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Luigi Pulci, Morgante, La battaglia di Roncisvalle - Aula Digitale

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4<br />

L’Umanesimo e il Rinascimento Firenze capitale dell’Umanesimo <strong>Luigi</strong> <strong>Pulci</strong><br />

ANALISI DEL TESTO<br />

<strong>La</strong> <strong>battaglia</strong> <strong>di</strong> <strong>Roncisvalle</strong> dal punto <strong>di</strong> vista<br />

dei <strong>di</strong>avoli<br />

<strong>La</strong> <strong>battaglia</strong> <strong>di</strong> <strong>Roncisvalle</strong> viene descritta da un<br />

punto <strong>di</strong> vista ben preciso: quello dei <strong>di</strong>avoli, occupati<br />

ad acciuffare le anime dell’incre<strong>di</strong>bile numero<br />

<strong>di</strong> saraceni uccisi dai cristiani in <strong>battaglia</strong>.<br />

In particolare, alle ottave 51 e 52, <strong>Pulci</strong> immagina<br />

i <strong>di</strong>avoli che commentano l’esito della <strong>battaglia</strong>.<br />

<strong>La</strong> caduta delle anime all’inferno<br />

Alcune similitu<strong>di</strong>ni descrivono con efficacia ciò<br />

che avviene nel campo <strong>di</strong> <strong>battaglia</strong>. <strong>Pulci</strong> indugia<br />

sulla caduta nell’inferno delle anime dei<br />

saraceni morti: «e’ saracin cadevon come pere»<br />

(53, v. 3), o come gli insetti che vengono <strong>di</strong>vorati<br />

dai pesci quando volando sfiorano l’acqua<br />

«come cade la manna a’ pesciolini» (54, v. 6); le<br />

bocche <strong>di</strong> Lucifero sembrano «corbacchini alla<br />

imbeccata» (54, vv. 2-3); le anime cadono come<br />

neve (54, v. 5), e i fiocchi («bioccoli») riempiono<br />

le gole <strong>di</strong> Lucifero come fossero «gozzi d’anitroccoli»<br />

(54, vv. 7-8).<br />

Il ballo all’inferno e il tegame<br />

<strong>La</strong> confusione che si crea all’inferno per l’arrivo in<br />

massa delle anime dei saraceni è descritta come<br />

un ballo: «e’ si facevano tante chiarentane» (55,<br />

v. 1), mentre <strong>Roncisvalle</strong> viene paragonata a un<br />

tegame (56, v. 1) dove ribollono sangue, carne,<br />

ossa. Immaginare l’inferno attraverso similitu<strong>di</strong>ni<br />

culinarie costituiva un topos delle descrizioni me<strong>di</strong>evali<br />

degli inferi (lo stesso, per fare un esempio,<br />

si trova nell’opera De Babilonia civitate infernali<br />

<strong>di</strong> Giacomino da Verona).<br />

<strong>La</strong> similitu<strong>di</strong>ne mare in tempesta / mare<br />

<strong>di</strong> sangue<br />

Il passo si apre con una similitu<strong>di</strong>ne del suono della<br />

<strong>battaglia</strong> con il mare in tempesta (50, v. 4 «che<br />

si poteva il mar <strong>di</strong>re in tempesta»); il tema della<br />

tempesta viene ripreso poi nell’ultima ottava del<br />

passo (57, v. 2 «il Mar Rosso pareva in travaglio»).<br />

È interessante notare che, mentre nella prima<br />

ottava la somiglianza tra la <strong>battaglia</strong> e il mare in<br />

tempesta è solo accennata e ha una funzione de-<br />

scrittiva, nell’ultima ottava il campo <strong>di</strong> <strong>battaglia</strong><br />

è <strong>di</strong>ventato un mare <strong>di</strong> sangue (alla similitu<strong>di</strong>ne<br />

si aggiunge qui l’iperbole): il sangue «della valle<br />

trabocca ogni sponda» (v. 8), «e’ si poteva gettar<br />

lo scandaglio» (v. 4) per misurarne la profon<strong>di</strong>tà.<br />

L’accenno al mare contenuto nell’ottava d’apertura<br />

si realizza concretamente nella descrizione<br />

del mare <strong>di</strong> sangue attraverso l’iperbole nell’ultima<br />

ottava del passo.<br />

Le similitu<strong>di</strong>ni hanno una funzione strutturante<br />

<strong>La</strong> similitu<strong>di</strong>ne è la figura retorica maggiormente<br />

impiegata in questo passo, tanto da <strong>di</strong>ventare<br />

elemento che struttura e organizza la descrizione<br />

della <strong>battaglia</strong>.<br />

Il linguaggio comico e “infernale”<br />

<strong>La</strong> scelta del punto <strong>di</strong> vista dei <strong>di</strong>avoli porta<br />

l’autore a usare un linguaggio e delle immagini<br />

comiche adatte alla descrizione in chiave infernale<br />

dello scontro, molte delle quali rimandano<br />

all’Inferno <strong>di</strong> Dante (l’immagine del «muso» <strong>di</strong><br />

Marsilio «forbito» da Rinaldo richiama il gesto<br />

raccapricciante compiuto da Ugolino all’inizio<br />

del XXXIII canto dell’Inferno). All’uso <strong>di</strong> parole<br />

dai suoni aspri (come, per esempio, le parole<br />

in rima «zuffa», «ciuffa», «baruffa»; «paonazza»,<br />

«<strong>di</strong>guazza», «guazza», alle ottave 51 e 57) e <strong>di</strong><br />

similitu<strong>di</strong>ni prese dalla vita quoti<strong>di</strong>ana, si aggiunge<br />

un tratto caratteristico della poesia pulciana<br />

e cioè la ricerca lessicale, evidente in particolare<br />

nell’impiego dell’accumulazione; per esempio,<br />

nell’ambito degli strumenti musicali, ve<strong>di</strong> ottava<br />

55, vv. 6-7: «e chi sonava tamburo e chi nacchera,<br />

/ baldosa e cicutrenna e zufoletti»; oppure, in<br />

un contesto culinario, 56, vv. 2-3 «dove fussi <strong>di</strong><br />

sangue un gran mortito, / <strong>di</strong> capi e <strong>di</strong> peducci e<br />

d’altro ossame»; fino ad arrivare a un verso come<br />

«crai e poscrai e poscrigno e posquacchera» (55,<br />

v. 4), nel quale <strong>Pulci</strong> usa termini del <strong>di</strong>aletto meri<strong>di</strong>onale<br />

(«crai», «poscrai», «poscrigno») e, insistendo<br />

sull’accumulazione e l’allitterazione tra le<br />

parole, inventa «posquacchera» a chiusura della<br />

serie. Nota inoltre come il polisindeto aggiunga<br />

enfasi alle serie delle accumulazioni.<br />

© 2011 RCS Libri S.p.A./<strong>La</strong> Nuova Italia – R. Antonelli, M.S. Sapegno, Il senso e le forme

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