Introduzione
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Premesse generali<br />
<strong>Introduzione</strong><br />
Delineare una tipologia della donna nel Decameron significa necessariamente<br />
analizzare l’intera silloge: la presenza femminile è, infatti, un elemento talmente<br />
importante nella narrazione boccacciana, da assumere, già ad una prima lettura del<br />
Proemio, il significato di vera e propria base tematica dell’opera. Dal punto di vista<br />
statistico, inoltre, pur escludendo le figure femminili che, in quanto parte della<br />
brigata, sono coinvolte attivamente nel raccontare, e che rappresentano una<br />
maggioranza schiacciante rispetto ai narratori (sette a tre), rileviamo che delle 101<br />
novelle (prendendo in considerazione anche quella „fuori serie” che introduce la<br />
quarta giornata) ben poche mancano dell’apporto di almeno un personaggio<br />
femminile: solo diciassette novelle, infatti, sono prive di questo fondamentale<br />
“fattore” (I, 1, 2, 3, 6, 7, 8; II, 1; VI, 2, 5, 6, 9; VIII, 5, 6; IX, 4, 8; X, 1, 2). Questo<br />
elementare calcolo statistico si riveste di un significato ancora più pregnante se ci<br />
rifacciamo, appunto, alle parole del Proemio, con le quali Boccaccio dichiara<br />
apertamente che le novelle sono state scritte per un pubblico di donne 1 : il<br />
1 A proposito della riflessione che Boccaccio utilizza per dare inizio al suo Proemio, da<br />
Branca messa in parallelo con Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono... per introdurre uno<br />
studio su Implicazioni espressive, temi e stilemi fra Petrarca e Boccaccio (in Branca<br />
1996:300-303), non possiamo dimenticare le critiche rivolte da Russo al tono pesante ed<br />
involuto, che pure vengono attenuate dalla intenzione di ravvisare nella prima pagina un<br />
mezzo sorriso pieno di sottintesi (Russo 1977:9-10). Il critico siciliano ricorda poi come la<br />
dichiarazione boccacciana (E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle<br />
vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? (Pr., 9)) e quanto segue si colleghino al<br />
fatto che la scrittura in volgare del Medioevo era anche praticamente sentita come rivolta alle<br />
donne, in quanto esse non conoscevano il latino, anche se siamo in realtà in presenza di una<br />
diversa concezione della letteratura: le donne sono soltanto il simbolo del mondanizzarsi<br />
della poesia: si abbandona il concetto meramente teologico e dotto della poesia, e si accede<br />
a un concetto più terrestre. Le donne sono precisamente una metonimia per indicare le Muse<br />
stesse, che evadono dal sopramondo della teologia e della filosofia e si fanno più concrete,<br />
muse di questo mondo, esperte e de li vizi umani e del valore. (ivi:11) L’analisi portata avanti<br />
dal Getto a proposito delle pagine proemiali tende piuttosto a legare tutto il tono di esse ad<br />
una linea stilnovistica, al significato mondano dell’esperienza letteraria, alla comunicazione<br />
di un significato riassuntivo di nobile sentire e di vistuoso operare, di colto costume e<br />
1
sostentamento, il conforto che il poeta deve necessariamente donare a chi soffre le<br />
afflizioni d’amore, è dovuto più alle vaghe donne che agli uomini (Pr., 9), e proprio<br />
per la capacità – che esse dimostrano – di sopportare le innumerevoli pressioni cui<br />
sono sottoposte, giorno per giorno, dall’ambiente esterno. Queste pressioni, opposte<br />
alle amorose fiamme che le donne tengono nascoste nei dilicati petti, si<br />
distribuiscono secondo una triplice scala di intensità (voleri, piaceri, comandamenti)<br />
in cui Boccaccio condensa espressivamente tre atteggiamenti della comunità civile<br />
verso le donne, comunità costituita dalle diverse autorità (padri, madri, fratelli,<br />
mariti) che esercitano il loro potere sulle donne, secondo appunto i tre momenti del<br />
volere, del piacere, del comandare. A questi tre atteggiamenti è legata la materia<br />
narrativa di gran parte delle novelle del Decameron: il “conflitto” alla base della<br />
narrazione trova origine appunto nel momento in cui la protagonista si confronta con<br />
una imposizione – esplicita o meno – proveniente da una di queste autorità, e<br />
partendo da questo confronto l’autore ci manifesta non soltanto il dissidio interno<br />
della protagonista, ma le differenti modalità di reazione che di volta in volta si<br />
verificano. Trattandosi dunque di un libro che parla di donne, e che viene inviato ad<br />
un pubblico di lettrici, dobbiamo puntualizzare che le destinatarie dell’opera del<br />
Boccaccio non sono tutte le donne in senso assolutamente lato e, diremmo,<br />
anagrafico, ma quelle possibili lettrici o ascoltatrici che condividono, in qualche<br />
maniera, caratteristiche di gentilezza, bellezza, sensibilità d’animo e di costumi, che<br />
in tal modo divengono chiavi di lettura per molti dei personaggi femminili dell’opera<br />
stessa. Non è un caso che, escluse le figure femminili non meglio tratteggiate (aventi<br />
ruoli secondari o terziarii, oppure chiuse nell’immagine di una folla, di una comunità,<br />
del vicinato, del contado, etc.), solo due donne vengono munite dal Boccaccio di una<br />
„bruttezza” esemplare, che rispecchia nello stesso tempo la loro infima condizione<br />
spirituale, più che semplicemente sociale: sono esse la Nuta (VI, 10), corteggiata da<br />
civilissima esistenza (Getto 1958:5). L’attenzione della critica al Proemio si è comunque<br />
concentrata soprattutto sulle suggestioni letterarie e metaletterarie di esso: sull’immagine<br />
ovidiana delle donne fantasticanti dell’ozio, per esempio, come sulla descrizione del genere<br />
(o piuttosto dei generi) di racconti che comporranno la silloge (v. Muscetta 1972:158, Bruni<br />
1990:39-40; 235).<br />
2
un par suo, il pittoresco Guccio Imbratta servitore di Frate Cipolla, e la Ciutazza<br />
(VIII, 4), utilizzata per denigrare un componente del clero animato da troppo focosi<br />
spiriti nei confronti di una gentildonna 2 . Altre fantesche, quelle che affollano almeno<br />
la metà delle novelle del Decameron (e non si può negare a questa componente del<br />
„quarto stato domestico” una funzione di primaria importanza proprio nello<br />
svolgimento dei meccanismi preposti alle unità narrative), sono talvolta descritte con<br />
benigna approvazione, ma comunque senza indicazioni apertamente negative<br />
riguardo al loro aspetto, che in qualche modo ha il dovere di uniformarsi a quello<br />
delle “signore”.<br />
Il motivo dell’imposizione di voleri, piaceri e comandamenti, origina dunque nel<br />
Decameron la contrapposizione di una schiera di belle e gentili donne, ad un insieme<br />
di uomini – e talvolta di donne – che alle prime sono legati (o si legano) dai legami<br />
più diversi e che, essenzialmente, per quanto ci vengano presentati sotto una luce<br />
positiva o negativa, tentano tutti di imporre la loro supremazia sull’elemento<br />
femminile che, a sua volta, cerca di „emanciparsi” per forza di atti e parole,<br />
riuscendo non poche volte a uscire vincitore da questo confronto. Proprio per questo<br />
motivo ci sembra che la presenza della donna nel Decameron, a differenza di quello<br />
che era avvenuto precedentemente nell’esperienza letteraria e di quanto accadrà<br />
sovente nella letteratura posteriore, significhi una vera svolta non soltanto per un<br />
atteggiamento generalmente positivo che l’autore manifesta, ma soprattutto per la<br />
funzione di nuovo spessore che i personaggi femminili assumono.<br />
Prima di accingerci ad analizzare più da vicino le tipologie dei personaggi femminili<br />
del Decameron, dobbiamo interrogarci su come affrontare generalmente e<br />
praticamente la questione. Nel suo saggio sulla donna nella letteratura italiana,<br />
2 Monna Beritola Caracciolo, protagonista della II, 6, rappresenta un caso particolare, in<br />
quanto la sua metamorfosi, che la assomiglia ad una capra e ce la descrive davvero salvatica<br />
e irta di ben poco femminino pelame, si configura come necessaria conseguenza della perdita<br />
dell’iniziale stato sociale, dei figlioli soprattutto, e dunque di quel romitaggio che costituisce<br />
un momento essenziale per lo sviluppo della novella nel suo meccanismo delle agnizioni<br />
ripetute ed incrociate.<br />
3
Marina Zancan si chiede se si debba occuparsi della donna come soggetto ovvero<br />
come oggetto della letteratura, lamentando la scarsa disponibilità di studi, più<br />
sull’argomento della donna-soggetto che su quello della donna come oggetto della<br />
rappresentazione letteraria (Zancan 1986:765): dopo la descrizione della<br />
problematica alle origini della nostra letteratura, che naturalmente ripercorre proprio<br />
il periodo che più di ogni altro si è occupato della donna come “argomento”,<br />
addirittura parlando di letteratura che parla attraverso figure femminili (ivi:768), un<br />
excursus a parte è dedicato a Boccaccio, dapprima quale autore della Elegia di<br />
madonna Fiammetta, in cui Fiammetta, in prima persona, narra una passione<br />
amorosa, poi come “organizzatore” della nuova funzione letteraria della figura<br />
femminile :<br />
Quando poi Boccaccio, con il Decameron, dopo un lungo periodo di<br />
esercizio letterario, sceglie di raccontar novelle con l’ambizione e la<br />
persuasione di muoversi ai livelli alti della nuova tradizione letteraria, la<br />
figura femminile, oltre ad essere figura d’amore, avrà la funzione<br />
poetica e ideologica di elaborare la piena trasformazione del concetto<br />
d’amore e di motivare e di legittimare, attraverso questo, l’adozione del<br />
nuovo genere come scrittura letteraria. (ivi:773)<br />
Ritorna dunque il riferimento alla funzione stessa della donna – delle donne –, di<br />
pubblico cui l’opera si rivolge, pubblico chiaramente esplicitato nella dedicatio ben<br />
espressa, ma anche e soprattutto nel fatto che la brigata sia composta soprattutto da<br />
donne: continuando dunque ad attribuire alla donna la funzione del narrare,<br />
Boccaccio riesce ad offrire una esperienza di lettura ben diversamente guidata nella<br />
stessa introspezione psicologica, che indaga nelle pieghe riposte dell’animo delle<br />
narratrici. Un’altra convenzione, rilevata da Vittore Branca nelle prime note della sua<br />
edizione del Decameron, è quella di incorniciare ogni riferimento al pubblico<br />
facendo riferimento alle graziosissime donne, dunque – per convenzione – ignorando<br />
gli uomini. Tale convenzione, se da un lato sembra soddisfare la velocità dell’inserto,<br />
4
dall’altro non sembra giustificata da altro, se non dal fatto di sottolineare chiaramente<br />
quale sia il pubblico al quale il narratore di turno si rivolge. Del resto, il Decameron<br />
ci presenta, nel suo esordio e nella sua iterata dedica, la commistione di due topoi: da<br />
una parte il tipo di esordio da Curtius definito con l’espressione «chi possiede la<br />
sapienza ha il dovere di comunicarla agli altri» (1993:102), già sperimentato da<br />
Orazio e Seneca, e poi utilizzato anche da numerosi autori romanzi (Chrétien e<br />
Dante, per esempio), ora diretto ad una “categoria” particolare; accanto al quale<br />
Boccaccio perfeziona quella invocatio che, partendo dal riferimento classico alla<br />
Musa, si era poi diversificato nelle letterature romanze, arrivando proprio con gli<br />
stilnovisti e con Dante ad una codificazione (si vedano i numerosi componimenti di<br />
Guinizzelli che cominciano con i vocativi Madonna, Donna, Gentil donzella,<br />
Madonna mia; di Cavalcanti (O tu, O donna mia) o di Lapo Gianni (Gentil donna,<br />
Angelica figura, Donna, Angioletta); fino alle più prossime espressioni di Cino<br />
(Come non è con voi a questa festa, donne gentili..., Or dov’è donne, quella...) e<br />
Dante (Donne ch’avete intelletto d’amore...)) che si pone alla base dell’uso<br />
decameroniano.<br />
Una volta considerato il riferimento alle donne come destinatarie dell’opera,<br />
bisognerà necessariamente domandarsi se esiste la possibilità di delineare tipologie<br />
precise, rispondenti ad una schematizzazione dei personaggi in rapporto alle “griglie”<br />
narrative del Decameron.<br />
Una rigida divisione tematica e tipologica delle novelle, che ci permetta di isolare<br />
tipologie coerenti dei personaggi femminili, appare pressoché impossibile, in quanto<br />
più volte tipologie e motivi in contatto si incrociano 3 : d'altro canto, è necessario<br />
sottolineare che, come abbiamo già indicato, Boccaccio cade facilmente vittima di un<br />
3 Vogliamo inoltre credere che, nonostante i numerosissimi tentativi di ingabbiare l’opera di<br />
Boccaccio in una serie di possibili schemi perfetti, l’opera letteraria, come ricordava<br />
provocatoriamente Almansi in una sua riflessione intitolata La bassa voglia, tenti piuttosto di<br />
ricondurre l’ordine verso il caos, che il caos negli angusti limiti dell’ordine: prova ne siano i<br />
di volta in volta diversi atteggiamenti dell’autore nei confronti di situazioni simili ricorrenti<br />
in novelle differenti, nonché le rivoluzionarie prese di posizione cui si farà riferimento nel<br />
corso della nostra analisi.<br />
5
non sappiamo quanto inconscio, ma senza dubbio „naturale” condizionamento<br />
psicologico, che lo porta costantemente a gratificare di attributi positivi, o<br />
quantomeno non negativi, le figure femminili 4 , in questo modo escludendo una<br />
divisione netta tra personaggi di valenza opposta, che pure rappresenterebbe una<br />
prima importante categorizzazione. È per questi motivi che allo studio delle diverse<br />
tipologie procederemo, dopo una definizione della „tipologia fisiologica” femminile<br />
(ovvero della rappresentazione del corpo femminile nel Centonovelle), ad una<br />
suddivisione per tre campi tematici: comportamentale, sociale e retorico.<br />
Per tipologie comportamentali intendiamo gli atteggiamenti delle protagoniste<br />
femminili di fronte agli eventi, quali si presentano nei momenti cruciali della<br />
narrazione: individueremo così gli atteggiamenti 1) della resistenza “passiva”, 2)<br />
dello spirito di iniziativa e della reazione verbale, 3) del gesto esemplare.<br />
Delle tipologie sociali fanno parte le tipologie già in gran parte individuate dalla<br />
critica, soprattutto in virtù degli “elementi di novità” del Decameron; tali<br />
classificazioni sono, a nostro giudizio, accorpabili in 1) olimpo femminile:<br />
principesse, regine, marchese e badesse; 2) donne borghesi; 3) donne del popolo.<br />
Infine, le tipologie retoriche si riferiscono sia alla dimensione retorica interna alla<br />
narrazione stessa, che alla possibilità di individuare nell’opera di Boccaccio dei<br />
richiami a tradizioni e stereotipi particolarmente significativi per il valore epocale del<br />
Decameron. Parleremo dunque di 1) dimensione retorica del discorso femminile:<br />
la perorazione d’amore; 2) continuazione di un topos stilnovistico: le donne<br />
4 Si tratta, invero, di un condizionamento che nell’opera viene di volta in volta arricchito di<br />
argomentazioni, come ad esempio quelle contenute nell’introduzione alla quarta giornata, ed<br />
a cui Vittorio Russo ha dedicato una monografia. In fondo, possiamo affermare che<br />
nonostante esistano, nel Decameron, figure femminili sicuramente riprovevoli – e soprattutto<br />
dal punto di vista morale –, l’autore non abbia esitato ad usare un occhio di cortesia nei loro<br />
confronti, cosa che non è accaduta con molti personaggi maschili.<br />
6
angelicate; 3) pregiudizio e riabilitazione negli stereotipi dell’adultera e della<br />
vedova.<br />
Precedenti letterarii<br />
Non possiamo immaginare, però, che il Certaldese sia stato il primo ad aver diretto la<br />
scrittura verso una preponderanza di personaggi femminili. Dobbiamo partire dunque<br />
dai precedenti, e ve ne sono di numerosi e di illustri 5 : se davvero Boccaccio pensava<br />
di „rivoluzionare” l’ottica di considerazione della donna come vigeva ai suoi tempi,<br />
avrà dovuto “fare i conti” con almeno due diversi atteggiamenti, da un lato quello<br />
della letteratura di matrice misogina in senso lato, dall’altro quello della letteratura<br />
cortese e stilnovistica, senza però con questo escludere che esistano contatti tra le<br />
mentalità che soggiaciono alle concezioni del mondo rappresentate da queste diverse<br />
tendenze. Le due caratterizzazioni si arricchiscono poi di numerose sfumature, a<br />
causa della possibilità di „creare” personaggi femminili che proprio in virtù della<br />
loro descrizione psicologica assumono dei caratteri latamente e dettagliatamente<br />
paradigmatici. La ricognizione riguarda dunque le differenti tipologie femminili che<br />
si impongono alla nostra attenzione sia nella storia letteraria che in quella spirituale<br />
dell’Europa medievale: naturalmente, esistono fonti – letterarie, storiche,<br />
agiografiche – privilegiate in forza dell’importanza culturale che acquistano proprio<br />
in virtù di una maggiore diffusione presso i lettori del continente, né possiamo<br />
dimenticare che tale importanza facilita persino una diffusione orale, popolare,<br />
difficilmente controllabile.<br />
Le sante<br />
Se dovessimo giudicare quale sia, per la natura dell’opera boccacciana, la tipologia<br />
(apparentemente) più distante, non esiteremmo a reperirla nelle opere di agiografia<br />
che, nell’Europa mediterranea soprattutto, privilegiano lo studio della santità di<br />
5 Per quanto riguarda, più in generale, il discorso sulle fonti dell’opera, si veda lo studio del<br />
Bruni Sulla “traduzione degli autori e dei generi letterari nel sistema della novella, che<br />
individua una serie di “contatti” tra generi letterari (exemplum, fabliau, commedia elegiaca,<br />
lirica) e novelle (Bruni 1990:289-345).<br />
7
alcune donne. Non sono pochi gli studi sulla santità del Medioevo, secondo cui essa<br />
risulta avere caratteristiche ben differenti a seconda che ci muoviamo nell’Europa<br />
mediterranea, in quella dei regni centrorientali, ovvero nelle terre più “lontane”<br />
dell’ambito britannico o scandinavo (v. soprattutto Vauchez 1999:355-374): senza<br />
ora soffermarci sulle pur interessantissime considerazioni che emergono a proposito<br />
della composizione sociale di intere “schiere” di santi, rimarcheremo come la santità<br />
femminile del Medioevo si carichi anche di un significato di “compensazione”<br />
rispetto alla considerazione a priori negativa della donna proveniente dal pregiudizio<br />
biblico 6 . L’ambito stesso entro cui le sante si muovono è diviso tra il contatto con il<br />
6 L’analisi di questa problematica coinvolge tutto il pensiero “sulla donna”, quale si riflette<br />
negli scritti di natura più varia, e non solo durante il Medio Evo: punto di partenza<br />
fondamentale per la proliferazione di una lettura – più o meno spiccatamente – misogina<br />
della storia dell’uomo è sicuramente l’interpretazione dell’episodio della tentazione che<br />
provoca il peccato originale, accolto da diversi lettori e commentatori (San Girolamo,<br />
Gregorio Magno, Rabano Mauro, Ugo di San Vittore, etc.) come un momento in cui si<br />
evidenzia la dicotomia tra Eva come carne e Adamo come spirito (v. a questo proposito la<br />
sintesi di Duby 1999:35-55). La caduta in tentazione e, di conseguenza, nel peccato, viene<br />
chiaramente addebitata alla cupiditas femminile, che condiziona persino fisiologicamente le<br />
funzioni biologiche della donna: un esempio classico della valenza negativa della natura<br />
femminile risiede nell’inquietudine che l’uomo del Medio Evo sente di fronte al sangue<br />
mestruale, testimoniata dal vero e proprio “catalogo” di malefatte compiute da tale elemento,<br />
spesso associato al veleno (v. Thomasset in Duby-Perrot 1998:56-87); la donna mestruata –<br />
allo stesso modo della donna non più in grado di generare, dunque considerata nel periodo<br />
seguente la menopausa, quando non ci sono più le mestruazioni a consentirle di liberarsi<br />
delle “cose superflue” e, quindi nocive – ha uno sguardo che appanna gli specchi, dunque<br />
emana proprio da quell’organo che dalla poesia sarà deputato a “trasmettere<br />
l’innamoramento”, il flusso mefitico che proviene dalla sua intimità. Da qui a porre la donna<br />
in stretto rapporto con il mitridatismo, il passo è breve, con tutte le conseguenze – anche<br />
metaforiche – che ciò implica, come il bacio avvelenato, il coito utilizzato come arma fatale,<br />
e così via: non dimentichiamo che tali credenze si sono conservate nel profondo della cultura<br />
popolare europea, e che ancora a metà del ventesimo secolo vivevano “indisturbate” tanto da<br />
motivare l’interesse di un grande studioso come Ernesto de Martino (Sud e magia, apparso<br />
nel 1959, dedica numerosi capitoli alla dimensione magica della fisiologia femminile). La<br />
donna, dunque, porta dentro di sé una condanna biologica che viene talvolta vissuta in<br />
maniera problematica, specialmente nel momento in cui ci si accosta alla fede nella<br />
dimensione “privilegiata” dell’aspirazione alla santità: il discrimen temporale della fioritura<br />
della spiritualità mariana (dal XII secolo in poi) è un momento significativo per la<br />
rivalutazione del ruolo delle donne nella storia della salvezza (Vauchez 1999:356-358) e per<br />
lo sviluppo di forme nuove di vita religiosa adattate ai bisogni delle donne (le beghine,<br />
8
mondo e l’isolamento da esso: sostanzialmente, mentre è piuttosto l’uomo a poter<br />
decidere di interrompere i legami con la famiglia e l’autorità paterna, la donna è<br />
comunque soggetta, almeno in prima istanza, all’ottica del matrimonio imposto come<br />
“normale cornice” della vita 7 . Non sono rare infatti le donne che raggiungono la<br />
santitudine dopo il matrimonio, nella vecchiaia o in seguito alla vedovanza, e che nel<br />
ritiro in convento o nel farsi “murare” presso una chiesa ritrovano una dimensione<br />
intima favorevole ad una diversa impostazione della loro vita spirituale. Queste<br />
donne sante riescono ad avere una incredibile forza di suggestione sulle masse che le<br />
circondano, sia per l’esempio di ricongiungimento alla divinità che riescono a dare,<br />
sia per il loro porsi a giudici della comunità, che talvolta teme addirittura le critiche<br />
da esse mosse ai comportamenti generali ed individuali 8 .<br />
Quelle che con felice espressione sono state chiamate le poetesse di Dio, ovvero le<br />
mistiche che dall’XI secolo sono sempre più presenti nella vita spirituale europea,<br />
rappresentano per la nostra analisi un momento particolarmente importante di<br />
riflessione: si tratta infatti di donne coscienti del loro compito intellettuale, che con<br />
diverse testimonianze rappresentano un aspetto illuminante per comprendere una<br />
funzione “unica” della donna nella società medievale. Molte di esse fondano<br />
monasteri o divengono priore, badesse, ma non sono rari i casi di predicatrici, come<br />
oppure la possibilità di perseguire la santità senza entrare in convento, ma in domibus<br />
propriis), che spiegano la fioritura della santità femminile laica dal Duecento in poi.<br />
7 Non bisogna dimenticare che il matrimonio è stato istituito da Dio stesso in Paradiso: è<br />
dunque il più antico degli “ordini” (et erunt duo in carne una (Genesi, 2, 24)), ed insieme<br />
condizione a che si realizzino i due imperativi divini (crescite et multiplicamini (Genesi, 1,<br />
28)) su cui si basa la continuità della vita stessa sulla terra. Il matrimonio antico e medievale,<br />
inoltre, non era soltanto un “cambiamento di stato”, ma comprendeva un lungo processo di<br />
cerimonie, di rituali, di lenta realizzazione di interdipendenze sociali, grazie al quale già in<br />
epoca romana era evidente il rapporto tra legame matrimoniale e storia della repubblica,<br />
rapporto poi riesaminato e ritenuto ancora valido da Sant’Agostino, che vede in esso<br />
l’istituzione fondamentale per costruire la pace nella comunità politica (Owen Hugues in De<br />
Giorgio-Klapisch-Zuber 1996:5-13).<br />
8 Ciò vale sia per le fondatrici di monasteri e per le badesse, che per le “recluse”, che<br />
rappresentano un tramite tra la divinità e la vita spirituale della comunità di cui – pur essendo<br />
nominalmente da essa escluse – fanno parte: in generale, le forme di vita spirituale che<br />
necessitano della pratica della clausura, sembrano autorizzare le recluse ad un rapporto di<br />
superiorità nei confronti del “mondo”.<br />
9
quello della celebre Margherita Porete: sia nelle opere che esse ci hanno direttamente<br />
lasciato, che nelle biografie compilate dai promotori delle loro canonizzazioni,<br />
vediamo apparire forte la coscienza di quanto fosse importante – oltre l’esempio<br />
verbale – che la parola scritta si ponesse a custodia della memoria di alcuni percorsi<br />
di vita che nell’epoca di massima fioritura culturale ed economica dell’Europa<br />
medievale (XI-XIV secolo) si ponevano in stridente contrasto con quelli che oggi<br />
chiameremmo il progresso e la diffusione della società dei consumi.<br />
Molte di queste personalità, infatti, muovevano, come i loro omologhi maschili,<br />
aspre critiche ad una società in corso di stabilizzazione, che vedeva nell’accumulo<br />
delle ricchezze un mezzo privilegiato per assicurarsi una solidità che le cronache<br />
testimoniavano nuova, dopo secoli bui di incertezze e timori: l’atteggiamento della<br />
più importante monaca dell’XI secolo, Ildegarda di Bingen, può essere<br />
paradigmatico di questa facoltà di criticare i “nuovi costumi”, se è vero che anche<br />
nella fondazione e organizzazione dei monasteri riteneva fondamentale che si<br />
conservasse il privilegio nobiliare (Ennen 1991:163), ma poi non risparmiava critiche<br />
ai sacerdoti che con la loro vita sempre più mondana si allontanavano dal giusto<br />
modello comportamentale, prestando così il fianco agli attacchi mossi dai movimenti<br />
ereticali (ivi:164). Se le donne che accettano di servire Iddio nel chiuso del convento<br />
costruiscono implicitamente un mondo a loro misura, un mondo generalmente<br />
femminile (ma non sono pochi i casi di donne che governano un monastero<br />
maschile), quali sono le loro opinioni sulla donna in quanto tale, in quanto messa in<br />
rapporto con l’uomo? Nel brano in cui rievoca la prima coppia della Terra, Ildegarda<br />
ricorda che, mentre l’amore dell’uomo per l’amore della donna è ardente quanto il<br />
fuoco dei vulcani che difficilmente può spegnersi e diventa poi un fuoco di legna che<br />
si spegne facilmente, al contrario l’amore della donna per l’amore dell’uomo è come<br />
un dolce calore che viene dal sole e che porta frutti; si muta in fuoco di legna molto<br />
ardente ed è per questo che, nel bambino, porta un frutto di dolcezza (Poetesse<br />
1994:52). Nel prologo al suo Specchio delle anime semplici annientate, Margherita<br />
Porete parte, per spiegare le ragioni che hanno spinto l’Anima a scrivere il libro,<br />
dall’esempio della fanciulla innamorata del re Alessandro, la quale compone<br />
10
un’immagine dell’amato per poterlo vagheggiare, onde superare la distanza che da<br />
esso lo supera (ivi:154): nella descrizione di questo amore di lontano, che pure non<br />
deve aver fatto a meno di suggestioni culturali contemporanee, la figura della<br />
fanciulla è vista nel suo afflato più puro verso l’amore, nonostante questo le causi<br />
dolore e pena. Il culmine della scrittura mistica femminile può essere rappresentato, a<br />
nostro avviso, da Santa Caterina da Siena, che vive durante la seconda metà del<br />
Trecento e rappresenta la sintesi di tutto un movimento “italiano” in cui sono<br />
comprese Chiara d’Assisi (†1253), Margherita da Cortona (†1297), Angela da<br />
Foligno (†1309): dalla storia del proprio annientamento in Dio, che si realizza con le<br />
privazioni e le autoumiliazioni, possiamo avvicinarci ad un immaginario che anche<br />
per Caterina indica il tentativo di raggiungere l’unione mistica, il matrimonio<br />
perfetto con Cristo (Pagano 2002:104), senza necessariamente implicare la<br />
cancellazione della femminilità.<br />
Le figure delle sante medievali sono comprese da un sentimento di amore e di totale<br />
dedizione, che difficilmente si potrebbe allontanare da una esperienza totalizzante, in<br />
cui è proprio la sensibilità femminile ad essere chiamata in causa, come la più adatta<br />
a piegarsi al desiderio di asservimento esclusivo al Signore, ovvero perché la donna<br />
che sceglie la via della santità, rinuncia ad un altro genere di vita attiva, riscattato<br />
dall’esempio della Vergine.<br />
Non dobbiamo poi dimenticare che alcune figure di sante, come quella di Maria<br />
Egiziaca, rinunciano pubblicamente ad una vita traviata per seguire un percorso<br />
morale e spirituale (attraverso la cura disinteressata dei bisognosi, l’eremitaggio, etc.)<br />
che le pone al di sopra della comunità maschile predestinata a governarle: proprio<br />
uno dei più importanti repertori “esemplari” precedenti il Decameron, l’opera<br />
agiografica di Domenico Cavalca, dedica un’attenzione particolare alla santità<br />
femminile di questo genere, da un lato esaltando proprio la particolare storia di Santa<br />
Maria Egiziaca – letta attraverso la testimonianza di Zozima (Cavalca 1926:203-221)<br />
–, dall’altro inserendo, nel racconto agiografico di Malco monaco, il motivo del<br />
matrimonio come imposizione spiacevole, questa volta dal punto di vista maschile<br />
(Istoria d’un monaco di Siria, che fu preso e datogli moglie per forza, ma non però<br />
11
perdette la sua verginità.). Il tentativo di suicidio del monaco siriano fatto<br />
prigioniero e poi “ammogliato” suo malgrado, viene scongiurato dalle<br />
argomentazioni della donna, intenzionata a leggere gli eventi secondo una chiave di<br />
evangelico ottimismo: Perché dunque ti vuoi uccidere per non congiugnerti, poiché<br />
io vorrei innanzi morire che consentirti, eziandio se tu volessi? Tiemmi dunque per<br />
compagna di pudicizia, e più ama l’anima mia che lo corpo. Leggiermente faremo<br />
credere a’ nostri signori che tegnamo matrimonio se ci vedranno stare insieme e<br />
portarci amore; e nientedimeno Cristo ci vedrà stare insieme e portarci amore come<br />
sirocchia e fratello. (ivi:180-181). Come ha già notato Carlo Delcorno in un suo<br />
studio, la diffusione dell’opera di Cavalca deve essere all’origine dei numerosi<br />
riferimenti decameroniani all’eremitismo (che è la dimensione centrale delle Vitae<br />
cavalchiane) sia come citazioni dirette del fenomeno, sia come spunti per alcune<br />
“situazioni” che Boccaccio utilizza in vario modo, specialmente nella novella di<br />
Alibech ed in quella di madama Beritola (Delcorno 1989:354-363): aggiungeremo<br />
che la narrazione “soggettiva” delle vicende vissute da Alatiel (II, 7) ricalca non solo<br />
motivi arturiani (come sottolinea la Delcorno Branca, parlando di strategie allusive<br />
(1991:20-22)), ma in qualche modo si affida allo schema “avventuroso” delle<br />
narrazioni agiografiche del predicatore pisano, in cui i propositi onesti dei<br />
protagonisti vengono spesso contrastati da “elementi di disturbo” contraddistinti da<br />
un uso arbitrario della violenza.<br />
Le donne dei fabliaux<br />
Dovendo considerare i precedenti della letteratura profana, ci sembra necessario<br />
partire da un genere narrativo particolare, quello dei fabliaux, da cui spesso<br />
Boccaccio prese temi e svolgimenti delle sue novelle 9 , e che sicuramente<br />
9 Nella questione delle “fonti” un ruolo peculiare è rivestito dai fabliaux, sia per l’evidente<br />
parentela di alcuni di essi con diverse novelle boccacciane, sia per le novità dei<br />
rimaneggiamenti intrapresi dal Boccaccio: parlando di questi due generi letterari in contatto,<br />
Bruni affronta il parallelo tra il genere narrativo in versi ormai esaurito all’altezza<br />
cronologica del Decameron (1990:308) e le novelle del Certaldese, puntando sulle capacità<br />
boccacciane di fornire una diversa impronta ai meccanismi di base suggeritigli dagli<br />
12
costituivano, se non un modello universale, un riferimento costante per il racconto<br />
comico.<br />
Per quanto riguarda il fablel, sappiamo che la situazione comica da esso preferita è<br />
essenzialmente quella del triangolo amoroso (in cui il terzo è quasi sempre un<br />
chierico o uno studente, talvolta un cavaliere), e che il meccanismo del tradimento,<br />
dell’adulterio, la presenza addirittura di un patto tra la donna infedele al marito e<br />
l’amante, al fine di godere soprattutto della beffa ordita ai danni del marito, offrono<br />
una duplice possibilità di giudizio nei confronti dei personaggi: da una parte si<br />
stigmatizza la gelosia o la poca prestanza fisica del marito, dall’altra è la virtù della<br />
donna ad essere messa continuamente in discussione, tanto che si potrebbe dire che<br />
gli autori del genere portino avanti la convinzione essenziale che la donna, di<br />
qualunque classe sociale sia, porti in sé il germe della corruzione, nonostante ciò<br />
venga descritto con il sorriso “accomodante” di chi deve far divertire la propria<br />
platea. Lo studio per molti versi ancora attuale di Per Nykrog sui Fabliaux dedica<br />
un’ampia riflessione alla donna come appare in questo genere narrativo (Nykrog<br />
1957:193-207): lo studioso svedese si chiede se sia possibile immaginare contrasto<br />
più stridente di quello che esiste tra le donne di cui si legge nei fabliaux e quelle<br />
dipinteci da romanzi e novelle della letteratura cortese. Alle virtù fisiche e morali<br />
superlative di queste ultime si contrappongono quelle di una protagonista-tipo dei<br />
fabliaux, definita la figure la plus bassement terrestre: envieuse, gloutonne,<br />
mensongère, querelleuse, acariâtre, rusée, libidineuse (ivi:193). Questa spietata<br />
enumerazione è un riferimento all’opera di Andrea Cappellano, citazione di quel<br />
terzo libro del trattato sull’amore che, assai poco ovidianamente, è incaricato di<br />
offrire un remedium amoris fondato sull’atteggiamento radicalizzante di rifiutare<br />
qualsiasi legame amoroso, proprio in virtù delle qualità femminili. Il trattato del<br />
Cappellano, però, è evidentemente improntato al gioco con le istituzioni dell’amore<br />
cortese, di cui vengono narrate le aberrazioni che ne fanno, spesso, una passione<br />
antecedenti, in definitiva affermando la netta originalità del narrare decameroniano rispetto<br />
ad un genere in contatto, di cui smussa i tratti estremi (per violenza o volgarità) nella ricerca<br />
di quella medietas che, secondo Bruni, caratterizza la vera novità dell’opera boccacciana (per<br />
cui parla di invenzione della letteratura mezzana).<br />
13
ludica dal carattere crudele ed artificioso: i vizi che le donne dei fabliaux esprimono<br />
sono tutti contenuti in quelli che Andrea Cappellano attribuisce alle donne<br />
nell’ultima parte della sua opera, e la presenza di donne di raffinata cultura e di ancor<br />
più raffinati comportamenti, non esclude che esse possano rivelarsi diverse<br />
nell’intimo. Nel fabliaux è innanzitutto l’immagine esteriore ad essere invertita, per<br />
fornire con l’aiuto di un realismo truce, le immagini di donne irradianti una<br />
sensualità che non sarà raro trovare in molti personaggi femminili boccacciani:<br />
sostanzialmente, le caratteristiche di immoralità mostrate dalle donne nei fabliaux<br />
vengono „temperate” dal grado di maggiore negatività degli uomini che sono loro<br />
accanto 10 .<br />
Tra letteratura didattica ed exempla<br />
Tra i modelli che ispirano la vena “realistica” del Decameron possiamo, oltre a<br />
quello dei fabliaux, nei quali la misoginia è elemento costituente ma relativamente<br />
„edulcorato” dalla ragione stessa del narrare, annoverare quella letteratura didattica<br />
di ambiente settentrionale (i Proverbia quae dicuntur de natura foeminarum – in<br />
quanto più antico – è il più rappresentativo testo misogino in volgare italiano) e<br />
l’insieme degli exempla che genericamente tendono a “criminalizzare” la donna in<br />
virtù delle sue caratteristiche di fomentatrice del peccato 11 : l’atteggiamento misogino<br />
influisce secondo uno schema di patente conseguenzialità, secondo il quale 1) ogni<br />
donna è falsa, lussuriosa e avida, per cui 2) è impossibile instaurare con lei un<br />
rapporto basato sulla fiducia reciproca, inoltre 3) bisogna sempre diffidare di lei, in<br />
10 A questo proposito, si rimanda alla bella introduzione di Rosanna Brusegan che apre<br />
l’antologia di Fabliaux pubblicata da Einaudi (in bibliografia come Fabliaux 1980), per<br />
l’icasticità della presentazione critica dell’argomento. Particolarmente significative sono le<br />
considerazioni della studiosa sulla lettura dei fabliaux come una rivalutazione del negativo<br />
sotto l’apparente condanna della beffa, messa accanto all’iperbole, alla frenesia di<br />
movimento, alla creazione di frontiere che indicano un tentativo di sintetizzare uno spazio e<br />
un’esperienza disordinata... (ivi:XV)<br />
11 Tra gli storici che si sono interessati della fedeltà dell’exemplum alla rappresentazione di<br />
alcuni motivi attuali della vita e della situazione sociale, dobbiamo ricordare Jacques Le<br />
Goff, che in numerosi suoi scritti si occupa dell’analisi di tali fonti letterarie in generale ed in<br />
particolare (in 1998:57-74, 117-121; 1999:145-162).<br />
14
quanto possiede le armi capaci di portare l’uomo alla rovina, quindi 4) conviene<br />
approfittare di lei e ricavarne il massimo piacere possibile, riservandole semmai la<br />
giusta dote di disprezzo, giusta perché prima o poi, data la sua natura, ella sarà<br />
autrice di nuovi tradimenti. La tradizione del misoginismo, al di là delle<br />
considerazioni contingenti, rappresenta una legittima posizione argomentativa nella<br />
letteratura del Medioevo: l’immaginario dell’uomo medievale ritrova nell’odio<br />
nutrito nei confronti della donna come prima causa del peccato originale, un “alibi<br />
morale” valido per ogni manifestazione della vita. Alle caratteristiche negative della<br />
donna abbiamo già accennato a proposito del giudizio radicale espresso da Andrea<br />
Cappellano nel terzo libro del suo trattato; la letteratura misogina in volgare, unita<br />
alle immagini provenienti dagli exempla, costituisce sicuramente una possibilità di<br />
lettura degli atteggiamenti di alcuni dei personaggi maschili boccacciani. 12<br />
La letteratura cortese<br />
Se finora abbiamo considerato le linee portanti della descrizione dei personaggi<br />
femminili nella letteratura agiografica e nelle espressioni letterarie di forte influenza<br />
misogina, per riconoscere gli elementi caratterizzanti della tipologia femminile non<br />
possiamo ignorare le suggestioni della letteratura cortese e cavalleresca, sia per il<br />
discorso generale sulle fonti del Decameron, sia per il fatto che comunque la<br />
tipologia della donna in esso presente vuole rappresentare un nuovo percorso di<br />
considerazione della personalità femminile.<br />
12 La suggestione che la letteratura esemplare ha esercitato su Boccaccio si esprime, secondo<br />
Bruni (1990:302-308), soprattutto nella citazione di riti, superstizioni, incantesimi e così via:<br />
sulla scia delle ormai datate ma sempre valide argomentazioni di Arturo Graf (2002:305-<br />
321), siamo anche noi convinti della modernità dell’atteggiamento del Boccaccio nei<br />
confronti dei pregiudizi diffusi nella letteratura esemplare (v. la nostra trattazione delle<br />
differenze di giudizio sull’ebraismo tra Boccaccio e Sacchetti in Sciacovelli 2000a:69-75);<br />
più diffusamente, a tale proposito, argomenta Ó Cuilleanáin nel settimo capitolo del suo<br />
saggio su Religione e clero nel Decameron (1984:209-244), che si occupa della presenza del<br />
soprannaturale nel Centonovelle.<br />
15
Maria di Francia<br />
Un esempio unico nella poesia europea resta quello dei Lais di Maria di Francia:<br />
senza giungere a considerare le possibilità di una lettura protofemminista dell’opera,<br />
come elogio incondizionato dell’amore o apologia del “sesso debole”, dobbiamo<br />
notare come dei motivi di impellenza femminile rappresentino momenti di grande<br />
importanza per lo sviluppo del tessuto narrativo. È così, per esempio, che in Yonec 13<br />
il lamento della malmaritata evoca l’apparizione del misterioso cavaliere, ma è<br />
anche pur la grant joie u ele fu/ que suvent puet veeir sun dru,/esteit tuz sis semblanz<br />
changiez (Maria 1983:190): la vicenda della donna amante del cavaliere-astore si<br />
complica vieppiù, con il tradimento posto in opera dal marito, ma sembra risolversi<br />
con la vendetta che il figlio, natole dal cavaliere misterioso, porterà a termine nei<br />
confronti del crudele marito; se non che, la donna si abbatte morta sulla tomba del<br />
suo sfortunato amante, con un movimento che troveremo, con numerose varianti,<br />
immortalato proprio nei gesti di alcune delle eroine del Decameron (la figlia di<br />
Tancredi in IV 1, la Simona in IV 7, la Salvestra in IV 8, la moglie di Guiglielmo<br />
Rossiglione in IV 9), e che rivela il diverso sentire della donna di fronte al dolore<br />
della separazione dall’amante. Stessa sensibilità, che proietta il dolore della<br />
separazione in una dimensione simbolica fortemente allusiva, è quella della<br />
protagonista femminile del Laustic, che di fronte alla morte dell’usignolo (anche qui<br />
avremo una riscrittura boccacciana di alcuni particolari nella V 4, la novella<br />
dell’usignolo appunto) ricorre ad una comunicazione non verbale per comunicare al<br />
suo amato l’impossibilità di continuare ad amarsi. L’accentuata soggettività del<br />
discorso amoroso dal punto di vista femminile è sicuramente uno dei motivi per cui<br />
la poesia narrativa di Maria di Francia rappresenta un momento del tutto diverso<br />
13 La possibilità che questo importante segmento della letteratura romanza medievale sia<br />
stato presente a Boccaccio nel momento della composizione delle sue novelle, è ancora<br />
oggetto di discussione: l’analisi di Bruni a proposito del Laustic (1990:364-367) e della<br />
Battaglia Ricci a proposito di Yonec (2000:187), fanno riflettere su evidenti parentele e<br />
parallelismi narrativi, a proposito dei quali ci sembra che molto sia ancora da scrivere, sulla<br />
scia delle considerazioni suggestive fatte dalla Delcorno Branca (1991:introduzione).<br />
16
nella rappresentazione della donna, rispetto a quello del romanzo bretone in generale,<br />
del romanzo francese o della lirica trobadorica.<br />
Le bugie di Isotta<br />
Una delle figure fondamentali per comprendere il particolare atteggiamento della<br />
letteratura nei confronti della donna, lo ritroviamo nella personalità – spesso ambigua<br />
– di Isotta. Nel Tristano, infatti, l’aspetto più inquietante è lo sdoppiamento della<br />
donna, che si manifesta anche fisicamente, quando di fronte all’impossibilità di<br />
sposare l’Isotta moglie di Marco, e di cui egli stesso è innamorato, Tristano sposa<br />
un’altra Isotta! Quest’ultima, conscia di avere una rivale e nemica nell’altra che non<br />
conosce, precipita il marito inutile nella morte: il circolo dell’amore femminile,<br />
adultero e muliebre, si chiude all’interno dello stesso nome, come se ci fosse<br />
presentata una doppia Isotta, un’Isotta dalla doppia personalità che si estende su due<br />
momenti stessi della storia e della vita di Tristano. Ma, soprattutto, la vera Isotta è<br />
quella che stupisce per la sua astuzia e capacità di contrastare le avversità del destino<br />
che di volta in volta si accanisce contro di lei. Se non possiamo dimenticare che<br />
Isotta rappresenta essenzialmente la tipologia della donna adultera – suo malgrado –<br />
cui però viene negata la possibilità di generare 14 , dunque viene privata di parte della<br />
sua integrità ed essenza femminile, dobbiamo ammettere che le sue “bugie” sono lo<br />
specchio del suo timore di fronte al controllo da parte dell’autorità coniugale e della<br />
corte di Marco (Fumagalli Beonio Brocchieri 2002:27-29): si tratta di un<br />
meccanismo che nelle novelle di Boccaccio costituirà un momento fondamentale per<br />
lo svolgimento dell’azione da parte delle donne desiderose di contrastare questo<br />
controllo, mediante un comportamento che evidenzia diversi gradi di cautela e di<br />
possibilità di difendersi.<br />
14 L’intuizione di Georges Duby (2002:118) si appoggia sul ragionamento secondo cui<br />
l’argomento doveva essenzialmente essere un tabu, e sulla credenza che comunque la donna<br />
adultera sarebbe stata colpita dalla sterilità: da questo punto di vista, il ruolo di Isotta diviene<br />
quello della perfetta compagna del gioco d’amore.<br />
17
Le tipologie femminili della lirica due e trecentesca<br />
A ridosso dell’esperienza letteraria di Boccaccio si pongono poi le tipologie<br />
femminili portate avanti dal filone della poesia trobadorica-siciliana-toscana-<br />
stilnovista: se consideriamo che tale tipologia si differenzia ad ogni passaggio,<br />
dobbiamo ammettere che esiste un argomento fondamentale, il servigio d’amore, che<br />
condiziona anche la narrazione boccacciana e che costituisce un motivo “rubello” in<br />
ognuno dei rapporti amorosi descritti. Senza necessariamente giungere fino alle<br />
novità tematiche del Corbaccio (cui accenneremo comunque nel corso della nostra<br />
trattazione), possiamo rilevare di volta in volta la capacità di alcuni personaggi di<br />
restare fedeli al messaggio trobadorico-stilnovistico o di superarlo, pur rimanendo<br />
all’interno dello “sbarramento comportamentale” del servigio d’amore: per questo, la<br />
figura della donna esce dall’alone di immobilità figurativa sperimentato in<br />
precedenza, che la vuole legata al ruolo comprimario di oggetto del desiderio,<br />
finendo per essere coinvolta direttamente nei meccanismi narrativi. Quella donna che<br />
aveva pazientemente – e non di rado cinicamente – osservato l’affannarsi del<br />
corteggiatore, diviene adesso protagonista (o antagonista) di una schermaglia<br />
amorosa di cui può essere ella stessa la promotrice, senza che ciò pregiudichi<br />
immediatamente la sua condizione di “attrice privilegiata”: nella narrazione<br />
boccacciana, così come nei Lais o nei romanzi tristaniani, più diretta è l’osservazione<br />
– da parte del poeta – dei meccanismi di reazione ed interazione sociale che al<br />
comportamento femminile corrispondono, soprattutto per quanto riguarda il rapporto<br />
della donna con l’autorità (paterna, maritale, etc.).<br />
L’interesse della storiografia<br />
Oltre a considerare le diverse “letture letterarie” della rappresentazione dei<br />
personaggi femminili nel periodo precedente la composizione del Decameron,<br />
dobbiamo ad ogni modo riflettere sull’interesse particolare che la storiografia ha<br />
dedicato, negli ultimi decenni, ad una migliore “identificazione” delle figure<br />
femminili della storia quotidiana – e non – del Medioevo: se da un lato è forte la<br />
tendenza a leggere proprio le opere letterarie come delle fonti per una comprensione<br />
18
del ruolo della donna nella vita dell’epoca, numerose sono le analisi in grado di<br />
fornirci elementi di giudizio attendibili per una lettura “attualizzante” di elementi che<br />
sfuggono al lettore del ventesimo secolo.<br />
Numerosi degli autori che maggiormente hanno scandagliato la storia delle donne, li<br />
troviamo nel volume miscellaneo curato da Klapisch-Zuber nella serie della Storia<br />
delle donne in Occidente, ma anche nella antologia di scritti che delinea una Storia<br />
del matrimonio (sempre a cura di Klapisch-Zuber): insieme ai lavori di Duby, Ennen,<br />
Power, Leclerq, Vauchez, Le Goff e molti altri, si delinea chiaramente un interesse a<br />
che la storia delle donne di questo periodo guadagni una propria “autonomia”<br />
nell’ottica più generale, non per costituire una storia alternativa a quella degli<br />
uomini, ma per meglio comprendere il quadro generale di evoluzione della società<br />
occidentale nei secoli fondamentali per il passaggio dall’evo antico a quello<br />
moderno.<br />
D’altronde, già con l’opera fondamentale di Marc Bloch La società feudale, intesa<br />
come grandiosa summa di una vasta rete gerarchica di subordinazioni e rapporti di<br />
dipendenza reciproca che aveva catalizzato l’evoluzione dell’Europa almeno fino alla<br />
“rinascita” del tredicesimo secolo, si era potuto apprezzare il ruolo dei rapporti<br />
umani nella realizzazione di un sistema politico e sociale, in cui proprio i rapporti di<br />
parentela rappresentavano i cardini non solo del mantenimento, ma dell’evoluzione<br />
stessa di determinate situazioni familiari: questo era accaduto anche in maniera<br />
macroscopica nella creazione della nuova struttura del lignaggio, passato<br />
dall’elemento unico della gens romana a quello duplice per cui già nell’antica<br />
Germania ogni individuo aveva due categorie di parenti: gli uni «della spada», gli<br />
altri «della conocchia», ed era solidale, per gradi d’altronde differenti, tanto con i<br />
secondi come coi primi. (Bloch 1982:162) Se questo poteva causare dei problemi di<br />
“competenza” e di fragilità interna alle famiglie stesse, la presenza di questa doppia<br />
appartenenza testimonia l’importanza dell’elemento femminile (soprattutto nelle<br />
questioni di dote, che spesso appaiono anche in alcune novelle del Decameron a<br />
ricordarci questi aspetti venali ma pure importanti dei rapporti sociali) in una<br />
19
strutturazione sociale che ancora nel Trecento aveva una sua attualità – quantomeno<br />
letteraria.<br />
Con i cambiamenti e le novità importati dall’affermarsi del modello comunale, che è<br />
rappresentativo del Decameron, la questione non scompare, ma si fa differente,<br />
coinvolgendo equilibrii delicati, fino alla realtà – non tipica soltanto degli ambienti<br />
mercantili italiani – delle donne imprenditrici che devono amministrare patrimonii<br />
vedovili.<br />
Senza per questo sovradimensionare il ruolo della donna in una storia scritta – ed in<br />
gran parte fatta, pertanto – dagli uomini, dobbiamo ad ogni modo ricordare questa<br />
nuova attenzione ai fenomeni sociali, economici e latamente politici, di cui si<br />
scoprono sempre più importanti componenti femminili.<br />
Anche da questo punto di vista le protagoniste del Decameron, pur nella finzione<br />
letteraria, rappresentano una testimonianza dell’attenzione di un letterato sensibile ai<br />
cambiamenti della propria epoca – ed autore di un trattato De mulieribus claris, per<br />
di più – verso una componente fondamentale della società, osservata secondo le<br />
ottiche più diverse, ma generalmente da un punto di vista benevolo, se non<br />
apologetico.<br />
Come abbiamo detto all’inizio, la donna si trova spesso in contrasto con i<br />
regolamenti e le imposizioni che vede rispecchiati negli atteggiamenti autoritarii di<br />
mariti, padri, fratelli: la letteratura rappresenta, dunque, una sorta di evasione da una<br />
realtà in cui ella è costretta a cercare continuamente di imporre le sue ragioni, che<br />
non sono automaticamente prese in considerazione in quanto legittime. Le vere e<br />
proprie “eroine” di questo conflitto – secondo la lettura che Boccaccio ce ne offre –<br />
hanno anche diverse chiavi di interpretazione, che traspaiono da gesti, parole, opere e<br />
comportamenti riflessi, come speriamo di riuscire a dimostrare nel corso della nostra<br />
trattazione.<br />
20
La raffigurazione del corpo femminile<br />
La tipologizzazione boccacciana dei personaggi femminili non può fare a meno di<br />
soffermarsi sulle qualità fisiche dei soggetti rappresentati, continuando la tradizione<br />
delle topiche classiche – e medievali – inerenti alle descrizioni delle diverse<br />
componenti della natura 15 . Tra queste topiche una delle più complesse – e ricorrenti –<br />
è quella del locus amoenus (che Boccaccio rinnova completamente attraverso una<br />
lunga serie di esempi disseminati nel corso della sua opera tutta) e, così come esiste<br />
non un solo paesaggio ideale, possiamo affermare che esista non una sola “donna<br />
ideale”: la poesia lirica aveva man mano raffinato, attraverso un’amplia<br />
codificazione, prima di Boccaccio, i tratti caratteristici della donna ideale poi<br />
confluita nella “donna angelicata”, tratti che il poeta di Certaldo utilizza<br />
abbondantemente nelle prime Rime, spesso in combinazione significativa con alcuni<br />
loci amoeni:<br />
Intorn’ad una fonte, in un pratello<br />
di verdi erbette pieno e di bei fiori,<br />
sedean tre angiolette, i loro amori<br />
forse narrando, e a ciascuna l bello<br />
viso adombrava un verde ramicello<br />
ch’i capei dor cingea, al qual di fuori<br />
e dentro insieme i dua vaghi colori<br />
avolgeva un suave venticello.<br />
(Rime, I, 1-8)<br />
15 A tal proposito si vedano le considerazioni di Curtius (1993:118-122) e di Battaglia Ricci<br />
(2000a:109-111) sulla rappresentazione di questi “modelli” in connessione con la topica del<br />
locus amoenus: in altra sede abbiamo argomentato a proposito della capacità di Boccaccio di<br />
superare la tradizione del locus amoenus a lui precedente proprio in slcune descrizioni<br />
decameroniane (Sciacovelli 2003:128-145).<br />
21
All’ombra di mill’arbori fronzuti,<br />
in abito leggiadro e gentilesco,<br />
con gli occhi vaghi e col cianciar donnesco<br />
lacci tendea, da lei prima tessuti<br />
de’ suoi biondi capei crespi e soluti<br />
al vento lieve, in prato verde e fresco,<br />
una angiolella; a’ quai giungeva vesco<br />
tenace Amor, e ami aspri e acuti.<br />
(Rime, II, 1-8)<br />
...vid’io colei, che l ciel di sé innamora,<br />
e ‘n più donne far festa: e aureo vello<br />
le cingea ‘l capo in guisa che capello<br />
del vago nodo non usciva fuora.<br />
(Rime, III, 5-8)<br />
...quando mi parve udire un canto lieto<br />
tanto che simil non fu consueto<br />
d’udir già mai nelle mortali scuole.<br />
Per ch’io:«Angela forse, o ninfa, o dea<br />
canta con seco in questo loco eletto»,<br />
meco diceva, «degli antichi amori».<br />
Quinci madonna in assai bel ricetto<br />
del bosco ombroso, in su l’erbe e in su’ fiori,<br />
vidi cantando, e con altre sedea.<br />
(Rime, IV, 6-14)<br />
Non credo il suon tanto soave fosse<br />
che gli occhi d’Argo tutti fé dormire,<br />
(...)<br />
22
quantuna voce ch’io d’unangioletta<br />
udi’, che lieta i suoi biondi capelli<br />
cantand’ornava di frond e di fiori.<br />
(Rime, V, 1-2; 9-11)<br />
Questi primi esempi (che Boccaccio, insieme alla Caccia di Diana, riconosce in una<br />
sua epistola come “debito di appartenenza” al modello petrarchesco (in Surdich<br />
2001:9)) sono riconducibili ad una serie di influssi stilnovisti e danteschi, che man<br />
mano Boccaccio integrerà con nuclei tematici originali: uno dei quali è sicuramente<br />
l’accentuazione della sensualità delle rappresentazioni, come è possibile reperire<br />
nella prima delle Rime di dubbia attribuzione:<br />
Iscinta e scalza, con le trezze avvolte,<br />
e d’uno scoglio in altro trapassando,<br />
conche marine da quelli spiccando,<br />
giva la donna mia con altre molte.<br />
E l’onde, quasi in sé tutte raccolte,<br />
con picciol moto i bianchi piè bagnando,<br />
innanzi si spingevan mormorando<br />
e ritraensi iterando le volte.<br />
E se tal volta, forse di bagnarsi<br />
temendo, i vestimenti in su tirava,<br />
sì chio vedeo più della gamba schiuso,<br />
oh, quali avria veduto allora farsi,<br />
chi rimirato avesse dov’io stava,<br />
gli occhi mia vaghi di mirar più suso.<br />
(Rime, 1)<br />
Il corpo femminile, dunque, viene rappresentato dal punto di vista del poeta-amante,<br />
che lo guarda e – quasi – lo spoglia con lo sguardo: l’attenzione passa dal biondo dei<br />
23
capelli al nitore dei piedi e delle gambe, suggerendo la completezza dell’apparizione.<br />
Ancor più particolare è la prospettiva che Boccaccio ci propone nella Fiammetta,<br />
quando la protagonista si esamina e scopre di possedere bellezze che esercitano una<br />
irresistibile attrazione nei confronti degli altri:<br />
E come la mia persona negli anni trapassanti crescea, così le mie<br />
bellezze, de’ miei mali speciale cagione, multiplicavano. Ohimè! che io,<br />
ancora che picciola fossi, udendole a molti lodare, me ne gloriava, e<br />
loro con sollecitudini e arti faceva maggiori. Ma già dalla fanciullezza<br />
venuta ad età più compiuta, meco dalla natura ammaestrata sentendo<br />
quali disii a’ giovani possono porgere le vaghe donne, conobbi che la<br />
mia bellezza, miserabile dono a chi virtuosamente di vivere disidera, più<br />
miei coetanei giovanetti e altri nobili accese di fuoco amoroso.<br />
(Fiammetta 1952:1062-3)<br />
La bellezza si identifica dunque con il desiderio sensuale, ma si propone anche – nel<br />
caso di Fiammetta – come valore oggettivo in cui la protagonista stessa si riconosce.<br />
Nel Decameron ben più complessa si presenta la caratterizzazione fisica dei<br />
personaggi femminili: se è vero che nella maggior parte delle novelle Boccaccio<br />
privilegia una tipologizzazione sommaria, che si informa ad uno schema formulare<br />
alquanto rigido, sono proprio le eccezioni, ovvero le narrazioni in cui maggiori sono i<br />
particolari descrittivi della bellezza femminile, a costituire il campo di indagine più<br />
interessante da questo punto di vista 16 .<br />
16 L’attenzione della critica si è diretta piuttosto verso la trattazione dell’erotismo come di<br />
una delle componenti insieme più apertamente presenti eppure più metaforicamente<br />
affrontate dalla trattazione boccacciana: costituendo questo una delle questioni più spinose<br />
della ricezione stessa dell’opera, ci troviamo spesso di fronte a posizioni critiche ambigue, in<br />
cui si cerca di attribuire alla “vena erotica” del Boccaccio, di volta in volta, o una esagerata<br />
licenziosità, o una fin troppo arguta e raffinata capacità di travestire l’istinto carnale e di<br />
ingentilirlo (v. l’Eros secondo Asor Rosa in 2000:68-72).<br />
24
La descrizione che rappresenta, per completezza ed intensità, un momento unico di<br />
abbandono al piacere della contemplazione erotica (e che si pone anche<br />
“topograficamente” in rilievo, in quanto inclusa nella prima novella della quinta<br />
giornata, dunque della seconda parte del Decameron) è sicuramente quella di Ifigenia<br />
dormiente, vista con gli occhi di Cimone:<br />
Per lo quale andando, s’avenne, sì come la sua fortuna il vi guidò, in un<br />
pratello d’altissimi alberi circuito, nell’un de’ canti del quale era una<br />
bellissima fontana e fredda, allato alla quale vide sopra il verde prato<br />
dormire una bellissima giovane con un vestimento addosso tanto sottile,<br />
che quasi niente delle candide carni nascondea, e era solamente dalla<br />
cintura in giù coperta d’una coltre bianchissima e sottile; (...)<br />
La quale come Cimon vide, non altramenti che se mai più forma di<br />
femina veduta non avesse, fermatosi sopra il suo bastone (...) la<br />
incominciò intentissimo a riguardare; (...) E quinci cominciò a<br />
distinguer le parti di lei, lodando i capelli, li quali d’oro estimava, la<br />
fronte, il naso e la bocca, la gola e le braccia e sommamente il petto,<br />
poco ancora rilevato: e, di lavoratore, di bellezza subitamente giudice<br />
divenuto seco sommamente disiderava di veder gli occhi, li quali ella da<br />
alto sonno gravati teneva chiusi... (V, 1, 6-9)<br />
Proprio questo passo presenta dei tratti comuni con la rima di dubbia attribuzione<br />
suaccennata: la descrizione minuta delle grazie fisiche di Ifigenia, nei colori delle<br />
quali predominano i toni che rendono inclini alla mitezza (candide carni, capelli<br />
d’oro), è strumentale al cambiamento che il sentimento amoroso provoca nel petto di<br />
Cimone, e soprattutto deve mantenersi nella topica della descrizione della donna<br />
leggiadra, che dovrà avere tutto proporzionato ad un ideale medio (di qui il<br />
particolare del petto, poco ancora rilevato, che ricorda quelle poppelline tonde e<br />
sode e dilicate, non altramenti che se d’avorio fossono state (II, 3, 32) intuite da<br />
Alessandro nell’atto di posare la mano sul petto del misterioso abate). La peculiare<br />
25
forza attrattiva di questa bellezza verginale 17 si manifesta tutta nel desiderio di<br />
Cimone di veder gli occhi della giovane donna: le luci del volto, che lungo tutto<br />
l’itinerario della lirica romanza medievale avevano conservato un primato<br />
innegabile, dominano la scena di questo “idillio pastorale”, pur in absentia. Nella<br />
sesta novella dell’ultima giornata saranno Ginevra ed Isotta, con la loro formidabile<br />
grazia, a ripetere l’incantesimo del rapimento erotico, ma con una dinamicità che si<br />
differenzia assolutamente dall’immobilità quasi contemplativa della bella Ifigenia:<br />
... entrarono due giovinette d’età forse di quindici anni l’una, bionde<br />
come fila d’oro e co’ capelli tutti inanellati e sopr’essi sciolti una<br />
leggera ghirlandetta di provinca, e nelli lor visi più tosto agnoli parevan<br />
che altra cosa, tanto gli avevan dilicati e belli; e eran vestite d’un<br />
vestimento di lino sottilissimo e bianco come neve in su le carni, il quale<br />
dalla cintura in sù era strettissimo e da indi ‘n giù largo a guisa d’un<br />
padiglione e lungo infino a’ piedi. (X, 6, 11)<br />
La rappresentazione della nudità assoluta del corpo femminile si verifica però nella<br />
settima novella dell’ottava giornata, nel momento – significativo per la narrazione –<br />
in cui lo studente, beffato dalla vedova, si prende la sua rivincita sottoponendo la<br />
bella donna ad un terribile contrappasso: mentre la bella Elena aveva tormentato il<br />
corpo dello studente con il freddo della candida neve, la vendetta consisterà nel far<br />
“cuocere” il bianco corpo di lei dal sole ferventissimo. Prima che la vendetta possa<br />
compiersi, però, il giovane viene colpito dalla bellezza della sua primitiva carnefice,<br />
che Boccaccio ci descrive giocando sul contrasto del buio con il nitore delle carni:<br />
17 Nel suo ampio studio su Boccaccio visualizzato, Vittore Branca ha illustrato quanto grande<br />
sia stata la suggestione di questa – e non solo di questa – novella su una serie di illustrazioni<br />
che passeranno agevolmente dalla funzione “endotestuale” (quella cioè di rappresentare la<br />
scena ai lettori dell’opera stessa) a quella archetipica – ed “esotestuale” – per alcuni<br />
esponenti delle arti figurative, a partire da Botticelli (Branca 1989:288-290).<br />
26
... e passandogli ella quasi allato così ignuda e egli veggendo lei con la<br />
bianchezza del suo corpo vincere le tenebre della notte e appresso<br />
riguardandole il petto e l’altre parti del corpo e vedendole belle ... (VIII,<br />
7, 66).<br />
L’apparizione notturna della vedova nuda, che vince le tenebre della notte, è l’ultimo<br />
addio – prima dello strazio – a quel corpo che ha animato prima il desiderio d’amore,<br />
poi la sete di vendetta. Naturalmente, queste descrizioni possono assumere, come ha<br />
ricordato Branca (1996:112-119), il significato di un richiamo stilistico ben<br />
particolare, quando – come in questi esempi – si riferiscono al mondo del ben vivere,<br />
degli alti ideali del dover essere, piuttosto che in un’ottica generale: gli echi letterari<br />
della nobilitazione dell’animo umano in ragione della funzione catalizzatrice della<br />
bellezza e dell’amore sono evidentissimi, eppure utilizzati con una spregiudicatezza<br />
nuova, che non ci sembra di poter cogliere nelle espressioni degli stilnovisti. Gli<br />
esempi citati ci rafforzano chiaramente nell’opinione che la sensualità delle<br />
descrizioni provenga non tanto dalla bellezza in sé, quanto dalla possibilità che la<br />
grazia delle membra femminili venga “incorniciata” da un contesto capace di<br />
produrre, per contrasto o per trasparenza, un effetto ottico particolare: la coltre<br />
bianchissima e sottile che ricopre le pudenda di Ifigenia, il vestimento di lino<br />
sottilissimo e bianco che avvolge le due fanciulle, ed infine la luminosità del corpo<br />
della vedova di contro all’oscurità circostante, significano la “evidenza” sensuale del<br />
corpo femminile oltre la pura e semplice dichiarazione di bellezza.<br />
Per quanto riguarda invece la caratterizzazione generica della bellezza femminile,<br />
abbiamo già accennato al fatto che essa, nel Centonovelle, assume – proprio a causa<br />
della frequenza con cui lo scrittore la adopera – una struttura formulare, che notiamo<br />
già nella definizione “collettiva” della bellezza fisica delle sette giovani donne che<br />
compongono la brigata: anche in virtù della loro età, che chiaramente indica la<br />
fioritura delle doti fisiche femminili, le sette future narratrici sono ciascuna (...) bella<br />
di forma e ornata di costumi (I, Intr., 49). La bellezza delle forme è naturalmente<br />
27
associata al portamento: la caratterizzazione, che esclude una descrizione dettagliata<br />
di particolari esteriori, sembra voler significare un anonimo modello di bellezza<br />
femminile, a cui i lettori sono in qualche modo “abituati”, e che ritroveranno nelle<br />
successive descrizioni. Infatti, a partire dalla marchesa del Monferrato, fino a<br />
Griselda, la maggior parte delle protagoniste del Decameron coniuga<br />
necessariamente la bellezza fisica all’onestà ovvero alla piacevolezza, quali si<br />
manifestano evidentemente nel portamento (non possiamo non associare questa<br />
corollarietà ai versi danteschi di Tanto gentile e tanto onesta pare...), nonostante le<br />
virtù siano talvolta assenti, semplicemente “evocate” dalla bellezza esteriore.<br />
Le bellissime<br />
L’uso del superlativo è d’obbligo, dalla descrizione in absentia della marchesa del<br />
Monferrato (...quanto tra’ cavalieri era d’ogni virtù il marchese famoso, tanto la<br />
donna tra tutte l’altre donne del mondo era bellissima e valorosa... (I, 5, 6)) alla<br />
“visione” di maestro Alberto da Bologna (...avendo veduta a una festa una bellissima<br />
donna chiamata (...) madonna Malgherida dei Ghisolieri... (I, 10, 10)); si ripete per<br />
la castellana che soccorre Rinaldo d’Asti (Egli era in questo castello una donna<br />
vedova, del corpo bellissima quanto alcuna altra... (II, 2, 19)) e nel momento della<br />
“rivelazione” del giovane abate, compagno di viaggio di Alessandro (Alessandro,<br />
quantunque non la conoscesse (...), lei stimò dovere essere nobile e ricca, e<br />
bellissima la vedea... (II, 3, 34)).<br />
Il giudizio morale di Boccaccio sui costumi della giovane truffatrice di Andreuccio<br />
da Perugia (...disposta per picciol pregio a compiacere a qualunque uomo... (II, 5,<br />
4)), non implica una svalutazione delle virtù fisiche della donna (... una giovane<br />
ciciliana bellissima... (II, 5, 4)), mentre per Teodolinda la bellezza è contrapposta<br />
alla “sfortuna in amore” (... Teudelinga, (...) la quale fu bellissima donna, savia e<br />
onesta molto... (III, 2, 4)). Le mogli bellissime ornano tre novelle della terza<br />
giornata, quella cosiddetta del Zima (... e avea lungo tempo amata e vagheggiata<br />
infelicemente la donna di messer Francesco, la quale era bellissima e onesta molto.<br />
(III, 5, 5)), la novella napoletana degli intrighi amorosi di Ricciardo Minutolo (Il<br />
28
quale, nonostante che una bellissima giovane e vaga per moglie avesse, s’innamorò<br />
d’una la quale, secondo l’oppinion di tutti, di gran lunga passava di bellezze tutte<br />
l’altre donne napoletane ... (III, 6, 4)) ed infine la narrazione dell’inganno ordito ai<br />
danni dello sciocco Ferondo (... e in questa dimestichezza s’accorse l’abate Ferondo<br />
avere una bellissima donna per moglie... (III, 8, 5)). La prima e la penultima novella<br />
della quarta giornata sono parimenti illuminate da donne bellissime, Ghismonda (Era<br />
costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai... (IV, 1,<br />
5)) e la moglie di Guiglielmo di Rossiglione (... avendo messer Guiglielmo<br />
Rossiglione una bellissima e vaga donna per moglie... (IV, 9, 6)); a cui fanno<br />
riscontro, nella giornata successiva, l’amata di Martuccio Gomito (...non è ancor<br />
gran tempo fu una bellissima giovane chiamata Gostanza... (V, 2, 4)), quella di<br />
Pietro Boccamazza (... il quale s’innamorò d’una bellissima e vaga giovane<br />
chiamata Agnolella... (V, 3, 4)) ed infine la giovane contesa da Giannole e Minghino<br />
(La quale crescendo divenne bellissima giovane quanto alcuna altra che allora fosse<br />
nella città... (V, 5, 7)). La settima giornata si apre con le fattezze della moglie di<br />
Gianni Lotteringhi (Ora aveva costui una bellissima donna e vaga per moglie... (VII,<br />
1, 6)) e continua con le mogli di due gelosi (A costui fu data per moglie una<br />
bellissima donna... (VII, 4, 5) e Fu dunque in Arimino un mercatante ricco e di<br />
possessioni e di denari assai, il quale avendo una bellissima donna per moglie di lei<br />
divenne oltre misura geloso... (VII, 5, 7)); per concludersi con un omaggio alle<br />
donne senesi (Il quale Tingoccio insieme con Meuccio visitando alcuna volta questa<br />
sua comare, la quale era una bellissima e vaga donna... (VII, 10, 11)). Seguono<br />
l’adescatrice di Salabaetto (A Salabaetto pareva essere in Paradiso, e mille volte<br />
aveva riguardato costei, la quale era per certo bellissima... (VIII, 10, 19)), Madonna<br />
Francesca (Dico adunque che nella città di Pistoia fu già una bellissima donna<br />
vedova... (IX, 1, 5)) e la Lisa, innamorata di re Piero (... era in Palermo un nostro<br />
fiorentino speziale, chiamato bernardo Puccini, ricchissimo uomo, il quale d’una sua<br />
donna, senza più, aveva una figliuola bellissima e già da marito. (X, 7, 4)).<br />
Quest’uso del superlativo, che in qualche modo riecheggia l’invocazione dell’incipit<br />
(graziosissime donne), ha il compito di proiettare il corpo delle protagoniste in una<br />
29
dimensione estetica unica, quella in conseguenza della quale i protagonisti maschili<br />
non potranno – o solo difficilmente riusciranno a – resistere alla tentazione di<br />
avvicinare i volti meravigliosi ed i corpi armoniosi di questo esercito di donne.<br />
Altri esempi, simili a quelli sinora citati, sono quelli in cui la bellezza diviene<br />
leggendaria, in quanto priva di paragone, in senso spaziale (assoluto o locale) o<br />
temporale: è il caso di Alatiel (Aveva costui (...) una figliuola chiamata Alatiel, la<br />
qual, per quello che ciascun che la vedeva dicesse, era la più bella femina che si<br />
vedesse in que tempi nel mondo... (II, 7, 9)), della moglie di Ricciardo di Chinzica<br />
(... messer Lotto Gualandi per moglie gli diede una sua figliuola (...), una delle più<br />
belle e delle più vaghe giovani di Pisa... (II, 10, 6)), della sventurata figlia del re di<br />
Tunisi (D’altra parte era, sì come altrove, in Cicilia pervenuta la grandissima fama<br />
della bellezza parimente e del valor di lei... (IV, 4, 7)), della figlia di Lizio da<br />
Valbona (La quale oltre a ogni altra della contrada crescendo divenne bella e<br />
piacevole... (V, 4, 5), dell’affascinante monna Giovanna, lungamente vagheggiata da<br />
Federigo degli Alberighi (... una gentil donna chiamata monna Giovanna (...), ne<br />
suoi tempi tenuta delle più belle donne e delle più leggiadre che in Firenze<br />
fossero... (V, 9, 6)), di madonna Beatrice (... e udendogli fra sé ragionare delle belle<br />
donne di Francia e d’Inghilterra e d’altre parti del mondo, cominciò l’un di loro a<br />
dir che per certo di quanto mondo egli aveva cerco e di quante donne vedute aveva<br />
mai, una simigliante alla moglie d’Egano de’ Galluzzi di Bologna, madonna<br />
Beatrice chiamata, veduta non avea di bellezza... (VII, 7, 6)), della moglie di Talano<br />
d’Imola (Costui, avendo una giovane, chiamata Margherita, bella tra tutte laltre<br />
per moglie presa... (IX, 7, 4)), mentre una bellezza particolare risplende nella<br />
monotonia dei volti velati di un convento in IX, 2 (... v’era una giovane di sangue<br />
nobile e di maravigliosa bellezza dotata... (IX, 2, 5)). Nella novella di Tito e<br />
Gisippo, infine, ritorna il motivo della bellezza singolare unita ad eccezionali natali<br />
(... e trovarongli una giovane di maravigliosa bellezza e di nobilissimi parenti<br />
discesa... (X, 8, 10)).<br />
30
Parallelamente a questi superlativi – assoluti ed indiscutibili – troviamo delle forme<br />
di gradazione più caute, per donne introdotte nella narrazione in quanto rivestite di<br />
un ruolo filiale o sororiale, come la figlia di Gurrado Malaspina (... la quale, essendo<br />
assai bella e piacevole e giovane... (II, 6, 35)), Alibech (... un ricchissimo uomo, il<br />
quale tra alcuni altri suoi figliuoli aveva una figlioletta bella e gentilesca, il cui<br />
nome fu Alibech. (III, 10, 4)), Lisabetta da Messina (... e avevano una loro sorella<br />
chiamata Elisabetta, giovane assai bella e costumata... (IV, 5, 4)), l’Andreuola (...<br />
Andreuola, giovane e bella assai... (IV, 6, 8)); ma anche per donne vagheggiate a<br />
lungo, come l’amata di Tedaldo (Fu adunque (...) in Firenze una giovane assai bella<br />
e leggiadra ... (III, 7, 6)), Restituta (...fu già tra l’altre una giovinetta bella e lieta<br />
molto... (V, 6, 4)), la “comare” di frate Rinaldo (... e amando sommamente una sua<br />
vicina, e assai bella donna e moglie d’un ricco uomo... (VII, 3, 4)), madonna Isabella<br />
(Nella nostra città, copiosa di tutti i beni, fu una giovane donna e gentile e assai<br />
bella... (VII, 6, 4)), madonna Ambruogia (Pose costui, in Melan dimorando, l’amor<br />
suo in una donna assai bella chiamata madonna Ambruogia... (VIII, 1, 6)). A questa<br />
schiera si aggiungono poi la vedova vagheggiata dal preposto di Fiesole (Ora<br />
avvenne che, usando questa donna alla chiesa maggiore ed essendo ancora assai<br />
giovane e bella e piacevole... (VIII, 4, 6), le mogli protagoniste del ménage a quattro<br />
dell’ottava novella dell’ottava giornata (... e ciascuno di loro avea per moglie una<br />
donna assai bella. (VIII, 8, 5)), la moglie dell’oste (Ora aveva costui una sua moglie<br />
assai bella femina, della quale aveva due figliuoli: e l’uno era una giovanetta bella e<br />
leggiadra... (IX, 6, 5)) ed addirittura Griselda (Erano a Gualtieri buona pezza<br />
piaciuti i costumi d’una povera giovinetta (...), e parendogli bella assai... (X, 10, 9)).<br />
Bellezze “comuni” e bellezze “singolari”<br />
Non sono poche le descrizioni in cui si ricorda una bellezza al “grado positivo”,<br />
seppure animata da diverse considerazioni che la rendono a suo modo esclusiva,<br />
come nel caso della bella moglie di Bernabò, esaminata dal perfido Ambrogiuolo (...<br />
vide che così era bella ignuda come vestita... (II, 9, 27), oppure la protagonista del<br />
corteggiamento “mediato” dall’ignaro confessore in III, 3 ( Nella nostra città (...) fu<br />
31
una gentil donna di bellezze ornata e di costumi... (III, 3, 5)); simile semplicità di<br />
raffigurazione vale per la moglie del medico che crede morto il suo amante<br />
nell’ultima novella della quarta giornata (... presa per moglie una bella e gentil<br />
giovane della sua città... (IV, 10, 4)) e per la giovane amata da Teodoro, figlia di<br />
messer Amerigo (... una sua figliuola chiamata Violante, bella e dilicata giovane...<br />
(V, 7, 6). La bellezza della “eroina” dei diritti civili delle donne pratesi è completata<br />
dalla citazione della sua indole amorosa (... avvenne che una gentil donna e bella e<br />
oltre a ogni altra innamorata... (VI, 7, 5)).<br />
Anche Peronella, nonostante la bassa estrazione sociale, si inserisce in questa<br />
“categoria” (... un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovinetta... (VII,<br />
2, 7)), in cui rientrano anche Lidia (In Argo (...) fu già uno nobile uomo il quale<br />
appellato fu Nicostrato, a cui già vicino alla vecchiezza la fortuna concedette per<br />
moglie una gran donna non meno ardita che bella... (VII, 9, 5)).<br />
Calandrino è sposato ad una donna rappresentata con il metro dell’assennatezza<br />
popolare (Era per avventura la moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella<br />
e valente donna, in capo della scala... (VIII, 3, 51)), mentre assai più complesso il<br />
giudizio sulla tentatrice di Calandrino, la Niccolosa che, nonostante la sua<br />
professione poco onorevole, vede la propria miseria morale illuminata da quattro<br />
giudizi estetici positivi, la bellezza fisica, il “ben vestire”, la grazia dei costumi e del<br />
conversare (Aveva costei bella persona e era ben vestita e secondo sua pari assai<br />
costumata e ben parlante... (IX, 5, 9)), come anche la miseria di compare Pietro è<br />
consolata dalle grazie della bella consorte (Compar Pietro d’altra parte, essendo<br />
poverissimo e avendo una piccola casetta in Tresanti appena bastevole a lui e a una<br />
sua giovane e bella moglie... (IX, 10, 8)).<br />
La nobiltà si accompagna infine ad una semplice ma penetrante bellezza nella<br />
novella di ambientazione udinese (In Frioli (...) è una terra chiamata Udine, nella<br />
quale fu già una bella e nobile donna, chiamata madonna Dianora... (X, 5, 4)).<br />
Nella gran parte di queste caratterizzazioni si notano delle espressioni formulari, in<br />
cui la coppia di aggettivi (bell(issim)a-nobile, bell(issim)a-vaga, bell(issim)a-<br />
32
giovane, bell(issim)a-costumata, e così via) costituisce un accessorio immancabile<br />
della figura femminile. L’indefinitezza che deriva dall’uso di un binomio (talvolta la<br />
caratterizzazione è affidata a tre o quattro elementi) variabile in diverse direzioni, che<br />
quindi offre una serie di modulazioni nell’associazione di aggettivi al grado positivo<br />
o superlativo, nell’uso dei termini di paragone che accentuano il carattere iperbolico<br />
delle attribuzioni; coincide con quella usata dal Boccaccio per le sette giovani<br />
dell’allegra brigata, e sembra che sia intenzione dei dieci narratori non uscire, se non<br />
per particolari eccezioni, da questo ambito.<br />
La dimensione sociale della bellezza nella sua espressione “comica”<br />
Nell’opera incontriamo però delle bellezze femminili che, per necessità narrative,<br />
vengono caratterizzate da attributi ben più “popolareschi”: ciò accade per la consorte<br />
di frate Puccio (La moglie, che madonna Isabetta aveva nome, giovane ancora di<br />
ventotto in trenta anni, fresca e bella e ritondetta che pareva una mela casolana...<br />
(III, 4, 6)), appetita da dom Felice, ma anche alla sfortunata coniuge di Pietro di<br />
Vinciolo (... la moglie la quale egli prese era una giovane compressa, di pel rosso e<br />
accesa (...), veggendosi bella e fresca e sentendosi gagliarda e poderosa ... (V, 10, 7-<br />
8)).<br />
Monna Nonna de’Pulci, che mette a tacere il vescovo di Firenze, è rappresentata nel<br />
fiore della sua “vaghezza” (... la quale essendo allora una fresca e bella giovane e<br />
parlante e di gran cuore... (VI, 3, 9)), così come anche l’antipatica nipote di Fresco<br />
(... la quale, ancora che bella persona avesse e viso, non però di quegli angelici che<br />
già molte volte vedemmo... (VI, 8, 5)); una descrizione che ha richiamato l’attenzione<br />
di lettori e critici – e che per tono richiama quella sopra accennata di madonna<br />
Isabetta (III, 4) – è, per la sua “rustichezza”, quella della contadina desiderata dal<br />
prete di Varlungo (... una sopra tutte ne gli piacque, che aveva nome monna<br />
Belcolore (...); la qual nel vero era pure una fresca e piacevole foresozza, brunazza<br />
e ben tarchiata e atta a meglio saper macinar che alcuna altra... (VIII, 2, 8).<br />
33
Da questi ritratti, sempre benevoli (anche quello della nipote di Fresco si compiace<br />
della bellezza della giovane, purtroppo incompatibile con il di lei carattere), esula il<br />
prototipo dell’antidonna, la fantesca per cui spasima il servitore di Fra Cipolla,<br />
Guccio:<br />
Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago di stare in cucina che sopra i<br />
verdi rami l’usignuolo, e massimamente se fante vi vedeva niuna,<br />
avendone in quella dell’oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal<br />
fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame e con un<br />
viso che parea de Baronci... (VI, 10, 21)<br />
E come nella Fiammetta, anche se stavolta animata da una evidente ironia, è presente<br />
nella novella di frate Alberto ed in quella di Nastagio degli Onesti, persino una forma<br />
di ”autoglorificazione”, che conduce ad atteggiamenti di superbia mal conciliantisi<br />
con la “vera” bellezza femminile:<br />
«Deh, messer lo frate, non avete voi occhi in capo? paionvi le mie<br />
bellezze fatte come quelle di queste altre?(...) ché sarei bella nel<br />
Paradiso». (IV, 2, 13)<br />
... tanto cruda e dura e salvatica gli si mostrava la giovinetta amata,<br />
forse per la sua singular bellezza o per la sua nobiltà sì altiera e<br />
disdegnosa divenuta... (V, 8, 6)<br />
L’oggetto del desiderio carnale<br />
Diverso è l’atteggiamento verso il corpo femminile visto nel momento del piacere:<br />
l’atto sessuale viene inteso sovente dal Boccaccio come un gioco (ricordiamo le<br />
schermaglie amorose in I, 4 del giovane monaco e della fanciulla da lui introdotta<br />
nella propria cella: E mentre che egli, da troppa volontà trasportato, men cautamente<br />
con le’ scherzava... (I, 4, 7)), e non sono rare le espressioni che – senza<br />
34
necessariamente eufemizzare – ci consegnano una idea ludica dell’amplesso. In due<br />
novelle notiamo però come la caratterizzazione del corpo femminile venga rapportata<br />
direttamente ad uno degli animali che meglio simboleggiano il trasporto sensuale in<br />
tutta la sua carnalità, ovvero il cavallo 18 . La prima di queste è la novella di Peronella,<br />
con il suo finale “incalzante” in cui i corpi degli amanti subiscono una vera e propria<br />
metamorfosi di sapore non propriamente ovidiano:<br />
... e in quella guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d’amor<br />
caldi le cavalle di Partia assaliscono... (VII, 2, 34);<br />
mentre nella novella di Donno Gianni ci troviamo di fronte al tentativo del vispo<br />
uomo di chiesa di compiere una apuleiana – equina e non asinina, però! –<br />
metamorfosi: Boccaccio riproduce minuziosamente il rituale inventato sul momento<br />
da Donno Gianni, mettendo in sincrono l’opera delle mani imposte al corpo di<br />
Gemmata, con l’incantesimo delle formule verbali (che dovrebbero trasformare le<br />
sembianze umane in equine):<br />
... e con le mani cominciandole a toccare il viso e la testa (...); e<br />
toccandole i capelli (...); e poi toccandole le braccia (...); poi toccandole<br />
il petto e trovandolo sodo e tondo (...); e così fece alla schiena e al<br />
ventre e alle groppe e alle cosce e alle gambe... (IX, 10, 18).<br />
Il corpo della donna, palpato ed accarezzato, non riesce però ad acquistare quella<br />
luminosità che abbiamo visto in Ifigenia e nelle fattezze della bella Elena: la stessa<br />
rappresentazione dell’atto sessuale mediante una serie di allusioni oscene<br />
18 Il nostro uso dell’avverbio direttamente non è casuale, in quanto che la possibilità di una<br />
allusione al parallelismo di donne e cavalli è insita anche nella novella del Zima, dove però<br />
lo scambio – che davvero avviene, nonostante le precauzioni di messer Francesco dei<br />
Vergellesi! – tra donna e palafreno si realizza in tutt’altre condizioni. A questo proposito è<br />
illuminante il saggio di Franco Fido su Silenzi e cavalli nell’eros del Decameron (1988:103-<br />
110).<br />
35
appartenenti al mondo agricolo (il piuolo, il solco) riporta la tensione della scena alle<br />
miserie paesane che avevano aperto la narrazione.<br />
Se considerato da questo punto di vista, uno degli aspetti che più a lungo ha<br />
pregiudicato l’opera di Boccaccio, il fatto cioè che si tratti di un fascio di descrizioni<br />
lussuriose, dove la carne ha il sopravvento sullo spirito, si presenta in tutta la sua<br />
statistica modestia: assai più attento all’allusione alle bellezze interiori, a quelle<br />
provenienti dagli atteggiamenti, dai costumi, dal “saper vivere”, Boccaccio dedica<br />
solo di tanto in tanto un accenno alle manifestazioni più “scabrose” del sesso,<br />
osservato ad occhio nudo. La bellezza femminile, al centro dei desideri, rifugge le<br />
descrizioni minute e discinte, per affermare la sua presenza come una componente<br />
stessa ed irrinunciabile dell’atmosfera del racconto.<br />
36
Tipologie comportamentali<br />
37
La resistenza “passiva”<br />
Tra le figure femminili più emblematiche, e meglio connesse alla generale tradizione<br />
europea medievale, troviamo nel Decameron alcune protagoniste che spiccano per la<br />
loro passività, per un atteggiamento – diversamente motivato di volta in volta – di<br />
mutismo e, sovente, di rassegnazione, che pur rappresentando in qualche modo una<br />
volontà di opporsi a voleri, piaceri, comandamenti imposti dalle varie autorità, non<br />
trova espressione che in un comportamento di apparente non-reazione.<br />
Le motivazioni di questi atteggiamenti e comportamenti sono differenti caso per<br />
caso, come anche diversi sono i risultati che questi comportamenti originano: una<br />
volta trovatasi in una situazione di svantaggio o di pericolo, la protagonista può<br />
scegliere la possibilità di tacere, di non reagire né con le parole né con gli atti alle<br />
pressioni cui è sottoposta, ma in questo modo sa bene di dover subire tutte le<br />
conseguenze del suo agire.<br />
Lisabetta<br />
L’apice della tragicità di questo atteggiamento si trova, a nostro parere, nella figura<br />
di Lisabetta da Messina, protagonista della quinta novella della quarta giornata:<br />
diretta discendente di Ghismonda, per la sua condizione di ragazza non maritata<br />
(Ghismonda era vedova e non più rimaritata, ma anche nel caso di Lisabetta la<br />
responsabilità del suo essere “zitella” viene addossata ai fratelli, i quali che che se ne<br />
fosse cagione, ancora maritata non aveano (IV, 5, 4)), per la sua scelta di tenere<br />
occulta la relazione con Lorenzo, per la differenza sociale che esiste tra lei e<br />
l’amante, per la maniera violenta con cui la famiglia di provenienza decide di<br />
strapparle l’amato bene, Lisabetta sceglie una strada del tutto diversa da quella di<br />
Ghismonda, per reagire alla tragedia amorosa 19 : Ghismunda ha affrontato il padre<br />
19 Se Baratto (1986:135-137) aveva parlato di novella al limite dell’elegia, di un romanzo<br />
tutto sofferto, cercando l’elegia nella logica interna di Lisabetta, e cogliendo in un verbo<br />
come si stava (IV, 5, 11) tutta la staticità, l’immobilità della giovane donna rispetto<br />
all’azione; Mazzamuto (1983:165-168) aveva rilevato il cronotopo insulare, scoprendo nella<br />
38
con un discorso che ha messo il genitore in imbarazzo, lo ha sminuito per statura<br />
morale, ne ha messo in luce i caratteri più «femminei», mentre Lisabetta sceglie di<br />
chiudersi nel silenzio, nell’inedia, nella non-reazione. Anche nel suo caso, di fronte<br />
alla violenza operata nei confronti della vittima designata, Lisabetta decide di<br />
immolarsi, sebbene il suo martirio sia più lento, addirittura in odore di<br />
sadomasochismo, se notiamo con quale efferata cerimoniosità spende ogni sua<br />
energia per lavare con il proprio pianto la testa di Lorenzo, per irrorare di lagrime il<br />
basilico, per accudire quel silenzioso sepolcro domestico con lungo e continuo studio<br />
(lo studium inteso come cura, passione) (IV, 5, 19): risultato ne sarà la perdita della<br />
bellezza, che non era avvenuta per Ghismonda (ma anche la Simona immolerà la<br />
propria bellezza nel dimostrare di quale morte sia deceduto Pasquino, piegandosi<br />
dunque alla metamorfosi inquietante indotta dagli effetti del veleno in IV, 7) e che<br />
segna un carattere specifico di questa novella (anche nella VIII, 7 la vedova Elena<br />
viene fiaccata nella bellezza, dalla vendetta dello studente), in cui la fiera bellezza<br />
femminile si vede minacciata dalla decadenza, dalla rovina, spezzato il filo della sua<br />
ragion d’essere, l’amore.<br />
Il comportamento di Lisabetta è in un certo senso esemplare, da un altro punto di<br />
vista ella sceglie di non arrecare danno alla propria famiglia, in questo caso aderendo<br />
al proposito stesso dei fratelli (acciò che né a loro né alla sirocchia alcuna infamia<br />
ne seguisse (IV, 5, 7)), e pertanto decide di non rivelare l’omicidio, di non accusare i<br />
fratelli manifestamente, di non attentare all’onore della famiglia per rivendicare il<br />
«insularità» di questa storia (...) certa intensità ora eroica ora tragica della passione<br />
amorosa, tutt’uno con una componente di pregiudizialità e fatalità che potrebbe definirsi di<br />
tipo arabo-siculo; e Getto aveva invece sottolineato l’approfondimento della figura tragica di<br />
Lisabetta nella sua volontà di agire di fronte alla visione, e nel suo atto di spiccare il capo di<br />
Lorenzo dal cadavere del giovane, che il critico ricollega chiaramente al gusto tipicamente<br />
medievale delle reliquie, ponendo in risalto il profilo silenzioso di Lisabetta rispetto alla<br />
solennità magnanima delle parole e dei gesti di Ghismonda e della moglie del Rossiglione<br />
(1958:128-129): ci sembra che questi tre pareri critici, che in qualche modo sono un<br />
campione della vasta e “multidirezionale” possibilità di lettura, concordino comunque<br />
sull’elemento del silenzio come “voce della sofferenza”, e sulla necessità di differenziare<br />
questa novella dalle altre della giornata, pur partendo da una lettura comune con le altre due<br />
di Ghismonda e della moglie di Guglielmo di Rossiglione.<br />
39
proprio diritto ad una giustizia che, probabilmente, non sente consona al proprio<br />
comportamento 20 : conscia di aver agito contro il volere dei fratelli, Lisabetta china il<br />
capo di fronte alle scelte violente ed alle intimidazioni di essi (Se tu ne domanderai<br />
più, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene (IV, 5, 10)), e si chiude in un<br />
comportamento che ha scelto già nel momento in cui ha deciso di avere una relazione<br />
segreta con un uomo di altra condizione sociale che la sua. Con tale comportamento,<br />
Lisabetta rafforza un atteggiamento di “connivenza”, per cui di fronte alla violazione<br />
di alcuni diritti “umani” (parliamo dell’omicidio di Lorenzo) si pone più importante<br />
la difesa dell’onore sororale: di contro a tale drastica soluzione, la scelta della donna<br />
è quella di affrontare volontariamente il martirio, nonostante la soluzione<br />
“ponderata” dai fratelli avesse mirato proprio ad evitare che il marchio dell’infamia<br />
ricadesse sulla donna e sulla famiglia. Paradossalmente, la tragedia viene vista – dai<br />
fratelli di Lisabetta – come una “liberazione”, addirittura come la “fine di un<br />
incubo”, se sommiamo la successiva visione ed il fatto che i giovani, dopo<br />
l’omicidio, collegano l’assenza di Lorenzo ad una pratica pressoché quotidiana –<br />
dieder voce d’averlo per loro bisogne mandato in alcun luogo, il che leggiermente<br />
creduto fu, per ciò che spesse volte eran di mandarlo da torno usati (IV, 5, 9) –: non<br />
ci risulta che alcun commentatore abbia letto in questo breve passo un commento<br />
ironico e pressoché cinico all’atto compiuto dai sangimignanesi, rilevando che<br />
quanto essi dicono risponde a verità (certo, un po’ come lo direbbero i masnadieri<br />
che Rinaldo d’Asti aveva incontrato in II, 2), cioè che effettivamente essi hanno<br />
mandato Lorenzo in alcun luogo, proprio per loro bisogne: da qui arguiamo che quel<br />
timore irragionevole di Lisabetta (temendo e non sappiendo che (IV, 5, 11)) sia<br />
originato proprio da un anormale spargere la voce (dieder voce), che per sostanza<br />
verbale è contrario alla natura chiusa e silenziosa della ragazza. La punizione,<br />
20 In questo caso, però, non ci sostiene un discorso quale quello tenuto dalle protagoniste di<br />
IV, 1 e 9, poiché le argomentazioni di Lisabetta non sono esplicite, ma irradiate “di<br />
riflesso”: quasi come, in altra disposizione di spirito, sarà per il dialogo-monologo del Zima<br />
(III, 5), in cui pure alla moglie di messer Francesco de’ Vergellesi viene intimato di non<br />
parlare, anche in questa novella è Lorenzo a parlare per Lisabetta, e sono i suoi fratelli a<br />
testimoniare il fatto che la giovane cerchi “anche verbalmente” il suo amato.<br />
40
dunque, che i mercanti offesi nell’onore comminano a Lorenzo, ricade per scelta<br />
volontaria su Lisabetta, che sceglie – spezzando il filo della propria giovinezza<br />
mediante l’atto di recidere il capo del suo amato dal corpo senza vita di questi – però<br />
di consumarsi lentamente, senza far rumore né scandalo, come era invece avvenuto<br />
per la morte – sempre suicida, ma “pubblica” – di Ghismonda, testimoniando quindi<br />
una diversa eroicità. Questa eroicità si connette, naturalmente, alla scelta di abolire la<br />
possibilità di reagire anche verbalmente all’imposizione che viene dal contesto<br />
familiare. Con la grande finezza psicologica che gli è propria, Boccaccio ci dipinge<br />
dei quadri in cui regna, sovrano, il silenzio, ovvero ci appaiono sovente scene di<br />
tacite assemblee, di sussurrati concilii: l’innamoramento tra Lisabetta e Lorenzo è<br />
innamoramento di sguardi, che non abbisogna della parola, e così i loro incontri<br />
devono esser necessariamente privi di colloquii festosi, tanto che persino<br />
l’apparizione in sogno di Lorenzo si concreta in un discorso udibile soltanto in una<br />
dimensione onirica, dunque non avvertibile “all’esterno”. Da notare, poi, che il<br />
comportamento rispettoso dell’onorabilità è silenzioso, addirittura “omertoso” (senza<br />
far motto o dir cosa alcuna (IV, 5, 6) il fratello di Lisabetta che scopre la relazione<br />
riflette sulla sua scandalosa scoperta), e che esso viene imposto alla giovane sotto<br />
minaccia, al che questa non può che rinunciare a domandare di Lorenzo (la giovane<br />
dolente e trista, temendo e non sappiendo che, senza più domandarne si stava (IV, 5,<br />
11)) ed a riferire poi ai fratelli il contenuto della visione (non avendo ardire di dire 21<br />
alcuna cosa a’ fratelli (IV, 5, 14)). In questa novella potremmo addirittura scorgere<br />
un’allusione ad un quadro comportamentale generale, che non è solo di questa<br />
giovane donna, e dei suoi fratelli, e dei vicini di casa che concorrono ad aggravarne<br />
la situazione, ma che risiede in una mentalità isolana ormai acquisita anche dai<br />
mercanti sangimignanesi: nella sua lettura (meta)bachtiniana della novella, Pietro<br />
Mazzamuto aveva fatto osservare che nel Decameron convergono due cronotopi,<br />
quello della dimora signorile e quello dei traffici mercantili, che a loro volta si<br />
21 Sembra quasi un bisticcio di parole, questo ardire di dire, eppure ha un effetto fonico<br />
sorprendente, se pensiamo che ben tre volte si ripete una traccia del verbo dire, verbo quasi<br />
bandito dalla novella.<br />
41
innestano su di un asse cronotopico, quello dell’area mediterranea, al centro della<br />
quale il cronotopo privilegiato è proprio la Sicilia, che non smentisce, anzi<br />
documenta in forme esemplari, il cronotopo mercantile e signorile, economico e<br />
politico, proprio di tutto il Decameron (Mazzamuto 1983:166); nella novella di<br />
Lisabetta il carattere di «insularità» rientra nella caratterizzazione delle novelle<br />
siciliane di Boccaccio, soprattutto nella intensità ora eroica ora tragica della<br />
passione amorosa, tutt’uno con una componente di pregiudizialità e fatalità che<br />
potrebbe definirsi di tipo arabo-siculo (ivi: 167). In questo modo, viene accentuato in<br />
Lisabetta il desiderio di spogliarsi della sua “sangimignanesità” e di acquisire un<br />
habitus che la rende ligia alle norme della sacralità e dell’autorità domestica (ivi:<br />
168).<br />
Una silenziosa giovinetta<br />
La prima novella del Decameron in cui appaia una figura femminile, è la quarta della<br />
prima giornata, la cosiddetta “novella del monaco e dell’abate”: il tema centrale della<br />
novella, quello cioè dell’accusato che si discolpa dimostrando che l’accusatore ha<br />
commesso lo stesso delitto, era (I, 4, n.1) già nella LIV del Novellino, ma di certo la<br />
novella boccacciana presenta una elaborazione assai più complessa, a partire<br />
dall’ambientazione (in un monastero, invece che nel vescovado), alle impietose<br />
descrizioni dello spiare-origliare del monaco e dell’abate, fino, e soprattutto, alla<br />
caratterizzazione della fanciulla. Nella novella detta del Piovano Porcellino, infatti,<br />
spicca per veemenza l’amante del vescovo, che ha quasi i tratti della venale<br />
Belcolore, per il suo implorare denari e chiedere che le promesse vengano rispettate<br />
(io voglio li danari in mano (62)), mentre la “contadinotta” della novella<br />
decameroniana ha sin dal principio i tratti della fanciulla ingenua e facilmente<br />
“abbindolabile”.<br />
La giovinetta appare sulla scena della narrazione ad esasperare gli appetiti tenuti vivi<br />
dal vigore immarcescibile del giovane monaco 22 : gli venne veduta, quasi preda che<br />
22 A proposito del comportamento di questo monaco e dell’eremita che accoglie Alibech (III,<br />
10), dobbiamo notare che, tutto sommato, sono proprio i digiuni e le veglie ad accrescere il<br />
42
appare al cacciatore, dopo di che si svolge la scena – rapidissima – della seduzione<br />
verbale e della introduzione della ragazza nel monastero. Se però mettiamo da parte<br />
la prospettiva del giovane monaco e le sue pulsioni erotiche, ed osserviamo i fatti da<br />
un’altra ottica, è questa la scena tipica dell’iconografia del diavolo tentatore sotto le<br />
spoglie della bella donna: tutti dormono 23 , il monastero stesso si trova in un luogo<br />
assai solitario, ed ecco che appare la giovinetta, assai bella 24 ed armata – suo<br />
malgrado – di una capacità di affascinare che Boccaccio descrive sotto l’insegna del<br />
gioco, dello scherzare quasi infantile: pure, la sua presenza è silenziosissima, quasi<br />
inavvertibile, e si conosce chiaramente come ella non sia altro che l’oggetto<br />
designato dei piaceri del monaco prima, e poi dell’abate, che cerca di instaurare con<br />
lei un rapporto di maggiore tenerezza, addirittura assumendo una posizione<br />
“contronatura” (la stessa che originerà la gravidanza di Calandrino in IX, 3).<br />
Completamente diversa rispetto alla dinamica e persino insolente Alibech (III, 10),<br />
questa giovinetta è dotata delle tre caratteristiche di passività elencate nella<br />
introduzione da Filomena (mobili, pusillanime e paurose), che ne condizionano il<br />
comportamento e, in qualche modo, ne influenzano persino il destino di donna<br />
destinata ad accondiscendere ai voleri degli uomini che incontra 25 . La vera<br />
complessità della descrizione del suo comportamento sta, a nostro parere, nel fatto<br />
che è lei a rappresentare l’elemento diabolico che entra nel luogo consacrato,<br />
nonostante viva questa particolare dimensione senza mostrare – apparentemente –<br />
alcuna volontà di corruzione, quasi lasciando che l’estraneità immorale della sua<br />
desiderio, al contrario di quanto generalmente argomentato, sia – per esempio – a proposito<br />
del rustico prete di Varlungo (VIII, 2) che a proposito, in generale, dei chierici, nel De amore<br />
del Cappellano, secondo il quale poiché difficilmente si vive senza peccati carnali e la vita<br />
dei chierici per troppo ozio ed eccesso di cibo è naturalmente soggetta alla tentazione del<br />
corpo più di tutti gli uomini al mondo (Cappellano 1992:114-115).<br />
23<br />
Ricordiamo che la stessa situazione sarà “scatenante” anche nella novella di Masetto da<br />
Lamporecchio (III, 1), di cui si parlerà più avanti.<br />
24<br />
Ma chiaramente di condizione non elevata (forse figliuola d’alcuno de’ lavoratori della<br />
contrada) e quindi più facilmente “raggiungibile” dal monaco.<br />
25<br />
Nel corso dell’analisi della seconda giornata vedremo quanto questo venga<br />
paradigmatizzato nel caso di Alatiel, e poi nella terza giornata addirittura esasperato nel falso<br />
mutismo di Masetto: si vedano a questo proposito le considerazioni di Fido 1988:103-110.<br />
43
presenza si diffonda da sola per quei luoghi ormai profanati da una donna. Di fronte<br />
alle parole del giovane monaco, la ragazza si arrende con stupefacente rapidità (...con<br />
lei entrò in parole e tanto andò d’una in altra, che egli si fu accordato con lei... (I, 4,<br />
6)), tanto da divenire di lì a poco quasi inanimata (men cautamente con lei scherzava<br />
(I, 4, 7)) e da rappresentare, per l’abate che ne coglie la presenza, qualcosa di<br />
diabolicamente trascendente: manifestamente conobbe che dentro a quella [dentro la<br />
cella] era femina (I, 4, 7). A questo punto l’attenzione del narratore si concentra sui<br />
sospetti del monaco, che dapprima riesce a spiare il comportamento del superiore,<br />
poi ad architettare una soluzione, senza del suo cruccio niente mostrare alla giovane<br />
(I, 4, 9)! La ragazza viene rinchiusa nella cella, poi “consegnata” per mezzo di una<br />
comunissima chiave all’abate, infine viene sedotta (per la seconda volta in un<br />
giorno!) dal capo della comunità monastica, che non deve far altro che consolarla per<br />
aprirle il suo disidero. In questa impressionante sequenza di eventi non abbiamo<br />
colto che pochissimi riferimenti alla effettiva esistenza di questa donna: sono questi<br />
le voci che l’abate sente venire dalla cella, nonché le lacrime della giovane colta dal<br />
vegliardo nella cella del monaco, ma nel corso della vicenda sono gli uomini a<br />
parlare, a convincere, ad architettare, ad accusare ed a discolparsi, senza che la ignota<br />
fanciulla possa uscire dal suo atteggiamento di – ormai – usuale passività ed<br />
accondiscendenza.<br />
Alatiel<br />
44
La settima novella della seconda giornata è un piccolo romanzo 26 d’avventura,<br />
interamente percorso da un topos intramontabile: quello dell’eterno femminino.<br />
L’ambientazione stessa, che si richiama evidentemente alla tradizione del romanzo<br />
greco e del racconto orientale, vuole ammantare di esotico le caratteristiche di una<br />
donna, Alatiel, la cui bellezza diviene esemplare, unica, irresistibile: potremmo dire<br />
addirittura che la donna – in quanto tale, e nell’ottica boccacciana – scompaia, per<br />
lasciare il posto ad una figurazione trascendentale (Almansi, in 1974:156, parla di<br />
personaggio mitico o, quanto meno, imparentato con un mito), che solo alla fine<br />
della narrazione acquisterà realtà, in virtù della riacquisita possibilità di espressione<br />
verbale. Già la descrizione iniziale (per quello che ciascun che la vedeva dicesse, era<br />
la più bella femina che si vedesse in que’ tempi nel mondo (II, 7, 9)) pone il lettore<br />
davanti ad un ideale irraggiungibile, più che di fronte ad una bellezza – quali ne ha<br />
già incontrate nelle novelle precedenti, per esempio, come la Marchesa del<br />
Monferrato (I, 5), bellissima; Margherida dei Ghisolieri (I, 10), bellissima vedova; la<br />
bellissima vedova che accoglie Rinaldo d’Asti (II, 2); la figlia del re d’Inghilterra (II,<br />
3), anche lei bellissima, e così via, ad libitum –, in quanto che la assolutizzazione<br />
26 Date anche le dimensioni della novella, che è la più lunga dell’intero Decameron, e le<br />
caratteristiche della giornata, che esprime la sua prevalente vocazione romanzesca,<br />
allungando a dismisura, rispetto all’originario nucleo novellistico, l’orizzonte del narrativo<br />
(Asor Rosa 2000:59), ci troviamo di fronte ad una unità di particolare importanza per la<br />
struttura della novella singola rispetto a o indipendentemente dall’opera tutta: Baratto ci<br />
ricorda che le descrizioni veloci e le ripetizioni potrebbero darci l’impressione di uno stile<br />
sciatto, ma non è così, perché lo scopo di Boccaccio è di illuminare le vicende di Alatiel<br />
della luce della normalità, intesa come normalità di vivere tante relazioni una dopo l’altra<br />
(Baratto 1986:97-101); Mazzacurati vede proprio nella vicenda di Alatiel fra «commedia» e<br />
«tragedia», quella condizione di ambivalenza che tornerà nella categoria del «romanzo»<br />
(...); questa potenzialità è già viva nella sua struttura double-face, dove si consuma il gioco<br />
delle parti, nell’incomunicabilità e nella alienazione che investe lei e i suoi successivi<br />
detentori: in un dramma borghese forse il suo ruolo sarebbe stato ridotto a quello di una<br />
sorta di enigmatica «mantide religiosa» (Mazzacurati 1996:57-58); ed Almansi, che ha<br />
dedicato ad Alatiel una delle sue Tre letture boccaccesche, ricorda che questa novella vuole<br />
imporre al lettore una concezione sacrale dell’atto d’amore, e per far questo i personaggi<br />
amanti devono non soltanto scomparire dalla scena dopo l’esperienza «terminale», decisiva:<br />
devono morire, distruggere le loro vite, scomparire «with a bang and not with a whimper»<br />
(Almansi 1974:158). Sono tre tracce di lettura che inseriscono questa novella nel sentiero di<br />
una evoluzione dell’unità-novella, sempre in dipendenza dall’unicità dell’elemento<br />
femminile in essa presente.<br />
45
(triplice) è insieme dell’attributo, nel tempo e nel luogo. Questa bellezza rara è<br />
concessa ad una donna che quasi non vediamo, durante le prime fasi del racconto, e<br />
che anzi si confonde con il proprio seguito femminile, in una sorta di involucro che<br />
deve proteggerla dagli sguardi esterni: involucro che si rompe, fatalmente, con il<br />
naufragio. È questo il primo momento in cui vediamo Alatiel agire, nonostante sia<br />
quasi mezza morta (II, 7, 14), e cadere in balia dello smarrimento: questa sensazione,<br />
che comincia con il risveglio dal naufragio, la accompagnerà per quasi tutta la<br />
novella, diventando un elemento fisso di ogni sua peripezia, insieme con la sua<br />
impossibilità di esprimersi 27 . In contrasto con la “mancanza di favella”, Alatiel parla<br />
un linguaggio del corpo ben più esplicito, nonostante proprio lei ne sia all’oscuro: se<br />
nella novella di Andreuccio l’incontro con Fiordaliso ed il passaggio per la stanza<br />
della donna si concentrano sulla visione del bellissimo letto incortinato (II, 5, 17) che<br />
dovrebbe preannunciare l’avventura galante e quindi la sostituirà in toto, in quanto<br />
visione, nel momento in cui Andreuccio si vedrà rivelata la parentela con la sirocchia<br />
sconosciuta; nel caso di Alatiel è il candore della donna ancora “inesperta” a<br />
provocare i concupiscibili appetiti del primo suo detentore, Pericone: il ritratto di<br />
Alatiel è sempre in penombra (quantunque pallida e assai male in ordine della<br />
persona (II, 7, 21)), ma Pericone coglie facilmente il tesoro nascosto sotto quelle<br />
apparenze poco attraenti (pur pareano le sue fattezze bellissime a Pericone (ibidem))<br />
e decide addirittura di prenderla per moglie! Il proposito, per quanto viene dichiarato<br />
nella narrazione, è dunque “puro” (amore onesto), nonostante il comportamento di<br />
Pericone tenda a sfruttare i punti deboli del sesso femminile, cioè la sensibilità<br />
all’alcool e l’ebbrezza che viene dalla danza, per ottenere una maggiore<br />
arrendevolezza da parte della donna (amore per diletto): non dobbiamo spingerci a<br />
cercare testimonianze antropologiche per comprendere che nella doppia ebbrezza del<br />
vino (alla donna piaceva il vino, sì come a colei che usata non era di bere per la sua<br />
27 Abbiamo in altra sede trattato il problema dell’impossibilità di esprimersi verbalmente e<br />
della connessione di esso con la perdita della verginità, mentre la riacquisizione della<br />
possibilità di esprimersi, o meglio la riacquisizione della possibilità di comunicare nella<br />
propria lingua, porterà Alatiel a riacquistare – virtualmente, si direbbe oggi – la sua verginità<br />
(v. Sciacovelli 1998)<br />
46
legge che il vietava (II, 7, 26)) e della danza (veggendo alcune femine alla guisa di<br />
Maiolica ballare essa alla maniera allessandrina ballò (II, 7, 27)) si nasconde un<br />
rituale di corteggiamento che imita quello animale, caratterizzato dall’ebbrezza che<br />
danno le secrezioni glandulari e dal fascino dei movimenti ritmici (pensiamo alla<br />
ruota del pavone), e che ciò è necessariamente un modo di ovviare alla mancanza di<br />
comunicazione verbale. L’uomo e la donna, dunque, sono riportati ad una sorta di<br />
stato primordiale (ben diverso da quello che si verifica nel caso di madama Beritola),<br />
in cui anche le difese della “pudicizia” vengono meno (con la donna solo se ne entrò<br />
nella camera: la quale, più calda di vino che d’onestà temperata, quasi come se<br />
Pericone una delle sue femine fosse, senza alcuno ritegno di vergogna in presenzia<br />
di lui spogliatasi, se n’entrò nel letto (II, 7, 29)): il comportamento di Alatiel ricalca,<br />
in qualche modo, quello della “donna impudica” che, nell’infuriare della pestilenza,<br />
non curava d’avere a’ suoi servigi uomo, qual che egli si fosse o giovane o altro, e a<br />
lui senza vergogna ogni parte del corpo aprire non altramenti che a una femina<br />
avrebbe fatto (I, intr. 29). È in questo momento che, grazie ad un atteggiamento<br />
doppiamente arrendevole, la femminilità di Alatiel si rivela in tutta la sua naturale<br />
inclinazione al piacere (senza considerare il pericolo della perdita della verginità, che<br />
ritornerà in quanto tale alla fine della novella) e, narrativamente, continua la<br />
“zoomorfizzazione” della descrizione dell’atto erotico (non avendo mai davanti<br />
saputo con che corno gli uomini cozzano (II, 7, 30)), proponendosi come elemento<br />
costante che ovvia alla privazione dell’espressione verbale. L’allusione<br />
moderatamente oscena nasconde però la vera relazione tra i due amanti, in quanto<br />
che la donna è alla mercé del suo ospite, alle attenzioni del quale non può opporre<br />
alcuna resistenza, che non sia quella di concedersi a lui passivamente. 28 Nonostante<br />
Alatiel possieda il privilegio della nobiltà e di una bellezza abbagliante, ella ci appare<br />
forse più vicina, per comportamento, alla cavalla-Gemmata tanto fantasticata – da<br />
28 Nel momento in cui Alatiel “conosce” Perdicone, come accade del resto per Alibech o<br />
addirittura per il giovane Allessandro quando viene accarezzato dalla figlia del re<br />
d’Inghilterra, si spezza un delicato equilibrio, quello dell’innocenza: la perdita della verginità<br />
rappresenta comunque la sottomissione ad un individuo che esercita una forza o addirittura<br />
una violenza, perché possa avvenire un passaggio fondamentale nell’esperienza esistenziale.<br />
47
compar Pietro da Tre Santi –in IX, 10. Nel corso delle numerose avventure che dal<br />
momento del rapimento ordito da Marato le capitano, Alatiel è un elemento in balìa<br />
di questo mare funzionale e simbolico (Almansi 1974:151), ed è dalla velocità dei<br />
flutti sospinta verso sempre nuove “avventure”, è una sorta di “pescato miracoloso”<br />
(anche lei è muta, come i pesci) che si sposta da un punto all’altro di questo<br />
Mediterraneo popolato di pescatori bramosi di una preda eccezionale, ed insieme<br />
condannati a morire dopo il primo contatto con essa. È interessante – e viene<br />
spiegato con il proverbio posto alla fine della novella – come questo continuo<br />
avvicendarsi di eventi e di relazioni amorose, non causi nessun trauma nell’animo<br />
della donna: a madama Beritola, protagonista della novella precedente, era bastato<br />
vedersi sola, abbandonata sull’isola disabitata, per perdere i sensi ed avviarsi poi ad<br />
una strana metamorfosi, mentre Alatiel, nonostante tutto, sembra avere sempre una<br />
speranza di poter, in qualche modo, sopravvivere a questa tirannide del desiderio che<br />
la incalza. L’incontro con Antioco prima, e poi con Antigono (che con i loro nomi,<br />
dichiaratamente appartenenti al mondo dell’Oriente classicheggiante e romanzesco<br />
che Boccaccio cala in questa novella, sembrano mostrarsi contrari – per il comune<br />
prefisso Anti – al comportamento generale degli uomini che incontrano Alatiel),<br />
significano per la donna la liberazione dall’autoproibizione di parlare, ed insieme il<br />
recupero della propria natura umana nella capacità di comunicare verbalmente con<br />
gli altri: liberazione e recupero che segnano la fine della contraffazione fisica legata a<br />
quella dell’identità (Alatiel si era finta muta per non destare sospetti con il proprio<br />
idioma, essendo “in campo nemico”, ma per questo non aveva potuto mai reagire –<br />
almeno a parole – agli “assedi” degli uomini che l’avevano desiderata), e l’inizio di<br />
una nuova contraffazione, di una nuova menzogna, che potrebbe far parte di quelle<br />
bugie di Isotta di cui parla la Fumagalli Beonio Brocchieri (v. Bibliografia). Il<br />
discorso, suggerito da Antigono, è infatti una chiara dimostrazione di quella<br />
inclinazione alla menzogna che ha alimentato, tra gli argomenti del misoginismo<br />
medievale, l’idea che le donne abbiano una capziosità superiore a quella del diavolo,<br />
fino a favorire una identificazione, nell’iconografia soprattutto, del diavolo con la<br />
donna (identificazione “supportata” dal problema della tentazione): le allusioni<br />
48
disseminate nel testo, però, parlano al lettore, che conosce quello che è veramente<br />
accaduto, mentre il testo in sé non è altro che una variante possibile dell’avventura<br />
raccontata dalla novella, che presenta – per motivi tutti femminili – una sostituzione<br />
del prevalente elemento maschile (nella realtà, cioè nella vicenda di Alatiel) con un<br />
elemento femminile (e di volta in volta legato a pratiche monastiche, ovvero a<br />
pratiche religiose di altro genere, come il pellegrinaggio in Terra Santa) che diventa<br />
preponderante e rassicurante.<br />
Il silenzio è d’oro<br />
Nella quinta novella della terza giornata, detta del Zima, ci troviamo di fronte ad una<br />
donna di cui non ci viene rivelato il nome e che – sulle prime – è onesta molto,<br />
sposata ad un uomo molto ricco e savio e avveduto per altro ma avarissimo senza<br />
modo (III, 5, 4). Sappiamo bene quanto sia critico l’atteggiamento di Boccaccio nei<br />
confronti dell’avarizia (la settima novella della prima giornata è una duplice<br />
stigmatizzazione di questo vizio), che viene vista come un impedimento morale alla<br />
nobilitazione dell’uomo: perciò in questa novella, che anticipa per alcuni tratti il<br />
sentimento di sacrificio presente nella novella di Federigo degli Alberighi (V, 9),<br />
sono in contrapposizione un uomo nobile, ricco e di grande peso civile, ed un uomo<br />
di umili natali, che si disputano – per così dire – la moglie del primo, onesta<br />
oltremodo, che viene corteggiata in tutti i modi dal secondo, senza concedergli nulla.<br />
Quando però il ricco cavaliere, per ottenere dal Zima un meraviglioso cavallo, chiede<br />
alla donna di concedere udienza al suo corteggiatore ma senza profferir verbo, la<br />
dedizione della dama nei confronti del marito comincia a vacillare: biasimò molto<br />
questa cosa, ma pure, convenendole seguire i piaceri del marito, disse di farlo (III, 5,<br />
9). L’atteggiamento della donna si conforma prefettamente a quel rispetto della<br />
sacralità domestica che non in un’occasione viene messo in crisi dai meccanismi<br />
narrativi del Decameron (pensiamo al caso di madonna Dianora). Ancora una volta,<br />
dopo l’episodio di Alatiel, Boccaccio utilizza l’espediente del silenzio per illustrare<br />
da un punto di vista privilegiato un meccanismo di seduzione: la donna deve star<br />
49
zitta, per questo sarà il Zima ad interpretare tutte e due le parti del dialogo 29 . Al<br />
lettore non sfugge però che mentre il Zima viene caratterizzato da una logorroicità<br />
imposta dalla situazione, la presenza della donna da lui corteggiata è meglio definita<br />
dall’apparire delle reazioni al sincero sfogo amoroso del giovane: cominciò a sentire<br />
ciò che prima mai non aveva sentito (III, 5, 17), non potè per ciò alcun sospiretto<br />
nascondere (ibidem), veggendo alcun lampeggiar d’occhi di lei (III, 5, 18). Ben più<br />
complesso di quello del Zima, dunque, è il linguaggio di minutissimi segnali che la<br />
donna deve utilizzare per far capire qualcosa che ella stessa sta appena vivendo come<br />
una novità: dal biasimo provato nei confronti del marito, si passa poi a quel<br />
ragionamento tra sé, tutto interrogative concitate che si affollano intorno al desiderio<br />
di portare a compimento il nuovo sentimento d’amore: Che fo io? Perché perdo io la<br />
mia giovanezza? Questi se ne è andato a Melano e non tornerà di questi sei mesi; e<br />
quando me gli ristorerà egli giammai?quando io sarò vecchia? E oltre a questo,<br />
quando troverò io mai un così fatto amante come è il Zima? (III, 5, 30). L’incalzare<br />
delle domande è assai simile, anche per il tono delle domande, a quanto si chiede<br />
l’abate della I, 4 di fronte alla possibilità di poter approfittare della giovane entrata di<br />
nascosto nella cella del monaco: tutti e due, la moglie di messer Francesco<br />
de’Vergellesi e l’abate, cercano una giustificazione che permetta loro di compiere<br />
quello che desiderano, scaricando in parte la coscienza dal peso del peccato e del<br />
rimorso. In questo caso, però, la donna deve mostrare al marito un’accondiscendenza<br />
passiva – e, diremo, immotivata – che si deve realizzare nella muta resistenza agli<br />
assalti del giovane corteggiatore. Il doppio compito che l’avido marito affida alla<br />
moglie è inevitabilmente destinato a danneggiare lui stesso, ma apparentemente tutto<br />
si svolge come messer Francesco ha architettato, né il Zima può lamentarsi di non<br />
aver ottenuto quanto sperava: in realtà, è la donna a doversi piegare ai voleri di<br />
ambedue gli uomini che impongono su di lei la loro differente autorità.<br />
29 Sviluppando ulteriormente l’indagine sulla connessione tra silenzio ed attività erotiche<br />
individuato già da Segre a partire dalla novella di Alatiel, Fido si sofferma proprio<br />
sull’analisi di questo dialogo e sulle connessioni nuove tra silenzio, attività erotiche e cavalli<br />
che rendono la novella del Zima ben prossima a quella di Donno Gianni (IX, 10) (Fido<br />
1988:105-106).<br />
50
Griselda<br />
Una delle figure immortali del Decameron, ed insieme delle più studiate, è quella di<br />
Griselda, protagonista dell’ultima novella della raccolta: data la posizione di questa<br />
unità narrativa, ed il fatto che la racconti Dioneo – depositario del diritto di narrare<br />
liberamente –, si tratta senza dubbio di una novella che ricopre una funzione<br />
particolare rispetto alle altre. 30<br />
Il vero protagonista della novella, se dobbiamo attribuire ai protagonisti anche il<br />
privilegio di “muovere” le azioni, è però il marchese Gualtieri: di fronte alla<br />
prospettiva di una vita familiare che prima o poi gli verrà imposta, il giovane<br />
marchese non pensa che a cacciare ed a godersi la vita, riservandosi forse per un<br />
tempo a venire il cruccio di cercare una compagna adatta al proseguimento della<br />
schiatta (né di prender moglie né d’aver figliuoli alcun pensiero avea; di che egli era<br />
da reputar molto savio (X, 10, 4)). Sono però le pressioni continue dei suoi vassalli a<br />
spingerlo ad esasperare la propria idiosincrasia nei confronti dell’istituto<br />
matrimoniale, e quindi ad esporre la propria teoria riguardo un tema di eterna<br />
attualità, ovvero la possibilità che due persone possano convivere in armonia:<br />
«Amici miei, voi mi strignete a quello che io del tutto aveva disposto di<br />
non far mai, considerando quanto grave cosa sia a poter trovare chi co’<br />
suoi costumi ben si convenga e quanto del contrario sia grande la copia,<br />
e come dura vita sia quella di colui che a donna non bene a sé<br />
conveniente s’abbatte. E il dire che voi vi crediate a’ costumi de’ padri e<br />
delle madri le figliuole conoscere, donde argomentate di darlami tal che<br />
mi piacerà, è una sciocchezza, con ciò sia cosa che io non sappia dove i<br />
padri possiate conoscere né come i segreti delle madri di quelle:<br />
30 Oltre al naturale confronto-parallelo tra I, 1 e X, 10, ovvero tra Ser Cepparello e Griselda,<br />
pensiamo anche al fatto che, essendo questa l’ultima occasione di narrare, in essa si<br />
raggiungono degli estremi semantici finora non raggiunti, sia per la situazione narrativa che<br />
per il profilo psicologico dei personaggi che entro essa si muovono.<br />
51
quantunque, pur conoscendogli, sieno spesse volte le figliuole a’ padri e<br />
alle madri dissimili... (X, 10, 6-7)<br />
Il ragionamento di Gualtieri è assai contraddittorio, pur se pare avere una sua<br />
coerenza interna di alquanto grossolana misoginia: stupisce infatti che il maggiore di<br />
una casa “regnante”, investito della responsabilità di governare non soltanto nella<br />
dimensione del presente, ma sempre con un occhio al futuro, possa pensare di<br />
sottrarsi all’obbligo, strettamente connesso alla ragion di stato, di costituire una<br />
famiglia che, oltre a simbolizzare per se stessa l’integrità dello stato, avrebbe fornito<br />
il successore al comando di esso. La preoccupazione dei vassalli, ovvero dei<br />
consiglieri del marchese, è dunque giustificata in quell’ottica di limitazione<br />
dell’arbitrio personale che riguardava la vita privata dei governanti, limitazione cui il<br />
marchese Gualtieri vuole palesemente sfuggire, tanto da argomentare di seguito:<br />
Ma poi che pure in queste catene vi piace d’annodarmi, e io voglio esser<br />
contento; e acciò che io non abbia da dolermi d’altrui che di me, se mal<br />
venisse fatto, io stesso ne voglio essere il trovatore, affermandovi che,<br />
cui che io mi tolga, se da voi non fia come donna onorata, voi proverete<br />
con gran vostro danno quanto grave mi sia l’aver contra mia voglia<br />
presa mogliere a’ vostri prieghi. (X, 10, 8)<br />
Il discorso di Gualtieri sembra voler prevenire le conseguenze di una situazione<br />
simile a quella della nona novella della terza giornata, in cui il re di Francia, guarito<br />
da Giletta di Nerbona, acconsente a che ella sposi Beltramo di Rossiglione, cui però<br />
deve imporre questo matrimonio:<br />
«Beltramo, voi siete omai grande e fornito: noi vogliamo che voi torniate<br />
a governare il vostro contado e con voi ne meniate una damigella la<br />
quale noi v’abbiamo per moglier data».<br />
52
Disse Beltramo: «E chi è la damigella, monsignore?»<br />
A cui il re rispose: «Ella è colei la quale n’ha con le sue medicine sanità<br />
renduta». (...)<br />
«Monsignore, dunque mi volete voi dar medica per mogliere? Già a Dio<br />
non piaccia che io sì fatta femina prenda giammai». (...) «Monsignore,»<br />
disse Beltramo «voi mi potete torre quanto io tengo, e donarmi, sì come<br />
vostro uomo, a chi vi piace; ma di questo vi rendo sicuro che mai io non<br />
sarò di tal maritaggio contento».<br />
«Sì sarete » disse il re «per ciò che la damigella è bella e savia e amavi<br />
molto: per che speriamo che molto più lieta vita con lei avrete che con<br />
una dama di più alto legnaggio non avreste». (III, 9, 19-25)<br />
Il compromesso a cui il re di Francia deve piegarsi è quasi inspiegabile, soprattutto<br />
agli occhi del giovane conte: dimenticare del tutto l’importanza del lignaggio,<br />
sopravvalutare doti umane (la damigella è bella e savia e amavi molto) oggettive<br />
rispetto al valore “universale” della nobiltà di sangue (che legittima il re stesso, in<br />
quanto depositario dell’autorità feudale (voi mi potete torre quanto io tengo, e<br />
donarmi, sì come vostro uomo, a chi vi piace)), soltanto per tenere fede ad una<br />
promessa! 31<br />
Nel caso di Gualtieri, dunque, non si vuole che la responsabilità della scelta ricada su<br />
altri che non sul soggetto stesso del matrimonio: per questo motivo egli capovolge la<br />
situazione di III, 9, mettendosi “al posto del re” e scegliendo la futura moglie per le<br />
sue qualità umane (Erano a Gualtieri buona pezza piaciuti i costumi d’una povera<br />
giovinetta che d’una villa vicina a casa sua era, e parendogli bella assai estimò che<br />
con costei dovesse potere aver vita assai consolata. (X, 10, 9)), escludendo subito la<br />
possibilità di sceglierla in base al lignaggio. In questo momento appare per la prima<br />
31 Davvero è possibile che il re decida per questo strano maritaggio anche in base al<br />
ragionamento per cui la casata dei conti di Rossiglione comunque non si estinguerà, mentre<br />
in un altro caso “increscioso” Boccaccio aveva ritenuta necessaria addirittura l’intercessione<br />
del Papa, nella terza novella della seconda giornata, quando un giovane senza lignaggio e la<br />
figlia del re d’Inghilterra decidono di consacrare la propria unione.<br />
53
volta una descrizione usuale della protagonista femminile, che pure non ha ancora<br />
una sua personalità, ma soggiace all’autorità paterna: Gualtieri infatti, come è<br />
naturale, fattosi il padre chiamare, con lui, che poverissimo era 32 , si convenne di<br />
torla per moglie. (X, 10, ) Segue la descrizione dei preparativi delle nozze, che<br />
assumono il valore simbolico di una “prova” per tutti: per i sudditi che dovranno<br />
accettare di avere per “signora” una donna che proviene dal ceto più umile della<br />
comunità, per Gualtieri che con quest’atto deve necessariamente ovviare al naturale<br />
comportamento dell’aristocrazia, ed infine per Griselda, che dovrà impersonare un<br />
ruolo per cui non è nata (ma Boccaccio ci dimostrerà che non sempre ciò è<br />
necessario, come aveva già fatto in III, 9).<br />
Il giorno delle nozze Gualtieri si dirige a casa di Griselda, ma – come aveva già fatto<br />
in precedenza – parla prima di tutto con il padre di lei, dopo di che espone alla<br />
giovane il proprio volere, piacere e comandamento:<br />
... e domandolla se ella sempre, togliendola egli per moglie,<br />
s’ingegnerebbe di compiacergli e di niuna cosa che egli dicesse o<br />
facesse non turbarsi, e se ella sarebbe obediente e simili altre cose assai,<br />
delle quali ella a tutte rispose di sì. (X, 10, 18)<br />
L’accettazione unilaterale di questo patto, in cui Gualtieri promette soltanto di<br />
prendere Griselda per moglie, evidenziando il ruolo di esclusiva attività del marito<br />
nei confronti di quello di schietta passività della moglie, addirittura facendo<br />
presentire la “particolarità” del legame in quel di niuna cosa che egli dicesse o<br />
32 L’lemento oggettivamente più assurdo di questo iter è il fatto che lo spregiudicato “gioco”<br />
di Gualtieri escluda uno dei principali moventi dei matrimoni dell’aristocrazia, ovvero quello<br />
di sancire alleanze, di unire patrimoni, che costituiva anche una delle finalità massime<br />
dell’unione matrimoniale come simbolo di armonia sociale. L’esemplarità dell’episodio, che<br />
da questo punto di vista si ricollega al topos illustrato in II, 3 e che comunque appartiene<br />
soprattutto alla letteratura fantastica ed alla fiaba di magia, rende naturalmente giustificato il<br />
comportamento altrettanto esemplare dei “coprotagonisti”, ovvero di quei personaggi che in<br />
virtù di queste unioni matrimoniali riescono a scalare la gerarchia sociale ed a raggiungerne<br />
l’apice.<br />
54
facesse non turbarsi, indica chiaramente la volontà di Griselda di sottomettersi ad un<br />
volere superiore, non crediamo per spirito di sacrificio esemplare, quanto piuttosto<br />
per una sorta di abitudine all’obbedienza, ben racchiusa in quei costumi osservati da<br />
Gualtieri all’inizio della sua riflessione sulla futura sposa. Nella sequenza successiva<br />
la reificazione di Griselda raggiunge il culmine nella scena della vestizione:<br />
possiamo immaginare che una povera contadina non fosse abituata a farsi spogliare e<br />
vestire come era invece abitudine aristocratica, e qui il cerimoniale della vestizione<br />
della sposa è intessuto di una serie di fattitivi (la fece spogliare, la fece vestire e<br />
calzare, le fece mettere una corona (X, 10, 19)) che nonostante sembrino indicare un<br />
diritto della nuova condizione sociale di Griselda, in realtà sottintendono la sua<br />
trasformazione in oggetto nelle mani di Gualtieri, addirittura in una specie di<br />
bambola che spogliamo e vestiamo per averne divertimento. Questo è almeno il<br />
parere di Gualtieri, che cerca in Griselda quella molle cera da plasmare a suo<br />
piacimento, a che l’armonia del matrimonio sia perfetta, sacrificando quella che<br />
potrebbe essere la personalità della sposa, ed annullandola.<br />
Boccaccio ci presenta poi la “nuova” Griselda, che altro non è che una proiezione<br />
della signora ideale, come Gualtieri aveva desiderato che fosse: le virtù naturali,<br />
accresciute dalla nuova condizione, cancellano – apparentemente – il passato di<br />
Griselda, confermandone però quelle due virtù (tanto obediente al marito e tanto<br />
servente (X, 10, 24)) che condizionano il suo comportamento a venire. Dobbiamo<br />
ricordare che l’obbedienza al marito costituisce uno dei fondamenti stessi dell’unione<br />
matrimoniale, anche se di epoca in epoca l’interpretazione di questo precetto ha<br />
subito dei cambiamenti: da questo punto di vista, la novella si pone il giusto<br />
interrogativo – che la morale applica a molte delle situazioni ordinarie e straordinarie<br />
della vita dell’umanità – se sia possibile discernere il limite oltre il quale questa<br />
obbedienza si scontra con gli altri principi morali alla base dell’esistenza umana,<br />
quali il diritto di conservazione della vita, l’amore verso i propri figli, il rispetto della<br />
dignità umana, e così via.<br />
Quell’armonia che regna tra Gualtieri e Griselda, infatti, viene turbata dal marchese<br />
stesso, che in base ad un suo piano prestabilito, inizia progressivamente ad attaccare<br />
55
il complesso dei sentimenti umani di Griselda, ed insieme a soffocarne la dignità di<br />
donna, signora, madre, sposa.<br />
Da questo momento è il narratore a guidarci nella osservazione del(l’inspiegabile)<br />
comportamento di Griselda, attribuendole formule di risposta che denotano la<br />
volontà di umiliarsi completamente di fronte all’autorità maritale (e signorile)<br />
rappresentata dall’arbitrio di Gualtieri: alla prima richiesta, quella del sacrificio della<br />
figlia nata dalla loro unione, Griselda dimostra prima di non essere in alcuna<br />
superbia levata per onore che egli (Gualtieri) o altri fatto l’avesse (X, 10, 29), poi di<br />
non esitare neanche davanti al sacrificio della propria creatura, che pure non viene<br />
esplicitamente dichiarato dal servo incaricato di portargliela via (Egli m’ha<br />
comandato che io prenda questa vostra figliuola e ch’io...» e non disse più 33 (X, 10,<br />
30)). La caratterizzazione psicologica risiede tutta in quel come che gran noia nel<br />
cuor sentisse, senza mutar viso in braccio la pose al famigliare (X, 10, 31) in cui<br />
Boccaccio riesce a sublimare l’atteggiamento passivo di Griselda verso quanto<br />
avviene intorno a lei, e la riguarda direttamente, invocando la sua responsabilità di<br />
madre: la giustificazione di questo agire viene offerta dalla donna stessa, che la fonda<br />
su quella cieca obbedienza che ha giurato al marito, e che in qualche modo serve a<br />
colmare l’enorme distanza sociale fra i due («Signor mio, fa di me quello che tu credi<br />
che più tuo onore o consolazion sia, che io sarò tutta contenta, sì come colei che<br />
conosco che (...) io non era degna di questo onore al quale tu per tua cortesia mi<br />
recasti.» (X, 10, 28)).<br />
Quando poi Gualtieri manda per lo figliuolo, è addirittura egli stesso a meravigliarsi<br />
dell’atteggiamento impassibile della moglie: il dubbio che lo assale è che Griselda<br />
possa non aver affetto per i figli, dubbio che sembra svanire di fronte alla certezza di<br />
una profondità della sua disposizione materna (e se non fosse che carnalissima de’<br />
figliuoli, mentre gli piacea, la vedea (X, 10, 38)). Eppure proprio in questo<br />
approfondimento della riflessione dilemmatica di Gualtieri, il narratore ci propone<br />
33 La reticenza lascia soltanto intendere qualcosa di terribile a venire, ma in realtà nulla viene<br />
dichiarato apertamente: su questo gioco di sottintesi si fonda poi anche la richiesta seguente<br />
di Gualtieri, diretta all’allontanamento dell’altro “contestato” frutto della sua unione con<br />
Griselda.<br />
56
una interessante lettura della reazione “razionale” di Griselda: e se non fosse che<br />
carnalissima de’ figliuoli, mentre gli piacea, la vedea, lei avrebbe creduto ciò fare<br />
per più non curarsene, dove come savia lei farlo cognobbe. (X, 10, 38) Siamo<br />
alquanto dubbiosi sul significato di quel savia, che Dioneo potrebbe usare<br />
ironicamente, e che in qualche modo riflette la coerenza dell’agire di Griselda con<br />
quanto da lei prefissosi al momento dell’impegno matrimoniale. Il fatto che sia savia<br />
indicherebbe allo stesso tempo il fatto che Griselda non è folle, nel senso di madre<br />
snaturata, ma addirittura che tale comportamento, di cui lo stesso marchese<br />
riconosce l’eccezionalità (seco stesso affermava niuna altra femina questo poter fare<br />
che ella faceva (X, 10, 38)), è indice di saggezza, ovvero di un comportamento<br />
lineare, razionale addirittura!<br />
È a questo punto che, come avviene in altri momenti della narrazione boccacciana,<br />
interviene il commento della comunità (come nel caso di Ghismunda: con general<br />
dolore di tutti i salernetani (IV, 1, 62)) che non è disposta a tollerare tali<br />
“ingiustizie” ed immediatamente riconosce in Griselda la vittima del despotismo di<br />
Gualtieri (reputavanlo crudele uomo e alla donna avevan grandissima compassione<br />
(X, 10, 39)): anche in questo caso, però, la donna non è disposta a venir meno al suo<br />
voto di obbedienza, se risponde alle donne che con lei de’ figliuoli così morti si<br />
condoleano, di essere totalmente (e passivamente) sottoposta al volere dell’autorità<br />
maritale: quello ne piaceva a lei che a colui che generati gli aveva (X, 10, 39).<br />
L’accettazione delle imposizioni che vengono dal potere dispotico di Gualtieri,<br />
nonostante di volta in volta apra larghe ferite nel cuore della donna, non riesce a<br />
generare una forma di reazione – più o meno orgogliosa – che si manifesti anche al<br />
di là di quanto è evidente si verifichi nel profondo dell’anima di Griselda: quando<br />
Gualtieri appronta l’ultima prova, che mira ad umiliare l’orgoglio di sposa della<br />
moglie che tanto affezionata si è sinora dimostrata, finalmente vediamo addotta una<br />
motivazione umana al dolore, parendole dovere sperare di (...) vedere a un’altra<br />
donna tener colui al quale ella voleva tutto il suo bene, forte in se medesima si dolea<br />
(X, 10, 41), dovuta probabilmente al fatto che in questa riflessione la donna vede<br />
annullarsi tutti i sacrifici sinora accettati, alla base dei quali c’era la fiducia<br />
57
nell’istituzione matrimoniale intesa come totale dedizione all’uomo che si ama, e che<br />
in questo caso le era stato imposto di amare, non senza chiedere, però, la sua<br />
accondiscendenza. Il discorso con il quale Griselda accetta di rinunciare al suo<br />
vincolo coniugale, una volta esibite le false lettere del pontefice che sanciscono<br />
l’annullamento del matrimonio, non manca anch’esso di una sua “perversa” logica,<br />
assai simile a quella in principio di novella addotta da Gualtieri a spiegare le ragioni<br />
della sua antipatia per il matrimonio: non valgono le leggi dell’amore, dell’affetto<br />
coniugale, già abbondantemente ignorato negli episodi precedenti che avevano visto<br />
turbata l’armonia stessa della famiglia, su tutto prevale quel privilegio di lignaggio<br />
che sembrava non aver importanza alcuna all’inizio della narrazione. Per uno strano<br />
paradosso, il comportamento anomalo di Gualtieri (prendere in moglie una donna<br />
senza rango) viene commendato dalla presa di posizione di Griselda, che così<br />
argomenta:<br />
«Signor mio, io conobbi sempre la mia bassa condizione alla vostra<br />
nobilità in alcun modo non convenirsi, e quello che io son stata con voi<br />
da Dio e da voi il riconoscea, né mai, come donatolmi, mio il feci o tenni<br />
ma sempre l’ebbi come prestatomi; piacevi di rivolerlo, e a me dee<br />
piacere e piace di renderlovi: ecco il vostro anello col quale voi mi<br />
sposaste, prendetelo. (X, 10, 44)<br />
La condizione di Griselda regredisce dunque a quella di concubina, di madre di figli<br />
naturali, che sicuramente aveva ed avrebbe avuto una sua collocazione sociale e<br />
familiare ben precisa, non solo in seno alle famiglie nobili ed aristocratiche, ma<br />
anche in quelle della media ed alta borghesia: l’arditezza dell’immagine giuridica è<br />
più che altro stupefacente, in quanto parla di un vincolo matrimoniale che oggi si<br />
definirebbe “in comodato”, e che contiene una implicita negazione dei principi di<br />
indissolubilità del legame coniugale. L’accettazione passiva di questa oltremodo<br />
giuridicamente non troppo chiara imposizione, se da un lato rende ancora più salde la<br />
fiducia e l’ammirazione del temerario marchese nei confronti di Griselda, rendendola<br />
58
ai suoi occhi donna di statura morale irraggiungibile (soprattutto nella fermezza del<br />
comportamento), dall’altro ci convince dell’assoluta mancanza, da parte di Griselda,<br />
di un giusto metro di interpretazione del sistema di diritti e doveri su cui si basano i<br />
rapporti umani. Nell’ultimissima umiliazione, il confronto tra Griselda e la nuova<br />
sposa, troviamo l’interpretazione definitiva che la figlia di Giannucolo offre del<br />
proprio comportamento:<br />
ma quanto posso vi priego che quelle punture, le quali all’altra, che<br />
vostra fu, già deste, non diate a questa, ché appena che io creda che ella<br />
le potesse sostenere, sì perché più giovane è e sì ancora perché in<br />
dilicatezze è allevata, ove colei in continue fatiche da piccolina era stata.<br />
(X, 10, 59)<br />
Si tratta di un’analisi sociologica precisa, che si potrebbe a posteriori applicare<br />
all’assurdo atteggiamento sinora tenuto da Griselda, per giustificarlo, ma che<br />
potremmo addirittura impiegare per comprendere altre figure, che ben altrimenti<br />
reagiscono all’arbitrio di padri, fratelli e mariti: l’animo temprato da fatiche,<br />
difficoltà ed umiliazioni, riesce a sopportare meglio le imposizioni arbitrarie<br />
dell’autorità paterna o maritale, di quanto faccia l’animo di chi cresce tra le<br />
raffinatezze; di conseguenza, chi appartiene ad una classe sociale privilegiata,<br />
proprio per l’attitudine a non accettare passivamente le imposizioni, deve di necessità<br />
comportarsi secondo quanto ci si attende dal suo lignaggio.<br />
Ne deriva una svalutazione della virtù intrinseca di Griselda (che pure Gualtieri sa<br />
non essere sciocca, essendo certo ciò per mentecattaggine non avvenire, per ciò che<br />
savia molto la conoscea (X, 10, 58)) che va però tutta a vantaggio della nuova<br />
considerazione che del loro signore avranno i sudditi, i quali savissimo reputaron<br />
Gualtieri, come che troppo reputassero agre e intollerabili l’esperienze prese della<br />
sua donna (X, 10, 66): in questo modo si ricostituisce quella armonia che era stata<br />
creata con il matrimonio e poi lentamente e temerariamente distrutta<br />
dall’esperimento del marchese. La bella favola della contadina che diventa marchesa<br />
59
è passata attraverso prove di indicibile disumanità, che Griselda ha accettato con<br />
silenziosa rassegnazione, rafforzando il campo delle figure femminili del Decameron<br />
che scelgono di non opporsi a soprusi ingiustificati.<br />
60
Come abbiamo visto, queste figure femminili che rappresentano la tipologia<br />
comportamentale della resistenza passiva agli eventi, vengono caratterizzate<br />
innanzitutto dalla “menomazione” verbale: per conseguenza degli eventi negativi in<br />
cui si trovano coinvolte, la loro funzione espressiva si concreta diversamente, ad<br />
esempio nell’uso del fascino sensuale, o nella comunicazione attraverso il sogno,<br />
ovvero con l’esternazione mediante minuscoli movimenti del volto. Lo scopo di tutto<br />
questo è confrontarsi con la situazione conflittuale senza scegliere la strategia<br />
dell’attacco, ma quella di una difesa motivata dal rispetto di valori spesso messi in<br />
pericolo dalla stessa situazione di conflitto.<br />
61
Lo spirito di iniziativa e la reazione verbale<br />
Uno schema di caratterizzazione delle protagoniste del Decameron, che Boccaccio<br />
adotta spesso e volentieri (e che in fondo caratterizza, in chiave di approccio intimo,<br />
tutto il disegno compositivo della Elegia di madonna Fiammetta) in contrasto<br />
stridente con il comportamento di altre figure “animate” da una passività disarmante<br />
ed esasperata (Alatiel, Lisabetta, Griselda), è quello di una inusitata reazione verbale<br />
agli elementi di pressione autoritaria: tale caratterizzazione ha, come risultato<br />
immediato, quello di sminuire i personaggi maschili che provocano il conflitto, e ci<br />
sembra che i critici dell’opera boccacciana si siano soffermati piuttosto su questo<br />
aspetto del confronto, attribuendo la funzione retorica delle protagoniste – in tal<br />
modo sovradimensionate, per così dire – ad una sorta di incarnazione dello spirito<br />
d’amore, quindi non sempre cogliendo il paradigma di novità che probabilmente<br />
Boccaccio si prefiggeva rispetto agli schemi della letteratura tradizionale. Getto<br />
aveva infatti inquadrato la novella – secondo noi esemplare – di Ghismonda nella<br />
volontà dell’autore di cimentarsi in una vera e propria storia d’amore (1958:95),<br />
facendo risalire questo tentativo alle prove precedenti (a partire da I, 5 e 10) e<br />
riducendo l’analisi della novella allo schema del «triangolo», che comunque<br />
caratterizza gran parte delle unità narrative dell’opera, e da cui risulta un’attenzione<br />
maggiore al comportamento di inferiorità di Tancredi rispetto alla levatura morale<br />
della figlia; Muscetta, appellandosi alla conferma che trova in Baratto, Almansi e<br />
Moravia, rinsalda l’opinione che questa tragedia abbia per protagonista Tancredi e<br />
il suo «tenero amore» per la figlia; nella sua monografia sui problemi strutturali<br />
della IV giornata, Forni richiama l’attenzione del lettore sulla sconcertante<br />
somiglianza tra l’episodio narrato da Fiammetta e la storia di Paolo e Francesca (con<br />
la possibilità che Boccaccio abbia rimodellato la versione della pietosa storia dei due<br />
amanti romagnoli, nelle Esposizioni, richiamandosi alla propria novella) per<br />
ricondurre lo schema narrativo stesso della giornata ad una serie di ritratti di<br />
personaggi maschili in contrasto fra di loro (Tancredi–Guiscardo, fratelli di<br />
Lisabetta–Lorenzo, Guglielmo–Guglielmo), accanto ai quali le “eroine” sono<br />
62
chiamate a rappresentare la carnalità (Forni 1992:69-99). A noi pare però importante<br />
sottolineare che la caratterizzazione tipologica che Boccaccio adotta nel caso di<br />
Ghismonda e negli esempi che con esso hanno una intrinseca relazione di parentela,<br />
risponda piuttosto al desiderio di dare diversa centralità al personaggio femminile<br />
coinvolto, al fine di esprimerne la diversa valenza rispetto ad altre figure presenti in<br />
altre novelle.<br />
Ghismunda<br />
In apertura della quarta giornata, dunque, Fiammetta narra una novella di<br />
ambientazione normanna, per la scelta dei luoghi e dei nomi, e che si basa<br />
sicuramente su alcune suggestioni “longobarde” che influiscono sul tono “orrido”<br />
della novella 34 e che imprimono un carattere peculiare alla protagonista femminile di<br />
essa, la bella Ghismunda. Unica figlia di Tancredi, principe di Salerno, andata sposa<br />
giovanissima ad un figlio del duca di Capua, poco tempo dimorata con lui, rimase<br />
vedova e al padre tornossi (IV, 1, 4). In poche significative e quotidiane parole,<br />
Boccaccio ci dipinge tutta la transitorietà dello stato di Ghismunda: la sua condizione<br />
di vedova non le consente altra scelta che il ritorno al paterno ostello, ed il genitore<br />
(tenero padre (IV, 1, 5)) non fa nulla per farla risposare 35 . Ghismunda vive la sua<br />
condizione femminile secondo una dicotomia (indicata chiaramente da Vittorio<br />
34 Il particolare del cuore nel calice è un forte richiamo all’episodio di Rosmunda ricordato<br />
da Paolo Diacono, ed anche l’evidente consonanza dei due nomi femminili riesce a<br />
conservare questa suggestione.<br />
35 La tragedia della novella si manifesta sin dall’inizio nelle annotazioni che subliminalmente<br />
l’autore pone nei suoi commenti, a rivelare anzitempo la natura dell’amore di Tancredi per<br />
Ghismunda: non tutti i critici sono però d’accordo nel leggervi la possibilità di un amore<br />
incestuoso, se è vero che per Petrini è l’oratoria di Ghismunda a costituire il vero interesse<br />
per questa novella definita alta anche per l’estremismo della tragedia (1986:56); per Russo<br />
il principe Tancredi è in tutto e per tutto un personaggio mancato, è soltanto un pover’uomo<br />
(1977:162); opinione che Getto confutò ricordando quanto sia efficace quest’uomo che non<br />
sa dominare gli eventi, che crede di guidarli e se ne fa travolgere (1958:101); è Almansi a<br />
portare chiaramente la sua analisi (Tancredi e Ghismonda) sul percorso indicato da<br />
Muscetta, per cui sarebbe Tancredi il vero protagonista della novella, ed a prolungarlo nel<br />
senso per cui, nonostante il sentimento incestuoso sia fuori della novella, il testo è un<br />
continuo invito al lettore a compiere questo atto intuitivo (1972:163).<br />
63
Russo in 1983:96-97) per cui ella è insieme «donna» per la sua saggezza e<br />
«femmina» per la sua bellezza: bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra<br />
femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si<br />
richiedea (IV, 1, 5) 36 . Dunque, Ghismunda è «femmina» per quanto riguarda le sue<br />
pulsioni erotiche (si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un<br />
valoroso amante (IV, 1, 5)), mentre è «donna» quando riflette (l’occultamente<br />
appena citato è un chiaro esempio di saggia discrezione), quando argomenta e<br />
delinea le proprie ragioni (nel discorso che chiude il suo rapporto filiale ed umano<br />
con Tancredi), e la narrazione sembra attenersi a questa binomia. Boccaccio,<br />
generalmente attento alle espressioni significative “nascoste” nel testo (si veda per<br />
esempio l’uso degli avverbi nella I, 4), è ora attentissimo alla traccia semantica che<br />
individua di volta in volta l’«anima» di femmina o di donna di Ghismunda: quando<br />
deve escogitare il modo di aver convegno con Guiscardo, ella è donna (IV, 1, 9) o<br />
innamorata donna (IV, 1, 10); dal punto di vista di Tancredi, si tratta di una figliuola<br />
(IV, 1, 16, 25, 29, 46, 47, 59 ma nell’italiano meridionale la parola ha piuttosto il<br />
significato di giovanetta), che di fronte al dolore non si comporta come il più le<br />
femine fanno (IV, 1, 30) e davanti al rimprovero non si rifugia nello status di dolente<br />
femina (IV, 1, 31); infine, posta di fronte alla possibilità del sacrificio della propria<br />
vita, piange senza fare alcun feminil romore (IV, 1, 55) ed affida l’ultimo messaggio<br />
al padre da «donna» (Al quale la donna disse... (IV, 1, 60)). La sua perorazione<br />
d’amore ha avuto illustri commentatori, e rientra in quella serie di “discorsi” che<br />
Boccaccio mette in bocca a personaggi femminili onde difendere determinate<br />
posizioni e scelte, discorsi di cui si vede il primo importante esempio nella novella di<br />
Allessandro (II, 3): ci preme però, in questo caso, rilevare un momento “logico” che<br />
proprio in questa giornata degli amori tragici conquista una sua autonomia, quello<br />
cioè per cui, esistendo una vittima designata (Guiscardo, Lorenzo, Guiglielmo<br />
Guardastagno) ed una vittima volontaria (Ghismonda, Lisabetta, la moglie di<br />
36 Ci sembra logico il riferimento ad una donna “straordinaria” come la Ginevra di II, 9, in<br />
cui Boccaccio “volge” queste evidenti doti di saggezza nel sistema di valori della<br />
mercatantia.<br />
64
Guiglielmo Rossiglione), la prima diviene vittima della vendetta “giusta” per un<br />
imperativo sociale, la seconda si offre spontaneamente, per condividere la sorte<br />
dell’amante, ovvero per porre un sigillo di legittimità alla vendetta precedentemente<br />
attuata, così che l’equilibrio delle aspettative sociali si realizzi al di là del volere<br />
collettivo. Quest’ultima precisazione ci sembra dovuta, nel caso di questa novella<br />
(ma si vedrà come abbia giustificazione anche negli altri casi), per l’inciso che<br />
Fiammetta pone in chiusura di narrazione (dopo molto pianto e tardi pentuto della<br />
sua crudeltà, con general dolore di tutti i salernetani (IV, 1, 62)) e che indica<br />
chiaramente una disapprovazione collettiva dell’atto, altrimenti genericamente<br />
giustificato da un diritto paterno inalienabile (proprio in principio avevamo letto che<br />
il padre, per l’amor che egli le portava, poca cura si dava di più maritarla, né a lei<br />
onesta cosa pareva il richiedernelo (IV, 1, 5)) che proprio in questa giornata pare<br />
oscillare pericolosamente verso diritti “naturali”, pur contrastati finché non si verifica<br />
la “tragedia” (il caso dell’Andreuola, e l’argomentazione addotta dal padre,<br />
sembrano contraddire ad un determinato comportamento, comunque diversamente<br />
adottato da Currado Malaspina in II, 6, o da Lizio di Valbona in V, 4).<br />
Ghismunda, dunque, è caratterizzata sia in quanto oggetto dell’amore di Tancredi e<br />
Guiscardo, sia in quanto protagonista del tentativo di opporsi – con la propria vis<br />
retorica – al precipitare degli eventi. A questo punto si inserisce il vero nucleo della<br />
novella, la perorazione d’amore di Ghismunda, che solleva una serie di interrogativi<br />
di varia natura.<br />
Prima questione fra tutte è quella della legittimità del rapporto amoroso: la giovane<br />
vedova «confessa» di aver amato e di amare Guiscardo, ed addebita la necessità di<br />
questo amore a tre elementi, che coinvolgono tutti e tre i protagonisti, ovvero tanto la<br />
mia feminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine del maritarmi e la virtù di lui<br />
(IV, 1, 32). La gerarchia di questi tre elementi vuole chiaramente sminuire la «colpa»<br />
di Ghismonda, in quanto proveniente da un istinto naturale e, perciò, in parte<br />
giustificabile, porre sotto accusa la responsabilità di Tancredi, che non ha agito come<br />
avrebbe dovuto un padre sollecito, ed infine esaltare la virtù di Guiscardo in quanto<br />
amante discreto. Il primo elemento viene poi ampliato in una lunga disquisizione<br />
65
sulle leggi della giovanezza: si tratta di una conseguenziale disanima dell’influsso<br />
delle pulsioni erotiche sulle relazioni umane e sociali, che era stata in qualche modo<br />
anticipata dall’apologo delle «papere» nell’<strong>Introduzione</strong> a questa giornata.<br />
Una volta giustificata la necessaria emergenza delle proprie pulsioni naturali con le<br />
leggi di natura che il padre non avrebbe in nessun modo dovuto ignorare, Ghismonda<br />
passa a descrivere l’accaduto dal proprio punto di vista. Dobbiamo ricordare, a<br />
questo punto, che Tancredi aveva dato una sua versione dei fatti, comunicata sia a<br />
Guiscardo (Guiscardo, la mia benignità verso te non avea meritato l’oltraggio e la<br />
vergogna la quale nelle mie cose fatta m’hai, sì come io oggi vidi con gli occhi miei<br />
(IV, 1, 22)) sia a Ghismunda (Ghismunda, parendomi conoscere la tua vertù e la tua<br />
onestà, mai non mi sarebbe potuto cader nell’animo (...) se io co miei occhi non<br />
l’avessi veduto, che tu di sottoporti a alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse,<br />
avessi, non che fatto, ma pur pensato; (...) ma fra tanti che nella mia corte n’usano<br />
eleggesti Guiscardo, giovane di vilissima condizione, nella nostra corte quasi come<br />
per Dio da piccol fanciullo infino a questo dì allevato... (IV, 1, 26-27)), arrogandosi<br />
il diritto di non ascoltare le ragioni del primo, di concedere invece all’amata figlia la<br />
possibilità di discolparsi o, quantomeno, di portare delle attenuanti che rendano meno<br />
mostruosa quella gran follia.<br />
Continuando dunque il suo ragionamento sulla giustezza di rispondere alle pulsioni<br />
naturali, Ghismunda descrive la gran follia come comportamento lucido e<br />
perfettamente animato dalla coscienza di obbedire alla propria volontà, vieppiù<br />
confortato dalla divina disposizione che rende gli uomini uguali in forze, potenze,<br />
vertù:<br />
Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello a che elle mi<br />
tiravano, sì come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. E certo in<br />
questo opposi ogni mia vertù di non volere a te né a me di quello a che<br />
natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare,<br />
vergogna fare. (...) Guiscardo non per accidente tolsi, come molte<br />
fanno, ma per diliberato consiglio elessi innanzi a ogni altro e con<br />
66
avveduto pensiero a me lo ‘ntrodussi e con savia perseveranza di me e<br />
di lui lungamente goduta sono del mio disio.<br />
(...) tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere e da uno<br />
medesimo Creatore tutte l’anime con iguali forze, con iguali potenze,<br />
con iguali vertù create. (IV, 1, 35-39)<br />
L’accusa di follia, che pure nasconde il tentativo di Tancredi di scagionare<br />
Ghismunda dall’accusa di aver volontariamente deciso di compiere un atto tanto<br />
disonesto, viene ribaltata dal discorso della giovane donna, che fa appello a diritti<br />
naturali, in un primo momento presentati sotto la luce del concupiscibile disidero e<br />
del natural peccato, poi conseguenzialmente accostati al principio della naturale<br />
nobiltà che in ogni persona alberga non per discendenza, ma per virtù di costumi. Un<br />
posto privilegiato, nell’argomentare di Tancredi e di Ghismunda, è accordato agli<br />
occhi, che diventano garanti di verosimiglianza per quanto accade: la colpa dei due<br />
amanti è effettiva in quanto avviene sotto gli occhi di Tancredi, pertanto Ghismunda<br />
oppone il giudicio sulla persona di Guiscardo a quello dei propri occhi (IV, 1, 41),<br />
testimoni dell’apprezzamento che Tancredi aveva mostrato per il valletto (IV, 1, 42).<br />
Gli occhi sono doppiamente protagonisti, in quanto sede del pianto che Tancredi non<br />
riesce a frenare, al contrario della figlia, che conclude la sua arringa capovolgendo il<br />
rapporto uomo-donna ed intimando al padre di ritirarsi con le femine a spander le<br />
lagrime (IV, 1, 45). Unico pianto che la giovane si consenta è quello pietoso<br />
dell’omaggio al defunto Guiscardo: fedele ad un motivo che troviamo sin dall’orrido<br />
cominciamento, Boccaccio riproduce nella meticolosità del gesto affettuoso di<br />
Ghismunda (sopra la coppa chinatasi piagnendo cominciò a versar tante lagrime,<br />
che mirabile cosa furono a riguardare, basciando infinite volte il morto cuore (IV, 1,<br />
55)) il momento della consolazione, privo però del feminil romore, in quanto non<br />
sarebbe stato consono al comportamento finora avuto dalla donna.<br />
67
Il capovolgimento delle premesse della cornice<br />
Proprio il riferimento alla complessa personalità di Ghismunda, ci porta a<br />
considerare nuovamente il senso della femminilità nel Decameron, quale si manifesta<br />
nel corso dell’opera come insieme di atteggiamenti muliebri.<br />
Al quadro di infinite sofferenze che l’autore ci offre come orrido cominciamento,<br />
succede una nuova descrizione, avvolta nell’atmosfera di quiete e sacralità della<br />
venerabile chiesa di Santa Maria Novella: la presenza contemporanea di sette donne,<br />
in un luogo sacro e dopo la messa, è in evidente contrasto con la desolazione che<br />
Boccaccio ha sinora lamentato come segnale inquietante di nuovi comportamenti<br />
indotti dal morbo ferale e dalla sua furia distruttrice. Queste sette giovani donne,<br />
inoltre, smentiscono con la loro presenza addirittura il crollo dei legami di parentela<br />
e di vicinato che Boccaccio aveva appena ricordato (I, intr., 27, 32-35), essendo tutte<br />
l’una all’altra o per amistà o per vicinanza o per parentado congiunte (I, intr., 49).<br />
Sappiamo bene che la situazione stessa della cornice deve attenersi ad alcuni<br />
particolari che permettano un migliore “funzionamento” della vicenda 37 , ma qui ci<br />
pare che l’incontro, in seguito definito casuale (non già da alcuno proponimento<br />
tirate ma per caso in una delle parti della chiesa adunatesi, quasi in cerchio a seder<br />
postesi (I, intr., 52)), si contrapponga con forza a quel senza aver molte donne da<br />
torno che contraddistingueva i trapassi ratti e pressoché inosservati di quella lugubre<br />
stagione. Inoltre, le sette giovani donne sono quasi in cerchio a seder postesi, per<br />
pregare, dunque stanno “mimando” il pianto rituale delle esequie attraverso la<br />
preghiera al Padre (il dir de’ paternostri), in questa maniera testimoniando la loro<br />
volontà di “reintegrare” quella virtù femminile (la donnesca pietà) che<br />
37 Le donne si ritrovano in chiesa un martedì mattina, quindi in un giorno in cui l’edificio<br />
sacro è meno affollato che nei giorni festivi; inoltre, il fatto che si conoscono, oltre a<br />
rientrare nel topos della costituzione di una sorta di corte, dove tutti i membri sono noti a<br />
tutti, e quindi non c’è bisogno di lunghi discorsi introduttivi né di dialoghi agnitivi, scavalca<br />
anche la questione di come impostare la “comunicazione” tra queste giovani che sono<br />
pressoché coetanee, ma pure conservano, all’interno del loro “schieramento”, una più o<br />
meno coerente gerarchia dipendente dall’età e dalle caratteristiche implicite del loro<br />
carattere.<br />
68
precedentemente avevamo vista posposta al nuovo uso di congedare i morti (risa e<br />
motti e festeggiar compagnevole).<br />
Pampinea come donna-simbolo della brigata<br />
Nel discorso di Pampinea ritornano le immagini del rito funebre e della consolazione,<br />
illuminate però dalla presenza di queste giovani che sono – loro malgrado, sottolinea<br />
l’oratrice – testimonie di quanti corpi morti ci sieno alla sepoltura recati (I, intr.,<br />
56). Di una forse numerosa “famiglia”, ovvero della servitù della giovane donna, non<br />
rimane, significativamente, che la sua fante: anche questa asserzione vuole opporsi<br />
allo scandaloso comportamento della maggioranza delle donne (senza alcuna<br />
vergogna ogni parte del corpo aprire non altrimenti che a una femina), aggravato<br />
dal pericolo di una più aggressiva libido che coinvolge persino chi è legato alla<br />
castità dai voti religiosi. Significativa la conclusione del suo discorso, che oppone<br />
l’onestamente andare allo star disonestamente (I, intr., 72): i due binomi avverbio-<br />
verbo e verbo-avverbio, posti in discreta posizione di chiasmo proprio alla fine della<br />
perorazione, riassumono circolarmente tutto il discorso boccacciano sulla corruzione<br />
dei costumi e – allo stesso tempo – sulla speranza che essi possano venir ricostituiti<br />
dalla “parte sana” dell’umanità, quella ancora non corrotta dalla peste biologica e<br />
morale. La lamentazione dell’autore, infatti, avevano preso inizio dai toni apocalittici<br />
della punizione divina, per presentare il cedimento della società umana, come ultima<br />
conseguenza del comportamento stesso degli uomini di fronte alla disgrazia: non<br />
crediamo sia necessario un confronto con le grandi figurazioni bibliche di Sodoma e<br />
Gomorra, poiché le inique opere ricordate al principio della descrizione della<br />
pestilenza non si riferiscono sicuramente alla corruzione totale degli animi e dei<br />
corpi, mentre la presenza del morbo, che attacca fisicamente la comunità umana, ne<br />
distrugge progressivamente anche le fondamenta morali, ingenerando una disonestà<br />
diffusa che, come Boccaccio si affretta a precisare, è nuova, e per questo è<br />
sorprendente quanto in fretta sia riuscita a radicarsi.<br />
Pampinea è dunque la prima figura di donna-oratrice o peroratrice del Decameron, e<br />
nel suo discorso riconosciamo chiaramente la disposizione retorica necessaria ad<br />
69
affrontare gli argomenti trattati, sin dal principio, per poter sostenere la coincidenza<br />
di honestum e salus (v. Muscetta 1972:308) e per riuscire, dopo aver tracciato anche<br />
lei un quadro fosco degli eventi cittadini, quasi immediatamente a convincere le altre<br />
(quasi, quindi levandosi da sedere, a mano a mano dovessero entrare in cammino (I,<br />
intr., 73)) della necessità di evadere da un ambiente che ha perso ogni caratteristica<br />
di umanità: proprio nel suo levarsi a parlare per prima, in quanto maggiore di età, da<br />
quel consesso di donne ordinate in cerchio per pregare, Pampinea rappresenta la<br />
volontà di cambiare il corso delle cose, di opporsi ad un “immobilismo” pernicioso,<br />
anzi addirittura fatale, e di ricostituire fuori dalla città in cui imperversa il morbo,<br />
quelle consuetudini di comodità femminile (prendendo le nostre fanti e con le cose<br />
opportune faccendoci seguitare (I, intr., 71)) che devono pur adattarsi alla tragicità<br />
dei tempi, ma che in tal modo riscattano lo scandalo dei nuovi, terribili costumi che<br />
la pestilenza ha reso tanto minacciosamente abituali. Nella descrizione di Pampinea<br />
troviamo forse un riferimento a quella presenza di spirito, a quella vocazione<br />
all’autorità, che dovevano avere le donne poste a capo di conventi e monasteri: lo<br />
scopo stesso della sua perorazione, tenuta in una chiesa, è quello di separare quella<br />
piccola comunità di donne dal mondo, per portarsi in un luogo e vivere in letizia<br />
(allegrezza e festa prendendo che questo tempo può porgere (I, intr., 71)), ma<br />
soprattutto per scampare ai pericoli della città ormai “babilonizzata”. L’impetuosità<br />
di Pampinea (che appunto è rigogliosa e dinamica come i pampini della vite), viene<br />
subito frenata da una figura più pallida, e contestatoriamente misogina: nella sua<br />
disquisizione sul carattere delle donne e sulla impossibilità per queste di<br />
autogovernarsi, Filomena ci appare rassegnata ad accettare tutti i luoghi comuni sulla<br />
inferiorità della donna rispetto all’uomo, quasi a confermare che quanto sinora<br />
lamentato da Boccaccio e da Pampinea riguardo allo star disonestamente, trovi la sua<br />
giustificazione nell’indole stessa delle donne, mobili, riottose, sospettose,<br />
pusillanime e paurose (I, intr., 75). Sono, questi, tutti attributi che squalificano la<br />
fermezza di volontà, la capacità di affrontare con animo saldo le vicende della vita:<br />
dal più grave, il primo, che si riferisce alla gran facilità con cui le donne cadono<br />
vittime delle passioni, percorriamo una scala di virtù negative che avvicinano<br />
70
l’indole della donna a quella dei fanciulli, o addirittura dei bambini, fino a quello che<br />
è quasi un binomio sinonimico (pusillanime e paurose) e mette le altre giovani di<br />
fronte al dubbio di riuscire a portare a termine quel ritiro idilliaco tanto ben proposto<br />
da Pampinea. La contrapposizione dei due discorsi non impone che una tesi escluda<br />
l’altra, se è vero che è proprio Pampinea a cogliere, nell’entrata dei tre giovani, il<br />
segnale della sorte (fortuna a’ nostri cominciamenti è favorevole (I, intr., 80)): dopo<br />
che al dialogo di Filomena e Pampinea si sono unite Elissa e Neifile, è sempre la<br />
“rigogliosa” a fare il primo e decisivo passo verso i tre giovani uomini, a manifestare<br />
la sua fermezza di propositi ma anche la capacità di prendere l’iniziativa che è<br />
implicitamente connessa al suo ruolo di “maggiore”: queste virtù saranno poi<br />
sottolineate da Dioneo, il primo degli uomini a prendere la parola, quando<br />
riconoscerà che il vostro senno più che il nostro avvedimento ci ha qui guidati (I,<br />
intr., 93) e darà modo a Pampinea di argomentare completamente a proposito di<br />
quanto si ha da fare nel luogo in cui la brigata è convenuta.<br />
Ancora una volta la giovane donna rivolge agli astanti un discorso compiuto<br />
sull’organizzazione della piccola comunità – l’allegra brigata –, partendo<br />
dall’abituale considerazione generale (per ciò che le cose che sono senza modo non<br />
possono lungamente durare(I, intr., 95)) e richiamandosi alla necessità di eleggere un<br />
capo (estimo che di necessità sia convenire esser tra noi alcuno principale) che non<br />
sarà, come forse avremmo estrapolato dalle parole dette il giorno prima da Elissa, per<br />
forza di cose un maschio (Veramente gli uomini sono delle femine capo e senza<br />
l’ordine loro rade volte riesce alcuna nostra opera a laudevole fine (I, intr., 76)), ma<br />
di volta in volta ognuno dei presenti, acciò che ciascun pruovi il peso della<br />
sollecitudine insieme col piacere della maggioranza 38 . Pampinea si impone dunque<br />
38 Pampinea aggiunge: e, per conseguente da una parte e d’altra tratti, che il commento di<br />
Branca interpreta come una ulteriore specificazione della sollecitudine e del piacere,<br />
escludendo la tesi dei critici che vedevano in questa specificazione la possibilità che<br />
Pampinea citi chiaramente la scelta alternata di re e regine: non ci sembra però che tale<br />
interpretazione sia tanto precaria, soprattutto se la intendiamo in senso lato, cioè nel senso<br />
che ad ognuno deve essere, per conseguenza, data la possibilità di “governare” una giornata,<br />
indipendentemente dal sesso di appartenenza e dalla disparità numerica esistente tra i due<br />
sessi.<br />
71
con la sua personalità forte e dinamica, che preclude chiaramente a molte delle<br />
protagoniste “attive” delle novelle successive. La cornice non termina però con<br />
l’introduzione alla prima giornata, continuando lungo tutte le giornate e riservandoci<br />
più di un excursus, a farne un’unità narrativa di particolare valore: quello più<br />
significativo, almeno da un punto di vista nominale, consiste nella visita alla Valle<br />
delle Donne 39 . Questa visita avviene, a conclusione della sesta giornata, in un<br />
momento di grande imbarazzo per le donne: il tema proposto da Dioneo per la<br />
giornata seguente, infatti, non sembra a tutte adatto a che ne parlino delle onorate<br />
giovani (pareva a alcuna delle donne che male a lor si convenisse (VI, concl., 7)),<br />
per questo la proposta di Elissa di andare a visitare una valle poco lontana, viene<br />
accolta come la possibilità di ricreare quella intimità di discorsi femminili che<br />
avevamo osservato nel primo consesso delle donne in Santa Maria Novella. La<br />
suggestione idilliaca, ultraidilliaca o edenica che irradia dalla Valle si nasconde, a<br />
nostro parere, nella dimensione ludica del bagno: non dimentichiamo che proprio nel<br />
loro incontro in chiesa, il lugubre abito che pesava, con il suo lutto, sui loro corpi<br />
giovani e vigorosi, era il segno della tragedia quotidiana, che ormai le giovani<br />
sembrano aver rimossa. Nella cornice, infatti, le componenti la brigata si liberano di<br />
volta in volta del peso di quanto hanno lasciato in città: in più di una novella, a<br />
partire dalla prima, incentrata sulla morte subitanea – e sospetta – di Ser Cepparello,<br />
e soprattutto in alcune della quarta giornata, ritroviamo il tema della peste, del morbo<br />
inquietante che alloggia nella memoria di narratori e narratrici, riproponendosi di<br />
volta in volta. Ciò ha termine, però, con la sesta giornata, se le successive tre giornate<br />
trattano temi leggeri, scherzosi, e l’ultima, all’insegna della liberalità e della<br />
magnificenza, si collega all’imminente ritorno in città e quindi alla possibile<br />
ricostituzione di un modus vivendi simile a quello precedente la peste.<br />
39 Si tratta di un elemento che alcuni critici hanno voluto mettere in rapporto strutturale con<br />
l’abluzione catartica nel Paradiso terrestre (Battaglia Ricci 2000a:35), mentre per altri si<br />
tratta di un nuovo modo di affrontare il topos del locus amoenus, di superare l’idillio<br />
tralasciando dimensioni favolose e magiche (Petrini 1986:145-154)<br />
72
Le galline della marchesana<br />
Nella novella della marchesana del Monferrato alle prese con gli appetiti del re di<br />
Francia, la narrazione viene introdotta da una classica questione d’amore (come nel<br />
De amore del Cappellano o nel Filocolo stesso) sulla possibilità, per una gentil<br />
donna, di respingere le avances di un uomo di maggiore lignaggio di lei 40 . La<br />
questione è raccontata, non dimentichiamolo, da una delle protagoniste femminili<br />
della brigata, Fiammetta, che vuole dunque rovesciare la situazione iniziale della<br />
novella precedente, munendo adesso la protagonista di quella verve necessaria a<br />
“liberarsi” dalla minaccia della seduzione non desiderata 41 : la marchesana è in un<br />
certo qual modo figurazione di quell’ideale di donna dinamica e piena di spirito di<br />
iniziativa, che abbiamo già osservato in Pampinea, e per questo, per non smentire<br />
questa tipologia dai tratti essenziali, eppure dotata di una sua peculiare funzione<br />
imitativa dello spirito maschile 42 , la narrazione ci propone una serie di descrizioni<br />
sommarie ed iterate delle sue virtù. La prima delle quali è quella in absentia, che<br />
scatena il desiderio del re di Francia, Filippo il guercio: fu per un cavaliere detto non<br />
esser sotto le stelle una simile coppia a quella del marchese e della sua donna: però<br />
che, quanto tra’ cavalieri era d’ogni virtù il marchese famoso, tanto la donna tra<br />
tutte l’altre donne del mondo era bellissima e valorosa (I, 5, 6). L’antonomasia è<br />
40 Come ricorda il Russo, l’esordio della novella è un coro femminile di protesta contro lo<br />
sporcissimus Dioneo (1977:95-103): a questa protesta si aggiunge anche tematicamente la<br />
storia della marchesana del Monferrato, che Russo interpreta alla luce della massima di<br />
Fiammetta (negli uomini è gran senno il cercar d’amar sempre donna di più alto legnaggio<br />
che egli non è, così nelle donne è grandissimo avvedimento il sapersi guardare dal prendersi<br />
dell’amore di maggiore uomo che ella non è (I, 5, 4)) richiamandosi al precetto per cui la<br />
donna deve trovarsi sempre in uno stato di superiorità. Fatto sta che questa novella vuole<br />
proprio sottolineare una superiorità intellettuale e di sentire della donna, che non possono<br />
non accompagnarsi all’onestà e fedeltà muliebri.<br />
41 In un nostra nostra lettura della novella di Alatiel (Sciacovelli 1998:188) abbiamo già<br />
ricordato come sia importante, non soltanto nel Decameron, la funzione verbale e narrativa<br />
in quanto tale: cosa che nella contrapposizione di queste due novelle emerge ancora più<br />
forte, se consideriamo che all’opposizione Dioneo-Fiammetta scorre parallela quella di<br />
monaco-giovinetta e marchesana-re, è a dire che il filo di narrazione e contestualizzazione<br />
dell’identità dei narratori, si polarizza verso una valenza forte delle opposizioni funzionali,<br />
non senza il ribaltamento della situazione di “imbarazzo sociale”.<br />
42 Di cui parleremo più ampiamente a proposito della figura di Ginevra, moglie di Bernabò<br />
da Genova (II, 9).<br />
73
iferita in un primo momento alla coppia, anzi, vorremmo precisare, all’armonia<br />
della coppia, dunque ad un’unità pressoché inscindibile che pare garantita nella sua<br />
indivisibilità da quel sotto le stelle: in seconda battuta, viene confrontata la virtù<br />
cavalleresca del marchese con le virtù fisiche e morali – i valori esteriori ed interiori<br />
– dell’altra metà della coppia. L’ambientazione storica geografica e socioculturale<br />
della novella ci mettono in sospetto riguardo all’identità “letteraria” della marchesa:<br />
dovrebbe ella infatti essere il prototipo della castellana 43 , che al momento della<br />
partenza del coniuge deve sostituirlo soprattutto in quanto rappresentante<br />
dell’autorità signorile, quindi caricandosi degli obblighi dovuti ai suoi superiori;<br />
fuori della simbologia feudale, però, Boccaccio ci ricorda che la marchesa conosce<br />
bene le cose di questo mondo, e che quindi coglie nell’intenzione del re il proposito<br />
nascosto: per questo motivo, le qualità esteriori ed interiori della donna si<br />
arricchiscono di un altro elemento fondamentale, legato all’ingegno, che è il vero<br />
gran protagonista del Centonovelle: La donna, savia e avveduta, lietamente rispose<br />
che questa l’era somma grazia sopra ogn’altra e che egli fosse il ben venuto (I, 5, 9).<br />
La letizia originale viene solo per un attimo confusa dal pensiero che questo volesse<br />
dire, dopo di che viene ribadita la virtù della donna, come valorosa donna dispostasi<br />
ad onorarlo: si tratta, per questa occasione, di una duplice virtù, che da un lato deve<br />
continuare quel lietamente della risposta data al sovrano, dall’altro deve architettare<br />
una “risposta” capace di evitare il peggio senza offendere il re in visita.<br />
La terza – e decisiva – descrizione è invece data al momento dell’incontro tra la<br />
donna ed il sovrano: riguardandola, gli parve bella e valorosa e costumata, e<br />
sommamente se ne maravigliò e commendolla forte, tanto nel suo disio più<br />
accendendosi quanto da più trovava esser la donna che la sua passata stima di lei (I,<br />
5, 11). Vogliamo sottolineare, sempre nel confronto con la precedente unità<br />
narrativa, che come la giovinetta veduta dal monaco instaura una reazione per cui né<br />
prima veduta l’ebbe, che egli fieramente assalito fu dalla consipiscenza carnale (I, 4,<br />
5), così la vista della marchesa e la dimestichezza con i suoi modi aumentano nel re<br />
di Francia un desiderio già esistente – pur se non “generalizzato” come nel caso del<br />
43 Ben diversa da quella che troveremo nella novella di Rinaldo d’Asti (II, 2).<br />
74
monaco! – creato da quella passata stima che avevamo incontrato al principio della<br />
narrazione. Le poche parole che nella I, 4 avevano portato alla veloce seduzione della<br />
giovinetta, sono adesso sostituite dagli sguardi del re (riguardandola (11), con diletto<br />
talvolta ... riguardando (13), con lieto viso rivoltosi verso lei (14)) che viene confuso<br />
e turbato dalla risposta della marchesa: notiamo come Boccaccio sottolinei<br />
l’insperata casualità per cui il re pone proprio la domanda a cui la marchesa aveva<br />
preparato la risposta ad hoc, quasi voglia far notare al lettore da un lato l’infallibilità<br />
del funzionamento della “trappola simbolico-gastronomica” 44 , dall’altro la fatalità<br />
delle combinazioni dei meccanismi narrativi, che devono inevitabilmente portare alla<br />
realizzazione di un fine preciso. Nel veloce dialogo tra il sovrano e la marchesa è<br />
importante sottolineare come la tipologizzazione dell’elemento femminile passi per<br />
una varietà lessicale che non è reperibile nei passi precedenti della novella:<br />
«Dama, nascono in questo paese solamente galline senza gallo alcuno?»<br />
(...)<br />
«Monsignor no, ma le femine,quantunque in vestimenti e in onori<br />
alquanto dall’altre variino, tutte per ciò son fatte qui come altrove». (I,<br />
5, 15).<br />
Significativo è che mentre il re verbalmente offre il suo tributo alla dignità della<br />
donna, la marchesa volutamente svaluta il proprio sesso, utilizzando la parola femina<br />
che – come vedremo soprattutto nella prima novella della quarta giornata – si oppone<br />
dal basso a donna: nonostante le sue “cattive intenzioni”, il sovrano non può fare a<br />
meno di onorare la dama che ha davanti, anche perché in quel momento ella<br />
rappresenta il “suo uomo”, il suo diretto sottoposto nella gerarchia feudale. La dama,<br />
a sua volta, pone la giusta distanza tra sé e le femine, quasi ad escludere parte della<br />
propria identità – quella insidiata dal re.<br />
44 Non è questa l’unica novella del Decameron in cui la funzione del cibo va ben oltre quella<br />
dell’ambientazione contestuale, se pensiamo alla gru cucinata da Chichibio, al falcone di<br />
Federigo degli Alberighi, alla dieta consigliata da Ghino di Tacco all’abate di Cluny, e così<br />
via.<br />
75
La gentil donna di Guascogna<br />
Nella nona novella della prima giornata Boccaccio ci propone ancora una volta<br />
l’incontro tra una gentil donna ed un re: la situazione, per altro già velocissimamente<br />
schizzata nella LI del Novellino, mostra la superiorità morale della gentil donna nei<br />
confronti di un re tardo e pigro (I, 9, 7), dunque anch’egli – come Filippo Augusto –<br />
segnato da un comportamento non adeguato alla regalità che impersona. L’offesa<br />
fatta alla donna diviene, nel testo di Boccaccio, addirittura figurazione del delitto di<br />
lesa maestà (contro allo onore della sua corona). La ricostituzione di un equilibrio<br />
originario (quasi dal sonno si risvegliasse) è dunque chiaramente attribuita<br />
all’iniziativa di una donna che riesce addirittura ad ironizzare sulla propria sventura<br />
(la quale, sallo Idio, se io far lo potessi, volentieri te la donerei, poi così buono<br />
portatore ne se’ (I, 9, 6)) e mordendo, anzi trafiggendo l’amor proprio del sovrano,<br />
ristabilisce un ordine morale fino a quel momento escluso dal campo del possibile.<br />
La personalità della donna non viene tratteggiata maggiormente, di lei conosciamo<br />
soprattutto il dolore per l’oltraggio subito durante il pellegrinaggio in Terra Santa: il<br />
suo comportamento però è coerente con quell’ideale di donna forte e sicura di sé, che<br />
cerca giustizia e riesce a fronteggiare i casi più amari della sorte. Il suo rivolgersi al<br />
sovrano è diretto, sfrontato e, come abbiamo già sottolineato, addirittura carico di<br />
ironia: sappiamo bene come l’ironia abbia il potere di scuotere gli animi pigri, ma in<br />
questa caratterizzazione la funzione del discorso della donna diventa strumentale alla<br />
dimostrazione di una dignità che deriva dallo spirito stesso di iniziativa. In<br />
conclusione, se la donna è stata disonorata nel corpo dai suoi aggressori, le sue<br />
qualità spirituali la pongono assai più in alto del re che si lascia disonorare<br />
nell’animo per la sua inerzia scandalosa: da questo punto di vista, viene difeso il<br />
diritto della donna a considerare il proprio onore come indipendente da quello che la<br />
mentalità del suo tempo considera strettamente collegato al suo comportamento<br />
sessuale in senso passivo ed attivo 45 .<br />
45 Né è questa l’unica novella in cui ravvisiamo queste allusioni, pensiamo al proverbio che<br />
chiude la novella di Alatiel, o alla riforma dello statuto di Prato motivata dall’arringa di<br />
madonna Filippa (VI, 7)<br />
76
La bella castellana<br />
La prima figura femminile della seconda giornata è la “castellana” che<br />
amorevolmente accoglie Rinaldo d’Asti, appena scampato ai suoi rapinatori: una<br />
donna vedova, del corpo bellissima quanto alcuna altra, la quale il marchese Azzo<br />
amava quanto la vita sua e quivi a instanzia di sé la facea stare (II, 2, 19). Si pensa<br />
subito ad una delle tante “recluse” che appaiono nel Decameron (l’anonima giovane<br />
di I, 4 viene rinchiusa nella cella dal giovane monaco prima, poi dall’abate, perché<br />
possa accondiscendere ai desideri dei due religiosi; anche Alatiel – in II, 7 – viene<br />
continuamente privata della libertà di movimento, a causa della sua bellezza;<br />
Boccaccio utilizzerà inoltre una espressione simile a questa in IX, 5, 8 – a sua posta<br />
tenendola in una casa – a proposito della Niccolosa, di cui si innamorerà<br />
Calandrino), e che sviluppano il topos della bella castellana sottoposta ai desideri di<br />
un signore, assente nel momento in cui l’eroe si presenta al castello 46 : accanto a<br />
questo tratto, di notevole forza suggestiva per quanto seguirà nell’azione del<br />
racconto, dobbiamo comunque sottolineare che si tratta di una vedova, ovvero di una<br />
46 Quello che però maggiormente si richiama ad una tradizione cospicua che molti critici<br />
hanno ricondotto ad alcune tracce provenzali (v. n.1 in II, 2, 1,), è il motivo dell’accoglienza<br />
amorosa che viene “arbitrariamente” accostata al culto dell’ospitalità incarnato in San<br />
Giuliano, la cui legenda è comunque legata al tragico frainteso per cui Giuliano uccide i<br />
propri genitori, di cui ignora l’identità ed ai quali sua moglie ha offerto ospitalità, vedendoli<br />
nel proprio letto, e credendo si tratti di un adulterio commesso dalla propria moglie con un<br />
estraneo! Da questo punto di vista, non sappiamo quanto consciamente, nel richiamo ad una<br />
possibilità di ospitalità amorosa sotto il segno di San Giuliano, ci sembra addirittura di<br />
scorgere un cinico riferimento alla legenda del Santo. Nel suo studio su San Giuliano nel<br />
Decamerone e altrove, in cui Graf ha affrontato la tradizione che a tale proposito nasce nella<br />
letteratura italiana (Graf 2002:323-330), lo studioso dice la novella poco edificante, convinto<br />
del fatto che il buon albergare di cui Boccaccio racconta, non potesse essere accostato a<br />
tanto profani segni di ospitalità: in virtù delle considerazioni di Bruni sulla perdita di<br />
importanza – nel Decameron – della tripartizione di amore per diletto, onesto e utilitario,<br />
noteremo però come l’accoglienza di Rinaldo d’Asti da parte di una vedova preannunci<br />
anche il coinvolgimento erotico (Bruni 1999:245-246), nel senso che il risveglio del<br />
concupiscibile appetito – da parte della vedova – non è altro che il segnale delle sue esigenze<br />
di donna che non partecipa di un “regime matrimoniale regolare”, e che già “per definizione”<br />
gode di questo ambiguo genere di ospitalità, grazie al signore del luogo.<br />
77
delle tipologie femminili preferite di Boccaccio 47 . La complessa situazione sociale<br />
delle vedove è dal Certaldese, in più di un’occasione, fatta oggetto di riflessione per<br />
quanto riguarda le connessioni tra la vita privata della donna ed i suoi obblighi nei<br />
confronti della famiglia di provenienza (è il caso di Monna Giovanna in V, 9):<br />
diverso il caso di questa novella, in cui la donna ci viene presentata quasi “alla<br />
mercé” del potente marchese, subito dopo la morte del marito, se è vero che nel<br />
momento in cui Rinaldo viene accolto gli fece apprestare panni stati del marito di lei<br />
poco tempo davanti morto (II, 2, 27, e altrimenti non comprenderemmo perché<br />
conservi quegli abiti, una volta “trasferitasi” negli appartamenti di volta in volta<br />
utilizzati dal marchese Azzo). La condizione di amante del signore del luogo ci<br />
presenta una donna sicura in ogni suo gesto (ma pare caratteristica delle vedove,<br />
intese come donne esperte e dunque meglio preparate ad affrontare gli eventi, in uno<br />
spettro che va dai due estremi di Ghismonda (IV, 1) e della fiorentina Elena (VIII,<br />
7)), che Boccaccio non manca di farci notare, soprattutto nell’attitudine a comandare:<br />
la donna, un poco sconsolata, non sappiendo che farsi, diliberò d’entrare nel bagno<br />
fatto per lo marchese (II, 2, 21); chiamata la sua fante, le disse: «Va sù e guarda<br />
fuori del muro a piè di questo uscio chi v’è e chi egli è e quel ch’egli è e quel ch’el vi<br />
fa» (II, 2, 22); «Va e pianamente gli apri; qui è questa cena e non saria chi<br />
mangiarla, e da poterlo albergar ci è assai» (II, 2, 25); lietamente il ricevette e seco<br />
al fuoco familiarmente il fé sedere (II, 2, 32); al quale la donna avendo più volte<br />
posto l’occhio addosso e molto commendatolo, (...) nella mente ricevuto l’avea (II, 2,<br />
35). I gesti, il lampeggiar degli occhi (II, 2, 38), le frasi della donna, sono carichi di<br />
una abitudine al comando, e ci rivelano allo stesso tempo quanto sia solita ottenere<br />
quanto desidera, tanto da fare di Rinaldo un oggetto del proprio desiderio frustrato<br />
dall’assenza del marchese. La vedova agisce per ripicca contro il proprio amante e<br />
signore, e su questa volontà di vendetta (addirittura riempie di denari la borsa di<br />
Rinaldo!) si sposta il nucleo del racconto, che infatti si compie secondo due cicli, la<br />
rapina – che si conclude con il ritrovamento degli averi di Rinaldo e l’impiccagione<br />
47 Ricordiamo che vedove – talvota risposate, come è il caso di Teudelinga – sono<br />
protagoniste delle novelle I, 10; III, 2; IV, 1; V, 9; VIII, 4 e 7; IX, 1.<br />
78
dei masnadieri – e l’avventura amorosa – che comincia con la delusione della donna<br />
e si conclude con la soddisfazione di ambedue. In questa maniera è la donna<br />
autoritaria a porsi come antagonista “caratteriale” di marca positiva, nei confronti di<br />
Rinaldo che ha già incontrato i suoi antagonisti negativi, i masnadieri: la donna lo<br />
salva, la donna decide i momenti dei riti domestici (il discorrere davanti al fuoco,<br />
l’abluzione delle mani, la cena), la donna intraprende il corteggiamento e congeda lo<br />
sconosciuto, dopo averlo identificato con il proprio marito (veggendovi cotesti panni<br />
indosso, li quali del mio morto marito furono, parendomi voi pur desso (II, 2, 37)) ed<br />
il proprio amante (e già, per lo marchese che con lei doveva venire a giacersi, il<br />
concupiscibile appetito avendo desto nella mente ricevuto l’avea (II, 2, 35)). Questa<br />
doppia identificazione è palesemente simbolica della contraffazione dell’identità di<br />
Rinaldo, messa in opera dalla vedova, ed operata coscientemente secondo due<br />
schemi concettuali: soddisfare i propri desideri carnali giustificando la tensione – il<br />
concupiscibile appetito – con la “nostalgia” del legame matrimoniale originario, e<br />
beneficare il povero Rinaldo d’Asti, in ottemperanza alle “direttive” di San Giuliano.<br />
Lo spirito d’iniziativa della castellana è quindi legato al carattere autoritario del suo<br />
esprimersi, alla sorprendente padronanza dei gesti, degli atti e delle formule con cui<br />
seduce Rinaldo d’Asti e dirige il corso degli eventi.<br />
La figlia del re<br />
Una donna altrettanto intraprendente è la figlia del re d’Inghilterra, protagonista della<br />
parte finale – e decisiva – della terza novella della seconda giornata, il cui<br />
protagonista maschile, pur caratterizzato da una intensa attività nella prima parte<br />
della narrazione (il quale messo s’era in prestare a baroni sopra castella e altre loro<br />
entrate, le quali da gran vantaggio bene gli rispondeano (II, 3, 13)), ci sembra<br />
rimanga solo un nome, data la sua passività nei confronti degli eventi. Alla stregua<br />
però di Allessandro, che seppur giovane deve occuparsi degli affari dei tre prodighi<br />
fiorentini, anche la fanciulla, travestita da uomo (come capiterà anche nella II, 9 a<br />
Ginevra) a causa del fatto che mala tempora currunt (nacque in Inghilterra una<br />
guerra tra il re e un suo figliuolo (II, 3, 14)), si dirige a Roma dal Santo Padre per<br />
79
ottemperare alla volontà del proprio padre, ed in un momento di pericolo per la<br />
propria terra, è lei a doversi occupare del patrimonio regale messo in pericolo dalla<br />
crisi politica (mi vedete fuggita segretamente con grandissima parte de’ tesori del re<br />
d’Inghilterra mio padre (II, 3, 37)). Il travestimento – la fanciulla è negli abiti di un<br />
abate accompagnato da un gran seguito – è altamente simbolico della missione che la<br />
ragazza deve compiere: Boccaccio dice infatti che si tratta di un abate bianco (II, 3,<br />
17), che se da un lato ha un riscontro nel bianco usato effettivamente da alcuni ordini<br />
benedettini, pure non manca di suggerirci il riferimento alla purezza della giovane,<br />
come pure i due cavalieri antichi e parenti del re (ibidem) (che per inciso<br />
Allessandro conosce, immaginiamo per quella confidenza “creditizia” ormai<br />
maturata con i nobili inglesi) sono figurazioni della saggezza, della nobiltà, della<br />
regalità che accompagnano questa apparizione improvvisa sulla strada che porta i<br />
viandanti fuori da Bruges. Queste virtù – sinora soltanto celate in alcuni segnali<br />
simbolici – appariranno poi in tutta la loro espressione verbale nel discorso che la<br />
giovane terrà al Papa: tra il momento dell’apparizione dell’abate e l’arrivo della<br />
compagnia a Roma, però, c’è il segmento narrativo più “intimo”, quello cioè della<br />
conoscenza carnale della reginotta e di Alessandro, segmento durante il quale si nota<br />
con maggiore evidenza il carattere determinato della donna, che pure deve, come<br />
capita a più di una delle “eroine” di questa giornata, saper conciliare gli eventi<br />
fortunosi con le forze della Natura. Sentendo avvicinarsi l’occasione propizia alla<br />
“conquista” del giovane fiorentino, la giovane riflette: «Idio ha mandato tempo a’<br />
miei disiri: se io nol prendo, per avventura simile a pezza non mi tornerà» (II, 3, 28).<br />
Ci sembra questo un ragionamento in consonanza con quello dell’abate<br />
coprotagonista della I, 4, che dice fra sé: «Questo caso non avverrà forse mai più: io<br />
estimo ch’egli sia gran senno a pigliersi del bene, quando Domenedio ne manda<br />
altrui» (I, 4, 16), e che ci autorizza addirittura a pensare che – paradossalmente – la<br />
ragazza ragiona come un abate, anche perché, nella finzione narrativa, il lettore<br />
ancora non sa di trovarsi davanti ad un travestimento, e fino a questo momento si è<br />
parlato semplicemente di un abate troppo giovane che va a Roma per ottenere una<br />
dispensa de defectu aetatis dal successore di Pietro! Davanti allo stupore di<br />
80
Allessandro, la donna si rivela per quello che è davvero, ma subito frena l’approccio<br />
del bel giovane (prestamente abbracciatala la voleva basciare (II, 3, 32)), facendogli<br />
presente la sua situazione di donna innamorata, che infrange il volere paterno<br />
decidendo nello stesso tempo di stabilire ella stessa chi debba essere il proprio<br />
sposo 48 . Come accade sovente a questi personaggi femminili animati da un<br />
particolare spirito di iniziativa, agli atti seguono le parole, che sono generalmente<br />
parole di saggezza o, quantomeno, espressione di un forte atteggiamento autoritario<br />
(come nel caso della castellana di Rinaldo d’Asti).<br />
Alle parole segue il rito di questo matrimonio “locandiero”, celebrato davanti ad una<br />
tavoletta dove Nostro Signore era effigiato (II, 3, 35), che culmina con la promessa<br />
solenne (gli si fece sposare (ibidem), in cui il fattitivo sembra sottolineare vieppiù la<br />
determinatezza della giovane) e, finalmente, con gli abbracci d’uopo. Una donna<br />
determinata, dunque, decisa a cogliere l’attimo fuggente, e per questo null’affatto<br />
intimorita dalla figura del Pontefice, cui rivolge un discorso dal quale sono bandite le<br />
formalità: questo discorso, che fa parte della serie di discorsi “femminili” di cui è a<br />
doppia trama intessuto il Decameron 49 , si basa su di una serie di topoi argomentativi,<br />
come quello del “vivere bene e onestamente” (II, 3, 37), della contrapposizione di<br />
una sposa giovane ad un “vecchissimo” marito (ibidem), della paura di contravvenire<br />
48 Una delle questioni sociali più interessanti, per l’atteggiamento mostrato da Boccaccio nel<br />
Decameron in più luoghi, è questa del “matrimonio naturale” e delle conseguenze che questo<br />
genere di scelta porta con sé: esempi paradigmatici sono da un lato la novella dell’Andreuola<br />
e di Gabriotto (IV, 6), per il fatto che si dichiara apertamente il carattere di “matrimonio<br />
segreto” dell’unione dei due, ma anche per la riflessione del padre della donna sulla<br />
possibilità di darle il marito che lei avrebbe desiderato; e dall’altro quella cosiddetta<br />
dell’usignuolo (V, 4), in cui le intenzioni di Messer Lizio paiono confortate da un progetto<br />
inconscio della figlia, se in quel “mettere in gabbia l’usignuolo” non vediamo soltanto il<br />
desiderio di appagare il giovanile desiderio dei giovani, ma quello di “chiudere” il loro<br />
legame entro un ben preciso ambito, come anche dimostrato dalla palesità del luogo degli<br />
appuntamenti amorosi, situato nella casa stessa dei genitori della giovane.<br />
49 Essi si differenziano per intensità, per stili o per argomenti, passando – per esempio – da<br />
questo della figlia del re d’Inghilterra alla completamente diversa perorazione di Alatiel (II,<br />
7), dal virilissimo discorso di Ghismonda (IV, 1) alle sciocche elucubrazioni di madonna<br />
Lisetta (IV, 2). Per uno studio puntuale della problematica della perorazione d’amore si<br />
rimanda allo studio di Vittorio Russo Perorazione d’amore da parte di «donne» e «femine»<br />
nel Decameron (1983:89-107) ed al capitolo da noi dedicato in questo saggio.<br />
81
alle leggi divine ed all’onore regale a causa di una tanto infelice unione (II, 3, 38), ed<br />
infine quello di mettere l’interlocutore davanti all’evidenza di quanto è già accaduto<br />
e, perciò, immutabile 50 (Lui ho adunque preso e lui voglio, né mai alcuno altro avrò,<br />
che che se ne debba parere al padre mio o a altrui (II, 3, 40); acciò che per voi il<br />
contratto matrimonio tra Alessandro e me solamente nella presenza di Dio io facessi<br />
aperto nella vostra (ibidem)). Al travestimento come contraffazione della propria<br />
identità, motivato dalla situazione di pericolo in cui la protagonista si trova, non si<br />
aggiunge la menzogna come contraffazione della verità: Boccaccio evita di regalare<br />
ai suoi lettori un’altra Isotta. Il discorso, che convince per la bellezza “naturale” delle<br />
sue argomentazioni, è però una vera e propria “dichiarazione di guerra” alle<br />
convenzioni sociali, ponendosi come pericoloso argomentare, se riferito alla figlia di<br />
un re, naturalmente sottoposta non soltanto allo jus paterno che dice di non voler<br />
accettare, ma anche a degli obblighi istituzionali che non possono essere messi da<br />
parte, e che con la loro inosservanza danno a questa novella tutto il sapore di una<br />
fiaba 51 . La personalità della giovane e futura regina di Scozia (secondo l’illazione<br />
contenuta in II, 3, 48) è comunque vivacissima, e fortemente contrasta con la<br />
passività di Alessandro e l’accondiscendente placidità del Pontefice: la<br />
determinazione a voler volgere gli eventi a proprio vantaggio trova fertile terreno<br />
nella capacità di affrontare con sincerità la situazione, senza perdere la testa (Molti<br />
sono li quali, semplicemente parlando, dicono che Amore trae altrui del senno e<br />
quasi chi ama fa divenire smemorato. Sciocca opinione mi pare: e assai le già dette<br />
50 Completamente diversi saranno gli atteggiamenti di Alatiel (II, 7) e di Alibech (III, 10), e<br />
valga comunque il proverbio in chiosa alla II, 7, secondo cui «Bocca basciata non perde<br />
ventura, anzi rinnuova come fa la luna» (122)<br />
51 Grandissimo è stato ed è ancora l’interesse verso questa tematica, di grande importanza<br />
per considerare anche in quest’ottica la storia della civiltà europea nel Medioevo: illuminanti<br />
rimangono le analisi di Bloch nella seconda parte della sua Società feudale (1982:323-362),<br />
la fortunata monografia di Duby sul matrimonio nella Francia feudale (Duby 1997) e quella<br />
su Amore e matrimonio (Duby 2002a), la terza parte – La famiglia – dello studio di Ariès su<br />
Padri e figli nell’Europa medievale e moderna (Ariès 1994:397-477), la monografia La<br />
famiglia nel Medioevo compilata da D. Herlihy (Herlihy:1999). È però nella Storia del<br />
matrimonio curata da De Giorgio - Klapisch-Zuber, che troviamo contributi più pertinenti<br />
alla situazione italiana (De Giorgio - Klapisch-Zuber 1996:5-148)<br />
82
cose l’hanno mostrato, e io ancora intendo di dimostrarlo. (VII, 6, 3)) e soprattutto<br />
considerando strategicamente il momento ed il luogo in cui la confessione<br />
dell’infrazione deve avvenire (ma più si maravigliarono li due cavalieri e sì si<br />
turbarono, che, se in altra parte che davanti al Papa stati fossero, avrebbono a<br />
Alessandro e forse alla donna fatta villania. (II, 3, 42)).<br />
La figlia del re d’Inghilterra, dunque, se da un lato esprime naturalmente l’autorità<br />
che le viene dai suoi natali illustri, in realtà dimostra il suo spirito d’iniziativa proprio<br />
in coincidenza con le situazioni di pericolo a cui è esposta. Il travestimento da abate<br />
deve celare la sua vera identità, ma non riesce a nascondere la sua forza d’animo e le<br />
caratteristiche spirituali della donna, che quindi si arricchisce di nuova nobiltà e<br />
nuova autorità, che sfociano nel discorso fatto al Pontefice.<br />
Madonna Fiordaliso<br />
Rari sono i mercanti che disdegnano le avventure amorose nel Decameron: uno di<br />
questi è Andreuccio da Perugia, che viene attirato dalla speranza di un amore<br />
“esotico” in casa della ciciliana bellissima, Madonna Fiordaliso: generazioni di<br />
critici sono rimaste affascinate da questa figura femminile cui davvero Boccaccio ha<br />
dedicato un ruolo fondamentale nella quinta novella della seconda giornata, e che<br />
occupa da dominatrice tutta la prima parte dell’azione 52 . Madonna Fiordaliso è<br />
innanzitutto, però, una prostituta 53 . Disposta per picciol pregio a compiacere a<br />
52 Per riassumere le tre linee più importanti di questa attenzione della critica a madonna<br />
Fiordaliso, ricorderemo l’attenzione dedicata da Croce alle capacità istrioniche di questa<br />
affascinante isolana, nella sua analisi della novella di Andreuccio (Croce 2001: 60-62); la<br />
lettura di Getto (1958:84-87) che ne accentua il carattere di donna avida, tutta tesa alla<br />
conquista dei denari del malcapitato perugino; l’analisi di Russo (1977:142-145) che si<br />
concentra sulla bellezza dell’incontro tra Fiordaliso e Andreuccio, un incontro che deve<br />
comunicare all’ospite sensazioni di fiducia, di familiarità.<br />
53 Una interessante analisi del fenomeno della prostituzione nel Medioevo è la monografia di<br />
J. Rossiaud, La prostituzione nel Medioevo (Rossiaud 1995), che chiarisce la funzione della<br />
prostituzione all’interno di una società complessa quale quella medievale, in cui i rapporti tra<br />
i giovani (soprattutto nelle città) sono vincolati da un regime di maggiore austerità proprio<br />
per la prospettiva del matrimonio: la frequentazione delle prostitute, secondo le forme più o<br />
meno organizzate di volta in volta presenti nelle diverse zone d’Europa e nei diversi periodi<br />
dell’età di mezzo, significava dunque una valvola di sfogo per la violenza ingenerata nei<br />
83
qualunque uomo (II, 5, 4), è la definizione sottile che Boccaccio ci offre, forse per<br />
differenziarla da altre donne – non prostitute – disposte per “gran pregio” a cedere le<br />
loro grazie (pensiamo alla moglie di Gasparruolo in VIII, 1, ma anche alle pretese,<br />
certo comprensibili in un ambito rurale perché meno uso al contatto con il denaro, di<br />
Monna Belcolore in VIII, 2), ma soprattutto, crediamo, per definire da subito la<br />
personalità ambigua di questa donna, che si serve della contraffazione – della propria<br />
identità e della verità – per soddisfare la sua bramosia di denaro. Infatti, il pensiero<br />
che segue è già rivelatore («Chi starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei?»<br />
(ibidem)) di ben più losche occupazioni di Madonna Fiordaliso (che addirittura, per<br />
causa del suo lenone, viene allusivamente accusata di operare sovente tali<br />
adescamenti – con un tragico finale –, in II, 5, 60), e per questo si pone<br />
immediatamente in contrasto con il sistema di valori boccacciano, che stigmatizza un<br />
vizio tanto contrario all’amore, quale è l’avarizia. Da questo punto di vista, la<br />
giovane siciliana perde la possibilità di muoversi sulla scena del racconto come<br />
figura reale, visto che la menzogna di cui si serve, non la obbliga a conquistare<br />
Andreuccio con la sua bellezza, con le sue grazie (come avverrà invece per<br />
Salabaetto nella novella-gemella di questa, VIII, 10). Anzi, per tutto quel denaro che<br />
gli sottrae, non è disposta neanche a concederglisi (altro che il piccol pregio<br />
dell’inizio!). Madonna Fiordaliso, che deve conquistare la fiducia di Andreuccio<br />
attraverso una serie di “prove” che sono altrettante espressioni di menzogna 54 , è<br />
maschi da severe regole di “astinenza”. La prostituta di cui parla Boccaccio è inquadrata in<br />
un ambiente di malavita (esiste un’allusione ai bassifondi napoletani in quel nome di<br />
Malpertugio, che poi Croce dimostrò non avesse in realtà il senso che Boccaccio le dava nel<br />
testo!), dal quale può entrare ed uscire a suo piacimento: non in tutte le città d’Europa,<br />
infatti, le prostitute erano obbligate a portare segni di distinzione (la proibizione di portare il<br />
velo come le donne oneste, oppure l’obbligo di apporre sul vestito un nastrino di colore<br />
vivace, un segno d’infamia) (Rossiaud 1995: 73-88), per cui non siamo sicuri che<br />
Andreuccio, per quanto ingenuo, non avrebbe saputo riconoscerla, in presenza di un segnale<br />
siffatto; se supponiamo però che quest’obbligo esisteva, il fatto che la donna abbia mandato<br />
una servetta ad “adescare” Andreuccio si potrebbe spiegare, oltre che con la proiezione<br />
dell’apparenza di avere a che fare con una gentildonna, anche con l’impossibilità di<br />
mostrarsi senza il segno distintivo!<br />
54 Queste prove-menzogne sono: l’invito ad Andreuccio, l’abbraccio e l’augurio (O<br />
Andreuccio mio, tu sii il ben venuto! (II, 5, 15)), le apparenze della camera della donna, il<br />
84
presente come “donna” solo “in effigie”, in quella frase pronunciata dalla fanticella,<br />
che tanto stimola la fantasia dell’inesperto cozzone perugino: «Messere, una gentil<br />
donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria volentieri» (II, 5, 10); e negli<br />
arredi, nei profumi della stanza che Andreuccio visita, ancora preso dall’emozione<br />
dell’avventura (in II, 5, 17), non presentendo la stonatura di quella frase breve eppure<br />
tanto efficace, tanto piena di intimità (come ricordò efficacemente il Russo) detta<br />
ancora una volta dalla fanticella: «Ecco Andreuccio» (II, 5, 14). Una volta svoltasi<br />
l’agnizione architettata dalla donna, anche queste piacevoli aspettative cadono, e di<br />
Fiordaliso non ci rimane che l’immagine di una buona padrona di casa, che si<br />
preoccupa per il suo ospite, che non vuole farlo andare in giro per una città<br />
pericolosa di notte, che gli pone qualcuno accanto, nel caso abbia bisogno di aiuto:<br />
dov’è finita la ciciliana bellissima? Alla giovane ed affascinante cortigiana si è<br />
sostituita la figura – fittizia – della sorella che con un atteggiamento materno<br />
accudisce il fratello appena ritrovato, organizza il pranzo, dirige una casa non<br />
lussuosa ma probabilmente ricca. Con l’autorità che emana dalla sua recitazione, con<br />
l’auctoritas dei fatti che racconta ad Andreuccio, e che rispondono in parte a verità,<br />
madonna Fiordaliso riesce a dirigere il corso degli eventi ed a predisporre l’animo<br />
del giovane perugino alla fiducia illimitata.<br />
Ella torna a rivelarsi nel momento in cui la caduta di Andreuccio fa accorrere da lei il<br />
giovinetto: riappare la donna avida, in preda ad una fretta ingiustificata (dato che<br />
Andreuccio è ormai “fuori gioco”), che Boccaccio sottolinea con una frase piena di<br />
termini densi di “velocità”: corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni<br />
v’erano (II, 5, 40). E noi vediamo tutta l’impazienza, quasi infantile, di toccare quel<br />
denaro, di sentirne il peso, di vederne gli aurei riflessi. Con questa immagine si<br />
congeda dal lettore una personalità femminile che indirizza lo spirito di iniziativa e la<br />
discorso di agnizione, l’invito a cena, il messaggio ai conoscenti di Andreuccio, la<br />
preoccupata esortazione a non aggirarsi per Napoli di notte. La contraffazione di parole,<br />
gesti, oggetti, luoghi (credendosi in uno onestissimo luogo andare e a una cara donna (II, 5,<br />
14) è il pensiero di Andreuccio nel percorrere le vie di quella contrada del Malpertugio!),<br />
abitudini familiari, rappresenta lo strumento che madonna Fiordaliso ha a disposizione per<br />
deviare il corso della propria fortuna, influendo naturalmente su quella del povero cozzone<br />
umbro.<br />
85
prontezza della reazione verbale agli scopi che Boccaccio meno condivide (madonna<br />
Fiordaliso è “costretta” da una pulsione della propria natura, eccezionalmente non<br />
carnale: il passaggio ad un altro genere di desiderio sembra però indotto dal fatto che<br />
la sua condizione di prostituta introduce nella narrazione soltanto l’amore di tipo<br />
utilitario, venale, se non addirittura per causa di una propensione a confondere il<br />
piacere fisico, anche se illecito o immorale, con quello dell’arricchimento, anche se<br />
illecito o immorale, appunto). Il testo stesso, nella esclamazione stupefatta e delusa<br />
di Andreuccio, ci consegna tutto il carattere effimero di questa parentela siciliana: ma<br />
se pur son sì fatti i parentadi di Cicilia, che in sì piccol termine di dimentichino... (II,<br />
5, 46).<br />
Madonna Filippa, la riformatrice<br />
La novella narrata da Filostrato nel corso della VI giornata ci presenta la pronta e<br />
piacevol risposta data da madonna Filippa al podestà di Prato: accusata di adulterio,<br />
la donna dovrebbe esser condannata alla pena capitale, secondo quanto stabilito dallo<br />
statuto pratese, ma riesce a scagionarsi argomentando in maniera tale da riuscire<br />
addirittura a modificare lo statuto stesso. La rubrica della novella pare sminuire la<br />
grande tensione che è sottesa allo svolgersi dell’azione, visto che si concentra tutta<br />
sulla prontezza e piacevolezza della risposta 55 . Se però spostiamo la nostra ottica<br />
sull’episodio in se stesso, e sulla figura di madonna Filippa, vedremo chiaramente<br />
quanto più complessa possa essere la lettura di questa unità narrativa, per la<br />
caratterizzazione della protagonista, che istintivamente collocheremo nel paradigma<br />
magistralmente adottato per Ghismunda dal Boccaccio. I casi tragici d’amore della<br />
quarta giornata prevedono una punizione comminata soprattutto ai protagonisti<br />
maschili delle relazioni amorose (Guiscardo, Lorenzo, Guglielmo, mentre le loro<br />
amanti scelgono volontariamente di immolarsi, nonostante la comunità decida di non<br />
55 La rubrica della novella ha una struttura che procede per opposizioni binarie ( 1) dal<br />
marito – un suo amante, 2) trovata – chiamata in giudicio, 3) sé libera – fa lo statuto<br />
modificare) e sembra preannunciare una narrazione assai rapida nella sua schematicità, in cui<br />
alla “scoperta” del marito succede un “processo per direttissima”, che addirittura porta ad<br />
una riforma costituzionale, nel giro di meno di venti capoversi!<br />
86
punirle direttamente), mentre in questa novella è la comunità – indirettamente, in<br />
quanto rappresentata da uno statuto – a scagliarsi contro l’adultera. La tensione cui<br />
abbiamo accennato è introdotta dal cenno di storia giuridica che il Boccaccio usa nel<br />
principio del narrare:<br />
Nella terra di Prato fu già uno statuto, nel vero non men biasimevole che<br />
aspro, il quale senza alcuna distinzion far comandava che così fosse arsa<br />
quella donna che del marito fosse con alcun suo amante trovata in<br />
adulterio, come quella che per denari con qualunque altro uomo stata<br />
trovata fosse. (VI, 7, 4)<br />
L’adulterio dunque, aggravato dalla flagranza, viene posto sullo stesso piano della<br />
prostituzione, anche nella possibilità di sfuggire proditoriamente alla pena mediante<br />
la fuga e, quindi, abbracciando una forma indiretta di esilio volontario (di voler più<br />
tosto, la verità confessando, con forte animo morire che, vilmente fuggendo, per<br />
contumacia in essilio vivere... (VI, 7, 9)): madonna Filippa accetta le conseguenze<br />
del suo atto, ma proprio nella decisione di comparire davanti al magistrato afferma la<br />
diversa qualità del suo rapporto amoroso rispetto all’amore mercenario. Ciò si nota<br />
nella scena composta dal Boccaccio per descrivere l’ingresso dell’accusata nel<br />
palazzo del podestà, dove ella si reca assai bene accompagnata di donne e d’uomini,<br />
da tutti confortata al negare: persino il podestà, che deve far rispettare la legge che<br />
rappresenta, cominciò di lei a aver compassione (VI, 7, 11)!<br />
Con un atteggiamento di fermezza simile a quello di Ghismonda, madonna Filippa<br />
comincia il suo discorso di difesa senza sbigottire punto, con voce assai piacevole, e<br />
si richiama, come aveva fatto la figlia di Tancredi, ad una serie di diritti umani,<br />
naturali e biologici (l’espressione di questi ultimi continua in qualche modo la<br />
considerazione “scandalizzata” di Masetto: Madonna, io ho inteso che un gallo<br />
basta assai bene a diece galline, ma che diece uomini posson male o con fatica una<br />
femina soddisfare... (III, 1, 37)):<br />
87
1)... le leggi deono esser comuni e fatte con consentimento di coloro a<br />
cui toccano.<br />
2) Le quali cose di questa non avvengono, ché essa solamente le donne<br />
tapinelle costrigne, le quali molto meglio che gli uomini potrebbero a<br />
molti soddisfare;<br />
3) e oltre a questo, non che alcuna donna, quando fatta fu, ci prestasse<br />
consentimento,<br />
4) ma niuna ce ne fu mai chiamata... (VI, 7, 14)<br />
Il discorso della donna incriminata è diretto a dimostrare l’illegittimità delle leggi<br />
fatte dagli uomini, così come Ghismonda aveva giustificato con il principio di<br />
uguaglianza degli uomini il suo legame con Guiscardo, a lei inferiore di lignaggio:<br />
l’infondatezza del principio legale dello statuto adultericida viene confermata dal<br />
giudizio morale sulla legge (malvagia si può chiamare), sull’esecutore di questa (E<br />
se voi volete, in pregiudicio del mio corpo e della vostra anima, esser di quella<br />
essecutore, a voi sta...) ed infine sulla situazione generale delle “donne innamorate”,<br />
a cui si era accennato nell’argomentazione 2), per cui la concessione di sé, dunque<br />
l’essere consenzienti ai doveri coniugali, può essere quantificata ma non mercificata.<br />
Nella difesa della donna di fronte all’imputazione si nota subito come la reazione<br />
verbale voglia richiamare gli astanti alla qualità peculiare del corpo femminile: la<br />
forza espressiva di quel debbolo io gittare a’ cani?, che richiama le parole<br />
dell’Evangelo di Matteo, nega chiaramente che il corpo di madonna Filippa, in<br />
quanto donna rispettosa del legame matrimoniale, sia considerato meno prezioso per<br />
il fatto che ella lo doni liberamente ad un gentile uomo che più che sé m’ama! In IV,<br />
9 la moglie di Guiglielmo di Rossiglione si era appellata al diritto coniugale nel<br />
senso della responsabilità di chi sceglie liberamente di donare a qualcuno un corpo<br />
che non è più proprio, ma appartiene al consorte, mentre in questa novella l’ottica<br />
giuridica si ampia ed apre, a tutto vantaggio di madonna Filippa – e poi delle donne<br />
pratesi in generale – un capitolo nuovo nella considerazione dei rapporti<br />
extraconiugali, richiamandosi proprio ad un ideale dell’amor cortese, sottolineato in<br />
88
quell’amare più di sé stessi che riecheggia il servigio d’amore e la diversa qualità<br />
della relazione extraconiugale rispetto a quella matrimoniale (ma nel caso di<br />
Federigo degli Alberighi madonna Giovanna non sarà di questo parere!).<br />
Ginevra<br />
Ha un nome di ormai classica diffusione, nel Trecento, la protagonista della nona<br />
novella della seconda giornata, novella che pone al centro del proprio nucleo<br />
narrativo il travestimento, per dipanare le maglie della complicata situazione in cui la<br />
protagonista viene a trovarsi. 56 Prima che Ginevra/Zinevra appaia, come sovente<br />
succede per la presentazione delle figure femminili, ne vengono descritte le qualità:<br />
una donna perfetta, dotata persino delle virtù che competerebbero all’altro sesso (la<br />
più compiuta di tutte quelle virtù che donna o ancora cavaliere in gran parte o<br />
donzello dee avere (II, 9, 8)), come anche di abilità tutte maschili (la commendò<br />
meglio saper cavalcare un cavallo, tenere uno uccello, leggere e scrivere e fare una<br />
ragione che se un mercatante fosse (II, 9, 10). Il discorso di Bernabò, pur se limitato<br />
alla persona della sua consorte, è entusiasta di questo primato, e si oppone<br />
radicalmente a quello di Ambrogiuolo, che sulla base del pregiudizio fondato sulla<br />
lettura capziosa della Scrittura, nega la perfezione alla donna, riservandola all’uomo.<br />
Riuscito l’inganno di Ambrogiuolo, Bernabò è convinto di essere stato tradito da sua<br />
moglie, e davanti a questa delusione invia un suo servo ad ucciderla: il dialogo –<br />
56 A proposito della soluzione di questa situazione, ricorderemo due chiavi di lettura<br />
particolarmente interessanti: Bruni propone un interessante accostamento per via<br />
differenziale tra la novella di Alatiel e questa di Bernabò e Ginevra: In una scala che<br />
misurasse la reazione dei personaggi ai casi della fortuna, madonna Zinevra occuperebbe<br />
l’estremità opposta a quella di Alatiel. (...) Tale è la differenza di comportamento, che<br />
mentre Alatiel si salva accentuando la sua caratteristica di animale erotico, madonna<br />
Zinevra si taglia i capelli, indossa abiti maschili e, «trasformatasi tutta in forma d’un<br />
marinaro» diventa «Sicuran da Finale» e s’imbarca su una nave catalana. (1999:268-269);<br />
la differenza sta anche nella capacità di saper usare il mezzo linguistico, visto che Alatiel è<br />
muta e sorda nell’ambiente che le è estraneo, e Zinevra riesce a muoversi perfettamente, pur<br />
da cristiana, alle dipendenze del sultano. Un’altra lettura della novella, quella di Petrini,<br />
tende piuttosto a mettere in luce gli elementi fiabeschi di essa, smontando quanto costruito<br />
dall’analisi di Almansi che si serviva della prospettiva di un personaggio donna-uomo,<br />
proiettandola nel comportamento maschile-mercantile (in Petrini 1986:37-50)<br />
89
ambientato in un vallone molto profondo e solitario e chiuso d’alte grotte e d’alberi<br />
(II, 9, 36) – tra il servo e madama Zinevra ha di per sé un tono inverosimile, in<br />
quell’avvertimento che il domestico, sicuramente intimorito da quanto ha da<br />
compiere, e dalla donna stessa, prima lancia come “buon cristiano” (Madonna,<br />
raccomandate l’anima vostra a Dio (II, 9, 36)), poi complica rispondendo alla<br />
richiesta di chiarimenti da parte della sua vittima, soprattutto contraddicendosi<br />
nell’argomentazione relativa al necesse est: il padrone lo ha infatti minacciato di<br />
farlo impiccare per la gola, nel caso non esegua quanto ha comandato, eppure il<br />
servo lo fa perché: Voi sapete bene quanto io gli son tenuto e come io di cosa che<br />
egli m’imponga possa dir di no: sallo Idio che di voi m’incresce ma io non posso<br />
altro. (II, 9, 38) Di fronte all’indecisione manifestata dal familiare, Ginevra dimostra<br />
– pur con un po’ di paura in principio – di avere i nervi saldi: possiede davvero le<br />
virtù che il marito le attribuiva, e può escogitare subito un primo tentativo di salvare<br />
la pelle, dando a credere a Bernabò di esser morta. Priva della sua identità effettiva,<br />
Ginevra deve cambiarsi d’abito, tagliarsi i capelli e, quel che è più importante,<br />
cambiare nome e stile di vita: diventa un marinaio, simboleggiando con questo la<br />
volontà di partire dal “suolo patrio” per cercare altri luoghi dove nascondere la<br />
propria identità. La contraffazione di ogni livello di identità (il sesso, il nome, lo stile<br />
di vita, gli abiti) è funzionale all’incontro con Ambrogiuolo ed all’occasione di poter<br />
apprendere direttamente da questo le ragioni dell’ira di Bernabò; una coincidenza<br />
vuole poi che di fronte al sultano si venga a trovare, oltre a Ginevra ed Ambrogiuolo,<br />
anche Bernabò. È in questa occasione che Ginevra, nei panni di Sicurano, riesce a<br />
sfruttare la sua doppia identità per chiarire davanti all’autorità di un regnante l’errore<br />
alla base della persecuzione che l’aveva colpita: ancora una volta la determinazione<br />
femminile prende il sopravvento sulla passività dei due uomini, protagonisti attivi<br />
della “scommessa” ed ora chiaramente sottoposti all’autorità di Zinevra.<br />
La quale, per dimostrare quanto ha da dire, compie un gesto plateale (stracciando i<br />
panni dinanzi e mostrando il petto (II, 9, 69)) che pure ha un senso di ciclicità, se era<br />
stato quel neo sotto la mammella sinistra a confortare Bernabò nel sospetto del<br />
tradimento. Il travestimento, contraffazione di tutti i segni di riconoscimento<br />
90
dell’individuo, si pone in questo caso in una direzione obbligatoria, se è vero che<br />
Zinevra possiede già quelle doti maschili che le permetteranno di passare<br />
inosservata: non sono però soltanto le virtù fisiche, diremmo sportive, a<br />
contrassegnare il periodo “maschile” di Zinevra, se è vero che il sultano vede in<br />
Sicurano da Finale un uomo adatto al comando e lo destina alla gestione della<br />
sicurezza del commercio in Acri. Il comportamento autoritario e l’attitudine al<br />
comando, al governo esemplare, caratterizzano anche altre protagoniste del<br />
Decameron, come Griselda o Giletta di Nerbona, ed in qualche modo costituiscono<br />
un contrassegno morale che le oppone all’ingiusto trattamento che viene riservato<br />
loro dai mariti, ma mentre in Griselda non vediamo che l’accettazione rassegnata e<br />
passiva dei voleri maritali, in Zinevra lo spirito di iniziativa, unito alla capacità di<br />
accettare i compromessi strettamente legati all’emergenza delle situazioni, risulta<br />
virtù in grado di capovolgere persino la gerarchia delle autorità familiari (Bernabò,<br />
una volta riconosciuta Zinevra, le si getta ai piedi e le chiede perdono, e ci sembra<br />
che questa umiliazione non corrisponda alle moderate scuse addotte dal marchese di<br />
Salluzzo a Griselda).<br />
La moglie insoddisfatta<br />
In un rapporto di stretta continuità con la novella di madonna Zinevra sta l’ultima<br />
novella della seconda giornata: Bartolomea Gualandi, moglie di Ricciardo di<br />
Chinzica, viene rapita dal corsaro Paganino di Monaco, e decide di restare con<br />
quest’ultimo, rifiutando di tornare con il legittimo marito. Se la terza novella della<br />
stessa giornata aveva sollevato il problema dei pericoli morali che sono sempre in<br />
agguato là, dove la coppia non è abbastanza affiatata, dove troppi sono gli anni di<br />
differenza tra marito e moglie, questo racconto, che parte dalla manifestazione da<br />
parte di Dioneo di tutto il suo scetticismo nei confronti della castità delle mogli –<br />
specialmente di fronte alle malefatte dei mariti –, vuole ribaltare quanto messo in<br />
91
opera dallo smascheramento operato da Zinevra 57 , incentrando la vicenda<br />
sull’incapacità di un giudice ad ottemperare agli obblighi matrimoniali 58 .<br />
L’accorgimento utilizzato da messer Ricciardo per allontanare la “minaccia”<br />
dell’amplesso, è quello di una strenua osservazione dell’astinenza sessuale, imposta<br />
nei dì festivi, e dunque estesa a pressoché tutti i giorni dell’anno: Bartolomea, delusa<br />
e “malinconosa”, la scorgiamo appena, sorvegliata del resto dal marito, gelosissimo,<br />
affinché nessun altro le ‘nsegnasse conoscere li dì da lavorare, come egli l’aveva<br />
insegnate le feste (II, 10, 10). Ed anche il giorno del suo rapimento, non è che una<br />
donna in mezzo ad altre (come per Alatiel al momento del naufragio), ma viene<br />
subito notata da Paganino, che la prende su e la porta via con sé: la situazione si<br />
capovolge, la donna non deve “combattere” la fortuna, ma adattarsi (e per sì fatta<br />
maniera la racconsolò, che, prima che a Monaco giugnessero, e il giudice e le sue<br />
leggi le furono uscite di mente (II, 10, 16)), come aveva fatto la bella Alatiel (la<br />
cominciò per sì fatta maniera a consolare, che ella, già con lui dimesticatasi,<br />
Pericone dimenticato avea (II, 7, 37)). Data la situazione di partenza, la donna non<br />
deve adeguarsi alle vicende avventurose di altre eroine della stessa giornata, non è<br />
costretta a travestirsi o a menomare la propria integrità espressiva: finalmente libera<br />
di vivere intensamente le gioie dell’alcova, si vendica dell’astinenza voluta dal<br />
marito – per legge – legittimo, enumerandogli i vantaggi della sua nuova vita. È il<br />
marito, adesso, ad appellarsi alla “questione morale”, con una non troppo convinta<br />
arringa nei confronti della moglie fedifraga e recidiva: Deh, anima mia dolce, che<br />
parole son quelle che tu di’? or non hai tu riguardo all’onore de’ parenti tuoi e al<br />
tuo? vuoi tu innanzi star qui per bagascia di costui e in peccato mortale, che a Pisa<br />
mia moglie? (II, 10, 35). Se Bartolomea decide comunque di restare accanto al suo<br />
57 ...tutto il discorso femminile, nella sequenza conclusiva della novella, giunge a demolire<br />
un inganno che in una prassi solo verbale si è perpetrato ed ha quindi trovato riconferma.<br />
(Grimaldi 1987:39)<br />
58 Anche questo è un tema di particolare frequenza nel Decameron (si veda la novella di frate<br />
Puccio, III, 4; o quella di Pietro di Vinciolo, V, 10), probabilmente non solo per i risvolti<br />
umoristici degli argomenti che toccano la sfera del rapporto sessuale (pensiamo alla novella<br />
di Calandrino pregno!), ma anche per una diversa “lettura” delle aspettative delle donne sotto<br />
questo punto di vista, anche secondo quanto è argomentato da madonna Filippa in VI, 7.<br />
92
apitore, compie un atto altrettanto coraggioso quanto quello compiuto dalla figlia<br />
del re d’Inghilterra in II, 3 (pur con il fare scherzoso che gli è proprio, Dioneo<br />
sollecita la discussione su di un tema scottante, che di volta in volta tornerà<br />
nell’opera proprio in sede delle discussioni sulla possibilità di amare delle donne,<br />
secondo il loro arbitrio). La moglie di messer Ricciardo, prendendo quella decisione,<br />
attribuisce dunque maggiore importanza alle leggi della natura, che alle convenzioni<br />
sociali. In conseguenza della propria opinione su di un diritto non sempre<br />
inequivocabilmente espresso, ella deve controargomentare alle richieste di Riccardo<br />
di Chinzica forzando su quanto può riuscire umiliante nei confronti del marito 59 .<br />
Le suore e l’ortolano<br />
La prima novella della terza giornata ripropone il motivo della privazione della<br />
parola che, come abbiamo visto in altra sede, ha una valenza che va ben oltre<br />
l’esigenza dei meccanismi narrativi: la situazione vissuta da Masetto da<br />
Lamporecchio ha inoltre una somiglianza formidabile con quella della giovane<br />
contadina in I, 4, in quanto l’introdursi dell’elemento estraneo e turbatore nel<br />
convento è in ambedue le novelle caratterizzato dal silenzio – indice di passività e<br />
accondiscendenza – di questo elemento stesso. Nella novella raccontata da Filostrato,<br />
però, il “rapporto di forza” è invertito rispetto alla I, 4: trovandoci in un convento di<br />
monache, saranno queste ad “abusare” dell’intruso, ed il gioco di “seduzione<br />
gerarchica” si spingerà allo stesso modo fino al vertice dell’istituzione, cioè fino alla<br />
badessa.<br />
A scoprire le virtù nascoste dell’ortolano saranno due giovinette monache: nel loro<br />
dialogo di impressionante vivacità, Boccaccio ci consegna la descrizione addirittura<br />
commovente di due adolescenti che muovono i primi passi nel mondo sconosciuto<br />
del piacere carnale. Il dialogo comincia con il tono “congiuratorio” dei fanciulli (Se<br />
io credessi che tu mi tenessi credenza..., Dì sicuramente, ché per certo io nol dirò<br />
mai a persona) per approdare al tono iperbolico della descrizione del piacere causato<br />
59 In un altro capitolo di questo saggio tratteremo con maggiore dovizia di particolari la<br />
speciale “perorazione” di madonna Bartolomea.<br />
93
dall’unione dei corpi: tutte l’altre dolcezze del mondo sono una beffa a rispetto di<br />
quella quando la femina usa con l’uomo. Le attrattive del gioco di seduzione che la<br />
monaca più spregiudicata (la baldanzosa) propone alla sua compagna, riescono a<br />
vincere ogni resistenza ed ogni paura di ordine morale o biologico: la seduzione vera<br />
e propria, però, è molteplice, in quanto viene esercitata dalla monaca baldanzosa nei<br />
confronti della sua compagna, ma anche dalla presenza stessa di Masetto, che per la<br />
sua condizione di mutismo diviene un seduttore sedotto, lasciando completamente<br />
l’iniziativa alle giovani religiose e tollerando di veder capovolto il suo ruolo pur di<br />
ottenere quanto si era prefisso in principio. Una volta avvenute le seduzioni<br />
successive, si insiste soprattutto sulla insaziabilità delle monache e – soprattutto –<br />
della badessa: la libido scatenata di queste religiose non si riferisce soltanto ad una<br />
critica della smoderatezza di determinati ambienti conventuali, ma – temiamo – ad<br />
una generale disposizione della donna, che sente più intensamente il richiamo dei<br />
sensi, tanto da giungere talvolta a contravvenire, a causa di ciò, a basilari regole<br />
sociali 60 (non stupisce dunque che con Masetto si ritorni alla similitudine già<br />
presente in I, 5 delle galline e dei galli, che completa la caratterizzazione “rustica”<br />
della novella avviata dalla figurazione equivoca dell’orto e dello zappare). La<br />
caratterizzazione parallela delle monache che per prime seducono Masetto, e della<br />
badessa che alla fine della novella non riesce ad imporsi con l’autorità dovuta<br />
all’ortolano ormai spossato dalle richieste sempre più impegnative delle religiose, ci<br />
pone di fronte al confronto tra il giovane monaco e l’abate in I, 4, che pure si fonda<br />
sul maggiore spirito di iniziativa di alcuni, piuttosto che di altri, nei piaceri della<br />
carne. Anche nel caso delle giovani religiose che seducono Masetto, tutto avviene<br />
conformemente ai desideri di chi in quel momento detiene il potere verbale.<br />
60 Esemplare appunto il caso di Bartolomea Gualandi che preferisce restare con il pirata che<br />
l’ha rapita, piuttosto che tornare con il marito che non onora i doveri coniugali (II, 10),<br />
oppure quello di Alibech, che crede inesauribili le forze del suo ospite (III, 10), o Madonna<br />
Filippa che addirittura quantifica il piacere (VI, 7), e così via.<br />
94
Giletta di Nerbona<br />
Anticipazione della ultima novella del Decameron, quella della troppo paziente<br />
Griselda, e parallelo tematico degli eventi contenuti nella novella di Tedaldo degli<br />
Elisei 61 , la novella di Giletta di Nerbona presenta una delle più complesse figure<br />
femminili dell’opera. Donna sapiente ed animata da una inestinguibile passione<br />
amorosa per un uomo di lignaggio superiore, Giletta mostra subito il suo valore<br />
guarendo il re di Francia ed inserendosi nell’atmosfera favolosa del prodigio e della<br />
ricompensa straordinaria che all’apparire di esso gratifica chi il prodigio opera: come<br />
accade al principio della novella di Alatiel, il sovrano esprime la propria<br />
riconoscenza “privandosi” di un elemento della famiglia regale, anche al fine di<br />
meglio stringere il suo rapporto di confidenza con la persona cui è obbligato; ma<br />
Giletta previene la consuetudine, esprimendo il desiderio di un marito tale quale io il<br />
vi domanderò, senza dovervi domandare alcun de’ vostri figliuoli o della casa reale<br />
(III, 9, 16). La richiesta esprime da un lato la fedeltà della giovane all’uomo da lei<br />
amato, dall’altro la volontà di non offendere il proprio re, eppure Giletta – in virtù<br />
del prodigio che sente di poter operare – non prende in considerazione la differenza<br />
di lignaggio tra sé e Beltramo. Questa differenza crea un insopportabile muro di<br />
indifferenza tra i due coniugi, per superare il quale Giletta dovrà affrontare delle<br />
prove impossibili: la prima si inserisce perfettamente nel topos della castellana che<br />
sostituisce il marito assente (come abbiamo visto per la marchesana del Monferrato),<br />
e consiste nel rimettere in sesto la contea di Beltramo, cosa che le guadagna il favore<br />
dei sudditi. Di fronte a questa prima prova di eccellenza, spirito di iniziativa e<br />
predisposizione al comando, Beltramo propone una condizione impossibile al<br />
ritorno, con la chiara intenzione di negare la possibilità che esso avvenga 62 : io per me<br />
61 La dimensione fantastica, anzi favolistica di questa novella, le riserva un posto particolare<br />
nella raccolta boccacciana, come hanno sottolineato Petrini e Branca (1996:200 n.): per<br />
quanto riguarda la sua struttura generale, bisogna sottolineare - come ha ricordato Baratto –<br />
che in questa novella esiste una inversione di tendenza rispetto alla III, 7, di cui appare<br />
diretta discendente per impianto, in quanto la tensione avventurosa non intellettualizza la<br />
passione della protagonista, ma si piega al suo tenace temperamento (1986:143).<br />
62 La richiesta impossibile assumerà carattere davvero iperbolico nella novella di madonna<br />
Dianora.<br />
95
vi tornerò allora a esser con lei che ella questo anello avrà in dito e in braccio<br />
figliuolo di me acquistato (III, 9, 30). Giungiamo in tal modo al vero nucleo tematico<br />
della novella, quello in cui avviene la seduzione, argomento – a nostro parere –<br />
trainante di tutta la terza giornata: con un espediente simile a quello che aveva fatto<br />
cadere Catella nella trappola orditale da Ricciardo Minutolo (III, 6), Giletta procura<br />
di sostituirsi alla donna che suo marito ama, dopo averlo fatto convincere che costei<br />
gli si concederà solo potendo ottenere quell’anello che Beltramo aveva così<br />
maliziosamente inserito nella sua impossibile richiesta.<br />
A consolidare l’autorità di Giletta nell’ottica di una “solidarietà” tutta femminile,<br />
Boccaccio reintroduce il motivo del dialogo tra donne, quando Giletta conversa con<br />
la madre della giovane desiderata da Beltramo, e si avverte negli atteggiamenti e<br />
nelle parole la volontà di un comune intento, che si stabilisce tra le due interlocutrici.<br />
La tenace volontà della contessa appare ben giustapposta all’umiltà ed alla modestia<br />
che spirano dai discorsi della povera donna: le virtù femminili, portate ad un grado di<br />
eccezionalità non troppo frequente nel Decameron, si manifestano in uno spettro<br />
ampio e quantomai vario, che tende in questo caso ad esaltare la costanza, la<br />
perseveranza in un atteggiamento che si conosce giusto, ma che oppone agli attori<br />
degli eventi, difficoltà apparentemente impossibili da sormontare. È così che,<br />
mediante un espediente altrimenti utilizzato per ingannare una donna non<br />
consenziente ad un amore adulterino, viene concesso a Giletta di portare a<br />
compimento la ricongiunzione con il suo legittimo consorte!<br />
In Giletta viene esaltato soprattutto il carattere nobilmente autoritario (nel corso della<br />
narrazione è quasi sempre nominata la contessa, soltanto all’inizio incontriamo il suo<br />
nome di battesimo) e la strenua volontà di reagire agli eventi a costo di qualsiasi<br />
compromesso. Questa volontà si manifesta, naturalmente, nel discorso finale tenuto<br />
al conte, che rappresenta l’umiliazione dell’autorità dispotica del marito. Inoltre, le<br />
parole che Giletta usa per definirsi (Signor mio, io sono la tua sventurata sposa, la<br />
quale, per lasciar te tornare e stare in casa tua, lungamente andata son tapinando<br />
(III, 9, 58)) sono quasi una ripetizione delle parole dette da Ginevra a Bernabò<br />
(Signor mio, io sono la misera sventurata Zinevra, sei anni andata tapinando (II, 9,<br />
96
68)) ed esprimono – nel parallelo tra le due novelle – una comunanza di intenti che<br />
chiaramente riconosciamo nell’agire delle due donne, che infine altro non desiderano<br />
che di ricongiungersi al legittimo consorte: questa intenzione viene sancita<br />
verbalmente dalla citazione della sventura e da quella delle peripezie, ma soprattutto<br />
dallo spirito di rivincita che si ritrova chiaramente in ambedue le protagoniste (con<br />
un risvolto tragico per l’ingannatore Ambrogiolo, che viene orribilmente fatto<br />
suppliziare).<br />
97
Il gesto esemplare<br />
Tra le tipologie femminili del Decameron troviamo alcune figure investite di valore<br />
esemplare nel fatto di compiere un gesto, un atto, con cui riescono a dare una svolta<br />
– nel bene o nel male – alla vicenda di cui sono protagoniste o, in taluni casi, vittime.<br />
Andreuola: sogno ed azione<br />
La protagonista della sesta novella della quarta giornata sembra continuare il<br />
“modello” inaugurato da Ghismonda e Lisabetta: anche qui l’amore diviene<br />
“tragico” 63 ancora quando non è inquadrato in una cornice di legalità, di legittimità,<br />
visto che l’Andreuola sceglie Gabriotto per marito, e la loro unione si svolge secondo<br />
un rituale non pubblico (come era successo in II, 3, prima che il Papa stesso<br />
benedicesse l’unione della figlia del re d’Inghilterra con Allessandro): acciò che<br />
niuna cagione mai, se non morte, potesse questo lor dilettevole amor separare,<br />
marito e moglie segretamente divennero. (IV, 6, 9) Il padre, simbolo della famiglia<br />
generalmente contraria a questo genere di unione, non appare però che alla fine della<br />
novella, e con una presenza davvero “illuminante”, se la confrontiamo con le azioni<br />
poco degne compiute da Tancredi e dai fratelli di Lisabetta: come sarà poi per la<br />
novella-specchio di questa, la settima della stessa giornata, anche in questo caso la<br />
storia dei due amanti si pone in contrasto con la generica posizione giuridica della<br />
collettività nei confronti di un delitto, perpetrato contro un uomo da una donna<br />
(logica prosecuzione di quanto presagito nella novella di Andreuccio, questo casus<br />
sembra un archetipo dettato da una sorta di superstizione arcana, quella del delitto<br />
che reitera l’inganno perpetrato da Eva nei confronti di Adamo) e quindi letto sotto la<br />
luce della seduzione che mira a privare l’uomo della sua facoltà di reagire, che lo<br />
63 Facciamo nostra l’affermazione di Getto a proposito della continuità tra il sogno della<br />
novella di Lisabetta ed il motivo del sogno che domina in questa dell’Andreuola e di<br />
Gabriotto: più che la fenomenologia del sogno, interessa la fenomenologia dell’azione dal<br />
sogno determinata; più che l’arabesco di immagini del sogno, importa il rapporto fra il<br />
sogno e l’azione: l’inserirsi del sogno nell’esistenza (...), o quale premonizione di un evento.<br />
(Getto 1958:131)<br />
98
ende vittima della donna capace – con il suo fascino diabolico – di superare le difese<br />
della forza fisica e della forza di volontà, per impadronirsi della sua volontà. Il<br />
doppio sogno contenuto nella novella sollecita la fantasia del lettore innanzitutto<br />
nella aderenza del messaggio di esso a forme che mutano a seconda del soggetto cui<br />
il sogno si dirige: la donna sogna un atto d’amore, in cui si inserisce una presenza<br />
estranea, una cosa oscura e terribile (IV, 6, 10), in cui potremmo riconoscere tanto<br />
semplicemente la morte – come tale –, quanto l’ombra minacciosa della peste, che si<br />
stende in più di una novella del Decameron, ben oltre la cornice, quanto il peccato<br />
stesso, che generalmente è cosa oscura (in quanto si insinua in noi e non riusciamo a<br />
distinguerla se non in presenza della luce della fede, della rivelazione) e terribile (per<br />
le sue conseguenze) e che punisce privando la peccatrice dell’amato bene,<br />
costringendola – implicitamente, e con il senno di poi del lettore, che conosce la fine<br />
della novella – ad espiare nella maniera più completa, entrando al servizio di Dio.<br />
L’uomo, invece, dando ascolto a quanto affermato già nel Proemio, per cui gli<br />
uomini, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi<br />
da alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca<br />
l‘andare a torno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare... (Pr. 12),<br />
sogna l’attività che meglio gli si addice, quella venatoria, esercitata contro un<br />
animale nobile, la capriola, cui subentra, nella visione, la veltra nera, a caccia, a sua<br />
volta, del cuore di Gabriotto: due animali «femminili», il primo evidente simbolo<br />
dell’attrazione esercitata dalla bellezza femminile, il secondo altrettanto evidente<br />
simbolo della – supposta – vera natura di essa, che dapprima imprigiona l’uomo con<br />
il suo fascino, poi cerca di strapparne il cuore, per ripetere sacrilegamente l'atto di<br />
creazione della donna, mediante quel rodere il fianco sinistro. La visione – doppia ed<br />
inquietante – ha sulla donna lo stesso effetto che avevano avuto le voci messe in giro<br />
dai fratelli a proposito di Lorenzo, su Lisabetta: Andreuola si sollazza con Gabriotto<br />
suspicando e non sappiendo che (IV, 6, 18), ed anche la situazione estrema, quella<br />
dell’abbraccio della giovane con il cadavere dell’amato, sembra riproporsi identica a<br />
quella della novella precedente. Qui è la fantesca della donna ad interpretare il “buon<br />
senso” che aveva spinto i fratelli di Lisabetta a nascondere la loro colpa seppellendo<br />
99
Lorenzo: da un lato la donna – sembra quasi sulla scorta delle esperienze negative<br />
delle precedenti novelle, quindi avendo già tratto utile consiglio dall’opera di cui fa<br />
parte! – spinge Andreuola ad evitare il suicidio, mettendola davanti alla minaccia<br />
della dannazione eterna; d’altro canto, la fantesca propone che Gabriotto venga<br />
seppellito lì, su due piedi, mentre la giovane, risoluta, decide di trasportare tutto il<br />
cadavere, dai parenti di lui. Il motivo del drappo prezioso che avvolge i resti mortali<br />
come reliquie, e quello del trasporto del corpo – qui ampliato rispetto al cuore di<br />
Guiscardo ed alla testa di Lorenzo – vengono asserviti alla complicazione<br />
“andreucciana” dell’incontro con la famiglia del podestà, con l’autorità di polizia,<br />
che viene riconosciuta, da Andreuola, come la possibilità di porre fine alla propria<br />
vita: infatti, quando ella incontra gli sbirri, è detta più di morte che di vita desiderosa<br />
(IV, 6, 32), e la specificazione sembra accennare alla volontà di consegnarsi alla<br />
giustizia nella speranza di espiare con la vita un delitto che non ha commesso<br />
“direttamente”, ma di cui la donna si sente comunque responsabile.<br />
Mentre i gesti finora compiuti avevano lo scopo di dimostrare la propria fedeltà<br />
all’amato, la condotta di Andreuola, durante l’interrogatorio, decide di abbandonare<br />
un semplice atteggiamento di umile sincerità (francamente disse (IV, 6, 32)) per dare<br />
spazio – come capita sovente a queste donne boccacciane, e pensiamo soprattutto alla<br />
Ginevra di II, 9 ed a Ghismonda messa in confronto con il padre Tancredi –, di fronte<br />
all’oltraggio morale che il podestà vorrebbe perpetrare, ad una vera e propria<br />
metamorfosi: da sdegno accesa e divenuta fortissima, virilmente si difese (IV, 6, 35)!<br />
Come si vede, la risolutezza, la determinazione, la forza, esulano da un<br />
comportamento femmineo, e giustificano un avverbio come quel virilmente che ci<br />
manifesta di Andreuola tutta la fermezza morale, unita alla coscienza di avere dalla<br />
propria parte una forza fisica proveniente dalle ultime tragiche esperienze (forza<br />
fisica che, dimostrata nel trasporto del cadavere di Gabriotto, è associabile a quella<br />
necessaria al “taglio della testa” operato da Lisabetta, che pure è operazione che<br />
necessita un vigore virile, in tutti i sensi). Questa fermezza non porta al suicidio, non<br />
porta neanche alla possibilità di immolarsi in virtù di un errore giudiziario (escluso a<br />
priori da quel sentendo costei in piccola cosa esser nocente (IV, 6, 34), in cui pure si<br />
100
sente la condanna di quell’amore fuori dal comune, in quanto non santificato da un<br />
matrimonio pubblico), ma conduce, inevitabilmente, alla monacazione, che delle tre<br />
forme di reazione all’amore tragico finora analizzate (il suicidio violento ed<br />
immediato di Ghismonda, il lento lasciarsi morire di Lisabetta) resta la più lieve, ma<br />
pure la più coraggiosa, paradossalmente, in quanto proietta il motivo dell’espiazione<br />
sul peccato commesso e sulla doppia visione che avrebbe dovuto spingere i due<br />
amanti a ravvedersi.<br />
Simona e la salvia<br />
Nella novella seguente veniamo condotti dagli ambienti nobili e borghesi delle<br />
precedenti, ad un’ambientazione “popolare” e “popolana” 64 : la terza giornata aveva<br />
già visto “donne del popolo” come protagoniste, ed ora la bella Simona diviene –<br />
quasi ad incarnare il corrispondente femminile di quanto sarà Cisti fornaio per<br />
cortesia – testimonianza di come le virtù femminili non siano esclusivo attributo<br />
delle madonne: già lo vediamo sottolineato nella presentazione, una giovane assai<br />
bella e leggiadra secondo la sua condizione (IV, 7, 6), in cui la “restrizione di<br />
campo” sembra mettere in rapporto la giovane tessitrice con l’olimpo di eroine finora<br />
apparse, e ritagliarle il giusto spazio, concesso a chi – nonostante i natali – pure è<br />
disposta a ricevere amore nella sua mente (IV, 7, 6). L’azione della novella ricalca<br />
quasi fedelmente quella della precedente, con la differenza che l’incontro fortuito<br />
con l’autorità in IV, 6 diviene qui una circostanza ben più determinata, in quanto che<br />
la donna viene dai suoi stessi conoscenti riconosciuta come ingannatrice ed<br />
assassina: la frode, l’inganno perpetrato ai danni di Pasquino, sono evidenti sin<br />
dall’inizio ad un personaggio non certo di grande levatura morale quale può essere lo<br />
Stramba. Di fronte al giudizio del tribunale, la povera Simona (cattivella la chiama il<br />
narratore) non può far altro che ripetere il gesto che ha causato la morte del suo<br />
amante: la meccanicità del gesto, che ha la forza del tentativo estremo di convincere<br />
64 Proprio questa novella diventa esemplare, secondo Bruni, per dimostrare la sensibilità<br />
boccacciana all’intreccio di comunicazione verbale e comunicazione gestuale, che viene<br />
esaltata particolarmente dalla presenza di personaggi provenienti dai ceti umili della società<br />
cittadina (1990:385).<br />
101
chi non crede all’evidenza, è talmente disarmante – nonostante la chiosa elegiaca (O<br />
felici anime, ale quali in un medesimo dì adivenne il fervente amore e la vita<br />
terminare!... (IV, 7, 19)), forse più consona a Filostrato che ad Emilia –, da<br />
rappresentare, oltre l’ingenuità, il fatto che l’amore, e per di più la perdita dell’amato<br />
bene, faccia perdere anche la ragione 65 . Il gesto sconsiderato di Simona, compiuto<br />
senza intenzionalità, pure conserva quella istintiva conseguenzialità che emana<br />
naturale dalle tragiche storie d’amore: pensiamo alla storia di Piramo e Tisbe<br />
(Metamorfosi, IV, 55-166), in cui il fraintendimento del velo sporco di sangue causa<br />
il suicidio di Piramo prima e di Tisbe subito dopo, unendo gli amanti non solo nella<br />
morte, ma anche nel «modo» di morire. Il gesto compiuto dalla donna rappresenta<br />
però, sia nella novella boccacciana che nell’episodio ovidiano, anche una imitazione<br />
dell’agire virile: la Simona compie quel gesto, dunque, non solo per scagionarsi e per<br />
una inarrestabile meccanica fatalità, ma anche per riprodurre un momento – estremo<br />
– di quanto è legato alla persona del suo amante, e come nel caso della coppia degli<br />
amanti egiziani, soccombe anch’ella.<br />
Salvestra<br />
Ultima protagonista nella serie ininterrotta di quattro novelle dalla chiara eco di<br />
cronaca cittadina – e quindi legata in una sorta di ciclo tematico alle storie di<br />
Lisabetta, Andreuola, Simona – è la Salvestra, nella ottava unità narrativa di questa<br />
quarta giornata: a differenza delle altre novelle, in cui la tragicità dell’amore pare<br />
quasi discendere dal fatto che esso prenda le forme di una relazione erotica che<br />
effettivamente esiste tra i due amanti, in questa viene accuratamente evitato che si<br />
ovvii alle regole sociali, nonostante il legame affettivo che lega Girolamo e Salvestra<br />
riesca a mantenersi tanto saldo, da causare la morte dei due giovani. La differenza<br />
sociale pende stavolta dalla parte del giovane, che si innamora della figlia di un sarto,<br />
e che viene distolto da questo strano “innesto” da una “saggia” madre (che si credeva<br />
65 Baratto riconosce nella novella un omaggio cortese a due umili amanti, la cronaca<br />
impassibile di un amore plebeo, l’inconsapevole eroismo di personaggi elementari<br />
(1986:372): l’impassibilità si tramuta, nella lettura che la “brigata” è tenuta a considerare<br />
legittima, nella impotenza di fronte all’omnia vincit amor!<br />
102
per la gran ricchezza del figliuolo fare del pruno un melrancio (IV, 8, 7)): dopo una<br />
prolungata assenza, sposatasi la donna con un uomo della sua condizione, Girolamo<br />
torna per rivedere la donna che ha amato 66 .<br />
La situazione che Girolamo sceglie per rivedere la Salvestra è quantomai inusuale:<br />
quella che per Tancredi era stata una intromissione casuale nella vita amorosa della<br />
figlia Ghismonda, diventa per il giovane fiorentino una vera e propria violazione di<br />
domicilio, cui segue un serrato colloquio con l’amata, decisa a difendere il proprio<br />
onore di sposa. Purtuttavia, Girolamo ottiene da lei di poterle stare accanto, in un<br />
letto che vede la donna affiancata da due uomini, il legittimo marito e l’antico<br />
innamorato, e che quindi la mette in una posizione di estremo pericolo; il pericolo,<br />
che minaccia apparentemente – per quanto è logicamente ed immediatamente<br />
intuibile – soltanto l’onore della donna, si rivela in realtà ben più insidioso, se<br />
pensiamo a quanto era avvenuto per la gentildonna di cui è innamorato il Zima (III,<br />
5) e colleghiamo il tutto con il ripensamento di monna Giovanna nei confronti di<br />
Federigo degli Alberighi (V, 9), a rivelarci quanto misteriose possano essere le vie<br />
per le quali il cuore femminile si apre all’amore. Unico segnale di questa nuova<br />
sensibilità della Salvestra, prima che la vicenda giunga al suo epilogo, è lo stupore<br />
per la freddezza con cui Girolamo riesce a sostenere il contatto – di vago sapore<br />
66 Il motivo del ritorno dell’amante, poi abbondantemente utilizzato dalla narrativa<br />
ottocentesca, si può inserire nel più generico schema narrativo dei protagonisti costretti ad<br />
allontanarsi e poi a fare ritorno, nell’interesse di una circolarità “storica” della novella: in<br />
questo senso, Boccaccio non fa differenza tra protagonisti e protagoniste, anzi spesso applica<br />
questo meccanismo addirittura a famiglie intere, come nel caso di madonna Beritola o del<br />
conte d’Anguersa, superando il semplice espediente dell’agnitio e complicando le<br />
conseguenze narrative dell’evento centrale. La novella di Girolamo e della Salvestra viene da<br />
Baratto inserita nello schema della novella-romanzo (1986:133-135): l’analisi del nucleo<br />
tematico principale (il tema cortese-cavalleresco dell’amore possente che riunisce due esseri<br />
«in una medesima sepoltura») è però tutta condotta sulla figura di Girolamo, che rappresenta<br />
– secondo il critico – il vero, se non l’unico, protagonista della narrazione. Questo genere di<br />
posizione, a nostro giudizio, non considera appieno quell’equilibrio sempre importante, nel<br />
Decameron, di azione-verbalità-silenzio, che è riscontrabile soprattutto nell’interazione dei<br />
diversi personaggi: se è vero che l’iniziativa spetta – nella prima parte della novella – tutta a<br />
Girolamo, assai povera sarebbe la narrazione, senza una seconda parte in cui la Salvestra<br />
deve confrontarsi con una situazione quanto mai pericolosa, ed infine con la scoperta<br />
dell’amore!<br />
103
trobadorico – con quello che rappresenta ancora l’oggetto del suo desiderio (Per Dio,<br />
non gridare, ché io sono il tuo Girolamo!, aveva detto al capoverso 18): la giovane<br />
maravigliandosi della sua contenenza (IV, 8, 24) chiama l’incauto visitatore di letti,<br />
e si accorge della sua dipartita. La descrizione dei movimenti della Salvestra presenta<br />
una impressionante corrispondenza con quelli della Simona:<br />
...cominciò a tentare, e toccandolo il trovò come ghiaccio freddo (IV, 8,<br />
25)<br />
... avendolo per ogni parte del corpo cercato e in ciascuna trovandolo<br />
freddo... (IV, 6, 22)<br />
Nonostante l’ansia, il timore provati di fronte a quel cadavere nel suo letto nuziale, e<br />
dopo averlo toccato e constatato il trapasso, la Salvestra trova la forza di chiedere<br />
consiglio al marito cosa farebbe, in una situazione simile (...quello che<br />
presenzialmente a lui [a Girolamo, naturalmente] avvenuto era disse essere a<br />
un’altra avvenuto, e poi il domandò se a lei avvenisse che consiglio ne prenderebbe<br />
(IV, 8, 26)): i tempi sono enormemente dilatati, persino le percezioni vengono<br />
deformate dall’autore (se solo pensiamo a questo marito che se la dorme e non si<br />
accorge di quanto sta succedendo a pochi centimentri da lui!), ma l’agire della donna<br />
è esemplare, accorto e addirittura troppo calcolato, portato avanti quasi con cinismo.<br />
Pure, nonostante questa disposizione all’impassibilità, la Salvestra riesce a mutare<br />
sentimenti nei confronti di Girolamo quando, di fronte alla verità dell’amore<br />
conservato nel cuore fino alla morte, confrontato con la “normalità” dell’unione tra<br />
lei ed il marito, decide di cedere all’eccezionalità del sentimento, compiendo un<br />
gesto – identico per volontà a quello di Girolamo, dunque lasciando che il cuore<br />
imponga la morte al corpo – che implica una doppia rinuncia, anch’essa esemplata<br />
sulla rinuncia che Girolamo aveva abbracciato prima andando via da Firenze, poi<br />
«contenendosi» una volta tornato accanto alla sua amata: Salvestra rinuncia alla vita,<br />
e rinuncia – inconsapevolmente – a toccare con il proprio corpo ancora vivo il corpo<br />
104
già morto di Girolamo, in una scena in cui Boccaccio ricostituisce la situazione<br />
ovidiana degli amanti ricongiunti nell’abbraccio fatale.<br />
Una donna di Provenza<br />
La nona novella è l’ultima della quarta giornata a presentarci un caso di amore<br />
infelice, e sembra che Boccaccio voglia coronare la sua scelta con un omaggio agli<br />
ideatori dell’amor cortese, ai provenzali: la novella dichiara subito questo proposito<br />
(secondo che raccontano i provenzali (IV, 9, 4)) e muove chiaramente nella<br />
direzione di presentare una situazione idilliaca di partenza, turbata da un evento<br />
imprevisto – ma non imprevedibile – quale l’innamoramento di uno dei cavalieri per<br />
la moglie dell’altro. Sin qui, saremmo in una situazione evidentissima di adesione<br />
alla struttura psicologia della fin’amor, persino raffigurata nell’ambito sociologico<br />
ideale (v. Formisano 1994:70-71) della piccola nobiltà e dell’amore adultero: ma<br />
stante la tematica della giornata, è necessario che l’onore ferito del marito trovi il<br />
modo di vendicarsi dell’affronto subito. È in questa circostanza che si rivela la<br />
presenza effettiva della donna, del resto esclusa dall’azione centrale che vede i due<br />
cavalieri intenti ad “attività maschili”, che saranno il pretesto per poter uccidere<br />
l’amante della donna e comodamente estrarre da esso il cuore, come già<br />
esperimentato – dolore di padre! – in IV, 1: anche qui l’offesa fisica (l’uccisione<br />
dell’amato bene) viene superata per intensità e cinismo dall’offesa verbale. Nella<br />
vendetta architettata da Tancredi, il padre manda alla figlia il cuore di Guiscardo con<br />
un messaggio autoreferente: « Il tuo padre ti manda questo per consolarti di quella<br />
cosa che tu più ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli più amava» (IV, 1, 47);<br />
mentre Guiglielmo di Rossiglione accompagna il cuore cucinato del suo rivale con le<br />
seguenti parole, ben più esplicite ed armate di un macabro umorismo: ... né me ne<br />
maraviglio se morto v’è piaciuto ciò che vivo più che altra cosa vi piacque (IV, 9,<br />
20). La risposta della donna è evidentemente allineata con le perorazioni d’amore<br />
presenti in numerose novelle della giornata, ma preferisce evitare i temi emozionali e<br />
genericamente aderenti ad un diritto di amare (come avevamo già notato a partire dal<br />
discorso della figlia del re d’Inghilterra in II, 3), per spostarsi sul terreno della<br />
105
competenza giuridica, del diritto maritale ad esercitare il diritto di possesso entro<br />
determinati ambiti. Anche in questo caso, però, come per Ghismonda, Lisabetta,<br />
Simona e la Salvestra, esiste un nesso di contiguità e conseguenzialità tra la reazione<br />
alla morte dell’amato e la decisione di farsi vittime volontarie: il gesto plateale – e<br />
quasi volgare, umoristico – compiuto dalla donna che si getta dalla finestra, se riesce<br />
ad individuare chiaramente lo spazio del castello, della torre alta e metaforicamente<br />
indica una “caduta” che porta alla morte della protagonista, non più semplicemente<br />
intesa come rinuncia ad una vita priva dell’elemento vitale per eccellenza (...unque a<br />
Dio non piaccia che sopra a così nobil vivanda, come è stata quella del cuore d’un<br />
così valoroso e così cortese cavaliere come messer Guiglielmo Guardastagno fu, mai<br />
altra vivanda vada! (IV, 9, 23)), ma anche come adempimento a quanto vogliono le<br />
regole della lealtà e della moralità (ché se io, non isforzandomi egli, l’avea del mio<br />
amor fatto signore e voi in questo oltraggiato, non egli ma io ne doveva la pena<br />
portare (IV, 9, 23)), quindi in maniera che il suicidio come accettazione volontaria<br />
del martirio per amore, suggelli anche questa novella come la prima di riferimento<br />
(v. Forni 1992:passim) nel senso di una molteplicità di soluzioni che pure tende ad<br />
un’unica, accettabile proposizione: divenire vittima di un meccanismo punitivo che<br />
in prima istanza non è diretto verso la donna (elemento familiare da preservare<br />
fisicamente e nell’onore) ma che, fatalmente, su di essa si dirige per volontà di essa.<br />
Monna Ghita e monna Sismonda<br />
Dopo la lunga serie di amori tragici della quarta giornata, ci soffermeremo su quanto<br />
accade nelle novelle quarta ed ottava della settima giornata: sono queste due delle<br />
narrazioni decameroniane che stigmatizzano la gelosia in quanto virtù contraria al<br />
naturale emergere delle forze d’Amore (come Lauretta sottolinea: – O Amore, chenti<br />
e quali sono le tue forze, chenti i consigli e chenti gli avvedimenti! (VII, 4, 3)),<br />
consolate da consigli e avvedimenti capaci di sostenerle nella lotta impari contro<br />
questo “eccesso” già criticato dalla lirica trobadorica. Nella settima novella della<br />
giornata precedente, madonna Filippa aveva avuto modo non solo di difendere il<br />
proprio diritto ad offrire se stessa – una volta ottemperato agli obblighi coniugali – al<br />
106
proprio amante, ma addirittura aveva reso possibile la modifica dello statuto pratese<br />
in materia di adulterio, adducendo una serie di motivazioni generali sulla legittimità<br />
delle leggi e sulle conseguenze morali di alcune di esse; in questa altrettanto animata<br />
novella, che pure ha come protagonista un adulterio e la scoperta di esso da parte del<br />
marito tradito, diversi sono i meccanismi, affidati alla teatralità dei gesti e dell’agire<br />
combinato di moglie e marito, simili sono le conclusioni, che vedono coinvolta una<br />
sorta di “giuria popolare” questa volta riconoscibile nelle persone dei vicini dei due<br />
protagonisti.<br />
Monna Ghita ci viene presentata, sin dal principio della narrazione, come donna<br />
determinata ed avversa alla gelosia del marito: nel momento in cui scopre questa<br />
poco attraente – ed immotivata – qualità del consorte, la donna resta turbata (prese<br />
sdegno) nel suo più intimo convincimento, ed opta per una “punizione esemplare”,<br />
coadiuvata nel suo progetto dalla coscienza di un altro difetto del coniuge, quello di<br />
procurarsi l’ebbrezza piuttosto con l’aiuto di Bacco che con quello di Venere. La<br />
“flagranza” dell’adulterio avviene questa volta in absentia, in quanto che il geloso<br />
Tofano, resosi conto delle sortite notturne della moglie, pensa di renderne pubblica la<br />
condotta munendola di un “segnale” inequivocabile (altrettanto vorrebbe fare il<br />
geloso marito di donna Sismonda in VII, 8, ed un meccanismo simile è quello usato<br />
da Agilulfo per contrassegnare il palafreniere che aveva oltraggiato l’alcova regale):<br />
la chiude fuori di casa, in questo modo esponendola al pubblico scherno ed indicando<br />
“metaforicamente” l’estromissione della donna adultera dall’ambito domestico 67 . La<br />
reazione di monna Ghita si compone di tre parti, in cui Boccaccio evidenzia la<br />
superiorità d’ingegno della donna, la migliore coordinazione del suo agire, contro<br />
l’avventatezza del marito, spinto dalla gelosia ad una serie di atti privi del necessario<br />
“sangue freddo”: al marito descritto nella posizione statica di chi è pronto a<br />
67 Il carattere simbolico dell’uso letterario dei luoghi e delle dimensioni di interno-esterno,<br />
reclusione-esclusione, anche nel Decameron come in tutta la letteratura medievale (v. Ariès-<br />
Duby 2001:263-270), è ben rappresentato: oltre però ai luoghi consueti (torre, giardino,<br />
camera, etc.), Boccaccio offre nuove suggestive possibilità di ambientazione, tra le quali<br />
spiccano il pozzo ed il sarcofago, che in qualche modo sono dotati di una simbolicità<br />
ampliata, in quanto rappresentano una possibilità di comunicazione con l’aldilà, quindi<br />
estremizzano la rappresentazione delle dimensioni in opposizione.<br />
107
svergognare la moglie colta in fallo (posesi alle finestre (VII, 4, 11)), si sostituisce,<br />
dopo lo stratagemma della pietra buttata nel pozzo, la consorte (andossene alle<br />
finestre (VII, 4, 20)) che ha ripetuto l’intera sequenza delle azioni compiute da<br />
Tofano.<br />
L’inversione dei ruoli di accusatore-accusata in accusatrice-accusato caratterizza<br />
anche la novella di monna Sismonda, ottava della settima giornata: l’elemento di<br />
differenziazione dei comportamenti di moglie e marito è ancora una volta la presenza<br />
– o mancanza – di quel “sangue freddo” necessario a mettere in pratica una<br />
procedura di smascheramento. Così come monna Ghita “fa credere” di essersi gettata<br />
nel pozzo, monna Sismonda “fa credere” al marito di essere a letto, mentre al suo<br />
posto viene ingiuriata e maltrattata la fantesca; anche lo stratagemma del segnale<br />
inequivocabile (il taglio dei capelli, che ha naturalmente anche un significato<br />
simbolico particolare, equivalendo ad una umiliante tonsura, culmine dello strazio<br />
già compiuto con i maltrattamenti fisici che costituiscono l’infierire del corpo intero<br />
del marito (quanto egli poté menare le mani e’ piedi) su quello della donna (tante<br />
pugna e tanti calci le diede, tanto che tutto il viso l’amaccò, e più avanti la ripresa<br />
battutala adunque di santa ragione)) viene vanificato dalla presenza di spirito della<br />
donna, che con il gesto della sostituzione riesce a salvare l’onore ed a capovolgere la<br />
situazione scabrosa che l’attende 68 .<br />
Il gesto esemplare compiuto a salvazione di vita e onore, dunque, si pone in evidente<br />
contrasto con gli atti che confermano l’accettazione volontaria di un tragico destino:<br />
da un lato abbiamo esempi di destrezza e presenza di spirito, dall’altro incontriamo la<br />
fatalità degli atti come atteggiamento di definitiva rinuncia alla difesa del proprio<br />
essere.<br />
68 Per Boccaccio il meccanismo della sostituzione, dello scambio di persona, riveste una<br />
importanza notevole (nella sesta novella della terza giornata, ad esempio, lo stratagemma<br />
ideato da Ricciardo Minutolo implica una doppia sostituzione, complicata dal clima di<br />
sospetto indotto nella “vittima”); di volta in volta, lo scambio di persona acquista significati<br />
diversi, ma rimane uno dei meccanismi principali per il tessuto delle novelle: dalla “doppia<br />
metamorfosi” di Ciappelletto alla cinica rappresentazione inscenata da Gualtieri, in cui finge<br />
che la figlia sua e di Griselda sia la sua promessa sposa, è davvero difficile sfuggire a questo<br />
meccanismo continuamente sotteso allo svolgimento delle storie narrate.<br />
108
Tipologie sociali<br />
109
L’olimpo femminile: principesse, regine, marchese e badesse<br />
Uno degli elementi di novità che maggiormente ha attirato l’attenzione di lettori e<br />
studiosi nei confronti del Decameron, è sicuramente la scelta operata da Boccaccio<br />
nella definizione dei personaggi, la volontà di “movimentare” il repertorio classico<br />
degli attori del racconto, includendo anche i rappresentanti dei ceti più umili: oltre<br />
che epopea dei mercatanti, l’opera boccacciana si configurerebbe dunque come una<br />
svolta, all’interno dei generi narrativi medievali, anche dal punto di vista della<br />
considerazione di personaggi ai margini della società “alta”, che precedentemente<br />
erano stati utilizzati soltanto come contr’altari dei protagonisti nobili di sangue o di<br />
intelletto. Persino il fablel, che aveva attinto a piene mani ad una galleria di<br />
personaggi umili e popolani, dal villano incivile al povero artigiano, dallo studente<br />
nullatenente al fuorilegge che vive di espedienti, aveva incluso le sue tipologie in un<br />
disegno ben preciso di scherno, talvolta di disprezzo, in cui il personaggio di modesta<br />
levatura sociale era quasi sempre un comodo bersaglio per lazzi e considerazioni<br />
generali sulle differenze tra gli uomini. Se Boccaccio, dunque, ci propone dei<br />
personaggi che non rientrano nel novero classico dei protagonisti della letteratura<br />
alta, non è naturale che – per una anacronistica e quindi ingiustificata predilezione<br />
verso i ceti umili della società del suo tempo – i suoi racconti facciano a meno di<br />
quelli che fino a quel momento rientravano pienamente nella tradizione della<br />
narratio brevis: nella centuria di novelle sono numerosissimi, infatti, gli esempi di<br />
protagonisti e coprotagonisti di alto o altissimo rango, né sono poche le riflessioni<br />
sulla continuità della legittimità del ceto nobile da un’epoca all’altra. Alla luce di un<br />
esame quasi araldico di tali personaggi, non può sfuggirci la volontà, da parte del<br />
Boccaccio, di rappresentare il lato aristocratico, del mondo laico come di quello<br />
ecclesiastico, dato che tra i due non doveva esistere, ai suoi tempi, quella differenza<br />
che forse oggi avvertiamo: la nobiltà laica si trasferiva senza difficoltà di sorta tra le<br />
mura di un convento, né mancavano gli esempi di come la nobiltà di sangue potesse<br />
“sentire di gretto” al di là dell’ambiente in cui si trovava ad operare.<br />
110
Un altro elemento di grande importanza per questa caratterizzazione, è l’attenzione<br />
di Boccaccio ai fenomeni di interazione tra nobiltà ed alta borghesia, che proprio tra<br />
Duecento e Trecento avrebbero cambiato il volto delle relazioni sociali non solo<br />
all’interno delle “piccole” comunità cittadine italiane, ma più generalmente nel<br />
rapporto tra i piccoli stati italiani ed i grandi regni europei, in attesa di quella<br />
stabilizzazione che nel Quattrocento avrebbe cancellato molte delle realtà autonome<br />
della penisola: ci riferiamo soprattutto a quella contestualizzazione storica del narrato<br />
che in Boccaccio si manifesta come continua citazione di eventi notevoli per<br />
l’esistenza di non poche famiglie delle aristocrazie comunali (a Genova come a<br />
Ravenna, a Firenze come a Venezia).<br />
Il rapporto del Certaldese con la nobiltà, e di volta in volta con l’aristocrazia di<br />
determinate realtà statali, conserva addirittura degli elementi autobiografici: prova ne<br />
sia la «bella favola» della figlia di re sedotta da Boccaccino, e che avrebbe generato<br />
il poeta nella lontana e favolosa Parigi, cittadella medievale della scienza e mecca<br />
occidentale della mercatura europea (Branca 1977:7). Questa ricostruzione<br />
biografica, che più di un autore riconduceva naturalmente a segnali disseminati per le<br />
opere giovanili, ritenuti allusioni dell’autore alla propria vicenda personale, se da un<br />
lato è stata definitivamente smentita dalle indagini filologiche, rimane indicativa di<br />
un determinato atteggiamento del Boccaccio nei confronti di quel mondo all’ombra<br />
del quale si era formata la propria cultura di uomo di lettere. Lo studio di Giorgio<br />
Padoan su Mondo aristocratico e mondo comunale nell’ideologia e nell’arte di<br />
Giovanni Boccaccio riconduce questo atteggiamento boccacciano ad una più<br />
complessa visione di queste due differenti realtà, in qualche modo incarnate in due<br />
momenti della vita dell’autore: l’esistenza a Napoli di una situazione sociale e<br />
politica tanto diversa dalla fiorentina, ed in genere da quella dell’Italia centro-<br />
settentrionale, non poteva non influire, mediante particolari intuizioni della vita e<br />
dell’arte, anche sulla narrativa; né il Boccaccio certamente si sottrasse a quella<br />
temperie culturale, che anzi egli assimilò rapidamente e profondamente. (Padoan<br />
1978:5)<br />
111
Lo studioso, anche sulla base di quanto indicato nel Profilo biografico di Branca,<br />
richiama la nostra attenzione sull’apertura internazionale dell’ambiente in cui<br />
Boccaccio si formò, individuando una molteplice influenza bizantino-franco-<br />
provenzale nella maniera di accogliere una visione gerarchica tradizionale della<br />
società, nell’immaginario culturale alla base della sua opera. Il riferimento alla<br />
letteratura francese, ai romanzi di avventura ed alle fonti di essi nella letteratura<br />
latina tanto cara a Boccaccio, si unisce ad un modello di vita signorile che certamente<br />
doveva caratterizzare la vita dell’aristocrazia napoletana, come si vede<br />
dall’ammirazione per le abitudini degli ambiti cortigiani, espressa in più di un luogo<br />
della Fiammetta:<br />
La vecchia usanza e la mia nobiltà m’avea tra l’altre donne assai<br />
eccellente luogo servato, nel quale poi che assisa fui, servato il mio<br />
costume, gli occhi subitamente in giro volti, vidi il tempio d’uomini e di<br />
donne parimente ripieno, e in varie caterve diversamente operare.<br />
(Fiammetta 1952:1066)<br />
Gli onori similmente a me fatti per propria cortesia dalle donne, ancora<br />
che forse alla mia nobiltà s’affacessero, quasi debiti cominciai a volerli,<br />
pensando che, al mio amante parendo magnifica, più giustamente mi<br />
gradirebbe... (Fiammetta 1952:1071)<br />
Quivi ancora mi si paravano molte volte davanti giovani nobili, e di<br />
forma belli, e d’aspetto piacvoli, li quali per addietro più volte con atti e<br />
modi diversi tentati aveano gli occhi miei, ingegnandosi di trarre quelli<br />
a’ loro disii. (Fiammetta 1952:1138)<br />
La nostra città, oltre a tutte l’altre italiche, di lietissime feste<br />
abbondevole, non solamente rallegra li suoi cittadini o con nozze o con<br />
bagni o con li marini liti, ma, copiosa di molti giuochi, sovente ora con<br />
112
uno ora con un altro letifica la sua gente. Ma tra l’altre cose nelle quali<br />
essa appare splendidissima, è nel sovente armeggiare. Suole adunque<br />
essere questa a noi consuetudine antica che, poi che i guazzosi tempi del<br />
verno sono trapassati e la primavera con li fiori e con la nuova erba ha<br />
al mondo rendute le sue perdute bellezze, essendo con questo li<br />
giovaneschi animi per la qualità del tempo raccesi e più che l’usato<br />
pronti a dimostrare li loro disii, di convocare li dì più solenni alle logge<br />
de’ cavalieir le nobili donne, le quali, ornate delle loro gioie più care,<br />
quivi s’adunano. (Fiammetta 1952:1144)<br />
La descrizione delle consuetudini cavalleresche e dei modi eletti delle nobildonne e<br />
dei gentiluomini, si configura non soltanto come una ideale cornice al fiorire dei<br />
corteggiamenti ed uno specchio del godimento derivante dalla coscienza di occupare<br />
una posizione privilegiata in seno alla splendida società di uno dei Regni più<br />
dinamici di quel periodo storico, ma soprattutto come una celebrazione di quella<br />
«apparenza» che ha il compito di rappresentare l’elemento nobile dell’umanità nei<br />
momenti pubblici: tale funzione è implicitamente «statica» per le donne, cui si<br />
attaglia perfettamente il compito di rappresentare – con la bellezza del sembiante, il<br />
lusso degli abiti e la compostezza dei modi – una grazia aristocratica di cui sono<br />
immutabilmente depositarie; gli uomini manifestano invece le loro «competenze» in<br />
quell’armeggiare di antico sapore che, perduta la sua funzione pratica di esercizio<br />
delle armi in preparazione ai cimenti bellici, assume il significato dell’attività<br />
nobilmente sportiva, di volta in volta commutabile con quell’ars venandi cum avibus<br />
di cui la novella di Federigo degli Alberighi è mirabile testimone.<br />
Un mondo aristocratico, dunque, si affaccia all’immaginario del Boccaccio con tutte<br />
le sue implicazioni simboliche, ed arricchisce l’universo femminile del Decameron<br />
mediante una serie di figure che possiamo ritenere dei «modelli» rappresentati<br />
dall’autore non solo secondo la tematizzazione stereotipata della letteratura<br />
precedente, ma soprattutto secondo una tendenza peculiare ad esaltare quei tratti di<br />
nobiltà che evidentemente avrebbero dovuto tramandarsi anche nel mondo comunale,<br />
113
al fine di custodire le caratteristiche di un mondo inseparabile dalla cultura europea e<br />
dalla sua produzione letteraria.<br />
È quanto mai interessante che l’attenzione di Boccaccio sia andata ad una tradizione<br />
«isottea» della raffigurazione della giovine donna aristocratica: sia Ghismunda che la<br />
figlia del re d’Inghilterra, che a nostro parere rappresentano i veri modelli di<br />
un’aristocrazia femminile nel Decameron, sono infatti caratterizzate, al di là della<br />
diversa sorte che nelle novelle le accompagnerà, dal sigillo di disobbedienza alle<br />
aspettative sociali e di casta, e da una volontà disperata di realizzare una felicità<br />
sentimentale che leggeremo poi anche nelle aspirazioni di figure femminili di<br />
differente estrazione sociale.<br />
Il ruolo ed il codice comportamentale dell’aristocrazia<br />
La caratterizzazione delle esponenti dell’olimpo femminile dell’opera è naturalmente<br />
data, in prima istanza, dalle descrizioni dell’aspetto fisico, dell’abbigliamento e di<br />
tutto quanto circonda (arredamento, seguito servile, etc.) le protagoniste: la Marchesa<br />
del Monferrato, per cui valgono le formule stereotipate di corrispondenza tra bellezza<br />
esteriore e virtù interiore, mette a disposizione del suo ospite camere ornatissime di<br />
ciò che a quelle, per dovere un sì fatto re ricevere, s’appartiene (I, 5, 12), ed il re<br />
viene di molti messi servito e di ottimi vini e preziosi (I, 5, 13); la figlia del re<br />
d’Inghilterra, travestita da abate, non riesce a nascondere i suoi attributi regali, se<br />
Allessandro vede un abate giovane assai, di persona e di viso bellissimo, e, quanto<br />
alcuno altro potesse essere, costumato e piacevole e di bella maniera (II, 3, 20), e<br />
poi pondera, considerando la compagnia che ella avea, che la fanciulla che gli giace<br />
affianco debba essere nobile e ricca; vera “attrice non protagonista” della novella di<br />
madama Beritola è Orietta, moglie di Currado Malaspina, che anche durante una gita<br />
all’isola di Ponza riesce a far venir vestimenti e vivande (II, 6, 24) per soccorrere<br />
l’inselvatichita profuga, e la accoglie tra le dame della sua compagnia; nella<br />
narrazione seguente, Alatiel viene imbarcata sulla nave che dovrebbe portarla al suo<br />
promesso sposo con onorevole compagnia e d’uomini e di donne e con molti nobili e<br />
114
icchi arnesi (II, 7, 9), ed una volta scampata al naufragio, nonostante sia piuttosto<br />
male in arnese, pure conserva buona parte della sua regalità, se Pericone comprese<br />
per gli arnesi ricchi la donna che trovata avea dovere essere gran gentil donna, e lei<br />
prestamente conobbe all’onore che vedeva dall’altre fare a lei sola (II, 7, 20);<br />
Ghismunda, splendida giovane (bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra<br />
femina fosse mai) eppure abbattuta nello spirito dalla presta vedovanza, si muove in<br />
una stanza da letto maestosa, che l’autore deve necessariamente descrivere per<br />
meglio rappresentare lo svolgimento dell’azione, raccontandoci delle cortine che lo<br />
circondano e dello sgabello-cassapanca (carello) su cui si addormenta, non visibile<br />
agli amanti, Tancredi.<br />
Investita di regalità sia nel portamento che nel comportamento è la quasi leggendaria<br />
Teodolinda, protagonista della seconda novella della terza giornata: la condizione<br />
regale della donna è doppiamente testimoniata dal fatto di esser vedova del re Autari<br />
e, successivamente, sposa dell’altrettanto potente Agilulfo, che proprio mediante<br />
questo matrimonio aveva potuto realizzare le sue ambizioni politiche. Ma è<br />
soprattutto– come abbiamo sottolineato con un imprudente calambour – il<br />
comportamento di questa regina a rivelarci tutta la sua distanza dai modi comuni: la<br />
coppia regale, naturalmente, vive in appartamenti separati, e Boccaccio ce ne<br />
racconta le abitudini coniugali, attraverso quanto scorto dal palafreniere, con tratti<br />
che sanno di favola, specialmente nell’atto compiuto da Agilulfo di percuotere con<br />
una bacchetta una volta o due l’uscio della camera di Teodolinda. A questo gesto,<br />
che denuncia insieme il potere regale e la discrezione del consorte, segue l’apertura<br />
“magica” dell’uscio (incontanente essergli aperto) e l’eliminazione di quella fonte di<br />
luce che darebbe sconveniente pubblicità a quegli abbracci (toltogli di mano il<br />
torchietto). Quando è il palafreniere ad immettersi in questa sequenza di azioni, la<br />
magia scompare (La camera da una cameriera tutta sonnacchiosa fu aperta e il lume<br />
preso e occultato), per riapparire nell’immaginazione di Teodolinda quando il “vero<br />
marito”, nella scena successiva all’inganno perpetrato dal servo, si presenta<br />
nell’alcova: piacevolmente stupita dall’eccessivo zelo di Agilulfo (O signor mio,<br />
questa che novità è stanotte?), la regina mostra tutta la sua discrezione, sia nel<br />
115
icordare quanto è appena accaduto (oltre l’usato modo di me avete preso piacere...),<br />
sia nel richiamare il consorte alla moderazione (ma tuttavia io vi priego che voi<br />
guardiate alla vostra salute...).<br />
Non possiamo però ignorare che la connessione tra le nobili donne citate in alcune<br />
novelle, ed uno dei temi fondamentali di tutta l’opera, l’amore, richiama fortemente<br />
proprio il motivo cortese della «corte d’amore» quale era stato protagonista –<br />
direttamente o indirettamente – di altre opere boccacciane, quali il Filostrato ed il<br />
Filocolo: quello che nelle prime opere del Boccaccio appare per lo più come una<br />
sorta di gioco aristocratico – e che verrà ripreso in due delle novelle della decima<br />
giornata del Decameron – è legato essenzialmente alla discussione della casistica dei<br />
sentimenti (v. Surdich 2001:22-23), e si configura come un esercizio retorico in cui<br />
le diverse qualità delle questioni vengono affrontate da un tribunale mondano, i cui<br />
componenti sono essenzialmente membri dell’aristocrazia, decisamente indirizzati ad<br />
esaminare la casistica da una prospettiva socialmente esclusiva. Da questo discende<br />
che i principii alla base delle discussioni sono essenzialmente la liberalità e<br />
l’adesione agli schemi della concezione cortese-cavalleresca dell’amore, mentre<br />
vediamo che nelle novelle da noi prese in esame le decisioni saranno prese piuttosto<br />
secondo i principi della discrezione, del libero arbitrio personale e di un diritto<br />
naturale che renderebbe gli uomini uguali fra loro: proprio questo scarto tra il<br />
momento della riflessione teorica sui casi d’amore, e quello dell’azione pratica, di fa<br />
comprendere quanto Boccaccio riesca a slegarsi da alcune convenzioni letterarie, per<br />
avere la possibilità di considerare in piena “libertà ideologica” quanto deriva dalla<br />
situazione di conflitto alla base di ogni singola unità narrativa. Questo non esclude,<br />
naturalmente, che il codice comportamentale dell’aristocrazia, una volta adottato il<br />
nuovo metro relativo al caso specifico, riesca ad imporsi comunque come complesso<br />
di qualità e di attitudini, cui Boccaccio non nega un valore di eccezionalità.<br />
Acquisizione della nobiltà<br />
Giletta di Nerbona (III, 9) e Griselda (X, 10) rappresentano la vera svolta nella<br />
considerazione che Boccaccio dovette avere dell’olimpo femminile: nessuna delle<br />
116
due donne proviene dalla nobiltà, eppure tutte e due riescono ad introdursi nel mondo<br />
dell’aristocrazia, ingenerando stupore e meraviglia per la naturalezza con cui si<br />
rivelano, nel loro comportamento, quelle doti che precedentemente si credevano<br />
appartenere soltanto a chi nobile fosse di nascita 69 . Nel momento in cui, per due<br />
motivi differenti, Giletta e Griselda assumono il loro nuovo stato sociale, lo schema<br />
narrativo esige che la situazione di conflitto generata da tale mutamento si faccia<br />
quanto mai aspra e disumana: la contessa e la marchesa, pur conservando – non solo<br />
nominalmente – alcuni privilegi di rango, non possono veder realizzati i loro diritti<br />
umani o, per dir meglio, non riescono ad accedere alla completezza del loro diritto di<br />
mogli, madri e donne. In questa maniera, Boccaccio ci rappresenta una situazione del<br />
tutto opposta per problematicità, a quanto narrato per madonna Beritola (II, 6) ed il<br />
conte d’Anversa (II, 8), che rappresentano nel Decameron i casi più significativi di<br />
perdita e recupero dello stato sociale (nella novella di Andreuccio troviamo un primo<br />
accenno “virtuale” a tale questione, nel discorso capzioso di madonna Fiordaliso, ma<br />
anche la lunga avventura di Alatiel può essere letta all’insegna della tragedia della<br />
perdita del rango, nonostante siano presenti elementi ben più importanti nel caso<br />
della figlia del sultano!): Giletta però, a differenza di Griselda, reagisce ben più<br />
attivamente alla situazione che la priva di una legittimità fattuale, rivelando nella sua<br />
azione la coscienza di quanto sia insopportabile la frattura tra apparenza e realtà, che<br />
pure non le impedisce di apparire in tutta la sua “nobiltà” ai sudditi – come del resto<br />
avviene anche per la moglie del crudele Gualtieri, senza che però quest’ultima<br />
reagisca agli “attentati” del marito. Pur nel differente comportamento delle due<br />
donne possiamo senza dubbio leggere la migliore disposizione dell’autore nei<br />
confronti di quelle che divengono le protagoniste di un rinnovamento della nobiltà<br />
(in questo caso possiamo giungere fino alla considerazione del “caso medio”<br />
69 A proposito dei principi compositivi di queste due novelle del Decameron, Bruni ricorda<br />
che Boccaccio combina in modi diversi situazioni relativamente poco numerose (1990:274):<br />
volendo, potremmo anche partire dal presupposto che Boccaccio tenti di scandagliare,<br />
illustrando una serie di esempi simili o contigui, una realtà complessa nelle sue diverse<br />
sfumature, procedendo gradualmente. Per questo ognuno dei personaggi che partecipa a<br />
questa analisi, diviene uno stadio osservabile di un’articolata fenomenologia sociale.<br />
117
appresentato nel matrimonio tra Federigo degli Alberighi e monna Giovanna in V,<br />
9), in quanto foriere di virtù rinnovate nel loro senso più profondo: del resto,<br />
sappiamo bene che l’arringa contro fortuna e natura posta all’inizio della novella di<br />
Cisti fornaio (VI, 2, 3: ... io non so da me medesima vedere che più in questo si<br />
pecchi, o la natura apparecchiando a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna<br />
apparecchiando a un corpo dotato d’anima nobile vil mestiero...), non solo appare<br />
altrove nel Decameron (V, 7, 43: ...vergognatosi alquanto del peccato della<br />
fortuna...), ma in buona sostanza dimostra la volontà dell’autore di imporre uno<br />
schema di moderno relativismo nella considerazione dei rapporti tra le classi sociali,<br />
visti in una prospettiva di merito comportamentale più che secondo gli schemi<br />
tradizionali di una feudalità che, nel contesto italiano, non riusciva più ad attecchire<br />
secondo i parametri generali europei. La funzione della donna, dunque, come<br />
dimostra anche il topos stilnovistico presente soprattutto nella novella di Cimone, è<br />
quella di suscitare le nobili qualità dell’animo in chi non le possiede, ovvero di<br />
resuscitarle in un contesto che le ha – temporaneamente – perdute (di vista).<br />
È per questo che l’acquisizione della nobiltà si pone come elemento vivificante, cui<br />
Boccaccio conferisce una importanza narrativa centrale.<br />
Nobiltà “ecclesiastica”<br />
Altra caratterizzazione, di minore rilievo forse, è quella delle conduttrici dei<br />
conventi, da Boccaccio poste spesso sotto il fuoco incrociato delle tentazioni<br />
sensuali: il munistero di donne assai famoso di santità dove andrà a servire Masetto,<br />
è governato da una badessa che si presenta caritatevole e benigna al momento<br />
dell’assunzione del volenteroso mutolo (dagli qualche paio di scarpette, qualche<br />
cappuccio vecchio, e lusingalo, fagli vezzi, dagli ben da mangiare (III, 1, 17)), per<br />
poi “approfittarne”, ultima delle nove donne che abitano il convento: l’autore ci fa –<br />
non sappiamo quanto volontariamente – notare che, a differenza delle altre monache<br />
che si accontentavano di incontrare Masetto nel capanno in cui l’ortolano abitava, la<br />
badessa nella sua camera nel menò (III, 1, 35), a sottolineare la differenza di<br />
condizione sociale rispetto alle sue sottoposte, ma anche una certa aristocratica<br />
118
abitudine, di convocare nei propri – in questo caso modesti, dobbiamo supporre –<br />
appartamenti la servitù! La badessa della seconda novella della nona giornata,<br />
madonna Usimbalda – anche lei personaggio fondamentale per lo svolgimento della<br />
novella (rovesciamento della I, 4) – viene presentata come buona e santa donna<br />
secondo la oppinion delle donne monache e di chiunque la conoscea (IX, 2, 7):<br />
trattandosi verosimilmente di un convento di clausura (la protagonista, Isabetta, si<br />
innamora del bel giovane essendo un dì a un suo parente alla grata venuta (IX, 2,<br />
5)), il fatto che la badessa sia tanto conosciuta non può derivare che dalla sua<br />
condizione sociale (cioè da quella precedente l’inizio della vita conventuale, e<br />
insieme da quella conseguente dalla sua funzione di badessa), tanto che la presenza<br />
dell’inusuale saltero fornito dalle braghe del prete, non vuol essere rilevata dalle<br />
astanti.<br />
Un riferimento indiretto – ed ironico – alla nobiltà che alberga nei conventi cristiani,<br />
è quello contenuto nel racconto di Alatiel (II, 7, 109), dove si accenna appunto<br />
all’accoglienza benigna ed onorevole dimostrata dalle religiose nei confronti della<br />
profuga, in considerazione – dobbiamo arguire in base a quanto intuibile dal senso<br />
generale della narrazione – della nobiltà che dalla persona della giovane doveva<br />
irradiarsi: del resto, nonostante gli eventi narrati in riferimento alla vita non<br />
propriamente pia di queste comunità femminili, esse vengono sempre presentate<br />
positivamente, per poi lasciare al lettore il giudizio definitivo riguardo alla “nobiltà”<br />
dei comportamenti, una volta giunti alla fine della narrazione.<br />
Gli ornamenti della nobiltà<br />
Per quanto riguarda poi gli ornamenti esteriori delle appartenenti a questo olimpo,<br />
ornamenti che generalmente nel Decameron vengono investiti di una funzione<br />
notevole 70 , essi non sono sempre del tutto esplicitati, ma limitati ad alcuni segnali<br />
particolari (il vestiario è comunque più importante della foggia dei capelli, o del<br />
trucco, o dei gioielli) incaricati di esprimere la funzione sociale del vestito –<br />
70 A proposito della quale Elissa Weaver ha parlato di una semiotica del vestire (1989:701-<br />
705).<br />
119
soprattutto dal punto di vista del ceto emergente, quindi con maggiore evidenza nel<br />
mondo mercantile italiano –, l’assenza del quale esprime sempre una sconfitta<br />
(Weaver 1989:703-704). È fondamentale, da questa prospettiva, ricordare che i<br />
meccanismi di vestizione e svestizione presenti nell’ultima novella dell’opera,<br />
riescono a rappresentare con grande efficacia – anche in virtù del loro alto significato<br />
simbolico – l’acquisizione e la perdita del rango nobiliare, anche nella psicologia<br />
della protagonista: prima che Griselda venga fatta svestire pubblicamente per sancire<br />
davanti ai sudditi le nozze, Gualtieri fa preparare il corredo principesco della futura<br />
sposa, usando una sorta di “modella” (una giovane la quale della persona gli pareva<br />
che la giovinetta la quale avea proposto di sposare, ma non sappiamo se questa<br />
giovane fosse di nobili natali) al fine di far approntare più robe belle e ricche, oltre<br />
agli “accessori” soliti quali cinture e anella e una ricca e bella corona 71 (X, 10, 14).<br />
Spogliarsi degli abiti sino a quel momento usati e vestire il corredo preparato dal<br />
marchese significano, per Griselda, abbandonare la condizione umile di nascita per<br />
abbracciare un nuovo status, in cui non è però sufficiente apparire, ma bisogna<br />
anche saper ben amministrare il potere che da esso deriva (similmente verso i subditi<br />
del marito era tanto graziosa e tanto benigna (X, 10, 25)): la metamorfosi di<br />
Griselda, che nella finzione viene invertita con l’arrivo della “nuova moglie” di<br />
Gualtieri, nella realtà è incontrovertibile, nonostante la svestizione cui la donna si<br />
sottopone la privi pubblicamente della condizione precedentemente acquisita.<br />
Generalmente gli arredi, i profumi, i tessuti preziosi, si trovano “intorno” alla donna,<br />
a testimoniare la disposizione ad utilizzare gli oggetti esteticamente più consoni al<br />
rango elevato, anche in funzione capziosa: è quanto succede, ad esempio, nella<br />
novella di Andreuccio, dove la rapida occhiata del giovane perugino alla camera di<br />
Fiordaliso, cogliendo i particolari dei profumi delicati e delle molte robe su per le<br />
stanghe, ingenera la convinzione che la bella siciliana debba essere non men che<br />
gran donna (II, 5, 17). Simili effetti avranno su Salabaetto le finezze panormitane<br />
adoperate da madama Iancofiore per irretire l’inesperto commerciante fiorentino<br />
71 È questo un motivo ricorrente, se anche il Saladino, nella X, 9, aveva inviato una corona<br />
alla moglie di messer Torello.<br />
120
(che, così come Andreuccio, stima che ella fosse una gran donna (VIII, 10, 10)): il<br />
contesto “edenico” descritto da Boccaccio nobilita il bagno, luogo abituale degli<br />
incontri amorosi 72 , mediante l’inserimento della servitù numerosa che riceve il<br />
giovane, ed accompagna madama Iancofiore, ma soprattutto grazie ai riferimenti alla<br />
biancheria finissima, ai saponi delicati, infine ai profumi che rendono quasi palpabile<br />
l’aura di nobiltà femminile che emana dal corpo della siciliana. Se questi particolari<br />
servono a creare un’atmosfera ingannevole, puntualmente smentita dalla venalità che<br />
rivela la vera natura di queste donne, non possiamo rinunciare a considerare come le<br />
allusioni dell’autore alla forza delle apparenze, siano in realtà un avviso a meglio<br />
valutare l’aspetto esteriore di persone e cose, ovvero ad apprezzare con maggiore<br />
distacco le qualità superficiali, rispetto a quelle dell’animo: in un olimpo femminile<br />
decameroniano, dunque, non è tanto la nobiltà anagrafica delle protagoniste a<br />
contare, quanto il loro atteggiamento nei confronti del ruolo che rivestono nella<br />
società, la loro capacità di rivelare quelle doti naturali che, nelle donne, si<br />
accompagnano a più appariscenti – e per questo talvolta ingannevoli – bellezze<br />
fisiche.<br />
In virtù della nobiltà alcuni personaggi femminili hanno anche un particolare<br />
comportamento elocutivo, che vedremo più dettagliatamente nel momento<br />
dell’analisi della dimensione retorica dei discorsi femminili, ma che in sostanza si<br />
pone come facoltà di argomentare almeno paritaria, se non superiore, a quella in<br />
possesso degli interlocutori maschili.<br />
72 Non dimentichiamo che le “case di tolleranza” in molte città europee erano, a quel tempo,<br />
null’altro che “stufe”, ciò bagni pubblici in cui altrettanto pubblicamente veniva esercitato il<br />
meretricio. In un bagno, del resto, Ricciardo Minutolo riesce ad adescare e poi a conquistare<br />
la bella Catella (III, 6).<br />
121
Le borghesi<br />
Una caratterizzazione sociale che maggiormente evidenzia le novità del Decameron<br />
rispetto alla letteratura precedente, è quella legata all’ambiente “nativo” di<br />
Boccaccio, ovvero alla borghesia cittadina (non necessariamente o esclusivamente<br />
fiorentina) che è ampiamente rappresentata anche nell’universo femminile delle<br />
novelle: abbiamo già sottolineato come la donna borghese rappresenti un punto di<br />
forza tematico dei fabliaux e come, anche in virtù di questa scelta, essa possa essere<br />
contrapposta per qualità all’ideale femminile della poesia cortese.<br />
Giovanna e Sismonda<br />
Questa affermazione è sicuramente smentita dalle protagoniste borghesi del<br />
Decameron, anche se non sempre possiamo parlare di una appartenenza determinata<br />
a questo ceto, quanto piuttosto di un continuo “travaso sociale” tra nobiltà e<br />
borghesia 73 . Tale fenomeno si manifesta, se guardiamo alla condizione sociale di<br />
73 Partendo dalla definizione branchiana del Decameron come epopea dei mercatanti<br />
(Branca 1996:134-164), Asor Rosa fa notare che la rottura degli schemi adoperata da<br />
Boccaccio, se non privilegia, neppure esclude alcun ceto sociale, nonostante sia evidente una<br />
prevalenza statistica del ceto mercantile nella tipologia dei protagonisti delle novelle<br />
(1992:95): per quanto riguarda i “diritti” dei personaggi che si muovono entro il tessuto<br />
narrativo del Centonovelle, ciò stabilisce in linea di principio una pari dignità tra persone di<br />
assai diversa condizione (ibidem). Altra prospettiva è quella utilizzata da Sallay nel suo<br />
saggio su Movimenti eretici e crisi religiosa della borghesia comunale italiana fino alla fine<br />
del Trecento, in cui, dopo aver evidenziato il contrasto tra popolo grasso e nobiltà come<br />
indice maggiormente rappresentativo dei mutamenti nell’equilibrio politico a Firenze a<br />
partire dalla morte di Manfredi, lo studioso ricorda come il Decameron sia figlio del periodo<br />
più splendido di Firenze, quando ancora sembrava che tutti quegli ideali abbracciati da<br />
Boccaccio, si sarebbero realizzati senza problemi di sorta: nonostante si fosse già all’epoca<br />
del crollo delle grandi banche cittadine, le conseguenze di questo evento non si mostravano<br />
ancora in tutta la loro acutezza (1957:71, trad. di chi scrive). Per quanto riguarda poi la<br />
conciliazione della sensibilità aristocratica con la interpretazione del contegno sociale da<br />
parte della borghesia, non possiamo non ricordare l’analisi della sesta giornata compiuta dal<br />
Getto che, prendendo in esame culto della forma e civiltà fiorentina, rileva i fondamenti<br />
delle istruzioni comportamentali contenute nell’opera attraverso il “filtro” dell’ambiente<br />
inteso quale cornice di eleganti forme del viver civile, in cui si riconoscono personaggi di<br />
ogni estrazione: esempio paradigmatico è quello della novella pratese di madonna Filippa, in<br />
122
alcune protagoniste, come conseguenza del matrimonio come elemento di modifica<br />
della loro situazione all’interno della società 74 . In due novelle, la nona della quinta e<br />
l’ottava della settima giornata, troviamo un riferimento diretto a questi mutamenti:<br />
nella conclusione della prima, monna Giovanna, precedentemente invano corteggiata<br />
da Federigo, morti il marito ed il figlio, decide di sposare il gentiluomo nonostante<br />
egli sia poverissimo. Il parere dei fratelli della donna, evidentemente propensi ad un<br />
matrimonio che possa aumentare il già consistente patrimonio di cui monna<br />
Giovanna dispone in quanto erede unica del defunto marito, è improntato alla beffa:<br />
«Sciocca, che è ciò che tu di’? come vuoi tu lui che non ha cosa del<br />
mondo?» (V, 9, 40),<br />
mentre la risposta della bella e ricca vedova, posponendo l’interesse pecuniario a<br />
quello più spiccatamente umano, da un lato sottolinea il valore morale dell’unione<br />
coniugale, dall’altro “santifica” un legame in cui alla ricchezza patrimoniale si<br />
aggiunge quella della tradizione della nobiltà cittadina:<br />
... ma io voglio avanti uomo che abbia bisogno di ricchezza che<br />
ricchezza che abbia bisogno d’uomo. (V, 9, 42).<br />
cui il critico sottolinea in quale ricca intuizione di vita si inserisca la «pronta e piacevole<br />
risposta» di madonna Filippa, alludendo al clima di coinvolgimento collettivo (del podestà e<br />
del popolo accorso al giudizio) rappresentato da Boccaccio (Getto 1958:152-153).<br />
74 La politica delle alleanze matrimoniali come fondamento delle strategie familiari è<br />
sicuramente uno degli argomenti maggiormente discussi – direttamente ed indirettamente –<br />
dal Decameron, se lo consideriamo come documento dell’epoca in cui viene scritto, anzi<br />
addirittura come documento di un mutamento epocale, relativo, per il passato, almeno al<br />
secolo precedente, ed in qualche modo proiettato verso i secoli futuri: del resto, proprio il<br />
successo del modello socio-economico comunale aveva man mano messo in discussione la<br />
supremazia del legame di sangue, rispetto ad altre forme di solidarietà, in cui spiccavano i<br />
rapporti tra amici, vicini, soci in affari. Le strategie familiar-matrimoniali, dunque, se da un<br />
lato ampliavano le loro potenzialità, diventavano assai più concretamente limiti alla libertà<br />
del singolo, e ciò riguardava tanto la donna quanto l’uomo (v. la trattazione del problema in<br />
De Giorgio-Klapisch-Zuber 1996:93-96).<br />
123
Data la conclusione, che rimette al centro della narrazione il buon Federigo (Il quale<br />
così fatta donna e cui egli cotanto amata avea per moglie vedendosi, e oltre a ciò<br />
ricchissimo, in letizia con lei, miglior massaio fatto, terminò gli anni suoi. (V, 9, 43))<br />
ma non accenna ad una continuazione della sua progenie, non riusciamo ad affermare<br />
inequivocabilmente quale sia stato il vero effetto del matrimonio: il gentiluomo<br />
fiorentino si è “imborghesito”, o piuttosto monna Giovanna ha pienamente acquisito<br />
il nuovo stato sociale? 75<br />
Il caso di madonna Sismonda, nata nobile e data in sposa ad un mercante, è – in virtù<br />
della piega che gli eventi prendono nel corso della narrazione – opposto a quello che<br />
abbiamo appena analizzato: mentre monna Giovanna impone la sua scelta ai fratelli,<br />
la gentildonna fiorentina scampata allo stratagemma del marito geloso, addirittura<br />
rimprovera alla propria famiglia di aver optato per un legame tanto svantaggioso:<br />
Fratei miei,(...) Questo valente uomo, al quale voi nella mala ora per<br />
moglie mi deste, che si chiama mercante e che vuole esser creduto (...),<br />
son poche sere che egli non si vada inebbriando per le taverne e or con<br />
questa cattiva femina e or con quella rimescolando... (VII, 8, 42).<br />
La madre della donna rincara la dose, in una invettiva che possiamo leggere come<br />
l’antiepopea dei mercatanti, ed in cui ritroviamo non solo pregiudizii correnti nei<br />
confronti della borghesia arricchitasi con i commerci, ma addirittura una descrizione<br />
75 Già il Russo, nella sua lettura di questa novella, aveva rilevato il ruolo del figlio di monna<br />
Giovanna, nel momento in cui inizia a prender confidenza con Federigo e con i suoi nobili<br />
passatempi (1977:190-191): ad una lettura più attenta del coinvolgimento psicologico della<br />
donna e del suo figliolo nella sfera di valori che Federigo ed il suo modus vivendi<br />
rappresentano, si nota facilmente come l’interesse del ragazzo per gli intrattenimenti<br />
maschili tipici della classe equestre (cani e falconi da caccia) non sia che l’introduzione<br />
all’iniziazione di monna Giovanna a questo mondo da lei sino a quel momento rifiutato nella<br />
componente cortese-cavalleresca del corteggiamento. Quando la donna giunge, anche se<br />
inconsapevolmente, a cibarsi del falcone, implicitamente accetta le regole impostele dalla<br />
vicinanza con Federigo, che la spingeranno a cercare una unione legittima con quest’ultimo.<br />
124
dell’uso ormai invalso, da parte dei mercanti, di chiedere in moglie delle donne di<br />
nobili natali, con le funeste conseguenze che da esso costume derivano:<br />
Frate, bene sta! basterebbe se egli t’avesse ricolta del fango! Col<br />
malanno possa egli essere oggimai, se tu dei stare al fracidume delle<br />
parole di un mercatantuzzo di feccia d’asino, che venutici di contado e<br />
usciti delle troiate vestiti di romagnuolo, con le calze a campanile e<br />
colla penna in culo, come egli hanno tre soldi, vogliono le figliuole de’<br />
gentili uomini e delle buone donne per moglie, e fanno arme e dicono:<br />
‘I’ son de’ cotali’ e ‘Quei di casa mia fecer così’. Ben vorrei che’ miei<br />
figliuoli n’avesser seguito il mio consiglio, che ti potevano così<br />
orrevolmente acconciare in casa i conti Guidi con un pezzo di pane, e<br />
essi vollono pur darti a questa bella gioia, dove tu se’ la miglior<br />
figliuola di Firenze... (VII, 8, 45-47)<br />
Al di là di questi casi in cui esplicitamente viene citato il matrimonio come elemento<br />
di svolta – negativa o positiva – nell’assetto sociale, l’appartenenza di numerose<br />
delle protagoniste del Decameron al ceto borghese corrisponde ad una particolare<br />
presa di posizione dell’autore, che pur non svalutando questo senso di appartenenza<br />
(anzi, addirittura deprecando le ingiuste incongruenze dei voleri di natura e fortuna,<br />
nella introduzione alla novella di Cisti fornaio!), neanche riesce a privarlo di alcune<br />
caratteristiche negative, talvolta mutuate dalla precedente tradizione letteraria – e<br />
misogina.<br />
Madonna Ambruogia<br />
È il caso, paradigmatico, della prima novella dell’ottava giornata, che si ricollega a<br />
quella tradizione comica del fabliau in cui le esponenti della borghesia mostrano<br />
tutta la loro corruzione morale 76 : madonna Ambruogia, descritta in tutto il suo<br />
76 In questo esse sono variamente giustificate, se pensiamo alla generica motivazione della<br />
frequente lontananza da casa dei mariti impegnati nei traffici più disparati (questo motivo<br />
125
splendore come oggetto del desiderio del soldato di ventura Gulfardo, amata da<br />
questi con discrezione (amandola assai discretamente, senza avvedersene il marito<br />
né altri (VIII, 1, 6)) ed interpellata secondo la formula del servigio d’amore sulla<br />
possibilità di ottenere il desiderato guiderdone (pregandola che le dovesse piacere<br />
d’essergli del suo amore cortese e che egli era dalla sua parte presto a dover fare<br />
ciò che ella comandasse (ibidem)), accetta a condizione che la cosa resti segreta e –<br />
soprattutto – che il guiderdone le frutti una notevole somma di denaro. Sappiamo<br />
bene quanto Boccaccio critichi nella sua opera l’avarizia e la venalità in genere,<br />
partendo dal principio per cui ove questi vizi albergano l’animo non può accogliere<br />
più alte pulsioni: a meglio rappresentare questa posizione, giunge il ripensamento di<br />
Gulfardo, che delibera di mutare in odio l’amore che prima nutriva per la donna,<br />
argomentando per antitesi:<br />
Gulfardo, udendo la ngordigia di costei, isdegnato per la viltà di lei la<br />
quale egli credeva che fosse una valente donna (VIII, 1, 8).<br />
Al giudizio negativo espresso per bocca di Gulfardo, si aggiunge quello del<br />
narratore, che muta il suo giudizio iniziale espresso con la parola donna,<br />
correggendolo in cattiva femina, utilizzando l’antitesi donna-femina in senso morale<br />
e non di distinzione sociale, né alludendo al prevalere degli istinti della carne (come<br />
capita in IV, 1): l’occasione dell’incontro tra Gulfardo ed Ambruogia è data dal topos<br />
del marito in viaggio, e Boccaccio ce la dipinge come una scena dalle forti valenze<br />
simboliche. Il soldato di ventura, che giunge in compagnia all’abboccamento<br />
viene ripreso dal Decameron spesso, addirittura in principio di novella come<br />
“presentimento”, nella novella del Zima), come espressa nel patto tra il chierico e la moglie<br />
fedifraga del possidente di Amiens ne La borghese d’Orleans, oppure alla sorte “estrema”<br />
della figlia del cavaliere data in moglie al ricco villano de Il contadino medico (Du vilain<br />
mire); anzi, pare talvolta normale, addirittura conveniente, che il cappellano o il chierico di<br />
passaggio sostituiscano il marito assente. Nonostante la continua insidia di preti e frati venga<br />
stigmatizzata dal celebre discorso di Tedaldo (III, 7), non sono poche le novelle in cui gli<br />
uomini di chiesa si prodigano in questo senso, dalla quarta novella della prima fino alla<br />
decima della nona giornata.<br />
126
amoroso, usa il suo accompagnatore come doppio testimone (della consegna dei<br />
denari così come dell’avventura erotica, se è vero che nel corso della narrazione non<br />
viene espresso esplicitamente il fatto che abbandoni la casa di Gasparruolo), mentre<br />
la donna cede ad un atto ancor più eloquente della sua ingordigia, mettendosi a<br />
contare i fiorini sopra una tavola: un gesto che doveva essere quello abituale dei<br />
banchieri, ma che compiuto da madonna Ambruogia rende ancora più evidente la sua<br />
disposizione d’animo. In questa maniera, la sua caratterizzazione si oppone ad altre<br />
figure chiave, quali per esempio Lisabetta da Messina, che è al contrario oppressa –<br />
direttamente ed indirettamente – dalla mentalità meschina dei fratelli, allo stesso<br />
modo di monna Giovanna, che disprezza – abbiamo visto – la venalità del proprio<br />
stato sociale ed abbraccia un diverso modo di vedere i rapporti umani.<br />
La femminilità esuberante<br />
Per quanto riguarda invece la corruzione dei costumi, e qui intendiamo una maniera<br />
anche troppo “leggera” di cedere alle lusinghe dei corteggiatori, Boccaccio ci<br />
fornisce una vera e propria galleria di borghesi bendisposte ad accettare una<br />
relazione extraconiugale: nulla sappiamo della condizione sociale dell’amante di<br />
Azzo d’Este, che accoglie con tanta cortesia Rinaldo d’Asti (II, 2), ma possiamo<br />
supporre si tratti di una donna della borghesia (altrimenti non avrebbe accondisceso<br />
ad un legame tanto compromettente, seppure con il potente marchese); mentre<br />
Bartolomea Gualandi, moglie del giudice Riccardo di Chinzica (II, 10), passa dalla<br />
famiglia di antica nobiltà all’unione con un rappresentante della borghesia<br />
amministrativa, per finire concubina di Paganino da Monaco, da lei preferito al<br />
marito legittimo. Nella terza novella della terza giornata ritorna il motivo della nobile<br />
maritata ad un uomo di rango inferiore, che proprio per questo motivo decide di<br />
concedersi a chi risulti degno di tanta nobiltà (Costei adunque, d’alto legnaggio<br />
veggendosi nata e maritata a uno artefice lanaiuolo, per ciò che artefice era non<br />
potendo lo sdegno dell’animo porre in terra, per lo quale stimava niuno uomo di<br />
bassa condizione, quantunque ricchissimo fosse, esser di gentil donna degno (...)<br />
propose (...) di volere a sodisfazione di se medesima trovare alcuno il quale più di<br />
127
ciò che il lanaiuolo le paresse che fosse degno. (III, 3, 6)), motivo variato nella<br />
novella seguente dal tema dell’inconciliabilità di una moglie giovane e fresca, con un<br />
marito vecchio e desideroso di vita casta, ben presto sostituito dal prestante don<br />
Felice; situazione da fablel è quella della novella che ha come protagonista il<br />
ricchissimo villano Ferondo (III, 8), mandato in Purgatorio a causa della passione<br />
nutrita per sua moglie dall’abate, mentre ritorna (per ammissione stessa dell’autore)<br />
nell’ultima novella della quarta giornata il motivo della perdita di uno stato sociale<br />
privilegiato non equilibrato dalla prestanza del marito, già sviluppato in II, 10 (questa<br />
volta il coniuge è un medico, ma basterebbe rileggere la novella di Giletta di<br />
Nerbona per comprendere quanto potesse essere ritenuta inferiore per lignaggio<br />
anche questa categoria professionale, dagli appartenenti alla nobiltà).<br />
La ricchezza patrimoniale del marito sembra catalizzare, oltre che la gelosia del<br />
capofamiglia, anche l’infedeltà coniugale: moglie di un ricco uomo è infatti la<br />
consorte di Pietro di Vinciolo (V, 10), già nell’incipit caratterizzata da ambizioni<br />
poligamiche (una giovane compressa, di pel rosso e accesa, la quale due mariti più<br />
tosto che uno avrebbe voluti (V, 10, 7)), come anche la comare di frate Rinaldo (una<br />
sua vicina, e assai bella donna e moglie d’un ricco uomo (VII, 3)), monna Ghita<br />
(VII, 4) e la moglie del ricco mercante riminese (VII, 5) 77 .<br />
Il culto del denaro, del profitto, in cui queste donne sono immerse per motivi<br />
contingenti, pregiudica, in qualche modo, la loro moralità, anche se non è raro che il<br />
narratore insista sul motivo della rivalsa nei confronti di un coniuge “inadempiente”:<br />
cosa che non avviene, ad esempio, per madonna Filippa (VI, 7) o anche, in altro<br />
contesto, per la moglie di Guiglielmo di Rossiglione (IV, 9), in quanto esse vedono<br />
nel legame erotico extraconiugale la realizzazione di un ideale comportamentale<br />
cortese, disapprovato però dalla legge.<br />
77 Ciò non significa che una condizione patrimoniale meno felice non contempli una simile<br />
buona disposizione alla lussuria, come avviene – ad esempio – nel caso della popolana<br />
Peronella (VII, 2) o della contadina Belcolore (VIII, 2), di cui si parlerà in altra sede.<br />
128
Elementi positivi nell’atteggiamento morale<br />
In altra sede abbiamo parlato della funzione rinnovatrice affidata ad un personaggio<br />
come Giletta di Nerbona, nel momento in cui essa acquista la nobiltà proveniente<br />
dall’unione matrimoniale: nella prospettiva dell’analisi delle qualità attribuite alle<br />
esponenti femminili della borghesia, questa funzione si deve intendere anche riferita<br />
alla più generale capacità di esprimere un atteggiamento morale ben diverso da<br />
quello – stereotipato dallo stesso Boccaccio negli esempi da noi precedentemente<br />
riportati – che vede nell’esuberante femminilità delle donne borghesi l’elemento<br />
preponderante della loro personalità. Nel caso di Giletta, come anche in quello di<br />
Ginevra (II, 9), siamo di fronte ad una fermezza d’animo che l’autore amplifica<br />
grazie alla dinamica delle azioni in cui le due donne sono coinvolte: recuperando gli<br />
schemi narrativi utilizzati nelle odissee di Landolfo Rufolo (II, 4) o di Tedaldo (III,<br />
7), Boccaccio inserisce le sue eroine femminili in strutture evenemenziali tipiche<br />
dell’esaltazione delle qualità di iniziativa attribuite ai mercanti. Del resto, sia la<br />
animosa figlia di Gerardo di Nerbona, che la sventurata moglie di Bernabò, ci<br />
vengono presentate come depositarie di virtù maschili e femminili insieme, che le<br />
rendono adatte ad uscire vincitrici da situazioni estremamente complesse. Al<br />
contrario di quanto avviene con Alatiel, la cui moralità è fortemente messa in dubbio<br />
dagli eventi di cui è vittima – nonostante essa nominalmente riesca a ricostituire la<br />
propria verginità di fronte al consesso civile, grazie alla forza convincitrice del<br />
discorso –, queste eroine borghesi devono necessariamente muoversi nel margine<br />
della conservazione della loro integrità morale: se Ginevra sceglie il travestimento<br />
per occultare la femminilità, in questo modo annullando la causa dell’inganno<br />
perpetrato da Ambruogiuolo e costruendosi un alter ego in grado di preservarla da<br />
altre offese, Giletta deve agire anche lei “nascosta”, sostituendosi alla donna amata<br />
dal proprio legittimo marito, dunque realizzando con l’inganno quelle condizioni che<br />
le consentono di salvaguardare la base morale della sua unione con Beltramo.<br />
Nel momento in cui viene posta di fronte all’ingiusta accusa di tradimento, Ginevra<br />
testimonia la propria innocenza – in maniera ben diversa da quella di monna Filippa!<br />
– chiamando a testimone Dio ed evitando di nominare l’adulterio:<br />
129
Idio, che tutto conosce, sa che io non feci mai cosa per la quale io dal mio marito<br />
debbia così fatto merito ricevere. (II, 9, 39), per poi abbracciare l’incognito, decisa a<br />
pagare comunque con la cancellazione della propria identità il fio di una colpa non<br />
commessa (... io mi dileguerò e andronne in parte che mai né a lui né a te in queste<br />
contrade di me perverrà alcuna novella. (II, 9, 39)).<br />
Giletta dimostra la stessa intraprendenza, quando decide di sfidare l’ostacolo<br />
impossibile a sormontarsi oppostole da Beltramo: con la stessa forza d’animo con cui<br />
si era decisa a sfidare il pregiudizio della corte regale (Il re si fece in se medesimo<br />
beffe delle parole di costei dicendo:«Quello che i maggior medici del mondo non<br />
hanno potuto né saputo, una giovane femina come il potrebbe sapere? (III, 9, 11)), la<br />
giovane accoglie il nuovo cimento con dolore, sì, ma subito illuminata dalla speranza<br />
di poter riuscir vincitrice (dopo lungo pensiero diliberò di voler sapere se quelle due<br />
cose potessero venir fatto (III, 9, 32)). Da quel momento, Giletta si trova immersa in<br />
una situazione diametralmente opposta alla propria: raggiunto Beltramo a Firenze,<br />
scopre che egli è innamorato di una giovane nobile ma povera, e che dovrà superare<br />
la convenienza di quest’ultima per rango, con la forza che le viene dalla legittimità<br />
del proprio legame matrimoniale. Per realizzare questo, però, dovrà sostituirsi alla<br />
giovane, in qualche modo rinunciando alla propria identità e realizzando<br />
“virtualmente” quanto desiderato dal Conte di Rossiglione: nella descrizione di<br />
questo complesso gioco delle parti, Boccaccio chiamerà costantemente contessa la<br />
protagonista, definendo gentil femina (III, 9, 36) la sua concorrente, gentil donna la<br />
madre di quest’ultima, ma ricordandoci continuamente come l’aspetto esteriore di<br />
Giletta non corrisponda al suo effettivo ruolo sociale. Ella è infatti, prima e dopo gli<br />
eventi determinanti per la riuscita del suo progetto, sempre in abito da pellegrina, e<br />
soltanto dopo essere stata legittimata da Beltramo (lei abbracciò e basciò e per sua<br />
legittima moglie riconobbe (III, 9, 60)), riacquista quella nobiltà di apparenze che le<br />
si addice (fattala di vestimenti a lei convenevoli rivestire (III, 9, 61)): anche in questo<br />
caso – poiché Ginevra (II, 9) era stata legittimata nella sua innocenza dall’autorità<br />
del sultano, a lei favorevole per merito delle sue virtù morali – la giovane riesce a<br />
risolvere la situazione conflittuale grazie all’atteggiamento di equità morale che<br />
130
dimostra durante ogni sua azione, in cui persino l’inganno assume una valenza<br />
positiva.<br />
Ci sembra evidente, dunque, come gli esempi virtuosi di queste protagoniste abbiano<br />
il fine di “riscattare” quella immagine della donna borghese che una tradizione<br />
misogina – peraltro non ignorata dal Boccaccio – aveva designato quale esclusiva<br />
possibilità di caratterizzazione: in realtà, ben più complessi sono i meccanismi alla<br />
base di questa tipologia, e proprio nel Decameron ne troviamo numerosi esempi.<br />
131
Le donne del popolo minuto<br />
La gamma di tipologizzazioni sociali delle figure femminili del Decameron<br />
comprende, naturalmente, anche quelle donne che non appartengono né alla<br />
borghesia, né alla nobiltà, né vedranno mutare il loro lignaggio in conseguenza di un<br />
matrimonio quale quello su cui si fonda la vicenda di Griselda: contadine, operaie,<br />
donne che pur nella loro condizione di femine mostrano pulsioni ed ambizioni non<br />
distanti da quelle delle loro consimili di più alto rango.<br />
Monna Belcolore<br />
Gli antecedenti di questa inclusione delle più umili figlie di Eva nel contesto<br />
letterario sono naturalmente da cercarsi nella vena comico-realistica dei fabliaux e<br />
della letteratura misogina precedente il Boccaccio: spicca per la concretezza<br />
dell’esempio una delle ultime trattazioni del primo libro del De amore di Andrea<br />
Cappellano, in cui le contadine, esaminate dal punto di vista del “conquistatore”,<br />
vengono reputate come le più ostiche all’amore, e pertanto meritevoli di violenza:<br />
Ma se ti attrae l’amore delle contadine, ricordati di lodarle molto e, se ti<br />
capita l’opportunità, non indugiare a prendere ciò che vuoi e ad<br />
accoppiarti con la violenza, perché difficilmente potrai addolcirle fino al<br />
punto che decidano di accoppiarsi pacificamente o di permetterti i<br />
piaceri che desideri, se non c’è almeno la medicina di una piccola<br />
costrizione necessaria al loro pudore. (Cappellano 1992:121)<br />
L’amore per le contadine, anzi per una contadina in particolare, è al centro della<br />
seconda novella dell’ottava giornata, in cui il prete di Varlungo si cimenta con gli<br />
insegnamenti del Cappellano, scegliendo l’inganno piuttosto che la violenza vera e<br />
propria: come abbiamo già ricordato a proposito delle tipologie adottate da<br />
Boccaccio per la rappresentazione del corpo femminile, la descrizione di monna<br />
Belcolore, inserita in un più complesso esercizio stilistico atto a rappresentare<br />
132
l’ambiente rustico in cui si svolge la narrazione, da un lato descrive un ideale di<br />
bellezza non perfettamente consono con quello cittadino, dall’altro però esprime una<br />
disposizione d’animo che, con la sua frenetica allegria (era quella che meglio sapeva<br />
sonare il cembalo e cantare L’acqua corre la borrana e menar la ridda e il<br />
ballonchio... (VIII, 2, 9)), corrisponde agli umori del valente prete e gagliardo che,<br />
alla maniera dei religiosi dei fabliaux o di quelli esacrati nella lunga arringa di<br />
Tedaldo, ricreava i suoi popolani; e meglio le lor donne (VIII, 2, 6-7). Interessante è<br />
per noi che la raffigurazione della donna corteggiata dal prete di Varlungo, grazie<br />
alla raffinatamente ironica ricerca di realismo che Boccaccio applica in questo caso,<br />
abbia sempre un riferimento al lavoro dei campi o ad altre incombenze ad esso<br />
collegate: l’incontro tra i due si svolge infatti in un caldo pomeriggio, quando la<br />
donna, non potendo lavorare nei campi, si trova in casa, anzi, quasi a fingere<br />
casualmente la situazione tipica del vagheggiamento cortese, che vuole l’uomo<br />
sospirante in posizione sottomessa rispetto alla donna, Boccaccio ce la presenta in<br />
balco, nel soppalco della dimora, dunque, donde immediatamente scende per<br />
cominciare a nettare sementa di cavolini che il marito avea poco innanzi trebbiati<br />
(VIII, 2, 19).<br />
Il dialogo amoroso, ricco di sottintesi cui la donna argutamente sa rispondere,<br />
continua con l’enumerazione di faccende umili (Egli mi conviene andar sabato a<br />
Firenze a render lana che io ho filata e a far racconciare il filatoio mio (VIII, 2,<br />
28)), cui fanno da contr’altare le modeste – eppur ricche di femminilità – ambizioni<br />
estetiche della contadina (...e se voi mi prestate cinque lire, che so che l’avete, io<br />
ricoglierò dall’usuraio la gonnella mia del perso e lo scaggiale dai dì delle feste che<br />
io recai a marito... (VIII, 2, 28)): a differenza della smisurata venalità della<br />
protagonista della novella precedente, Ambruogia, che pretende da Gulfardo una<br />
somma altissima (duecento fiorini d’oro!), monna Belcolore si accontenta di una<br />
cifra modesta, che pure rappresenta un vero capitale per il suo corteggiatore<br />
(...pensando che quanti moccoli ricoglieva in tutto l’anno d’offerta non valeva la<br />
metà di cinque lire... (VIII, 2, 39)), indotto dunque a turlupinarla alla stessa maniera<br />
del soldato tedesco!<br />
133
Metamorfosi d’interesse<br />
Monna Belcolore, dunque, si dimostra facile preda delle parole ingannevoli dei<br />
religiosi, altrettanto quanto lo sarà – anche per merito del marito – la bella Gemmata<br />
che Donno Gianni tenterà di mutare in cavalla (IX, 10): abbiamo già in precedenza<br />
avvicinato le due figure di Gemmata e di Peronella, in quanto la loro<br />
caratterizzazione è quella che maggiormente spinge Boccaccio a valersi di<br />
similitudini animalesche, abbandonando la dimensione giocosa del rapporto d’amore<br />
per approdare ad una visione assai più cruda, bacchica del sesso. Esiste, nel<br />
Decameron, una linea panica della sensualità, il cui incipit potremmo porre<br />
nell’avvistamento da parte del giovane monaco della bella contadina in I, 4, e che<br />
prosegue con le avventure di Masetto di Lamporecchio (III, 1), l’eremitaggio di<br />
Alibech (III, 10), le promiscuità in casa di Pietro di Vinciolo (V, 10), fino appunto<br />
alle prodezze del prete di Varlungo, del prevosto di Fiesole (che si accoppierà, suo<br />
malgrado, con la Ciutazza (VIII, 4)) e di Donno Gianni: questo genere di sensualità,<br />
caratterizzato da istinti grevi e spesso ironicamente esuberanti, si radica soprattutto<br />
nella vita sentimentale della gente semplice, tutta dedita ai piaceri del corpo che<br />
alleviano in qualche modo le privazioni e le fatiche quotidiane.<br />
Le prodezze erotiche di Peronella, che come monna Belcolore è vista nella sua<br />
quotidianità di povera filatrice, la riscattano di una vita vissuta sottilmente, come non<br />
si addice ad una bella e vaga giovinetta (VII, 2, 7): l’unica maniera di evadere dal<br />
grigiore di un’esistenza fatta di stenti viene colta nel rapporto extraconiugale, nella<br />
intimità di poche ore che sostituiscono la realizzazione di un’ambizione irrealizzabile<br />
(Griselda rappresenta l’eccezione, da questo punto di vista). Peronella, riuscita ad<br />
eludere il sospetto del marito, si piega a soddisfare il desiderio del suo amante<br />
proprio a pochi centimetri dall’ignaro consorte, trasformata dalla passione in cavalla<br />
di Partia: quanto è differente il suo agire, sfrontato e disinibito, da quello foriero di<br />
ben più gravi conseguenze di Ghismonda, o di Lisabetta, che loro malgrado vengono<br />
colte dall’autorità paterna o fraterna nel momento del peccato! In realtà, Peronella si<br />
trasforma, abbandona i freni dell’inibizione che pure conosceva in precedenza<br />
(Oimé! Giannel mio, io son morta, che ecco il marito mio... (VII, 2, 12)), per sfidare<br />
134
con la pienezza del desiderio la presenza dell’autorità maritale, capovolgendo la<br />
situazione di terrore che s’era impadronita di lei al momento dell’arrivo del marito.<br />
Simile è il meccanismo su cui si basa la lunga descrizione della non riuscita<br />
metamorfosi di Gemmata: spinta dall’abbaglio del guadagno, ma più probabilmente<br />
dalla inguaribile curiosità femminile, la moglie di compare Pietro si sottopone alla<br />
cerimonia magica promessa da donno Gianni che dovrebbe tramutarla in cavalla.<br />
Anche intorno a questa figura di donna, Boccaccio ci presenta un ambiente di<br />
squallida miseria (Compar Pietro d’altra parte, essendo poverissimo e avendo una<br />
piccola casetta in Tresanti appena bastevole a lui e a una sua giovane e bella moglie<br />
e all’asino suo... (IX, 10, 8)), in cui le privazioni quotidiane possono spingere una<br />
giovane a desiderare persino di essere tramutata in animale, pur di ottenere qualcosa<br />
di più dalla vita. La lunga descrizione dei palpamenti del religioso rende ancor più<br />
meschina la situazione della donna, che finisce per divenire oggetto di disputa dei<br />
due uomini, in una situazione davvero – stavolta – boccaccesca!<br />
In ambedue i casi, però è proprio la speranza della metamorfosi, del cambiamento di<br />
identità, a guidare le donne in atteggiamenti e comportamenti che superano l’usuale,<br />
e che le immergono in quella greve sensualità che confina con il bestiale.<br />
Eroine del popolo minuto<br />
A riscattare moralmente le donne del popolo minuto sono gli esempi di muto ed<br />
ostinato “eroismo” che animano la settima ed ottava novella della quarta giornata: sia<br />
Simona che la Salvestra, a differenza delle altre protagoniste della giornata degli<br />
amori tragici, sono parte di quel popolo cittadino che pure Boccaccio gratifica di un<br />
drammatico ruolo in questa tanto particolare giornata del Decameron.<br />
La tragedia di Simona e Pasquino viene introdotta da una argomentazione che vuole<br />
contestare i pregiudizi nei confronti delle persone di umile nascita:<br />
Fu adunque, non è gran tempo, in Firenze una giovane assai bella e<br />
leggiadra secondo la sua condizione (...) e quantunque le convenisse con<br />
le proprie braccia il pan che mangiar volea guadagnare e filando lana<br />
135
sua vita reggesse, non fu per ciò di sì povero animo che ella non ardisse<br />
a ricevere amore nella sua mente... (IV, 7, 6)<br />
Significativamente, il narratore descrive l’approfondirsi stesso del rapporto d’amore<br />
tra i due giovani, come un avvolgersi sempre più fitto dei sospiri al lavoro del fuso<br />
(...filando a ogni passo di lana filata che al fuso avvolgeva mille sospiri più cocenti<br />
che fuoco gittava, di colui ricordandosi che a filar gliele aveva data. (IV, 7, 7)),<br />
quasi a sottintendere che, non essendovi per Simona molto tempo libero, è il tempo<br />
della filatura ad essere coinvolto nel piacevole riandare dei pensieri e dei sospiri,<br />
soprattutto se il giovane si fa sollecito della sua filatura. Di qui a trasformare la<br />
dimestichezza dovuta alle commissioni artigianali in vera e sollecita intimità, passa<br />
poco, soprattutto per due figli del popolo minuto che vogliono, come altri giovani<br />
protagonisti delle altre novelle della giornata (Ghismonda e Guiscardo, Lisabetta e<br />
Lorenzo) cogliere l’attimo ed amarsi, Simona e Pasquino vieppiù legittimati dalla<br />
liceità – seppur acerba – del loro legame. L’allegra brigata che si reca nel giardino<br />
deputato ad accogliere i giovanili riti d’amore, è in qualche modo immagine modesta<br />
della brigata di sette giovani donne e tre giovani uomini che si allontana da Firenze<br />
per sfuggire alla peste e trascorrere il tempo raccontando: questa brigata, però, non<br />
parla, se non per accusare la Simona, dopo aver assistito ad una manifestazione in<br />
effigie del morbo, causata dal veleno della botta rinvenuta poi sotto il cespo di salvia.<br />
L’umiltà dei personaggi, la modestia degli eventi, la miseria di quelle morti che<br />
stravolgono le semplici bellezze di Simona e Pasquino, sembrano caricare di<br />
maggiore tragedia quanto avviene in questa novella, dandoci il senso di una<br />
raffigurazione – quasi evangelicamente – essenziale della morte che non viene più<br />
accompagnata dalla consolazione, dal conforto, ma giunge improvvisa e si abbatte<br />
senza pietà proprio sulle creature più ingenue.<br />
Simile meccanismo è quello che colpisce la Salvestra, figliuola d’un sarto, che viene<br />
amata dal figlio di un grandissimo mercatante e ricco, allontanato da lei per ragioni<br />
che troviamo evidenti – ma ormai inutili – nella novella di Lisabetta da Messina:<br />
dimenticato Girolamo, la bella – ma di umili natali – giovane viene sposata ad un<br />
136
tappezziere (un buon giovane che faceva le trabacche (IV, 8, 14)) come dispone la<br />
convenienza sociale per chi appartiene alla stessa classe. Sarà il ritorno di Girolamo,<br />
e la sua spettacolare morte accanto alla Silvestra, nel medesimo letto in cui la donna<br />
dorme con il marito, a risuscitare in lei la passione per il giovane, che la porta a<br />
dimenticare tutto: né gli obblighi coniugali, né la condizione sociale, né il pudore di<br />
trovarsi in chiesa, le impediscono di soggiacere alla passione devastante in cui la<br />
pietà ha il sopravvento sull’amore:<br />
Quel cuore, il quale la lieta fortuna di Girolamo non aveva potuto<br />
aprire, la misera l’aperse, e l’antiche fiamme risuscitatevi tutte<br />
subitamente mutò in tanta pietà, come ella il viso morto vide, che sotto il<br />
mantel chiusa, tra donna e donna mettendosi, non ristette prima che al<br />
corpo fu pervenuta; e quivi, mandato un altissimo strido, sopra il morto<br />
giovane si gittò col suo viso, il quale non bagnò di molte lagrime, per ciò<br />
che prima nol toccò che, come al giovane il dolore la vita aveva tolta,<br />
così a lei tolse. (IV, 8, 34)<br />
La particolarità della reazione dell’animo di questa donna, che fino al momento del<br />
sacrificio dell’uomo che l’aveva vagheggiata era rimasta quasi indifferente al<br />
sentimento di amore che pure l’aveva posseduta in più tenera età, corrisponde<br />
perfettamente – nel suo gesto estremo – alla determinazione delle altre eroine e<br />
martiri volontarie di questa quarta giornata (pensiamo a Ghismonda o alla moglie di<br />
messer Guiglielmo), né viene inficiata dal fatto che la Salvestra appartenga ad una<br />
classe sociale inferiore: anche lei è capace dell’estremo sacrificio (la Simona ne è<br />
vittima involontaria, nonostante ripeta lo stesso gesto di Pasquino, quindi scegliendo,<br />
in un’impressionante recita della morte del suo amato, di seguire fino in fondo le<br />
conseguenze delle sue azioni modellate sull’esempio del giovane) che, nella sua<br />
137
somiglianza con il gesto di Girolamo, ottiene l’effetto di unire i due amanti anche<br />
nella modalità della morte, oltre che fisicamente nell’ultimo abbraccio. 78<br />
Sarebbe fuorviante pensare, dopo questa galleria di protagoniste appartenenti alle<br />
classi meno importanti delle strutture sociali di città e contado, che Boccaccio<br />
sentisse il dovere di includere questa tipologia sociale per anacronistiche convinzioni<br />
di eguaglianza (nonostante il discorso di Ghismonda e le considerazioni a proposito<br />
di Cisti fornaio sembrino dimostrare proprio il contrario)<br />
78 Anche in questo caso ritorna – a nostro giudizio – il modello importantissimo di Paolo e<br />
Francesca preso dal canto V dell’Inferno, nel motivo dell’abbraccio degli amanti nel<br />
momento supremo della morte, che in Dante E amplificato nella visione ultraterrena mentre,<br />
nelle parole di Ghismonda, è affermato come la più attraente delle dimensioni temporali del<br />
rapporto sentimentale (e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo (IV, 1, 32)).<br />
138
Tipologie retoriche<br />
139
La dimensione retorica del discorso femminile:<br />
la perorazione d’amore<br />
Per illustrare la tipologia della perorazione propria dei personaggi femminili del<br />
Decameron, procederemo al confronto tra le novelle terza e settima della seconda<br />
giornata, prima e nona della quarta: se queste quattro unità narrative si distinguono<br />
tra loro per il fatto di appartenere a due giornate dal tema in evidente contrasto (il<br />
lieto fine in opposizione all’infelice fine), esistono tra esse numerosi punti in comune<br />
(la tipologizzazione sociale dei personaggi, ad esempio), ma più di tutti i tratti è<br />
comune la presenza di un discorso persuasivo – cosa peraltro non rara nel<br />
Decameron – che si poggia sovente su argomentazioni simili, indipendentemente<br />
dalla patente diversità dei personaggi femminili delle novelle.<br />
Situazioni narrative di base<br />
Ricostruendo per sommi capi le situazioni che portano alla formulazione di questi<br />
discorsi, ricorderemo brevemente che:<br />
- in II, 3 la figlia del re d’Inghilterra decide di unirsi ad Alessandro, mercante<br />
fiorentino, e deve pertanto convincere addirittura il Papa della giustezza della<br />
propria decisione;<br />
- in II, 7 Alatiel, figlia del sultano di Babilonia, dopo una serie di peripezie<br />
ritrova la “strada di casa” e deve convincere suo padre del fatto che la propria<br />
verginità non ha corso pericoli;<br />
- in IV, 1 Ghismonda deve convincere suo padre, Tancredi, dell’ingiustizia del<br />
suo comportamento nei confronti di se stessa e del proprio amante;<br />
- in IV, 9 la moglie di Guiglielmo di Rossiglione deve convincere il proprio<br />
marito di quanto abbia agito ingiustamente punendo Guiglielmo<br />
Guardastagno.<br />
140
Finalità dei discorsi<br />
In tutti e quattro i casi, la donna di volta in volta coinvolta nella narrazione deve<br />
scontrarsi con un evento che sconvolge la propria esistenza, e che la pone in aperto<br />
contrasto con le forme di autorità – paterna, maritale, generalmente derivante da una<br />
posizione di subordinazione sociale – da cui, in qualche modo, dipende 79 : questo<br />
evento è conseguenza della volontà, da parte della donna, di scegliersi un proprio<br />
destino autonomamente, tranne – ma forse soltanto apparentemente – nel caso di<br />
Alatiel, che non si può dire responsabile della piega che prendono gli eventi. In ogni<br />
caso, il comportamento – volontario o involontario – che segue all’evento, pregiudica<br />
l’onore o addirittura l’esistenza della protagonista, che cerca in qualche maniera di<br />
capovolgere la situazione conflittuale.<br />
Per il meccanismo narrativo, e quindi per le possibilità di riuscita o meno del<br />
tentativo della protagonista di affermarsi nonostante le difficoltà presentatesi, è<br />
fondamentale la componente di irreversibilità degli eventi e dei processi che dagli<br />
eventi derivano:<br />
- la figlia del re d’Inghilterra, prendendo Alessandro per suo sposo,<br />
praticamente gli fa dono della propria verginità (Essa allora levatasi a sedere<br />
in su il letto, davanti a una tavoletta dove Nostro Signore era effigiato<br />
postogli in mano uno anello, gli si fece sposare... (II, 3, 35), con tutta la<br />
carica simbolica che tale “dote” porta con sé nel suo caso, in quanto tale<br />
decisione si contrappone decisamente alle aspettative del regale genitore;<br />
- Alatiel ha perso quella verginità ed “ingenuità” che costituiscono, insieme<br />
alla sua bellezza, la dote simbolicamente donata dal sultano di Babilonia al<br />
suo alleato, il re del Garbo, in segno di riconoscenza per l’impegno<br />
dimostrato in una serie di vicende militari e politiche (...e perciò che in una<br />
79 A proposito di questa situazione di base dobbiamo sottolineare come essa si configuri<br />
comunque, tra seconda e quarta giornata, come risultato della riflessione dell’autore sulle<br />
alterne vicende della fortuna: per i vari commentatori del Decameron, da Getto (1958:95-<br />
138) a Forni (1992:36-56), da Russo (1977:156-162, 169-173) a Baratto (1986:180-195,<br />
327-331), questa riflessione sulle avversità della sorte si unisce alle considerazioni derivanti<br />
dalla differenza tra la morale delle protagoniste e le regole sociali della loro classe.<br />
141
grande sconfitta, la quale aveva data a una gran moltitudine d’arabi che<br />
addosso gli eran venuti, l’aveva maravigliosamente aiutato il re del Garbo, a<br />
lui, domandandogliele egli di grazia speziale, l’aveva per moglie data... (II,<br />
7, 9);<br />
- Ghismonda è stata colta in fragrante da Tancredi, di cui ha offeso l’autorità<br />
paterna, l’amor proprio, il senso di appartenenza sociale, la sovranità<br />
simboleggiata dalla simbolicità della residenza principesca;<br />
- la moglie di Guiglielmo di Rossiglione ha appreso la morte del proprio<br />
amante dopo averne mangiato il cuore – suo malgrado 80 .<br />
Di fronte alla perdita di un bene, indipendentemente dalle conseguenze che esso<br />
comporta ad ogni livello di lettura dell’accaduto, le protagoniste si sentono chiamate<br />
a difendere la propria posizione emettendo un discorso che, anche di fronte<br />
all’irreversibilità del giudizio che su di esse si è formato o si potrebbe formare (nel<br />
caso di Alatiel, ad esempio), ha quantomeno il compito di testimoniare l’importanza<br />
di una reazione verbale, come opposizione ai meccanismi inesorabili del destino ed<br />
all’insofferenza per i regolamenti sociali – in determinati casi accusati di essere<br />
portatori di ingiustizia. 81<br />
80<br />
Ritrovandosi nella situazione senechiana del Tieste (Sì, io, il padre, gravo sui miei figli e i<br />
miei figli gravano su di me. Non c’è limite al delitto? (Seneca 1982:138))<br />
81<br />
Vogliamo ricordare – a proposito di un episodio paradigmatico di questa situazione, e<br />
comunque sottolineando la grande differenza che passa tra i personaggi della Commedia e<br />
quelli del Decameron – che, al di là della ben più complessa lettura attuale del rapporto tra<br />
l’atteggiamento morale di Dante e l’episodio di Paolo e Francesca, proprio commentando il<br />
verso 72 (Pietà mi vinse e fui quasi smarrito), Boccaccio dimostra di leggere questo<br />
complesso momento del V Canto dell’Inferno alla luce di una compassione dantesca nei<br />
confronti delle colpe di alcuni dannati: In queste parole intende l’autore d’ammaestrarne<br />
che noi non dobbiamo con la meditazione semplicemente visitar le pene de’ dannati; ma,<br />
visitandole e conoscendole, e conoscendo noi di quelle medesime per le nostre colpe esser<br />
degni, non di loro, che dalla divina giustizia son puniti, ma di noi medesimi dobbiamo aver<br />
pietà e temere di non dovere in quella dannazione pervenire e compugnerci ed affliggerci,<br />
acciò che tal meditazione ci sospinga a quelle cose adoperare, le quali di tal pericolo ne<br />
traghino e dirizinci in via di salute. (Esposizioni, L. XXI, 139); per poi, una volta spiegati i<br />
loschi intrighi del padre di Francesca per convincerla a sposare Giangiotto (sozo della<br />
persona e sciancato (ivi, 149)), e soprattutto l’inganno di averle posto in animo Paolo, che<br />
142
Struttura compositiva<br />
Per quanto riguarda la struttura dei quattro discorsi, dobbiamo partire dal<br />
presupposto che l’aderenza al cursus medievale non sia da intendersi – come ha<br />
suggerito Branca (1996:51) – come espediente stilistico pedissequo, bensì come<br />
punto di riferimento che Boccaccio adotta con libertà di adattamenti; inoltre la<br />
compositio – in quanto parte di un tessuto narrativo preesistente, da cui è<br />
imprescindibile – si collega necessariamente alle caratteristiche di quella prosa<br />
versificata che possiamo riconoscere in numerosi punti dell’opera. L’utilizzo di<br />
alcuni dei più attraenti stilemi della bella prosa medievale, a nostro avviso, da un<br />
lato è riscontrabile soprattutto nella prima delle novelle da noi analizzate, d’altro<br />
canto diviene ininfluente nel contesto di elaborazione retorica che tiene conto<br />
piuttosto del peso delle argomentazioni, dell’effetto commotivo dell’esposizione<br />
della propria vicenda personale da parte delle protagoniste, infine dallo stridente<br />
rapporto tra la realtà dei fatti narrati e le aspettative che i personaggi femminili fanno<br />
intravedere nel loro discorso persuasivo.<br />
La figlia del re d’Inghilterra<br />
Il discorso in II, 3 parte con un’invocazione diretta al Papa (Santo Padre...) seguita<br />
da una complessa rete di omoteleuti organizzati secondo lo schema ritmico da noi<br />
evidenziato di seguito in grassetto:<br />
Sì come voi meglio che alcuno altro dovete sapere,<br />
non avrebbe sposato, descrivere da un lato il rapporto tra i due amanti come una naturale<br />
conseguenza di quanto era comunque accaduto nell’animo di Francesca (di che si dee<br />
credere che ella, vedendosi ingannata, isdegnasse, né perciò rimovesse dell’animo suo<br />
l’amore già postovi verso Polo. (ivi, 151)), dall’altro il comportamento inumano del marito<br />
tradito il quale, dopo aver ucciso moglie e fratello, subitamente si partì e tornò all’ufficio suo<br />
(ivi, 155), ovvero all’incarico di potestà in alcuna terra vicina, durante il quale incarico più<br />
soventi si erano fatte le frequentazioni tra gli amanti riminesi. Alla descrizione di questo<br />
crudele atto di giustizia sommaria segue (come anche nel caso delle due novelle della quarta<br />
giornata da noi prese in considerazione) il compianto da parte di parenti e vicini: Furono poi<br />
li due amanti con molte lacrime la mattina seguente sepelliti e in una medesima sepoltura<br />
(ivi, 155).<br />
143
ciascun che bene e onestamente<br />
vuol vivere dee,<br />
in quanto può,<br />
fuggire ogni cagione la quale a altramenti fare il potesse conducere,<br />
in cui da un lato assistiamo ad una sorta di enjambement rovesciato in quel vivere<br />
foneticamente collegato al dee, a sua volta separato da fuggire che dal dee dipende<br />
sintatticamente; dall’altro ad una alternanza degli schemi del cursus che spezza lo<br />
schema ripetitivo degli omoteleuti, aggiungendo una pausa fonetica alla pausa logica<br />
del discorso<br />
Sì come voi meglio che alcuno altro dovète sapère, (planus)<br />
ciascun che bene e onestamènte vuol vìvere (tardus)<br />
dee, in quanto può, fuggire ogni cagione<br />
la quale a altramenti fare il potèsse condùcere (tardus).<br />
La prima argomentazione, dunque, enuncia un modello su cui si fonda tutto il filo<br />
logico del discorso: questo modello è inoltre posseduto, al massimo grado, dal<br />
destinatario del discorso stesso, il Pontefice, in quanto depositario della verità<br />
morale. Alla prima argomentazione, di carattere generale, segue subito<br />
l’enunciazione del caso particolare, ovvero della “storia personale” della fanciulla,<br />
segnata dall’intenzione originaria della figura che costituisce l’autorità contrapposta<br />
– nominalmente, ed anche visivamente se consideriamo l’apostrofe: Santo Padre – a<br />
quella del Papa:<br />
nell’abito nel qual mi vedete fuggita segretamente con grandissima parte<br />
de’tesori del re d’Inghilterra mio padre (il quale al re di Scozia<br />
vecchissimo signore, essendo io giovane come voi mi vedete, mi voleva<br />
per moglie dare) (II, 3, 37).<br />
144
La citazione del padre come autorità che dispone del destino della giovane donna, si<br />
accompagna a quella del promesso sposo, il quale corrisponde “geograficamente” e<br />
generazionalmente al primo re, quasi identificandosi con esso e rendendo riprovevole<br />
il legame matrimoniale: la commozione viene sollecitata dal contrasto tra il<br />
vecchissimo signore, che sentiamo lontanissimo dal luogo in cui si svolge l’azione<br />
della novella (come sarà per il re del Garbo in II, 7), ed il riferimento della donna a<br />
se stessa, quell’altrimenti malizioso esibire la propria bellezza suggerito da essendo<br />
io giovane come voi mi vedete, in questo caso pura dimostrazione biologica<br />
dell’irragionevolezza di nozze contrarie alle leggi della natura. Da questo contrasto<br />
prende le mosse la seconda argomentazione:<br />
Né mi fece tanto la vecchiezza del re di Scozia fuggire, quanto la paura<br />
di non fare per la fragilità della mia giovanezza, se a lui maritata fossi,<br />
cosa che fosse contra le divine leggi e contra l’onore del real sangue del<br />
padre mio.(II, 3, 38),<br />
in cui l’opposizione vecchiezza-giovanezza non solo permane, ma addirittura diviene<br />
motivo di ribellione e di fuga. Il ragionamento si sposta dalla contraddizione<br />
biologica alla urgenza di prevenire un comportamento tipico della giovinezza,<br />
contrario alle leggi divine (cioè al sacramento del matrimonio) ed all’onore del real<br />
sangue del padre mio. Una volta opposti l’inviolabilità del sacramento (non<br />
contratto, però!) e l’onore regale ad ogni obiezione sul dovere di ottemperare ai<br />
voleri del genitore (e quindi di rispettare l’onore regale!), la nostra oratrice fa ricorso<br />
ad un colpo di scena, a quella interventio divina che ha il compito di avvicinare ancor<br />
più il suo scrupolo di donna timorata delle leggi divine, alla buona disposizione del<br />
Pontefice:<br />
E così disposta venendo, Idio, il quale solo ottimamente conosce ciò che<br />
fa mestiere a ciascuno, credo per la sua misericordia colui che a Lui<br />
piacea che mio marito fosse mi pose davanti agli occhi...(II, 3, 39).<br />
145
La disposizione di cui si parla è la volontà di rimettersi alla decisione del Papa (acciò<br />
che la vostra Santità mi maritasse, mi misi in via. (II, 3, 37)), che si verifica però<br />
prima di giungere a Roma, grazie ad una illuminazione divina, indotta dalla<br />
misericordia per un caso tanto pietoso, ma soprattutto inappellabile (Idio, il quale<br />
solo ottimamente conosce ciò che fa mestiere a ciascuno...; colui che a Lui piacea<br />
che mio marito fosse...). Il discorso mira a dimostrare l’irreversibilità dell’atto della<br />
giovane donna, rafforzata dalla terza argomentazione, finale ed inappellabile (Lui ho<br />
adunque preso e lui voglio, né mai alcuno altro n’avrò, che che se ne debba parere<br />
al padre mio o a altrui... (II, 3, 40)) che con l’enunciazione delle tre dimensioni<br />
temporali del nuovo legame con Allessandro (ho preso, voglio, n’avrò) ci offre una<br />
interpretazione personale dell’inscindibilità del sacramento celebrato davanti alla<br />
tavoletta dove è effigiato quell’Idio che il loro incontro aveva decretato (mi pose<br />
davanti agli occhi).<br />
La captatio benevolentiae che conclude il discorso della donna (...piacquemi di<br />
fornire il mio cammino sì per visitare (...) la vostra Santità, e sì acciò che per voi il<br />
contratto matrimonio tra Alessandro e me solamente nella presenza di Dio io facessi<br />
aperto nella vostra e per conseguente degli altri uomini. (II, 3, 40)) suonerebbe quasi<br />
offensiva, se il tono non ne fosse mitigato dalla petitio finale che addirittura associa il<br />
volere di Dio a quello della nobile ribelle (vi priego che quello che a Dio e a me è<br />
piaciuto sia a grado a voi, e la vostra benedizion ne doniate... (II, 3, 41)).<br />
La retorica della figlia del re d’Inghilterra, dunque, si serve da un lato di una serie di<br />
argomentazioni e considerazioni generali sulla natura degli affetti umani, dall’altro<br />
sulla irreversibilità di quanto accaduto, che viene presentato come frutto del volere<br />
divino: la volontà di Dio, che introduce tutta l’opera (...o per le nostre inique opere<br />
da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali... (I, intr., 8)), è<br />
sicuramente un argomento “forte”, che ritorna anche nel racconto fittizio tenuto da<br />
Alatiel al suo ritorno alla corte del padre Benimedab. La giovane deve rispondere ad<br />
una serie di domande, che Boccaccio enuncia secondo un preciso ordine logico: volle<br />
146
il soldano sapere 1) come fosse che viva fosse, e 2) dove tanto tempo dimorata 3)<br />
senza mai avergli fatto di suo stato alcuna cosa sentire. (II, 7, 106)<br />
Alatiel<br />
La risposta di Alatiel segue questo itinerario, preoccupandosi di lasciare insolute<br />
diverse questioni riguardanti il non breve periodo di assenza durante la quale,<br />
appunto, nulla si era saputo di lei: conscia del fatto che comunque la propria<br />
avventura si era svolta lontano da occhi e orecchie che avrebbero poi potuto riferirla<br />
(l’impossibilità di comunicare nella propria lingua era stata la prima tragica scoperta<br />
della sua nuova condizione di naufraga), Alatiel imposta il racconto – secondo gli<br />
ammaestramenti di Antigono – su di una serie di eventi di cui ella stessa asserisce di<br />
sapere poco o nulla!<br />
I più importanti sono collegati al naufragio, e riguardano sia l’equipaggio della nave<br />
(...e che che degli uomini, che sopra la nostra nave erano, io nol so né seppi già mai<br />
(II, 7, 106)) che le donne che accompagnano Alatiel (Che di loro si fosse io nol seppi<br />
mai... (II, 7, 107)): la bellissima giovane resta dunque sola con il proprio destino, sia<br />
nella realtà che nella finzione del racconto, ed è da questo momento che la narrazione<br />
falsifica quanto è realmente avvenuto. Si risponde, pertanto, alla seconda parte della<br />
domanda del sultano (dove [fosse] tanto tempo dimorata), in cui Alatiel parafrasa<br />
abilmente la sua odissea erotica con la trovata del monastero e del servigio a san<br />
Cresci in Valcava: tra le righe, un giudizio sulla natura particolare delle donne<br />
cristiane (a cui le femine di quel paese voglion molto bene), che sembra quasi un<br />
sognante riandare con il pensiero al piacere degli incontri amorosi che si erano<br />
susseguiti nel recente passato della donna.<br />
Nel narrare di Alatiel si alternano piacevoli constatazioni di affetto (fui da tutte<br />
benignissimamente ricevuta e onorata sempre (II, 7, 109), essa, tenera del mio onore<br />
(II, 7, 111), Quanto questi gentili uomini m’onorassono e lietamente mi ricevessero<br />
(II, 7, 114)) a momenti di timore per la propria incolumità (temendo se il vero dicessi<br />
non fossi da lor cacciata sì come nemica della legge (II, 7, 110), E assai volte in<br />
assai cose, per tema di peggio, servai i lor costumi (II, 7, 111)), in cui vediamo<br />
147
iflesso l’alternarsi dei felici momenti d’amore e delle situazioni di grande pericolo,<br />
che aveva movimentato l’azione della novella fino all’incontro con Antigono: la<br />
trasformazione degli eventi nella loro descrizione non riesce a cancellare il tessuto<br />
emotivo dell’accaduto, e ciò è vero anche per l’incontro con Antigono, in cui ritorna<br />
il motivo dell’interventio divina già sottolineato in II, 3. Dice Alatiel, dopo aver<br />
accennato significativamente ad un viaggio di due donne cristiane al sepolcro di<br />
Cristo (colui cui tengono per Idio, II, 3, 112), che m’apparecchiò Idio, al quale forse<br />
di me incresceva, sopra il lito Antigono (...); il quale io prestamente chiamai... (II, 7,<br />
114).<br />
La vicenda fortunosa della giovane viene dunque presentata secondo un<br />
rovesciamento delle abilità narrative (non si cercano spiegazioni, ma si oppongono<br />
dichiarazioni di nescitas ai punti oscuri della vicenda), offrendo una risposta alla<br />
terza domanda del sultano (senza mai avergli fatto di suo stato alcuna cosa sentire)<br />
senza alterare la realtà, ma semplicemente addebitando alla paura di ritorsioni dovute<br />
alla diversa appartenenza religiosa, la mancanza di notizie di sé e l’impossibilità,<br />
comunque, di poterle comunicare al genitore. La sua versione dei fatti, inoltre, è<br />
avvalorata da Antigono, che si fa garante della condotta della ragazza, che pure non<br />
può aver conosciuto direttamente, mediante un reiterato apologo della onestà dei<br />
costumi di Alatiel, addotto da quegli gentili uomini e donne, con li quali venne!<br />
Mentre nei due casi sinora esaminati siamo di fronte a vicende a lieto fine, in cui la<br />
validità retorica della perorazione della figlia del re d’Inghilterra e la forza di<br />
convinzione del racconto della bella Alatiel, significano una svolta positiva di tutta la<br />
vicenda presentata nel corso della narrazione.<br />
Ghismonda<br />
La perorazione della giovane figlia di Tancredi giunge a metà dello svolgimento<br />
della novella, quando l’azione appare sospesa, dopo l’arresto di Guiscardo:<br />
nonostante sia certa della punizione, Ghismunda decide di parlare con fermezza al<br />
padre, per far valere le proprie ragioni.<br />
148
Il discorso inizia con un’apostrofe sorprendente: la donna chiama il padre per nome<br />
(Tancredi, che ripete più avanti, al capoverso 33) e non usa l’appellativo che sarebbe<br />
naturale, parlando quale figlia, quasi a sottolineare la sua insofferenza del vincolo di<br />
parentela, e giustificandosi più avanti, poiché non vuole in niuno atto (...) rendermi<br />
benivola la tua mansuetudine e ‘l tuo amore (IV, 1, 31). D’altronde, la sua<br />
perorazione non desidera ottenere nulla (né a negare né a pregare son disposta), è in<br />
realtà una confessione (il vero confessando) aperta dell’amore per Guiscardo: si tratta<br />
di una sorta di recusatio benevolentiae che fornisce uno sfondo emotivo tutto<br />
particolare al discorso, il cui fine è con vere ragioni difendere la fama mia (IV, 1,<br />
31).<br />
Per prima cosa Ghismunda afferma l’immutabilità del suo amore per Guiscardo: la<br />
tripla dimensione temporale che abbiamo già notata nel discorso della figlia del re<br />
d’Inghilterra, conquista una quarta dimensione, quella ultraterrena: io ho amato e<br />
amo Guiscardo, e quanto io viverò (...) l’amerò, e se appresso la morte s’ama, non<br />
rimarrò d’amarlo 82 (IV, 1, 32). La causa di questo amore è duplice, e risiede tanto<br />
nella natura dell’animo femminile come nelle mancanze di Tancredi (...ma a questo<br />
non m’indusse tanto la mia feminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine del<br />
maritarmi e la virtù di lui (IV, 1, 32)): Ghismunda è vedova, ma anche lei – come la<br />
protagonista della II, 3 – può appellarsi alle insidie della giovinezza, ed ancor di più<br />
alla incapacità dell’autorità paterna di saper imporre un “giusto partito”, che invece<br />
la diretta interessata riesce a trovare con minore sforzo (mentre la figlia del re<br />
d’Inghilterra era stata illuminata da Dio, Ghismunda è stata semplicemente<br />
conquistata dalla virtù del suo giovane amante): di qui deriva, per deduzione, la<br />
prima significativa argomentazione “a difesa della fama”: Esser ti dové, Tancredi,<br />
manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di<br />
82 Un riferimento alla visione dantesca del V Canto dell’Inferno mi sembra chiaramente<br />
legato a questa ipotetica, che al di là della suggestione generale dell’accumulo delle forme di<br />
amare, sembra proiettare l’immagine di Paolo e Francesca che, unici, procedono sempre<br />
insieme anche dopo la morte.<br />
149
ferro; e ricordar ti dovevi e dei, quantunque tu ora sie vecchio, chenti e quali e con<br />
che forza vengano le leggi della giovanezza... (IV, 1, 33). Così come al momento in<br />
cui indirizza il suo discorso al destinatario, anche in questo frangente Ghismunda non<br />
manca di usare la sua argomentazione per mettere il padre – che in questo momento è<br />
però anche signore e giudice! – sul suo stesso piano, sottolineando però la differenza<br />
di età in un’opposizione vecchio-giovanezza (avevamo notato lo stesso in vecchiezza-<br />
giovanezza di II, 3, riferito direttamente ed indirettamente alla autorità paterna) che<br />
risulta sminuente nei confronti di Tancredi. Da questo momento il tono della<br />
perorazione di Ghismunda si fa sempre più aggressivo, soprattutto dopo che la<br />
giovane ricorda di aver desiderato di non dare scandalo, tenendo nascosto il suo<br />
amore (E certo in questo opposi ogni mia vertù di non volere a te né a me di quello a<br />
che natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare, vergogna fare.<br />
(IV, 1, 35)). La divisione tra il natural peccato e la vergogna da esso provocata, ci<br />
offre uno spaccato del dramma della giovane vedova, attanagliata dal pensiero di<br />
essersi scelta un amante di rango inferiore al proprio, e quindi di dover prima o poi<br />
rinunciare al proprio Guiscardo, ovvero di tenere per tutta la vita quel segreto: dopo<br />
aver argomentato contro la privazione di scegliersi un amante, lei vedova e figlia di<br />
un principe, Ghismunda deve dimostrare che Guiscardo, che non è di nobili natali, è<br />
degno del suo amore.<br />
La prima argomentazione a riguardo, se da un lato conferma la responsabilità diretta<br />
della donna, non fa però che confermare la generale fermezza del suo animo:<br />
Guiscardo non per accidente tolsi, come molte fanno, ma con diliberato consiglio<br />
elessi innanzi a ogni altro e con avveduto pensiero a me lo ‘ntrodussi e con savia<br />
perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio disio. (IV, 1, 37)<br />
Nonostante Ghismonda cominci il suo discorso accusando il padre di non saper<br />
riconoscere le esigenze della carne, la scelta di Guiscardo è per lei motivo di<br />
distinzione dalle altre donne, che – sembra alludere – si scelgono l’amante per<br />
accidente: ogni suo atto parte da diliberato consiglio, procede per avveduto pensiero<br />
e trova continuità grazie alla savia perseveranza! Questi tre atteggiamenti, cui la<br />
150
donna è costretta dalla “clandestinità” del suo rapporto amoroso, vogliono<br />
chiaramente definire quella virtù posseduta dalla persona di Ghigmunda, che<br />
corrisponde alla virtù di Guiscardo, in prima istanza portata a causa di quell’amore<br />
illecito. La figlia di Tancredi, dunque, che si rivela femina in più di un momento<br />
della sua vita, è donna nelle manifestazioni della razionalità, pur se asservite alla<br />
ricerca del piacere.<br />
Ma lo scopo di questo “tardo preambolo” ci sembra ben diverso, se leggiamo quanto<br />
segue: infatti, il seguito del discorso di Ghismunda deve convincere Tancredi che<br />
non esistono motivi perché Guiscardo, a causa dei suoi natali, non possa essere<br />
amato da lei degnamente.<br />
Per dimostrare tale dignità, Ghismonda ricorre ad una complicata sommatoria di<br />
argomentazioni – che ne costituiscono una, finale ed irreversibile come avviene<br />
generalmente in tal genere di perorazioni – che afferma una sorta di diritto naturale<br />
alla nobiltà derivante da una condizione di uguaglianza comune a tutta l’umanità,<br />
concludendo con la richiesta a che Tancredi punisca, dei due amanti, chi ha la<br />
massima responsabilità per quanto è accaduto, dunque Ghismonda in vece di<br />
Guiscardo:<br />
... tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere e da uno<br />
medesimo Creatore tutte l’anime con iguali forze, con iguali potenze,<br />
con iguali vertù create. (IV, 1, 40)<br />
... tu dirai lui nobilissimo e questi tuoi nobili esser villani...<br />
...la povertà non toglie gentilezza a alcuno ma sì avere<br />
L’ultimo dubbio che tu movevi (...) caccial del tutto via: se tu nella tua<br />
estrema vecchiezza far quello che giovane non usasti, cioè a incrudelir,<br />
sei disposto, usa in me la tua crudeltà (...) sì come prima cagion di<br />
questo peccato, se peccato è... (IV, 1, 41-44).<br />
151
Conseguenza di quest’ultima argomentazione è la minaccia del suicidio come<br />
rappresaglia all’azione punitiva di Tancredi,<br />
... per ciò che io t’acerto che quello che di Guiscardo fatto avrai o farai,<br />
se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno. (IV, 1,<br />
44),<br />
che riprende lo schema della triplice dimensione temporale (fatto avrai, farai, fai)<br />
tipica della “dichiarazione d’amore”, ora inserita nel presentimento della crudele<br />
sorte destinata agli amanti.<br />
Una donna di Provenza<br />
La nona novella della quarta giornata, presentandoci un omaggio di Boccaccio agli<br />
ideatori dell’amor cortese (la novella dichiara subito questo proposito (secondo che<br />
raccontano i provenzali (IV, 9, 4)), trova il suo nucleo più significativo nelle tragiche<br />
circostanze che rivelano la presenza effettiva della donna, del resto esclusa<br />
dall’azione centrale che vede i due cavalieri intenti ad “attività maschili”, che<br />
diverranno il pretesto per poter uccidere l’amante della donna e comodamente<br />
estrarre da esso il cuore, come già sperimentato in IV, 1: l’offesa fisica (l’uccisione<br />
dell’amante e lo strazio dell’organo simbolo stesso dell’amore) viene però superata<br />
per intensità e cinismo dall’offesa verbale 83 . La risposta della donna, evidentemente<br />
allineata con lo schema delle perorazioni d’amore sinora considerate, preferisce<br />
evitare i temi emozionali e genericamente aderenti al diritto di amare, per spostarsi<br />
83 Nella vendetta architettata da Tancredi, il padre manda alla figlia il cuore di Guiscardo con<br />
un messaggio autoreferente: « Il tuo padre ti manda questo per consolarti di quella cosa che<br />
tu più ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli più amava» (IV, 1, 47); mentre<br />
Guiglielmo di Rossiglione accompagna il cuore – cucinato – del suo rivale con le seguenti<br />
parole, ben più esplicite ed armate di un macabro umorismo: ... né me ne maraviglio se<br />
morto v’è piaciuto ciò che vivo più che altra cosa vi piacque (IV, 9, 20).<br />
152
sul terreno della competenza giuridica, del diritto maritale ad esercitare il diritto di<br />
possesso entro determinati ambiti 84 .<br />
Il distacco dimostrato dalla moglie di Guiglielmo si nota subito nell’apostrofe<br />
(Monsignore... (IV, 9, 19)) ancora contenuta nel momento in cui viene richiesta del<br />
parere sulla vivanda di cui ignora la natura: in questo modo il rispetto dovuto<br />
all’autorità del marito, proiettato nel passato relativamente recente<br />
dell’ambientazione provenzale, si arricchisce di una estraneità e di un turbamento<br />
che il lettore deve aver già notati nelle prime battute dei coniugi («E come è così,<br />
messer, che il Guardastagno non è venuto?» (...) «Donna, io ho avuto da lui che egli<br />
non ci può essere di qui domane», di che la donna un poco turbatetta rimase. (IV, 9,<br />
14-15)).<br />
Similmente a quanto visto in IV, 1, anche la moglie di Guiglielmo Rossiglione<br />
decide di affrontare l’autorità – cui si oppone – con i toni dell’aggressione, che<br />
Boccaccio riesce a condensare in un passaggio presago della dinamica e quasi<br />
acrobatica conclusione della novella: passiamo dunque dalla recusatio benevolentiae<br />
(Voi faceste quello che disleale e malvagio cavalier dee fare... (IV, 9, 23) alla prima<br />
argomentazione per deduzione, che si appella ai fondamenti del diritto coniugale (...<br />
se io, non isforzandomi egli, l’avea del mio amor fatto signore e voi in questo<br />
84 Anche in questo caso, però, come per Ghismonda, Lisabetta, Simona e la Salvestra, esiste<br />
un nesso di contiguità e conseguenzialità tra la reazione alla morte dell’amato e la decisione<br />
di farsi vittime volontarie: il gesto plateale – e quasi volgare, umoristico – compiuto dalla<br />
donna che si getta dalla finestra, se riesce ad individuare chiaramente lo spazio del castello,<br />
della torre alta e metaforicamente indica una “caduta” che porta alla morte della<br />
protagonista, non più semplicemente intesa come rinuncia ad una vita priva dell’elemento<br />
vitale per eccellenza (...unque a Dio non piaccia che sopra a così nobil vivanda, come è<br />
stata quella del cuore d’un così valoroso e così cortese cavaliere come messer Guiglielmo<br />
Guardastagno fu, mai altra vivanda vada! (IV, 9, 23)), ma anche come adempimento a<br />
quanto vogliono le regole della lealtà e della moralità (ché se io, non isforzandomi egli,<br />
l’avea del mio amor fatto signore e voi in questo oltraggiato, non egli ma io ne doveva la<br />
pena portare (IV, 9, 23)), quindi in maniera che il suicidio come accettazione volontaria del<br />
martirio per amore, suggelli anche questa novella come la prima di riferimento nel senso di<br />
una molteplicità di soluzioni che pure tende ad un’unica, accettabile proposizione: divenire<br />
vittima di un meccanismo punitivo che in prima istanza non è diretto verso la donna<br />
(elemento familiare da preservare fisicamente e nell’onore) ma che, fatalmente, su di essa si<br />
dirige per volontà di essa.<br />
153
oltraggiato, non egli ma io ne doveva la pena portare.(IV, 9, 23)), alla dichiarazione<br />
finale ed irreversibile, come in IV, 1, 44 (Ma unque a Dio non piaccia che sopra a<br />
così nobil vivanda, come è stata quella del cuore d’un così valoroso e così cortese<br />
cavaliere come messer Guiglielmo Guardastagno fu, mai altra vivanda vada! (IV, 9,<br />
23)), che riprende – e chiude – il parallelismo del doppio riferimento al cuore<br />
dell’amante come oggetto d’amore e specialissima vivanda, sigillando la breve<br />
invettiva con un giuramento (unque a Dio non piaccia) che rafforza la<br />
determinazione del gesto.<br />
A proposito di quanto emerge da questo campione della perorazione amorosa da<br />
parte di protagoniste del Decameron, ci sembra importante ricordare i seguenti punti:<br />
- messe di fronte alla necessità di dimostrare con un discorso persuasivo le<br />
proprie ragioni, le protagoniste delle novelle utilizzano soltanto in parte<br />
l’elemento commotivo, privilegiando la struttura argomentativa (per<br />
deduzione) del discorso;<br />
- tra gli elementi – apparentemente – esornativi del discorso persuasivo<br />
troviamo sovente il riferimento alla continuità temporale del sentimento<br />
amoroso (secondo la molteplice scansione passato-presente-futuro), che<br />
quindi diviene tratto caratteristico di questo genere di perorazione;<br />
- non è tanto un’argomentazione a suggellare il discorso persuasivo, quanto<br />
piuttosto una legittimazione che si concretizza nella citazione di Dio (come<br />
volere divino);<br />
- la differenza di esito tra le novelle delle due giornate, al di là della situazione<br />
specifica delle singole unità narrative, condiziona il discorso persuasivo nel<br />
suo incipit, nell’apostrofe, e di conseguenza in tutta l’impostazione del tono<br />
oratorio nei confronti del destinatario, che nelle novelle della quarta giornata<br />
da noi scelte (non è così, ad esempio, per Lisabetta da Messina) si carica di<br />
una aggressività rilevante, tesa a sminuire l’autorità proprio nella sua validità<br />
morale.<br />
154
La continuazione di un topos stilnovistico: le donne angelicate<br />
Pur nella sua ricerca di una letteratura mezzana, Boccaccio non poteva ignorare la<br />
fondamentale eredità del dolce stil novo: ammiratore di Dante e rielaboratore della<br />
lirica di quest’ultimo, come anche riecheggiatore dei modi di Cino da Pistoia 85 , sia<br />
nelle Rime che nel Filostrato (ma anche nella ballata conclusiva della nona giornata<br />
del Decameron, che riprende la ballata ciniana Io guardo per li prati ogni fior<br />
bianco), il Certaldese fonda anche su queste esperienze giovanili di ricerca del<br />
modello poetico una tendenza a rappresentare alcune figure femminili del<br />
Decameron secondo i dettami della tradizione dantesca e stilnovistica. In queste<br />
rappresentazioni è manifesto, come abbiamo già sottolineato a proposito della<br />
tipologia “fisiologica”, l’uso del parallelo stilistico con il locus amoenus, mentre non<br />
è scontato che la raffigurazione della donna angelicata conservi le sue caratteristiche<br />
nella completa estensione delle singole novelle.<br />
Sguardi e sospiri<br />
L’esempio più palese di questa citazione dei dettami stilnovistici è nella novella di<br />
Ricciardo detto il Zima (III, 5), che per la situazione narrata (il protagonista maschile<br />
supplisce alla impossibilità per la donna da lui amata di rispondergli, rispondendosi)<br />
si pone chiaramente – agli occhi del lettore – come imitazione di un contrasto<br />
d’amore, in cui si può vedere una trasposizione e materializzazione di un aspetto<br />
preciso del discorso lirico: nel quale, anche quando la donna si esprime con la sua<br />
voce, lo fa pur sempre tramite i versi composti dall’io maschile (Bruni 1990:332). Il<br />
fatto dunque che la moglie di messer Francesco de’Vergellesi rientri nella<br />
caratterizzazione femminile della espressione lirica stilnovistica, lo esperiamo<br />
analizzando le parole pronunciate dal suo corteggiatore nel corso del dialogo-<br />
monologo che occupa il centro della novella: anteponendo le virtù intellettive della<br />
85 Ricorda Armando Balduino che il ricordo di Cino prevale nettamente su quello del pur<br />
noto Cavalcanti (in Surdich 2001:9), per una maggiore consonanza delle note elegiache,<br />
oltre che per motivi filologici precisi.<br />
155
dama a quelle fisiche (Valorosa donna, egli mi pare esser certo che voi siete sì savia<br />
è l’incipit del discorso amoroso di Ricciardo, seguito dalla considerazione avete<br />
potuto comprendere a quanto amor portarvi m’abbia condotto la vostra bellezza), il<br />
Zima imposta la sua perorazione su quella eccellenza delle qualità femminili<br />
(costumi laudevoli e virtù singolari) che necessariamente sfocia in una vera e propria<br />
preghiera (non immeritatamente ardirò di porgere i prieghi miei alla vostra altezza,<br />
dalla quale sola ogni mia pace, ogni mio bene e la mia salute venir mi puote, etc.),<br />
per concludersi in una – non sappiamo quanto parodizzante – citazione<br />
cavalcantiana: con lieta risposta e piena di grazia riconforterete gli spiriti miei, li<br />
quali spaventati tutti trieman nel vostro cospetto!<br />
Non dimentichiamo però che il meccanismo risolutore dell’abboccamento tra<br />
l’elegante cavaliere e la – temporaneamente – muta dama è tutto nel gioco di sguardi<br />
e sospiretti, che diviene più convincente di qualsiasi espressione verbale. Questa<br />
circostanza richiama, tra le altre suggestioni, quella della ballata ciniana Poi che<br />
saziar non posso gli occhi miei, in cui non soltanto si ripete la parafrasi della<br />
beatificazione guinizelliana, ma viene estremizzato quel potere degli occhi che è<br />
l’apporto più pregnante della tradizione lirica alle possibilità della narrazione in<br />
prosa. Di questo gioco di sguardi entra a far parte quanto il Zima “fa dire” alla donna<br />
riguardo agli infingimenti necessari a tener nascosta la conoscenza dell’amor<br />
grandissimo e perfetto, al fine di conservare quella discrezione che giova a servare la<br />
fama della mia onestà: il viso mostra altro che l’animo, asserisce la “voce<br />
femminile”, ed anche questa durezza e crudeltà fittizie sono da addebitare alle<br />
perfette qualità della donna.<br />
Nella giornata della liberalità e della magnificenza, la quarta novella ripete, come<br />
molti critici hanno sottolineato, una delle questioni del Filocolo, ma ancora più<br />
interessante ci pare la circostanza della morte dell’amata, che ricollega Boccaccio ai<br />
toni elegiaci ciniani: fatto è che se la morte di madonna Catalina spinge Gentil<br />
Carisendi a profanarne il sepolcro ed a baciarne piangente il volto, per poi appurare<br />
che la morte era soltanto apparente, le conseguenze della gioia provata per il<br />
“miracolo” confermano il potere beatificante della donna, da cui Gentile non implora<br />
156
più quel guiderdone già incontrato in III, 5. Il rovesciamento della situazione<br />
elegiaca, il ritorno in vita dell’amata, non privano la donna delle sue qualità visibili,<br />
anche se – ancora una volta per un accordo preso in precedenza e che corrisponde a<br />
quello tra messer Francesco de’ Vergellesi e sua moglie – ella viene privata<br />
temporaneamente della facoltà di parlare (lo stesso Gentil Carisendi sottolinea per<br />
questo la virtù della donna da lui recuperata a vita). È poi lo stesso innamorato a<br />
narrare gli eventi che avevano portato a quella felice scoperta, imponendo alla<br />
straordinaria esperienza un aspetto provvidenziale: e Iddio, alla mia buona affezion<br />
riguardando, di corpo spaventevole così bella divenir me l’ha fatta. (X, 4, 38) La<br />
citazione dell’intervento divino, motivato dalla natura degli affetti di Gentile per la<br />
bella Catalina, impone agli eventi una lettura particolare: la buona affezion di cui<br />
parla il gentiluomo viene infatti confermata da quanto asserito alla fine del suo<br />
discorso, teso a dimostrare l’effettivo rispetto, da parte sua, di quel legame<br />
matrimoniale che Niccoluccio aveva pregiudicato non facendo oggetto delle dovute<br />
attenzioni la propria moglie. Ancora una volta, Dio viene chiamato a testimone della<br />
innocenza di quell’amore, che ha causato la salvezza stessa della donna:<br />
... ché io ti giuro per quello Iddio che forse già di lei innamorar mi fece<br />
acciò che il mio amore fosse, sì come stato è, cagion della sua salute,<br />
che ella mai o col padre o colla madre o con teco più onestamente non<br />
visse, che ella appresso di mia madre ha fatto nella mia casa. (X, 4, 43)<br />
La natura divina degli affetti si irradia dunque alla figura stessa della donna amata,<br />
investita di quella luce angelica che nell’animo di Gentil de Carisendi in un primo<br />
momento aveva generato amore, poi la massima liberalità, come è giusto che sia per<br />
ogni cor gentile.<br />
157
L’amore di Ansaldo<br />
La novella di madonna Dianora è anch’essa, come la precedente della stessa<br />
giornata, ripresa da una delle questioni d’amore del Filocolo: al centro della<br />
narrazione ci sono due elementi di straordinaria bellezza, la donna (bella e nobile) ed<br />
il giardino che anche nel mese di gennaio è pieno di verdi erbe, di fiori e di fronzuti<br />
albori, non altrimenti fatto che se di maggio fosse (X, 5, 8). Nella novella come è<br />
narrata nel Filocolo, la nobildonna è sposata ad un cavaliere e vagheggiata da un<br />
altro (... mi ricorda un ricchissimo e nobile cavaliere, il quale di perfettissimo amore<br />
amando una donna nobile della terra, per isposa la prese. Della quale donna,<br />
essendo bellissima, un altro cavaliere chiamato Tarolfo s’innamorò... (Filocolo, IV,<br />
31:355)), mentre nel Decameron conosciamo, del marito di madonna Dianora,<br />
soltanto la situazione patrimoniale ed il carattere (un gran ricco uomo nominato<br />
Gilberto, assai piacevole e di buona aria (X, 5, 4); inoltre, delle attività che nel<br />
Filocolo vengono chiaramente citate come tipiche della vita di un cavaliere (giostre,<br />
armeggiamenti, doni di gran valore) e che saranno parte della descrizione di Federigo<br />
degli Alberighi, troviamo ben poco nella novella decameroniana, che si limita a<br />
ricordare come Ansaldo facesse di tutto per “farsi notare” dalla donna.<br />
La riscrittura della narrazione, dunque, tende in qualche modo ad attenuare proprio<br />
quei caratteri che maggiormente si richiamano alla tradizione cortese-cavalleresca,<br />
per accentuare il tema centrale della liberalità e svincolarlo dall’esclusività di questa<br />
tradizione: resta invariata la descrizione dell’aspetto della donna vagheggiata ed il<br />
suo stupore quando, nonostante l’assurdità della sua richiesta – mirante piuttosto a<br />
respingere l’amante, che a soddisfare un capriccio femminile – è inevitabilmente<br />
portata ad ammirare il prodigio compiuto dal negromante. Se però ci soffermiamo<br />
sulla natura della richiesta, vedremo chiaramente a quale alta simbologia sia<br />
asservito il giardino sempre fiorito: immagine della primavera, della stagione<br />
dell’amore, esso è una proiezione magico-floreale della bellezza di madonna<br />
Dianora, e si oppone sia al freddo del luogo (In Frioli, paese quantunque freddo lieto<br />
di belle montagne... (X, 5, 4)) che al rigore del mese di gennaio (...essendo i freddi<br />
grandissimi e ogni cosa piena di neve e di ghiaccio... (X, 5, 10)). Questa<br />
158
associazione della bellezza e del giardino in una dimensione atemporale, la cui<br />
straordinarietà è accresciuta dalla magia che ha reso possibile il prodigio, rende<br />
possibile persino l’azione difficilmente giudicabile di messer Giliberto: madonna<br />
Dianora si reca da Ansaldo, che la accoglie con le parole tipiche del servigio d’amore<br />
(... se il lungo amore il quale io v’ho portato merita alcun guiderdone... (X, 5, 19)), a<br />
cui risponde spostando il rapporto di corrispondenza tra sé e Ansaldo, fondato<br />
sull’amore di quest’ultimo, ma dalla donna non corrisposto, verso una linea Gilberto-<br />
Ansaldo fondata sulla cortesia, dai due uomini condivisa come massima virtù, e<br />
quindi degna di essere imitata e superata (su questa linea si innesta l’intervento<br />
magnifico del negromante!), per onore di chi ha compassione al mio amore (X, 5,<br />
22). Le virtù della donna (gentile ed onesta), unite a quelle del marito, raggiungono il<br />
fine già additato nella novella precedente, quello cioè di mutare in affetto l’amore<br />
che, divenuto impossibile per le circostanze, continua a vivere in una diversa<br />
dimensione sentimentale: e spento nel cuore il concupiscibile amore, verso la donna<br />
acceso d’onesta carità si rimase (X, 5, 25).<br />
L’amore di Federigo<br />
Altra novella di atmosfera stilnovista è quella di Federigo degli Alberighi (V, 9), in<br />
cui giustamente i critici hanno riconosciuto le consonanze del comportamento di<br />
Federigo con i dettami della lirica del dolce stil novo: altrettanta tenacia ed altrettanta<br />
virtù albergano però in monna Giovanna, che – per quanto riusciamo ad arguire dalla<br />
narrazione – riceve la sua qualità anche dal fatto di avere uno spasimante quale è<br />
Federigo.<br />
Se il narratore ci presenta una donna apparentemente restia ad ogni considerazione di<br />
quel servigio d’amore che Federigo le presta (ma ella, non meno onesta che bella,<br />
niente di queste cose per lei fatte né di colui si curava che le faceva (V, 9, 6)), non è<br />
finalmente coerente, monna Giovanna, con quelle “apparenze” che la donna doveva<br />
necessariamente servare, al fine di non compromettere la propria fama di onestà?<br />
Non è forse questa disillusione continua delle speranze di Federigo a condurlo fino al<br />
sacrificio dell’ultimo simbolo della propria condizione, il falcone? Se è vero che nel<br />
159
apporto amoroso predicato dalla lirica devono trovare posto la rinuncia,<br />
l’indifferenza ostentata dall’amata nei confronti di chi la vagheggia, al fine di<br />
permettere a quest’ultimo di poter sublimare quelle virtù che gli consentono di<br />
nobilitarsi nel servigio d’amore, dobbiamo ammettere che il comportamento di<br />
monna Giovanna è perfettamente coerente con quanto dovremmo attenderci da lei, e<br />
che anzi si dovrebbe restar delusi dalla tanto felice conclusione, in cui la tensione<br />
poetica di tutta la novella viene annullata da considerazioni di prosaica quotidianità,<br />
segnalate dal fatto che Federigo conclude la sua vita miglior massaio fatto, se non<br />
fosse ben più importante, per lo schema narrativo della giornata, ciò che a tale<br />
amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse. E davvero la<br />
donna tanto sospirata dal gentiluomo fiorentino è angelica nei tratti, nel<br />
comportamento, se il discorso che tiene allo stupefatto Federigo è tutto improntato a<br />
sottolineare la nobiltà di lui:<br />
E per ciò ti priego, non per l’amore che tu mi porti, al quale tu di niente<br />
se’ tenuto, ma per la tua nobiltà, la quale in usar cortesia s’è maggiore<br />
che in alcuno altro mostrata, che ti debba piacere di donarlomi... (V, 9,<br />
32).<br />
Anche Federigo, come sarà con Gentil de Carisendi, ricerca nel volere divino le<br />
ragioni del suo innamoramento (... poscia che a Dio piacque che io in voi ponessi il<br />
mio amore... (V, 9, 34)), che finalmente può manifestare pienamente a Giovanna,<br />
alludendo a tutti gli attributi dovutile (alla vostra eccellenzia e al vostro valore (V, 9,<br />
35)) e quindi rivelandole il supremo sacrificio offerto sull’altare di Amore.<br />
Divinità dell’essere femminile<br />
Abbiamo già parlato di come Boccaccio rappresenti il corpo femminile, e<br />
sicuramente nella sua tipologizzazione della bellezza fisica molti elementi<br />
provengono dalla volontà di offrirci delle figure “angeliche”: Efigenia (V, 1)<br />
rappresenta infatti il nucleo tematico più evidente di questa rappresentazione, per la<br />
descrizione degli effetti che la sua bellezza induce nell’animo di Cimone. Al di là<br />
160
della ironica considerazione secondo cui il rozzo giovane era di bellezza subitamente<br />
giudice divenuto (V, 1, 9), rileviamo come l’attenzione alla bellezza superficiale, che<br />
si concentra nel desiderio di vedere gli occhi della giovane, si sposti gradatamente a<br />
riflessioni ben più generali indotte da questo genere di nobilitazione: Cimone, infatti,<br />
dubitava non fosse alcuna dea (V, 1, 10), dunque rapportando la bellezza femminile<br />
non alle leggi del desiderio, ma a quelle di una più alta considerazione dei rapporti<br />
umani, in cui giudicava le divine cose essere di più reverenza degne che le mondane<br />
(V, 1, 10). L’essere femminile, dunque, assume quella caratteristica di divinità, di<br />
soprannaturale, che Boccaccio cala nel contesto di una novella di ambientazione<br />
antica, senza però negare che questa forma di analisi del fascino esercitato<br />
dall’apparizione del corpo femminile possa avere validità anche in “ambiente<br />
cristiano”: pensiamo all’amore di Gentil de Carisendi, che pure giunge quasi fino alla<br />
profanazione del corpo creduto morto dell’amata, oppure al fascino esercitato da<br />
Ginevra e Isotta nei confronti di Carlo d’Angiò!<br />
Anche in questo caso, il proposito dell’autore è quello di mostrarci delle bellezze<br />
angeliche (e nelli lor visi più tosto agnoli parevan che altra cosa... (X, 6, 11)), che<br />
per la delicatezza dei volti – e la trasparenza degli abiti – riescono a creare una<br />
situazione di atarassica contemplazione nel vecchio re (ma sopra a ogn’altro erano<br />
al re piaciute, il quale sì attentamente ogni parte del corpo loro aveva considerata<br />
(...), che chi allora l’avesse punto non si sarebbe sentito. (X, 6, 18)). Le due<br />
giovinette, più avanti, sono colte nell’atto di cantare una ballata per effetto della<br />
quale al re, che con diletto le riguardava e ascoltava, pareva che tutte le gerarcie<br />
degli angeli quivi fossero discese a cantare (X, 6, 22): insistendo sulla similitudine<br />
con gli angeli, e soprattutto avendo conferito alle due fanciulle nomi tanto<br />
impegnativi per il loro portato immaginifico, se da un lato Boccaccio non fa che<br />
conchiudere quanto argomentato nella introduzione alla quarta giornata, a proposito<br />
di quegli che contro alla mia età parlando vanno (IV, intr., 33, quando aveva addotto<br />
proprio gli esempi di tre esponenti dello stilnovo, Cavalcanti, Dante e Cino); d’altro<br />
canto ci mostra come la natural affezione trovi la sua sublimazione (la buona<br />
affezion di X, 4) nella volontà di allontanare da sé uno sconveniente appetito,<br />
161
vincendolo e dimostrando dunque di esserne tanto più degno quanto più capace di<br />
rinunciarvi.<br />
Poiché siamo nel regno della cortesia e della liberalità, non possiamo attenderci di<br />
meno da un protagonista che, per di più, è depositario di virtù regali (in maniera<br />
simile, ma partendo da una situazione opposta, si comporterà nella novella seguente<br />
un altro re, Pietro d’Aragona); resta però il fascino esercitato dalle figure angeliche<br />
che non suscitano, in un primo momento, appetiti sensuali ma piuttosto, come<br />
abbiamo rilevato, uno stato di contemplazione in cui sapientemente Boccaccio<br />
inserisce elementi che alludono alla dimensione celeste, divina: dobbiamo inoltre<br />
sottolineare come la bellezza fisica sia caratterizzata, in questi casi, da una leggiadria<br />
che non troviamo espressa nella descrizione di altre protagoniste femminili 86 .<br />
Come abbiamo visto, la presenza del topos della donna angelicata in alcune novelle<br />
del Decameron si rivela piuttosto indirettamente, è a dire mediante il riferimento agli<br />
effetti della bellezza e dell’amore sugli uomini, che direttamente, per quanto non<br />
manchino descrizioni tese a conservare di questo ideale femminile una testimonianza<br />
precisa.<br />
86 Pensiamo, tra le altre, all’apparizione del corpo nudo della bella Elena in VIII, 7, in cui il<br />
motivo della bellezza fisica è da un lato accentuato dal contrasto con l’ambientazione<br />
notturna della novella, dall’altro ottiene un effetto che il narratore si affretta a delimitare nel<br />
campo dell’attrazione sensuale più elementare, con il riferimento a lo stimolo della carne ed<br />
a quel tale che viene fatto in piè levare (VIII, 7, 67).<br />
162
Riabilitazione e nuovo pregiudizio: la vedova<br />
Tra i personaggi femminili che, per motivi intertestuali connessi alla produzione<br />
successiva del Boccaccio, acquistano un valore particolare nel Decameron, troviamo<br />
le vedove: di esse l’autore ci fornisce diversi esempi in quest’opera, fino a fare di una<br />
vedova la protagonista in absentia del Corbaccio, ed è per questo motivo che la<br />
caratterizzazione di queste figure ha una sua peculiare evidenza nelle diverse unità<br />
narrative in cui esse sono presenti: nonostante molte di queste siano state da noi già<br />
esaminate, in quanto appartenenti ad altre tipologie, comportamentali o sociali,<br />
vogliamo ora analizzarle isolandole in quanto schematizzazioni di modi di essere<br />
femminili cui proprio Boccaccio attribuisce validità letteraria.<br />
Precedenti illustri sono le vedove che la tradizione misogina, già nell’antichità, aveva<br />
illustrato come depositarie di cinismo, e che la vena narrativa e grottesca dei fabliaux<br />
aveva fornito di tutti i vizi (v. il fablel intitolato La vedova in Fabliaux 1980:242 e<br />
segg.): per quanto riguarda Boccaccio, c’è da dire che le vedove protagoniste di<br />
alcune novelle del Decameron mostrano caratteristiche di volta in volta differenti, e<br />
che il topos più tradizionalmente misogino della vedova sarà ripreso, probabilmente<br />
partendo da quanto già presente nella novella della vedova e dello studente (VIII, 7),<br />
in un’opera più tarda, il Corbaccio, che rappresenta un momento particolare della<br />
produzione boccacciana a proposito della sua visione dell’universo femminile, come<br />
peculiare è la galleria di ritratti muliebri contenuta nel De mulieribus claris.<br />
Un tentativo di riabilitazione<br />
Per la presenza della gran parte dei personaggi vedovili nel Decameron, Boccaccio è<br />
un rinnovatore: emerge chiaramente, infatti, la volontà di riabilitare questa categoria<br />
femminile che la tradizione misogina aveva sempre malvisto, a causa di un<br />
pregiudizio sociale che non ammetteva che una donna potesse ricominciare la propria<br />
163
vita, amministrando in prima persona il proprio patrimonio, in cui talvolta era<br />
confluito quello del defunto marito.<br />
Tra le vedove che Boccaccio vuole riabilitare ci sono soprattutto quelle ancora<br />
giovani e ben disposte all’amore: una vena di simpatia corre nei confronti della<br />
amorevole vedova, amante di Azzo d’Este, che accoglie in casa Rinaldo d’Asti (II,<br />
2); Teudelinga, vedova di Autari, ci viene presentata come sposa di Agilulfo e<br />
depositaria della regalità che trasmette da un consorte all’altro (III, 2); la stessa<br />
Ghismonda, che conosce lo stato vedovile in giovanissima età, è considerata con<br />
grande amorevolezza e fonderà proprio sulla particolarità della sua condizione la<br />
propria perorazione in difesa dell’amore per Guiscardo (IV, 1); monna Giovanna, a<br />
lungo corteggiata da Federigo degli Alberighi, deve soffrire prima la vedovanza, poi<br />
la morte dell’unico figlio, ma riscatta la propria indifferenza decidendo di sposare<br />
l’ormai povero in canna Federigo, andando contro il calcolo dei propri fratelli (V, 9);<br />
monna Piccarda, vagheggiata dal prevosto di Fiesole, riesce ad evitare le mire del<br />
religioso facendosi sostituire dalla Ciutazza (VIII, 4), in questo modo affermando il<br />
proprio diritto a scegliere chi amare.<br />
Queste cinque vedove sono, in fondo, accomunate semplicemente dalla buona<br />
disposizione che Boccaccio dimostra nei loro confronti, e dal fatto che – al di là del<br />
contenuto di diverso esito delle narrazioni di cui sono protagoniste – in esse è ancora<br />
vivo e presente un modo di affrontare la vita, che smentisce la luttuosità della loro<br />
condizione.<br />
La vedova ospitale<br />
La castellana che amorevolmente accoglie Rinaldo d’Asti ci viene presentata per il<br />
suo “doppio” stato civile: una donna vedova, del corpo bellissima quanto alcuna<br />
altra, la quale il marchese Azzo amava quanto la vita sua e quivi a instanzia di sé la<br />
facea stare (II, 2, 19), in cui le connessioni tra la vita privata della donna ed i suoi<br />
obblighi nei confronti della famiglia di provenienza sono annullate per il fatto che la<br />
donna è quasi sottoposta del tutto, prigioniera addirittura del potente marchese<br />
(recente deve essere la morte del marito, se è vero che nel momento in cui Rinaldo<br />
164
viene accolto gli fece apprestare panni stati del marito di lei poco tempo davanti<br />
morto (II, 2, 27), né sapremmo dire perché conservi quegli abiti, una volta divenuta<br />
castellana – luogotenente – della possessione di Azzo). L’amante del signore del<br />
luogo, donna sicura in ogni suo gesto (la donna, un poco sconsolata, non sappiendo<br />
che farsi, diliberò d’entrare nel bagno fatto per lo marchese (II, 2, 21); chiamata la<br />
sua fante, le disse: «Va sù e guarda fuori del muro a piè di questo uscio chi v’è e chi<br />
egli è e quel ch’egli è e quel ch’el vi fa» (II, 2, 22); «Va e pianamente gli apri; qui è<br />
questa cena e non saria chi mangiarla, e da poterlo albergar ci è assai» (II, 2, 25);<br />
lietamente il ricevette e seco al fuoco familiarmente il fé sedere (II, 2, 32); al quale<br />
la donna avendo più volte posto l’occhio addosso e molto commendatolo, (...) nella<br />
mente ricevuto l’avea (II, 2, 35)), rivela proprio nella delicata e meticolosa<br />
ripetizione dei riti domestici (il discorrere davanti al fuoco, l’abluzione delle mani, la<br />
cena), nel desiderio di intraprendere lei il corteggiamento e di identificare lo<br />
sconosciuto con il proprio marito (veggendovi cotesti panni indosso, li quali del mio<br />
morto marito furono, parendomi voi pur desso (II, 2, 37)) e con il proprio amante (e<br />
già, per lo marchese che con lei doveva venire a giacersi, il concupiscibile appetito<br />
avendo desto nella mente ricevuto l’avea (II, 2, 35)), il rimpianto della condizione<br />
matrimoniale, di cui in quel momento è priva e che tenta in ogni modo di sostituire:<br />
persino la soddisfazione dei desideri carnali – il concupiscibile appetito – è<br />
giustificata dalla “nostalgia” del legame matrimoniale originario, che la porta a<br />
beneficare Rinaldo, simulacro del marito o dell’amante. In questo tratto amorevole,<br />
la donna viene innalzata a vera benefattrice, quasi a sostituta di quel San Giuliano<br />
protettore dei viaggiatori, che fa dunque una sì ambigua apparizione nella narrazione.<br />
Vedove regali e principesche<br />
Altrettanto positiva, ma guardata con diversa attenzione, è la figura di Teodolinda,<br />
protagonista “passiva” della seconda novella della terza giornata: l’accenno fatto<br />
dall’autore alla sua vedovanza è rapidissimo nella presentazione (Teudelinga,<br />
rimasta vedova d’Auttari (III, 2, 4)), ma nella delicatezza del rapporto con il secondo<br />
marito, nella preoccupazione denunciata dalle parole premurose nei confronti della<br />
165
salute del coniuge, leggiamo tutta la sensibilità di una donna che ha già sofferto la<br />
morte del consorte:<br />
« O signor mio, questa che novità è stanotte?(...) Guardate ciò che voi<br />
fate». (III, 2, 17)<br />
«...ma tuttavia io vi priego che voi guardiate alla vostra salute». (III, 2,<br />
21)<br />
Addirittura, se leggessimo con una forse inopportuna ironia queste righe, potremmo<br />
vedere nella preoccupazione della regina una premonizione di chissà quali<br />
conseguenze future, imputate ad un uso immotivato dei lombi regali!<br />
Continua il motivo della vedova regale, o quanto meno principesca, la figura di<br />
Ghismonda, protagonista di una novella di ambientazione normanna che richiama per<br />
continuità di suggestione la novella longobarda appena citata: unica figlia di<br />
Tancredi, principe di Salerno, andata sposa giovanissima ad un figlio del duca di<br />
Capua, poco tempo dimorata con lui, rimase vedova e al padre tornossi (IV, 1, 4). In<br />
queste incisive parole, nell’uso di quei tre verbi posti in rapidissima successione<br />
(dimorata–rimase–tornossi), Boccaccio sottolinea come la condizione di vedova non<br />
consenta a Ghismonda altra scelta che il ritorno alla famiglia paterna. Il genitore,<br />
inoltre, non fa nulla per farla risposare: nonostante lo stato vedovile, però,<br />
Ghismonda è bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai, e<br />
giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea (IV, 1,<br />
5). Ella, oggetto dell’amore di Tancredi, si concede a Guiscardo, confidando nella<br />
legittimità di questo rapporto amoroso: la giovane vedova «confessa» di aver amato e<br />
di amare Guiscardo, ed addebita la necessità di questo amore a tre elementi, che<br />
coinvolgono tutti e tre i protagonisti, ovvero tanto la mia feminile fragilità, quanto la<br />
tua poca sollecitudine del maritarmi e la virtù di lui (IV, 1, 32). Se la gerarchia di<br />
questi tre elementi sminuisce la «colpa» di Ghismonda, in quanto proveniente da un<br />
istinto naturale e, perciò, in parte giustificabile, essa pone sotto accusa la<br />
166
esponsabilità sociale di Tancredi, che non ha agito come avrebbero dovuto un padre<br />
ed un principe sollecito, quali egli è in questo momento, in cui Ghismonda lo chiama<br />
a rispondere delle sue colpe: per causa sua la giovane donna è nuovamente vedova,<br />
ed è per questo che la vediamo nell’atto di piangere pietosa per il defunto Guiscardo.<br />
Continuando il motivo che troviamo sin dall’orrido cominciamento, Boccaccio<br />
riproduce nella meticolosità del gesto affettuoso di Ghismunda (sopra la coppa<br />
chinatasi piagnendo cominciò a versar tante lagrime, che mirabile cosa furono a<br />
riguardare, basciando infinite volte il morto cuore (IV, 1, 55)) il momento della<br />
consolazione che si addice massimamente ad una vedova, poiché è lei che ha scelto<br />
di sposare Guiscardo, nonostante le nozze non abbiano ricevuto il consenso<br />
dell’autorità paterna (Guiscardo non per accidente tolsi, come molte fanno, ma con<br />
diliberato consiglio elessi innanzi a ogni altro e con avveduto pensiero a me lo<br />
‘ntrodussi e con savia perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio<br />
disio. (IV, 1, 37)).<br />
Monna Giovanna<br />
Nel corso della novella cosiddetta «del falcone» assistiamo ad un doppio processo di<br />
rovina: Federigo degli Alberighi perde tutto il suo patrimonio, mentre monna<br />
Giovanna, da lui inutilmente amata, perde il marito e l’unico figlio. Rispetto alle altre<br />
novelle, in cui la condizione vedovile è data nel momento in cui la narrazione<br />
comincia, la nona della quinta giornata è costruita su una serie di antitesi che si<br />
saneranno soltanto alla fine della novella, e che trovano proprio nei lutti al centro<br />
dello svolgimento epico, il motivo catartico fondamentale per la decisione di monna<br />
Giovanna: le antitesi iniziali (Federigo è solo, ama e non è riamato, si rovina<br />
economicamente, mentre monna Giovanna è pienamente realizzata, sia per quanto<br />
riguarda gli affetti familiari, che la stabilità patrimoniale) si dissolvono con la morte<br />
del marito, l’apparire della condizione vedovile, l’infermità del figliolo. In questa<br />
maniera, i due protagonisti si avvicinano, giungono quasi su di uno stesso piano,<br />
contrassegnato dalla sofferenza, che verrà aggravata dalla morte del falcone,<br />
elemento di frustrazione sia per Federigo che per la madre incapace di procurare al<br />
167
figlio malato il diporto tanto desiderato: la vedovanza di monna Giovanna è dunque<br />
totale, e la tragedia di questa donna che ha perso ormai ogni affetto, si tramuta in<br />
lagrime e amaritudine, anche queste, però, non destinate a durare a lungo, se accade<br />
che – non per scelta di monna Giovanna – la sua condizione di donna sola, che<br />
dispone di un imponente matrimonio, suscita nei fratelli il bisogno impellente, quasi<br />
fastidioso, di procurarle un marito (più volte fu da’ fratelli costretta a rimaritarsi (V,<br />
9, 39)), cosa che non era certo accaduta nel caso di Ghismonda o della affascinante<br />
ospite di castel Guiglielmo. Questa volta, sfidando le convenzioni ma anche<br />
l’autorità fraterna (che sappiamo quanto possa, dall’esempio della sventurata<br />
Lisabetta di Messina!), è la vedova a decidere chi sarà il suo prossimo coniuge, a cui<br />
trasferisce quella ricchezza da Federigo perduta all’inizio della narrazione: annullato<br />
lo stato vedovile, si annulla anche lo stato di povertà del gentiluomo fiorentino.<br />
La vedova beffarda<br />
Protagonista della quarta novella dell’ottava giornata è monna Piccarda, presentataci<br />
da Boccaccio come una gentil donna vedova (VIII, 4, 5) dimorante il più del tempo a<br />
Fiesole in compagnia di due giovani fratelli: la situazione sembra richiamare quella<br />
dell’incontro di Federigo e monna Giovanna, appena ricordati, ma ben altre sono le<br />
caratteristiche del corteggiatore di monna Piccarda, il prevosto di Fiesole, che<br />
l’autore si premura di dipingerci con i tratti più odiosi possibili:<br />
Era questo proposto d’anni già vecchio ma di senno giovanissimo,<br />
baldanzoso e altiero, e di sé ogni gran cosa presummeva, con suoi modi<br />
e costumi pien di scede e di spiacevolezze, e tanto sazievole e<br />
rincrescevole, che niuna persona era che ben gli volesse; e se alcuno ne<br />
gli voleva poco, questa donna era colei, ché non solamente non ne gli<br />
volea punto, ma ella l’avea più in odio che il mal del capo... (VIII, 4, 7).<br />
La descrizione delle virtù della vedova, dunque, avviene anche, indirettamente, per<br />
contrasto con la spiacevole natura del prevosto, che per di più manca persino di tatto<br />
168
(e dopo alcun tempo fu di tanto ardire, che egli medesimo disse a questa donna il<br />
piacer suo, e pregolla che ella dovesse esser contenta del suo amore e d’amar lui<br />
come egli lei amava (VIII, 4, 6)): nelle sfrontate avances del proposto leggiamo la<br />
poca considerazione di quest’ultimo nei confronti delle vedove, che appunto verrà<br />
punita doppiamente dalla vedova, facendosi sostituire dall’orrida Ciutazza, e<br />
rivelando al vescovo il peccato del prevosto. Grazie a questa sua trovata, la vedova<br />
non solo conquista il benvolere dei lettori, ma viene lodata dal vescovo, che sembra<br />
ricordare allusioni a cruente punizioni – come le troviamo, ad esempio, nel fablel che<br />
ha per protagonista il prete crocifisso – quando commendò molto la donna e i giovani<br />
altressì, che, senza volersi del sangue de’ preti imbrattar le mani, lui sì come egli era<br />
degno avean trattato (VIII, 4, 36).<br />
Dalla bella Elena al Corbaccio<br />
La settima novella dell’ottava giornata contiene, a differenza di quelle sinora<br />
considerate, una traccia di quella letteratura di argomento misogino nei confronti<br />
delle vedove, che Boccaccio svilupperà nel Corbaccio: la bella Elena appare sulla<br />
scena glorificata di una descrizione della sua condizione civile ed economica, nonché<br />
dei suoi modi di vita:<br />
Egli non sono ancora molti anni passati che in Firenze fu una giovane<br />
del corpo bella e d’animo altiera e di legnaggio assai gentile, de’ beni<br />
della fortuna convenevolmente abondante, e nominata Elena. La quale<br />
rimasa del suo marito vedova mai più maritar non si volle, essendosi<br />
ella d’un giovinetto bello e leggiadro a sua scelta innamorato... (VIII, 7,<br />
4)<br />
La scelta di non risposarsi, in contrasto con le opinioni di Teodolinda, Ghismonda e<br />
monna Giovanna, si unisce alla decisione di vivere un rapporto “libero” con il<br />
giovinetto bello e leggiadro, quindi giustifica le pretese di Rinieri, che viene ben più<br />
crudelmente beffato da Elena, di quanto avesse fatto monna Piccarda con il prevosto<br />
169
di Fiesole: il cinismo omicida della bella vedova viene sottolineato dalle frasi<br />
beffarde che ella usa per dipingere l’amore dello studente («Deh! levianci un poco e<br />
andiamo a vedere se ‘l fuoco è punto spento nel quale questo mio novello amante<br />
tutto il dì mi scrivea che ardeva» (VIII, 7, 28), «Che dirai, speranza mia? parti che<br />
io sappia far gli uomini carolare senza suono di trombe o di cornamusa?» (VIII, 7,<br />
29), etc.), e che le fanno meritare la punizione per contrappasso, escogitata da<br />
Rinieri. Abbiamo già sottolineato come il sentimento di quest’ultimo, di fronte alla<br />
bellezza fisica della donna intravista nella notte, quasi si risvegli per impedire che la<br />
punizione abbia corso, per poi ritornare alla determinazione originaria che, al di là<br />
degli effetti finali – pur risanati dal tempo e dalla medicina –, si esprime in tutta la<br />
sua acrimonia nella terribile promessa fatta dallo scolare:<br />
Per che, quantunque io aquila non sia, te non colomba ma velenosa<br />
serpe conoscendo, come antichissimo nemico con ogni odio e con tutta<br />
la forza di perseguire intendo... (VIII, 7, 87).<br />
L’arringa contro i tradimenti della vedova è lunghissima, ma proprio questo<br />
frammento, con la citazione di immagini bibliche (la colomba e il serpente), è quello<br />
che maggiormente esprime l’odio viscerale dello studente nei confronti di Elena, e<br />
che meglio si ricollega alla caratterizzazione della vedova ricordata nel Corbaccio<br />
come paradigma della perfidia femminile. Alla descrizione dell’esistenza travagliata<br />
sopportata dal ben avventurato spirito quando era ancora in vita (... la sconvenevole<br />
pazienzia colla quale io comportai le scellerate e disoneste maniere di colei la quale<br />
tu vorresti d’avere veduta esser digiuno. (Corbaccio 1988:218)) seguono le prolisse<br />
invettive nei confronti del sesso femminile, distinte secondo determinati motivi: il<br />
primo di questi è la mancanza di resistenza alle passioni (ivi:233), cui segue il terrore<br />
ancestrale nei confronti del sangue mestruale e degli umori che accompagnano il<br />
parto, come simboli tangibili della loro sporcizia (... riguardinsi i parti loro,<br />
ricerchinsi i luoghi segreti dove esse, vergognandosene, nascondono gli orribili<br />
strumenti li quali a tor via i loro umori superflui adoperano (ivi:234). A questi difetti<br />
170
legati alla passività dell’indole ed alla natura biologica delle donne, seguono doti<br />
diaboliche quali la malizia e la vanagloria, nonché l’uso proditorio che fanno della<br />
bellezza (ibidem), fino a concedersi tanto al lusso degli abiti ed alle smancerie, che<br />
somigliano le publiche meretrici (ivi:235), di cui possiedono la lussuria (la loro<br />
lussuria è focosa e insaziabile (ivi:237)) che le costringe alle azioni più<br />
ignominiose 87 . L’iracondia, il sospetto, l’instabilità, la superbia, tutti i vizi sono in<br />
loro concentrate, se stiamo a sentire il Corbaccio, che del resto si può leggere anche<br />
in chiave metaletteraria, come un gioco di combinazione di materiali letterari che<br />
Boccaccio utilizza in forma parodica, senza assentire con la lettera di quanto scrive,<br />
ma seguendo il filo della elaborazione coerente di quello che potrebbe addirittura<br />
essere un ripensamento dell’amore cortese, rovesciato nella situazione di base del<br />
Corbaccio (Battaglia Ricci 2000:233-234).<br />
Contemporanea al Corbaccio è la raccolta De mulieribus claris 88 , contenente<br />
centoquattro profili biografici di donne celebri (da Eva a Giovanna di Napoli), che<br />
Boccaccio fa introdurre dalle seguenti considerazioni, appunto opposte a quanto<br />
dichiarato nell’opera in volgare da noi appena ricordata:<br />
Già nel passato alcuni degli storici antichi scrissero compendi intorno<br />
agli uomini illustri. Ai nostri tempi uno di maggior estensione e di più<br />
accurato stile lo sta scrivendo il mio maestro Francesco Petrarca, uomo<br />
insigne ed egregio poeta. E ben a ragione: poiché meritarono che il loro<br />
nome fosse consegnato a perenne ricordo ai posteri, quegli uomini che,<br />
per superare gli altri in azioni egregie, spesero tutte le loro forze e le<br />
loro sostanze; e, se fu necessario, donarono anche il sangue e la vita. Al<br />
contrario, è stato per me sempre motivo di meraviglia il fatto che le<br />
87 Proprio questo passo, in cui Boccaccio ricorda che la lussuria costringe le donne ad esser<br />
su per le sommità delle case, de’ palagi o delle torri (ivi:238), presenta delle suggestioni<br />
significative con la punizione adottata dallo studente in VIII, 7.<br />
88 Se accogliamo la datazione del Corbaccio al 1363 (v. Battaglia Ricci 2000:229), possiamo<br />
considerare contemporaneo il De mulieribus, la cui stesura definitiva risalirebbe al 1362<br />
(Ricci in Zaccaria, intr. a De mulieribus claris 1967:14).<br />
171
donne abbiano avuto così poca presa sugli scrittori da non raggiungere<br />
mai il favore del ricordo in qualche opera speciale, ad esse dedicata;<br />
mentre è ben noto – anche dalle storie più vaste – che alcune di esse<br />
compirono imprese valorose e forti. (De mulieribus claris 1967: 25)<br />
Il Proemio prosegue indicando nella volontà di proporre un insegnamento morale, il<br />
principio che ha guidato l’autore nell’inserimento di amabili inviti alla virtù e di<br />
alcune frecciate per far fuggire e detestare i delitti, al fine di raggiungere una santa<br />
utilità tutta a vantaggio del lettore: ma è proprio nella descrizione dell’ultima mulier<br />
clara considerata, Giovanna regina di Napoli, che Boccaccio spunta le sue armi di<br />
misoginia ed infila le lodi sperticate della donna cui, tra l’altro, aveva pensato di<br />
dedicare quest’opera. Il regno dalle complesse vicende di Giovanna viene lodato<br />
come reso sicurissimo dall’azione civilizzatrice di una governante determinata: le<br />
terre che ora possiede, Giovanna ha ordinato in modo che chiunque voglia passar<br />
per esse – sia povero o ricco – può farlo con sicurezza notte e giorno, cantando. (De<br />
mulieribus claris 1967:447)<br />
Inoltre, le vicende personali e familiari della donna, coinvolta direttamente<br />
nell’assassinio del marito Andrea d’Ungheria, per vendicare il quale si mobilitò una<br />
vera e propria campagna militare comandata dal potente re Luigi, vengono lette in<br />
maniera del tutto singolare dal Certaldese:<br />
Ella infatti sopportò guerre all’interno, per la discordia tra i fratelli<br />
della famiglia reale (...); sopportò inoltre, per colpa altrui, la fuga,<br />
l’esilio, gli arcigni caratteri dei mariti, gli odi dei nobili, la cattiva fama<br />
immeritata, le minacce dei pontefici e molti altri mali con cuore forte,<br />
con animo invitto: difficoltà tutte che, non dico a donna, ma a re forte e<br />
validissimo, sarebbero riuscite insuperabili. (De mulieribus claris<br />
1967:449)<br />
172
Accanto al torbido quadro offertoci nel Corbaccio, ecco la riabilitazione di una delle<br />
vedove più famigerate dell’epoca, eppure proprio le vicende di cui Giovanna era<br />
stata protagonista avrebbero significato un magnifico spunto per una novella sulla<br />
crudeltà femminile: da un lato, però, ci sembra che Boccaccio sia cosciente<br />
dell’importanza di una maggiore elaborazione formale, addirittura di una<br />
trasfigurazione, nel caso dei personaggi contemporanei (v. Muscetta 1972:322),<br />
dall’altro la possibilità di inserire un personaggio comunque tanto discusso – anche<br />
se l’autore vuole ad ogni costo smentire le voci contrarie all’onestà della regina –<br />
rientra nel quadro di novità dell’opera, che non limitandosi ad includere soltanto<br />
personaggi positivi, accoglie anche figure che si sono macchiate di nefandezze,<br />
dunque – secondo un orientamento che ha superato lo schema medievale – tende a<br />
diventare una antologia di figure non comuni. 89<br />
La tipologia della vedova rimane di gran lunga la meno monolitica di quelle sinora<br />
esaminate, soprattutto se al di là del Decameron la consideriamo nelle sue<br />
“propaggini corbacciane”: in essa possiamo notare quanto sia forte ancora, nel<br />
Boccaccio, il retaggio di una tradizione misogina che, pur essendo coscientemente<br />
superata dalla sua evoluzione di letterato, riemerge di volta in volta rendendo<br />
quantomeno problematico l’approccio dello scrittore a queste figure, che sono ricche<br />
di connotazioni psicologiche assai attraenti per uno scrittore tanto attento a questi<br />
aspetti (pensiamo soltanto alla psicologia amorosa di Ghismonda, o alle<br />
autosuggestioni della castellana che accoglie Rinaldo d’Asti).<br />
89 Come dice Zaccaria nel suo saggio introduttivo all’opera: L’intento moralistico non è<br />
dunque superiore a quello letterario; anzi il proposito della edificazione è inferiore a quello<br />
della divulgazione culturale. (1967:6)<br />
173
Conclusioni<br />
Come sappiamo, ogni tentativo di imprigionare un’opera letteraria in un preciso<br />
schema, in una definizione, in una possibilità di lettura, non può che riuscire soltanto<br />
parzialmente: il Decameron di Giovanni Boccaccio, proprio per la sua polifonia di<br />
temi e personaggi, oltreché per il fatto di trovarsi a cavallo tra due tradizioni<br />
letterarie fondamentali per lo sviluppo della cultura occidentale, è almeno altrettanto<br />
difficile da chiudere in una classificazione, che la Divina Commedia o l’Orlando<br />
furioso.<br />
Il tentativo di definirne le unità narrative, e la complessità di temi e personaggi,<br />
dunque, attraverso le differenti possibilità e forme di rappresentazione delle<br />
protagoniste delle novelle, significa solo una ulteriore modalità di lettura rispetto a<br />
quanto sinora tentato dai vari critici: la fortuna letteraria dell’opera multiforme di<br />
Boccaccio, infatti, se ha avuto nel corso dei secoli diversa intensità ed incontrato<br />
diversa stima, ha tenuto costantemente l’opera maggiore al centro dell’attenzione<br />
degli studiosi, che non hanno potuto ignorarne il valore artistico, al di là delle<br />
contingenti tendenze di giudizio che di volta in volta hanno esaltato o sminuito scelte<br />
stilistiche o contenutistiche del Certaldese. La traduzione personalissima da parte del<br />
Petrarca della novella di Griselda è in qualche modo un segnale dell’attenzione di un<br />
grande contemporaneo alla trattazione boccacciana di questa figura femminile che<br />
chiude la galleria di protagoniste del Centonovelle: d’altronde, proprio Petrarca<br />
aveva espresso grande interesse per la varietà di registri di cui il grande amico è<br />
capace nella sua opera, ammirando sinceramente i momenti di pietà e gravità espressi<br />
nelle figure che maggiori affinità dimostravano con gli ideali eroici e moralistici<br />
rappresentati nelle sue opere (v. Branca 1986:355). Grande simpatia avranno per la<br />
varietà tematica del Decameron Lorenzo de’ Medici e Poliziano, fino alla<br />
consacrazione del Decameron quale sommo modello di prosa nelle Prose della<br />
volgar lingua di Bembo: la fortuna della novella boccacciana, della sua<br />
sceneggiatura e della caratterizzazione dei personaggi, appare fondamentale per la<br />
rinascita del teatro cinquecentesco (v. l’analisi di Borsellino 1989:11-66), in cui<br />
174
l’introspezione psicologica, la caratterizzazione intellettuale di alcune figure<br />
femminili (dalla Lucrezia della Mandragola alle più infide creature del teatro di<br />
Giordano Bruno) richiamano da vicinissimo le protagoniste più significative del<br />
Decameron.<br />
Il lavoro di ricostruzione filologica che sovente coinvolge gli studiosi più di quanto<br />
non sia necessario nella ricerca archivistica delle fonti delle novelle boccacciane,<br />
viene compensato dal grande interesse che, dopo secoli di mutilazioni, riscritture e<br />
fraintendimenti, la critica più risolutamente letteraria dedica a quest’opera: è con De<br />
Sanctis che per la prima volta si pone la questione di una visione unitaria della<br />
silloge, senza però riconoscere nell’ambizione letteraria del Decameron la volontà di<br />
rappresentare mondi diversi da quello che il grande critico napoletano<br />
semplicisticamente individua nel superamento della trascendenza medievale e<br />
nell’approdo ad una conformità a tempi e costumi di un mondo profano, tramite<br />
un’operazione di legittimazione artistica della materia informe e rozza alla base delle<br />
novelle (v. De Sanctis 1964:285-327). A lungo dimorante nel novero delle opere<br />
dominate dal senso e dalla carne, il Decameron verrà rivalutato nella sua statura<br />
poetica dalle analisi del Parodi e da alcune pagine illuminanti di Benedetto Croce,<br />
che aiuterà a far luce sulla moralità, fino ad allora generalmente negata, dell’autore:<br />
introducendo il suo giudizio sul Decameron, il Croce fa riferimento a tutte quelle<br />
opere che avevano epocalmente riaperto il dibattito su Boccaccio, alle opinioni di<br />
studiosi del calibro di Bosco o Sapegno, che avrebbero aperto la strada ai grandi<br />
studi degli anni successivi ad opera di Luigi Russo, Petronio, Branca, Schiaffini e via<br />
dicendo. Pochi gli studiosi interessati a cogliere da vicino l’importanza delle figure<br />
femminili come “motore” delle narrazioni: è importante segnalare come proprio<br />
Luigi Russo, estrapolando dal suo commento decameroniano una serie di figure<br />
paradigmatiche (che costituirono poi i capitoli delle Letture critiche del Decameron),<br />
avesse dedicato un terzo delle Letture a personaggi femminili, partendo<br />
tematicamente dal Proemio alle donne e terminando, naturalmente, con Griselda. Più<br />
di recente le analisi di Forni, Vittorio Russo, Petrini, Almansi e Battaglia Ricci hanno<br />
riportato l’attenzione sulla funzione particolare che la caratterizzazione dei<br />
175
personaggi femminili riveste nel tessuto del Decameron: pure, ci sembrava che<br />
ancora non fosse possibile parlare di una lettura dell’opera che tenesse conto della<br />
possibilità di individuare una traccia tutta femminile di svolgimento delle azioni<br />
narrative.<br />
È naturale che non si può fare a meno dei vari schemi tipologici sinora prodotti dalla<br />
critica boccacciana, utilizzando di essi i momenti per noi particolarmente stimolanti:<br />
nel caso degli studi che prendono in esame tutta l’opera ci riferiamo, ad esempio, alle<br />
letture critiche di Luigi Russo, e poi all’analisi della struttura compositiva portata<br />
avanti da Giovanni Getto al fine di individuare le “forme di vita” come nuclei<br />
tematici del Decameron; allo studio di Mario Baratto, che fonda una classificazione<br />
delle novelle secondo tipologie narrative e narratologiche; alle intuizioni della lettura<br />
di Carlo Muscetta, che partono proprio dall’analisi di fonti e modelli da Boccaccio<br />
rivisitati, per giungere alla ricomposizione di una armonia capace di far trionfare la<br />
vita sulla morte, il bello sul brutto, in una dimensione universalizzante; ai saggi di<br />
Vittore Branca sulla tradizione letteraria e sulle innovazioni narrative dell’opera, che<br />
individuano connessioni importanti tra una tradizione letteraria e la volontà di<br />
“contemporaneizzazione” decameroniana; alla monografia di Francesco Bruni che,<br />
considerando tutta l’opera boccacciana, riconduce proprio il Decameron alla linea<br />
della scrittura «mezzana» e ci illustra la silloge secondo uno schema di “traduzione”<br />
di autori e generi letterari nella novella; all’analisi di Alberto Asor Rosa, che – come<br />
del resto faranno, tra gli altri, anche Francesco Tateo e Luigi Surdich 90 – parte dal<br />
problema della struttura della raccolta di novelle, per passare ad analizzare una serie<br />
90 Citiamo questi due autori in quanto le loro monografie su Boccaccio sono quasi<br />
contemporanee (1998 e 2001), appaiono presso lo stesso editore (Laterza) e tentano una<br />
raggruppazione “topica” delle novelle: Tateo, partendo dal presupposto che Boccaccio<br />
riconoscesse nella propria opera un superamento della letteratura a lui precedente proprio<br />
nell’elaborazione di nuovi moduli narrativi, parla di ideologia narrativa e divide le novelle<br />
intorno a categorie di ordine retorico (metafora, parodia, virtù e fortuna, beffa e controbeffa,<br />
pretesto satirico, forme del meraviglioso, spettacolo della virtù); Surdich raggruppa le unità<br />
narrative intorno a due possibili schemi, uno topo-tematico («cose catoliche», amori infelici<br />
e amori felici, motti e beffe, dalla libertà tematica alla celebrazione delle virtù) che prende in<br />
considerazione l’ordine delle novelle, l’altro più latamente retorico, in cui varietà e ordine<br />
costituiscono i principii di raggruppamento.<br />
176
di temi-contenuti (Fortuna e Natura; Eros; etica e religione; cortesia, cavalleria e<br />
comportamento; parola e gesto) di particolare importanza per lo svolgimento delle<br />
unità narrative; alla preziosa analisi di Emma Grimaldi che considera L’eccezione e<br />
la regola nel sistema Decameron ed esalta la varietà, il pluralismo ideologico di<br />
un’opera che si pone essenzialmente come sistema possibile di raggrupamento del<br />
narrabile; infine, alla summa della critica boccacciana contenuta nel saggio<br />
monografico di Lucia Battaglia Ricci, in cui ritroviamo illlustrate le diverse<br />
possibilità di schematizzazione finora accennate. 91<br />
La storia della critica del Decameron, dunque, costellata da ormai numerosissimi<br />
tentativi di classificazione, presenta diversi esempi di contaminatio delle<br />
metodologie utilizzate: per questo motivo non ci è parso “eretico” utilizzare anche<br />
noi prospettive diverse, a seconda delle novelle prese in considerazione, ovvero delle<br />
tipologie da noi individuate per descrivere il “genio narrativo” boccacciano.<br />
La prima tipologia, quella che caratterizza alcuni personaggi per mezzo della<br />
descrizione delle loro fattezze, si ricollega ad un’analisi più generale dell’impiego di<br />
stilemi formulari da parte di Boccaccio: evidenziando le diverse combinazioni<br />
utilizzate dall’autore per introdurre nell’azione narrativa le protagoniste delle<br />
novelle, abbiamo voluto mettere in evidenza quanta parte della descrizione stessa del<br />
personaggio Boccaccio attribuisca alla citazione della bellezza connessa a<br />
determinate virtù spirituali (saggezza, costumatezza, vivacità, e così via).<br />
L’esaltazione di un complesso di qualità invece che della semplice bellezza,<br />
giustifica il nostro interesse verso un’analisi delle figure femminili del Decameron,<br />
come personaggi fondamentali e non comprimari delle novelle: del resto, è<br />
importante notare come Boccaccio adotti coscientemente diversi parametri al fine di<br />
descrivere la bellezza femminile, in una gradazione che non possiamo avvicinare<br />
91 Accanto a queste opere critiche, che rappresentano solo una parte della riflessione<br />
sull’opera di Boccaccio, troviamo una serie di approcci – spesso “polifonici”, come è nel<br />
caso della monografia-manuale di Aldo Rossi, o del Testo moltiplicato curato da Mario<br />
Lavagetto – che si riferiscono soltanto ad una lettura parziale dell’opera (Todorov, V.Russo,<br />
Sanguineti White, Mazzacurati, Almansi, etc.), quando non addirittura ad una singola<br />
novella: pensiamo soltanto a Benedetto Croce (la novella di Andreuccio) o ad Erich<br />
Auerbach (la novella di Frate Alberto)!<br />
177
sempre e coerentemente con la classificazione sociale delle sue protagoniste, ma che<br />
piuttosto si collega alla funzione narrativa di queste. Un altro punto importante della<br />
nostra analisi è – a nostro avviso – la smitizzazione della eccezionale “portata<br />
sensuale” del Decameron: se è vero che la critica più recente ha comunque accettato<br />
il fatto che l’opera di Boccaccio sia da leggere secondo un’ottica del tutto differente<br />
da quella che considerava il Decameron un’opera gaudente e tutta posseduta da una<br />
festante carnalità, non possiamo dimenticare che le novelle più “scabrose” (il<br />
giovane monaco, Peronella, Donno Gianni) tali sono rimaste, e pertanto continuano<br />
ad essere escluse da gran parte delle analisi “maggiori”.<br />
Una volta apprezzata l’importanza della “funzione descrittiva primaria” – quella cioè<br />
dell’aspetto fisico delle figure femminili –, acquisiscono un ruolo fondamentale nel<br />
nostro esame quelle che abbiamo definito “tipologie comportamentali”, ovvero<br />
quelle legate direttamente alla natura stessa di una tanto complessa opera narrativa:<br />
le novelle raccontano storie in cui i personaggi agiscono e rendono testimonianza<br />
innanzitutto del loro comportamento, pertanto è proprio in questo aspetto che le<br />
protagoniste delle unità narrative meglio dimostrano le loro caratteristiche. Il<br />
momento più importante del loro apparire nei meccanismi narrativi, che da esse<br />
vengono spesso e volentieri modificati, indirizzati e determinati, è quello in cui esse<br />
sono chiamate ad agire, a mostrare il loro apporto comportamentale alla risoluzione<br />
del conflitto: per questo motivo la tripartizione secondo tre atteggiamenti<br />
fondamentali (passivo, verbalmente attivo, “attualmente” attivo) è giustificata da una<br />
graduale variazione dell’impegno comportamentale, a seconda dei personaggi o delle<br />
situazioni. L’utilizzo di questa scala di “valenze comportamentali” è per noi<br />
giustificato dall’esistenza, nei nuclei narrativi decameroniani, di questa triplice<br />
possibilità di (re)azione, di cui abbiamo tentato di spiegare motivazioni e<br />
caratteristiche tematiche. La tipologia della reazione verbale, che abbiamo accostato<br />
allo spirito di iniziativa, è sicuramente la più importante perché connessa<br />
direttamente alle premesse illustrate nella “cornice”: se quanto si svolge nel corso del<br />
Decameron ha un inizio ed una fine, è circolarmente compreso in un avvenimento<br />
storico, sarà proprio il capovolgimento delle premesse a invertire il corso negativo<br />
178
degli eventi, mediante la continua tenuta della reazione verbale per eccellenza, la<br />
narrazione.<br />
L’esame delle tipologie sociali ha sicuramente dei precedenti illustri: abbiamo per<br />
questo voluto integrare il quadro sinora emerso, nella critica boccacciana,<br />
relativamente alla rappresentazione del mondo comunale, da un lato analizzando le<br />
creature femminili di estrazione borghese secondo le differenti sottotipologie<br />
utilizzate da Boccaccio (in cui più evidente è la varietà dei giudizii morali relativi<br />
alle esponenti femminili di questo ceto) e quindi escludendo una immagine<br />
monolitica di questa categoria umana, dall’altro analizzando anche il rapporto tra<br />
donne borghesi e mariti appartenenti all’aristocrazia, come vera novità nella<br />
descrizione dei mutamenti epocali al centro della “contemporaneizzazione” del<br />
Decameron. Per quanto riguarda invece la tipologia “aristocratica” e quella<br />
“popolana”, dobbiamo sottolineare che la presenza di queste due categorie indica<br />
chiaramente le capacità boccacciane di conservare il riferimento ad una passato che<br />
non scompare ma viene assorbito dal presente, ma anche di riportare nel tessuto della<br />
sua narrativa quel mondo popolare che gli consente di rifuggire il monostilismo e di<br />
cercare un confronto continuo tra voci diverse.<br />
Essendo anche le tipologie retoriche, come quelle comportamentali, implicite alla<br />
letterarietà dell’opera, abbiamo scelto tre categorie che in qualche modo “vengono<br />
esaltate” dalla presenza di personaggi femminili: tra queste, quella che si riferisce ad<br />
una funzione oratoria vera e propria è da noi stata descritta attraverso quattro esempi<br />
di perorazione, che crediamo rappresentativi della eloquentia femminile presente nel<br />
Decameron. Le perorazioni d’amore (tre delle quali sono state da noi messe a<br />
confronto con il discorso giustificatorio di Alatiel) rappresentano – a nostro giudizio<br />
– i nuclei di maggiore interesse al fine di considerare la prospettiva da cui Boccaccio<br />
considerava la donna come personaggio letterario, specchio di una situazione sociale:<br />
gli stilemi della tradizione oratoria possono essere attribuiti alle donne soltanto<br />
quando esse abbiano raggiunto una profonda coscienza della loro importanza, e se da<br />
un lato incontriamo figure in grado di servirsene in situazioni a loro favorevoli<br />
(pensiamo alla marchesana del Monferrato), Boccaccio non evita di investirle di<br />
179
questa importante funzione anche quando il conflitto di cui sono protagoniste, le<br />
vede inevitabilmente destinate alla sconfitta (Ghismonda).<br />
Le due tipologie – retoriche in quanto provenienti da una notevole tradizione<br />
letteraria – della donna angelicata e della vedova, sono state da noi privilegiate<br />
rispetto ad altre possibili (la donna “incantatrice”, la cortigiana, etc.), in quanto la<br />
loro presenza nel Decameron è quantomai problematica.<br />
La prima tipologia è investita di particolari funzioni, che nell’opera di Boccaccio<br />
sono in un certo senso basilari: la nobilitazione dell’animo alla vista della bellezza<br />
femminile (Cimone), l’esercizio della liberalità al massimo grado (Gentile<br />
de’Carisendi), la possibilità di superare con l’atto verbale qualsiasi ostacolo (Zima),<br />
si manifestano in novelle in cui esiste un riferimento chiarissimo alla tradizione<br />
poetica stilnovistica, che Boccaccio accoglie superandone gli schemi e proponendo<br />
soluzioni narrative coerenti con le proprie convinzioni morali.<br />
La tipologia della vedova conclude il nostro tentativo di caratterizzazione tipologica<br />
di gran parte delle figure femminili dell’opera, in quanto rappresenta una possibilità<br />
di categorizzazione del personaggio femminile “estrema” proprio per le differenti<br />
possibilità che Boccaccio illustra nei casi da noi analizzati. Inoltre, se si pensa che<br />
nel Corbaccio la critica misogina si dirigerà in primo luogo appunto contro una<br />
vedova, non possiamo ignorare come nel Decameron coesistano giudizii<br />
estremamente negativi (la bella Elena) e fondamentalmente positivi (Ghismonda,<br />
monna Giovanna): da questo punto di vista, e considerando come contr’altare della<br />
critica corbacciana quanto da noi citato a proposito del profilo di Giovanna d’Angiò<br />
nel De mulieribus, ci sembra che il giudizio morale di Boccaccio sia orientato<br />
piuttosto all’equilibrio, che ad una presa di posizione netta e definitiva.<br />
Siamo coscienti di non aver potuto inserire, nella casistica da noi ideata, tutte le<br />
figure femminili presenti nelle novelle del Decameron: pure, speriamo che alcune<br />
delle nostre riflessioni possano servire da spunto per una diversa considerazione della<br />
struttura di alcune novelle, ovvero per l’analisi di alcuni personaggi e meccanismi<br />
narrativi. Da un lato è nostra convinzione che proprio quella «carnevalizzazione»<br />
180
della letteratura illustrata da Bachtin debba rendere ancora più articolata la lettura del<br />
Decameron, e spingerci vieppiù a considerare la polifonia stilistica di quest’opera<br />
come una delle qualità maggiormente capaci di assicurarle una lunga vita; dall’altro,<br />
ci sembra naturale che l’interdisciplinarità necessaria all’interpretazione di un’opera<br />
quale è il Decameron, passi necessariamente per il confronto con le acquisizioni<br />
delle discipline storiche, della retorica, della sociologia e dell’antropologia. Data la<br />
complessità del materiale di cui la silloge è composta, le nostre proposte di lettura si<br />
pongono come possibilità di integrazione di diversi metodi, rimandando però<br />
l’attuazione di una lettura “totale” dell’opera ad esperimenti di più articolata<br />
interdisciplinarità quali quello del Testo moltiplicato a cura di Mario Lavagetto, che<br />
pure prende in esame una sola novella, da varie prospettive scientifiche.<br />
Sebbene crediamo sia inopportuno tentare di offrire una nuova definizione del<br />
Decameron (dopo le tante sinora espresse dalla critica), alla luce di quanto da noi<br />
analizzato riteniamo fondamentale sottolineare l’importanza delle protagoniste delle<br />
novelle come segno di una vera novità tematica e compositiva di tutta l’opera: donne<br />
di ogni estrazione sociale, di bellezza ed intelligenza, moralità ed ambizioni diverse,<br />
si avvicendano in questo panorama inesauribile delle reazioni dell’animo umano agli<br />
eventi che di volta in volta lo mettono alla prova. Talvolta infrangendo pregiudizi,<br />
tal’altra mettendosi nel solco della tradizione, Boccaccio ci presenta la sua visione<br />
dell’universo femminile, altrettanto vario e complesso che quello maschile,<br />
superando la citazione occasionale e costituendo un vero e proprio sistema della<br />
presenza femminile nella narrazione.<br />
181
BIBLIOGRAFIA<br />
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