 2, 6-7). Interessante è<br />

per noi che la raffigurazione della donna corteggiata dal prete di Varlungo, grazie<br />

alla raffinatamente ironica ricerca di realismo che Boccaccio applica in questo caso,<br />

abbia sempre un riferimento al lavoro dei campi o ad altre incombenze ad esso<br />

collegate: l’incontro tra i due si svolge infatti in un caldo pomeriggio, quando la<br />

donna, non potendo lavorare nei campi, si trova in casa, anzi, quasi a fingere<br />

casualmente la situazione tipica del vagheggiamento cortese, che vuole l’uomo<br />

sospirante in posizione sottomessa rispetto alla donna, Boccaccio ce la presenta in<br />

balco, nel soppalco della dimora, dunque, donde immediatamente scende per<br />

cominciare a nettare sementa di cavolini che il marito avea poco innanzi trebbiati<br />

(VIII, 2, 19).<br />

Il dialogo amoroso, ricco di sottintesi cui la donna argutamente sa rispondere,<br />

continua con l’enumerazione di faccende umili (Egli mi conviene andar sabato a<br />

Firenze a render lana che io ho filata e a far racconciare il filatoio mio (VIII, 2,<br />

28)), cui fanno da contr’altare le modeste – eppur ricche di femminilità – ambizioni<br />

estetiche della contadina (...e se voi mi prestate cinque lire, che so che l’avete, io<br />

ricoglierò dall’usuraio la gonnella mia del perso e lo scaggiale dai dì delle feste che<br />

io recai a marito... (VIII, 2, 28)): a differenza della smisurata venalità della<br />

protagonista della novella precedente, Ambruogia, che pretende da Gulfardo una<br />

somma altissima (duecento fiorini d’oro!), monna Belcolore si accontenta di una<br />

cifra modesta, che pure rappresenta un vero capitale per il suo corteggiatore<br />

(...pensando che quanti moccoli ricoglieva in tutto l’anno d’offerta non valeva la<br />

metà di cinque lire... (VIII, 2, 39)), indotto dunque a turlupinarla alla stessa maniera<br />

del soldato tedesco!<br />

133


Metamorfosi d’interesse<br />

Monna Belcolore, dunque, si dimostra facile preda delle parole ingannevoli dei<br />

religiosi, altrettanto quanto lo sarà – anche per merito del marito – la bella Gemmata<br />

che Donno Gianni tenterà di mutare in cavalla (IX, 10): abbiamo già in precedenza<br />

avvicinato le due figure di Gemmata e di Peronella, in quanto la loro<br />

caratterizzazione è quella che maggiormente spinge Boccaccio a valersi di<br />

similitudini animalesche, abbandonando la dimensione giocosa del rapporto d’amore<br />

per approdare ad una visione assai più cruda, bacchica del sesso. Esiste, nel<br />

Decameron, una linea panica della sensualità, il cui incipit potremmo porre<br />

nell’avvistamento da parte del giovane monaco della bella contadina in I, 4, e che<br />

prosegue con le avventure di Masetto di Lamporecchio (III, 1), l’eremitaggio di<br />

Alibech (III, 10), le promiscuità in casa di Pietro di Vinciolo (V, 10), fino appunto<br />

alle prodezze del prete di Varlungo, del prevosto di Fiesole (che si accoppierà, suo<br />

malgrado, con la Ciutazza (VIII, 4)) e di Donno Gianni: questo genere di sensualità,<br />

caratterizzato da istinti grevi e spesso ironicamente esuberanti, si radica soprattutto<br />

nella vita sentimentale della gente semplice, tutta dedita ai piaceri del corpo che<br />

alleviano in qualche modo le privazioni e le fatiche quotidiane.<br />

Le prodezze erotiche di Peronella, che come monna Belcolore è vista nella sua<br />

quotidianità di povera filatrice, la riscattano di una vita vissuta sottilmente, come non<br />

si addice ad una bella e vaga giovinetta (VII, 2, 7): l’unica maniera di evadere dal<br />

grigiore di un’esistenza fatta di stenti viene colta nel rapporto extraconiugale, nella<br />

intimità di poche ore che sostituiscono la realizzazione di un’ambizione irrealizzabile<br />

(Griselda rappresenta l’eccezione, da questo punto di vista). Peronella, riuscita ad<br />

eludere il sospetto del marito, si piega a soddisfare il desiderio del suo amante<br />

proprio a pochi centimetri dall’ignaro consorte, trasformata dalla passione in cavalla<br />

di Partia: quanto è differente il suo agire, sfrontato e disinibito, da quello foriero di<br />

ben più gravi conseguenze di Ghismonda, o di Lisabetta, che loro malgrado vengono<br />

colte dall’autorità paterna o fraterna nel momento del peccato! In realtà, Peronella si<br />

trasforma, abbandona i freni dell’inibizione che pure conosceva in precedenza<br />

(Oimé! Giannel mio, io son morta, che ecco il marito mio... (VII, 2, 12)), per sfidare<br />

134


con la pienezza del desiderio la presenza dell’autorità maritale, capovolgendo la<br />

situazione di terrore che s’era impadronita di lei al momento dell’arrivo del marito.<br />

Simile è il meccanismo su cui si basa la lunga descrizione della non riuscita<br />

metamorfosi di Gemmata: spinta dall’abbaglio del guadagno, ma più probabilmente<br />

dalla inguaribile curiosità femminile, la moglie di compare Pietro si sottopone alla<br />

cerimonia magica promessa da donno Gianni che dovrebbe tramutarla in cavalla.<br />

Anche intorno a questa figura di donna, Boccaccio ci presenta un ambiente di<br />

squallida miseria (Compar Pietro d’altra parte, essendo poverissimo e avendo una<br />

piccola casetta in Tresanti appena bastevole a lui e a una sua giovane e bella moglie<br />

e all’asino suo... (IX, 10, 8)), in cui le privazioni quotidiane possono spingere una<br />

giovane a desiderare persino di essere tramutata in animale, pur di ottenere qualcosa<br />

di più dalla vita. La lunga descrizione dei palpamenti del religioso rende ancor più<br />

meschina la situazione della donna, che finisce per divenire oggetto di disputa dei<br />

due uomini, in una situazione davvero – stavolta – boccaccesca!<br />

In ambedue i casi, però è proprio la speranza della metamorfosi, del cambiamento di<br />

identità, a guidare le donne in atteggiamenti e comportamenti che superano l’usuale,<br />

e che le immergono in quella greve sensualità che confina con il bestiale.<br />

Eroine del popolo minuto<br />

A riscattare moralmente le donne del popolo minuto sono gli esempi di muto ed<br />

ostinato “eroismo” che animano la settima ed ottava novella della quarta giornata: sia<br />

Simona che la Salvestra, a differenza delle altre protagoniste della giornata degli<br />

amori tragici, sono parte di quel popolo cittadino che pure Boccaccio gratifica di un<br />

drammatico ruolo in questa tanto particolare giornata del Decameron.<br />

La tragedia di Simona e Pasquino viene introdotta da una argomentazione che vuole<br />

contestare i pregiudizi nei confronti delle persone di umile nascita:<br />

Fu adunque, non è gran tempo, in Firenze una giovane assai bella e<br />

leggiadra secondo la sua condizione (...) e quantunque le convenisse con<br />

le proprie braccia il pan che mangiar volea guadagnare e filando lana<br />

135


sua vita reggesse, non fu per ciò di sì povero animo che ella non ardisse<br />

a ricevere amore nella sua mente... (IV, 7, 6)<br />

Significativamente, il narratore descrive l’approfondirsi stesso del rapporto d’amore<br />

tra i due giovani, come un avvolgersi sempre più fitto dei sospiri al lavoro del fuso<br />

(...filando a ogni passo di lana filata che al fuso avvolgeva mille sospiri più cocenti<br />

che fuoco gittava, di colui ricordandosi che a filar gliele aveva data. (IV, 7, 7)),<br />

quasi a sottintendere che, non essendovi per Simona molto tempo libero, è il tempo<br />

della filatura ad essere coinvolto nel piacevole riandare dei pensieri e dei sospiri,<br />

soprattutto se il giovane si fa sollecito della sua filatura. Di qui a trasformare la<br />

dimestichezza dovuta alle commissioni artigianali in vera e sollecita intimità, passa<br />

poco, soprattutto per due figli del popolo minuto che vogliono, come altri giovani<br />

protagonisti delle altre novelle della giornata (Ghismonda e Guiscardo, Lisabetta e<br />

Lorenzo) cogliere l’attimo ed amarsi, Simona e Pasquino vieppiù legittimati dalla<br />

liceità – seppur acerba – del loro legame. L’allegra brigata che si reca nel giardino<br />

deputato ad accogliere i giovanili riti d’amore, è in qualche modo immagine modesta<br />

della brigata di sette giovani donne e tre giovani uomini che si allontana da Firenze<br />

per sfuggire alla peste e trascorrere il tempo raccontando: questa brigata, però, non<br />

parla, se non per accusare la Simona, dopo aver assistito ad una manifestazione in<br />

effigie del morbo, causata dal veleno della botta rinvenuta poi sotto il cespo di salvia.<br />

L’umiltà dei personaggi, la modestia degli eventi, la miseria di quelle morti che<br />

stravolgono le semplici bellezze di Simona e Pasquino, sembrano caricare di<br />

maggiore tragedia quanto avviene in questa novella, dandoci il senso di una<br />

raffigurazione – quasi evangelicamente – essenziale della morte che non viene più<br />

accompagnata dalla consolazione, dal conforto, ma giunge improvvisa e si abbatte<br />

senza pietà proprio sulle creature più ingenue.<br />

Simile meccanismo è quello che colpisce la Salvestra, figliuola d’un sarto, che viene<br />

amata dal figlio di un grandissimo mercatante e ricco, allontanato da lei per ragioni<br />

che troviamo evidenti – ma ormai inutili – nella novella di Lisabetta da Messina:<br />

dimenticato Girolamo, la bella – ma di umili natali – giovane viene sposata ad un<br />

136


tappezziere (un buon giovane che faceva le trabacche (IV, 8, 14)) come dispone la<br />

convenienza sociale per chi appartiene alla stessa classe. Sarà il ritorno di Girolamo,<br />

e la sua spettacolare morte accanto alla Silvestra, nel medesimo letto in cui la donna<br />

dorme con il marito, a risuscitare in lei la passione per il giovane, che la porta a<br />

dimenticare tutto: né gli obblighi coniugali, né la condizione sociale, né il pudore di<br />

trovarsi in chiesa, le impediscono di soggiacere alla passione devastante in cui la<br />

pietà ha il sopravvento sull’amore:<br />

Quel cuore, il quale la lieta fortuna di Girolamo non aveva potuto<br />

aprire, la misera l’aperse, e l’antiche fiamme risuscitatevi tutte<br />

subitamente mutò in tanta pietà, come ella il viso morto vide, che sotto il<br />

mantel chiusa, tra donna e donna mettendosi, non ristette prima che al<br />

corpo fu pervenuta; e quivi, mandato un altissimo strido, sopra il morto<br />

giovane si gittò col suo viso, il quale non bagnò di molte lagrime, per ciò<br />

che prima nol toccò che, come al giovane il dolore la vita aveva tolta,<br />

così a lei tolse. (IV, 8, 34)<br />

La particolarità della reazione dell’animo di questa donna, che fino al momento del<br />

sacrificio dell’uomo che l’aveva vagheggiata era rimasta quasi indifferente al<br />

sentimento di amore che pure l’aveva posseduta in più tenera età, corrisponde<br />

perfettamente – nel suo gesto estremo – alla determinazione delle altre eroine e<br />

martiri volontarie di questa quarta giornata (pensiamo a Ghismonda o alla moglie di<br />

messer Guiglielmo), né viene inficiata dal fatto che la Salvestra appartenga ad una<br />

classe sociale inferiore: anche lei è capace dell’estremo sacrificio (la Simona ne è<br />

vittima involontaria, nonostante ripeta lo stesso gesto di Pasquino, quindi scegliendo,<br />

in un’impressionante recita della morte del suo amato, di seguire fino in fondo le<br />

conseguenze delle sue azioni modellate sull’esempio del giovane) che, nella sua<br />

137


somiglianza con il gesto di Girolamo, ottiene l’effetto di unire i due amanti anche<br />

nella modalità della morte, oltre che fisicamente nell’ultimo abbraccio. 78<br />

Sarebbe fuorviante pensare, dopo questa galleria di protagoniste appartenenti alle<br />

classi meno importanti delle strutture sociali di città e contado, che Boccaccio<br />

sentisse il dovere di includere questa tipologia sociale per anacronistiche convinzioni<br />

di eguaglianza (nonostante il discorso di Ghismonda e le considerazioni a proposito<br />

di Cisti fornaio sembrino dimostrare proprio il contrario)<br />

78 Anche in questo caso ritorna – a nostro giudizio – il modello importantissimo di Paolo e<br />

Francesca preso dal canto V dell’Inferno, nel motivo dell’abbraccio degli amanti nel<br />

momento supremo della morte, che in Dante E amplificato nella visione ultraterrena mentre,<br />

nelle parole di Ghismonda, è affermato come la più attraente delle dimensioni temporali del<br />

rapporto sentimentale (e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo (IV, 1, 32)).<br />

138


Tipologie retoriche<br />

139


La dimensione retorica del discorso femminile:<br />

la perorazione d’amore<br />

Per illustrare la tipologia della perorazione propria dei personaggi femminili del<br />

Decameron, procederemo al confronto tra le novelle terza e settima della seconda<br />

giornata, prima e nona della quarta: se queste quattro unità narrative si distinguono<br />

tra loro per il fatto di appartenere a due giornate dal tema in evidente contrasto (il<br />

lieto fine in opposizione all’infelice fine), esistono tra esse numerosi punti in comune<br />

(la tipologizzazione sociale dei personaggi, ad esempio), ma più di tutti i tratti è<br />

comune la presenza di un discorso persuasivo – cosa peraltro non rara nel<br />

Decameron – che si poggia sovente su argomentazioni simili, indipendentemente<br />

dalla patente diversità dei personaggi femminili delle novelle.<br />

Situazioni narrative di base<br />

Ricostruendo per sommi capi le situazioni che portano alla formulazione di questi<br />

discorsi, ricorderemo brevemente che:<br />

- in II, 3 la figlia del re d’Inghilterra decide di unirsi ad Alessandro, mercante<br />

fiorentino, e deve pertanto convincere addirittura il Papa della giustezza della<br />

propria decisione;<br />

- in II, 7 Alatiel, figlia del sultano di Babilonia, dopo una serie di peripezie<br />

ritrova la “strada di casa” e deve convincere suo padre del fatto che la propria<br />

verginità non ha corso pericoli;<br />

- in IV, 1 Ghismonda deve convincere suo padre, Tancredi, dell’ingiustizia del<br />

suo comportamento nei confronti di se stessa e del proprio amante;<br />

- in IV, 9 la moglie di Guiglielmo di Rossiglione deve convincere il proprio<br />

marito di quanto abbia agito ingiustamente punendo Guiglielmo<br />

Guardastagno.<br />

140


Finalità dei discorsi<br />

In tutti e quattro i casi, la donna di volta in volta coinvolta nella narrazione deve<br />

scontrarsi con un evento che sconvolge la propria esistenza, e che la pone in aperto<br />

contrasto con le forme di autorità – paterna, maritale, generalmente derivante da una<br />

posizione di subordinazione sociale – da cui, in qualche modo, dipende 79 : questo<br />

evento è conseguenza della volontà, da parte della donna, di scegliersi un proprio<br />

destino autonomamente, tranne – ma forse soltanto apparentemente – nel caso di<br />

Alatiel, che non si può dire responsabile della piega che prendono gli eventi. In ogni<br />

caso, il comportamento – volontario o involontario – che segue all’evento, pregiudica<br />

l’onore o addirittura l’esistenza della protagonista, che cerca in qualche maniera di<br />

capovolgere la situazione conflittuale.<br />

Per il meccanismo narrativo, e quindi per le possibilità di riuscita o meno del<br />

tentativo della protagonista di affermarsi nonostante le difficoltà presentatesi, è<br />

fondamentale la componente di irreversibilità degli eventi e dei processi che dagli<br />

eventi derivano:<br />

- la figlia del re d’Inghilterra, prendendo Alessandro per suo sposo,<br />

praticamente gli fa dono della propria verginità (Essa allora levatasi a sedere<br />

in su il letto, davanti a una tavoletta dove Nostro Signore era effigiato<br />

postogli in mano uno anello, gli si fece sposare... (II, 3, 35), con tutta la<br />

carica simbolica che tale “dote” porta con sé nel suo caso, in quanto tale<br />

decisione si contrappone decisamente alle aspettative del regale genitore;<br />

- Alatiel ha perso quella verginità ed “ingenuità” che costituiscono, insieme<br />

alla sua bellezza, la dote simbolicamente donata dal sultano di Babilonia al<br />

suo alleato, il re del Garbo, in segno di riconoscenza per l’impegno<br />

dimostrato in una serie di vicende militari e politiche (...e perciò che in una<br />

79 A proposito di questa situazione di base dobbiamo sottolineare come essa si configuri<br />

comunque, tra seconda e quarta giornata, come risultato della riflessione dell’autore sulle<br />

alterne vicende della fortuna: per i vari commentatori del Decameron, da Getto (1958:95-<br />

138) a Forni (1992:36-56), da Russo (1977:156-162, 169-173) a Baratto (1986:180-195,<br />

327-331), questa riflessione sulle avversità della sorte si unisce alle considerazioni derivanti<br />

dalla differenza tra la morale delle protagoniste e le regole sociali della loro classe.<br />

141


grande sconfitta, la quale aveva data a una gran moltitudine d’arabi che<br />

addosso gli eran venuti, l’aveva maravigliosamente aiutato il re del Garbo, a<br />

lui, domandandogliele egli di grazia speziale, l’aveva per moglie data... (II,<br />

7, 9);<br />

- Ghismonda è stata colta in fragrante da Tancredi, di cui ha offeso l’autorità<br />

paterna, l’amor proprio, il senso di appartenenza sociale, la sovranità<br />

simboleggiata dalla simbolicità della residenza principesca;<br />

- la moglie di Guiglielmo di Rossiglione ha appreso la morte del proprio<br />

amante dopo averne mangiato il cuore – suo malgrado 80 .<br />

Di fronte alla perdita di un bene, indipendentemente dalle conseguenze che esso<br />

comporta ad ogni livello di lettura dell’accaduto, le protagoniste si sentono chiamate<br />

a difendere la propria posizione emettendo un discorso che, anche di fronte<br />

all’irreversibilità del giudizio che su di esse si è formato o si potrebbe formare (nel<br />

caso di Alatiel, ad esempio), ha quantomeno il compito di testimoniare l’importanza<br />

di una reazione verbale, come opposizione ai meccanismi inesorabili del destino ed<br />

all’insofferenza per i regolamenti sociali – in determinati casi accusati di essere<br />

portatori di ingiustizia. 81<br />

80<br />

Ritrovandosi nella situazione senechiana del Tieste (Sì, io, il padre, gravo sui miei figli e i<br />

miei figli gravano su di me. Non c’è limite al delitto? (Seneca 1982:138))<br />

81<br />

Vogliamo ricordare – a proposito di un episodio paradigmatico di questa situazione, e<br />

comunque sottolineando la grande differenza che passa tra i personaggi della Commedia e<br />

quelli del Decameron – che, al di là della ben più complessa lettura attuale del rapporto tra<br />

l’atteggiamento morale di Dante e l’episodio di Paolo e Francesca, proprio commentando il<br />

verso 72 (Pietà mi vinse e fui quasi smarrito), Boccaccio dimostra di leggere questo<br />

complesso momento del V Canto dell’Inferno alla luce di una compassione dantesca nei<br />

confronti delle colpe di alcuni dannati: In queste parole intende l’autore d’ammaestrarne<br />

che noi non dobbiamo con la meditazione semplicemente visitar le pene de’ dannati; ma,<br />

visitandole e conoscendole, e conoscendo noi di quelle medesime per le nostre colpe esser<br />

degni, non di loro, che dalla divina giustizia son puniti, ma di noi medesimi dobbiamo aver<br />

pietà e temere di non dovere in quella dannazione pervenire e compugnerci ed affliggerci,<br />

acciò che tal meditazione ci sospinga a quelle cose adoperare, le quali di tal pericolo ne<br />

traghino e dirizinci in via di salute. (Esposizioni, L. XXI, 139); per poi, una volta spiegati i<br />

loschi intrighi del padre di Francesca per convincerla a sposare Giangiotto (sozo della<br />

persona e sciancato (ivi, 149)), e soprattutto l’inganno di averle posto in animo Paolo, che<br />

142


Struttura compositiva<br />

Per quanto riguarda la struttura dei quattro discorsi, dobbiamo partire dal<br />

presupposto che l’aderenza al cursus medievale non sia da intendersi – come ha<br />

suggerito Branca (1996:51) – come espediente stilistico pedissequo, bensì come<br />

punto di riferimento che Boccaccio adotta con libertà di adattamenti; inoltre la<br />

compositio – in quanto parte di un tessuto narrativo preesistente, da cui è<br />

imprescindibile – si collega necessariamente alle caratteristiche di quella prosa<br />

versificata che possiamo riconoscere in numerosi punti dell’opera. L’utilizzo di<br />

alcuni dei più attraenti stilemi della bella prosa medievale, a nostro avviso, da un<br />

lato è riscontrabile soprattutto nella prima delle novelle da noi analizzate, d’altro<br />

canto diviene ininfluente nel contesto di elaborazione retorica che tiene conto<br />

piuttosto del peso delle argomentazioni, dell’effetto commotivo dell’esposizione<br />

della propria vicenda personale da parte delle protagoniste, infine dallo stridente<br />

rapporto tra la realtà dei fatti narrati e le aspettative che i personaggi femminili fanno<br />

intravedere nel loro discorso persuasivo.<br />

La figlia del re d’Inghilterra<br />

Il discorso in II, 3 parte con un’invocazione diretta al Papa (Santo Padre...) seguita<br />

da una complessa rete di omoteleuti organizzati secondo lo schema ritmico da noi<br />

evidenziato di seguito in grassetto:<br />

Sì come voi meglio che alcuno altro dovete sapere,<br />

non avrebbe sposato, descrivere da un lato il rapporto tra i due amanti come una naturale<br />

conseguenza di quanto era comunque accaduto nell’animo di Francesca (di che si dee<br />

credere che ella, vedendosi ingannata, isdegnasse, né perciò rimovesse dell’animo suo<br />

l’amore già postovi verso Polo. (ivi, 151)), dall’altro il comportamento inumano del marito<br />

tradito il quale, dopo aver ucciso moglie e fratello, subitamente si partì e tornò all’ufficio suo<br />

(ivi, 155), ovvero all’incarico di potestà in alcuna terra vicina, durante il quale incarico più<br />

soventi si erano fatte le frequentazioni tra gli amanti riminesi. Alla descrizione di questo<br />

crudele atto di giustizia sommaria segue (come anche nel caso delle due novelle della quarta<br />

giornata da noi prese in considerazione) il compianto da parte di parenti e vicini: Furono poi<br />

li due amanti con molte lacrime la mattina seguente sepelliti e in una medesima sepoltura<br />

(ivi, 155).<br />

143


ciascun che bene e onestamente<br />

vuol vivere dee,<br />

in quanto può,<br />

fuggire ogni cagione la quale a altramenti fare il potesse conducere,<br />

in cui da un lato assistiamo ad una sorta di enjambement rovesciato in quel vivere<br />

foneticamente collegato al dee, a sua volta separato da fuggire che dal dee dipende<br />

sintatticamente; dall’altro ad una alternanza degli schemi del cursus che spezza lo<br />

schema ripetitivo degli omoteleuti, aggiungendo una pausa fonetica alla pausa logica<br />

del discorso<br />

Sì come voi meglio che alcuno altro dovète sapère, (planus)<br />

ciascun che bene e onestamènte vuol vìvere (tardus)<br />

dee, in quanto può, fuggire ogni cagione<br />

la quale a altramenti fare il potèsse condùcere (tardus).<br />

La prima argomentazione, dunque, enuncia un modello su cui si fonda tutto il filo<br />

logico del discorso: questo modello è inoltre posseduto, al massimo grado, dal<br />

destinatario del discorso stesso, il Pontefice, in quanto depositario della verità<br />

morale. Alla prima argomentazione, di carattere generale, segue subito<br />

l’enunciazione del caso particolare, ovvero della “storia personale” della fanciulla,<br />

segnata dall’intenzione originaria della figura che costituisce l’autorità contrapposta<br />

– nominalmente, ed anche visivamente se consideriamo l’apostrofe: Santo Padre – a<br />

quella del Papa:<br />

nell’abito nel qual mi vedete fuggita segretamente con grandissima parte<br />

de’tesori del re d’Inghilterra mio padre (il quale al re di Scozia<br />

vecchissimo signore, essendo io giovane come voi mi vedete, mi voleva<br />

per moglie dare) (II, 3, 37).<br />

144


La citazione del padre come autorità che dispone del destino della giovane donna, si<br />

accompagna a quella del promesso sposo, il quale corrisponde “geograficamente” e<br />

generazionalmente al primo re, quasi identificandosi con esso e rendendo riprovevole<br />

il legame matrimoniale: la commozione viene sollecitata dal contrasto tra il<br />

vecchissimo signore, che sentiamo lontanissimo dal luogo in cui si svolge l’azione<br />

della novella (come sarà per il re del Garbo in II, 7), ed il riferimento della donna a<br />

se stessa, quell’altrimenti malizioso esibire la propria bellezza suggerito da essendo<br />

io giovane come voi mi vedete, in questo caso pura dimostrazione biologica<br />

dell’irragionevolezza di nozze contrarie alle leggi della natura. Da questo contrasto<br />

prende le mosse la seconda argomentazione:<br />

Né mi fece tanto la vecchiezza del re di Scozia fuggire, quanto la paura<br />

di non fare per la fragilità della mia giovanezza, se a lui maritata fossi,<br />

cosa che fosse contra le divine leggi e contra l’onore del real sangue del<br />

padre mio.(II, 3, 38),<br />

in cui l’opposizione vecchiezza-giovanezza non solo permane, ma addirittura diviene<br />

motivo di ribellione e di fuga. Il ragionamento si sposta dalla contraddizione<br />

biologica alla urgenza di prevenire un comportamento tipico della giovinezza,<br />

contrario alle leggi divine (cioè al sacramento del matrimonio) ed all’onore del real<br />

sangue del padre mio. Una volta opposti l’inviolabilità del sacramento (non<br />

contratto, però!) e l’onore regale ad ogni obiezione sul dovere di ottemperare ai<br />

voleri del genitore (e quindi di rispettare l’onore regale!), la nostra oratrice fa ricorso<br />

ad un colpo di scena, a quella interventio divina che ha il compito di avvicinare ancor<br />

più il suo scrupolo di donna timorata delle leggi divine, alla buona disposizione del<br />

Pontefice:<br />

E così disposta venendo, Idio, il quale solo ottimamente conosce ciò che<br />

fa mestiere a ciascuno, credo per la sua misericordia colui che a Lui<br />

piacea che mio marito fosse mi pose davanti agli occhi...(II, 3, 39).<br />

145


La disposizione di cui si parla è la volontà di rimettersi alla decisione del Papa (acciò<br />

che la vostra Santità mi maritasse, mi misi in via. (II, 3, 37)), che si verifica però<br />

prima di giungere a Roma, grazie ad una illuminazione divina, indotta dalla<br />

misericordia per un caso tanto pietoso, ma soprattutto inappellabile (Idio, il quale<br />

solo ottimamente conosce ciò che fa mestiere a ciascuno...; colui che a Lui piacea<br />

che mio marito fosse...). Il discorso mira a dimostrare l’irreversibilità dell’atto della<br />

giovane donna, rafforzata dalla terza argomentazione, finale ed inappellabile (Lui ho<br />

adunque preso e lui voglio, né mai alcuno altro n’avrò, che che se ne debba parere<br />

al padre mio o a altrui... (II, 3, 40)) che con l’enunciazione delle tre dimensioni<br />

temporali del nuovo legame con Allessandro (ho preso, voglio, n’avrò) ci offre una<br />

interpretazione personale dell’inscindibilità del sacramento celebrato davanti alla<br />

tavoletta dove è effigiato quell’Idio che il loro incontro aveva decretato (mi pose<br />

davanti agli occhi).<br />

La captatio benevolentiae che conclude il discorso della donna (...piacquemi di<br />

fornire il mio cammino sì per visitare (...) la vostra Santità, e sì acciò che per voi il<br />

contratto matrimonio tra Alessandro e me solamente nella presenza di Dio io facessi<br />

aperto nella vostra e per conseguente degli altri uomini. (II, 3, 40)) suonerebbe quasi<br />

offensiva, se il tono non ne fosse mitigato dalla petitio finale che addirittura associa il<br />

volere di Dio a quello della nobile ribelle (vi priego che quello che a Dio e a me è<br />

piaciuto sia a grado a voi, e la vostra benedizion ne doniate... (II, 3, 41)).<br />

La retorica della figlia del re d’Inghilterra, dunque, si serve da un lato di una serie di<br />

argomentazioni e considerazioni generali sulla natura degli affetti umani, dall’altro<br />

sulla irreversibilità di quanto accaduto, che viene presentato come frutto del volere<br />

divino: la volontà di Dio, che introduce tutta l’opera (...o per le nostre inique opere<br />

da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali... (I, intr., 8)), è<br />

sicuramente un argomento “forte”, che ritorna anche nel racconto fittizio tenuto da<br />

Alatiel al suo ritorno alla corte del padre Benimedab. La giovane deve rispondere ad<br />

una serie di domande, che Boccaccio enuncia secondo un preciso ordine logico: volle<br />

146


il soldano sapere 1) come fosse che viva fosse, e 2) dove tanto tempo dimorata 3)<br />

senza mai avergli fatto di suo stato alcuna cosa sentire. (II, 7, 106)<br />

Alatiel<br />

La risposta di Alatiel segue questo itinerario, preoccupandosi di lasciare insolute<br />

diverse questioni riguardanti il non breve periodo di assenza durante la quale,<br />

appunto, nulla si era saputo di lei: conscia del fatto che comunque la propria<br />

avventura si era svolta lontano da occhi e orecchie che avrebbero poi potuto riferirla<br />

(l’impossibilità di comunicare nella propria lingua era stata la prima tragica scoperta<br />

della sua nuova condizione di naufraga), Alatiel imposta il racconto – secondo gli<br />

ammaestramenti di Antigono – su di una serie di eventi di cui ella stessa asserisce di<br />

sapere poco o nulla!<br />

I più importanti sono collegati al naufragio, e riguardano sia l’equipaggio della nave<br />

(...e che che degli uomini, che sopra la nostra nave erano, io nol so né seppi già mai<br />

(II, 7, 106)) che le donne che accompagnano Alatiel (Che di loro si fosse io nol seppi<br />

mai... (II, 7, 107)): la bellissima giovane resta dunque sola con il proprio destino, sia<br />

nella realtà che nella finzione del racconto, ed è da questo momento che la narrazione<br />

falsifica quanto è realmente avvenuto. Si risponde, pertanto, alla seconda parte della<br />

domanda del sultano (dove [fosse] tanto tempo dimorata), in cui Alatiel parafrasa<br />

abilmente la sua odissea erotica con la trovata del monastero e del servigio a san<br />

Cresci in Valcava: tra le righe, un giudizio sulla natura particolare delle donne<br />

cristiane (a cui le femine di quel paese voglion molto bene), che sembra quasi un<br />

sognante riandare con il pensiero al piacere degli incontri amorosi che si erano<br />

susseguiti nel recente passato della donna.<br />

Nel narrare di Alatiel si alternano piacevoli constatazioni di affetto (fui da tutte<br />

benignissimamente ricevuta e onorata sempre (II, 7, 109), essa, tenera del mio onore<br />

(II, 7, 111), Quanto questi gentili uomini m’onorassono e lietamente mi ricevessero<br />

(II, 7, 114)) a momenti di timore per la propria incolumità (temendo se il vero dicessi<br />

non fossi da lor cacciata sì come nemica della legge (II, 7, 110), E assai volte in<br />

assai cose, per tema di peggio, servai i lor costumi (II, 7, 111)), in cui vediamo<br />

147


iflesso l’alternarsi dei felici momenti d’amore e delle situazioni di grande pericolo,<br />

che aveva movimentato l’azione della novella fino all’incontro con Antigono: la<br />

trasformazione degli eventi nella loro descrizione non riesce a cancellare il tessuto<br />

emotivo dell’accaduto, e ciò è vero anche per l’incontro con Antigono, in cui ritorna<br />

il motivo dell’interventio divina già sottolineato in II, 3. Dice Alatiel, dopo aver<br />

accennato significativamente ad un viaggio di due donne cristiane al sepolcro di<br />

Cristo (colui cui tengono per Idio, II, 3, 112), che m’apparecchiò Idio, al quale forse<br />

di me incresceva, sopra il lito Antigono (...); il quale io prestamente chiamai... (II, 7,<br />

114).<br />

La vicenda fortunosa della giovane viene dunque presentata secondo un<br />

rovesciamento delle abilità narrative (non si cercano spiegazioni, ma si oppongono<br />

dichiarazioni di nescitas ai punti oscuri della vicenda), offrendo una risposta alla<br />

terza domanda del sultano (senza mai avergli fatto di suo stato alcuna cosa sentire)<br />

senza alterare la realtà, ma semplicemente addebitando alla paura di ritorsioni dovute<br />

alla diversa appartenenza religiosa, la mancanza di notizie di sé e l’impossibilità,<br />

comunque, di poterle comunicare al genitore. La sua versione dei fatti, inoltre, è<br />

avvalorata da Antigono, che si fa garante della condotta della ragazza, che pure non<br />

può aver conosciuto direttamente, mediante un reiterato apologo della onestà dei<br />

costumi di Alatiel, addotto da quegli gentili uomini e donne, con li quali venne!<br />

Mentre nei due casi sinora esaminati siamo di fronte a vicende a lieto fine, in cui la<br />

validità retorica della perorazione della figlia del re d’Inghilterra e la forza di<br />

convinzione del racconto della bella Alatiel, significano una svolta positiva di tutta la<br />

vicenda presentata nel corso della narrazione.<br />

Ghismonda<br />

La perorazione della giovane figlia di Tancredi giunge a metà dello svolgimento<br />

della novella, quando l’azione appare sospesa, dopo l’arresto di Guiscardo:<br />

nonostante sia certa della punizione, Ghismunda decide di parlare con fermezza al<br />

padre, per far valere le proprie ragioni.<br />

148


Il discorso inizia con un’apostrofe sorprendente: la donna chiama il padre per nome<br />

(Tancredi, che ripete più avanti, al capoverso 33) e non usa l’appellativo che sarebbe<br />

naturale, parlando quale figlia, quasi a sottolineare la sua insofferenza del vincolo di<br />

parentela, e giustificandosi più avanti, poiché non vuole in niuno atto (...) rendermi<br />

benivola la tua mansuetudine e ‘l tuo amore (IV, 1, 31). D’altronde, la sua<br />

perorazione non desidera ottenere nulla (né a negare né a pregare son disposta), è in<br />

realtà una confessione (il vero confessando) aperta dell’amore per Guiscardo: si tratta<br />

di una sorta di recusatio benevolentiae che fornisce uno sfondo emotivo tutto<br />

particolare al discorso, il cui fine è con vere ragioni difendere la fama mia (IV, 1,<br />

31).<br />

Per prima cosa Ghismunda afferma l’immutabilità del suo amore per Guiscardo: la<br />

tripla dimensione temporale che abbiamo già notata nel discorso della figlia del re<br />

d’Inghilterra, conquista una quarta dimensione, quella ultraterrena: io ho amato e<br />

amo Guiscardo, e quanto io viverò (...) l’amerò, e se appresso la morte s’ama, non<br />

rimarrò d’amarlo 82 (IV, 1, 32). La causa di questo amore è duplice, e risiede tanto<br />

nella natura dell’animo femminile come nelle mancanze di Tancredi (...ma a questo<br />

non m’indusse tanto la mia feminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine del<br />

maritarmi e la virtù di lui (IV, 1, 32)): Ghismunda è vedova, ma anche lei – come la<br />

protagonista della II, 3 – può appellarsi alle insidie della giovinezza, ed ancor di più<br />

alla incapacità dell’autorità paterna di saper imporre un “giusto partito”, che invece<br />

la diretta interessata riesce a trovare con minore sforzo (mentre la figlia del re<br />

d’Inghilterra era stata illuminata da Dio, Ghismunda è stata semplicemente<br />

conquistata dalla virtù del suo giovane amante): di qui deriva, per deduzione, la<br />

prima significativa argomentazione “a difesa della fama”: Esser ti dové, Tancredi,<br />

manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di<br />

82 Un riferimento alla visione dantesca del V Canto dell’Inferno mi sembra chiaramente<br />

legato a questa ipotetica, che al di là della suggestione generale dell’accumulo delle forme di<br />

amare, sembra proiettare l’immagine di Paolo e Francesca che, unici, procedono sempre<br />

insieme anche dopo la morte.<br />

149


ferro; e ricordar ti dovevi e dei, quantunque tu ora sie vecchio, chenti e quali e con<br />

che forza vengano le leggi della giovanezza... (IV, 1, 33). Così come al momento in<br />

cui indirizza il suo discorso al destinatario, anche in questo frangente Ghismunda non<br />

manca di usare la sua argomentazione per mettere il padre – che in questo momento è<br />

però anche signore e giudice! – sul suo stesso piano, sottolineando però la differenza<br />

di età in un’opposizione vecchio-giovanezza (avevamo notato lo stesso in vecchiezza-<br />

giovanezza di II, 3, riferito direttamente ed indirettamente alla autorità paterna) che<br />

risulta sminuente nei confronti di Tancredi. Da questo momento il tono della<br />

perorazione di Ghismunda si fa sempre più aggressivo, soprattutto dopo che la<br />

giovane ricorda di aver desiderato di non dare scandalo, tenendo nascosto il suo<br />

amore (E certo in questo opposi ogni mia vertù di non volere a te né a me di quello a<br />

che natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare, vergogna fare.<br />

(IV, 1, 35)). La divisione tra il natural peccato e la vergogna da esso provocata, ci<br />

offre uno spaccato del dramma della giovane vedova, attanagliata dal pensiero di<br />

essersi scelta un amante di rango inferiore al proprio, e quindi di dover prima o poi<br />

rinunciare al proprio Guiscardo, ovvero di tenere per tutta la vita quel segreto: dopo<br />

aver argomentato contro la privazione di scegliersi un amante, lei vedova e figlia di<br />

un principe, Ghismunda deve dimostrare che Guiscardo, che non è di nobili natali, è<br />

degno del suo amore.<br />

La prima argomentazione a riguardo, se da un lato conferma la responsabilità diretta<br />

della donna, non fa però che confermare la generale fermezza del suo animo:<br />

Guiscardo non per accidente tolsi, come molte fanno, ma con diliberato consiglio<br />

elessi innanzi a ogni altro e con avveduto pensiero a me lo ‘ntrodussi e con savia<br />

perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio disio. (IV, 1, 37)<br />

Nonostante Ghismonda cominci il suo discorso accusando il padre di non saper<br />

riconoscere le esigenze della carne, la scelta di Guiscardo è per lei motivo di<br />

distinzione dalle altre donne, che – sembra alludere – si scelgono l’amante per<br />

accidente: ogni suo atto parte da diliberato consiglio, procede per avveduto pensiero<br />

e trova continuità grazie alla savia perseveranza! Questi tre atteggiamenti, cui la<br />

150


donna è costretta dalla “clandestinità” del suo rapporto amoroso, vogliono<br />

chiaramente definire quella virtù posseduta dalla persona di Ghigmunda, che<br />

corrisponde alla virtù di Guiscardo, in prima istanza portata a causa di quell’amore<br />

illecito. La figlia di Tancredi, dunque, che si rivela femina in più di un momento<br />

della sua vita, è donna nelle manifestazioni della razionalità, pur se asservite alla<br />

ricerca del piacere.<br />

Ma lo scopo di questo “tardo preambolo” ci sembra ben diverso, se leggiamo quanto<br />

segue: infatti, il seguito del discorso di Ghismunda deve convincere Tancredi che<br />

non esistono motivi perché Guiscardo, a causa dei suoi natali, non possa essere<br />

amato da lei degnamente.<br />

Per dimostrare tale dignità, Ghismonda ricorre ad una complicata sommatoria di<br />

argomentazioni – che ne costituiscono una, finale ed irreversibile come avviene<br />

generalmente in tal genere di perorazioni – che afferma una sorta di diritto naturale<br />

alla nobiltà derivante da una condizione di uguaglianza comune a tutta l’umanità,<br />

concludendo con la richiesta a che Tancredi punisca, dei due amanti, chi ha la<br />

massima responsabilità per quanto è accaduto, dunque Ghismonda in vece di<br />

Guiscardo:<br />

... tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere e da uno<br />

medesimo Creatore tutte l’anime con iguali forze, con iguali potenze,<br />

con iguali vertù create. (IV, 1, 40)<br />

... tu dirai lui nobilissimo e questi tuoi nobili esser villani...<br />

...la povertà non toglie gentilezza a alcuno ma sì avere<br />

L’ultimo dubbio che tu movevi (...) caccial del tutto via: se tu nella tua<br />

estrema vecchiezza far quello che giovane non usasti, cioè a incrudelir,<br />

sei disposto, usa in me la tua crudeltà (...) sì come prima cagion di<br />

questo peccato, se peccato è... (IV, 1, 41-44).<br />

151


Conseguenza di quest’ultima argomentazione è la minaccia del suicidio come<br />

rappresaglia all’azione punitiva di Tancredi,<br />

... per ciò che io t’acerto che quello che di Guiscardo fatto avrai o farai,<br />

se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno. (IV, 1,<br />

44),<br />

che riprende lo schema della triplice dimensione temporale (fatto avrai, farai, fai)<br />

tipica della “dichiarazione d’amore”, ora inserita nel presentimento della crudele<br />

sorte destinata agli amanti.<br />

Una donna di Provenza<br />

La nona novella della quarta giornata, presentandoci un omaggio di Boccaccio agli<br />

ideatori dell’amor cortese (la novella dichiara subito questo proposito (secondo che<br />

raccontano i provenzali (IV, 9, 4)), trova il suo nucleo più significativo nelle tragiche<br />

circostanze che rivelano la presenza effettiva della donna, del resto esclusa<br />

dall’azione centrale che vede i due cavalieri intenti ad “attività maschili”, che<br />

diverranno il pretesto per poter uccidere l’amante della donna e comodamente<br />

estrarre da esso il cuore, come già sperimentato in IV, 1: l’offesa fisica (l’uccisione<br />

dell’amante e lo strazio dell’organo simbolo stesso dell’amore) viene però superata<br />

per intensità e cinismo dall’offesa verbale 83 . La risposta della donna, evidentemente<br />

allineata con lo schema delle perorazioni d’amore sinora considerate, preferisce<br />

evitare i temi emozionali e genericamente aderenti al diritto di amare, per spostarsi<br />

83 Nella vendetta architettata da Tancredi, il padre manda alla figlia il cuore di Guiscardo con<br />

un messaggio autoreferente: « Il tuo padre ti manda questo per consolarti di quella cosa che<br />

tu più ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli più amava» (IV, 1, 47); mentre<br />

Guiglielmo di Rossiglione accompagna il cuore – cucinato – del suo rivale con le seguenti<br />

parole, ben più esplicite ed armate di un macabro umorismo: ... né me ne maraviglio se<br />

morto v’è piaciuto ciò che vivo più che altra cosa vi piacque (IV, 9, 20).<br />

152


sul terreno della competenza giuridica, del diritto maritale ad esercitare il diritto di<br />

possesso entro determinati ambiti 84 .<br />

Il distacco dimostrato dalla moglie di Guiglielmo si nota subito nell’apostrofe<br />

(Monsignore... (IV, 9, 19)) ancora contenuta nel momento in cui viene richiesta del<br />

parere sulla vivanda di cui ignora la natura: in questo modo il rispetto dovuto<br />

all’autorità del marito, proiettato nel passato relativamente recente<br />

dell’ambientazione provenzale, si arricchisce di una estraneità e di un turbamento<br />

che il lettore deve aver già notati nelle prime battute dei coniugi («E come è così,<br />

messer, che il Guardastagno non è venuto?» (...) «Donna, io ho avuto da lui che egli<br />

non ci può essere di qui domane», di che la donna un poco turbatetta rimase. (IV, 9,<br />

14-15)).<br />

Similmente a quanto visto in IV, 1, anche la moglie di Guiglielmo Rossiglione<br />

decide di affrontare l’autorità – cui si oppone – con i toni dell’aggressione, che<br />

Boccaccio riesce a condensare in un passaggio presago della dinamica e quasi<br />

acrobatica conclusione della novella: passiamo dunque dalla recusatio benevolentiae<br />

(Voi faceste quello che disleale e malvagio cavalier dee fare... (IV, 9, 23) alla prima<br />

argomentazione per deduzione, che si appella ai fondamenti del diritto coniugale (...<br />

se io, non isforzandomi egli, l’avea del mio amor fatto signore e voi in questo<br />

84 Anche in questo caso, però, come per Ghismonda, Lisabetta, Simona e la Salvestra, esiste<br />

un nesso di contiguità e conseguenzialità tra la reazione alla morte dell’amato e la decisione<br />

di farsi vittime volontarie: il gesto plateale – e quasi volgare, umoristico – compiuto dalla<br />

donna che si getta dalla finestra, se riesce ad individuare chiaramente lo spazio del castello,<br />

della torre alta e metaforicamente indica una “caduta” che porta alla morte della<br />

protagonista, non più semplicemente intesa come rinuncia ad una vita priva dell’elemento<br />

vitale per eccellenza (...unque a Dio non piaccia che sopra a così nobil vivanda, come è<br />

stata quella del cuore d’un così valoroso e così cortese cavaliere come messer Guiglielmo<br />

Guardastagno fu, mai altra vivanda vada! (IV, 9, 23)), ma anche come adempimento a<br />

quanto vogliono le regole della lealtà e della moralità (ché se io, non isforzandomi egli,<br />

l’avea del mio amor fatto signore e voi in questo oltraggiato, non egli ma io ne doveva la<br />

pena portare (IV, 9, 23)), quindi in maniera che il suicidio come accettazione volontaria del<br />

martirio per amore, suggelli anche questa novella come la prima di riferimento nel senso di<br />

una molteplicità di soluzioni che pure tende ad un’unica, accettabile proposizione: divenire<br />

vittima di un meccanismo punitivo che in prima istanza non è diretto verso la donna<br />

(elemento familiare da preservare fisicamente e nell’onore) ma che, fatalmente, su di essa si<br />

dirige per volontà di essa.<br />

153


oltraggiato, non egli ma io ne doveva la pena portare.(IV, 9, 23)), alla dichiarazione<br />

finale ed irreversibile, come in IV, 1, 44 (Ma unque a Dio non piaccia che sopra a<br />

così nobil vivanda, come è stata quella del cuore d’un così valoroso e così cortese<br />

cavaliere come messer Guiglielmo Guardastagno fu, mai altra vivanda vada! (IV, 9,<br />

23)), che riprende – e chiude – il parallelismo del doppio riferimento al cuore<br />

dell’amante come oggetto d’amore e specialissima vivanda, sigillando la breve<br />

invettiva con un giuramento (unque a Dio non piaccia) che rafforza la<br />

determinazione del gesto.<br />

A proposito di quanto emerge da questo campione della perorazione amorosa da<br />

parte di protagoniste del Decameron, ci sembra importante ricordare i seguenti punti:<br />

- messe di fronte alla necessità di dimostrare con un discorso persuasivo le<br />

proprie ragioni, le protagoniste delle novelle utilizzano soltanto in parte<br />

l’elemento commotivo, privilegiando la struttura argomentativa (per<br />

deduzione) del discorso;<br />

- tra gli elementi – apparentemente – esornativi del discorso persuasivo<br />

troviamo sovente il riferimento alla continuità temporale del sentimento<br />

amoroso (secondo la molteplice scansione passato-presente-futuro), che<br />

quindi diviene tratto caratteristico di questo genere di perorazione;<br />

- non è tanto un’argomentazione a suggellare il discorso persuasivo, quanto<br />

piuttosto una legittimazione che si concretizza nella citazione di Dio (come<br />

volere divino);<br />

- la differenza di esito tra le novelle delle due giornate, al di là della situazione<br />

specifica delle singole unità narrative, condiziona il discorso persuasivo nel<br />

suo incipit, nell’apostrofe, e di conseguenza in tutta l’impostazione del tono<br />

oratorio nei confronti del destinatario, che nelle novelle della quarta giornata<br />

da noi scelte (non è così, ad esempio, per Lisabetta da Messina) si carica di<br />

una aggressività rilevante, tesa a sminuire l’autorità proprio nella sua validità<br />

morale.<br />

154


La continuazione di un topos stilnovistico: le donne angelicate<br />

Pur nella sua ricerca di una letteratura mezzana, Boccaccio non poteva ignorare la<br />

fondamentale eredità del dolce stil novo: ammiratore di Dante e rielaboratore della<br />

lirica di quest’ultimo, come anche riecheggiatore dei modi di Cino da Pistoia 85 , sia<br />

nelle Rime che nel Filostrato (ma anche nella ballata conclusiva della nona giornata<br />

del Decameron, che riprende la ballata ciniana Io guardo per li prati ogni fior<br />

bianco), il Certaldese fonda anche su queste esperienze giovanili di ricerca del<br />

modello poetico una tendenza a rappresentare alcune figure femminili del<br />

Decameron secondo i dettami della tradizione dantesca e stilnovistica. In queste<br />

rappresentazioni è manifesto, come abbiamo già sottolineato a proposito della<br />

tipologia “fisiologica”, l’uso del parallelo stilistico con il locus amoenus, mentre non<br />

è scontato che la raffigurazione della donna angelicata conservi le sue caratteristiche<br />

nella completa estensione delle singole novelle.<br />

Sguardi e sospiri<br />

L’esempio più palese di questa citazione dei dettami stilnovistici è nella novella di<br />

Ricciardo detto il Zima (III, 5), che per la situazione narrata (il protagonista maschile<br />

supplisce alla impossibilità per la donna da lui amata di rispondergli, rispondendosi)<br />

si pone chiaramente – agli occhi del lettore – come imitazione di un contrasto<br />

d’amore, in cui si può vedere una trasposizione e materializzazione di un aspetto<br />

preciso del discorso lirico: nel quale, anche quando la donna si esprime con la sua<br />

voce, lo fa pur sempre tramite i versi composti dall’io maschile (Bruni 1990:332). Il<br />

fatto dunque che la moglie di messer Francesco de’Vergellesi rientri nella<br />

caratterizzazione femminile della espressione lirica stilnovistica, lo esperiamo<br />

analizzando le parole pronunciate dal suo corteggiatore nel corso del dialogo-<br />

monologo che occupa il centro della novella: anteponendo le virtù intellettive della<br />

85 Ricorda Armando Balduino che il ricordo di Cino prevale nettamente su quello del pur<br />

noto Cavalcanti (in Surdich 2001:9), per una maggiore consonanza delle note elegiache,<br />

oltre che per motivi filologici precisi.<br />

155


dama a quelle fisiche (Valorosa donna, egli mi pare esser certo che voi siete sì savia<br />

è l’incipit del discorso amoroso di Ricciardo, seguito dalla considerazione avete<br />

potuto comprendere a quanto amor portarvi m’abbia condotto la vostra bellezza), il<br />

Zima imposta la sua perorazione su quella eccellenza delle qualità femminili<br />

(costumi laudevoli e virtù singolari) che necessariamente sfocia in una vera e propria<br />

preghiera (non immeritatamente ardirò di porgere i prieghi miei alla vostra altezza,<br />

dalla quale sola ogni mia pace, ogni mio bene e la mia salute venir mi puote, etc.),<br />

per concludersi in una – non sappiamo quanto parodizzante – citazione<br />

cavalcantiana: con lieta risposta e piena di grazia riconforterete gli spiriti miei, li<br />

quali spaventati tutti trieman nel vostro cospetto!<br />

Non dimentichiamo però che il meccanismo risolutore dell’abboccamento tra<br />

l’elegante cavaliere e la – temporaneamente – muta dama è tutto nel gioco di sguardi<br />

e sospiretti, che diviene più convincente di qualsiasi espressione verbale. Questa<br />

circostanza richiama, tra le altre suggestioni, quella della ballata ciniana Poi che<br />

saziar non posso gli occhi miei, in cui non soltanto si ripete la parafrasi della<br />

beatificazione guinizelliana, ma viene estremizzato quel potere degli occhi che è<br />

l’apporto più pregnante della tradizione lirica alle possibilità della narrazione in<br />

prosa. Di questo gioco di sguardi entra a far parte quanto il Zima “fa dire” alla donna<br />

riguardo agli infingimenti necessari a tener nascosta la conoscenza dell’amor<br />

grandissimo e perfetto, al fine di conservare quella discrezione che giova a servare la<br />

fama della mia onestà: il viso mostra altro che l’animo, asserisce la “voce<br />

femminile”, ed anche questa durezza e crudeltà fittizie sono da addebitare alle<br />

perfette qualità della donna.<br />

Nella giornata della liberalità e della magnificenza, la quarta novella ripete, come<br />

molti critici hanno sottolineato, una delle questioni del Filocolo, ma ancora più<br />

interessante ci pare la circostanza della morte dell’amata, che ricollega Boccaccio ai<br />

toni elegiaci ciniani: fatto è che se la morte di madonna Catalina spinge Gentil<br />

Carisendi a profanarne il sepolcro ed a baciarne piangente il volto, per poi appurare<br />

che la morte era soltanto apparente, le conseguenze della gioia provata per il<br />

“miracolo” confermano il potere beatificante della donna, da cui Gentile non implora<br />

156


più quel guiderdone già incontrato in III, 5. Il rovesciamento della situazione<br />

elegiaca, il ritorno in vita dell’amata, non privano la donna delle sue qualità visibili,<br />

anche se – ancora una volta per un accordo preso in precedenza e che corrisponde a<br />

quello tra messer Francesco de’ Vergellesi e sua moglie – ella viene privata<br />

temporaneamente della facoltà di parlare (lo stesso Gentil Carisendi sottolinea per<br />

questo la virtù della donna da lui recuperata a vita). È poi lo stesso innamorato a<br />

narrare gli eventi che avevano portato a quella felice scoperta, imponendo alla<br />

straordinaria esperienza un aspetto provvidenziale: e Iddio, alla mia buona affezion<br />

riguardando, di corpo spaventevole così bella divenir me l’ha fatta. (X, 4, 38) La<br />

citazione dell’intervento divino, motivato dalla natura degli affetti di Gentile per la<br />

bella Catalina, impone agli eventi una lettura particolare: la buona affezion di cui<br />

parla il gentiluomo viene infatti confermata da quanto asserito alla fine del suo<br />

discorso, teso a dimostrare l’effettivo rispetto, da parte sua, di quel legame<br />

matrimoniale che Niccoluccio aveva pregiudicato non facendo oggetto delle dovute<br />

attenzioni la propria moglie. Ancora una volta, Dio viene chiamato a testimone della<br />

innocenza di quell’amore, che ha causato la salvezza stessa della donna:<br />

... ché io ti giuro per quello Iddio che forse già di lei innamorar mi fece<br />

acciò che il mio amore fosse, sì come stato è, cagion della sua salute,<br />

che ella mai o col padre o colla madre o con teco più onestamente non<br />

visse, che ella appresso di mia madre ha fatto nella mia casa. (X, 4, 43)<br />

La natura divina degli affetti si irradia dunque alla figura stessa della donna amata,<br />

investita di quella luce angelica che nell’animo di Gentil de Carisendi in un primo<br />

momento aveva generato amore, poi la massima liberalità, come è giusto che sia per<br />

ogni cor gentile.<br />

157


L’amore di Ansaldo<br />

La novella di madonna Dianora è anch’essa, come la precedente della stessa<br />

giornata, ripresa da una delle questioni d’amore del Filocolo: al centro della<br />

narrazione ci sono due elementi di straordinaria bellezza, la donna (bella e nobile) ed<br />

il giardino che anche nel mese di gennaio è pieno di verdi erbe, di fiori e di fronzuti<br />

albori, non altrimenti fatto che se di maggio fosse (X, 5, 8). Nella novella come è<br />

narrata nel Filocolo, la nobildonna è sposata ad un cavaliere e vagheggiata da un<br />

altro (... mi ricorda un ricchissimo e nobile cavaliere, il quale di perfettissimo amore<br />

amando una donna nobile della terra, per isposa la prese. Della quale donna,<br />

essendo bellissima, un altro cavaliere chiamato Tarolfo s’innamorò... (Filocolo, IV,<br />

31:355)), mentre nel Decameron conosciamo, del marito di madonna Dianora,<br />

soltanto la situazione patrimoniale ed il carattere (un gran ricco uomo nominato<br />

Gilberto, assai piacevole e di buona aria (X, 5, 4); inoltre, delle attività che nel<br />

Filocolo vengono chiaramente citate come tipiche della vita di un cavaliere (giostre,<br />

armeggiamenti, doni di gran valore) e che saranno parte della descrizione di Federigo<br />

degli Alberighi, troviamo ben poco nella novella decameroniana, che si limita a<br />

ricordare come Ansaldo facesse di tutto per “farsi notare” dalla donna.<br />

La riscrittura della narrazione, dunque, tende in qualche modo ad attenuare proprio<br />

quei caratteri che maggiormente si richiamano alla tradizione cortese-cavalleresca,<br />

per accentuare il tema centrale della liberalità e svincolarlo dall’esclusività di questa<br />

tradizione: resta invariata la descrizione dell’aspetto della donna vagheggiata ed il<br />

suo stupore quando, nonostante l’assurdità della sua richiesta – mirante piuttosto a<br />

respingere l’amante, che a soddisfare un capriccio femminile – è inevitabilmente<br />

portata ad ammirare il prodigio compiuto dal negromante. Se però ci soffermiamo<br />

sulla natura della richiesta, vedremo chiaramente a quale alta simbologia sia<br />

asservito il giardino sempre fiorito: immagine della primavera, della stagione<br />

dell’amore, esso è una proiezione magico-floreale della bellezza di madonna<br />

Dianora, e si oppone sia al freddo del luogo (In Frioli, paese quantunque freddo lieto<br />

di belle montagne... (X, 5, 4)) che al rigore del mese di gennaio (...essendo i freddi<br />

grandissimi e ogni cosa piena di neve e di ghiaccio... (X, 5, 10)). Questa<br />

158


associazione della bellezza e del giardino in una dimensione atemporale, la cui<br />

straordinarietà è accresciuta dalla magia che ha reso possibile il prodigio, rende<br />

possibile persino l’azione difficilmente giudicabile di messer Giliberto: madonna<br />

Dianora si reca da Ansaldo, che la accoglie con le parole tipiche del servigio d’amore<br />

(... se il lungo amore il quale io v’ho portato merita alcun guiderdone... (X, 5, 19)), a<br />

cui risponde spostando il rapporto di corrispondenza tra sé e Ansaldo, fondato<br />

sull’amore di quest’ultimo, ma dalla donna non corrisposto, verso una linea Gilberto-<br />

Ansaldo fondata sulla cortesia, dai due uomini condivisa come massima virtù, e<br />

quindi degna di essere imitata e superata (su questa linea si innesta l’intervento<br />

magnifico del negromante!), per onore di chi ha compassione al mio amore (X, 5,<br />

22). Le virtù della donna (gentile ed onesta), unite a quelle del marito, raggiungono il<br />

fine già additato nella novella precedente, quello cioè di mutare in affetto l’amore<br />

che, divenuto impossibile per le circostanze, continua a vivere in una diversa<br />

dimensione sentimentale: e spento nel cuore il concupiscibile amore, verso la donna<br />

acceso d’onesta carità si rimase (X, 5, 25).<br />

L’amore di Federigo<br />

Altra novella di atmosfera stilnovista è quella di Federigo degli Alberighi (V, 9), in<br />

cui giustamente i critici hanno riconosciuto le consonanze del comportamento di<br />

Federigo con i dettami della lirica del dolce stil novo: altrettanta tenacia ed altrettanta<br />

virtù albergano però in monna Giovanna, che – per quanto riusciamo ad arguire dalla<br />

narrazione – riceve la sua qualità anche dal fatto di avere uno spasimante quale è<br />

Federigo.<br />

Se il narratore ci presenta una donna apparentemente restia ad ogni considerazione di<br />

quel servigio d’amore che Federigo le presta (ma ella, non meno onesta che bella,<br />

niente di queste cose per lei fatte né di colui si curava che le faceva (V, 9, 6)), non è<br />

finalmente coerente, monna Giovanna, con quelle “apparenze” che la donna doveva<br />

necessariamente servare, al fine di non compromettere la propria fama di onestà?<br />

Non è forse questa disillusione continua delle speranze di Federigo a condurlo fino al<br />

sacrificio dell’ultimo simbolo della propria condizione, il falcone? Se è vero che nel<br />

159


apporto amoroso predicato dalla lirica devono trovare posto la rinuncia,<br />

l’indifferenza ostentata dall’amata nei confronti di chi la vagheggia, al fine di<br />

permettere a quest’ultimo di poter sublimare quelle virtù che gli consentono di<br />

nobilitarsi nel servigio d’amore, dobbiamo ammettere che il comportamento di<br />

monna Giovanna è perfettamente coerente con quanto dovremmo attenderci da lei, e<br />

che anzi si dovrebbe restar delusi dalla tanto felice conclusione, in cui la tensione<br />

poetica di tutta la novella viene annullata da considerazioni di prosaica quotidianità,<br />

segnalate dal fatto che Federigo conclude la sua vita miglior massaio fatto, se non<br />

fosse ben più importante, per lo schema narrativo della giornata, ciò che a tale<br />

amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse. E davvero la<br />

donna tanto sospirata dal gentiluomo fiorentino è angelica nei tratti, nel<br />

comportamento, se il discorso che tiene allo stupefatto Federigo è tutto improntato a<br />

sottolineare la nobiltà di lui:<br />

E per ciò ti priego, non per l’amore che tu mi porti, al quale tu di niente<br />

se’ tenuto, ma per la tua nobiltà, la quale in usar cortesia s’è maggiore<br />

che in alcuno altro mostrata, che ti debba piacere di donarlomi... (V, 9,<br />

32).<br />

Anche Federigo, come sarà con Gentil de Carisendi, ricerca nel volere divino le<br />

ragioni del suo innamoramento (... poscia che a Dio piacque che io in voi ponessi il<br />

mio amore... (V, 9, 34)), che finalmente può manifestare pienamente a Giovanna,<br />

alludendo a tutti gli attributi dovutile (alla vostra eccellenzia e al vostro valore (V, 9,<br />

35)) e quindi rivelandole il supremo sacrificio offerto sull’altare di Amore.<br />

Divinità dell’essere femminile<br />

Abbiamo già parlato di come Boccaccio rappresenti il corpo femminile, e<br />

sicuramente nella sua tipologizzazione della bellezza fisica molti elementi<br />

provengono dalla volontà di offrirci delle figure “angeliche”: Efigenia (V, 1)<br />

rappresenta infatti il nucleo tematico più evidente di questa rappresentazione, per la<br />

descrizione degli effetti che la sua bellezza induce nell’animo di Cimone. Al di là<br />

160


della ironica considerazione secondo cui il rozzo giovane era di bellezza subitamente<br />

giudice divenuto (V, 1, 9), rileviamo come l’attenzione alla bellezza superficiale, che<br />

si concentra nel desiderio di vedere gli occhi della giovane, si sposti gradatamente a<br />

riflessioni ben più generali indotte da questo genere di nobilitazione: Cimone, infatti,<br />

dubitava non fosse alcuna dea (V, 1, 10), dunque rapportando la bellezza femminile<br />

non alle leggi del desiderio, ma a quelle di una più alta considerazione dei rapporti<br />

umani, in cui giudicava le divine cose essere di più reverenza degne che le mondane<br />

(V, 1, 10). L’essere femminile, dunque, assume quella caratteristica di divinità, di<br />

soprannaturale, che Boccaccio cala nel contesto di una novella di ambientazione<br />

antica, senza però negare che questa forma di analisi del fascino esercitato<br />

dall’apparizione del corpo femminile possa avere validità anche in “ambiente<br />

cristiano”: pensiamo all’amore di Gentil de Carisendi, che pure giunge quasi fino alla<br />

profanazione del corpo creduto morto dell’amata, oppure al fascino esercitato da<br />

Ginevra e Isotta nei confronti di Carlo d’Angiò!<br />

Anche in questo caso, il proposito dell’autore è quello di mostrarci delle bellezze<br />

angeliche (e nelli lor visi più tosto agnoli parevan che altra cosa... (X, 6, 11)), che<br />

per la delicatezza dei volti – e la trasparenza degli abiti – riescono a creare una<br />

situazione di atarassica contemplazione nel vecchio re (ma sopra a ogn’altro erano<br />

al re piaciute, il quale sì attentamente ogni parte del corpo loro aveva considerata<br />

(...), che chi allora l’avesse punto non si sarebbe sentito. (X, 6, 18)). Le due<br />

giovinette, più avanti, sono colte nell’atto di cantare una ballata per effetto della<br />

quale al re, che con diletto le riguardava e ascoltava, pareva che tutte le gerarcie<br />

degli angeli quivi fossero discese a cantare (X, 6, 22): insistendo sulla similitudine<br />

con gli angeli, e soprattutto avendo conferito alle due fanciulle nomi tanto<br />

impegnativi per il loro portato immaginifico, se da un lato Boccaccio non fa che<br />

conchiudere quanto argomentato nella introduzione alla quarta giornata, a proposito<br />

di quegli che contro alla mia età parlando vanno (IV, intr., 33, quando aveva addotto<br />

proprio gli esempi di tre esponenti dello stilnovo, Cavalcanti, Dante e Cino); d’altro<br />

canto ci mostra come la natural affezione trovi la sua sublimazione (la buona<br />

affezion di X, 4) nella volontà di allontanare da sé uno sconveniente appetito,<br />

161


vincendolo e dimostrando dunque di esserne tanto più degno quanto più capace di<br />

rinunciarvi.<br />

Poiché siamo nel regno della cortesia e della liberalità, non possiamo attenderci di<br />

meno da un protagonista che, per di più, è depositario di virtù regali (in maniera<br />

simile, ma partendo da una situazione opposta, si comporterà nella novella seguente<br />

un altro re, Pietro d’Aragona); resta però il fascino esercitato dalle figure angeliche<br />

che non suscitano, in un primo momento, appetiti sensuali ma piuttosto, come<br />

abbiamo rilevato, uno stato di contemplazione in cui sapientemente Boccaccio<br />

inserisce elementi che alludono alla dimensione celeste, divina: dobbiamo inoltre<br />

sottolineare come la bellezza fisica sia caratterizzata, in questi casi, da una leggiadria<br />

che non troviamo espressa nella descrizione di altre protagoniste femminili 86 .<br />

Come abbiamo visto, la presenza del topos della donna angelicata in alcune novelle<br />

del Decameron si rivela piuttosto indirettamente, è a dire mediante il riferimento agli<br />

effetti della bellezza e dell’amore sugli uomini, che direttamente, per quanto non<br />

manchino descrizioni tese a conservare di questo ideale femminile una testimonianza<br />

precisa.<br />

86 Pensiamo, tra le altre, all’apparizione del corpo nudo della bella Elena in VIII, 7, in cui il<br />

motivo della bellezza fisica è da un lato accentuato dal contrasto con l’ambientazione<br />

notturna della novella, dall’altro ottiene un effetto che il narratore si affretta a delimitare nel<br />

campo dell’attrazione sensuale più elementare, con il riferimento a lo stimolo della carne ed<br />

a quel tale che viene fatto in piè levare (VIII, 7, 67).<br />

162


Riabilitazione e nuovo pregiudizio: la vedova<br />

Tra i personaggi femminili che, per motivi intertestuali connessi alla produzione<br />

successiva del Boccaccio, acquistano un valore particolare nel Decameron, troviamo<br />

le vedove: di esse l’autore ci fornisce diversi esempi in quest’opera, fino a fare di una<br />

vedova la protagonista in absentia del Corbaccio, ed è per questo motivo che la<br />

caratterizzazione di queste figure ha una sua peculiare evidenza nelle diverse unità<br />

narrative in cui esse sono presenti: nonostante molte di queste siano state da noi già<br />

esaminate, in quanto appartenenti ad altre tipologie, comportamentali o sociali,<br />

vogliamo ora analizzarle isolandole in quanto schematizzazioni di modi di essere<br />

femminili cui proprio Boccaccio attribuisce validità letteraria.<br />

Precedenti illustri sono le vedove che la tradizione misogina, già nell’antichità, aveva<br />

illustrato come depositarie di cinismo, e che la vena narrativa e grottesca dei fabliaux<br />

aveva fornito di tutti i vizi (v. il fablel intitolato La vedova in Fabliaux 1980:242 e<br />

segg.): per quanto riguarda Boccaccio, c’è da dire che le vedove protagoniste di<br />

alcune novelle del Decameron mostrano caratteristiche di volta in volta differenti, e<br />

che il topos più tradizionalmente misogino della vedova sarà ripreso, probabilmente<br />

partendo da quanto già presente nella novella della vedova e dello studente (VIII, 7),<br />

in un’opera più tarda, il Corbaccio, che rappresenta un momento particolare della<br />

produzione boccacciana a proposito della sua visione dell’universo femminile, come<br />

peculiare è la galleria di ritratti muliebri contenuta nel De mulieribus claris.<br />

Un tentativo di riabilitazione<br />

Per la presenza della gran parte dei personaggi vedovili nel Decameron, Boccaccio è<br />

un rinnovatore: emerge chiaramente, infatti, la volontà di riabilitare questa categoria<br />

femminile che la tradizione misogina aveva sempre malvisto, a causa di un<br />

pregiudizio sociale che non ammetteva che una donna potesse ricominciare la propria<br />

163


vita, amministrando in prima persona il proprio patrimonio, in cui talvolta era<br />

confluito quello del defunto marito.<br />

Tra le vedove che Boccaccio vuole riabilitare ci sono soprattutto quelle ancora<br />

giovani e ben disposte all’amore: una vena di simpatia corre nei confronti della<br />

amorevole vedova, amante di Azzo d’Este, che accoglie in casa Rinaldo d’Asti (II,<br />

2); Teudelinga, vedova di Autari, ci viene presentata come sposa di Agilulfo e<br />

depositaria della regalità che trasmette da un consorte all’altro (III, 2); la stessa<br />

Ghismonda, che conosce lo stato vedovile in giovanissima età, è considerata con<br />

grande amorevolezza e fonderà proprio sulla particolarità della sua condizione la<br />

propria perorazione in difesa dell’amore per Guiscardo (IV, 1); monna Giovanna, a<br />

lungo corteggiata da Federigo degli Alberighi, deve soffrire prima la vedovanza, poi<br />

la morte dell’unico figlio, ma riscatta la propria indifferenza decidendo di sposare<br />

l’ormai povero in canna Federigo, andando contro il calcolo dei propri fratelli (V, 9);<br />

monna Piccarda, vagheggiata dal prevosto di Fiesole, riesce ad evitare le mire del<br />

religioso facendosi sostituire dalla Ciutazza (VIII, 4), in questo modo affermando il<br />

proprio diritto a scegliere chi amare.<br />

Queste cinque vedove sono, in fondo, accomunate semplicemente dalla buona<br />

disposizione che Boccaccio dimostra nei loro confronti, e dal fatto che – al di là del<br />

contenuto di diverso esito delle narrazioni di cui sono protagoniste – in esse è ancora<br />

vivo e presente un modo di affrontare la vita, che smentisce la luttuosità della loro<br />

condizione.<br />

La vedova ospitale<br />

La castellana che amorevolmente accoglie Rinaldo d’Asti ci viene presentata per il<br />

suo “doppio” stato civile: una donna vedova, del corpo bellissima quanto alcuna<br />

altra, la quale il marchese Azzo amava quanto la vita sua e quivi a instanzia di sé la<br />

facea stare (II, 2, 19), in cui le connessioni tra la vita privata della donna ed i suoi<br />

obblighi nei confronti della famiglia di provenienza sono annullate per il fatto che la<br />

donna è quasi sottoposta del tutto, prigioniera addirittura del potente marchese<br />

(recente deve essere la morte del marito, se è vero che nel momento in cui Rinaldo<br />

164


viene accolto gli fece apprestare panni stati del marito di lei poco tempo davanti<br />

morto (II, 2, 27), né sapremmo dire perché conservi quegli abiti, una volta divenuta<br />

castellana – luogotenente – della possessione di Azzo). L’amante del signore del<br />

luogo, donna sicura in ogni suo gesto (la donna, un poco sconsolata, non sappiendo<br />

che farsi, diliberò d’entrare nel bagno fatto per lo marchese (II, 2, 21); chiamata la<br />

sua fante, le disse: «Va sù e guarda fuori del muro a piè di questo uscio chi v’è e chi<br />

egli è e quel ch’egli è e quel ch’el vi fa» (II, 2, 22); «Va e pianamente gli apri; qui è<br />

questa cena e non saria chi mangiarla, e da poterlo albergar ci è assai» (II, 2, 25);<br />

lietamente il ricevette e seco al fuoco familiarmente il fé sedere (II, 2, 32); al quale<br />

la donna avendo più volte posto l’occhio addosso e molto commendatolo, (...) nella<br />

mente ricevuto l’avea (II, 2, 35)), rivela proprio nella delicata e meticolosa<br />

ripetizione dei riti domestici (il discorrere davanti al fuoco, l’abluzione delle mani, la<br />

cena), nel desiderio di intraprendere lei il corteggiamento e di identificare lo<br />

sconosciuto con il proprio marito (veggendovi cotesti panni indosso, li quali del mio<br />

morto marito furono, parendomi voi pur desso (II, 2, 37)) e con il proprio amante (e<br />

già, per lo marchese che con lei doveva venire a giacersi, il concupiscibile appetito<br />

avendo desto nella mente ricevuto l’avea (II, 2, 35)), il rimpianto della condizione<br />

matrimoniale, di cui in quel momento è priva e che tenta in ogni modo di sostituire:<br />

persino la soddisfazione dei desideri carnali – il concupiscibile appetito – è<br />

giustificata dalla “nostalgia” del legame matrimoniale originario, che la porta a<br />

beneficare Rinaldo, simulacro del marito o dell’amante. In questo tratto amorevole,<br />

la donna viene innalzata a vera benefattrice, quasi a sostituta di quel San Giuliano<br />

protettore dei viaggiatori, che fa dunque una sì ambigua apparizione nella narrazione.<br />

Vedove regali e principesche<br />

Altrettanto positiva, ma guardata con diversa attenzione, è la figura di Teodolinda,<br />

protagonista “passiva” della seconda novella della terza giornata: l’accenno fatto<br />

dall’autore alla sua vedovanza è rapidissimo nella presentazione (Teudelinga,<br />

rimasta vedova d’Auttari (III, 2, 4)), ma nella delicatezza del rapporto con il secondo<br />

marito, nella preoccupazione denunciata dalle parole premurose nei confronti della<br />

165


salute del coniuge, leggiamo tutta la sensibilità di una donna che ha già sofferto la<br />

morte del consorte:<br />

« O signor mio, questa che novità è stanotte?(...) Guardate ciò che voi<br />

fate». (III, 2, 17)<br />

«...ma tuttavia io vi priego che voi guardiate alla vostra salute». (III, 2,<br />

21)<br />

Addirittura, se leggessimo con una forse inopportuna ironia queste righe, potremmo<br />

vedere nella preoccupazione della regina una premonizione di chissà quali<br />

conseguenze future, imputate ad un uso immotivato dei lombi regali!<br />

Continua il motivo della vedova regale, o quanto meno principesca, la figura di<br />

Ghismonda, protagonista di una novella di ambientazione normanna che richiama per<br />

continuità di suggestione la novella longobarda appena citata: unica figlia di<br />

Tancredi, principe di Salerno, andata sposa giovanissima ad un figlio del duca di<br />

Capua, poco tempo dimorata con lui, rimase vedova e al padre tornossi (IV, 1, 4). In<br />

queste incisive parole, nell’uso di quei tre verbi posti in rapidissima successione<br />

(dimorata–rimase–tornossi), Boccaccio sottolinea come la condizione di vedova non<br />

consenta a Ghismonda altra scelta che il ritorno alla famiglia paterna. Il genitore,<br />

inoltre, non fa nulla per farla risposare: nonostante lo stato vedovile, però,<br />

Ghismonda è bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai, e<br />

giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea (IV, 1,<br />

5). Ella, oggetto dell’amore di Tancredi, si concede a Guiscardo, confidando nella<br />

legittimità di questo rapporto amoroso: la giovane vedova «confessa» di aver amato e<br />

di amare Guiscardo, ed addebita la necessità di questo amore a tre elementi, che<br />

coinvolgono tutti e tre i protagonisti, ovvero tanto la mia feminile fragilità, quanto la<br />

tua poca sollecitudine del maritarmi e la virtù di lui (IV, 1, 32). Se la gerarchia di<br />

questi tre elementi sminuisce la «colpa» di Ghismonda, in quanto proveniente da un<br />

istinto naturale e, perciò, in parte giustificabile, essa pone sotto accusa la<br />

166


esponsabilità sociale di Tancredi, che non ha agito come avrebbero dovuto un padre<br />

ed un principe sollecito, quali egli è in questo momento, in cui Ghismonda lo chiama<br />

a rispondere delle sue colpe: per causa sua la giovane donna è nuovamente vedova,<br />

ed è per questo che la vediamo nell’atto di piangere pietosa per il defunto Guiscardo.<br />

Continuando il motivo che troviamo sin dall’orrido cominciamento, Boccaccio<br />

riproduce nella meticolosità del gesto affettuoso di Ghismunda (sopra la coppa<br />

chinatasi piagnendo cominciò a versar tante lagrime, che mirabile cosa furono a<br />

riguardare, basciando infinite volte il morto cuore (IV, 1, 55)) il momento della<br />

consolazione che si addice massimamente ad una vedova, poiché è lei che ha scelto<br />

di sposare Guiscardo, nonostante le nozze non abbiano ricevuto il consenso<br />

dell’autorità paterna (Guiscardo non per accidente tolsi, come molte fanno, ma con<br />

diliberato consiglio elessi innanzi a ogni altro e con avveduto pensiero a me lo<br />

‘ntrodussi e con savia perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio<br />

disio. (IV, 1, 37)).<br />

Monna Giovanna<br />

Nel corso della novella cosiddetta «del falcone» assistiamo ad un doppio processo di<br />

rovina: Federigo degli Alberighi perde tutto il suo patrimonio, mentre monna<br />

Giovanna, da lui inutilmente amata, perde il marito e l’unico figlio. Rispetto alle altre<br />

novelle, in cui la condizione vedovile è data nel momento in cui la narrazione<br />

comincia, la nona della quinta giornata è costruita su una serie di antitesi che si<br />

saneranno soltanto alla fine della novella, e che trovano proprio nei lutti al centro<br />

dello svolgimento epico, il motivo catartico fondamentale per la decisione di monna<br />

Giovanna: le antitesi iniziali (Federigo è solo, ama e non è riamato, si rovina<br />

economicamente, mentre monna Giovanna è pienamente realizzata, sia per quanto<br />

riguarda gli affetti familiari, che la stabilità patrimoniale) si dissolvono con la morte<br />

del marito, l’apparire della condizione vedovile, l’infermità del figliolo. In questa<br />

maniera, i due protagonisti si avvicinano, giungono quasi su di uno stesso piano,<br />

contrassegnato dalla sofferenza, che verrà aggravata dalla morte del falcone,<br />

elemento di frustrazione sia per Federigo che per la madre incapace di procurare al<br />

167


figlio malato il diporto tanto desiderato: la vedovanza di monna Giovanna è dunque<br />

totale, e la tragedia di questa donna che ha perso ormai ogni affetto, si tramuta in<br />

lagrime e amaritudine, anche queste, però, non destinate a durare a lungo, se accade<br />

che – non per scelta di monna Giovanna – la sua condizione di donna sola, che<br />

dispone di un imponente matrimonio, suscita nei fratelli il bisogno impellente, quasi<br />

fastidioso, di procurarle un marito (più volte fu da’ fratelli costretta a rimaritarsi (V,<br />

9, 39)), cosa che non era certo accaduta nel caso di Ghismonda o della affascinante<br />

ospite di castel Guiglielmo. Questa volta, sfidando le convenzioni ma anche<br />

l’autorità fraterna (che sappiamo quanto possa, dall’esempio della sventurata<br />

Lisabetta di Messina!), è la vedova a decidere chi sarà il suo prossimo coniuge, a cui<br />

trasferisce quella ricchezza da Federigo perduta all’inizio della narrazione: annullato<br />

lo stato vedovile, si annulla anche lo stato di povertà del gentiluomo fiorentino.<br />

La vedova beffarda<br />

Protagonista della quarta novella dell’ottava giornata è monna Piccarda, presentataci<br />

da Boccaccio come una gentil donna vedova (VIII, 4, 5) dimorante il più del tempo a<br />

Fiesole in compagnia di due giovani fratelli: la situazione sembra richiamare quella<br />

dell’incontro di Federigo e monna Giovanna, appena ricordati, ma ben altre sono le<br />

caratteristiche del corteggiatore di monna Piccarda, il prevosto di Fiesole, che<br />

l’autore si premura di dipingerci con i tratti più odiosi possibili:<br />

Era questo proposto d’anni già vecchio ma di senno giovanissimo,<br />

baldanzoso e altiero, e di sé ogni gran cosa presummeva, con suoi modi<br />

e costumi pien di scede e di spiacevolezze, e tanto sazievole e<br />

rincrescevole, che niuna persona era che ben gli volesse; e se alcuno ne<br />

gli voleva poco, questa donna era colei, ché non solamente non ne gli<br />

volea punto, ma ella l’avea più in odio che il mal del capo... (VIII, 4, 7).<br />

La descrizione delle virtù della vedova, dunque, avviene anche, indirettamente, per<br />

contrasto con la spiacevole natura del prevosto, che per di più manca persino di tatto<br />

168


(e dopo alcun tempo fu di tanto ardire, che egli medesimo disse a questa donna il<br />

piacer suo, e pregolla che ella dovesse esser contenta del suo amore e d’amar lui<br />

come egli lei amava (VIII, 4, 6)): nelle sfrontate avances del proposto leggiamo la<br />

poca considerazione di quest’ultimo nei confronti delle vedove, che appunto verrà<br />

punita doppiamente dalla vedova, facendosi sostituire dall’orrida Ciutazza, e<br />

rivelando al vescovo il peccato del prevosto. Grazie a questa sua trovata, la vedova<br />

non solo conquista il benvolere dei lettori, ma viene lodata dal vescovo, che sembra<br />

ricordare allusioni a cruente punizioni – come le troviamo, ad esempio, nel fablel che<br />

ha per protagonista il prete crocifisso – quando commendò molto la donna e i giovani<br />

altressì, che, senza volersi del sangue de’ preti imbrattar le mani, lui sì come egli era<br />

degno avean trattato (VIII, 4, 36).<br />

Dalla bella Elena al Corbaccio<br />

La settima novella dell’ottava giornata contiene, a differenza di quelle sinora<br />

considerate, una traccia di quella letteratura di argomento misogino nei confronti<br />

delle vedove, che Boccaccio svilupperà nel Corbaccio: la bella Elena appare sulla<br />

scena glorificata di una descrizione della sua condizione civile ed economica, nonché<br />

dei suoi modi di vita:<br />

Egli non sono ancora molti anni passati che in Firenze fu una giovane<br />

del corpo bella e d’animo altiera e di legnaggio assai gentile, de’ beni<br />

della fortuna convenevolmente abondante, e nominata Elena. La quale<br />

rimasa del suo marito vedova mai più maritar non si volle, essendosi<br />

ella d’un giovinetto bello e leggiadro a sua scelta innamorato... (VIII, 7,<br />

4)<br />

La scelta di non risposarsi, in contrasto con le opinioni di Teodolinda, Ghismonda e<br />

monna Giovanna, si unisce alla decisione di vivere un rapporto “libero” con il<br />

giovinetto bello e leggiadro, quindi giustifica le pretese di Rinieri, che viene ben più<br />

crudelmente beffato da Elena, di quanto avesse fatto monna Piccarda con il prevosto<br />

169


di Fiesole: il cinismo omicida della bella vedova viene sottolineato dalle frasi<br />

beffarde che ella usa per dipingere l’amore dello studente («Deh! levianci un poco e<br />

andiamo a vedere se ‘l fuoco è punto spento nel quale questo mio novello amante<br />

tutto il dì mi scrivea che ardeva» (VIII, 7, 28), «Che dirai, speranza mia? parti che<br />

io sappia far gli uomini carolare senza suono di trombe o di cornamusa?» (VIII, 7,<br />

29), etc.), e che le fanno meritare la punizione per contrappasso, escogitata da<br />

Rinieri. Abbiamo già sottolineato come il sentimento di quest’ultimo, di fronte alla<br />

bellezza fisica della donna intravista nella notte, quasi si risvegli per impedire che la<br />

punizione abbia corso, per poi ritornare alla determinazione originaria che, al di là<br />

degli effetti finali – pur risanati dal tempo e dalla medicina –, si esprime in tutta la<br />

sua acrimonia nella terribile promessa fatta dallo scolare:<br />

Per che, quantunque io aquila non sia, te non colomba ma velenosa<br />

serpe conoscendo, come antichissimo nemico con ogni odio e con tutta<br />

la forza di perseguire intendo... (VIII, 7, 87).<br />

L’arringa contro i tradimenti della vedova è lunghissima, ma proprio questo<br />

frammento, con la citazione di immagini bibliche (la colomba e il serpente), è quello<br />

che maggiormente esprime l’odio viscerale dello studente nei confronti di Elena, e<br />

che meglio si ricollega alla caratterizzazione della vedova ricordata nel Corbaccio<br />

come paradigma della perfidia femminile. Alla descrizione dell’esistenza travagliata<br />

sopportata dal ben avventurato spirito quando era ancora in vita (... la sconvenevole<br />

pazienzia colla quale io comportai le scellerate e disoneste maniere di colei la quale<br />

tu vorresti d’avere veduta esser digiuno. (Corbaccio 1988:218)) seguono le prolisse<br />

invettive nei confronti del sesso femminile, distinte secondo determinati motivi: il<br />

primo di questi è la mancanza di resistenza alle passioni (ivi:233), cui segue il terrore<br />

ancestrale nei confronti del sangue mestruale e degli umori che accompagnano il<br />

parto, come simboli tangibili della loro sporcizia (... riguardinsi i parti loro,<br />

ricerchinsi i luoghi segreti dove esse, vergognandosene, nascondono gli orribili<br />

strumenti li quali a tor via i loro umori superflui adoperano (ivi:234). A questi difetti<br />

170


legati alla passività dell’indole ed alla natura biologica delle donne, seguono doti<br />

diaboliche quali la malizia e la vanagloria, nonché l’uso proditorio che fanno della<br />

bellezza (ibidem), fino a concedersi tanto al lusso degli abiti ed alle smancerie, che<br />

somigliano le publiche meretrici (ivi:235), di cui possiedono la lussuria (la loro<br />

lussuria è focosa e insaziabile (ivi:237)) che le costringe alle azioni più<br />

ignominiose 87 . L’iracondia, il sospetto, l’instabilità, la superbia, tutti i vizi sono in<br />

loro concentrate, se stiamo a sentire il Corbaccio, che del resto si può leggere anche<br />

in chiave metaletteraria, come un gioco di combinazione di materiali letterari che<br />

Boccaccio utilizza in forma parodica, senza assentire con la lettera di quanto scrive,<br />

ma seguendo il filo della elaborazione coerente di quello che potrebbe addirittura<br />

essere un ripensamento dell’amore cortese, rovesciato nella situazione di base del<br />

Corbaccio (Battaglia Ricci 2000:233-234).<br />

Contemporanea al Corbaccio è la raccolta De mulieribus claris 88 , contenente<br />

centoquattro profili biografici di donne celebri (da Eva a Giovanna di Napoli), che<br />

Boccaccio fa introdurre dalle seguenti considerazioni, appunto opposte a quanto<br />

dichiarato nell’opera in volgare da noi appena ricordata:<br />

Già nel passato alcuni degli storici antichi scrissero compendi intorno<br />

agli uomini illustri. Ai nostri tempi uno di maggior estensione e di più<br />

accurato stile lo sta scrivendo il mio maestro Francesco Petrarca, uomo<br />

insigne ed egregio poeta. E ben a ragione: poiché meritarono che il loro<br />

nome fosse consegnato a perenne ricordo ai posteri, quegli uomini che,<br />

per superare gli altri in azioni egregie, spesero tutte le loro forze e le<br />

loro sostanze; e, se fu necessario, donarono anche il sangue e la vita. Al<br />

contrario, è stato per me sempre motivo di meraviglia il fatto che le<br />

87 Proprio questo passo, in cui Boccaccio ricorda che la lussuria costringe le donne ad esser<br />

su per le sommità delle case, de’ palagi o delle torri (ivi:238), presenta delle suggestioni<br />

significative con la punizione adottata dallo studente in VIII, 7.<br />

88 Se accogliamo la datazione del Corbaccio al 1363 (v. Battaglia Ricci 2000:229), possiamo<br />

considerare contemporaneo il De mulieribus, la cui stesura definitiva risalirebbe al 1362<br />

(Ricci in Zaccaria, intr. a De mulieribus claris 1967:14).<br />

171


donne abbiano avuto così poca presa sugli scrittori da non raggiungere<br />

mai il favore del ricordo in qualche opera speciale, ad esse dedicata;<br />

mentre è ben noto – anche dalle storie più vaste – che alcune di esse<br />

compirono imprese valorose e forti. (De mulieribus claris 1967: 25)<br />

Il Proemio prosegue indicando nella volontà di proporre un insegnamento morale, il<br />

principio che ha guidato l’autore nell’inserimento di amabili inviti alla virtù e di<br />

alcune frecciate per far fuggire e detestare i delitti, al fine di raggiungere una santa<br />

utilità tutta a vantaggio del lettore: ma è proprio nella descrizione dell’ultima mulier<br />

clara considerata, Giovanna regina di Napoli, che Boccaccio spunta le sue armi di<br />

misoginia ed infila le lodi sperticate della donna cui, tra l’altro, aveva pensato di<br />

dedicare quest’opera. Il regno dalle complesse vicende di Giovanna viene lodato<br />

come reso sicurissimo dall’azione civilizzatrice di una governante determinata: le<br />

terre che ora possiede, Giovanna ha ordinato in modo che chiunque voglia passar<br />

per esse – sia povero o ricco – può farlo con sicurezza notte e giorno, cantando. (De<br />

mulieribus claris 1967:447)<br />

Inoltre, le vicende personali e familiari della donna, coinvolta direttamente<br />

nell’assassinio del marito Andrea d’Ungheria, per vendicare il quale si mobilitò una<br />

vera e propria campagna militare comandata dal potente re Luigi, vengono lette in<br />

maniera del tutto singolare dal Certaldese:<br />

Ella infatti sopportò guerre all’interno, per la discordia tra i fratelli<br />

della famiglia reale (...); sopportò inoltre, per colpa altrui, la fuga,<br />

l’esilio, gli arcigni caratteri dei mariti, gli odi dei nobili, la cattiva fama<br />

immeritata, le minacce dei pontefici e molti altri mali con cuore forte,<br />

con animo invitto: difficoltà tutte che, non dico a donna, ma a re forte e<br />

validissimo, sarebbero riuscite insuperabili. (De mulieribus claris<br />

1967:449)<br />

172


Accanto al torbido quadro offertoci nel Corbaccio, ecco la riabilitazione di una delle<br />

vedove più famigerate dell’epoca, eppure proprio le vicende di cui Giovanna era<br />

stata protagonista avrebbero significato un magnifico spunto per una novella sulla<br />

crudeltà femminile: da un lato, però, ci sembra che Boccaccio sia cosciente<br />

dell’importanza di una maggiore elaborazione formale, addirittura di una<br />

trasfigurazione, nel caso dei personaggi contemporanei (v. Muscetta 1972:322),<br />

dall’altro la possibilità di inserire un personaggio comunque tanto discusso – anche<br />

se l’autore vuole ad ogni costo smentire le voci contrarie all’onestà della regina –<br />

rientra nel quadro di novità dell’opera, che non limitandosi ad includere soltanto<br />

personaggi positivi, accoglie anche figure che si sono macchiate di nefandezze,<br />

dunque – secondo un orientamento che ha superato lo schema medievale – tende a<br />

diventare una antologia di figure non comuni. 89<br />

La tipologia della vedova rimane di gran lunga la meno monolitica di quelle sinora<br />

esaminate, soprattutto se al di là del Decameron la consideriamo nelle sue<br />

“propaggini corbacciane”: in essa possiamo notare quanto sia forte ancora, nel<br />

Boccaccio, il retaggio di una tradizione misogina che, pur essendo coscientemente<br />

superata dalla sua evoluzione di letterato, riemerge di volta in volta rendendo<br />

quantomeno problematico l’approccio dello scrittore a queste figure, che sono ricche<br />

di connotazioni psicologiche assai attraenti per uno scrittore tanto attento a questi<br />

aspetti (pensiamo soltanto alla psicologia amorosa di Ghismonda, o alle<br />

autosuggestioni della castellana che accoglie Rinaldo d’Asti).<br />

89 Come dice Zaccaria nel suo saggio introduttivo all’opera: L’intento moralistico non è<br />

dunque superiore a quello letterario; anzi il proposito della edificazione è inferiore a quello<br />

della divulgazione culturale. (1967:6)<br />

173


Conclusioni<br />

Come sappiamo, ogni tentativo di imprigionare un’opera letteraria in un preciso<br />

schema, in una definizione, in una possibilità di lettura, non può che riuscire soltanto<br />

parzialmente: il Decameron di Giovanni Boccaccio, proprio per la sua polifonia di<br />

temi e personaggi, oltreché per il fatto di trovarsi a cavallo tra due tradizioni<br />

letterarie fondamentali per lo sviluppo della cultura occidentale, è almeno altrettanto<br />

difficile da chiudere in una classificazione, che la Divina Commedia o l’Orlando<br />

furioso.<br />

Il tentativo di definirne le unità narrative, e la complessità di temi e personaggi,<br />

dunque, attraverso le differenti possibilità e forme di rappresentazione delle<br />

protagoniste delle novelle, significa solo una ulteriore modalità di lettura rispetto a<br />

quanto sinora tentato dai vari critici: la fortuna letteraria dell’opera multiforme di<br />

Boccaccio, infatti, se ha avuto nel corso dei secoli diversa intensità ed incontrato<br />

diversa stima, ha tenuto costantemente l’opera maggiore al centro dell’attenzione<br />

degli studiosi, che non hanno potuto ignorarne il valore artistico, al di là delle<br />

contingenti tendenze di giudizio che di volta in volta hanno esaltato o sminuito scelte<br />

stilistiche o contenutistiche del Certaldese. La traduzione personalissima da parte del<br />

Petrarca della novella di Griselda è in qualche modo un segnale dell’attenzione di un<br />

grande contemporaneo alla trattazione boccacciana di questa figura femminile che<br />

chiude la galleria di protagoniste del Centonovelle: d’altronde, proprio Petrarca<br />

aveva espresso grande interesse per la varietà di registri di cui il grande amico è<br />

capace nella sua opera, ammirando sinceramente i momenti di pietà e gravità espressi<br />

nelle figure che maggiori affinità dimostravano con gli ideali eroici e moralistici<br />

rappresentati nelle sue opere (v. Branca 1986:355). Grande simpatia avranno per la<br />

varietà tematica del Decameron Lorenzo de’ Medici e Poliziano, fino alla<br />

consacrazione del Decameron quale sommo modello di prosa nelle Prose della<br />

volgar lingua di Bembo: la fortuna della novella boccacciana, della sua<br />

sceneggiatura e della caratterizzazione dei personaggi, appare fondamentale per la<br />

rinascita del teatro cinquecentesco (v. l’analisi di Borsellino 1989:11-66), in cui<br />

174


l’introspezione psicologica, la caratterizzazione intellettuale di alcune figure<br />

femminili (dalla Lucrezia della Mandragola alle più infide creature del teatro di<br />

Giordano Bruno) richiamano da vicinissimo le protagoniste più significative del<br />

Decameron.<br />

Il lavoro di ricostruzione filologica che sovente coinvolge gli studiosi più di quanto<br />

non sia necessario nella ricerca archivistica delle fonti delle novelle boccacciane,<br />

viene compensato dal grande interesse che, dopo secoli di mutilazioni, riscritture e<br />

fraintendimenti, la critica più risolutamente letteraria dedica a quest’opera: è con De<br />

Sanctis che per la prima volta si pone la questione di una visione unitaria della<br />

silloge, senza però riconoscere nell’ambizione letteraria del Decameron la volontà di<br />

rappresentare mondi diversi da quello che il grande critico napoletano<br />

semplicisticamente individua nel superamento della trascendenza medievale e<br />

nell’approdo ad una conformità a tempi e costumi di un mondo profano, tramite<br />

un’operazione di legittimazione artistica della materia informe e rozza alla base delle<br />

novelle (v. De Sanctis 1964:285-327). A lungo dimorante nel novero delle opere<br />

dominate dal senso e dalla carne, il Decameron verrà rivalutato nella sua statura<br />

poetica dalle analisi del Parodi e da alcune pagine illuminanti di Benedetto Croce,<br />

che aiuterà a far luce sulla moralità, fino ad allora generalmente negata, dell’autore:<br />

introducendo il suo giudizio sul Decameron, il Croce fa riferimento a tutte quelle<br />

opere che avevano epocalmente riaperto il dibattito su Boccaccio, alle opinioni di<br />

studiosi del calibro di Bosco o Sapegno, che avrebbero aperto la strada ai grandi<br />

studi degli anni successivi ad opera di Luigi Russo, Petronio, Branca, Schiaffini e via<br />

dicendo. Pochi gli studiosi interessati a cogliere da vicino l’importanza delle figure<br />

femminili come “motore” delle narrazioni: è importante segnalare come proprio<br />

Luigi Russo, estrapolando dal suo commento decameroniano una serie di figure<br />

paradigmatiche (che costituirono poi i capitoli delle Letture critiche del Decameron),<br />

avesse dedicato un terzo delle Letture a personaggi femminili, partendo<br />

tematicamente dal Proemio alle donne e terminando, naturalmente, con Griselda. Più<br />

di recente le analisi di Forni, Vittorio Russo, Petrini, Almansi e Battaglia Ricci hanno<br />

riportato l’attenzione sulla funzione particolare che la caratterizzazione dei<br />

175


personaggi femminili riveste nel tessuto del Decameron: pure, ci sembrava che<br />

ancora non fosse possibile parlare di una lettura dell’opera che tenesse conto della<br />

possibilità di individuare una traccia tutta femminile di svolgimento delle azioni<br />

narrative.<br />

È naturale che non si può fare a meno dei vari schemi tipologici sinora prodotti dalla<br />

critica boccacciana, utilizzando di essi i momenti per noi particolarmente stimolanti:<br />

nel caso degli studi che prendono in esame tutta l’opera ci riferiamo, ad esempio, alle<br />

letture critiche di Luigi Russo, e poi all’analisi della struttura compositiva portata<br />

avanti da Giovanni Getto al fine di individuare le “forme di vita” come nuclei<br />

tematici del Decameron; allo studio di Mario Baratto, che fonda una classificazione<br />

delle novelle secondo tipologie narrative e narratologiche; alle intuizioni della lettura<br />

di Carlo Muscetta, che partono proprio dall’analisi di fonti e modelli da Boccaccio<br />

rivisitati, per giungere alla ricomposizione di una armonia capace di far trionfare la<br />

vita sulla morte, il bello sul brutto, in una dimensione universalizzante; ai saggi di<br />

Vittore Branca sulla tradizione letteraria e sulle innovazioni narrative dell’opera, che<br />

individuano connessioni importanti tra una tradizione letteraria e la volontà di<br />

“contemporaneizzazione” decameroniana; alla monografia di Francesco Bruni che,<br />

considerando tutta l’opera boccacciana, riconduce proprio il Decameron alla linea<br />

della scrittura «mezzana» e ci illustra la silloge secondo uno schema di “traduzione”<br />

di autori e generi letterari nella novella; all’analisi di Alberto Asor Rosa, che – come<br />

del resto faranno, tra gli altri, anche Francesco Tateo e Luigi Surdich 90 – parte dal<br />

problema della struttura della raccolta di novelle, per passare ad analizzare una serie<br />

90 Citiamo questi due autori in quanto le loro monografie su Boccaccio sono quasi<br />

contemporanee (1998 e 2001), appaiono presso lo stesso editore (Laterza) e tentano una<br />

raggruppazione “topica” delle novelle: Tateo, partendo dal presupposto che Boccaccio<br />

riconoscesse nella propria opera un superamento della letteratura a lui precedente proprio<br />

nell’elaborazione di nuovi moduli narrativi, parla di ideologia narrativa e divide le novelle<br />

intorno a categorie di ordine retorico (metafora, parodia, virtù e fortuna, beffa e controbeffa,<br />

pretesto satirico, forme del meraviglioso, spettacolo della virtù); Surdich raggruppa le unità<br />

narrative intorno a due possibili schemi, uno topo-tematico («cose catoliche», amori infelici<br />

e amori felici, motti e beffe, dalla libertà tematica alla celebrazione delle virtù) che prende in<br />

considerazione l’ordine delle novelle, l’altro più latamente retorico, in cui varietà e ordine<br />

costituiscono i principii di raggruppamento.<br />

176


di temi-contenuti (Fortuna e Natura; Eros; etica e religione; cortesia, cavalleria e<br />

comportamento; parola e gesto) di particolare importanza per lo svolgimento delle<br />

unità narrative; alla preziosa analisi di Emma Grimaldi che considera L’eccezione e<br />

la regola nel sistema Decameron ed esalta la varietà, il pluralismo ideologico di<br />

un’opera che si pone essenzialmente come sistema possibile di raggrupamento del<br />

narrabile; infine, alla summa della critica boccacciana contenuta nel saggio<br />

monografico di Lucia Battaglia Ricci, in cui ritroviamo illlustrate le diverse<br />

possibilità di schematizzazione finora accennate. 91<br />

La storia della critica del Decameron, dunque, costellata da ormai numerosissimi<br />

tentativi di classificazione, presenta diversi esempi di contaminatio delle<br />

metodologie utilizzate: per questo motivo non ci è parso “eretico” utilizzare anche<br />

noi prospettive diverse, a seconda delle novelle prese in considerazione, ovvero delle<br />

tipologie da noi individuate per descrivere il “genio narrativo” boccacciano.<br />

La prima tipologia, quella che caratterizza alcuni personaggi per mezzo della<br />

descrizione delle loro fattezze, si ricollega ad un’analisi più generale dell’impiego di<br />

stilemi formulari da parte di Boccaccio: evidenziando le diverse combinazioni<br />

utilizzate dall’autore per introdurre nell’azione narrativa le protagoniste delle<br />

novelle, abbiamo voluto mettere in evidenza quanta parte della descrizione stessa del<br />

personaggio Boccaccio attribuisca alla citazione della bellezza connessa a<br />

determinate virtù spirituali (saggezza, costumatezza, vivacità, e così via).<br />

L’esaltazione di un complesso di qualità invece che della semplice bellezza,<br />

giustifica il nostro interesse verso un’analisi delle figure femminili del Decameron,<br />

come personaggi fondamentali e non comprimari delle novelle: del resto, è<br />

importante notare come Boccaccio adotti coscientemente diversi parametri al fine di<br />

descrivere la bellezza femminile, in una gradazione che non possiamo avvicinare<br />

91 Accanto a queste opere critiche, che rappresentano solo una parte della riflessione<br />

sull’opera di Boccaccio, troviamo una serie di approcci – spesso “polifonici”, come è nel<br />

caso della monografia-manuale di Aldo Rossi, o del Testo moltiplicato curato da Mario<br />

Lavagetto – che si riferiscono soltanto ad una lettura parziale dell’opera (Todorov, V.Russo,<br />

Sanguineti White, Mazzacurati, Almansi, etc.), quando non addirittura ad una singola<br />

novella: pensiamo soltanto a Benedetto Croce (la novella di Andreuccio) o ad Erich<br />

Auerbach (la novella di Frate Alberto)!<br />

177


sempre e coerentemente con la classificazione sociale delle sue protagoniste, ma che<br />

piuttosto si collega alla funzione narrativa di queste. Un altro punto importante della<br />

nostra analisi è – a nostro avviso – la smitizzazione della eccezionale “portata<br />

sensuale” del Decameron: se è vero che la critica più recente ha comunque accettato<br />

il fatto che l’opera di Boccaccio sia da leggere secondo un’ottica del tutto differente<br />

da quella che considerava il Decameron un’opera gaudente e tutta posseduta da una<br />

festante carnalità, non possiamo dimenticare che le novelle più “scabrose” (il<br />

giovane monaco, Peronella, Donno Gianni) tali sono rimaste, e pertanto continuano<br />

ad essere escluse da gran parte delle analisi “maggiori”.<br />

Una volta apprezzata l’importanza della “funzione descrittiva primaria” – quella cioè<br />

dell’aspetto fisico delle figure femminili –, acquisiscono un ruolo fondamentale nel<br />

nostro esame quelle che abbiamo definito “tipologie comportamentali”, ovvero<br />

quelle legate direttamente alla natura stessa di una tanto complessa opera narrativa:<br />

le novelle raccontano storie in cui i personaggi agiscono e rendono testimonianza<br />

innanzitutto del loro comportamento, pertanto è proprio in questo aspetto che le<br />

protagoniste delle unità narrative meglio dimostrano le loro caratteristiche. Il<br />

momento più importante del loro apparire nei meccanismi narrativi, che da esse<br />

vengono spesso e volentieri modificati, indirizzati e determinati, è quello in cui esse<br />

sono chiamate ad agire, a mostrare il loro apporto comportamentale alla risoluzione<br />

del conflitto: per questo motivo la tripartizione secondo tre atteggiamenti<br />

fondamentali (passivo, verbalmente attivo, “attualmente” attivo) è giustificata da una<br />

graduale variazione dell’impegno comportamentale, a seconda dei personaggi o delle<br />

situazioni. L’utilizzo di questa scala di “valenze comportamentali” è per noi<br />

giustificato dall’esistenza, nei nuclei narrativi decameroniani, di questa triplice<br />

possibilità di (re)azione, di cui abbiamo tentato di spiegare motivazioni e<br />

caratteristiche tematiche. La tipologia della reazione verbale, che abbiamo accostato<br />

allo spirito di iniziativa, è sicuramente la più importante perché connessa<br />

direttamente alle premesse illustrate nella “cornice”: se quanto si svolge nel corso del<br />

Decameron ha un inizio ed una fine, è circolarmente compreso in un avvenimento<br />

storico, sarà proprio il capovolgimento delle premesse a invertire il corso negativo<br />

178


degli eventi, mediante la continua tenuta della reazione verbale per eccellenza, la<br />

narrazione.<br />

L’esame delle tipologie sociali ha sicuramente dei precedenti illustri: abbiamo per<br />

questo voluto integrare il quadro sinora emerso, nella critica boccacciana,<br />

relativamente alla rappresentazione del mondo comunale, da un lato analizzando le<br />

creature femminili di estrazione borghese secondo le differenti sottotipologie<br />

utilizzate da Boccaccio (in cui più evidente è la varietà dei giudizii morali relativi<br />

alle esponenti femminili di questo ceto) e quindi escludendo una immagine<br />

monolitica di questa categoria umana, dall’altro analizzando anche il rapporto tra<br />

donne borghesi e mariti appartenenti all’aristocrazia, come vera novità nella<br />

descrizione dei mutamenti epocali al centro della “contemporaneizzazione” del<br />

Decameron. Per quanto riguarda invece la tipologia “aristocratica” e quella<br />

“popolana”, dobbiamo sottolineare che la presenza di queste due categorie indica<br />

chiaramente le capacità boccacciane di conservare il riferimento ad una passato che<br />

non scompare ma viene assorbito dal presente, ma anche di riportare nel tessuto della<br />

sua narrativa quel mondo popolare che gli consente di rifuggire il monostilismo e di<br />

cercare un confronto continuo tra voci diverse.<br />

Essendo anche le tipologie retoriche, come quelle comportamentali, implicite alla<br />

letterarietà dell’opera, abbiamo scelto tre categorie che in qualche modo “vengono<br />

esaltate” dalla presenza di personaggi femminili: tra queste, quella che si riferisce ad<br />

una funzione oratoria vera e propria è da noi stata descritta attraverso quattro esempi<br />

di perorazione, che crediamo rappresentativi della eloquentia femminile presente nel<br />

Decameron. Le perorazioni d’amore (tre delle quali sono state da noi messe a<br />

confronto con il discorso giustificatorio di Alatiel) rappresentano – a nostro giudizio<br />

– i nuclei di maggiore interesse al fine di considerare la prospettiva da cui Boccaccio<br />

considerava la donna come personaggio letterario, specchio di una situazione sociale:<br />

gli stilemi della tradizione oratoria possono essere attribuiti alle donne soltanto<br />

quando esse abbiano raggiunto una profonda coscienza della loro importanza, e se da<br />

un lato incontriamo figure in grado di servirsene in situazioni a loro favorevoli<br />

(pensiamo alla marchesana del Monferrato), Boccaccio non evita di investirle di<br />

179


questa importante funzione anche quando il conflitto di cui sono protagoniste, le<br />

vede inevitabilmente destinate alla sconfitta (Ghismonda).<br />

Le due tipologie – retoriche in quanto provenienti da una notevole tradizione<br />

letteraria – della donna angelicata e della vedova, sono state da noi privilegiate<br />

rispetto ad altre possibili (la donna “incantatrice”, la cortigiana, etc.), in quanto la<br />

loro presenza nel Decameron è quantomai problematica.<br />

La prima tipologia è investita di particolari funzioni, che nell’opera di Boccaccio<br />

sono in un certo senso basilari: la nobilitazione dell’animo alla vista della bellezza<br />

femminile (Cimone), l’esercizio della liberalità al massimo grado (Gentile<br />

de’Carisendi), la possibilità di superare con l’atto verbale qualsiasi ostacolo (Zima),<br />

si manifestano in novelle in cui esiste un riferimento chiarissimo alla tradizione<br />

poetica stilnovistica, che Boccaccio accoglie superandone gli schemi e proponendo<br />

soluzioni narrative coerenti con le proprie convinzioni morali.<br />

La tipologia della vedova conclude il nostro tentativo di caratterizzazione tipologica<br />

di gran parte delle figure femminili dell’opera, in quanto rappresenta una possibilità<br />

di categorizzazione del personaggio femminile “estrema” proprio per le differenti<br />

possibilità che Boccaccio illustra nei casi da noi analizzati. Inoltre, se si pensa che<br />

nel Corbaccio la critica misogina si dirigerà in primo luogo appunto contro una<br />

vedova, non possiamo ignorare come nel Decameron coesistano giudizii<br />

estremamente negativi (la bella Elena) e fondamentalmente positivi (Ghismonda,<br />

monna Giovanna): da questo punto di vista, e considerando come contr’altare della<br />

critica corbacciana quanto da noi citato a proposito del profilo di Giovanna d’Angiò<br />

nel De mulieribus, ci sembra che il giudizio morale di Boccaccio sia orientato<br />

piuttosto all’equilibrio, che ad una presa di posizione netta e definitiva.<br />

Siamo coscienti di non aver potuto inserire, nella casistica da noi ideata, tutte le<br />

figure femminili presenti nelle novelle del Decameron: pure, speriamo che alcune<br />

delle nostre riflessioni possano servire da spunto per una diversa considerazione della<br />

struttura di alcune novelle, ovvero per l’analisi di alcuni personaggi e meccanismi<br />

narrativi. Da un lato è nostra convinzione che proprio quella «carnevalizzazione»<br />

180


della letteratura illustrata da Bachtin debba rendere ancora più articolata la lettura del<br />

Decameron, e spingerci vieppiù a considerare la polifonia stilistica di quest’opera<br />

come una delle qualità maggiormente capaci di assicurarle una lunga vita; dall’altro,<br />

ci sembra naturale che l’interdisciplinarità necessaria all’interpretazione di un’opera<br />

quale è il Decameron, passi necessariamente per il confronto con le acquisizioni<br />

delle discipline storiche, della retorica, della sociologia e dell’antropologia. Data la<br />

complessità del materiale di cui la silloge è composta, le nostre proposte di lettura si<br />

pongono come possibilità di integrazione di diversi metodi, rimandando però<br />

l’attuazione di una lettura “totale” dell’opera ad esperimenti di più articolata<br />

interdisciplinarità quali quello del Testo moltiplicato a cura di Mario Lavagetto, che<br />

pure prende in esame una sola novella, da varie prospettive scientifiche.<br />

Sebbene crediamo sia inopportuno tentare di offrire una nuova definizione del<br />

Decameron (dopo le tante sinora espresse dalla critica), alla luce di quanto da noi<br />

analizzato riteniamo fondamentale sottolineare l’importanza delle protagoniste delle<br />

novelle come segno di una vera novità tematica e compositiva di tutta l’opera: donne<br />

di ogni estrazione sociale, di bellezza ed intelligenza, moralità ed ambizioni diverse,<br />

si avvicendano in questo panorama inesauribile delle reazioni dell’animo umano agli<br />

eventi che di volta in volta lo mettono alla prova. Talvolta infrangendo pregiudizi,<br />

tal’altra mettendosi nel solco della tradizione, Boccaccio ci presenta la sua visione<br />

dell’universo femminile, altrettanto vario e complesso che quello maschile,<br />

superando la citazione occasionale e costituendo un vero e proprio sistema della<br />

presenza femminile nella narrazione.<br />

181


BIBLIOGRAFIA<br />

182


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G. BOCCACCIO, L’elegia di madonna Fiammetta (a cura di C. Salinari e N.<br />

Sapegno), in: La letteratura Italiana. Storia e testi. Volume 8.<br />

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(a cura di P. G. Ricci), Milano-Napoli, 1965, pp.3-16<br />

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Edizione di riferimento per le citazioni dal Decameron:<br />

G. BOCCACCIO, Decameron (a cura di V. Branca), Torino, 1996<br />

Le citazioni dalle altre opere (contraddistinte dal semplice titolo in corsivo) di<br />

Giovanni Boccaccio, si intendono, quando non è altrimenti specificato, riferite alle<br />

edizioni integrali delle opere in questione.<br />

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