Bruno Cartosio Mito e storia - Università degli studi di Bergamo

Bruno Cartosio
Mito e storia
(tratto, con variazioni, da: Bruno Cartosio, Da New York a Santa Fe. Terra, culture native, artisti e scrittori nel
Sudovest (1846-1930), Giunti, Firenze 1999, pp. 141-150)
Frederick Jackson Turner fissa nel 1893, con il discorso pronunciato a Chicago (e pubblicato l’anno
successivo), l’immagine della frontiera come “ciglio dell’onda”, come mobile e ciclico punto d’incontro tra
l’avanzante civiltà anglosassone e la barbarie. “Lei ha prodotto alcune idee di prima classe”, gli scrisse
Theodore Roosevelt, non ancora presidente degli Stati Uniti, ma già affermato scrittore e storico non
accademico e anch’egli sostenitore appassionato dell’importanza della conquista dell’Ovest nella formazione
dell’uomo americano. E aggiunse: “Lei ha dato forma definita a una quantità di idee che fluttuavano da
tempo nell’aria in modo disorganico”.( i ) Era vero. In particolare, Turner aveva distillato nel proprio saggio
l’intera concezione della “progressione continua della civiltà attraverso il continente” contenuta nei primi due
volumi dell’opera maggiore di Roosevelt, The Winning of the West, pubblicati nel 1889.( ii ) Ma anche se
schiere di precursori, oltre allo stesso Roosevelt, avevano preparato il terreno per la sua frontier thesis,
furono le contingenze sociali e culturali dell’America di fine Ottocento a costituire l’emulsione che permise di
fissare la grande scena narrata dal giovane Turner. Nel giro di qualche anno la sua narrazione divenne uno
dei mezzi grazie ai quali la “nazione” metteva ordine nel proprio presente, attraverso la sistemazione del
proprio passato. Turner confezionò l’immagine mitica conclusiva di una parte importante del passato
nazionale a cui scrittori, poeti, politici e pubblicisti avevano dato un contributo preparatorio. E’ lo storico,
sacerdote di una disciplina laica e giovane, dedita alla ricerca della verità, a raggiungere con l’impersonalità
del suo discorso l’obiettivo a cui avevano mirato, ognuno a suo modo, Jefferson e Franklin, Jackson e
Cooper, Irving ed Emerson; gli apologeti della Rivoluzione e della conquista del continente e gli scribacchini
dei romanzi popolari. I grandi individualisti - da Poe a Thoreau, Hawthorne, Melville, Whitman - per quanto
eccezionali interpreti del loro tempo e del loro paese, erano voci troppo critiche e fuori del coro per poter
diventare popolari nel loro tempo. Altri ancora, come ad esempio Frederick Douglass perché ex schiavo, a
un estremo, oppure Mark Twain perché internamente eroso dalla sua stessa ironia, all’altro estremo, erano
costituzionalmente esclusi dalla possibilità di diventare propositori di una visione del mondo in grado di
diventare “nazionale”.
Turner, dunque, e l’immagine da lui costruita della frontiera come luogo della cosmologia
democratica nazionale: “l’indietreggiare della frontiera” verso il Pacifico era stato tutt’uno con il progresso
della civiltà, e se questo progresso era continuato dalla fondazione delle colonie a oggi, allora anche
l’espansione odierna della potenza economica e del peso politico statunitense oltre i propri confini non erano
altro che un ulteriore prolungamento della stessa traiettoria. Niente di nuovo, gli Stati Uniti stavano
ubbidendo agli obblighi che imponevano loro il “destino manifesto”, la superiorità della razza, il “corso
dell’impero”, le leggi dell’economia. Non è un caso che, per la prima volta, il discorso politico di fine
Ottocento riprenda e riproponga assunti ideologico-politici che erano stati formulati nei decenni precedenti: la
missione provvidenziale del “destino manifesto”, formulata nel 1845 alle soglie della guerra col Messico, e
ripresa in occasione della guerra con la Spagna del 1898; la “dottrina Monroe”, a cui Theodore Roosevelt
(ora presidente degli Stati Uniti) appone il suo “corollario”; infine proprio il discorso, ideologicamente
essenziale e riassuntivo, della frontiera.
L’immagine della frontiera come momento del contatto tra le forze della civiltà anglosassone
avanzante e la barbarie era inconsistente dal punto di vista storiografico. La frontiera come “ciglio dell’onda”
era una metafora priva di “riferimenti storici”.( iii ) Essa era tuttavia già dominante ben prima di Turner, perché
rispondeva a bisogni ideologico-politici e narrativi, più che a criteri di descrizione “oggettiva” dei processi
reali. Ora la presunzione di verità implicita nel discorso dello storico in quanto ordinatore di fatti memorabili
era del tutto funzionale a dare credibilità alla narrazione. Per quanto curioso possa sembrare, se si scontano
le ovvie mutazioni nelle formule narrative, è quello che Defoe aveva fatto più di un secolo e mezzo prima,
quando aveva “fondato” il romanzo, garantendo la veridicità della sua prima narrazione romanzesca - il
Robinson Crusoe - definendolo una “storia di fatti”. Ma è anche quello che avevano fatto decine di scrittori di
dime novels, i romanzi popolari del mercato di massa statunitese del secondo Ottocento, non solo con
dichiarazioni analoghe, ma anche prendendo a prestito dalla realtà storica i loro personaggi ed eroi. “Le
caratteristiche e i nomi sono di persone vissute o viventi”, scriveva Samuel S. Hall nell’introduzione a uno di
questi romanzi. “I fatti sono fatti storici mai registrati, che io ho personalmente osservato; e dico...che in
questa storia presenterò la vita di frontiera così com’è...”.( iv )
Di fatto, l’immagine turneriana, o meglio la sua narrazione, ha resistito all’urto del tempo e di ormai
innumerevoli critiche. Ha resistito, bisogna dire, soprattutto al di fuori del campo storiografico proprio. In altre
parole, le contingenze ideologiche che le avevano dato il successo cent’anni fa hanno continuato a
proteggerla. Ha resistito come mito, non come verità storica. La ragione di ciò sta nel fatto che, come scrive
Roland Barthes, “nei confronti del mito gli uomini non sono in un rapporto di verità, ma di uso”.( v ) Del mito
della frontiera così com’è stato infine formalizzato da Turner si è continuato a fare uso perché era utile così
com’era.

“La mitologia”, scrive ancora Barthes, “può avere solo un fondamento storico, perché il mito è una
parola scelta dalla storia: il mito non può sorgere dalla ‘natura’ delle cose”.( vi ) Il fondamento storico del mito
della frontiera è fin troppo noto. E’ l’occupazione angloamericana del continente, dove però angloamericana
sta, brachilogicamente, per il processo storico quasi bisecolare della presenza inglese sul territorio
americano e per la costruzione da parte statunitense di un proprio mito fondativo nazionale che non può
evitare di includere i progenitori coloniali, rigenerati e trasformati però in angloamericani dalla permanenza
stessa sul suolo americano. Non è un caso che gli inglesi, i francesi e gli spagnoli, che pure hanno letto in
chiave mitica vari aspetti del loro contatto col Nuovo mondo, non abbiano prodotto analoghe interpretazioni
mitologizzanti della loro occupazione del continente americano: nessuna delle nazioni europee ha avuto
bisogno di fare iniziare la propria storia in America e da lì costruire la propria identità (e nessun’altra nazione,
aggiungiamo ancora, ha avuto l’ulteriore bisogno di ricostruire “sopra” una propria regione la propria identità
nazionale dopo un trauma violento come fu la guerra civile e nel contesto di un’immigrazione di massa nelle
sue metropoli).
Il primo passaggio, tornando al discorso di Barthes, è quello che trasforma il reale storico in un reale
naturale: “Il mito si costituisce attraverso la dispersione della qualità storica delle cose”.( vii ) Il mito, continua
Barthes, svuota il reale della politica che ad esso apparteneva in quanto reale storico. Esso è dunque una
“parola depoliticizzata”.( viii ) Ma si può precisare ulteriormente: quella parola che, in quanto è, è parola
sociale, appare depoliticizzata, mentre invece è solo la parola dell’autorità che non ammette contestazione.
Dunque è parola politica a tutti gli effetti, che sembra rimuovere da sé la politica e che invece rimuove
soltanto se stessa dal campo della politica ponendosene al di sopra, sottraendosi cioè alla possibilità stessa
della dialettica politica. La parola mitica, come l’epos bachtiniano, è resa “distante” e “assoluta” - in questo
senso, dunque, depoliticizzata - ma anche, in quanto tale, politicamente autoritaria.( ix )
Il mito elaborato dal vincitore rende “naturali” i processi storico-politici che hanno portato alla sua
vittoria e, ciò facendo, “abolisce la complessità degli atti umani, dà loro la semplicità delle essenze, sopprime
ogni dialettica, ogni spinta a risalire al di là del visibile immediato, organizza un mondo senza contraddizioni
perché senza profondità, un mondo dispiegato nell’evidenza, istituisce una chiarezza felice: le cose
sembrano significare da sole”.( x ) Il critico Alex Nemerov attinge alle formulazioni barthesiane per avviare un
suo discorso critico sull’Ovest nell’arte statunitense dell’Ottocento.( xi ) Come si vedrà, ad esempio nel caso di
Frederic Remington, si tratta per la gran parte di arte in qualche modo epica e quasi sempre mitologizzante.
Ma questa è anche la chiave per leggere la contemporanea narrazione turneriana: senza profondità (si limita
alla descrizione parziale e univoca di alcuni caratteri dell’occupazione territoriale fino alla valle del
Mississippi, non di tutto l’Ovest); senza dialettica (anche se presenta la frontiera come mobile confine tra
barbarie e civiltà, Turner non parla mai del “barbaro”, l’indiano; e l’Io americano che dell’indiano assume i
modi per sopravvivere nella foresta, lo fa solo temporaneamente, nella fase iniziale del ciclo rigenerativo,
che deve essere negata perché si riattinga alla “civiltà”); senz’altro che una evidenza ricondotta a essenza o
natura (gli indiscussi imperativi della razza e della provvidenza spingono avanti il colono, che è sempre
soltanto individuo, mai mosso da pressioni economico-politiche più grandi di lui).
Eppure è proprio questa parola apparentemente depoliticizzata - in realtà intrisa di una politica il cui
fine è la legittimazione dell’esistente espansionistico - che si afferma. E può affermarsi solo perché è così,
tale cioè da poter essere presentata come non politica, non di parte, ma generale; talmente “essenziale” da
permettere a ognuno di riconoscersi in essa. Esattamente come tutti i romani dovevano essere in grado di
riconoscersi nella grandezza e nei destini di Roma attraverso il mito virgiliano della sua fondazione. E’
questa qualità mitologica che è sopravvissuta all’abbattimento dell’edificio turneriano in sede storiografica.
Ancora nel 1976, John Cawelti, uno storico delle forme letterarie, scriveva che “il paesaggio
simbolico della formula western è un campo d’azione incentrato sul punto d’incontro tra civiltà e barbarie, Est
e Ovest, società stabile e spazio senza legge. L’insediamento o il gruppo di frontiera è un punto sia nello
spazio, sia nel tempo”.( xii ) Che il genere letterario western ottocentesco fosse stato prodotto e fosse
cresciuto su quella opposizione semplificata è un fatto noto. Tanto noto, come vedremo, da giustificare
l’affermazione secondo cui Turner è il sistematore finale di un quadro interpretativo non solo esistente, ma
diffuso e dominante già prima della sua comparsa sulla scena. E’ a questo stesso quadro che si riferisce un
altro critico recente, Stephen Tatum, quando studia la “dialettica” tra il bandito Billy the Kid, cioè la
wilderness, e il suo uccisore, lo sceriffo Pat Garrett, rappresentante della civilization.( xiii ) In termini quasi
perfettamente turneriani Tatum ipotizza l’esistenza di un “epico momento storico nel nostro passato
nazionale, quando le forze opposte della civiltà e della barbarie si fronteggiarono e determinarono il corso
della storia americana”.( xiv )
Semplicemente, quel momento non è mai esistito nella storia. Non è neppure esistito in un passato
tanto lontano da poter essere trattato come il “passato assoluto” dei poemi epici. Quando Virgilio scriveva,
quel che narrava sarebbe dovuto avvenire tanto prima del suo tempo da non avere più alcun “contatto”
documentale con esso. Invece, quando i mitografi della frontiera scrivono dell’Ovest, scrivono di fatto in
presa diretta con gli avvenimenti, spesso impiegando note figure storiche come materiali per i loro miti, le
loro epiche. In questo senso il fare delle cose e persone della “frontiera” una narrazione epica rivela
l’operazione deliberatamente mitopoietica: non solo la parola che costruisce il mito, nei termini barthesiani,

ma anche la parola che, costruendo il mito nazionale, lo spoglia della sua complessità storica, della sua
stessa storicità relegandolo, come dice Bachtin, in una specie di passato assoluto. Ma la vera specificità
statunitense sta nel fatto che l’”assolutezza” non può proprio essere quella del passato epico, perché gli eroi
protagonisti della mitopoiesi nazionale sono tutti contemporanei. E’ il contesto in cui vengono collocati che
quindi deve essere destoricizzato. Da qui la prassi curiosa di far fare agli uomini storici Daniel Boone, Davy
Crockett, Kit Carson, Billy the Kid, Buffalo Bill Cody cose che non hanno mai fatto (e spesso che non
avrebbero mai potuto fare), in ambienti che hanno soltanto vaghe colleganze con le realtà politiche, sociali,
culturali - in una parola, storiche - in cui essi si muovevano realmente nello stesso tempo in cui i mitografi si
sbizzarrivano su di loro.
Il punto è che deve trattarsi, se non di un vero passato assoluto della nazione, di un “ieri” che non è
temporalmente lontano ma spazialmente distaccato: in quell’imprecisa e lontana entità chiamata Ovest
avvengono oggi cose che nell’Est appartengono, forse, e più o meno, a un passato lontano di cui rimangono
poche tracce. Storie di scontri con gli indiani e di conquista, di aristocratici e selvaggi, di civiltà e barbarie
che servono alla Nazione per darsi, in certo modo, vestigia di un passato. La loro funzione è analoga al
persistere dei monumenti e alla conservazione dei documenti nelle società europee: legittimazione
dell’esistente attraverso la testimonianza data dall’esistenza del passato nel presente. La mitologia della
frontiera serve, un po’ più precisamente, all’Est statunitense - che si pone come depositario della coscienza,
oltre che del potere economico-politico della nazione - per riconoscersi come ormai diverso, ma anche per
ricondurre a sé quel nuovo mondo in quanto configurabile nei termini di un proprio passato epico: se l’Ovest
è oggi come noi siamo stati, allora potremo far diventare anch’esso come noi siamo oggi e, forse anche più
importante, se comportamenti e obiettivi sono gli stessi che noi abbiamo avuto - l’eliminazione dei selvaggi e
la conquista del territorio - allora la qualità americana (l’Americanness) è un dato reale della nazione, una
costante nella sua storia, un fattore esclusivo di identità spirituale. E’ questo il sostrato ideologico della
raffigurazione turneriana della ciclicità nella storia della frontiera: la ciclicità come sicurezza, certezza della
riproducibilità del modello e quindi solidità dei destini nazionali.
La Americanness, a sua volta, deve avere i caratteri dell’eroismo e della virilità, esattamente come la
romanità dei romani doveva essere ripercorribile fino a ritrovare la sua scaturigine nell’eroe troiano Enea,
che arriva da Oriente a fertilizzare la nuova terra, della cui ricettività è simbolo la donna che egli sposa.
L’eroe Enea o John Smith (o Daniel Boone, ma anche Hernán Cortez, volendo) arriva a fertilizzare con il suo
seme la futura nuova sede dell’Impero. Questo eroe maschio deve essere combattente e valoroso, perché la
sua è sempre una conquista territoriale e politico-militare, ma anche moralmente superiore e virile, per
attrarre a sé i conquistati: “Come le vergini sabine, [il Messico] imparerà presto ad amare i suoi
conquistatori”, scriveva il “New York Herald” dell’8 ottobre 1847, quando ancora era dibattuta l’ipotesi di
“prendersi” tutto il Messico; e sulla stessa lunghezza d’onda il “Sun”, anch’esso di New York, scriveva
qualche giorno dopo che “la razza [messicana] è del tutto abituata a essere conquistata...Liberare e
innalzare, non schiavizzare e abbassare, è la nostra missione”.( xv )
Detto qui per inciso, tuttavia, non è che questa rappresentazione non ponesse problemi in altri
ambiti. Al di là della retorica e del richiamo nobilitante ai classici, al di sotto del livello metaforico-mitico, l’idea
concreta della miscela razziale era respinta come ripugnante.( xvi ) Qualche giorno dopo aver evocato il Ratto
delle sabine, tenendo conto delle tante inevitabili implicazioni della conquista sul terreno dei diritti di
cittadinanza, lo “Herald” prediceva quell’unione come “infelice e segnata da una cattiva stella”. Alcuni
parlavano anche più chiaramente. Il sudista John C. Calhoun diceva in Congresso all’inizio di gennaio del
1848: “Io so inoltre, signore, che non abbiamo mai pensato di incorporare nella nostra Unione nessun’altra
razza che quella caucasica - la razza dei bianchi liberi. Incorporare il Messico, sarebbe il primo esempio di
incorporazione di una razza indiana, dal momento che più della metà dei messicani sono indiani e il resto è
costituito di tribù miste. Io protesto contro una tale unione! Il nostro, signore, è il Governo di una razza
bianca”. E qualche giorno prima, il “New York Evening Post” diretto da William Cullen Bryant aveva scritto: “I
messicani sono indiani - indiani aborigeni. Sono gli indiani che Cortez conquistò tremila (sic) anni fa, resi
solo un po’ più malandrini da una civiltà bastarda...Non hanno neppure i rudimenti di un’esistenza nazionale
indipendente. Gli aborigeni del nostro paese non hanno cercato e non possono cercare di vivere da
indipendenti fianco a fianco con noi. La Provvidenza ha deciso così ed è follia non prenderne atto. I
messicani sono aborigeni indiani e devono seguire il destino della loro razza”.( xvii )
Questa concezione razziale, eroica e maschile del destino manifesto implica, naturalmente, il fatto
che la frontiera venga fatta avanzare con le armi in pugno e che le donne non abbiano alcun ruolo nel mito;
tantomeno le donne degli eroi: né la sposa di Daniel Boone, né quelle di Davy Crockett, né le tre sposate da
Kit Carson (che oltretutto sono due indiane e una messicana). Le armi, dunque, attuano la conquista e,
subito dopo, la proteggono, rendendo possibile la società. Ma se questa è l’Eneide e, per quanto riguarda le
armi, la realtà, non è certo la tesi turneriana della frontiera, che raccoglie i rivoli e frammenti precedenti per
rielaborarli ulteriormente, come dicevo, in una nuova sintesi. Dalla lineare e ciclica narrazione turneriana,
vengono dunque espunti sia l’indiano, l’”altro” che si oppone all’eroe in tutte le epiche precedenti fino alle
forme decadute dei dime novels, sia la particolare “alterità” implicita nella dialettica tra i sessi. Proprio
l’aborrita mescolanza razziale che spaventava Calhoun e i suoi contemporanei sarà sottaciuta da Turner. La

questione non è che Turner non tiene conto del contributo e del ruolo delle donne “sulla frontiera”, esplorati
soltanto decenni dopo da una nuova storiografia, quanto il concreto problema della miscegenation inevitabile
nelle zone in cui avveniva il concreto contatto fisico tra i bianchi anglosassoni e le popolazioni locali, indiane
o messicane che fossero. In un contesto tanto sensibile alla questione razziale come quello entro cui scrive
Turner, il ratto delle Sabine era diventato innominabile.
Quel “momento” ipostatizzato da Tatum non è esistito. La “frontiera” non è un momento, né la serie
ciclica di momenti, ipostatizzata da Turner, che si succedono sempre più lontani nella prospettiva di un
osservatore il cui occhio si trovi sull’Atlantico. La “frontiera” è sempre un luogo, o meglio una quantità di
luoghi fisici, geografici, nei quali forme diverse di cultura, socialità e interessi si sono incontrati e trasformati
in tempi diversi e senza interruzioni, senza alcun parallelismo tra le progressioni nel tempo e nello spazio.
Gli individui che hanno agito nei luoghi fisici del contatto si sono sempre trovati ad agire anche in ambienti
socialmente definiti. Rispetto a questa semplice verità, l’autore de L’ultimo dei mohicani è molto più avvertito
di Turner. Scrive Patricia Nelson Limerick: “La frontiera di Turner era un processo, non un luogo. Quando la
‘civiltà’ aveva vinto sul ‘selvaggio’ in un certo posto, il processo - e l’attenzione dello storico - si spostava. Il
ripensare la storia dell’Ovest ci permette di pensare all’Ovest come luogo, come tanti ambienti complicati
abitati da nativi che guardavano alle loro terre come al centro, non come al margine”.( xviii ) Non si tratta solo di
rovesciare la prospettiva, di adottare il punto di vista di chi “si trova già lì”, invece che quello di chi “arriva da
fuori”. Visto in questa luce l’Ovest statunitense diventa “un importante terreno d’incontro, il punto in cui
l’America indiana, l’America latina, l’Angloamerica, l’Afroamerica e l’Asia si intersecano. In fatto di rapporti tra
le razze, l’Ovest potrebbe far apparire come una riunione di famiglia il faccia a faccia tra immigrati europei e
nativisti americani nelle città del Nordest di fine Ottocento. Allo stesso modo, per diversità di lingue, religioni
e culture, l’Ovest superava anche il Sud”.( xix )
Ridurre questa complessità, e storicità, alla contrapposizione semplice tra civiltà e barbarie non può
che essere forzatura interpretativa, oppure velo censorio steso su una complessità rifiutata perché percepita
come minacciosa. Si torna dunque al mito come semplificazione: “Il mito non nega le cose”, dice ancora
Roland Barthes, “anzi, la sua funzione è di parlarne: semplicemente le purifica, le fa innocenti, le istituisce
come natura e come eternità, dà loro una chiarezza che non è quella della spiegazione, ma quella della
constatazione: se io constato l’imperialità francese senza spiegarla, mi ci vuole ben poco per trovarla
naturale, qualcosa che va da sé: ed eccomi rassicurato”.( xx ) Vedremo come all’imperialità francese del
discorso barthesiano si possa sostituire l’espansionismo statunitense e raggiungere lo stesso obiettivo
rassicurante e consolatorio: tutto era predestinato ed è avvenuto tutto per il bene della nazione.
Per Richard Slotkin che, contrariamente a Roland Barthes, ha lavorato proprio sul rapporto tra realtà
storica dell’Ovest e costruzione mitica nazionale, “un mito è una narrazione che concentra in una singola
esperienza drammatizzata l’intera storia di un popolo sulla sua terra”.( xxi ) Slotkin si riferiva in particolare
all’esperienza dell’individuo Daniel Boone, che viene “elevata” a mito nazionale. In realtà, non è mai l’intera
storia di un popolo che viene mitizzata. Lo stesso Slotkin, tredici anni più tardi, correggeva la formulazione
appena citata, precisando che nei miti si raccolgono gli “elementi essenziali della visione del mondo tipica di
una cultura” e che il mito è una “rappresentazione parziale che si fa passare per l’intera verità”.( xxii ) Sarebbe
stato meglio dire subcultura, intendendo la visione del mondo tipica di un gruppo, o riconducibile a un gruppo
oppure a una componente sociale dominante. D’altro canto, l’accento da lui stesso posto subito dopo sulla
parzialità sembra portare anche il suo discorso proprio in quella direzione. In effetti è sempre soltanto una
parte della “storia” nazionale che viene ridotta a mito: sono quasi sempre - per lo meno nelle culture
occidentali - i “fatti” delle guerre e della conquista, della fondazione della nazione stessa attraverso
l’affermazione della dinastia originaria. Sono cioè i pilastri ideologici su cui i gruppi dominanti fanno poggiare
la propria legittimazione in quanto tali
La produzione del mito nazionale, da Virgilio in poi, è frutto della penna di uno o più autori, non è un
“folk process” ma un “literary myth”,( xxiii ) che poi magari utilizza tra i suoi materiali anche quelli che i processi
della mitopoiesi popolare elaborano in parte autonomamente e in parte attraverso l’interazione con i miti
letterari, sempre in un qualche rapporto con la storia. Nel caso di Daniel Boone, il colonizzatore per
antonomasia dei territori al di là dei monti Appalacchi, il produttore originario del mito fu un maestro e
speculatore fondiario di nome John Filson, che nel 1784 pubblicò The Adventures of Col. Daniel Boon in
appendice al proprio The Discovery, Settlement and Present State of Kentucke. Quel breve racconto che si
presenta come autobiografico - di fatto è la “razionalizzazione” a opera di Filson della testimonianza a lui
resa dallo stesso Boone - fu ripetutamente ristampato, plagiato, imitato e usato come modello narrativo e
tematico nei decenni successivi in un processo che fissò i tratti di quei “personaggi letterari [che], per essere
credibili come eroi americani, avrebbero dovuto essere radicati nel territorio selvaggio, invece che tra le
raffinatezze della civiltà europea”.( xxiv )
Tra l’altro, lo stesso processo ripetitivo-creativo sarebbe continuato nei decenni successivi alla
guerra civile, quando l’imprenditoria editoriale avrebbe sfornato migliaia di romanzucoli western pressoché
uguali nei personaggi e nella formula per un pubblico popolare crescente. In quel lungo processo più che
secolare, dopo Daniel Boone, altri uomini dell’Ovest vennero elevati da autori ed editori molto disinvolti al

ango di interpreti esemplari - simbolici - del destino espansionistico della nazione, da Davy Crockett a Kit
Carson, a Buffalo Bill. Questo processo - i modi della costruzione e del prolungamento del mito della
frontiera, l’introduzione delle varianti nel corso del tempo, le condizioni della produzione materiale dei miti e
della loro diffusione - è interamente analizzabile in quanto tale, come dimostrano le opere di Richard Slotkin.
Uno dei tratti caratteristici, forse il dominante, di tale processo è stato la sua promozionalità, il suo essere
calato in una logica di funzionalità sociale-ideologica alle prospettive di conquista del continente. Il che non
equivale a dire che esso sia stato semplice o lineare, né che la sua ricezione da parte del pubblico popolare
sia stata univoca.
Il processo si arricchì strada facendo di tutte le possibilità materiali di produzione che l’evoluzione
sociale e tecnica offriva, dal libro al libro economico a grande diffusione, alle arti figurative, all’illustrazione
sulla stampa periodica, agli spettacoli di massa. E, com’è ovvio, ognuna delle modalità di produzione e
circolazione dettò a sua volta particolari specificità narrative e visuali, in sostanza alterando
progressivamente il messaggio e l’immagine complessiva e fissando varianti anche significative nel discorso.
Inoltre, soprattutto per quanto riguardava i romanzi, la stessa evoluzione della composizione sociale, in
particolare nelle città d’immigrazione, portava sempre più alla lettura i ceti popolari e quindi, nella lettura,
domande e aspettative non previste, con effetti altrettanto imprevedibili: in sostanza, le diverse componenti
del pubblico - a cui arrivavano anche altri messaggi di segno culturale e politico diverso dall’interno delle
proprie comunità e a cui l’industria culturale offriva anche romanzi di ambientazione urbana - piegavano a sé
e alle proprie visuali il messaggio, l’avventura, gli stessi stereotipi razziali di cui erano impregnati i racconti di
ambientazione western. In altre parole, dalla sostanziale uniformità ideologica di questi ultimi non
discendeva meccanicamente l’uniformazione ideologica dei suoi maggiori consumatori.( xxv ) La
promozionalità del messaggio non impedì sempre il raggiungimento di livelli espressivi elevati e complessi.
Tuttavia, a volte, l’aspetto propagandistico o ideologicamente subalterno di per sé assente dalle opere -
penso soprattutto ai pittori di Taos e di Santa Fe, di cui si discuterà più avanti - fu sovrimposto alle opere
stesse dai loro committenti e dai loro utilizzatori a fini commerciali. A testimonianza, potremmo concludere,
del fatto che se il mito è parola, e la parola è sociale, il mito non nasce, né vive nel vuoto, ma nel pieno della
società e della cultura in cui è prodotto e utilizzato. Di nuovo: il mito sarà “astorico”, ma la sua elaborazione
avviene interamente nella storia, nel fitto dei rapporti sociali di produzione e di potere. In tutti i casi, fino al
rovesciamento storiografico degli anni recenti, molto raramente il discorso sull’Ovest è stato “libero” dalle
implicazioni a cui ho fatto riferimento nelle pagine precedenti.
i . Frederick J. Turner, The Significance of the Frontier in American History, in Id., The Frontier in
American History, New York, Henry Holt, 1953 (1920) (La frontiera nella storia americana, Bologna, Il
Mulino, 1959); Theodore Roosevelt a Turner , 10 febbraio 1894, cit. in Ray A. Billington, The Genesis of the
Frontier Thesis: A Study in Historical Creativity, San Marino, Cal., The Huntington Library, 1971, pp. 82-3.
ii . La cit. è dalla recensione di Turner all’opera di Roosevelt, in “The Dial” (August 1889) riportata in
R.A. Billington, The Genesis of the Frontier Thesis, cit., pp. 39-40. Si vedano anche Edmund Morris, The
Rise of Theodore Roosevelt, New York, Coward, McCann & Geoghegan, 1979, pp. 465-66 e Richard
Slotkin, Nostalgia and Progress: Theodore Roosevelt’s Myth of the Frontier, in “American Quarterly”, Vol. 33,
N. 5 (Winter 1981), pp. 608-37.
iii . Richard Slotkin, The Fatal Environment: The Myth of the Frontier in the Age of Industrialization,
1800-1890, New York, Harper, 1994, p. 20.
iv . Samuel S. Hall, Kit Carson, Jr., the Crack Shot of the West (1875), cit. in Philip Durham, Dime
Novels: An American Heritage, in “The Western Humanities Review”, Vol. IX, N. 1(Winter 1955), p. 43.
v . Roland Barthes, Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1994, p. 224.
vi . Ivi, p. 192.
vii . Ivi, p. 223.
viii . Ibidem.
ix . Michail Bachtin, Epos e romanzo, in Id., Estetica e romanzo, a cura di Clara Strada Janovic,
Torino, Einaudi, 1979, p. 462: “L’idealizzazione del passato nei generi letterari alti ha un carattere ufficiale.
Tutte le espressioni esterne della forza e della verità dominanti (di tutto ciò che è compiuto) sono
organizzate entro la categoria assiologico-gerarchica del passato, nell’immagine della lontananza (dal gesto
e dalla veste allo stile, tutto è simbolo del potere)”. Come si vedrà, la lontananza, nel nostro caso, sarà
spaziale e non temporale: l’Ovest lontano nello spazio viene trattato come se fosse lontano nel tempo,
appartenente a un passato concluso, quindi narrabile secondo le modalità dell’epica. Ancora Bachtin: “Nel
mondo epico non c’è posto per alcuna incompiutezza, apertura, problematicità”.
x . R. Barthes, Miti d’oggi, cit., p. 223-24.
xi . Alex Nemerov, “Doing the ‘Old America’”: The Image of the American West, 1880-1920, in William
H. Truettner, ed., The West as America: Reinterpreting Images of the Frontier, 1820-1920, Washington,
Smithsonian Institution Press, 1991, pp. 285-343.

xii . John G. Cawelti, Adventure, Mystery, and Romance. Formula Stories as Art and Popular Culture,
Chicago, University of Chicago Press, 1977, p. 193.
xiii . Stephen Tatum, Inventing Billy the Kid. Visions of the Outlaw in America, 1881-1981,
Albuquerque, University of New Mexico Press, 1982, pp. 41-2.
xiv . Ibidem. Però non è propriamente turneriana la dialettica stessa che Tatum istituisce tra le
opposte forze della wilderness e della civiltà.
xv . “New York Herald”, 8 ottobre 1847 e New York “Sun”, 22 ottobre 1847, cit. in F. Merk, Manifest
Destiny and Mission in American History, New York, Vintage Books, 1966, pp. 122-23.
xvi . Si vedano David J. Weber, “Scarce More Than Apes”: Historical Roots of Anglo-American
Stereotypes of Mexicans, in Id., Myth and the History of the Hispanic Southwest, Albuquerque, University of
New Mexico Press, 1990 (“Poco più che scimmie”. Radici storiche degli stereotipi angloamericani sui
messicani delle zone di frontiera, in “Ácoma”, Anno II, N. 4, Primavera 1995, pp. 25-33); Ronald Takaki, Iron
Cages. Race and Culture in 19th-Century America, New York, Oxford University Press, 1990; Reginald
Horsman, Race and Manifest Destiny. The Origins of American Racial Anglo-Saxonism, Cambridge, Mass.,
Harvard University Press, 1981.
xvii . “Herald” cit. in R. Slotkin, The Fatal Environment, cit., p. 188; Calhoun e “Post” cit. in F. Merk,
Manifest Destiny, cit., pp. 162, 158.
xviii . Patricia Nelson Limerick, The Legacy of Conquest. The Unbroken Past of the American West,
New York, W.W. Norton, 1987, p. 26.
xix . Ivi, p. 27.
xx . R. Barthes, Miti d’oggi, cit., p. 223.
xxi . R. Slotkin, Regeneration Through Violence. The Mythology of the American Frontier, 1600-1860,
Hanover, NH, Wesleyan University Press, 1973, p. 269.
xxii . R. Slotkin, Myth and the Production of History, in Myra Jehlen and Sacvan Bercovitch, eds.,
Ideology and Classic American Literature, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, pp. 70, 74.
xxiii . R. Slotkin, Regeneration Through Violence, cit., p. 278.
xxiv . Ivi, p. 321. John Filson, The Discovery, Settlement and Present State of Kentucke...To Which Is
Added, an Appendix, Containing, I. The Adventures of Col. Daniel Boon..., Wilmington, Del., James Adams,
1784.
xxv . Si veda Michael Denning, Mechanic Accents: Dime Novels and Working-Class Culture in
America, London, Verso, 1987: anche se l’oggetto della sua analisi non sono i romanzi western, le sue
osservazioni sulla dialettica industria culturale-pubblico sono pertinenti al discorso qui svolto.