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IN MEMORIA DI OTELLO CHITI<br />

(2 aprile 1912 – 23 novembre 2008)<br />

La pittura è stata per Otello Chiti una precoce vocazione: a essa ha dedicato<br />

ogni sua energia, ubbidendo a una ricerca etica non meno che estetica e cercando di<br />

coniugare gli incarichi affidati o le commesse ricevute con l’intima adesione a una<br />

poetica alimentata da radicate convinzioni teoriche e tecniche. Né si deve dimenticare<br />

la sua dinamica attività di insegnante, l’incarico di direttore – dal 1969 al 1977, ma<br />

già dal 1959 svolgeva il delicato compito – dell’Istituto d’arte intitolato a Duccio di<br />

Buoninsegna o l’impulso da lui dato ad un programma di scambi con giovani artisti<br />

americani dell’Università di Buffalo che ha creato un utile e aperto confronto, una<br />

dimensione didattica internazionale.<br />

Otello Chiti merita la qualifica di “maestro toscano del Novecento” scelta per la<br />

mostra antologica dedicatagli dal Comune di Poggibonsi, dove nacque il 2 aprile 1912.<br />

A diciannove anni pubblica su Il Selvaggio di Mino Maccari una xilografia, un vecchio<br />

popolano Bevitore, che attesta la sua partecipazione all’ideologia e agli intenti della<br />

rivista. Dopo essersi formato al fiorentino Istituto di Porta Romana e aver lì appreso – la<br />

cattedra di scultura era tenuta da Libero Andreotti – una divisa che avrebbe sempre fatto<br />

propria – agli allievi doveva essere accordato il massimo della libertà dopo aver preteso<br />

la più scrupolosa applicazione nell’apprendimento, gloria delle antiche botteghe, di<br />

indispensabili nozioni tecniche e accademiche –, Chiti avverte la suggestione delle<br />

indicazioni di Soffici, il “fascino silente delle opere di Giorgio Morandi” – traggo<br />

l’osservazione dalla magnifica e completa monografia di Grazia Badino – e si dedica a<br />

rappresentare una natura contemplata nella sua rustica semplicità, paesaggi tagliati con<br />

vigile senso dell’equilibrio compositivo, interni e ritratti resi vibranti dalla luce che li<br />

avvolge e li muove. La strada è segnata. Otello non esordisce come un “selvaggio” in<br />

rivolta contro il Novecento e la modernità, ma aderisce al programma di ritorno alle<br />

fonti della più alta tradizione che ebbe la sua culla nella Toscana rinascimentale.<br />

La sua formazione si colloca entro il clima di dichiarata ripresa della compiutezza<br />

costruttiva e plastica del Quattrocento o di certo “nobile macchiaiolismo” (alla Sernesi).<br />

Chiti è un pittore che sente come un dovere “l’osservanza – ha notato Carlo Sisi, quasi<br />

si trattasse di una regola religiosa – della tradizione disegnativa toscana”. Per Otello<br />

avanti a tutto viene il disegno, la disposizione calcolata dei volumi, la partizione delle<br />

campiture: e il quadro che ne risulta avrà allora l’ariosità e l’esattezza di una realtà<br />

filtrata e fermata una volta per tutte.<br />

“A far vibrare in un’opera tutta la verità della natura non è necessario che<br />

questa – scrive in una dichiarazione di poetica del 1931, in sintonia con Carlo Carrà,<br />

del quale pure aveva annotato polemicamente il saggio su Giotto del 1924 – debba<br />

essere imitata nella forma, ma nell’essenza, siccome è certo che la forma per l’arte non

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