l'immagine e lo specchio - Rocco Li Volsi – Saggi
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L’IMMAGINE E LO SPECCHIO<br />
Il Romanticismo tedesco<br />
e le sue premesse<br />
L’uomo è un dio quando sogna,<br />
è un mendicante quando riflette.<br />
Hölderlin 1<br />
Se essa [la Natura] ci ha destinati a essere sani,<br />
oso quasi affermare<br />
che <strong>lo</strong> stato di riflessione è uno stato contro natura<br />
e che l’uomo che medita è un animale degenerato.<br />
Rousseau 2<br />
Forse, o mio lettore, al<strong>lo</strong>ra crederai<br />
che nulla v’è di più stravagante e pazzesco<br />
della vita reale<br />
e che il poeta la può cogliere solamente<br />
come un oscuro riflesso<br />
dentro uno <strong>specchio</strong> senza luce.<br />
Hoffmann 3<br />
Se guardi a lungo in un abisso,<br />
anche l’abisso guarda dentro di te.<br />
Nietzsche.<br />
1. Il Romanticismo come fenomeno storico e categoria del<strong>lo</strong> spirito<br />
1. 2- Caratteri del Romanticismo<br />
La vastità e la profondità del problema ci impone scelte qualitative e limitazioni quantitative che ogni lettore colto, e a maggior<br />
ragione ogni specialista di germanistica, lamenterà: non è possibile fare altrimenti, se non si vuole realizzare un’opera monumentale,<br />
ma si è deciso piuttosto di delineare quanto va considerato essenziale nel fenomeno che ci interessa. 4 D’altra parte, se si è voluto<br />
focalizzare il Romanticismo germanico a preferenza di altri Romanticismi, è perché esso rappresenta la manifestazione più specifica e<br />
rilevante rispetto a quella più generica di altri popoli: si potrebbe dire anzi che il Romanticismo tedesco sia di per sé tauto<strong>lo</strong>gico,<br />
restandone gli altri più o meno <strong>lo</strong>ntani o in qualche modo impropri. «Il romanticismo <strong>–</strong> scrive Mittner <strong>–</strong> è fatto culturale<br />
prevalentemente tedesco, la cultura tedesca ha carattere prevalentemente romantico; tanto che romanticismo e germanesimo appaiono<br />
termini per più versi permutabili ed identificabili, ed il binomio “romanticismo tedesco” sembra quasi risolversi in una tauto<strong>lo</strong>gia.» 5<br />
Nel contesto europeo in cui è sorto e si è maturato, il Romanticismo nel suo complesso rappresenta la maggiore rivoluzione<br />
culturale dell’età moderna, sia per la diffusione che ha rapidamente avuto nei Paesi europei e di oltreoceano, sia per l’incidenza in tutti<br />
gli ambiti della cultura, con esiti vari e molteplici, sempre notevoli.<br />
Della vecchia diatriba, che contrapponeva le due tesi di ‘fenomeno storico’ e di ‘categoria del<strong>lo</strong> spirito’ nell’intenzione di giungere<br />
alla definizione di ‘Romanticismo’, noi accogliamo entrambe le posizioni, sostenendo che esso è l’una e l’altra cosa sotto rispetti<br />
diversi, e che per un verso è un ‘fenomeno storico’ sufficientemente determinabile in termini crono<strong>lo</strong>gici, e che per l’altro esso è una<br />
‘categoria del<strong>lo</strong> spirito’ di un popo<strong>lo</strong>, quale è quel<strong>lo</strong> germanico e dei popoli nordici d’Europa: questa è la ragione per cui, volendo<br />
cercare di definire il Romanticismo e coglier<strong>lo</strong> nelle sue radici e nelle sue manifestazioni, abbiamo scelto quel<strong>lo</strong> tedesco; esso ci si<br />
mostra contemporaneamente nelle due facce del problema, con una ricchezza di manifestazioni che non si trova in altri Paesi.<br />
Le figure, con le quali cercheremo di caratterizzar<strong>lo</strong>, saranno quelle del ‘padre assente’ (o del ‘parricidio romantico’), della ‘patria<br />
<strong>lo</strong>ntana’ (o dell’‘esilio in patria’) e della ‘voragine interiore’ (o dell’autodistruzione), che, come si vedrà, sono riscontrabili<br />
massicciamente nell’area culturale dell’Europa settentrionale. 6 Ciò tuttavia non impedisce che se ne possa fin d’ora tentarne una<br />
definizione dialettica attraverso alcune approssimazioni.<br />
1 Friedrich Hölderlin, Iperione o del pellegrino in patria, Guanda, 1981, p. 37.<br />
2 J. J. Rousseau, Origine della disuguaglianza, Feltrinelli, 1972, p. 44.<br />
3 E.T.A. Hoffmann, Romanzi e racconti, 3 voll., Einaudi, 1969: L’orco insabbia, vol. I, p. 666.<br />
4 Ho tuttavia voluto ugualmente affrontare il problema anche così dimezzato perché mi pare che si debba continuare a trattar<strong>lo</strong>, soprattutto da un punto di vista<br />
fi<strong>lo</strong>sofico, per comprendere sempre meglio non so<strong>lo</strong> il grande fenomeno che è stato il Romanticismo tedesco, ma anche quanto esso abbia influito sulla cultura di tutto<br />
il periodo successivo fino ai nostri giorni. Del resto, se come fenomeno storico il Romanticismo è ormai nel passato, come categoria del<strong>lo</strong> spirito può sempre risorgere<br />
in altre forme e con altri atteggiamenti, sempre capace di affascinare e ipnotizzare con il mito della soggettività dell’individuo e della razza, le coscienze portate a fare<br />
getto della razionalità ‘oggettiva’.<br />
5 Ladislao Mittner, Ambivalenze romantiche, D’Anna, 1954, p. 279. Ma «il romantico è ora <strong>–</strong> precisa ancora Mittner <strong>–</strong> la quintessenza del germanico, ora<br />
l’antigermanico per eccellenza, e il binomio “romantico tedesco” visto da un lato è una tauto<strong>lo</strong>gia, visto da un altro è contraddizione in termini.» Ivi, p. 300.<br />
6 Riportiamo alcuni passi di un’opera di Novalis in cui sono presenti i tre i temi. «C’è dentro di noi un misterioso impulso onnipresente, che da un punto centrale<br />
infinitamente profondo si dilata in tutte le direzioni; e se attorno a noi avvertiamo la Natura meravigliosa sensibile e soprasensibile, noi crediamo che quell’impulso sia<br />
un’attrazione verso la Natura stessa, una espressione della nostra simpatia per lei: so<strong>lo</strong> che l’uno cerca dietro queste <strong>lo</strong>ntane forme azzurre ancora una volta una patria<br />
<strong>lo</strong>ntana, un’amante della sua giovinezza, genitori e fratelli, vecchi amici, dolci ricordi; l’altro immagina che <strong>lo</strong> attendono al di là splendori sconosciuti, che vi sia<br />
mascherato un avvenire luminoso, e pieno di desiderio tende le braccia verso un mondo nuovo.» Novalis, I discepoli di Sais, Tranchida Editori. il bosco di latte, 1985,<br />
p. 42. «Come non si troverà mai il granel<strong>lo</strong> più picco<strong>lo</strong> o la fibra più sottile appartenuti ad un corpo solido, i limiti estremi delle grandezze scompaiono infatti<br />
nell’infinito, al<strong>lo</strong> stesso modo essi sostengono che ricercando classi di corpi e di forze si incontrerebbero nuove classi, nuove combinazioni, nuovi fenomeni all’infinito.<br />
Pare che tali fenomeni si esauriscano so<strong>lo</strong> quando viene meno anche la nostra determinazione. Così viene consumato il tempo prezioso in inutili calcoli noiosi e tutto<br />
ciò che conduce alla fine alla pazzia vera e propria, alla vertigine sul ciglio spaventoso dell’abisso. [...] So<strong>lo</strong> i dissidi interni alle forze naturali li hanno sino ad ora
Definiamo innanzitutto il Romanticismo un ‘ossimoro storico’ e un ‘ossimoro del<strong>lo</strong> spirito’, per il suo carattere intrinsecamente<br />
antinomico che si coglie, appunto, nei due versanti, della storia e del<strong>lo</strong> spirito, come congenita mancanza dei così detti ‘trascendentali<br />
dell’essere’, non immediatamente evidente: uno, vero, bene, bel<strong>lo</strong>, e come esaltazione dei rispettivi contrari. 7 Alla circolarità<br />
essenziale dei quattro trascendentali, per cui l’uno è anche vero, bene, bel<strong>lo</strong>, e così per ciascuno degli altri tre, ferma restando la<br />
distinzione specifica e la impossibilità dell’identificazione con i <strong>lo</strong>ro contrari, subentra nel Romanticismo una circolarità impropria e<br />
una tendenza alla identità con i contrari: il bene è falso, male, brutto, ovvero il brutto è bel<strong>lo</strong>, vero, bene, il male è bene, vero, bel<strong>lo</strong>, e<br />
così via, fino a condurre a quella condizione esistenziale in cui l’unità psichica non regge più e si frange in forme pato<strong>lo</strong>giche<br />
disparate. 8<br />
Dialetticamente, le due posizioni relative ai trascendentali dell’essere rispondono alle prerogative dell’esperto e dell’inesperto, del<br />
sapiente e dell’ignorante, evidenziate da Platone: l’esperto riconosce e distingue il proprio simile dal proprio dissimile, mentre<br />
l’inesperto non è in grado di riconoscere e distinguere né l’uno né l’altro. Nei termini e nell’ambito che ci interessa, questa posizione è<br />
espressione di mancanza o di indebolimento dell’oggettività da parte della coscienza individuale e collettiva a vantaggio<br />
dell’esaltazione della coscienza stessa del soggetto: la coscienza non intende accettare un parametro valutativo ‘estraneo’ ad essa che<br />
la determini, ma considera se stessa parametro assoluto. Siamo davanti alla manifestazione del ‘parricidio’ e dell’‘autogenesi’. 9<br />
Il Romanticismo trasferisce il parametro della distinzione tra oggettivo e soggettivo dall’oggetto intellegibile al soggetto<br />
immaginante; e se tale trasferimento era già stato operato in qualche modo dalla Sofistica antica con l’homo mensura, l’ambito in cui<br />
si era sviluppata la Sofistica era ancora saldamente ancorato all’oggettivismo insito nella concezione dell’universo come Cosmo. La<br />
riduzione del pensiero umano a pura opinione (opinione che è sempre soggettiva) era stato il tentativo di annullare la conoscenza (che<br />
è sempre oggettiva), senza veramente cercarne la radice possibile. Chi, come Gorgia, ne aveva proposto una fondazione metafisica,<br />
l’aveva fatto sulla base di una pura contradizione: “l’essere non è”; e ciò non poteva avere alcuna presa sul pensiero greco.<br />
In tempi moderni (al di là del<strong>lo</strong> Scetticismo antico e di quel<strong>lo</strong> di Hume), sarà Kant a tentare di compiere questo passo, con il<br />
capovolgimento delle tradizionali facoltà umane: mentre fino a lui non era stata posta in dubbio la superiorità dell’intelletto sulla<br />
ragione, ora egli subordina il primo alla seconda, e dunque toglie il primato alla facoltà che <strong>lo</strong> deteneva grazie al proprio oggetto<br />
intellegibile, per attribuir<strong>lo</strong> a quella che si caratterizza non per un oggetto ma per una funzione: la funzione discorsiva. Da ora in poi,<br />
non sarà l’Essere a presentarsi come dialettico, ma sarà la dialettica a presentarsi come Essere: ovvero, l’essere ora presuppone<br />
l’agire. 10 In altri termini, non è più l’oggetto il parametro conoscitivo, ma il soggetto stesso; ed è appunto con la ‘rivoluzione<br />
tolemaica’ (e non ‘copernicana’ come la definisce con una ‘illusione trascendentale’ il fi<strong>lo</strong>sofo tedesco) che il capovolgimento dei<br />
trascendentali dell’essere riceve la propria legittimazione teoretica: le tre Critiche kantiane costituiscono il più importante sforzo per<br />
porre al centro del pensiero fi<strong>lo</strong>sofico la soggettività moderna della ‘terra-uomo’ al posto dell’oggettività antica del ‘sole-Dio’.<br />
Tentiamo ora di determinare, sia pure in modo approssimativo e in termini generali, il significato della definizione di<br />
Romanticismo come ‘ossimoro’, evidenziando le ‘antinomie romantiche’ che sembrano più significative. La <strong>lo</strong>ro presentazione<br />
potrebbe essere la seguente:<br />
1. Antinomie improprie: Romanticismo-Illuminismo, Romanticismo-Classicismo. Considero ‘antinomie improprie’ tali<br />
contrapposizioni perché non si col<strong>lo</strong>cano all’interno del Romanticismo, ma tuttavia sono fondamentali per la sua comprensione in<br />
quanto sono come il negativo e il positivo, il primo dei quali né si può comprendere né può esistere senza il secondo.<br />
2. Antinomie storiche: Borghesia-Aristocrazia, Medio Evo-Antichità. Chiamo ‘antinomie storiche’ le due antinomie che sono<br />
venute sviluppandosi storicamente, e che mettono in evidenza i caratteri di due contrapposte classi sociali nel momento del<br />
determinarsi del Romanticismo, e due ‘civiltà’ che stanno alla radice delle contrapposizioni precedenti.<br />
3. Antinomie generali: Storia-Natura, individuo-popo<strong>lo</strong>, Paganesimo-Cristianesimo, Cattolicesimo-Protestantesimo. Queste<br />
‘antinomie generali’, come indica l’aggettivo, evidenziano contrapposizioni non specifiche, e tuttavia presenti in forme vistose nel<br />
fenomeno Romanticismo, tanto da potersi considerare un sottofondo del fenomeno.<br />
4. Antinomie essenziali: infinito-finito, immanenza-trascendenza, interiorità-esteriorità, Spirito-Natura, libertà-necessità,<br />
tradizione-libertà, intero-parti, sentimento-ragione, contenuto-forma. Ritengo in particolare queste le antinomie essenziali del<br />
Romanticismo: sono esse infatti che manifestano il fenomeno quale ‘categoria del<strong>lo</strong> spirito’, e sono esse che danno luogo alle<br />
successive ‘antinomie particolari’.<br />
5. Antinomie particolari: inconscio-conscio, realtà-immagine, spiritualità-magnetismo, persona-automa, individuo-doppio,<br />
angelismo-demonismo, vita-arte, bel<strong>lo</strong>-sublime, giovinezza-senilità, ingenuo-sentimentale, entusiasmo-filisteria, ingenuità-ironia.<br />
Naturalmente, il nudo elenco ha soltanto un va<strong>lo</strong>re di impostazione: esso va assunto come retico<strong>lo</strong> di riferimento di una trattazione<br />
che ne evidenzi, nel concreto dei vari aspetti del Romanticismo, il senso dialettico ad essi implicito. Noi tuttavia né seguiremo la<br />
sequenza dell’elencazione proposta, né prenderemo in considerazione tutti i suoi elementi: cercheremo piuttosto di percorrere<br />
sommariamente la storia della ‘categoria del<strong>lo</strong> spirito’ all’interno dell’analisi del ‘fenomeno storico’, nei quali due ambiti si andranno<br />
profilando spontaneamente le antinomie.<br />
risparmiati, ma ormai non può essere <strong>lo</strong>ntano il momento in cui tutti gli uomini in pieno accordo tra <strong>lo</strong>ro, con una comune grande decisione potranno liberarsi da questa<br />
penosa condizione, da questa orribile prigione e con una rinuncia vo<strong>lo</strong>ntaria alla <strong>lo</strong>ro ricchezza sottrarranno la propria famiglia alla miseria e troveranno la salvezza in<br />
un mondo più felice accanto al <strong>lo</strong>ro antico padre.» Ivi, p. 48. Le sottolineature sono mie.<br />
7<br />
Come è noto, i trascendentali dell’essere fanno parte del pensiero greco: essi sono i caratteri dell’essere in quanto tale. A metà dell’Ottocento, un discepo<strong>lo</strong> di<br />
Hegel poteva scrivere un’estetica del brutto. «Certamente alla fi<strong>lo</strong>sofia tedesca spetta l’onore di aver avuto per prima il coraggio di riconoscere il brutto come il<br />
negativo dell’idea estetica, come un momento integrativo dell’estetica». Karl Rosenkranz, Estetica del brutto, il Mulino, 1984, p. 50. È vero che Rosenkranz definisce<br />
il brutto in relazione al bel<strong>lo</strong>, senza il quale non sarebbe (è quindi un concetto relativo, non assoluto come il bel<strong>lo</strong>), rivendicando la positività del bel<strong>lo</strong> e degli altri<br />
trascendentali dell’essere, ma sta di fatto che la tendenza romantica non è sempre quella di rispettare questo rapporto di relazione, ma di capovolger<strong>lo</strong>, ponendo il brutto<br />
come più espressivo, più significativo, più importante e affascinate del bel<strong>lo</strong>, che scade a livel<strong>lo</strong> di insignificanza.<br />
8<br />
Ricordiamo alcuni pochi casi: Werner (e sua madre), Hamann, Richter, Hölderlin, Kleist, Lenau, Hoffmann, Stirner, Schumann, Wolff, Nietzsche, Federico<br />
Guglielmo IV di Prussia, il principe Ludwig.<br />
9<br />
A tal riguardo si veda il presunto ‘parricidio’ del protagonista del Sofista platonico nei confronti di Parmenide di Elea, il fi<strong>lo</strong>sofo dell’Essere. Soph. 241 d. È<br />
chiaro che la negazione dell’Essere, della sua intellegibilità e oggettività, apre la strada al relativismo, al<strong>lo</strong> scetticismo e al nichilismo di tutti i tempi.<br />
10<br />
Significativa è la traduzione dell’inizio del Vange<strong>lo</strong> di San Giovanni che Goethe propone nel Faust, quando fa scrivere al protagonista: «In principio era<br />
l’Azione». Wolfgang Goethe, Faust, Einaudi, 1965, p. 38.<br />
2
Peraltro, ci chiediamo innanzitutto se, accanto alla rivoluzione di Kant, su cui torneremo, vi fu un fenomeno più vasto, un<br />
cambiamento di mentalità e di costume in cui possiamo col<strong>lo</strong>care la sua speculazione, e che in qualche modo possiamo considerare<br />
come premessa al<strong>lo</strong> stesso Criticismo. Si può rispondere che questo fenomeno ci fu, e si diffuse in tutta la società europea: esso è<br />
l’introiezione della retorica nel profondo del<strong>lo</strong> spirito umano. Quanto il Barocco, estenuato nel Rococò, era dilagato, trasferendo<br />
nell’insignificanza esteriore delle cose e del gusto il va<strong>lo</strong>re dell’interiorità umana, tanto il Romanticismo bandisce la retorica come<br />
responsabile di quella vacuità formale a vantaggio di una pienezza interiore che tuttavia prendeva la propria fisionomia e forza dalla<br />
stessa retorica. Sarà per ciò necessario soffermarci su questo problema che vede prima l’esasperazione della retorica e poi la sua<br />
scomparsa dall’ambito delle manifestazioni sociali, per col<strong>lo</strong>carsi nell’interiorità dell’individuo. La chiusura della monade leibniziana<br />
è la raffigurazione metafisica della chiusura del romantico tedesco in se stesso, nell’iperbole del suo sforzo di convincersi che tutto<br />
l’universo non è altro che una sua produzione; e nell’ambito esteriore della moda, il nero ‘borghese’ soppianta l’‘aristocratica’<br />
vivacità cromatica.<br />
Lungo un itinerario, che dovrà prendere le mosse dai caratteri originari del popo<strong>lo</strong> germanico fino all’Aufklärung, e da questo alle<br />
manifestazioni del Romanticismo, avremo modo di verificare la tenuta della dialettica delle antinomie e il dissolvimento dei<br />
trascendentali dell’essere, per abbracciare il fenomeno romantico in una sintesi che tenga conto delle sue manifestazioni e delle sue<br />
premesse storiche, poiché il Romanticismo tedesco si alimenta appunto di tutti i momenti e di tutte le manifestazioni della storia del<br />
popo<strong>lo</strong> germanico, riproponendoli sia estrinsecamente in ‘riscoperte’ e rinascite, sia intrinsecamente ad un livel<strong>lo</strong> del ‘profondo’,<br />
cosciente o incosciente, pato<strong>lo</strong>gico o di ‘grande salute’, secondo l’espressione di Nietzsche.<br />
Questo percorso è dunque necessario, poiché il fenomeno storico che chiamiamo ‘Romanticismo tedesco’ non è altro che il<br />
traguardo che raggiunge la coscienza germanica nel suo rispecchiarsi nel proprio passato. Possiamo ripetere per ciò che il<br />
Romanticismo in Germania altro non è che un atto tauto<strong>lo</strong>gico della coscienza, che tenta di realizzare l’identità tra presente e passato,<br />
tra interiorità ed esteriorità, con la conseguente tendenza ad espellere quanto non rientri in quell’atto e <strong>lo</strong> disturbi.<br />
La conclusione a cui cercheremo di giungere sarà la ‘tenuta’ delle figure di cui si è detto: della ‘patria <strong>lo</strong>ntana’, del ‘padre assente’,<br />
della ‘voragine interiore’. Vittima dell’apprendista stregone che ha generato ed educato, il romantico è costretto a percorrere le tappe<br />
della dialettica idealistica che <strong>lo</strong> portano appunto alla ‘voragine interiore’, nella quale finisce fagocitata ogni cosa e <strong>lo</strong> stesso soggetto<br />
entro il quale si è spalancata: l’autogenesi del romantico termina nell’autodistruzione.<br />
1. 2- Il diritto soggettivo e i miti germanici<br />
L’habitat e i sistemi di sopravvivenza degli antichi popoli germanici sono essenziali alla comprensione della Germania in tutta la<br />
sua storia, fino a che essa riemerge nel Settecento dopo la guerra dei trent’anni e le paci di Westfalia del 1648: in un territorio<br />
spopolato a causa degli scontri e delle razzie degli eserciti che l’avevano invasa, la natura riprendeva quel sopravvento sulla<br />
popolazione che del resto non era mai stato veramente minacciato nei secoli precedenti. Le immense foreste e i grandi corsi dei fiumi,<br />
i rigidi freddi invernali che maggiormente isolavano comunità e individui, le nebbie e i cieli nuvo<strong>lo</strong>si erano tutti aspetti che<br />
mantenevano stabile nella popolazione i suoi caratteri originari, appena velati dalle forme umanistico-rinascimentali.<br />
Attraverso le strutture della vita familiare e sociale, attraverso le forme economiche (nomadismo, semi-nomadismo, caccia,<br />
allevamento, razzia, guerra), i Germani avevano generato nei secoli un proprio diritto: il diritto soggettivo, che rappresenta la chiave<br />
di lettura della <strong>lo</strong>ro fisionomia e della <strong>lo</strong>ro storia. Il diritto soggettivo o germanico non so<strong>lo</strong> si distingue da quel<strong>lo</strong> oggettivo o latino<br />
che si caratterizza come diritto ‘territoriale’ e ‘sovranazionale’ e quindi universale, ma vi si oppone: mentre <strong>lo</strong> ius latino si sviluppa<br />
storicamente verso una razionalizzazione che è espressione di un avvicinamento al <strong>lo</strong>gos evidenziato dai Greci, che <strong>lo</strong> porta<br />
all’universalità almeno tendenziale nell’Impero, il diritto germanico misconosce il principio di ragione, ponendo a proprio<br />
fondamento il principio di autorità, sopra il quale erano sorti famiglia, clan, gau, sippe, popo<strong>lo</strong>.<br />
Il principio di ragione è espressione dell’intelletto, il principio di autorità ha la sua radice nella immaginazione. 11 Inoltre, la<br />
tendenza del diritto soggettivo nei popoli nordici non è quella a ricongiungersi ad una realtà assoluta trascendente, come avviene nel<br />
popo<strong>lo</strong> ebraico, ma a riconoscere un assoluto immanente nella Natura e nelle sue molteplici manifestazioni, davanti alle quali è<br />
appunto posta l’immaginazione: la Natura non è solamente il luogo in cui si svolge la vita, ma la matrice stessa della vita, e di cui la<br />
vita si alimenta. Della Natura si è parte non so<strong>lo</strong> oggettiva e materiale, ma anche soggettiva e spirituale: la Natura stessa è un<br />
multiforme Soggetto, uno ‘Spirito pietrificato’, come dirà Schelling.<br />
Benché infinitamente complessa, essa è però immediata nelle sue manifestazioni; e ciò crea la ‘naturalezza’ e l’immediatezza del<br />
vivere sociale, che contrasta con uno sviluppo di forme artificiose. Sarà, questa, una delle caratteristiche del romantico, in <strong>lo</strong>tta con<br />
l’artificiosità e la retorica dei padri, legati ai doveri e alle convenzioni dell’etichetta aristocratica delle Corti germaniche, a <strong>lo</strong>ro volta<br />
influenzate da quella francese.<br />
Ma la Natura, oltre ad essere il luogo di origine, è la casa in cui si vive, in cui si trova tutto ciò di cui si vive; è la donna in tutte le<br />
sue relazioni con l’uomo: di madre, di sorella, di sposa, di figlia, alla quale si guarderà come ad ‘anima bella’, come ‘eterno<br />
femminino’ che salva, nella quale ci si vorrebbe mutare per quella ipersensibilità che il romantico sente dentro di sé e che coltiva, nel<br />
fastidio che prova per la razionalità che uccide <strong>lo</strong> spirito.<br />
L’avvicendarsi del giorno e della notte, delle stagioni, della vita e della morte, sono la prima manifestazione del principio di<br />
autorità: si tratta dell’intuizione eraclitea del ‘tutto scorre, nulla è’, ma in un illusorio perenne mutamento di ciò che in realtà sempre<br />
‘è’. Il principio di autorità è ‘panteista’ per sua natura, quanto quel<strong>lo</strong> di ragione è ‘trascendentista’. Il nomadismo, la caccia,<br />
l’allevamento, il baratto, come altre espressioni della vita primitiva, e soprattutto il ring rispetto alla città, sono strettamente legate al<br />
principio di autorità o quanto meno <strong>lo</strong> alimentano. Si tratta di espressioni che legano maggiormente l’individuo alla famiglia, e questa<br />
alle strutture naturali del clan, della tribù, del popo<strong>lo</strong>: l’individuo non è mai so<strong>lo</strong>, davanti al principio di ragione, ma organicamente<br />
11<br />
V. la teorizzazione delle facoltà fatta da Platone nella Politeia, il cui ordine è il seguente: immaginazione, credenza, ragione discorsiva, intelletto. I primo dei due<br />
estremi è quel<strong>lo</strong> che si lega al mondo sensibile; il secondo, quel<strong>lo</strong> che si ‘innesta’ nel mondo intellegibile. Sempre tenendo presente l’impostazione platonica,<br />
l’immaginazione è la base della credenza, che è l’atto di coscienza mediante il quale crediamo che le cose sensibili esistano così come appaiono ai sensi, mentre<br />
l’intelletto è la base della conoscenza, la quale è relativa alla realtà intellegibile.<br />
3
inserito nel popo<strong>lo</strong> attraverso una ramificazione gerarchica, in cui l’autonomia del singo<strong>lo</strong> non si caratterizza per elementi razionali,<br />
ma passionali o di sangue.<br />
Il Cristianesimo, nella parola e nella persona di Gesù Cristo, introduce un diritto che sintetizza e sublima entrambi i diritti,<br />
stabilendo un diritto ‘cattolico’ che ha i caratteri dell’universalità oggettiva e della particolarità soggettiva. Secondo la sua<br />
predicazione, Egli stesso si sottomette alla vo<strong>lo</strong>ntà del Padre (principio di autorità), mentre d’altra parte dichiara la propria natura<br />
divina di Verbo (Logos: principio di ragione) che totalmente si rispecchia in quella di uomo, così che il cristiano si appella ad un<br />
diritto che è superiore a quel<strong>lo</strong> latino perché la sua oggettività è garantita da Dio, e a quel<strong>lo</strong> germanico perché vive nella sua<br />
coscienza, che va oltre ogni legame di affinità e parentela. 12<br />
La proiezione più vistosa del diritto soggettivo si ha nella religione e nelle mito<strong>lo</strong>gia germaniche; questo, nel duplice senso<br />
dell’organicità del complesso delle figure mitiche e della contrapposizione violenta in esse delle forze del bene e del male.<br />
L’organicità è espressa e simboleggiata dal Frassino del Mondo, Yggdrasill, che, suddiviso in nove parti, comprende dentro di sé tutti<br />
gli esseri viventi, distinti in buoni e malvagi, e in ‘razze’ diverse.<br />
«Varie fonti, e fra esse eminenti il Grímnismál, il Völuspá e il Gylfaginning, riferiscono dell’Albero del Mondo, o Frassino del<br />
Mondo, detto Yggdrasill, che affonda le sue radici nel profondo e leva i suoi rami fino al cie<strong>lo</strong>: “I suoi rami si stendono su tutti i<br />
mondi e si spingono fino al di sopra dei cieli”. L’Albero ha tre radici, che si stendono verso il regno degli uomini, ovvero, secondo<br />
Snorri, si spartiscono il dominio dei tre regni degli dèi, dei giganti e del Niflheim. Sotto le radici dell’Albero appaiono numerose<br />
sorgenti [...]. Secondo una diversa notizia, che appare in Völuspá (II), all’interno dell’albero sono contenuti i Nove Mondi, ossia i<br />
mondi degli Asi, dei Vani, degli Elfi chiari, degli Elfi scuri, degli uomini, dei giganti, dei figli di Múspell, dei morti e, forse, dei nani.<br />
[...] Infine, è da ricordare che, nella consumazione cosmica, l’Albero crollerà con enorme rumore e trascinerà ogni cosa nella finale<br />
distruzione.» 13<br />
L’Albero cosmico, trasfigurazione della foresta nordica, rappresenta la Natura. È la vita del tutto in cui ciascuna parte trova la<br />
propria col<strong>lo</strong>cazione, ma anche la contradizione che la insidia: l’insieme del pantheon mitico (divino, umano, subumano) ha in sé una<br />
negatività dinamica che <strong>lo</strong> mina alle fondamenta. Ogni parte è in <strong>lo</strong>tta con le altre, e tutte contro il tutto stesso che le contiene.<br />
Yggdrasill è ‘l’albero dell’impiccato’, perché Odino, il sovrano degli dèi, vi è rimasto appeso per nove giorni e nove notti per poter<br />
acquistare la sapienza capace di interpretare le antiche rune. Odino, il sovrano degli dèi, guercio e accompagnato da due corvi che si<br />
posano sulle sue spalle, incede con una lancia in pugno, poiché egli è il signore della guerra. Lontano dalla maestà di Zeus, la sua<br />
potenza sembra essere di natura notturna e lunare, quanto quella del dio greco appare opposta, non ostante i precedenti genea<strong>lo</strong>gici<br />
negativi di quest’ultimo, che egli peraltro conduce all’ordine.<br />
Benché infatti vi sia una indubbia ana<strong>lo</strong>gia tra alcune divinità germaniche e quelle greche, che rivelano una <strong>lo</strong>ntana origine<br />
comune, prevale fra i due mondi mitici la diversità: Zeus costringe il Caos a determinarsi come Cosmo, Odino <strong>lo</strong>tta continuamente per<br />
un ordine che non so<strong>lo</strong> è precario, ma che fatalmente crollerà con <strong>lo</strong> scatenarsi delle forze negative nel Ragnarök. 14 «Il tempo finale<br />
sarà preceduto dall’Inverno mostruoso, costituito da tre inverni di eccezionale ge<strong>lo</strong>, non interrotti dall’estate. Seguiranno altri inverni,<br />
nel corso dei quali la guerra si scatenerà nel mondo e le leggi della pietà umana non avranno più va<strong>lo</strong>re, consumandosi per ogni dove<br />
omicidi, fratricidi, malvagità, adultèri, spergiuri. Il Lupo inghiottirà il sole, mentre l’altro Lupo inghiottirà la luna.» 15<br />
«I fratelli si batteranno e si uccideranno,<br />
i parenti romperanno i legami di sangue,<br />
si compiranno malvagità e pravi adultèri;<br />
sarà un’era di spade e di scuri, si spezzeran gli scudi,<br />
un’epoca di venti e di lupi, pria che crolli il mondo:<br />
nessuno vorrà risparmiare l’avversario.» 16<br />
È il motivo del ‘crepusco<strong>lo</strong> degli dèi’, della sconfitta del bene, il quale, per così dire, vive nella continua apprensione della propria<br />
distruzione. E seppure vi sarà un altro mondo dopo il Ragnarök, la tragicità della vita sta nella mancanza di vero nesso tra questa<br />
esistenza e la successiva. Gli stessi eroi positivi sono guerrieri dediti alle <strong>lo</strong>tte continue, e l’al di là, il Wahalla, è visto come una sala<br />
d’armi e di banchetti. Il carattere di autorità del diritto soggettivo si manifesta nella forza, a cui non si contrappone una possibile<br />
forma diversa, che non siano il tradimento, l’inganno, l’astuzia; e sono essi che possono avere la meglio sul va<strong>lo</strong>re-forza-diritto<br />
dell’eroe: vedi per tutti Sigfrido.<br />
Dice Mittner nelle Ambivalenze romantiche: «I due motivi psico<strong>lo</strong>gici su cui i poeti hanno insistito, sublimandoli in miti, sono<br />
infatti il presentimento cupo di un destino ineluttabile di morte che sempre più si avvicina e da cui il guerriero si crede già circondato<br />
e quasi avvolto, e l’accettazione impavida, ferocemente gioiosa, di questo destino che è vissuto tanto profondamente da formare<br />
tutt’uno con l’anima del guerriero.» 17 Il destino è dentro l’anima del guerriero perché è sentito come principio di autorità di cui<br />
l’individuo si sente parte: è dentro la sua anima, ma più grande della sua anima. Ma egli l’accetta, non <strong>lo</strong> subisce; e per non subir<strong>lo</strong>, si<br />
identifica con esso.<br />
«All’annunzio del ragnarök, della grande battaglia apocalittica, gli Asi cavalcheranno compatti verso il campo di Oskopnir in cui il<br />
combattimento avrà luogo secondo i decreti del fato; circondati da giganti e mostri irrompenti dai quattro punti cardinali, essi<br />
12 «Perché chiunque fa la vo<strong>lo</strong>ntà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratel<strong>lo</strong>, sorella e madre.» Mat. 12, 50. Come vedremo, la Riforma luterana farà leva<br />
sul diritto della coscienza, poggiando sul diritto germanico non sull’equilibrio di quel<strong>lo</strong> cattolico, scalzandone anzi l’oggettività.<br />
13 Encic<strong>lo</strong>pedia delle religioni, Vallecchi Editore, 1970, 6 voll., vol. II, voce ‘Germani’, p. 1765.<br />
14 «Il lupo Fenrir giungerà con le fauci spalancate, la mascella superiore puntata contro il cie<strong>lo</strong> e l’inferiore contro la terra, e le spalancherebbe ancor più se ci fosse<br />
spazio bastante. Fuoco gli uscirà dagli occhi e dalle nari. Il serpente di Midhgardhr soffierà il suo veleno da saturarne l’aria e l’acqua: sarà spaventoso e terribile e<br />
procederà a fianco del lupo. […] Al<strong>lo</strong>ra il frassino Yggdrasill tremerà e più nulla sarà che non abbia paura nel cie<strong>lo</strong> e nella terra. […] Poi Surtr appiccherà fuoco alla<br />
terra e tutto il mondo brucerà.» Snorri Sturluson, Edda, Biblioteca Adelphi 61, 1982, p. 118-119.<br />
15 Encic<strong>lo</strong>pedia delle religioni, p. 1773.<br />
16 Vö<strong>lo</strong>spa, in L’Edda. Carmi norreni, Sansoni, 1982, p. 6.<br />
17 Mittner, Ambivalenze romantiche, p. 346.<br />
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periranno dopo aspra <strong>lo</strong>tta, dando prova del <strong>lo</strong>ro eroismo con la morte prevista ed accettata.» 18 Se il germano si identifica con il<br />
guerriero, il morire combattendo è l’apice della sua esistenza, il suggel<strong>lo</strong> del suo carattere: non è stato vinto dal destino, ma egli l’ha<br />
fatto proprio.<br />
«La forma più antica del romanticismo germanico è nell’inquietitudine del guerriero che scruta con orrore e orgoglio il proprio<br />
destino ed è vinto da una fascinazione che è irresistibile, letale appunto per la sua enigmaticità. Esemplari a tal riguardo la Canzone di<br />
Gripir nell’Edda, che nel dia<strong>lo</strong>go fra Sigurd e un vate anticipa e riassume tutta la tragedia dell’eroe e, nei Nibelunghi, l’incontro di<br />
Hagen con le ondine del Danubio». 19 Se non si vuole parlare di ‘forma romantica’, resta che si tratta di aspetti che stanno alla base del<br />
Romanticismo tedesco, che li sentì come propri, essenziali, vitali alla propria coscienza.<br />
«Wagner non fu certo soltanto un archeo<strong>lo</strong>go riesumatore quando rifuse le scene più potenti e sinistre dei miti antichi [...]. Non si<br />
era, evidentemente, compreso che la riesaumazione di Wagner era tutta raccolta intorno all’attesa del raganrök, appunto perché era<br />
riesumazione fatta da un sensibilissimo decadente moderno che nella sua età <strong>–</strong> e in sé <strong>–</strong> percepiva una fatale decadenza invano<br />
ammantata di nebbiose speranze messianiche». 20<br />
Tutto il pantheon germanico non è che una concretizzazione del principio di autorità, manifestato e gerarchizzato mediante il<br />
diritto soggettivo, in un movimento generativo che ha il suo te<strong>lo</strong>s nell’autonegazione, nella distruzione totale: il Ragnarök. Ana<strong>lo</strong>go<br />
sarà il destino del romantico, proteso ad un’autoaffermazione originaria (interiorizzazione del principio di autorità) che vorrebbe<br />
essere autogenesi, ma che si capovolge nell’autodistruzione; ana<strong>lo</strong>go sarà il tentativo della sinergia romantica delle arti, che si<br />
risolverà nella ‘pagina bianca’; ana<strong>lo</strong>go sarà il tentativo dell’assimilazione dell’esteriorità nell’interiorità, dell’infinito nel finito, che si<br />
mostrerà vano ed esiziale; ana<strong>lo</strong>ghi ancora appariranno i termini delle antinomie, che fanno del Romanticismo tedesco, come abbiamo<br />
detto, un ossimoro.<br />
Il diritto soggettivo, ambivalente perché indifferentemente connotabile mediante il bene o il male, non è in grado di tessere un<br />
tessuto intellegibile che distingua e neutralizzi il negativo della vita. Anche sotto il trono di Zeus le forze irrazionali continuano ad<br />
esistere e ad agitarsi, ma esse sono mantenute in ‘catene infrangibili’ dall’‘esterno consiglio’ del padre degli dèi e degli uomini. In<br />
Grecia, le forze e gli elementi della natura si sono antropomorfizzati in larga misura, al di là della stessa ‘misura umana’; in area<br />
nordica, i medesimi elementi e le medesime forze hanno assunto prevalentemente forma ferina, giungendo a quella umana quasi<br />
eccezionalmente, priva ad ogni modo della euritmia tra psiche e corpo propria dei Greci.<br />
La mancanza di razionalità determina nelle figure mitiche dei Germani mancanza di vera coscienza di libertà, libertà mutata in<br />
destino ineluttabile, a cui si soggiace inevitabilmente, o in un necessario ricorso a mezzi magici per operare su persone e situazioni.<br />
Contro le Moire neppure il volere di Zeus ha efficacia, ed esse scandiscono la vita e la morte di tutto ciò che vive nel Cosmo, ma il<br />
Cosmo stesso non soggiace al <strong>lo</strong>ro potere nella cultura greca: viene salvata una oggettività superiore che resta saldo parametro della<br />
mentalità classica. Nel mito nordico invece il destino sovrasta su tutto, e tutto sarà distrutto dalle forze del male. Il diritto germanico<br />
mostra la sua intrinseca vulnerabilità per assenza di razionalità alla sua base, che dunque crolla per un irrazionalismo che dilaga<br />
sempre più.<br />
Sul piano umano, scopriamo costantemente questa sudditanza all’irrazionale: l’amore esemplare tra uomo e donna (Tristano e<br />
Isotta, ecc.), cantato e sublimato dall’arte, è frutto di un ‘filtro’, che trasforma l’individuo e <strong>lo</strong> snatura. Così, la stessa Natura<br />
umanizzata, che dovrebbe fondare la ‘naturalezza’ contro l’artificio e la convenzionalità, prende invece la via del ‘chimismo’, del<br />
‘magnetismo’ schellinghiano, e dell’automatismo che sarà di Hoffmann.<br />
All’interno del diritto germanico, il mundio rappresenta il suo prolungamento: si tratta non di un riconoscimento paritetico di<br />
persone (della donna), ma di protezione e rispetto. Questa posizione ‘privilegiata’ della donna si svilupperà nel tempo attraverso le<br />
figure della Signora del Minnesang e dell’‘anima bella’ del Romanticismo schilleriano. ‘Natura’, ‘casa’ (capanna, focolare, averi,<br />
figli), ‘donna’ sono realtà di completamento del guerriero germanico, che sente di possedere essenzialmente so<strong>lo</strong> se stesso, e le<br />
proprie armi come parte della propria persona, ma ad esse egli estende il mundio come suo marchio. Il mundio è l’intreccio dei legami<br />
che egli controlla, mentre egli stesso fa parte di un intreccio a cui è subordinato.<br />
Questo è significativo del fatto che la coscienza del singo<strong>lo</strong>, di far parte di un tutto che ha il potere di trasformar<strong>lo</strong>, finisce per non<br />
avvertire realmente il senso del tragico, il quale invece è dato da una consapevolezza di superiorità rispetto alla realtà che <strong>lo</strong> distrugge,<br />
ma resta ‘cosa’ tra le cose, parte organica di una totalità omogenea. Il rito funebre seppellisce l’eroe immergendo<strong>lo</strong> nuovamente nella<br />
Natura da cui sorgono e a cui ritornano tutte le forme di energia che si configurano come individui. L’individuo, che è immerso<br />
all’interno del popo<strong>lo</strong>, <strong>lo</strong> è anche rispetto alla Natura, di contro alla concezione che si è venuta maturando in Grecia e in Palestina, e<br />
poi in termini assoluti nel Cristianesimo.<br />
Tutto ciò che il diritto germanico ha generato nel mito, nelle espressioni sociali e culturali al suo comparire, fa parte della<br />
coscienza del popo<strong>lo</strong> quale si andrà svolgendo nella storia attraverso i grandi momenti del Medio Evo, della Riforma, del<br />
preromaticismo settecentesco, fino al Romanticismo e oltre: ma sarà proprio la coscienza romantica quella che cercherà di<br />
ricapitolar<strong>lo</strong> interamente, e interamente rivivere ogni manifestazione crescente su tale base, in un tentativo di sublimazione. Come<br />
sosterrà Fichte, è la lingua <strong>lo</strong> strumento che ha reso possibile non so<strong>lo</strong> questa continuità spirituale, ma <strong>lo</strong> stesso emergere della<br />
coscienza germanica fino a giungere ad una autocoscienza onnicomprensiva attraverso <strong>lo</strong> svolgimento dei fatti storici, che ha<br />
consentito al popo<strong>lo</strong> tedesco di sviluppare una fi<strong>lo</strong>sofia che intendeva di presentarsi come coscienza di uno Spirito assoluto in un<br />
continuo formarsi e svolgersi, scandente non so<strong>lo</strong> le tappe della storia del popo<strong>lo</strong> germanico, ma anche di quella dell’umanità intera. 21<br />
18 Mittner, Ambivalenze romantiche, p. 347. «Il luogo stesso della battaglia, Oskopnir, il “non creato”, è il luogo che non esiste ancora, ma potrà esistere in<br />
qualsiasi regione dell’universo». Ibidem.<br />
19 Mittner, Ambivalenze romantiche, p. 351.<br />
20 Mittner, Ambivalenze romantiche, p. 353.<br />
21 V. il sistema idealistico di Hegel.<br />
5
2. Il cammino del<strong>lo</strong> spirito germanico<br />
2. 1- Il Medio Evo<br />
Il contesto originario ricuperato dal Romanticismo germanico viene filtrato attraverso la cultura medievale, perché è nel Medio<br />
Evo che si sedimentano nella scrittura le antiche tradizioni dei popoli nordici, ma anche perché è questo il periodo in cui esse<br />
fermentano. I canti bardici trovano forma in poemi e narrazioni, mescolandosi a motivi nuovi di altra provenienza e di altra radice.<br />
Paganesimo e Cristianesimo si mescolano, come si mescolano leggende e storia, in un tutto nuovo che attenua l’asprezza primitiva e<br />
va verso le forme della poesia cortese. I due personaggi emblematici, uno della purezza pagana e l’altro di quella cristiana, Siegfried e<br />
Parzival, rappresentano i due volti della nuova anima germanica; a cui si aggiunge la coppia per eccellenza di Tristano e Isotta, quale<br />
simbo<strong>lo</strong> dell’amore irrefrenabile e del suo tragico destino: figure su cui si costruirà la potenza della ‘mito<strong>lo</strong>gia’ wagneriana. Ben<br />
prima di Wagner, prima dei Preraffaelliti, Novalis aveva indicato nel Medio Evo il tempo dell’unità politica e religiosa dell’Europa,<br />
trasfigurata da una immaginazione mistica che vedeva nel passato quanto serviva al suo Idealismo magico per una proiezione<br />
romantica nel futuro. 22 Nascono i grandi poemi dei cicli pagano e cristiano, con le figure delle mito<strong>lo</strong>gie del sangue della stirpe e del<br />
sangue di Cristo: gli anonimi Nibelunghi, il Parzival di Eschenbach, il Tristan di Strassburg.<br />
«Il gotico tende verso l’alto <strong>–</strong> scrive Mittner <strong>–</strong> e sostituisce alle linee orizzontali del romanico un vario e complesso giuoco di linee<br />
verticali. I paralleli con le strutture poetiche sono evidenti, ma sono anche molto generici: alla paratassi “romanica”, cioè<br />
all’orizzontalità dei versi lunghi uguali, specialmente nelle chanson de geste, subentra l’ipotassi “gotica”, cioè la verticalità dei versi<br />
disuniti e in vario modo riuniti, specialmente nei romanzi cortesi arturiani. La verticalità esprime un nuovo ed appassionato<br />
soggettivismo religioso, che è però anche terreno.» 23<br />
L’ipotassi della poesia cortese svolge la stessa linearità ascensiva del gotico quale si va ormai imponendo nella architettura e negli<br />
stilemi che l’accompagnano: è una elevazione, una sublimazione che addita l’alto come meta, ma che crea zone d’ombra in cui non si<br />
sale più, ma ci si nasconde. È il motivo del ‘platonismo galante’ che scherma la sensualità della ‘corte d’amore’ in cui si col<strong>lo</strong>cano i<br />
‘giochi’ tra il sociale e il privato.<br />
Nasce il trovatore tedesco, il Minnesang, l’individuo che conta soltanto su di sé, nuovo cavaliere di altra Tavola Rotonda, nuovo<br />
cavaliere alla ricerca di altro sacro Graal: ora il Graal non è più la coppa del sangue di Cristo, ma il cuore della donna amata, il cui<br />
sangue ugualmente pare abbia potere di riscattare. L’etichetta di corte si sublima nell’architettura intellettuale dell’amore (Minne) che,<br />
gioco concettualistico e passione non ostensibile, diviene trobar clus, discorso allusivo: parola ermetica, distillata, accompagnata da<br />
forme musicali virtuosistiche che si al<strong>lo</strong>ntanano sia dalla linearità contemplativa del gregoriano, sia dalla vivace ritmicità della musica<br />
popolare. Il trobar clus esprime la strada del Minnesang per rivendicare la propria individualità, il diritto soggettivo della persona che<br />
si sente sacrificata all’ordo medievale, al gotico in cui ogni parte è un tutto che rischia di non poter fare altro che ripetere la<br />
fisionomia di quell’intero di cui è parte, senza propria autonomia. 24<br />
Nel contrasto tra individuo e ordo medievale l’emancipazione passa attraverso i diritti del cuore, soprattutto del cuore femminile a<br />
cui si volge il Minnesang. «Non diremo per ciò <strong>–</strong> scrive sempre Mittner <strong>–</strong> che i trovatori esaltassero in linea di principio l’adulterio;<br />
certo però le <strong>lo</strong>ro canzoni si rivolgevano, a quanto consta, quasi esclusivamente a donne maritate. Il riconoscimento del diritto della<br />
donna di scegliere un degno servitore è in sostanza un affrancamento dal giogo coniugale e sarà un’esaltazione dei diritti del cuore,<br />
un’esaltazione della passione che è sacra quando è veramente genuina.» 25<br />
Nel canto della passione eccitata e repressa, mostrata e nascosta, il contrasto si proietta nell’‘alba’, quale ossimoro poetico del<br />
momento di passaggio dalla positività della notte alla negatività del giorno. Nell’alba che avanza i Minnesänger si rivestono<br />
nuovamente della <strong>lo</strong>ro funzione di cavalieri serventi della <strong>lo</strong>ro Signora, nella ‘corte d’amore’ all’interno della corte aristocratica che li<br />
ospita. Nel gioco dei rispecchiamenti, nell’intenzione di scavalcare il recinto aristocratico dell’etichetta, il Minnesang sarà sentito dal<br />
romantico come anticipatore del proprio sforzo di superare i limiti del finito, come pure <strong>lo</strong> scopritore delle ‘affinità elettive’ che<br />
caratterizzeranno tanta parte del Romanticismo. 26<br />
Il Minnesang è colui che delimita nella propria interiorità uno spazio che egli emancipa dalla sovranità di Dio e del suo signore,<br />
per offrir<strong>lo</strong> in ‘balìa’ della sua Signora; ma in realtà per realizzare la propria autonomia: l’amore intellettuale diviene <strong>lo</strong> <strong>specchio</strong> in<br />
cui l’immagine della donna amata non è che la trasfigurazione della propria. Accanto all’etichetta aristocratica si col<strong>lo</strong>ca così nella<br />
nuova aristocrazia del<strong>lo</strong> spirito la nuova etichetta dell’introspezione, che non ha carattere sociale né religioso, ma individuale e quasi<br />
solipsistico.<br />
Intanto, fuori del castel<strong>lo</strong>, fuori della chiesa, sul sagrato nasce e cresce il teatro medievale, il dramma liturgico, con una tendenza<br />
intrinseca ad emanciparsi anch’esso dal soggetto religioso, evidente nell’aumento dei personaggi secondari e profani che si<br />
22<br />
Novalis, La Cristianità ossia l’Europa, frammento del 1799.<br />
23<br />
Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca, in 5 voll.; vol. I, Dai primordi pagani all’età barocca (dal 750 circa al 1700 circa), p. 472.<br />
24<br />
«È notevole nel tardo gotico la tendenza di trasformare il battistero, il pulpito e persino l’ostensorio in una specie di piccola chiesa gotica che spesso riproduceva<br />
gli aspetti principali della chiesa medesima in cui quegli oggetti erano col<strong>lo</strong>cati. È un fenomeno di compiaciuto e raffinato artificio, chiaro indizio della decadenza dei<br />
va<strong>lo</strong>ri gotici originari; si tende a creare una preziosa opera d’arte totale, in cui una parte accessoria si può sostituire, in virtù della sua ricchissima ornamentazione, alla<br />
parte principale, alla cattedrale medesima.» Mittner, Dai primordi pagani all’età barocca, p. 474. Proprio questo carattere di identità tra intero e parte provocherà nel<br />
romantico la coscienza di essere una singolarissima parte (Spirito-soggetto) di un tutto (Natura-oggetto) che deve essere in grado di trasformare la propria sudditanza<br />
alla Natura in sovranità su di essa.<br />
25<br />
Mittner, Dai primordi pagani all’età barocca, p. 370.<br />
26<br />
«Le gare di poesia erano dunque vere e proprie gare fra concorrenti desiderosi di entrare nelle grazie della castellana.» Mittner, Dai primordi pagani all’età<br />
barocca, p. 373. Ma si veda anche l’esaltazione romantica della ‘potenza’ del canto dei Minnesänger nelle gare rievocate da Hoffmann: « <strong>–</strong> O amore mio, <strong>–</strong> disse<br />
Matilde. <strong>–</strong> Lascia ch’io ti dica in che modo miraco<strong>lo</strong>so tu mi hai salvata dalla diabolica rete in cui ero caduta. Una notte, poco tempo fa, feci una specie di sogno<br />
stranissimo e spaventoso: qualcosa mi opprimeva atrocemente, fin quasi a togliermi il respiro, ma non sapevo neppur io se fosse una sensazione di piacere o di pena.<br />
Spinta da un impulso irresistibile mi misi a scrivere un “<strong>Li</strong>ed”, attenendomi rigorosamente al<strong>lo</strong> stile del mio sinistro maestro. Mentre scrivevo mi sentii stordire da<br />
suoni, insieme meravigliosi e sgradevolissimi e in quel momento ebbi la certezza di stare scrivendo non già un <strong>Li</strong>ed bensì una formula terribile capace di ridurre<br />
all’obbedienza il principe delle tenebre. Una figura terrificante, indescrivibile, sorse accanto a me, mi afferrò con braccia di fuoco e parve volermi trascinare in un nero<br />
abisso. Ma improvvisamente un canto squarciò le tenebre: un canto luminoso come il mite chiarore delle stelle. La figura nera a tutta prima allentò la presa, mi lasciò,<br />
poi tornò ad avventarsi su di me con le braccia tese e gli occhi fiammeggianti di rabbia. Non me riuscì ad afferrare, ma soltanto il <strong>Li</strong>ed che avevo composto e, col foglio<br />
in pugno, scomparve stridendo nel baratro. La tua canzone, la canzone che hai cantato oggi, la canzone di fronte alla quale il Maligno è dovuto arretrare: fu quella a<br />
salvarmi! Ora sono interamente tua [...].» Hoffmann, Romanzi e racconti, vol. II: La gara dei cantori, terza parte de I confratelli di san Serapione, p. 285. Come<br />
vedremo, l’Enrico di Ofterdinge di Novalis è il romanzo incompiuto incentrato sulla figura, del tutto trasfigurata, del Minnesang ricordato nel Codice Manasse.<br />
6
inseriscono sempre più nella storia sacra. Si tratta di personaggi che si caratterizzano attraverso il rustico, il buffonesco, il grottesco,<br />
così come nella pittura fanno il <strong>lo</strong>ro ingresso sempre più i deformi e gli stolidi. La caratterizzazione in pittura e nel teatro, apprezzata<br />
soprattutto dal popo<strong>lo</strong>, intende essere la negazione del bel<strong>lo</strong> ideale, a cui si contrappone appunto un brutto spesso più grottesco che<br />
reale. È un fenomeno che fa parte di quel<strong>lo</strong> ben più vasto che è dato dal compiacimento di riequilibrare l’eccesso di spiritualizzazione<br />
imposto dalla Chiesa con forme di trasgressione, che nel Medio Evo sono diffuse.<br />
Dopo il faticoso cammino verso le grandi Summe teo<strong>lo</strong>giche, la seconda Scolastica abbandona decisamente il traguardo raggiunto<br />
da Bonaventura e da Tommaso per intraprendere un cammino diverso: quel<strong>lo</strong> del fideismo e del misticismo irrazionalistici. Le due<br />
precedenti sintesi avevano composto, secondo <strong>lo</strong> spirito italiano, il rapporto fede e ragione in un equilibrio cattolico nel quale la<br />
ragione non veniva sconfessata dalla fede, ma anzi riconosciuta nella sua importanza entro i limiti di una natura che, se pure corrotta,<br />
era pur sempre la natura dell’uomo creato da Dio. Con la netta separazione di fede e ragione, con l’affermazione cioè che la teo<strong>lo</strong>gia<br />
non ha carattere razionale, Duns Scoto opera la prima svolta verso la dissoluzione del pensiero scolastico. Il ‘rasoio’ di Ockham<br />
compie il resto, non so<strong>lo</strong> eliminando problemi ‘inessenziali’ della fi<strong>lo</strong>sofia e facoltà umane ritenuti semplici nomi di un’unica attività,<br />
ma le basi della stessa metafisica. Il pensiero nordico della Scolastica torna a far prevalere il principio di autorità del diritto<br />
soggettivo, contro quel<strong>lo</strong> di ragione, nell’arbitrio stesso di Dio che non sopporta limitazioni di sorta: la sua natura non sarebbe infinita<br />
se Egli fosse razionalità, secondo la concezione di Ockham.<br />
Si è aperta la porta al misticismo della teo<strong>lo</strong>gia tedesca e a quella di Eckhart in particolare, in cui troviamo un momento<br />
importante di quella mistica dell’irrazionale che in Germania avrà il massimo rappresentante in Böhme. L’uomo, immagine di Dio, <strong>lo</strong><br />
è per quell’infinito che egli stesso sente di essere, al di là delle limitazioni della ragione. L’‘uomo povero’ è colui che è capace di<br />
spogliarsi delle false ricchezze che <strong>lo</strong> limitano, liberandosi tanto dalle creature quanto dal Creatore, per giungere ad essere quel<strong>lo</strong> che<br />
egli stesso è in eterno ed è sempre stato. In questo modo, la Scolastica si chiude agli antipodi di come si era aperta, e cioè con il rifiuto<br />
del razionalismo di Anselmo d’Aosta: non solamente Dio è l’essere di cui non si può pensare il maggiore, ma anche ogni anima<br />
umana, poiché ne è l’immagine.<br />
Nell’Europa settentrionale emerge dunque sotto nuove vesti l’antico sentire germanico che ora nel gotico ripropone un nuovo<br />
‘frassino cosmico’, al cui interno la parte, identica all’intero, aspira ad essere l’intero stesso.<br />
2. 2- La Riforma luterana<br />
La protesta di Martin Lutero contro la mondanizzazione della Chiesa di Roma rappresenta l’‘inconscia presa di coscienza’ del<br />
perico<strong>lo</strong> che rappresentava l’Umanesimo italiano, dopo la stagione della mistica tedesca e la Devotio moderna. Lo scanda<strong>lo</strong> iniziale è<br />
dato dalla corruzione della Chiesa in capite et in membris, a Roma soprattutto, “là dove Cristo tutto dì si merca”, come aveva detto<br />
Dante; ma il vero nemico non era la rilassatezza dei costumi né il mercato delle indulgenze: il nemico era la razionalità che con<br />
l’Umanesimo si era spostata dal chiuso delle Università alla più vasta cultura che si andava diffondendo, imponendosi in tutti gli<br />
ambiti quale parametro del nuovo vivere sociale. Si trattava di una ragione più nascosta di quella scolastica, velata dal ve<strong>lo</strong><br />
neoplatonico, sorretta inoltre dalla segreta speranza di imporsi come parametro in opposizione alla fede stessa, che cercava di<br />
assorbire.<br />
Ma a Lutero la ragione, definita senza mezzi termini “puttana”, si presentava come la vera corruttrice dell’uomo nel suo rapporto<br />
con Dio, dimenticando che l’uomo, redento dal Verbo incarnato, è l’uomo creato dal Verbo increato, e che dunque non vi può essere<br />
contrasto tra l’uno e l’altro. In Lutero la fede si spoglia della razionalità perché il principio di autorità è per lui assoluto e totale, fino al<br />
punto di togliere l’arbitrio all’uomo per conferirgli, senza appel<strong>lo</strong>, o una gratuita salvezza o una condanna altrettanto ‘gratuita’. La<br />
corruzione della Chiesa non stava dunque nella caduta dei costumi, ma nel fatto che la sua fede si era prostituita con la ragione, e<br />
accettava mondo, società e storia, e viveva in essi senza patirne scanda<strong>lo</strong>.<br />
Il passaggio del diritto soggettivo dal piano dell’immanenza a quel<strong>lo</strong> della trascendenza è in questo momento della storia<br />
germanica la sola soluzione possibile: contro una razionalità che si andava facendo immanente (nella concezione del mondo, della<br />
società, dell’uomo nell’ambito umanistico-rinascimentale), la risposta non poteva essere che quella della dichiarazione di<br />
trascendenza assoluta del principio di autorità, che comportava la completa squalifica del mondo (regno del diavo<strong>lo</strong>), del<strong>lo</strong> Stato<br />
(espressione del male), della storia (il so<strong>lo</strong> momento positivo della storia è quel<strong>lo</strong> della morte redentrice di Gesù Cristo), di ogni<br />
individuo che non sia eletto (l’homo faber fortunae suae non è che bestemmia).<br />
L’aver trasferito il principio di autorità in una trascendenza che poteva sembrare avere ana<strong>lo</strong>gie con quella della tradizione ebraica,<br />
ana<strong>lo</strong>gie possibili soltanto se si metteva tra parentesi l’incarnazione del Verbo, come in parte avvenne in diverse correnti<br />
riformistiche, non toglieva a Lutero la certezza, prima di tutto personale, che il principio di autorità di Dio non poteva non avere un<br />
riflesso nella coscienza umana; ma si tratta naturalmente della coscienza degli eletti che, in quanto tali, rispondono a Dio con la libera<br />
interpretazione della sua parola. Si forma qui un nodo di contradizioni, un ossimoro ‘fi<strong>lo</strong><strong>lo</strong>gico’: da una parte il ‘servo arbitrio’ toglie<br />
la libertà all’uomo che è determinato dalla predestinazione divina, dall’altra la ‘libera interpretazione della Bibbia’ non so<strong>lo</strong> manifesta<br />
la libertà dell’individuo, ma può dar luogo ad una soluzione diversa da quella del ‘servo arbitrio’, così che il fondamento del principio<br />
di autorità si sposta da Dio al singo<strong>lo</strong> individuo e dal singo<strong>lo</strong> individuo a una comunità a seconda che si volga l’attenzione da un<br />
ambito all’altro. 27 Significativa conseguenza è il proliferare delle Chiese, delle Comunità e delle posizioni personali immediatamente<br />
successivo alla protesta di Lutero, e successivamente fino ai nostri giorni.<br />
Manca, ancora una volta, la considerazione cattolica che il Verbo, prima che essere il Verbo incarnato, è il Verbo increato,<br />
fondamento dunque di un ordine naturale su cui si col<strong>lo</strong>ca quel<strong>lo</strong> sovranaturale; e infatti la tendenza protestante sarà quella di<br />
trasformare Gesù Cristo in un ‘buon fratel<strong>lo</strong>’ tutto terreno, riducendo le due nature all’unica natura umana così da adattare e ridurre il<br />
messaggio evangelico a livel<strong>lo</strong> di qualsiasi esigenza o pseudo esigenza individuale o sociale, in un proliferare di sette delle quali il<br />
rifiuto della razionalità è la premessa fondante.<br />
27<br />
Penetrante il giudizio di Novalis a riguardo: «Lutero riservò al cristianesimo un trattamento arbitrario, ne disconobbe <strong>lo</strong> spirito e introdusse un’altra lettera e<br />
un’altra religione, cioè la santa validità universale della Bibbia. E con ciò, purtroppo, una nuova e sommamente estranea scienza terrena penetrò nel campo religioso: la<br />
fi<strong>lo</strong><strong>lo</strong>gia, il cui influsso <strong>lo</strong>gorante fu da quel momento innegabile.» Novalis, La Cristianità e l’Europa, SE, 1985, p. 54.<br />
7
Tolto il principio di ragione per la sua naturale tendenza a ‘prostituirsi’, trasferito il principio di autorità nella soggettività<br />
dell’arbitrio divino, Lutero ricupera quest’ultimo per l’uomo nella fattispecie del profetismo veterotestamentario, che era stato<br />
contemporaneamente del singo<strong>lo</strong> e del popo<strong>lo</strong> eletto. I due soggetti venivano così salvati: salvati dall’universalismo cattolico nella<br />
Nazione tedesca, e dall’individualismo umanistico nel riconoscimento dell’eletto. L’uomo nuovo della Riforma non è colui che<br />
potenzia e innalza la propria natura in quanto strutturata ad immagine di Dio, ma colui che la umilia e svilisce perché tra Dio e uomo<br />
non esiste alcuna proporzione. Era un ricupero della interiorità agostiniana a scapito dell’esteriorità, ma un ricupero irrazionalistico, e<br />
per ciò <strong>lo</strong>ntano dal pensiero di Agostino.<br />
L’universalismo (cattolicesimo) della Chiesa romana, che aveva sempre difeso l’universalismo della ragione nell’armonico<br />
rapporto tra ragione e fede, diviene in Lutero universalismo del sacerdozio dei credenti (‘sacerdozio universale’), benché il principio<br />
su cui poggia sia la coscienza del singo<strong>lo</strong>, la cui elezione da parte di Dio è attestata dalla coscienza stessa che riposa tranquilla anche<br />
davanti alle proprie deviazioni morali, come riposa tranquilla quella calvinista davanti al riconoscimento da parte di Dio del successo<br />
economico. Chi non rientra in questo universalismo soggettivo resta fuori della Chiesa-Stato calvinista e dal sacerdozio universale<br />
luterano. L’ossimoro preromantico è evidente, e prelude al<strong>lo</strong> Stato etico e alla coscienza religiosa del romantico.<br />
In questo contesto protestante, la perdita dell’oggettività si compensa con l’assunzione da parte dell’individuo della sacralità<br />
religiosa: il sacerdozio universale sostituisce la ragione universale del credente; e in questo modo Lutero si avvia verso il credo<br />
romantico: l’individuo da sacerdote giustificatore di se sesso diverrà creatore di sé. Questo nel<strong>lo</strong> stesso tempo in cui si afferma il peso<br />
schiacciante del peccato e il servo arbitrio. In realtà, la mancanza di libertà davanti a Dio, è libertà dell’individuo dal peso del peccato,<br />
tanto che gli permetterà di ‘trattare’ con Dio fino a far<strong>lo</strong> scendere a livel<strong>lo</strong> umano e a condizionar<strong>lo</strong> secondo le proprie esigenze<br />
psico<strong>lo</strong>giche: è l’immanentizzazione di Dio, il Suo abbassamento a livel<strong>lo</strong> della psiche dell’uomo, che sarà esplicitamente teorizzata<br />
nell’Essenza del Cristianesimo di Feuerbach. Per questo grande romantico della religione tutto quel<strong>lo</strong> che di sublime l’umanità ha<br />
creduto di Dio non è che dell’umanità stessa; ed essa deve ormai appropriarsi di tutti questi suoi attributi per giungere alla comunità<br />
perfetta che nasce dall’amore.<br />
Potremmo parafrasare il detto umanistico di Leon Battista Alberti dicendo che per il Protestantesimo l’uomo è costruttore del<br />
destino di Dio, fino al suo certificato di morte firmato da Nietzsche.<br />
2. 3- L’irrazionalismo dell’età moderna<br />
La pittura fiamminga e quella tedesca precedono e accompagnano la Riforma di Lutero. La <strong>lo</strong>ro elevatezza estetica non elimina,<br />
anzi rafforza, l’irrazionalismo da cui si genera. La razionalità della forma è l’involucro in cui si annida il suo contrario, e la<br />
compostezza formale non è che l’esca per un ipnotismo di soggetto a soggetto che tende a svuotare <strong>lo</strong> spettatore delle proprie difese<br />
razionali. Un caso tra i tanti è l’Eva di Cranach, in cui l’insidiosità sensuale, col<strong>lo</strong>cata in un ambiente ‘storicizzato’, sostituisce<br />
l’insidiosità atemporale, e dunque anteriore alla sensualità, costringendo <strong>lo</strong> spettatore ad una compartecipazione attuale al peccato<br />
originale.<br />
Se l’irrazionale avesse tentato di entrare nell’arte come irrazionale (ovvero, il brutto come brutto), non avrebbe avuto accesso o<br />
non avrebbe avuto va<strong>lo</strong>re estetico (come del resto è accaduto); ma qui invece l’accesso è dato grazie al suo contrario: infatti non so<strong>lo</strong> è<br />
possibile che ciò avvenga, ma, ad esempio, possiamo ricordare come l’irrazionalismo sia insito nel<strong>lo</strong> stesso razionalismo di Cartesio o<br />
di Leibniz.<br />
I mostri di tanta architettura romanica erano passati a quella gotica, e qui si erano sublimati esteticamente, perdendo la <strong>lo</strong>ro<br />
grossolanità popolare; ma era una sublimazione che mostrava ancor meglio il sottofondo irrazionale da cui si era levata. È il<br />
particolarismo dell’architettura gotica che si riverbera nella pittura fiammingo-tedesca: il rapporto tra intero e parti è qui risolto ancora<br />
una volta più a favore delle parti che si impongono sull’intero e <strong>lo</strong> condizionano e quasi <strong>lo</strong> soffocano. Non è infatti quest’ultimo a<br />
determinare il senso e il va<strong>lo</strong>re delle prime, ma viceversa: ciò che attrae è l’esattezza dei particolari, la cura dei dettagli, l’importanza<br />
di quanto è secondario; ma tanta precisione dà un senso soffocante di oggettività che è un campanel<strong>lo</strong> d’allarme nei confronti del<br />
tentativo di negazione della razionalità dell’intero.<br />
L’oggettività qui non è una elevazione del reale all’universalità dell’ideale, ma l’abbassamento dell’ideale alla particolarità del<br />
reale perché l’ideale perda la propria trascendenza e si esaurisca in esso. Del resto, al di là della professione di oggettivismo della<br />
pittura nordica, riaffiora insopprimibile il volto vero del credo irrazionalistico nella fattispecie dei diavoli, dei mostri, delle<br />
deformazioni, del surrealismo delle situazioni, come avviene nelle tele di Grünewald, di Dürer, di Cranach, di Bosch, di Van der<br />
Goes, di Van Eyck, ecc. Ancora un caso tra i tanti: Le tentazioni di S. Antonio di Grünewald.<br />
Sul piano del<strong>lo</strong> stesso cromatismo, i co<strong>lo</strong>ri contrastanti, il buio di fondo denotano il prevalere, quasi l’autonomia, delle parti<br />
sull’intero: del diritto soggettivo su quel<strong>lo</strong> oggettivo; e in realtà i particolari emergono proprio dal buio di fondo, e da esso il diritto<br />
soggettivo di ciascuno. Più che di una pittura mistica, si tratta di una pittura ‘magica’, intendendo il termine nel senso di seduzione.<br />
Contro la comprensione razionale del classico si oppone la seduzione irrazionale del gotico, sia pure immerso in una dimensione<br />
umanistica: l’opera d’arte non ha più per ciò un va<strong>lo</strong>re ideale, ma un carattere ipnotico, contro il quale occorre fare forza per non<br />
subir<strong>lo</strong>, ma so<strong>lo</strong> apprezzar<strong>lo</strong> esteticamente.<br />
Il vo<strong>lo</strong>ntarismo di Duns Scoto e di Ockham, il nichilismo teo<strong>lo</strong>gico di Maestro Eckart, la Devotio moderna, come l’arte, sono tutti<br />
movimenti che si col<strong>lo</strong>cano nel solco di un misticismo che ha abbandonato il sostegno strutturale della razionalità dell’intelletto, per<br />
librarsi tra l’oggettività determinata del dato di fede e la soggettività indeterminata dell’emotività che poggia sull’immaginazione. Il<br />
misticismo nordico si va configurando come ‘testimonianza’ personale di stati d’animo che surrogano la devozione popolare per i<br />
santi, che l’avvento della Riforma spazza via.<br />
La libera interpretazione della Bibbia si svincola dal<strong>lo</strong> stesso testo sacro alla ricerca di una parola interiore che suggestioni<br />
l’anima. L’anima trova se stessa nella propria immagine che essa proietta a se stessa: è quella che potremmo definire l’immagine nel<strong>lo</strong><br />
<strong>specchio</strong> senza un oggetto che non sia <strong>lo</strong> <strong>specchio</strong> stesso: <strong>specchio</strong> che crede di possedere in sé l’immagine di sé, ossimoro psichico.<br />
Il rischio della mistica luterana è quel<strong>lo</strong> di essere l’eco del principio di autorità senza la Persona divina sulla quale si fonda. Il passo<br />
tra mistica e magia si fa in questo modo breve, tanto più se si accostano estrinsecamente divino e umano, e cioè non dal punto di vista<br />
dell’intelletto, ma da quel<strong>lo</strong> dell’immaginazione: il principio di autorità diventa tauto<strong>lo</strong>gico, diventa potere garantito da se stesso; il<br />
8
principio di ragione tutt’al più diventa uno strumento, spesso ingombrante. La ‘parola arcaica’, essenza della cosa in grado di<br />
evocarla, tende a trasformarsi in essenza del soggetto, capace di evocare qualsiasi realtà in quanto ogni realtà è parte dell’essenza del<br />
soggetto.<br />
Così, mentre la razionalità di Cartesio poggia sull’arbitrio di Dio che l’ha voluta stabilire, la razionalità di Leibniz diviene un<br />
‘flusso’ interno alle monadi che, mosso da un’armonia prestabilita, va necessariamente verso un meglio che si realizza attraverso<br />
momenti negativi e irrazionali, in modo ana<strong>lo</strong>go a quanto sosterrà il sistema di Hegel.<br />
Magia, stregoneria, alchimia, astro<strong>lo</strong>gia, ecc., saranno tutti ingredienti del Romanticismo tedesco nel magnetismo di Schelling,<br />
nell’Idealismo magico di Novalis, nell’ipnotismo di Hoffmann, ecc., come anche nel precedente fi<strong>lo</strong>ne letterario del romanzo gotico, e<br />
prima nella pansofia di Comenio, nell’esoterismo dei Rosa-Croce, nelle speculazioni mistiche di Böhme, di Hamann, ecc. 28<br />
Dopo la maledizione medievale del mondo, assistiamo all’esaltazione del mondo, che diviene il soggetto che tende a sostituirsi ad<br />
un Dio trascendente che sembra sempre più sfumare nell’indeterminato e nel nulla. Per un verso ci si emancipa in termini ana<strong>lo</strong>ghi a<br />
quelli dell’Umanesimo, per un altro ci si subordina alla Natura che ora, non più maledetta, è venerata per l’animazione che possiede, e<br />
più ancora indagata per la potenza che nasconde ed è a portata di mano, e non come accade per l’inarrivabile e personale potenza di<br />
Dio.<br />
Magia, alchimia, astro<strong>lo</strong>gia, ecc., nella <strong>lo</strong>ro originaria intenzione, per ciò non sono affatto gli inizi della scienza moderna, ma una<br />
deviazione della scienza antica, poiché rappresentano un tentativo di condizionamento del principio di autorità dell’universo da parte<br />
del principio di autorità dell’uomo: è la ricerca della subordinazione del Macrocosmo al Microcosmo in termini di ‘poteri’. Non siamo<br />
davanti ad una speculazione scientifica, ma ad una ‘manipolazione’ utilitaristica che non ha i caratteri dell’universalità (validità per<br />
tutti gli uomini), ma quelli opposti dell’appropriazione personale. La figura del mago presto si precisa dialetticamente nella figura<br />
letteraria di Faust (Spies, Mar<strong>lo</strong>w, Goethe, Gounod, Boito, Mann, per citare i casi più noti), la cui tensione vo<strong>lo</strong>ntaristica <strong>lo</strong> porta a<br />
scegliere Mefistofele tra Dio e il suo ‘contrario’; e nel<strong>lo</strong> slancio di tutto possedere perde se stesso. In questo modo, la potenza del<br />
mago di dominare rivela il suo prezzo dialettico: la necessità di lasciasi dominare. Sigfrido, Parsifal cedono il passo agli eroi dell’era<br />
moderna: Faust, Don Giovanni, Cagliostro, Sad, ecc.<br />
3. Il Sei e il Settecento europei<br />
3. 1- Retorica e Barocco<br />
Mentre ciò avveniva, e anche prima che avvenisse, si compiva la parabola culturale dall’Umanesimo al Barocco, la trasformazione<br />
del cerchio in ellisse mediante <strong>lo</strong> sdoppiamento del centro in due fuochi e il <strong>lo</strong>ro al<strong>lo</strong>ntanamento: pur rimanendo all’interno del<br />
prevalere indiscusso della forma, del principio di ragione e del diritto oggettivo, comincia il progressivo declino dell’Umanesimo<br />
nelle sue varie manifestazioni. La geometrizzazione del<strong>lo</strong> spazio operata da Piero della Francesca in pittura si va mutando<br />
nell’illusione ottica di spazi non ‘euclidei’, in cui fa la sua comparsa visiva il mirifico: non è so<strong>lo</strong> del poeta “il fin la meraviglia”, ma<br />
di tutte le espressioni della nuova civiltà, dalla pittura al teatro, dalla poesia alla musica, dalla moda alla mistica.<br />
La retorica domina ogni ambito della vita, da quella individuale e interiore a quella sociale e di ‘parata’: la sua norma è l’abnorme,<br />
e cioè l’iperbole, l’ellisse, e, come abbiamo detto, l’ossimoro (“Sudate, o fuochi, a preparar metalli”). 29 La vita interiore si proietta nel<br />
teatro dell’esteriorità, mentre l’esteriorità invade l’intimo dell’individuo creando la vacuità propria di ciò che non è spirito. Abbiamo<br />
in questo modo un Barocco della forma, che si estenua nel sentimentalismo rococò, che si manifesta nel movimento dei <strong>Li</strong>bertini e<br />
che trionfa nella letteratura erotica del Settecento (Baffo, Sad, ecc.).<br />
Dopo la lunga parentesi medievale, durante la quale era stata una semplice casella della classificazione delle Arti, la retorica torna<br />
ad accendere gli interessi degli studiosi, e ricompaiono sempre più frequenti i trattati su di essa. È il riconoscimento del fascino della<br />
parola che sa persuadere per forza propria (ars bene dicendi), diversa dalla parola poetica e non necessariamente ispirata, e dunque<br />
artificiale, e diversa dalla parola razionale (ars vere dicendi). A differenza della poesia, che ha fine in se stessa, la retorica ha una<br />
funzione strumentale, e l’oratoria greca e latina ne avevano mostrato la vocazione politica e forense.<br />
Ma proprio per questo essa non aveva avuto spazio nel Medio Evo, in cui Chiesa e Impero ne annullavano la funzione: il principio<br />
di autorità della Chiesa nell’ambito del sovrannaturale e il principio di ragione dell’Impero nell’ambito naturale ne toglievano<br />
l’esigenza alla cultura del tempo. 30 Ora, il rinnovo culturale all’insegna dell’homo faber fortunae suae, sulla scia del ricupero degli<br />
antichi, genera l’esigenza della retorica tanto quanto quella della poetica; e se inizialmente il prevalere di quest’ultima è indiscutibile,<br />
nel tempo si fa strada la prima, fino a sopravanzarla. Tuttavia, non trovando <strong>lo</strong> spazio politico né quel<strong>lo</strong> forense in cui manifestarsi, la<br />
retorica da esteriore si fa interiore, da supporto di manifestazioni dell’uomo si fa dimensione della sua interiorità; penetra nella poesia<br />
e la svuota, così pure nell’arte e nella musica, così nel costume (Il Cortegiano e Il galateo), e così nelle manifestazione religiose e<br />
nelle caste sociali (Aristocrazia). La retorica cerca infatti di soppiantare la poesia in quanto intuizione singolare, mostrando che anche<br />
essa ha un fine in se stessa e non è necessariamente subordinata a qualcosa: questo fine è il mirifico. L’ispirazione si trasforma in<br />
acutezze, concettismi, marinismi, gongorismi, si trasforma in mirabile, sba<strong>lo</strong>rditivo, estraniante, in estatico, ipnotico, sconcertante.<br />
Ma il Barocco non è soltanto quel<strong>lo</strong> della forma: vi è accanto ad esso e contrapposto ad esso un Barocco del contenuto, che qui ci<br />
interessa maggiormente, di cui non è espressione l’Aristocrazia, ma la Borghesia, come sono diverse le aree della <strong>lo</strong>ro diffusione:<br />
Francia, Italia e Spagna per il Barocco della forma; Inghilterra, Olanda e Germania per il Barocco del contenuto.<br />
28<br />
È chiaro che si sta cercando un denominatore comune, non le <strong>lo</strong>ro differenze. Scrive Antoni: «I teosofi, chiliasti, alchimisti del pensiero pietistico, quasi a<br />
redimersi dall’arbitrio delle <strong>lo</strong>ro speculazioni, criticarono il principio di identità, di causalità e di ragion sufficiente, che trovavano sterili e vuoti dinanzi al gioco delle<br />
forze naturali in contrasto e al<strong>lo</strong> sviluppo genetico delle totalità viventi.» Car<strong>lo</strong> Antoni, La <strong>lo</strong>tta contro la ragione, Sansoni, 1973, p. 172. Sono naturalmente, quelle<br />
elencate, posizioni desunte dal<strong>lo</strong> scetticismo di Hume, ma assunte anche prima a partire almeno dalla tarda Scolastica.<br />
29<br />
«La figura retorica più consona al barocco non è l’iperbole o l’ellissi, bensì l’ossimoro, che riassume una contraddizione fra due immagini o concetti, o anche fra<br />
l’immagine in sé ed il concetto in sé, cioè fra la realtà terrestre e la sua spiritualizzazione in un che di ultraterrestre.» Mittner, Dai primordi pagani all’età barocca, p.<br />
732.<br />
30<br />
Qui il principio di ragione è considerato idealmente, anche se si deve ricordare il ricupero del diritto romano ai tempi di Federico Barbarossa, e l’oratoria politica<br />
di Arnaldo da Brescia e di Cola di Rienzi. Non sarà poi certamente mancata una retorica del pulpito.<br />
9
La prima grande manifestazione del Barocco del contenuto esp<strong>lo</strong>de nel mondo del teatro di Shakespeare, in cui l’umanità tocca il<br />
culmine del fallimento dell’Umanesimo: l’homo faber fortunae suae si trasforma nell’homo hominis lupus, manifestando il bellum<br />
omnium contra omnes paventato da Hobbes. L’uomo di Shakespeare mostra il fallimento del proprio progetto sia interiore sia<br />
esteriore, e mette a nudo la tragedia del diritto soggettivo: egli tende a distruggere non so<strong>lo</strong> tutto attorno a sé nel tentativo di ‘costruire<br />
la propria fortuna’, ma anche se stesso, se questo obbiettivo gli sfugge. Tra queste possibilità si col<strong>lo</strong>ca colui che, per essere<br />
personalità superiore, ma immerso in un contesto di egoismi, resta paralizzato tra ‘essere e non essere’.<br />
La manifestazione della natura umana nel<strong>lo</strong> scontro tra singoli individui non è soltanto una geniale poetica del drammaturgo: essa<br />
risponde alla realtà dell’animo umano derivata da una concezione di autonomia rispetto a Dio, che egli analizza e proietta con una<br />
lampada magica sulla scena del “G<strong>lo</strong>bo”. Ana<strong>lo</strong>ga è del resto la lacerazione che si compie nel Barocco della forma in Spagna, dove<br />
l’oggettività della realtà tende a trasformarsi nell’illusione e nell’allucinazione (La vida es sueño, Don Chisciotte della Mancia). In<br />
entrambe le specie di Barocco troviamo l’amplificazione retorica, il distanziarsi dei due fuochi dell’ellisse, l’elasticità dell’oggetto e<br />
del soggetto, della ragione e dell’immaginazione, quando ci si al<strong>lo</strong>ntana dal parametro trascendente dell’essere, e dunque dei suoi<br />
trascendentali. 31<br />
Resta ad ogni modo il dualismo divergente del Barocco: aristocratico-formale l’uno, borghese-contenutistico l’altro; il primo,<br />
volto a trasferire nell’oggettività esteriore il peso del principio di ragione che la coscienza non regge; il secondo, volto a caricare la<br />
coscienza del principio di autorità che rifiuta sempre più di riconoscere estrinseco a sé. È l’avanzata rivoluzionaria della Borghesia<br />
che nel seco<strong>lo</strong> dei lumi riceve il proprio riconoscimento giuridico nel Criticismo kantiano.<br />
3. 2- Il ‘viaggio in Italia’ e la riscoperta dell’antico<br />
Il Settecento è il seco<strong>lo</strong> dei viaggi, dei giornali di viaggio, delle lettere di viaggiatori, delle gazzette, della letteratura esotica, dei<br />
trattati sulla diversità delle tradizioni culturali, delle ‘cineserie’, ecc; e all’interno del ‘grand tour’ si impone il ‘viaggio in Italia’: negli<br />
anni ‘30-40 iniziano gli scavi di Paestum, Ercolano e Pompei; a metà del seco<strong>lo</strong> Mengs giunge a Roma, poco dopo vi arriva<br />
Winckelmann.<br />
Abbiamo la prima descrizione di Paestum nel Trattato della Lucania di D. G. Antonini; le prime pubblicazioni sulle opere d’arte<br />
di Ercolano; Mengs pubblica i Pensieri sulla bellezza e sul buon gusto nella pittura; 32 Lessing dà alle stampe il Laocoonte o dei limiti<br />
della pittura e della poesia; a Roma appaiono i volumi dei Monumenti antichi inediti di Winckelmann. Füssli scende in Italia, e così<br />
David, Tischbein e poi un gran numero di artisti tedeschi e francesi. Il centro di attrazione è Roma: a Roma David dipinge il<br />
Giuramento degli Orazi; a Roma nascono le prime riviste d’arte. Classici sono i viaggi di Lessing, Herder e Goethe, come in seguito<br />
<strong>lo</strong> saranno quelli di tanti altri. Madame de Stael pubblicherà nel 1807 Corinna o dell’Italia, mentre Friedrich Overbeck qualche anno<br />
dopo dipingerà Italia e Germania. In questo fervore per la riscoperta dell’Italia si col<strong>lo</strong>ca la riscoperta dell’antico, nelle due facce<br />
romana e greca. 33<br />
Il primo contributo storico e teoretico all’estetica antica è dato dagli scritti di Winckelmann, che egli sviluppa sulla base delle<br />
teorie del gusto di Shaftesbury. Se è vero che Winckelmann resta fortemente legato alle estetiche preromantiche che pongono il va<strong>lo</strong>re<br />
dell’arte nel rispetto dei trascendentali dell’essere, 34 pure si sente in lui qualcosa di nuovo: «Il carattere della verità è dato dal<br />
sentimento», afferma; e ancora: carattere dell’arte greca «è una nobile semplicità e una quieta grandezza [...]. Come la profondità del<br />
mare che resta sempre immobile per quanto agitata sia la superficie.» 35 Viene individuata da lui una tensione nell’arte greca, non<br />
necessariamente romantica, che è però sentita in un contesto culturale segnato, soprattutto in Germania, dall’attesa di un<br />
rinnovamento, di una ‘riscoperta’, di un ‘ritrovamento’ di qualcosa o di sé.<br />
Della grande opera scultorea del Laocoonte egli scrive che «l’artista doveva sentire nel suo intimo la potenza spirituale che egli<br />
trasmise nel suo marmo. In Grecia l’artista e il fi<strong>lo</strong>sofo appaiono uniti in una stessa persona.» 36 Si tratta di una considerazione molto<br />
importante, poiché mostra come Winckelmann individui nel pensiero greco, nelle ‘idee platoniche’, il model<strong>lo</strong> a cui l’artista<br />
guardava; e come la stessa storia dell’arte greca si intrecci al<strong>lo</strong> sforzo speculativo della fi<strong>lo</strong>sofia. Anzi, egli sostiene che<br />
«L’impossibilità di definir la bellezza nasce dall’esser ella una cosa superiore al nostro intelletto»; 37 e non parla di ‘cosa diversa<br />
dall’intelletto’, poiché questa affermazione <strong>lo</strong> avrebbe condotto a fare della scultura antica un’arte dell’immaginazione e dunque<br />
dell’arbitrio dell’artista. Egli piuttosto scrive che «Il pennel<strong>lo</strong> maneggiato dall’artista deve essere intinto nell’intelletto... Bisogna che<br />
l’artista dia più da pensare di quanto fa vedere all’occhio.» 38 È un giudizio che risponde alla concezione greca più elevata (Platone), la<br />
quale considera il bel<strong>lo</strong> né inferiore né identico all’Essere intellegibile, ma diverso e superiore: inafferrabile per ciò al<strong>lo</strong> stesso<br />
intelletto.<br />
La giustificazione che ne dà è del resto tipicamente platonica: «Questa frequente osservazione della natura spinse gli artisti greci<br />
ad ulteriori ricerche: essi cominciarono a formarsi certe idee generali della bellezza, tanto delle singole parti quanto delle intere<br />
proporzioni dei corpi, idee che trascendevano la natura stessa; la <strong>lo</strong>ro immagine si riferiva ad una natura spirituale, concepita so<strong>lo</strong><br />
intellettualmente.» 39<br />
31<br />
Come il mirifico soppianta il bel<strong>lo</strong> nel Barocco della forma, così il patetico sostituisce il bene in quel<strong>lo</strong> del contenuto, anche se il patetico è successivo a<br />
Shakespeare.<br />
32<br />
Ricordiamo l’intenzione di Mengs di trasformare la Germania in una nuova Grecia.<br />
33<br />
Naturalmente vi è pure una riscoperta di Raffael<strong>lo</strong> e della pittura ‘preraffaellita’. L’interesse per Raffael<strong>lo</strong> in Germania è testimoniato soprattutto dagli scritti di<br />
Wackenroder.<br />
34<br />
Anche Shaftesbury rimane ancorato all’impostazione tradizionale, ma con una accentuazione ‘sentimentale’ che in Winckelmann è più sfumata. Tuttavia,<br />
quest’ultimo scrive: «Ma poiché ero pienamente convinto della massima che il buono e il bel<strong>lo</strong> non sono che una sola cosa e che una sola via conduce ad essi, mentre al<br />
cattivo ed al brutto si giunge per molte vie, tentai di vagliare e confermare le mie osservazioni mediante una comprensione sistematica.» Storia dell’arte antica [1764],<br />
in Johann Joachin Winckelmann, Il bel<strong>lo</strong> nell’arte. Scritti sull’arte antica, Einaudi, 1973, p. 110.<br />
35<br />
Pensieri sull’imitazione dell’arte greca nella pittura e nella scultura [1755], Winckelmann, Il bel<strong>lo</strong> nell’arte, p. 16.<br />
36<br />
Pensieri sull’imitazione dell’arte greca nella pittura e nella scultura, Winckelmann, Il bel<strong>lo</strong> nell’arte, p. 30.<br />
37<br />
Monumenti antichi inediti [1767], Winckelmann, Il bel<strong>lo</strong> nell’arte, p. 143.<br />
38<br />
Pensieri sull’imitazione dell’arte greca nella pittura e nella scultura, Winckelmann, Il bel<strong>lo</strong> nell’arte, p. 51.<br />
39<br />
Pensieri sull’imitazione dell’arte greca nella pittura e nella scultura, Winckelmann, Il bel<strong>lo</strong> nell’arte, p. 18.<br />
10
Questa classicità ritrovata, Winckelmann la sente già con spirito preromantico: «La linea che descrive il bel<strong>lo</strong> è ellittica, e in essa è<br />
contenuta la semplicità assieme ad un continuo mutamento.» 40 Sta qui la tensione che affascina il romantico, la tensione che corre tra<br />
l’oggetto rappresentato e il soggetto che <strong>lo</strong> contempla: «un continuo mutamento» che non lascia statico <strong>lo</strong> spettatore, ma <strong>lo</strong> sollecita<br />
all’entusiasmo, al titanismo (il Laocoonte, il Busto del Tevere, l’Apol<strong>lo</strong> del Belvedere, ecc.). Su questa riscoperta artistica si innesta<br />
quella letteraria e in genere quella culturale: nasce il culto dell’antico, già tematizzato nella querelle des anciens et des moders,<br />
sostenuto da Winckelmann, da Goethe, da Schiller, da Hölderlin, ecc.<br />
Benché il Neoclassicismo in generale non rappresenti l’espressione più alta del Romanticismo, in cui si inserisce e nel<strong>lo</strong> stesso<br />
tempo ad esso ideo<strong>lo</strong>gicamente si oppone, 41 tuttavia Hölderlin si presenta come un tale caso di neoclassicismo romantico da<br />
costringerci a prender<strong>lo</strong>, come vedremo, quale figura emblematica di tutto il Romanticismo tedesco. Altre grandi espressioni del<br />
Neoclassicismo anche non germanico non giungono mai alla identificazione a cui giunge o tende di giungere, anche<br />
psico<strong>lo</strong>gicamente, Hölderlin con la Grecia, in cui vede la ‘patria’ culturale ed esistenziale più vera, più piena, l’unica possibile: e<br />
mentre Iperione, il protagonista dell’omonimo romanzo di Hölderlin, abbandona la Grecia per continuare la propria missione in<br />
Germania, il poeta è pronto ad abbandonare la Germania per andare in Grecia:<br />
[...] un giorno, isole ionie, accoglierete<br />
forse un poeta senza focolare,<br />
perché deve migrare esule sempre<br />
di gente in gente, e la libera terra<br />
bisogna che diventi la sua patria 42 .<br />
3. 3- Illuminismo e misticismo: Rousseau e Kant, Lessing e Hamann<br />
Il ‘seco<strong>lo</strong> dei lumi’ contiene tante ombre e tante zone buie da far dubitare che questi ‘lumi’ abbiano prodotto veramente tanta luce<br />
come si afferma. Ad ogni modo, «L’illuminismo, scrive Kant, è l’uscita dell’uomo dal<strong>lo</strong> stato di minorità che egli deve imputare a se<br />
stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro.» 43 Questo è senz’altro vero per tutto quel<strong>lo</strong><br />
che di negativo si era andato sedimentando durante il processo storico di secoli, sintetizzato nell’arbitrio egoistico degli uomini di<br />
potere, a più livelli, nell’ambito della Chiesa e delle istituzioni politiche e amministrative; ma è una illusione prospettica se guardiamo<br />
invece alla condanna di alcuni principi e alla esaltazione di altri. In modo specifico, uno di essi sta al centro del nostro discorso,<br />
considerato da diversi punti di vista e derivato dalla concezione umanistica: l’assolutizzazione dell’uomo in sé e nella sua ragione.<br />
All’interno della querelle des modernes et des anciens, in cui si pongono i parametri temporali della contrapposizione, si<br />
inseriscono due cunei che scardinano tali parametri, e fanno sì che l’atemporalità che da quel momento si intende porre nel tempo sarà<br />
l’elemento costante, dopo Vico, di ogni concezione della storia dei Lessing, dei Condorcet, degli Herder, degli Idealisti e dei <strong>lo</strong>ro<br />
successori. I due cunei, che vengono inseriti da due grandissime personalità, quali Rousseau e Kant, sono la ‘buona natura’ umana e la<br />
‘rivoluzione copernicana’. L’ellisse dell’Illuminismo si determina e ruota attorno a questi due fuochi.<br />
I condizionamenti di cui parla Kant erano già stati individuati da Rousseau nei primi passi dell’umanità, poiché «Tutto è bene<br />
uscendo dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo»; 44 e anche: «Il primo che, avendo cintato un terreno,<br />
pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti<br />
delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i piuoli o<br />
colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di<br />
tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti.”» 45<br />
Il ‘mito del buon selvaggio’, che ha le sue premesse nella scoperta dell’America, cancella con Rousseau non so<strong>lo</strong> quanto di<br />
negativo giace nella tradizione, ma tutta la storia, e l’uomo dovrebbe ora tentare l’impossibile gesto di ricominciare da capo il suo<br />
percorso storico (anticipazione dell’autogenesi del romantico), anzi dovrebbe azzerare per sempre la storia (anticipazione<br />
dell’azzeramento dialettico dell’antitesi nella sintesi di Marx).<br />
Ma la ‘buona natura’ umana permette a Rousseau di teorizzare la ‘buona natura’ politica mediante la concezione della ‘vo<strong>lo</strong>ntà<br />
generale’, che è una naturalizzazione della concezione religiosa del<strong>lo</strong> Stato calvinista, in cui i diritti di Dio si sono trasformati nei<br />
diritti del cittadino, che, dialetticamente, li riceve dal<strong>lo</strong> Stato, il quale a sua volta li aveva ricevuti dall’alienazione fatta<br />
dall’individuo. 46 Rousseau pone l’identità dialettica dei due estremi che sono la natura, quale punto di partenza, e <strong>lo</strong> Stato del<br />
‘contratto sociale’, quale punto d’arrivo: essi sono già la tesi e la sintesi di Hegel e di Marx. Il diritto soggettivo passava dalla<br />
originaria sede individuale a quella finale del<strong>lo</strong> Stato assoluto, nel quale si sarebbero attuati i principi di libertà, uguaglianza,<br />
fraternità.<br />
Questa concezione si reggeva su una forma di coscienza che potremmo chiamare ‘coscienza-sentimento’, mancante perciò di un<br />
fondamento propriamente razionale: Kant, con la sua ‘rivoluzione’, la trasforma in una ‘coscienza-ragione’. Sappiamo infatti che, se<br />
Kant si risvegliò dal sonno dogmatico per la lettura del Trattato sulla natura umana di Hume, l’influsso delle opere del Ginevrino non<br />
40<br />
Brevi studi sull’arte antica [1756-1759], Winckelmann, Il bel<strong>lo</strong> nell’arte, p. 59.<br />
41<br />
Vedi in Italia la polemica tra classicisti e romantici.<br />
42<br />
Il Meno [1799?], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, a cura di Enzo Mandruzzato, Adelphi, 1993, p. 283.<br />
43<br />
Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? in Immanuel Kant, Scritti politici e della fi<strong>lo</strong>sofia della storia e del diritto, UTET, 1978, p. 141. Con grande<br />
precisione Kant pone la distinzione tra principio di ragione e principio di autorità. Tuttavia, in sede teoretica, il Criticismo è propriamente la negazione della fondazione<br />
del principio di ragione, poiché esso è assoluto so<strong>lo</strong> se trascende la ragione stessa, non so<strong>lo</strong> se la fonda.<br />
44<br />
J. J Rousseau, Emilio, Sansoni, 1963, p. 5.<br />
45<br />
Rousseau, Origine della disuguaglianza, p. 72. Non ostante «tutto degenera fra le mani dell’uomo», Rousseau cancella il dogma cattolico del peccato originale,<br />
indicando nell’atto storico della manifestazione dell’egoismo l’origine del male; male che, fatto dall’uomo all’uomo e non a Dio, può essere tolto, secondo la<br />
concezione illuministica, dall’uomo stesso, che, in una società in cui ognuno aliena i propri diritti, tutti si ritrovano uguali e dunque liberi dal male.<br />
46<br />
Vedi il passaggio dall’alienazione totale dei diritti individuali (salvo quel<strong>lo</strong> della vita) affermata da Hobbes a quella parziale proposta da Locke. In Rousseau<br />
abbiamo una premessa al Romanticismo nella fattispecie dell’anelito del romantico di far coincidere l’alienazione della coscienza dell’infinito dentro il suo essere e il<br />
ritrovamento di questa coscienza nel proprio popo<strong>lo</strong>, nella propria patria.<br />
11
furono meno essenziali all’intuizione e all’elaborazione del Criticismo. Ma Kant non operò una ‘rivoluzione copernicana’, bensì una<br />
‘rivoluzione tolemaica’, con una dissoluzione dell’oggetto nel noumeno, ed una assolutizzazione del soggetto quale legislatore<br />
universale. 47 Le tre Critiche kantiane operano il capovolgimento teoretico della concezione del mondo dalla oggettività alla<br />
soggettività: l’io, divenendo il cerchio magico dal quale non v’è possibilità di uscita, si scopre legislatore universale di «ciò che è in<br />
quanto è, e di ciò che non è in quanto non è», secondo l’antica formula sofistica. Kant non crede però di aver chiuso l’io nel cerchio<br />
della monade leibniziana, e tuttavia Fichte dovrà dedurre quasi con una illazione, attraverso il non io del corpo, l’esistenza degli altri<br />
io.<br />
Ad ogni modo, conoscenza, morale ed estetica (come del resto ogni altro ambito derivato) trovano nella negazione della metafisica<br />
operata dal Criticismo la strada sgombra per l’esilio dei trascendentali dell’essere. Se la prima grande virata Kant la esegue con il<br />
porre spazio e tempo quali forme dell’intuizione sensibile, la seconda e apparentemente meno importante è quella data dal<br />
capovolgimento di posizione e di funzione dell’intelletto e della ragione: contro la tradizione di derivazione platonica, non è più la<br />
ragione ad essere prossima ai sensi, ma l’intelletto, che fa ora da tramite tra sensibilità e ragione, così che la ragione diviene la<br />
sovrana fra le facoltà: l’intelletto perde la funzione, che aveva avuto fino a quel momento (salvo che nell’Empirismo), di punto fermo<br />
o perché in possesso dell’oggetto assoluto (ens primum et primum cognitum) o perché in esso aveva luogo l’astrazione aristotelica. Il<br />
misconoscimento di tale possesso da parte dell’intelletto provoca la caduta dell’oggettività onto<strong>lo</strong>gica, e dà luogo alla possibilità della<br />
ragione di passare dalla <strong>lo</strong>gica tradizionale alla dialettica idealistica mediante il collegamento alle categorie kantiane. Tutta la<br />
conoscenza si attua all’interno dell’io, di cui il noumeno non è che un limite problematico che l’Idealismo si affretterà a togliere. La<br />
realtà ‘sensibile’ è per ciò tutta ‘mentale’: non vi è nulla fuori dell’io. Tutto il mondo sensibile che sta apparentemente davanti<br />
all’individuo in realtà si trova dentro di lui, in questa nuova ‘caverna platonica’, quasi fosse <strong>lo</strong> scenario del sogno, aprendo la via<br />
all’immaginazione romantica.<br />
Nel passaggio dalla Critica della ragion pura alla Critica della ragion pratica, e nel nesso tra <strong>lo</strong>ro che Kant individua, si fonda la<br />
legittimazione della morale sulla base della possibilità della libertà intrinseca ai rapporti tra le facoltà dell’io, che toglie ogni possibile<br />
deterministica ‘armonia prestabilita’ e ogni possibile rapporto con una provvidenza divina, e insedia l’io stesso nella libertà. 48 L’io è<br />
ormai pronto per il passaggio all’Idealismo di Fichte, di Schelling, di Hegel, di Schopenhauer.<br />
La terza Critica apre al Romanticismo le porte del sublime che, nel suo passaggio dialettico dal momento negativo a quel<strong>lo</strong><br />
positivo, 49 ne apre altre due: la porta della legittimazione in arte di tutte le forme di negatività (brutto, orrido, perverso, ecc.) e quella<br />
della superiorità estetica dell’artista rispetto alla sua stessa opera: egli stesso è la vera opera d’arte, il capolavoro che spesso non viene<br />
compreso.<br />
La grande accoglienza fatta alla Critica del giudizio, considerata superiore rispetto alle altre due, testimonia l’aspettativa tedesca<br />
di una fondazione estetica non più sulla imitazione dei classici e della natura esteriore, né sulle regole poste dai trascendentali<br />
dell’essere, ma sulla soggettività in quanto tale: sulla soggettività in sé o ‘vuota’, come teorizzerà Hegel di lì a poco. 50 La sensibilità<br />
del poeta è il parametro assoluto della poesia, che diviene l’aspirazione sia all’infinito per l’indeterminatezza della soggettività da cui<br />
nasce, sia all’unità nei tentativi perseguiti di una sinergia delle forme artistiche.<br />
Con Kant i trascendentali dell’essere passano dalla ‘elasticità’ imposta <strong>lo</strong>ro dal Barocco alla indifferenziazione di specificità tra<br />
<strong>lo</strong>ro e dei <strong>lo</strong>ro contrari: il <strong>lo</strong>ro legislatore è infatti l’io, un legislatore che, come abbiamo detto, è misura delle ‘cose che sono e di<br />
quelle che non sono’. Di contro, nascono i ‘trascendentali kantiani’ (tempo e spazio, quali forme della sensibilità), che mostreranno la<br />
propria subordinazione al soggetto, come del resto è di tutto ciò che è nell’io, nel tentativo del romantico di arrestare dentro di sé il<br />
tempo nell’eterno, e riempire <strong>lo</strong> spazio dei propri sogni. Presto nascerà in questo modo l’Idealismo magico di Novalis, e la concezione<br />
che tutto ciò che esiste ha la propria esistenza per l’originaria capacità dell’immaginazione del poeta di proiettare il mondo fuori di sé,<br />
e cioè la propria immagine, che il poeta troverà poi dietro il ve<strong>lo</strong> di Iside.<br />
L’‘immaginazione produttiva’ di Kant diviene la facoltà che deve poter permettere la reale produzione di tutte le forme di<br />
esistenza, e dunque anche trasformare la stessa esistenza a piacimento o almeno secondo le esigenze intrinseche alla morale. Siamo<br />
nella dialettica tra finito e infinito, tra forma e contenuto, ecc., di cui abbiamo parlato all’inizio del nostro discorso, dialettica che<br />
cerca di rovesciare i termini dei rapporti.<br />
Dopo Kant, l’Illuminismo tedesco ha in Lessing il suo massimo rappresentante: potremmo dire che egli rappresenti il momento di<br />
rottura della cultura tedesca con il Pietismo. Alla introspezione e al rifiuto del mondo, ai ‘sentimenti ineffabili’ del Pietismo Lessing<br />
contrappone l’apertura al mondo per la conoscenza di sé, anzi <strong>lo</strong> spirito faustiano di ricerca come ricerca della verità. È emblematico<br />
che la sua <strong>lo</strong>tta culturale e spirituale ruoti attorno a quella rappresentazione del mondo che è il teatro. 51 Ma questo teatro nel teatro non<br />
è senza una vena preromantica, sia in sé, ma sia anche perché fa parte di una concezione storicistica del cammino del<strong>lo</strong> spirito umano<br />
che prelude all’Idealismo. Addirittura, il progresso di cui parla sta all’interno di una concezione misticheggiante in cui la<br />
metempsicosi non sembra essere un elemento secondario: «94. [...] Ma perché ogni uomo non potrebbe essere esistito più di una volta<br />
47<br />
Fichte vide nel Criticismo una presentazione nascosta dell’Idealismo, che se non è storicamente vera è però teoreticamente fondata.<br />
48<br />
Il senso più profondo della libertà kantiana sarà messo in luce da Fichte, che, nel ricupero della metafisica, la ricondurrà ad un nuovo determinismo morale, ora<br />
divenuto cosmico e provvidenziale.<br />
49<br />
Il momento iniziale, negativo in quanto il soggetto subisce nella contemplazione di un oggetto che <strong>lo</strong> sovrasta, si muta in positivo nella superiorità<br />
incondizionata che il soggetto riconosce a se stesso: è questa l’apertura alla possibilità del romantico di supporre che l’oggetto, che egli ha creato per un fine morale, è<br />
appunto <strong>lo</strong> strumento che <strong>lo</strong> spinge a sempre superiori livelli di coscienza, sia dal punto di vista della ‘grandezza’ (sublime matematico) sia dal punto di vista della<br />
‘potenza’ (sublime dinamico).<br />
50<br />
Sarà la musica, prediletta tra le arti, a esprimere per Hegel la soggettività in se stessa, priva di determinazioni e limitazioni, sulla scia di Wackenroder.<br />
51<br />
La coscienza di Lessing di dover operare per la cultura tedesca mediante un teatro nuovo, contro quelli delle infinite Corti soggette alla moda francese, per una<br />
rinascita della coscienza tedesca, è chiaramente espressa in una pagina della Drammaturgia tedesca: «Oh l’idea generosa di creare per i tedeschi un teatro nazionale,<br />
quando noi tedeschi non siamo ancora una nazione! E non par<strong>lo</strong> nemmeno di costituzione politica, ma semplicemente di carattere morale, il quale, vien quasi da<br />
concludere, parrebbe consistere appunto nel non volerne affatto». Hamburgische Dramaturgie, n. CI-CIV: R. VI, p. 509, riportato da Nicolao Merker, L’illuminismo<br />
tedesco, Laterza, 1974, p. 64. Vedi anche l’amara ironia di Herder: «Da noi invece, grazie a Dio, si è estinto ogni carattere nazionale, un vinco<strong>lo</strong> d’amore ci stringe<br />
tutti, o piuttosto nessuno sente più il bisogno di amare il prossimo, pratichiamo con tutti, siamo del tutto uguali gli uni agli altri: costumati, cortesi, felici. In verità, non<br />
abbiamo più né patria né nulla di nostro per cui vivere, ma siamo filantropi e cosmopoliti. Già tutti i reggitori d’Europa parlan francese e presto <strong>lo</strong> parlerà ognuno. E<br />
al<strong>lo</strong>ra, o felicità! rinasce il secol d’oro, “tutto il mondo aveva al<strong>lo</strong>ra una sola lingua! sarà un sol gregge ed un so<strong>lo</strong> pastore!” Caratteri nazionali, dove siete voi mai?»<br />
Johann Gottfried Herder, Ancora una fi<strong>lo</strong>sofia della storia per l’educazione dell’umanità, Einaudi, 1971, p. 83.<br />
12
su questa terra? 95. È forse un’ipotesi ridicola so<strong>lo</strong> perché è la più antica? So<strong>lo</strong> perché la ragione umana l’accolse subito, prima di<br />
essere deviata e svigorita dai sistemi di scuola? 96. Perché non potrei aver compiuto anch’io, per il mio perfezionamento, tutto quel<br />
cammino che l’umanità ha percorso in vista delle pene e delle ricompense temporali? [...] 98. E perché non dovrei tornare a vivere<br />
tutte le volte che potessi conseguire nuove conoscenze, nuove capacità? Ho forse compiuto così tanta strada, in una sola volta, che<br />
non vale la pena di ritornare a camminare? 99. Per questo non dovrei ritornare? O perché ho dimenticato di essere già esistito? Meglio<br />
per me se l’ho dimenticato: il ricordo delle mie condizioni precedenti mi servirebbe soltanto a fare un cattivo uso del presente. E ciò<br />
che per ora devo dimenticare non è detto che <strong>lo</strong> debba dimenticare per sempre. 100. O, infine, perché troppo tempo andrebbe perduto<br />
vivendo più di una volta? Perduto? Ma che cosa ho poi da perdere? Non è forse mia tutta l’eternità?» 52<br />
Accanto a Lessing, ma con diverso segno, va posto Hamann, mistico dagli scritti sibillini. Lo stesso stile delle sue opere fa parte<br />
della sua <strong>lo</strong>tta all’Aufklärung, perché la profondità della verità non si coglie con la ragione astratta, nella quale è da riconoscere la<br />
radice del male: non si coglie nel concetto, ma nella ‘parola’ che è manifestazione di Dio, come <strong>lo</strong> è la Natura e la storia. La ragione<br />
uccide la realtà e Dio stesso, poiché il sopranaturale è sogno, passione, esaltazione, ebbrezza, e Dio è il primo poeta che si manifesta a<br />
se stesso nella creazione della Natura e nel farsi del<strong>lo</strong> spirito. Tutta la storia si presenta ai suoi occhi come una continua rivolta<br />
razionalistica nei confronti di Dio, attraverso un processo di ‘purificazione’ della ragione che si fa sempre più astratta e <strong>lo</strong>ntana dalla<br />
religione e dalla tradizione, processo che ha il proprio esito finale nel Criticismo kantiano. Il risultato è che ciò che è astratto diventa<br />
concreto, e ciò che è concreto diventa astratto; e si parla di ragione come se si trattasse di una realtà, e di Dio come se fosse un<br />
semplice concetto.<br />
Accanto alla polemica di Hamann contro il Criticismo va ricordata quella di Herder, il quale afferma che Dio è tutto nelle sue<br />
opere (Natura e Storia), in un processo evolutivo che coinvolge l’unità organica dell’umanità: «[...] l’umanità resta pur sempre<br />
l’umanità... eppure è evidente una linea di sviluppo: è questo il mio grande tema!» 53 La grande lezione di Vico, ormai penetrato in<br />
Germania, si fa concezione immanentistica che bolla di contradittorietà la trascendenza divina. Il mondo della Natura non è un mondo<br />
statico, ma dinamico per un dinamismo che gli è intrinseco, la causa è data dall’immanenza di Dio in esso. Il romantico prende<br />
coscienza di una ‘patria <strong>lo</strong>ntana’ nella Natura che egli sente troppo estranea, e di un ‘padre assente’ perché non vede più nulla al di<br />
sopra di sé, ed egli ormai aspira ad una radicale autodeterminazione, ad una autogenesi, e ad una patria che sia capace di accoglier<strong>lo</strong>,<br />
di comprender<strong>lo</strong> ed esaltar<strong>lo</strong>.<br />
Una nuova cultura sta investendo e rinnovando la Germania, mentre il suo territorio resta sempre diviso in più di duecento enti<br />
politici, e il paternalismo occupa pressoché l’intero spazio sociale. La contradizione tra aspirazione infinita e realtà stretta in angusti<br />
limiti è evidente, come sono evidenti le emergenti contrapposizioni tra interiorità ed esteriorità, Natura e Storia, ecc.<br />
4. Preromanticismo e ‘sturmerismo’<br />
4. 1- Il Pietismo<br />
Il fenomeno del Pietismo si presenta come uno degli elementi portanti del Romanticismo tedesco. In un contesto quale è quel<strong>lo</strong><br />
posteriore alla guerra dei trent’anni, l’interiorizzazione della religiosità luterana appare la conseguenza che nasce negli innumerevoli<br />
Stati tedeschi dalla contrapposizione tra Chiesa ufficiale, Corte principesca e vita sociale da una parte, e la necessità di<br />
interiorizzazione religiosa, di maggiore autenticità e frugalità dall’altra.<br />
Se nel Seicento non si è più nell’indigenza, le infinite barriere doganali non consentono tuttavia una ripresa rapida del commercio<br />
e dell’economia in generale. L’artigianato è più che altro <strong>lo</strong>cale; la cultura passa per le Università teo<strong>lo</strong>giche, la politica ha carattere<br />
paternalistico. 54 Tutto spinge ad un ripiegamento delle persone in se stesse e in quelle comunità che prendono il nome di ‘capanne’.<br />
Queste non sono uno Stato nel<strong>lo</strong> Stato né una Chiesa nella Chiesa, ma la liberazione dall’una e dall’altro: una società del<strong>lo</strong> spirito, o<br />
meglio del sentimento, la cui legge è l’amore, o meglio l’amicizia.<br />
È nella ‘capanna’ pietistica che germoglia quel<strong>lo</strong> che sarà il carattere prevalente del Romanticismo: la fisionomia femminile, che<br />
compare direttamente nell’‘anima bella’, nell’‘eterno femminino’, e in genere nella centralità della donna e della sua sensibilità.<br />
L’immaginazione e la sensibilità della donna passano, come attraverso vasi comunicanti, all’uomo, a scapito della razionalità e della<br />
sensibilità maschile. Il sentire, religioso e affettivo, in questo Barocco del contenuto, diviene ipersensibilità, e l’immaginazione<br />
elucubrazione continua. 55 Il diario pietistico si presenta come <strong>lo</strong> <strong>specchio</strong> dell’anima del giovane, che nell’inazione politica e sociale<br />
manifesta il proprio girare a vuoto senza possibilità di azione.<br />
Il giovane pietista vive spesso inoltre all’interno del ‘trifoglio filadelfico’, nel quale si trovano al suo fianco una giovane donna e<br />
un fratel<strong>lo</strong> di lei o un secondo innamorato: nel primo caso siamo davanti ad una possibilità di piena felicità (il giovane, sposando la<br />
giovanetta, cementa l’amicizia con il fratel<strong>lo</strong> di lei); nel secondo caso si apre il bivio dato dal sacrificio di rinunciare alla giovane<br />
(sacrificio che si sublima nella coscienza di una maggiore imitazione di quel vero amico che è Gesù), oppure dal desiderio ugualmente<br />
duplice: o di eliminare il rivale o di eliminare se stesso. Ma in questo ultimo doppio caso usciamo già dal contesto pietistico per<br />
entrare in quel<strong>lo</strong> propriamente romantico.<br />
52<br />
Gotthold Ephraim Lessing, L’educazione del genere umano, Marietti, 1974, p. 94. In verità, davanti a questa tarda confessione di Lessing, crolla tutto il suo<br />
Aufklärung. In queste ultime righe dell’ultima opera di Lessing è lecito inoltre scorgere una premessa alla tensione di far proprio l’eterno attraverso il tempo tanto da<br />
parte del romantico (in particolare di Hölderlin) quanto da parte di Nietzsche e successivamente di Heidegger.<br />
53<br />
Herder, Ancora una fi<strong>lo</strong>sofia della storia per l’educazione dell’umanità, p. 39.<br />
54<br />
«Che a differenza della Francia, forte di una compagine nazionale unitaria ed omogenea, il territorio nazionale tedesco si trovasse dopo la pace di Westfalia in<br />
uno stato di estrema frantumazione politica è cosa nota. In questa Germania delle “trecento patrie”, delle quali un’ottantina non raggiungeva le dodici miglia quadrate e<br />
dove la forma del potere politico presentava tutte le possibili varianti dell’assolutismo, le prospettive di sviluppo della classe borghese e delle sue attività produttive<br />
erano già di per sé fortemente limitate». In questo contesto, non so<strong>lo</strong> si assiste ad «un’infinità di disposizioni particolari, di dazi protettivi e di barriere doganali, le quali<br />
ultime ammontavano ancora nella Germania del 1790 a ben milleottocento», ma anche ad una «regolamentazione degli aspetti anche minimi della vita privata dei<br />
sudditi, esercitata dai principi con pignoleria burocratica ed altrettanto gretto spirito paternalistico.» Merker, L’illuminismo tedesco, p. 45. È da ricordare inoltre che la<br />
maggior parte delle persone colte tra Sette e Ottocento è formata da Pastori luterani o figli di Pastori.<br />
55<br />
Nell’ambito della coscienza religiosa <strong>lo</strong> ‘scrupo<strong>lo</strong>’ rappresenta l’assil<strong>lo</strong> continuo della vita; nell’ambito della coscienza morale e familiare diviene grettezza o<br />
monomania dei vecchi, contro i quali si leva l’entusiasmo giovanile, su cui torneremo.<br />
13
Nell’ambito della musica e in quel<strong>lo</strong> della poesia due grandi figure giganteggiano nella Germania del Settecento, e ne esprimono il<br />
forte carattere pietistico: Bach e K<strong>lo</strong>pstock. Della grandezza eccezionale di Bach ricordiamo soltanto il carattere di sintesi di<br />
razionalità ‘pitagorica’ (Leibniz) e di profondità del sentimento religioso (Pietismo), espresso in una grandiosità barocca che fa delle<br />
sue opere una delle vette musicali più alte di tutti i tempi. In particolare, la coscienza luterana del peccato, sentito come del singo<strong>lo</strong> e<br />
della comunità, trova nelle ‘metafisica matematica’ dell’armonia la possibilità di manifestarsi nelle ‘dilatazioni’ del Barocco senza<br />
perdere nulla della profondità soggettiva e della universalità oggettiva. Se prevale inevitabilmente il diritto soggettivo, esso infatti è<br />
calato in una struttura razionale che <strong>lo</strong> equilibra completamente. Potremmo forse dire meglio che la coscienza religiosa del peccato<br />
cerchi in Bach di esprimere il ringraziamento a Dio del dono della fede attraverso una iperbole della forma quanto più alta e perfetta.<br />
Con minore profondità e minor fondamento razionale, K<strong>lo</strong>pstock sposta la grandiosità barocca di Bach dall’interiorità<br />
all’esteriorità, dalla fede filtrata dalla ragione alla fede filtrata dall’immaginazione. Mentre la grandezza di Bach passava attraverso<br />
l’umiltà ‘artigianale’ del proprio lavoro, quella di K<strong>lo</strong>pstock consiste invece nella coscienza di sentirsi grande: siamo già alle soglie<br />
del sentire romantico e nel pieno di quel<strong>lo</strong> pietistico.<br />
Per la sua opera egli è il padre di tutta la poesia successiva tedesca, creatore di un linguaggio nuovo e grandioso, e di un culto del<br />
poeta quale cantore e vate di Dio, della Nazione e di se stesso, e non poeta di Corte e cortigiano. K<strong>lo</strong>pstock introduce in qualche modo<br />
nella poetica tedesca il concetto di ‘redenzione’ anche dalla politica e dalla oggettività: la sua poesia sentimentale è un affrancamento<br />
dai limiti del<strong>lo</strong> Stato e della ragione, della Chiesa ufficiale e del quotidiano. Le ‘capanne dell’amicizia’ da lui stesso fondate ci<br />
appaiono come una patria provvisoria in attesa di quella celeste; ed è già evidente in lui il tema della ‘patria <strong>lo</strong>ntana’, dell’essere ‘esuli<br />
in patria’.<br />
Siamo immersi nella Natura nel suo aspetto notturno, lunare, tellurico con le poesie cimiteriali (con incombenti albe o crepuscoli<br />
sopraggiungenti) che nascono dalla quieta tensione della malinconia: sembra fare da scuro fondale scenico il grande conflitto tra le<br />
forze del bene e quelle del male del Paradiso perduto, con la vittoria di Dio, ma anche con la sconfitta dell’uomo adamitico. La<br />
nostalgia del perduto paradiso terrestre diviene la nota dominante dell’epoca, <strong>lo</strong>ntana dal rimorso per la disobbedienza a Dio (gli<br />
‘eletti’ sono giustificati da Dio stesso), <strong>lo</strong>ntana dall’impegno a rimeritarse<strong>lo</strong> (negazione luterana del va<strong>lo</strong>re salvifico delle opere).<br />
Nella nostalgia vi è già quel ripiegamento del romantico su se stesso alla ricerca di un Assoluto che sente e che non trova, con cui<br />
cerca di identificarsi.<br />
Ha inizio con K<strong>lo</strong>pstock la poesia della poesia, che nasce dalla commozione per la propria commozione (sentimentalismo rococò<br />
interiorizzato), che finisce per togliere al poeta qualsiasi oggetto in cui rispecchiarsi che non sia la stessa ispirazione. Questo cantare<br />
la propria ispirazione è legato al contesto religioso e al<strong>lo</strong> sfondo biblico, per il quale la poesia è voce profetica, non propriamente<br />
ispirata da Dio, ma dalla propria anima che sente di possedere dentro di sé il divino, l’infinito.<br />
Con la personale creazione di ‘capanne dell’amicizia’ e con il Messia K<strong>lo</strong>pstock si discosta dal Pietismo razionalmente strutturato<br />
di Bach per dar luogo ad una sensibilità religiosa più sentimentale e immaginifica (grandi scene barocche del Messia, in cui i<br />
personaggi mancano di concretezza), sensibilità che si compiace di se stessa tra la contrizione per il peccato e l’esultanza per la<br />
redenzione. Si tratta di una illusione del<strong>lo</strong> spirito in cui il momento negativo è indotto in funzione di quel<strong>lo</strong> positivo, che non si<br />
determina per un’azione sacramentale o liturgica, ma per quella del<strong>lo</strong> stesso spirito che la provoca: è un’autorigenerazione che ha la<br />
giustificazione ‘dottrinale’ nella concezione del ‘sacerdozio univerale’.<br />
4. 2- Schiller e l’analisi del romantico<br />
Il saggio di Schiller Sulla poesia ingenua e sentimentale è la puntualizzazione delle differenze tra le due estetiche, classica e<br />
romantica; ma non si ferma al puro livel<strong>lo</strong> estetico: esso penetra, come è naturale in clima romantico, nel<strong>lo</strong> spirito dell’uomo alla<br />
ricerca delle regioni della dicotomia che si è storicamente formata. Il saggio è per ciò un prezioso documento per la comprensione del<br />
romantico.<br />
Una iniziale distinzione è data dalla differenza tra il bambino e l’adulto, il quale ultimo guarda al primo come a colui che non ha<br />
ancora perso la propria sconfinata indeterminatezza, e dunque si trova in una condizione privilegiata, libero della stessa libertà della<br />
Natura, non determinato e limitato dalla cultura. Il bambino è un ‘oggetto sacro’, la cui grandezza è quella di un’idea che annulla ogni<br />
grandezza dell’esperienza. Il romantico infatti non so<strong>lo</strong> ha in generale grande rispetto per il bambino e nostalgia per l’età<br />
dell’infanzia, ma possiede spesso un’anima ‘infantile’, un sentire ingenuo, e soprattutto un entusiasmo che è in proporzione diretta<br />
con il fastidio per interiori ed esteriori limitazioni. «Noi finiamo per commuoverci non perché contempliamo il bambino dall’alto<br />
della nostra forza e perfezione, bensì perché dalla finitezza del nostro stato, che è inseparabile dalla determinazione che abbiamo<br />
realizzato, solleviamo <strong>lo</strong> sguardo alla sconfinata determinabilità del bambino e alla sua pura innocenza [...]. Il bambino è quindi per<br />
noi una viva presenza dell’ideale, non già dell’ideale compiuto, ma di quel<strong>lo</strong> proposto». 56 Quale che sia il grado di realizzazione<br />
dell’ideale, l’adulto resta un insoddisfatto, e guarda con nostalgia all’indeterminatezza infantile in cui egli stesso è vissuto.<br />
Ma Schiller fa un ulteriore passo indietro verso la Natura: «Vediamo al<strong>lo</strong>ra nella natura non razionale so<strong>lo</strong> la sorella più fortunata,<br />
rimasta nella casa materna che noi, nella presunzione della nostra libertà, abbandonammo precipitosamente tendendo verso terre<br />
straniere. Con do<strong>lo</strong>roso anelito aspiriamo a ritornarvi, appena provati i tormenti della cultura, e udiamo risuonare nella <strong>lo</strong>ntana e<br />
straniera terra dell’arte la voce commovente della madre.» 57 L’adulto tuttavia è chiamato a tornare a quella Natura da cui emerge il<br />
bambino: provati i tormenti della cultura, egli aspira a tale ritorno, poiché ode nelle «risonanze nelle <strong>lo</strong>ntane e straniere terre dell’arte<br />
la voce commovente della madre». Come sempre, e naturalmente, il riferimento è alla ‘madre’, colei che genera ma non dà regole di<br />
vita, le quali invece derivano dal ‘padre’. 58 Schiller fissa così in modo chiaro il tema della ‘patria <strong>lo</strong>ntana’, anzi, della ‘patria perduta’<br />
vista come «casa della madre». Potremmo dire che l’uomo, uscitone, possiede nel<strong>lo</strong> stato dell’infanzia ancora una potenzialità infinita<br />
che la cultura determina e delimita quando egli entra nella ‘casa del padre’.<br />
56 Friedrich Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, SE, 1986, p. 14.<br />
57 Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, p. 26.<br />
58 Quanto Freud sia sulla linea del Romanticismo tedesco non è il caso di sottolineare.<br />
14
«Quando l’uomo ha fatto il suo ingresso nel<strong>lo</strong> stato della cultura e l’arte si è impadronita di lui, egli ha perduto quell’armonia<br />
sensibile ed è stato in grado di manifestarsi soltanto come unità morale, cioè come aspirazione all’unità.» 59 La condizione morale<br />
dell’uomo civile nasce da uno stato amorale, indeterminato, stabile e appagante, di cui soltanto l’arte mostra la nostalgia insita nella<br />
natura umana: siamo nel finito, nel determinato, ma la nostra aspirazione si volge all’infinito all’indeterminato. Infinito e finito sono<br />
in lui due dimensioni congenite che <strong>lo</strong> conducono alle due forme estetiche dell’ingenuo e del sentimentale, ma che nell’aspirazione<br />
più profonda del<strong>lo</strong> spirito dovrebbero sintetizzarsi e fare di noi una realtà nuova. «E così il poeta sentimentale si riferisce sempre a<br />
due rappresentazioni e a due sentimenti contrapposti, avendo la realtà come limite e la sua idea come infinito, e il sentimento misto,<br />
che egli sa suscitare, sempre darà testimonianza di questa doppia sorgente.» 60<br />
La conclusione a cui giunge il discorso è che «la sostanza poetica, [...] sempre ha da essere l’infinito»: 61 questa è la materia del<br />
poeta, poiché egli canta sempre se stesso nella sua interezza. «Ogni poesia, infatti, deve avere un contenuto infinito, unicamente in<br />
virtù del quale può dirsi poesia; ma può rispondere a questa esigenza in due modi diversi. Può essere un infinito per quanto riguarda la<br />
forma, se rappresenta il suo oggetto con tutti i suoi limiti, se <strong>lo</strong> individualizza; può essere un infinito per quanto riguarda la materia, se<br />
al<strong>lo</strong>ntana ogni limite dal suo oggetto, se quindi <strong>lo</strong> idealizza o con una rappresentazione assoluta o con una rappresentazione di un<br />
assoluto.» 62 Siamo qui giunti a quel Barocco del contenuto di cui abbiamo parlato, a quella introiezione della retorica che crea<br />
nell’interiorità del soggetto le figure dell’ellisse, dell’iperbole, dell’ossimoro. Al<strong>lo</strong>ntanando «ogni limite dal suo oggetto», il<br />
romantico soffre il dramma del non poter più esprimere quanto si agita in lui; e tanto più si agita l’infinito della sua soggettività, e<br />
meno gli è possibile trovare una forma che <strong>lo</strong> contenga, fino a giungere alla ‘pagina bianca’, che non esprime nulla.<br />
Il romanticismo di Schiller è evidente nella superiorità che egli attribuisce al poeta sentimentale, poiché, «se il poeta ingenuo<br />
supera il sentimentale per quanto riguarda la realtà, portando ad esistenza reale ciò per cui l’altro può risvegliare soltanto un vivo<br />
desiderio, il sentimentale è di gran lunga superiore all’ingenuo nella sua capacità di donare al desiderio un oggetto più grande di<br />
quel<strong>lo</strong> che il poeta ingenuo ha dato o poteva dare.» 63 Non ostante ciò, Schiller non si nasconde il perico<strong>lo</strong> che corre il poeta<br />
sentimentale, anzi il perico<strong>lo</strong> che rappresenta: «Abbiamo veduto che il genio ingenuo non corre il rischio di superare questa sfera<br />
[della natura umana], bensì di non occuparla totalmente qua<strong>lo</strong>ra dia spazio a una necessità esteriore o al bisogno contingente<br />
sacrificando la necessità interiore. Il genio sentimentale, invece, nella sua tensione di al<strong>lo</strong>ntanare dalla natura umana ogni limite, si<br />
espone al rischio di eliminarla del tutto». 64 Il rapporto tra «necessità esteriore» e «necessità interiore» può finire per non giungere ad<br />
un equilibrio né nell’uno né nell’altro poeta; ma il rischio che corre nel poeta sentimentale è maggiore, poiché il soggetto potrebbe<br />
alla fine trovarsi privo di uno ‘<strong>specchio</strong>’ in cui specchiare la propria realtà spirituale, e dunque finire per illudersi di potersi<br />
rispecchiare in se stesso, e tentare di far<strong>lo</strong>. «Se quindi nelle creazioni del genio ingenuo talvolta si avverte la mancanza di spirito,<br />
nelle produzioni del genio sentimentale spesso si cercherà vanamente l’oggetto.» 65<br />
Spostando il discorso dal piano estetico a quel<strong>lo</strong> etico, Schiller sottolinea la difficoltà in cui viene a trovarsi l’idealista nel suo<br />
slancio infinito verso l’ideale: egli tende a perdere di vista la realtà concreta anche dei singoli individui. «Egli [il realista] possiede, la<br />
terra gli appartiene, vi è luce nel suo intelletto e felicità nel suo cuore: questo gli basta. L’idealista è ben lungi dall’avere un destino<br />
così favorevole. [...] Quel<strong>lo</strong> si mostra amico degli uomini, pur senza avere un concetto molto elevato dell’umanità, questi ha un<br />
concetto a tal punto elevato dell’umanità da correre il rischio di disprezzare gli uomini.» 66 Il rischio che corre è connesso al rapporto<br />
che Schiller vede instaurato tra la libertà dell’individuo e la totalità della Natura da una parte e la totalità dell’Umanità dall’altra. Egli<br />
sembra indicare qui la necessità espressa da Rousseau dell’alienazione di tutti i diritti del singo<strong>lo</strong> perché questi li possa poi tutti far<br />
valere nel<strong>lo</strong> Stato del ‘contratto sociale’: «In primo luogo [...] so<strong>lo</strong> ad un cuore che si sottometta a tutti i vincoli della natura<br />
concediamo di far uso dell’intera libertà della stessa natura. [...] In secondo luogo, so<strong>lo</strong> una natura bella può giustificare simili libertà.<br />
Esse non possono, quindi, costituire uno sfogo esclusivo della passione: infatti è spregevole tutto ciò che nasce dal puro bisogno. È<br />
necessario che anche queste energie sensibili provengano dalla totalità e dalla pienezza della natura umana. Devono essere Umanità.<br />
Ma per verificare che siano realmente richieste dalla totalità della natura umana e non so<strong>lo</strong> da un bisogno parziale e volgare dei sensi,<br />
dobbiamo veder rappresentata la totalità, di cui esse non sono che una parte isolata.» 67<br />
Sta nella imperfetta realizzazione di rapporti di intero ad intero che si genera la crepa che, allargata, dà luogo alla ‘vertigine<br />
interiore’, vista da Schiller nel ‘falso idealista’ e non nel ‘vero’, anche se in realtà non è affatto possibile una distinzione tra l’uno e<br />
l’altro, se non di grado: «[...] se già il vero idealista nei suoi effetti è insicuro e spesso perico<strong>lo</strong>so, il falso, nei suoi, è terribile. Il vero<br />
idealista abbandona la natura e l’esperienza so<strong>lo</strong> perché in esse non scopre l’immutabilità e la necessità incondizionata a cui la ragione<br />
gli ordina di tendere; il visionario abbandona la natura per semplice arbitrio, per poter assecondare sfrenatamente i capricci del<br />
desiderio e degli umori dell’immaginazione. E non nell’indipendenza dalle necessità fisiche, bensì nella liberazione da quelle morali<br />
egli pone la sua libertà. Poiché il visionario non ripudia solamente il carattere umano, ma è totalmente privo di legge, egli dunque non<br />
è nulla e non serve assolutamente a nulla. Ma proprio perché la fantasticheria è un traviamento non della natura ma della libertà, e<br />
sorge dunque da un’inclinazione in sé apprezzabile, infinitamente perfettibile, essa porta anche a un’infinita caduta in una profondità<br />
inaudita, e può approdare soltanto a una distruzione totale.» 68<br />
È una testimonianza quanto mai significativa: essa mostra l’acutezza dell’analisi di Schiller relativa ad una realtà che gli era<br />
presente. 69 L’ideale schilleriano appare ad ogni modo una unificazione di idealità e di realismo, che è equilibrio di forma e di<br />
59<br />
Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, p. 38.<br />
60<br />
Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, p. 42.<br />
61<br />
Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, p. 44.<br />
62<br />
Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, p. 73.<br />
63<br />
Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, p. 78.<br />
64<br />
Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, p. 85.<br />
65<br />
Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, p. 86.<br />
66<br />
Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, p. 103.<br />
67<br />
Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, p. 66.<br />
68<br />
Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, p. 109.<br />
69<br />
Ancora una volta, come vedremo, un caso esemplare è quel<strong>lo</strong> di Hölderlin, che egli conobbe, e del quale diagnosticò la ‘voragine interiore’. Così scrive di<br />
Hölderlin in una lettera a Goethe: «Ha una soggettività violenta a cui è legato un sicuro spirito e profondo senso fi<strong>lo</strong>sofico. Situazione perico<strong>lo</strong>sa, perché è davvero<br />
difficile aiutare nature come queste. Intanto trovo, tuttavia, in questi nuovi componimenti, l’inizio di un miglioramento certo, se li confronto con i suoi lavori d’un<br />
15
contenuto: «[...] dobbiamo riconoscere che né il carattere ingenuo né il sentimentale, considerati di per sé, esauriscono del tutto<br />
l’ideale di bella umanità, che può scaturire soltanto dall’intime connessione di entrambi.» 70<br />
Potrebbe sembrare a prima vista che Wackenroder raggiunga questo equilibrio, o che <strong>lo</strong> additi come attuata soprattutto nella<br />
musica. Egli parla infatti della conciliazione da lui provata nell’ascolto della musica ‘che ci guarisce dalla malattia dell’esistenza’:<br />
«Ebbene, questa è cosa ancor più meravigliosa, e io sto per credere che l’invisibile arpa di Dio accompagni segretamente le nostre<br />
note musicali e presti all’umano intreccio di numeri la sua forza divina». 71 Per lui, la parola descrive il fiume che scorre in noi, la<br />
musica <strong>lo</strong> mostra direttamente, ma soprattutto, egli afferma, «Nel<strong>lo</strong> <strong>specchio</strong> dei suoni il cuore umano conosce se stesso; sono essi, i<br />
suoni, per mezzo dei quali impariamo a sentire il sentimento; sono essi che dànno a molte parti oscure e sognanti negli angoli riposti<br />
del nostro spirito, una coscienza viva, e l’arricchiscono di nuovi meravigliosi doni.» 72<br />
Wackenroder avverte, come molti romantici, l’abisso tra chi sente con il cuore e chi ricerca con la ragione: «Un abisso<br />
eternamente nemico è scavato tra il cuore che sente e le ricerche di chi indaga con la ragione». 73 Ma il suo sentire è da poeta<br />
‘sentimentalista’ più che da poeta ‘sentimentale’: in lui c’è una languida passività che sta certamente all’interno del Romanticismo<br />
tedesco, ma non <strong>lo</strong> vive con quel titanismo che è la sua più alta espressione. Se poi questo titanismo non so<strong>lo</strong> non è vincente, come<br />
non <strong>lo</strong> è il Ragnarök del mito, ma è impotente, la pienezza dell’ossimoro romantico è raggiunta, e noi la possiamo chiamare<br />
‘Hölderlin’. Prima però converrà prendere in considerazione il titanismo goethiano.<br />
4. 3- Lo Sturm und Drang e il primo Goethe<br />
L’irrazionalismo settecentesco, figlio del Cinquecento e del Seicento, mostra le sue molte facce nella perdurante stregoneria, nel<br />
diffuso occultismo, nella novità del romanzo gotico e di quel<strong>lo</strong> storico, nella poesia tellurica, cimiteriale, lunare, nel sensualismo e nel<br />
sadismo, nel ritrovamento della mito<strong>lo</strong>gia nordica, ecc. ecc. «Nella Germania, che aveva un’antichissima tradizione mistica ed<br />
irrazionale, il romanticismo acquista, anche per la posizione geografica del paese, nuova robustezza e sostanziale unità, divenendo, in<br />
particolare, dottrina, dottrina anche troppo consapevole». 74<br />
Dall’Inghilterra in particolare viene il sentimentalismo del seco<strong>lo</strong>, che invade l’Europa, che dà una certa svolta al<strong>lo</strong> ‘spirito forte’<br />
dei libertini, e promuove una grande stagione della pittura francese (Boucher, Fragonard). In Germania ha però un altro vigore, e con<br />
<strong>lo</strong> Sturm und Drang sconvolge le coscienze più sensibili, e anticipa il titanismo di tanto Romanticismo: Götz di Berlichingen, il primo<br />
Faust, I do<strong>lo</strong>ri del giovane Werther sono il maggior frutto sturmeriano. Il sublime kantiano si è mostrato ovunque, e tra poco sarà la<br />
volta dei drammi di Schiller.<br />
Lo Sturm und Drang è un fenomeno emblematico, ma che sta all’interno di uno ‘sturmerismo’ crono<strong>lo</strong>gicamente più esteso e<br />
ideo<strong>lo</strong>gicamente più profondo: prima ancora del sorgere di questo sodalizio e di questa corrente culturale, i segni del titanismo e quelli<br />
del goticismo si erano rivelati; e il viaggio degli Stürmer sul Reno del 1774, che intende festeggiare il successo della pubblicazione<br />
del Werther, successo che ascrive subito a proprio credito una epidemia di suicidi, rappresenta soltanto la già palese esaltazione della<br />
libertà, quanto i suicidi rappresentano l’entimema sturmeriano dell’autogenesi e dell’autodistruzione che fra poco sarà del romantico.<br />
Siamo di fronte alla nascita della dialettica idealistica che si compie all’interno della doppia equazione Natura-genio, Societàpadre,<br />
nel<strong>lo</strong> sforzo di tornare alla Natura (senza più la mollezza roussoiana) attraverso la ‘soppressione del padre’: nell’impossibilità<br />
di raggiungere tale obbiettivo, il suicidio appare il gesto più ‘geniale’ che rimane. Era la ribellione all’aridità del razionalismo<br />
universitario e alla remissione del Pietismo; 75 era la ribellione alla cultura dell’‘uomo di gusto’ e alla grettezza della società<br />
paternalistica.<br />
Gli Stürmer contribuiscono alla riscoperta della ‘naturalezza’ di Shakespeare e della ‘germanicità’ del Gotico, della ‘rivolta’ di<br />
Lutero e della pittura nazionale del Cinquecento. «La scoperta del gotico e del Medioevo in genere fatta dagli ‘Stürmer’ fu in realtà<br />
soprattutto la scoperta del Cinquecento vigoroso e ango<strong>lo</strong>so (Dürer, Hans Sachs), la scoperta della ribellione luterana e degli ultimi<br />
guizzi del prisco vigore germanico (Möser, Götz). Ma il Cinquecento è rappresentato specialmente in quel Faust che si libera dalla<br />
morta scienza universitaria e dalla scolastica (leggi: dall’illuminismo) ed anela a comprendere le forze vere della natura, anela a<br />
ringiovanire ed a diventare compiutamente se stesso per effetto di un nuovo e più intimo <strong>–</strong> magico <strong>–</strong> contatto con la natura.» 76 Ma <strong>lo</strong><br />
Sturm und Drang va esplicitamente più in là: la sua è una ribellione ‘demoniaca’, è un istinto verso il male. Quel<strong>lo</strong> che vale è il gesto<br />
risoluto, l’ur<strong>lo</strong>; e al di là della ‘libertà’ di Shakespeare, gli Stürmer affermano nei drammi un caos formale, espressione del carattere<br />
integro dell’eroe. Tuttavia, la fioritura di drammi sturmeriani pone prevalentemente una serie di eroi virtuosi in <strong>lo</strong>tta contro tiranni<br />
perfidi: tiranni usurpatori (non veri ‘padri’) o ministri sleali. Il protagonista assume il ruo<strong>lo</strong> di ‘assassino tragico’ nelle figure di eroi<br />
fratricidi e di eroine infanticide (Margherita), che va contro il ‘trifoglio filadelfico’.<br />
Il fondo è quel<strong>lo</strong> di una rivolta sociale non pienamente cosciente della Borghesia contro l’Aristocrazia: la ragazza del popo<strong>lo</strong><br />
sedotta dall’aristocratico, i diritti del cuore contro la vo<strong>lo</strong>ntà paterna sulla scelta matrimoniale; ed è nel<strong>lo</strong> stesso tempo una ribellione a<br />
quella specie di gal<strong>lo</strong>filia delle Corti e al<strong>lo</strong> schermo classicistico che è il teatro francese. È una ribellione che ha i caratteri del<br />
titanismo e del superomismo, sia pure di breve durata.<br />
tempo. Insomma: si tratta di Hölderlin, che Lei ha conosciuto qualche anno fa in casa mia. Io non <strong>lo</strong> perderei se so<strong>lo</strong> avessi una possibilità di portar<strong>lo</strong> fuori dalla<br />
compagnia di se stesso e di esercitare su di lui, dall’esterno, un’influenza benefica e durevole. Attualmente vive come istitutore in casa di un commerciante di<br />
Francoforte, e in cose di gusto e di poesia è interamente chiuso in se stesso e, su queste basi, sarà sempre più ricacciato nel suo io». Lettera del 30 giugno 1797. Il passo<br />
è tratto dalla nota All’Etere <strong>–</strong> Il viaggiatore, in Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 910.<br />
70<br />
Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, p. 96.<br />
71<br />
W. H. Wackenroder, Scritti di poesia e di estetica, Sansoni, 1967, p. 146.<br />
72<br />
Wackenroder, Scritti di poesia e di estetica, p. 166. Tra il serio e l’ironico, Hoffmann così fa esprimersi un personaggio nella sua Kreisleriana: «Al<strong>lo</strong>ra ho<br />
l’impressione di essere io stesso la musica che ho udito», Hoffmann, Romanzi e racconti, vol. I, p. 290.<br />
73<br />
Wackenroder, Scritti di poesia e di estetica, p. 164.<br />
74<br />
Mittner, Ambivalenze romantiche, p. 289.<br />
75<br />
Il ‘principio di ragione fondante’ aveva permesso a Christian Wolff la trattazione organica di tutti gli ambiti della fi<strong>lo</strong>sofia mediante la stesura di opere che<br />
intendevano proporsi come definitivamente risolutivi di tutti i problemi a partire dalla ragione che si autofonda.<br />
76<br />
Mittner, Storia della letteratura tedesca, vol. II, Dal Pietismo al Romanticismo, p. 410.<br />
16
Nel 1771 Goethe scrive il Götz di Berlichingen, che si impone all’attenzione generale. L’idea di un affresco della Germania della<br />
guerra dei cavalieri e della guerra dei contadini (1522-25), nel disordine che regna nel Sacro Romano Impero lacerato da conflitti<br />
religiosi, politici e sociali, è già di per sé sturmeriana in quanto mostra la tragedia dell’impossibilità dell’identità nell’individuo con se<br />
stesso, e di questa con quella dell’Impero. Ma questa mancata doppia identità permette alla genialità goethiana un fluido svolgersi del<br />
dramma e una autonomia dei personaggi che fanno del Götz un’opera viva.<br />
Ciò che Goethe non raggiunge pienamente nella tragedia <strong>lo</strong> conquista con il romanzo epistolare: la tragedia dell’impossibilità<br />
dell’identità dell’individuo superiore con se stesso, la società, la Natura, la donna amata. Qui, ne I do<strong>lo</strong>ri del giovane Werther, non<br />
siamo più nel Sacro Romano Impero del Cinquecento, ma nella Germania del Settecento: società borghese, culturalmente limitata,<br />
economicamente austera, pietistica e paternalistica.<br />
Il romanzo, che nasce dalla sensibilità delle ‘capanne pietistiche’ e dal ‘trifoglio filadelfico’, è in realtà la negazione e la<br />
distruzione di quella sensibilità nella coscienza di Goethe, poiché tutti i rapporti, anche quelli più belli (Natura, arte, amicizia, amore,<br />
vita), restano al di sotto della tirannica esigenza dell’identità dell’io del protagonista con se stesso, e vengono inevitabilmente distrutti.<br />
Werther ama la vita, l’arte, l’amicizia; ama la Natura, ama Car<strong>lo</strong>tta; ma egli soprattutto ama il proprio amore, e a questo amore<br />
nessuna cosa, nessuna persona è proporzionata. 77 Il romanzo si presenta in questo modo come la tragedia del ‘padre assente’ e della<br />
‘patria <strong>lo</strong>ntana’; 78 e in questa tragedia il protagonista distrugge tanto se stesso quanto tutti co<strong>lo</strong>ro che gli stanno attorno. Werther è il<br />
primo significativo rappresentante del viandante, del pellegrino in patria, l’orfano di padre, per l’incapacità di accettare parametri<br />
esteriori, che non riesce a trovare neppure in se stesso.<br />
Egli si scioglie dalle regole sociali (si al<strong>lo</strong>ntana dal paese natio e da una donna a cui è legato) per immergersi nella Natura (disegna<br />
e legge Omero, a cui successivamente preferirà Ossian); ma quando incontra Lotte (orfana di madre e quasi madre dei fratelli; ‘anima<br />
bella’ come poche altre), Werther sente di aver trovato in lei la propria identità. 79<br />
Se il ‘trifoglio filadelfico’ creato da Goethe ci mostra l’‘anima bella’ di Lotte, le altre due figure presentano l’impossibilità per<br />
l’uomo di giungere a una vera armonia interiore: Werther è insanabilmente lacerato, Alberto (‘il migliore degli uomini’)<br />
irrimediabilmente ‘ordinario’ («Vergognatevi, o uomini sobri! Vergognatevi, o sapienti!» 80 ); e si può immaginare che ad una tale<br />
condizione si sarebbe ridotto <strong>lo</strong> stesso Werther se avesse sposato Lotte e mantenuto il posto presso un principe, poiché questo non ha<br />
nessun senso romantico. 81<br />
La presenza del diritto soggettivo nell’insieme del romanzo è evidente: quando Werther vorrebbe difendere il giovane contadino<br />
che ha ucciso il proprio rivale (per i ‘diritti del cuore’, che sono anche una autodifesa di Werther); nella sua affermazione che<br />
morendo andrà presso il Padre (celeste) e conoscerà la madre di Lotte (il proprio padre è scavalcato: il proprio diritto è affidato al<br />
Padre celeste e alla comprensione della madre di Lotte); e soprattutto nel fatto che tutte le situazioni in cui Werther viene a trovarsi si<br />
presentano strutturate da regole oggettive che egli sente come soffocanti la propria personalità, e il diritto soggettivo che costituisce<br />
quest’ultima, che egli vorrebbe estendere a tutto e a tutti, subisce coercizioni che non sono della Natura (della madre), ma della<br />
società (del padre), così che egli sente di non poter vivere in questo mondo (patria).<br />
Nel Faust, la terza opera sturmeriana di Goethe, il personaggio-<strong>specchio</strong> che era l’amico Guglielmo per Werther diviene<br />
Mefistofele. 82 Il ‘trifoglio filadelfico’ riappare, ma so<strong>lo</strong> per essere più radicalmente distrutto; e ancora una volta il ‘terzo uomo’,<br />
quel<strong>lo</strong> che rispecchia il protagonista, si è sdoppiato nelle due figure di Mefistofele e Valentino; e come nel Werther Alberto e<br />
Guglielmo erano in rapporto di prossimità rispettivamente a Werther e Lotte, così ora Mefistofele e Valentino <strong>lo</strong> sono in rapporto a<br />
Faust e Margherita. Ma nel Faust Valentino viene eliminato dal protagonista, che non intende certo sopprimere se stesso come aveva<br />
fatto Werther: qui non vi è <strong>lo</strong> ‘<strong>specchio</strong>’ positivo di Guglielmo, ma quel<strong>lo</strong> deformante di Mefistofele. Il ‘trifoglio filadelfico’ verrà per<br />
ciò calpestato e distrutto totalmente: Valentino ucciso, Margherita sedotta e abbandonata, e Faust, sempre fuggiasco, che resta con il<br />
proprio malefico alter-ego.<br />
77<br />
«Sì, Lotte, perché dovrei tacere? Uno di noi tre deve scomparire, e voglio essere io quel<strong>lo</strong>.» Wolfgang Goethe, I Do<strong>lo</strong>ri del giovane Werther, BUR, 1976, p. 162.<br />
Né un al<strong>lo</strong>ntanamento di Werther da Lotte, né il suo matrimonio con la giovane avrebbe potuto soddisfare l’esigenza di identità di sé con sé del protagonista: nel primo<br />
caso l’esigenza si sarebbe accentuata, almeno inizialmente, nel secondo si sarebbe dissolta. Dal punto di vista romantico, è per ciò più consequenziale la soluzione che<br />
Hölderlin adotta per il protagonista dell’Iperione: il sacrificio della donna amata. Neppure un’‘anima bella’ può condurre il romantico a se stesso, poiché questo ‘se<br />
stesso’ è un Assoluto puramente immaginato.<br />
78<br />
«Così l’inquieto vagabondo sospira alfine la patria, e nella capanna, in seno alla sua donna, nella cerchia dei suoi figli, nel lavoro per sostenerli, trova quelle<br />
voluttà che invano ha cercato nel vasto mondo.» Goethe, I do<strong>lo</strong>ri del giovane Werther, p. 69. Riportiamo parte di una poesia di Hölderlin che pare ricalchi il passo del<br />
Werther.<br />
Poiché è un enigma questo cuore umano.<br />
Spesso s’accende in noi un desiderio<br />
splendido, irresistibile, d’andare<br />
e di vagare senza fine, e spesso<br />
perfino un cerchio breve e circoscritto<br />
- un amico, una piccola capanna,<br />
la donna amata, pare che ci bastino.<br />
A Hiller [1793], in Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 141. Ma questo in realtà è un pio autoinganno, come mostrerà Novalis.<br />
79<br />
Questa identità possiamo dirla mediata da K<strong>lo</strong>pstock, il cui nome appena pronunciato pone i due in totale e tacita sintonia. «Stava appoggiata sui gomiti, con gli<br />
sguardi scorreva il paese, guardava il cie<strong>lo</strong> e me, vedevo i suoi occhi pieni di lagrime, mise la sua mano sulla mia e disse: “K<strong>lo</strong>pstock!” [...] O nobile poeta, avessi tu<br />
potuto vedere in quegli sguardi la tua apoteosi, e potessi io non più sentir citare il tuo nome così spesso profanato.» Goethe, I do<strong>lo</strong>ri del giovane Werther, p. 67.<br />
80<br />
Goethe, I do<strong>lo</strong>ri del giovane Werther, p. 91.<br />
81<br />
Si veda la Vita di Maria Wuz, il maestrino contento di Auenthal di Jean Paul, nel quale il giovane protagonista giunge euforicamente alle nozze con la giovane<br />
amata, ma che nella riga successiva del racconto è presentato ormai giunto alla vecchiaia e sul letto di morte, e la vecchia moglie gli porta i giocattoli della sua infanzia<br />
da lui richiesti. Siamo davanti all’ossimoro, giocato su registro ironico, di giovinezza e vecchiaia, e per di più di una vecchiaia che torna all’infanzia. I due periodi che<br />
importano sono quelli dell’entusiasmo giovanile e quel<strong>lo</strong> della patetica vecchiaia: tutto il periodo intermedio è ‘prosa’ insignificante.<br />
82<br />
Al di là dei dati autobiografici esterni, Goethe, con la creazione di Werther e Guglielmo (ricordiamo che Guglielmo sarà il nome del protagonista del successivo<br />
romanzo goethiano, il quale non è un più giovane Werther, e percorrerà un itinerario di ideale e programmatica formazione), opera una più o meno inconscia scissione<br />
di sé: di sé che opera in piena libertà, e di sé che contempla questa libertà. Non si tratta di uno sdoppiamento schizofrenico o artificioso, poiché, nel<strong>lo</strong> stesso tempo che<br />
Guglielmo è Goethe, è anche il lettore ideale. Guglielmo è per ciò figura essenziale: sa comprendere il dramma dell’amico, ne partecipa, ma ne è anche al di sopra. Egli<br />
è per un certo verso <strong>lo</strong> <strong>specchio</strong> in cui si riflette, in forma resa più perfetta dalla contemplazione, la grandezza di Werther. Sta forse qui la profondità del Werther:<br />
nell’essere un’opera di fronte alla quale il lettore è costretto a una scelta tra l’accettazione e il rifiuto del protagonista, ma in quanto filtrata da Guglielmo, la figura di<br />
Werther viene più profondamente condivisa.<br />
17
In realtà, il problema della identità nel Faust è complesso poiché il dramma gotico che Goethe ha voluto creare doveva essere<br />
estremo: oltre Shakespeare, oltre Milton, oltre Ossia e oltre <strong>lo</strong> Sturm: doveva essere la distruzione di tutto e l’autodistruzione<br />
romantica secondo l’antica storia, anche se Goethe, nella seconda parte cambia direzione e architetta una pesante cornice per stabilire<br />
i termini di un riscatto nella luce di una apoteosi divina.<br />
L’ambiente e l’atmosfera della prima parte del dramma sono gotici, di un gotico la cui modalità barocca è data dal<strong>lo</strong> studio di<br />
Faust, dalla Notte di Valpurga, da Mefistofele, naturalmente, ma soprattutto dal crescendo di scene distruttive.<br />
Tutto si incentra nella figura del protagonista, il quale è in sé un ossimoro vivente: è un vecchio ringiovanito, e la sua nuova<br />
condizione nasconde la vecchiaia, ma non la elimina. Il naturale desiderio umano di passare da una ingenua giovinezza ad una saggia<br />
vecchiaia si capovolge nella repentina trasformazione di un vecchio, che non è divenuto saggio («Misero me! Ho studiato fi<strong>lo</strong>sofia,<br />
giure, medicina e, purtroppo, anche teo<strong>lo</strong>gia [...] potessi conoscere l’intima forza che tien congiunto il mondo, discernere le energie e<br />
gli elementi, e smetterla di ba<strong>lo</strong>ccarmi con le parole»), 83 in un giovane che non è più ingenuo né ha i caratteri dell’‘entusiasta’.<br />
L’illusione di una reale rigenerazione (dissacrazione della resurrezione cristiana) è del resto manifesta nei prodigi illusionistici<br />
nell’osteria di Auerbach. 84 Faust è e resterà un vecchio, non ostante l’illusione che ne abbiamo, al<strong>lo</strong> stesso modo di Dorian Grey:<br />
dobbiamo supporre in qualche modo anche per Faust un ritratto che ne testimoni la reale fisionomia.<br />
Il passaggio dall’albero della scienza del bene e del male, che personifica la sete di sapere, all’albero della vita, raggiunto<br />
attraverso il patto di sangue, è il percorso inverso di quel<strong>lo</strong> della salvezza, che va da Dio all’uomo mediante il sangue divino: esso fa<br />
parte della scalata al cie<strong>lo</strong> della costruzione della Torre di Babele, come dell’architettura gotica. Incentrato nel protagonista come<br />
ossimoro, tutto il Faust risulta un ossimoro nelle varie coppie che Goethe ha creato in rapporto alla figura dominante: Faust è infatti<br />
Faust-Wagner, è Faust-Mefistofele, è Faust-Margherita, è Faust-Valentino. Ana<strong>lo</strong>ga è la posizione di Margherita in rapporto al figlio e<br />
alla madre; e così la ‘donna’, da ‘anima bella’ (che pur rimane) diviene matricida e infanticida, lacerata per colpa di Faust.<br />
Nel dramma goethiano sono presenti in modo rilevante le tre figure del ‘padre assente’, della ‘patria <strong>lo</strong>ntana’ e della ‘voragine<br />
interiore’: non so<strong>lo</strong> Faust è padre di se stesso, ridivenuto giovane mediante il patto con Mefistofele, ma egli elimina l’unico genitore<br />
presente; non so<strong>lo</strong> è senza patria, ma nessun luogo potrà esser<strong>lo</strong> mai; non so<strong>lo</strong> ha dentro di sé un vuoto che non riesce a colmare, ma<br />
egli distrugge tutto ciò che tocca. La sete di sapere è diventata sete di godere, la sete di godere è diventata sete di potere, e<br />
quest’ultima ha mostrato il suo volto distruttivo. «In principio era l’Azione» si è mutato in «Alla fine è la distruzione».<br />
Con genialità Goethe tuttavia risolve il conflitto faustiano e salva l’eroe nel «Arrestati, sei bel<strong>lo</strong>!»: 85 Faust, ritornato nella<br />
condizione di vecchio, è ora cieco, e dunque non si accorge che la sua esclamazione non ha un oggetto corrispondente, ma <strong>lo</strong> scavo<br />
della sua fossa da parte dei Lemuri, così che alla sua esclamazione corrisponde la sua morte (quel<strong>lo</strong> che ormai Mefistofele attendeva),<br />
ma l’intenzione dell’esclamazione <strong>lo</strong> salva (cosa che Mefistofele non si attendeva). In questo modo, mentre un ossimoro si crea<br />
(l’‘arrestati, sei bel<strong>lo</strong>’ mentre muore e non si compie nessuna nobile azione), un altro si scioglie (l’‘arrestati, sei bel<strong>lo</strong>’ della salvezza<br />
eterna per l’intenzione di una nobile azione).<br />
Fa parte della tematica del ‘padre assente’ il ‘romanzo di formazione’ che, se ha il suo presupposto e archetipo nell’Emilio di<br />
Rousseau, 86 diventa una specie di fissazione della mentalità tedesca che del resto l’aveva già manifestata nell’insistenza del tema del<br />
Graal. Gli anni di noviziato di Wilhelm Meister danno inizio alla serie di tale forma di romanzo, e il romanzo di Goethe, che intende<br />
dare diversa soluzione esistenziale al Werther, si prolunga in altre parti che ne appesantiscono <strong>lo</strong> svolgimento con l’artificiosa<br />
intenzione ‘formativa’. Il giovane Wilhelm, a differenza del giovane Werther, avrebbe dovuto trovare nella sistemazione burocratica il<br />
senso della propria esistenza, cosciente alla fine che le precedenti esperienze di vita non erano state altro che momenti di formazione<br />
morale e culturale, pianificati da un padre so<strong>lo</strong> apparentemente ‘assente’, ma ben presente invece nella fattispecie di un principe, il<br />
paternalismo del quale ha avocato a sé l’iniziativa della provvidenza divina, e ha dato al giovane una definitiva ‘patria’ nel suo<br />
angusto Stato germanico.<br />
Così, in Goethe, romantico con conati antiromantici, borghese con velleità aristocratiche, i temi del Romanticismo tedesco<br />
sembrano potersi cancellare: nessuna ‘voragine interiore’ si apre al tedesco, poiché il tedesco può riconoscere nel proprio principe il<br />
proprio padre, e nel picco<strong>lo</strong> Stato in cui vive, la piccola Patria per la propria grande anima. 87 È un passo in avanti in direzione<br />
dell’accettazione della Realpolitik che sarà del Secondo Reich; è un passo indietro in direzione non della assolutizzazione del soggetto<br />
singo<strong>lo</strong>, ma del livellamento del soggetto collettivo davanti al sovrano. Viene scongiurata la ‘voragine interiore’ dell’individuo per il<br />
ritrovamento di ‘padre’ e ‘patria’, con la delega ad essi della tensione infinito-finito, che potrà presentarsi come Germania di<br />
Bismarck, e ancor più come Germania di Hitler.<br />
«[...] il sentimento nazionale è in Germania diretta conseguenza del romanticismo o, più esattamente, in Germania nasce una<br />
nuova forma di nazionalismo, un nazionalismo mistico-religioso che nel Settecento non esisteva ancora, un nazionalismo inteso come<br />
vera e propria religione fondata su una nuova idea mistica del popo<strong>lo</strong> o anche della razza», 88 ma fondata anche sulla accettazione<br />
acquiescente del soggetto dopo il fallimento della propria assolutizzazione. «A chi accetti l’interpretazione che qui si è data del<br />
romanticismo, la seconda guerra mondiale apparirà la guerra romantica per eccellenza dei Tedeschi, la guerra che trasformò in tragica<br />
realtà il brillante equivoco romantico del germanesimo identificato con l’europeismo o addirittura con l’umanità intera.» 89 Il diritto<br />
soggettivo rivive in tutto un popo<strong>lo</strong> grazie al principio di autorità incarnato in un unico capo, il quale riviva nell’immaginazione la<br />
‘favola’ dell’Idealismo.<br />
83 Goethe, Faust, p. 17.<br />
84 Anche guardando il segno del macrocosmo disegnato in un volume, Faust esclama: «Come tutte le cose s’intrecciano in un Tutto, ogni cosa opera e vive<br />
nell’altra. [...] Che visione! Ma ahimè nulla più di una visione. Dove mai potrò afferrare proprio te, o infinita Natura?» Goethe, Faust, p. 19.<br />
85 Goethe, Faust, p. 324.<br />
86 Ma in Rousseau le ragioni pedagogiche dell’Emilio sono realmente storiche in una società aristocratica che aveva smarrito il senso della educazione, e nel<strong>lo</strong><br />
stesso tempo hanno un elevato va<strong>lo</strong>re teoretico di esempio pedagogico.<br />
87 Un seco<strong>lo</strong> dopo, con maggiore artificiosità, Il gioco delle perle di vetro di Herman Hesse ripropone la soluzione al tema dell’insoddisfazione romantica<br />
all’interno di un misterioso itinerario formativo diretto da un misterioso ordine monastico laico.<br />
88 Mittner, Ambivalenze romantiche, p. 291.<br />
89 Mittner, Ambivalenze romantiche, p. 327.<br />
18
5. Favola, tragedia, sdoppiamento: tre romantici<br />
5. 1- Novalis e la ‘favola’ idealistica dell’unità<br />
Friedrich Leopold von Hardenberg, adottando <strong>lo</strong> pseudonimo di Novalis, dichiarava implicitamente di ritenersi il coltivatore di<br />
quella ‘terra vergine’ nella quale occorreva intraprendere il lavoro idealistico che pure era stato iniziato da Kant o almeno da Fichte. E<br />
di Fichte egli aveva seguito le lezioni a Jena, e <strong>lo</strong> aveva conosciuto personalmente e studiato con determinazione. Ma il fi<strong>lo</strong>sofo per<br />
Novalis è il contrario di ciò che è poetico, di ciò che è ispirazione estetica: il fi<strong>lo</strong>sofo idealista rappresenta il più potente slancio<br />
romantico, a cui però mancano le ispirate ali dell’immaginazione che sola può creare la poeticità della realtà.<br />
A dire il vero, <strong>lo</strong> stesso sistema di Fichte negava che si potesse dedurre la giustificazione degli Io e dei Non io divisibili, come li<br />
aveva chiamati: cioè l’esistenza contingente dei soggetti e degli oggetti. Infatti, dei tre principi su cui deve potersi fondare l’intera<br />
dottrina della scienza, la tesi si presentava assoluta nella forma e nel contenuto (l’Io, Soggetto assoluto, pone se stesso), l’antitesi era<br />
assoluta nella forma, ma non nel contenuto (l’Io contrappone a sé un Non io), la sintesi era relativa nella forma e assoluta nel<br />
contenuto (gli Io e i Non io sono assoluti: sono quel<strong>lo</strong> che sono, non sono deducibili nella <strong>lo</strong>ro realtà effettiva).<br />
In altre parole, si potrebbe dire che Fichte aveva scoperto come il fondamento di ogni realtà fosse un Io puro che tuttavia, non<br />
trasferendo né il pieno potere né la piena coscienza del proprio atto produttivo agli Io empirici, era per i soggetti come se non esistesse<br />
e non fosse mai esistito, e tutta la realtà risultava puramente tauto<strong>lo</strong>gica: essa è quel<strong>lo</strong> che è perché è quel<strong>lo</strong> che è. In qualche modo, è<br />
anche quanto Novalis afferma quando scrive «L’idealismo non è altro che vero e proprio empirismo», 90 ma poi aggiungeva: «Voltaire<br />
è un puro empirico, e così parecchi altri fi<strong>lo</strong>sofi francesi. <strong>Li</strong>gne tende insensibilmente verso gli empirici trascendenti. Questi<br />
costituiscono il ponte di passaggio ai dogmatici. Di qui si passa ai sognatori o ai dogmatici trascendenti, poi a Kant, di qui a Fichte e<br />
infine all’idealismo magico.» 91 L’Idealismo magico è appunto l’esisto finale di questo movimento, e la concezione di Novalis;<br />
senonché, se non si fosse trovato una via d’uscita dal sistema chiuso di Fichte, tutto <strong>lo</strong> sforzo titanico della ‘dottrina della scienza’,<br />
secondo Novalis, sarebbe stato vano. Tanto Schelling quanto egli stesso cercarono questa via di uscita, ed entrambi la trovarono in un<br />
principio del sistema fichtiano: perché il Non io possa esistere, «L’Io deve essere determinato, cioè deve essere tolta in esso realtà o,<br />
come questo concetto è stato ora determinato, attività». «Il Non-io, come tale, non ha in sé alcuna realtà; ma esso ha realtà in quanto<br />
l’Io patisce in forza della legge della determinazione reciproca.» 92<br />
Per Schelling e per Novalis questo significava che soggetto e oggetto nel <strong>lo</strong>ro rapporto non si oppongono in modo assoluto, ma<br />
so<strong>lo</strong> relativamente: il soggetto è anche parzialmente oggetto, l’oggetto è anche parzialmente soggetto. Occorre dunque andare oltre la<br />
rigida posizione di Fichte. «Può ben darsi <strong>–</strong> scrive Novalis <strong>–</strong> che Fichte sia l’inventore di un modo del tutto nuovo di pensare per il<br />
quale il linguaggio non ha ancora il vocabo<strong>lo</strong>. L’inventore forse non è l’artista più abile e più geniale sul suo strumento, quantunque<br />
io non voglio affermare che sia così. Ma è probabile che esistono ed esisteranno uomini capaci di fichteggiare molto meglio di Fichte.<br />
Di qui possono nascere meravigliose opere d’arte non appena ci si metta a fichteggiare artisticamente.» 93<br />
Per Novalis la fi<strong>lo</strong>sofia in genere, e quella idealistica in particolare, è la nostalgia per il proprio fondamento, per la propria ‘casa’,<br />
o meglio per riconoscersi a ‘casa’ propria in ciascun punto della Natura: «A rigore la fi<strong>lo</strong>sofia è nostalgia, il desiderio di trovarsi<br />
dappertutto come a casa propria»; 94 per un altro verso, la fi<strong>lo</strong>sofia va superata, poiché la razionalità è qualcosa di limitante, fondata<br />
com’è sul principio di non contradizione: «Distruggere il principio di contraddizione: ecco forse il compito supremo della <strong>lo</strong>gica<br />
superiore.» 95 La razionalità ci dà la verità, ma la verità è vana se non fa dell’errore il proprio strumento: «Per la verità ogni illusione è<br />
così essenziale come il corpo per l’anima. L’errore è <strong>lo</strong> strumento necessario della verità. Con l’errore io faccio verità: uso completo<br />
dell’errore <strong>–</strong> completo possesso della verità. Ogni sintesi, ogni progresso o passaggio, incomincia con l’illusione. Io vedo fuori di me<br />
ciò che è in me <strong>–</strong> io credo che sia avvenuto ciò che ho appena fatto, e così via. Errore del tempo e del<strong>lo</strong> spazio». 96 E giunge a questa<br />
conclusione: «La verità è un errore completo come la salute una completa malattia.» 97 Questo significa che tutto il nostro conoscere e<br />
tutta la nostra vita, così razionali a priori o così empirici a posteriori, non sono altro che le illusioni trascendentali che nascono dal<br />
nostro rapporto con la Natura (Non io), la quale è la causa di ogni nostra determinazione, di ogni nostra limitazione, di ogni inganno;<br />
mentre, in realtà, «Nulla è per <strong>lo</strong> spirito più raggiungibile che l’infinito»: 98 ad esso aspiriamo perché è in noi, perché è noi.<br />
Egli tiene ferma l’asserzione di Fichte: «Opposto all’Io assoluto [...], il Non-io è assolutamente nulla: opposto all’Io divisibile esso<br />
è una grandezza negativa.» 99 Dunque, poiché tutte le verità si pongono sul piano del Non io, esse sono tutte da superare; e vengono<br />
superate con un ritorno all’Io assoluto non con la ragione, ma con la forza dell’immaginazione. La facoltà su cui occorre operare è<br />
sempre l’immaginazione produttiva di Kant e di Fichte, ma assunta ora come ‘fantasia poetica’: «La poesia guarisce le ferite inferte<br />
dall’intelletto. Consta di componenti opposte, di verità elevatrici e di illusioni piacevoli.» 100 Di contro, «Il pensiero è soltanto un<br />
sogno del sentire, un sentire stremato, una vita debole, pallida, grigia.» 101 «La poesia è il reale, il reale veramente assoluto. Questo è il<br />
noccio<strong>lo</strong> della mia fi<strong>lo</strong>sofia. Quanto più poetico, tanto più vero.» 102<br />
Ma su cosa fare leva perché la poesia diventi ‘vera realtà’? Per Novalis occorre guardare nell’interiorità più profonda del soggetto,<br />
in quel punto in cui non ci sono le distinzioni delle facoltà che ci fanno percepire il mondo, là dove risiede la sua unità. Infatti è lì che<br />
nasce la «pluralità interiore» che determina la «pluralità esteriore»: «Il mondo è il risultato di un consenso infinito, e la nostra propria<br />
pluralità interiore è il fondamento della visione del mondo.» 103<br />
90 Novalis, Frammenti, BUR, 1976, p. 70.<br />
91 Novalis, Frammenti, p. 73.<br />
92 Fichte, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, p. 109.<br />
93 Novalis, Frammenti, p. 75.<br />
94 Novalis, Frammenti, p. 41.<br />
95 Novalis, Frammenti, p. 62.<br />
96 Novalis, Frammenti, p. 69.<br />
97 Novalis, Frammenti, p. 89.<br />
98 Novalis, Frammenti, p. 106.<br />
99 Fichte, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, p. 88.<br />
100 Novalis, Frammenti, p. 303.<br />
101 Novalis, I discepoli di Sais, Tranchida, 1985, p. 66.<br />
102 Novalis, Frammenti, p. 301.<br />
103 Novalis, Frammenti, p. 91.<br />
19
Additare questo rapporto di ‘pluralità’ a ‘pluralità’ è proprio del fi<strong>lo</strong>sofo; determinar<strong>lo</strong> è proprio del poeta: quel<strong>lo</strong> che è necessario<br />
però è che il poeta non si lasci sfuggire la propria creazione, e l’opera non acquisti una autonomia ‘oggettiva’: «Nel momento in cui<br />
l’opera avrebbe dovuto diventare interamente sua, diventò più che lui, suo creatore, ed egli diventò organo e proprietà d’una potenza<br />
superiore. L’artista appartiene all’opera, non l’opera all’artista.» 104 Questo è il difetto di tutta la realtà: l’uomo, di per sé infinito, è<br />
caduto prigioniero del finito che egli ha determinato generando il mondo. Ma, quale che sia l’ostaco<strong>lo</strong> che si frappone tra Io e Non io,<br />
rimane che «Il mondo è un tropo universale del<strong>lo</strong> spirito, un’imagine simbolica di esso», 105 e dunque sempre determinabile. Come<br />
abbiamo anticipato, per il romantico l’opera d’arte non è tanto l’oggetto, quanto il soggetto che <strong>lo</strong> produce; e per ciò l’azione artistica<br />
è immanente al soggetto.<br />
La posizione di fondo è ancora quella di Fichte, il quale aveva dedotto tre tipi di giudizi in ragione dei tre principi dialettici: tetico,<br />
antitetico, sintetico. I giudizi tetici, quelli che qui ci interessano, sono posti «sotto la posizione assoluta dell’Io», come ad esempio<br />
«l’uomo è libero», 106 e per la stessa ragione è infinito e indeterminato. Nel momento in cui determina nell’unità profonda la «propria<br />
pluralità interiore», deve evidentemente avvenire la ‘caduta’ dell’Io nei limiti che <strong>lo</strong> imprigionano. Questo passaggio è dato dalla<br />
sensibilità di cui aveva parlato Kant: la facoltà che possiede i due trascendentali del tempo e del<strong>lo</strong> spazio, mediante i quali noi<br />
percepiamo ogni cosa sensibile. Ma, in realtà, noi possiamo pensare «Lo spazio come precipitazione del tempo e come conseguenza<br />
necessaria del tempo.» 107 Se dunque tutto ciò che vi è nel mondo deriva dal tempo, il quale è una dimensione dell’Io, deve essere<br />
possibile controllare e dirigere quanto è rifratto illusoriamente nel mondo e appare come sensibile. Infatti, afferma Novalis, «Stimo<strong>lo</strong><br />
e spazio si assomigliano molto. Ogni corpo è uno stimo<strong>lo</strong> riempito. Un individuo del riempimento del<strong>lo</strong> spazio è un corpo. Un<br />
individuo del riempimento del tempo, un’anima. [...] Il tempo è spazio interiore. Lo spazio è tempo esteriore.» 108 Se dunque dall’Io<br />
deriva il tempo e dal tempo <strong>lo</strong> spazio e quindi la realtà sensibile, deve essere possibile trasformare questa realtà dall’interno del<br />
soggetto, e non so<strong>lo</strong> determinarla fisicamente dall’esterno tramite il corpo.<br />
«Io = non io: tesi suprema di ogni scienza e arte», afferma Novalis: 109 se è vero questo assioma, deve essere possibile al<strong>lo</strong>ra<br />
superare il limite del Non io e tornare all’Io assoluto, da cui operare. «Ora vediamo i veri legami dell’unione di soggetto e oggetto;<br />
vediamo che esiste anche un mondo esterno in noi, il quale è collegato col nostro interno in un’unione ana<strong>lo</strong>ga a quella del nostro<br />
esterno fuori di noi col nostro esteriore, e che quel<strong>lo</strong> e questo sono collegati come il nostro interno e il nostro esterno; che dunque so<strong>lo</strong><br />
mediante il pensiero possiamo percepire l’interno e l’anima della natura come so<strong>lo</strong> mediante sensazioni l’esterno e i corpi della<br />
natura.» 110 In altri termini, «È indifferente che io ponga l’universo dentro di me o me nell’universo. Spinoza poneva tutto fuori. Fichte<br />
tutto dentro. Così la libertà. Se c’è libertà nel tutto, c’è libertà anche in me. Se chiamo la libertà necessità, necessità verso il tutto, c’è<br />
necessità anche in me e viceversa.» 111 Insomma, il Non io, come <strong>lo</strong> si voglia pensare, è un diaframma tra Io empirico e Io puro che<br />
bisogna abbattere o quanto meno rendere plastico secondo le esigenze dell’uomo.<br />
Tuttavia, perché si possa plasmare o ricreare tutta la realtà, occorre plasmare o ricreare il mondo esteriore nel mondo interiore:<br />
«Dobbiamo procurare di creare un mondo interiore che sia la vera e propria corrispondenza del mondo esteriore, che, opponendosi<br />
decisamente a quel<strong>lo</strong> in tutti i punti, allarghi sempre più la nostra libertà. Infatti la nostra libertà procede necessariamente dalla<br />
determinazione. Quanto più ci sbarazziamo della nostra determinazione, tanto più diventiamo liberi. Ogni determinazione procede da<br />
noi, noi creiamo un mondo dal nostro intimo e con ciò diventiamo sempre più liberi, dato che la libertà è pensabile soltanto<br />
nell’opposizione a un mondo. Quanto più determiniamo e ricaviamo da noi, tanto più diventiamo liberi e sostanziali, deponiamo, per<br />
così dire, sempre più la nostra essenza annessa e ci accostiamo all’essenza interamente pura e semplice del nostro io. La nostra<br />
energia ha acquistato tanto raggio d’azione quanto il mondo ne ha sotto di sé. Siccome però la nostra natura, o la ricchezza della<br />
nostra essenza, è infinita, noi non possiamo raggiungere nel tempo questa meta. Ma siccome siamo anche in una sfera del tempo, la<br />
dobbiamo poter raggiungere in ogni istante o piuttosto, se vogliamo, dobbiamo essere in questa sfera sostanza pura, semplice. Qui c’è<br />
la moralità e la pace per <strong>lo</strong> spirito al quale un’aspirazione infinita senza che si raggiunga la meta prefissa, appare insopportabile.» 112<br />
Con ostinazione Novalis continua a precisare che «Per comprendere la Natura occorre che essa prenda corpo dentro di noi nella<br />
sua integrità. In questa azione ci devono guidare unicamente l’impulso divino verso esseri che siano uguali a noi, e le regole che ci<br />
permettano di comprenderli, poiché in verità non si può concepire la natura se non come un mezzo e uno strumento dell’accordo tra<br />
esseri ragionevoli. Nel momento in cui pensa l’uomo ritorna alla funzione originaria del suo essere, alla meditazione creativa, a quel<br />
momento in cui produzione e conoscenza sono congiunte tra <strong>lo</strong>ro da un rapporto di reciproco scambio, a quell’istante in cui nasce la<br />
gioia più pura, l’intima autoconsapevolezza. Quando poi egli si immerge interamente nella contemplazione di questo fenomeno<br />
originario gli si di spiega dinnanzi, in una specie di spettaco<strong>lo</strong> smisurato, in un riemergere di tempo e di spazio, la storia generatrice<br />
della Natura e ogni punto saldo che si stabilisce nel fluido infinito è per lui una nuova rivelazione del genio dell’amore un nuovo<br />
legame tra il tu e l’io.» 113<br />
Tuttavia, si rammarica Novalis, «Noi cerchiamo dappertutto l’assoluto e troviamo sempre soltanto cose.» 114 E però, «In quanto<br />
una cosa è qui per me, io sono il suo fine <strong>–</strong> essa si riferisce a me. Esiste per amor mio. La mia vo<strong>lo</strong>ntà mi determina <strong>–</strong> dunque anche la<br />
mia proprietà. Il mondo deve essere come voglio io. In origine il mondo è come voglio io; ma se io non <strong>lo</strong> trovo così, devo cercare il<br />
104 Novalis, Frammenti, p. 285.<br />
105 Novalis, Frammenti, p. 91.<br />
106 Fichte, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, p. 93.<br />
107 Novalis, Frammenti, p. 95.<br />
108 Novalis, Frammenti, p. 95.<br />
109 Novalis, Frammenti, p. 82.<br />
110 Novalis, Frammenti, p. 70.<br />
111 Novalis, Frammenti, p. 91.<br />
112 Novalis, Frammenti, p. 97.<br />
113 Novalis, I discepoli di Sais, p. 76.<br />
114 Novalis, Frammenti, p. 90.<br />
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difetto di questo prodotto nei due fattori o in uno di essi. O il mondo è degenerato <strong>–</strong> o la mia vo<strong>lo</strong>ntà contraddittoria non è la mia<br />
vo<strong>lo</strong>ntà <strong>–</strong> o l’una cosa e l’altra è distinguibilmente vera nel<strong>lo</strong> stesso tempo.» 115<br />
Certamente per Novalis la vo<strong>lo</strong>ntà del soggetto è identica a sé; soltanto che essa si lascia determinare dalle forme illusorie del<br />
mondo, invece di imporre quelle della propria immaginazione. La possibilità di ricreare interiormente il mondo dei sensi è data<br />
soltanto alla fantasia poetica: «Credo di poter esprimere nel modo migliore il mio stato d’anima nella fiaba. Tutto è fiaba.» 116 «La<br />
natura è un’arpa eolia, uno strumento musicale, i cui suoni sono a <strong>lo</strong>ro volta tasti di corde più alte in noi.» 117 «La poesia risolve<br />
l’esistenza altrui nella propria.» 118<br />
Nell’Enrico di Ofterdingen Novalis fa dire al protagonista: «Tutto quanto io so, è che per me la favola è strumento universale del<br />
mio mondo attuale. La coscienza medesima, questa forza che genera sensi e mondi, questo germe di ogni personalità, mi appare come<br />
<strong>lo</strong> spirito della poesia mondiale, come l’accadimento dell’eterno romantico convenire della vita universale, infinitamente mutabile.» 119<br />
Ma, sempre nell’Enrico, Novalis confessa che «il vero spirito della favola è un ameno travestimento del<strong>lo</strong> spirito della virtù, e il<br />
proprio scopo dell’arte poetica, a questo subordinata, è l’attività della parte più alta e particolare dell’essere. C’è una mirabile identità<br />
tra un puro canto e una nobile azione. La coscienza, senza occupazione in un mondo piano e non avverso, si muta in avvincente<br />
dia<strong>lo</strong>go, in favola universale. Negli atri e nei templi di questo mondo originario vive il poeta, e la virtù è <strong>lo</strong> spirito dei suoi terreni<br />
moti e influssi. E poiché essa è la divinità, agente senza intermediari, tra uomini e il meraviglioso riflesso del mondo superiore, anche<br />
la favola <strong>lo</strong> è.» 120 Questa virtù sta nella coscienza, e «La coscienza è la più propria essenza umana in piena apoteosi, è il celeste uomo<br />
primigenio.» 121 È lei che ci permette di cogliere la possibilità di un rapporto diretto con il ‘tu’ di ciascuna cosa: «Non diventa la roccia<br />
un singolare tu nel momento in cui le rivolgo la parola? E che cosa altro sono io se non un fiume, quando osservo le sue onde e i miei<br />
pensieri si perdono nella sua corrente? Soltanto un animo sereno e svagato capirà il mondo vegetale, soltanto un bambino allegro o un<br />
selvaggio capiranno gli animali. Non so se qualcuno abbia compreso le pietre e gli astri. Ma se c’è stato qualcuno costui fu davvero un<br />
essere sublime.» 122<br />
La Natura infatti «è interamente presente ovunque. Nella fiamma di un lume sono attive tutte le forze della natura e al<strong>lo</strong> stesso<br />
modo costantemente e dappertutto essa si manifesta, si trasforma, genera contemporaneamente foglie, fiori e frutti; non soggetta al<br />
tempo, è insieme presente, passato e futuro». 123 «I vegetali sono per così dire il più immediato linguaggio del suo<strong>lo</strong>. Ogni nuova<br />
foglia, ogni fantastico fiore è un qualche mistero che si esprime e che, per non potersi muovere e non poter formare parole dal troppo<br />
amore e dalla troppa gioia, diventa una placida e muta pianta.» 124<br />
Nel pensare al rapporto tra spirito umano e Natura sembra che Novalis oscilli tra la possibilità che l’uomo scopra una multiforme<br />
ricchezza che la Natura nasconde dentro di sé, e quella che egli la proietti in essa dopo averla scoperta nel proprio spirito. «Soltanto i<br />
poeti hanno intuito ciò che la Natura può essere per l’uomo [...] e si può aggiungere inoltre che in essi si trova l’umanità nella sua<br />
forma più perfetta e così ogni impressione, per effetto della <strong>lo</strong>ro limpida trasparenza e della <strong>lo</strong>ro irrequietezza, si propaga in ogni<br />
direzione, in tutte le sue infinite variazioni. Tutto ritrovano nella Natura. Soltanto a <strong>lo</strong>ro si rivela la sua anima ed essi non inutilmente<br />
ricercano presso di lei la beatitudine dell’età dell’oro. Per <strong>lo</strong>ro la Natura possiede tutte le alterazioni di un’anima infinita». 125<br />
La nostalgia per una età dell’oro rivela una ‘patria <strong>lo</strong>ntana’ più nel tempo che nel<strong>lo</strong> spazio, come del resto il ‘paradiso perduto’,<br />
eppure sempre potenzialmente presente in ogni tempo e in ogni spazio, se soltanto l’uomo riesce a cogliere la totalità della Natura.<br />
Nelle prime pagine dell’Enrico di Ofterdingen il giovane protagonista dice a se stesso: «Ho udito una volta parlare dei tempi antichi, e<br />
come fiere e alberi e sassi abbiano al<strong>lo</strong>ra parlato agli uomini. Ho davvero il senso che debbano da un momento all’altro ricominciare,<br />
e ch’io possa vedere al <strong>lo</strong>ro aspetto quel<strong>lo</strong> che hanno da dirmi.» 126<br />
Eden biblico e mito<strong>lo</strong>gia greca si fondono, forse anche assieme a miti nordici. È sempre il richiamo della ‘patria <strong>lo</strong>ntana’ che si fa<br />
sentire con un linguaggio diverso da quel<strong>lo</strong> umano. «Molto tempo dovette passare prima che gli uomini pensassero di indicare i<br />
diversi oggetti dei <strong>lo</strong>ro sensi con un nome comune e iniziassero a contrapporre se stessi a quegli oggetti. Con la consuetudine si<br />
moltiplicano gli sviluppi e in tutti gli sviluppi hanno luogo ripartizioni, divisioni che si potrebbero tranquillamente paragonare alle<br />
rifrazioni di un raggio di luce. Al<strong>lo</strong> stesso modo il nostro spirito si è scisso a poco a poco in molteplici forze e con la consuetudine<br />
anche ‘questa scissione aumenterà. [...] Quanto più sono unite le facoltà del<strong>lo</strong> spirito, tanto più unito, completo, esclusivo, appare <strong>lo</strong>ro<br />
ogni corpo, ogni fenomeno: alla natura del senso corrisponde infatti la natura dell’impressione, ed è per questa ragione che, agli<br />
uomini primitivi, tutto sembrava umano, noto e familiare». 127<br />
Abbiamo qui una notevole precisazione della concezione di Novalis: originariamente il rapporto tra uomo e Natura (tra soggetto e<br />
oggetto) era immediato e dunque autentico, senza la mediazione del linguaggio e l’inautenticità della ragione: l’una di fronte all’altro,<br />
si rispecchiavano vicendevolmente. Novalis tuttavia non si nasconde il perico<strong>lo</strong> costante della ‘voragine interiore’, e <strong>lo</strong> esprime per<br />
115 Novalis, Frammenti, p. 90. La seconda posizione è quella che sarà assunta tra breve da Schopenhauer, per il quale la nostra vo<strong>lo</strong>ntà non è che una<br />
manifestazione della Vo<strong>lo</strong>ntà assoluta, che per sua stessa natura tende al godimento, e per raggiunger<strong>lo</strong>, determina un mondo di idee, e da queste suscita i soggetti e gli<br />
oggetti empirici, strumenti rispettivamente psichici e materiali del suo godimento.<br />
116 Novalis, Frammenti, p. 39.<br />
117 Novalis, Frammenti, p. 294.<br />
118 Novalis, Frammenti, p. 302.<br />
119 Novalis, Enrico di Ofterdingen, Guanda, 1987, p. 180. Come il Guglielmo Meister, anche il Enrico di Ofterdingen è un romanzo di formazione, ma nella<br />
fattispecie della illuminazione interiore più che in quella dell’esperienza; anzi il romanzo di Novalis intendeva contrapporsi esplicitamente a quel<strong>lo</strong> di Goethe. Esso è<br />
diviso in due parti: L’attesa e L’adempimento. Il giovane Enrico, futuro Minnesang, compie nella prima parte un viaggio che significativamente inizia dalla casa del<br />
padre (il quale non partecipa al viaggio), che <strong>lo</strong> conduce (assieme alla madre che gli vuole far conoscere la propria casa e il proprio padre) all’amicizia del grande<br />
Minnesang Klingsohr. Da costui egli sente una ‘favola’ allegorica quanto mai complessa e astrusa, allusiva della possibilità di una rigenerazione di tutto l’universo con<br />
la distruzione del male (una specie di Ragnarök rovesciato).<br />
120 Novalis, Enrico di Ofterdingen, p. 181.<br />
121 Novalis, Enrico di Ofterdingen, p. 181.<br />
122 Novalis, I discepoli di Sais, p. 75.<br />
123 Novalis, I discepoli di Sais, p. 77.<br />
124 Novalis, Enrico di Ofterdingen, p. 177.<br />
125 Novalis, I discepoli di Sais, p. 72.<br />
126 Novalis, Enrico di Ofterdingen, p. 26.<br />
127 Novalis, I discepoli di Sais, p. 37. Com’è noto, il problema dell’origine del linguaggio umano è dibattuto in tutto il Settecento e nel periodo romantico, da Vico<br />
a Humbold.<br />
21
occa di un discepo<strong>lo</strong> di Sais. «Ora, qualcuno pensa sia senza efficacia seguire le infinite scissioni della Natura e che sia oltretutto<br />
un’impresa perico<strong>lo</strong>sa, priva di interesse e senza esito. Come non si troverà mai il granel<strong>lo</strong> più picco<strong>lo</strong> o la fibra più sottile appartenuti<br />
a un corpo solido, i limiti estremi delle grandezze scompaiono infatti nell’infinito, al<strong>lo</strong> stesso modo essi sostengono che ricercando<br />
classi di corpi e di forze si incontrerebbero nuove classi, nuove combinazioni, nuovi fenomeni all’infinito. Pare che tali fenomeni si<br />
esauriscano so<strong>lo</strong> quando viene meno anche la nostra determinazione. Così viene consumato il tempo prezioso in inutili calcoli noiosi e<br />
tutto ciò che conduce alla fine alla pazzia vera e propria, alla vertigine sul ciglio spaventoso dell’abisso. E la Natura arrivati a questo<br />
punto diventa un terribile mulino della morte; ovunque straordinari avvenimenti, un infinito susseguirsi di vortici, un regno<br />
dell’intemperanza della violenza più dissennata, una smisurata estensione di miserie e di sciagure; i pochi punti luminosi rivelano<br />
ancor più chiaramente l’orrore della notte. Terrori di ogni specie angosciano colui che assiste a questo spettaco<strong>lo</strong>, sino a fargli perdere<br />
i sensi. La morte sta a lato dell’umanità disperata come un rifugio, poiché senza morte il più pazzo sarebbe il più felice. Nel desiderio<br />
stesso di scandagliare questo gigantesco ingranaggio è presente l’attrazione per l’abisso, l’inizio della vertigine; a ogni impulso il<br />
vortice sembra gonfiarsi sino a impadronirsi interamente dell’infelice e a trascinar<strong>lo</strong> lungo un’orribile notte. È in ciò il tranel<strong>lo</strong> più<br />
insidioso teso alla ragione umana che la Natura cerca di annientare come il suo peggiore nemico.» 128<br />
A questa visione tragica accostiamo, per concludere, quella tragica e spettrale di un passo del famoso ‘bozzetto’ di Jean Paul: Il<br />
sogno di Cristo orfano. «Una grande figura piena di dignità si posò dall’alto, a un tratto, sull’altare, e gridarono i morti: “Gesù, non<br />
esiste Dio?” Egli rispose: “Non esiste”. Si stese il tremito alla forma interna delle ombre, tremarono quasi a disciogliersi. Cristo<br />
riprese: “Ho attraversato mondi e asceso i pianeti, e percorso su le Vie Lattee i deserti del cie<strong>lo</strong>, ma non c’è Dio. Sono sceso <strong>lo</strong>ntano,<br />
quanto si estende l’ombra che segue <strong>lo</strong> sguardo, ho spiato nell’abisso e gridato: Dove sei, Padre?, ma udivo so<strong>lo</strong> il frastuono eterno<br />
dell’uragano che nessuno governa, sfavillava da occidente l’arcobaleno senza riflettere in sé alcun sole, e sgocciolava sopra l’abisso.<br />
Tornai a guardar in alto, nella distesa del mondo, cercai ancora l’occhio di Dio; ma so<strong>lo</strong> l’universo mi fissava, con le sue orbite senza<br />
fondo. L’eternità rodeva il caos sul quale giaceva, e ruminava se stesso. [...] “Non abbiamo dunque padre?” “Siamo tutti orfani, io<br />
come voi”, rispose egli piangendo, “nessuno ha padre”.» 129<br />
5. 2- Hölderlin e la tragedia romantica dell’unità<br />
Friedrich Hölderlin ci sembra riassumere in modo emblematico i caratteri del Romanticismo tedesco, sia perché la sua opera è<br />
incentrata sulle metafore della ‘patria’, del ‘padre’ e della ‘voragine’, sia perché essa vive della dialettica delle antinomie di cui<br />
abbiamo detto all’inizio, sia soprattutto perché l’adesione di Hölderlin alla sua opera è totale, così che il crol<strong>lo</strong> dell’unità psichica<br />
dell’autore si determina contemporaneamente al ‘fallimento’ del fine intrinseco alla produzione letteraria.<br />
Friedrich Hölderlin visse 73 anni: dal 1770 al 1843; ma la metà di essi furono anni di alienazione. Il crol<strong>lo</strong>, preannunciato qualche<br />
anno prima, avvenne nel 1807; e da quel momento, fino alla morte, visse in una torre, a Tubinga, affidato all’assistenza del falegname<br />
Zimmer. Simile sarà il destino di un altro grande tedesco, affine ad Hölderlin per credo e sforzo estetico-esistenziale, il primo<br />
all’inizio e il secondo al termine della parabola romantica: Friedrich Nietzsche; potremmo dire che essi rappresentino le più pure<br />
vittime del Romanticismo.<br />
Per i tedeschi, la terra sotto i <strong>lo</strong>ro piedi non è mai stata interamente una patria: così divisa (le paci di Westfalia, le confessioni<br />
religiose, il Sacro Romano Impero), essa è una ‘patria <strong>lo</strong>ntana’; si confonde con l’Eden perduto cantato da Milton, e con il perduto<br />
contatto originario del popo<strong>lo</strong> con la Natura: il richiamo della <strong>lo</strong>ntananza sembra un elemento essenziale della stirpe germanica.<br />
Hölderlin, come poi Nietzsche, visse in modo radicale l’antinomia, l’ossimoro romantico: <strong>lo</strong> visse nel pensiero e nel sentire, <strong>lo</strong><br />
visse nell’opera poetica e nella coscienza; ma né nell’una né nell’altra raggiunse il te<strong>lo</strong>s a cui mirava: un’unità superiore, assoluta,<br />
quale contemporaneamente tentavano Fichte e Novalis.<br />
Negli anni della coscienza, come pure, ma in altra forma, in quelli dell’alienazione, egli è costantemente consapevole dell’abisso<br />
davanti al quale si trova; davanti al quale si trova ogni autentico romantico, e cioè ogni idealista in senso stretto. Questa<br />
consapevolezza è espressa in modo inequivoco in una esclamazione di Iperione, il personaggio di cui dobbiamo parlare: «Sono più<br />
che maturo per l’azione, e se non mi libero presto in un’opera viva, la mia anima infurierà contro se stessa.» 130 Ma in realtà, nessun<br />
idealista è maturo per l’azione, poiché egli abita la propria immaginazione, nella quale non si compiono azioni, ma si susseguono<br />
sogni, secondo l’atteggiamento pietistico. Del resto, Iperione stesso esclama: «L’uomo è un dio quando sogna, è un mendicante<br />
quando riflette.» 131<br />
Che, nel caso specifico, Hölderlin non sia mai stato maturo per una azione romantica è dato dal fatto che questa ‘opera viva’ è di<br />
per sé impossibile, trattandosi di autogenesi, di autorigenerazione. Ma un idealista o rinuncia ad essere tale, magari con l’autoironia, e<br />
al<strong>lo</strong>ra mantiene l’unità psichica, o si mantiene coerente con se stesso fino a far saltare l’identità che possedeva. In altro modo si può<br />
dire che al romantico stia davanti una voragine psichica per la tensione che vive tra sé e il ‘padre assente’, tra sé e la ‘patria <strong>lo</strong>ntana’, a<br />
cui tende.<br />
128 Novalis, I discepoli di Sais, p. 48. Dice il protagonista dell’anonimo romanzo I Notturni di Bonaventura, sorvegliante notturno di un cimitero: «Avevo smesso<br />
di pensare ad ogni altra cosa, non pensavo che a me stesso! Nessun oggetto, intorno, salvo il grande Io pauroso che si nutre di sé e che nel perpetuo ringoiamento torna<br />
a generarsi», I notturni di Bonaventura, Rizzoli, 1984, p. 124. A tito<strong>lo</strong> di esempio contrario alle posizioni romantiche del tipo novalisiano, riportiamo ancora tre brani<br />
di questo sconcertante, ma significativo romanzo. Dice ancora il protagonista: «Cerco soltanto di pensare che non penso a nulla, e forse così m’avventuro fin sulla<br />
soglia di me stesso!» p. 95. Parlando amleticamente ad un verme, dice: «L’idealismo di quanti fi<strong>lo</strong>sofi hai ridotto a questo tuo realismo? Sei un inoppugnabile<br />
documento della vera utilità delle idee, tu che ti sei fatto l’adipe alla saggezza di chi sa quante teste.» p. 142. «Tanto, la sede d’ogni cosa è in noi, fuori di noi nulla c’è<br />
di vero; secondo la scuola moderna non sappiamo nemmeno se di fatto ci teniam ritti sui piedi o sulla testa, se non avessimo optato in buona fede per la prima<br />
positura.» p. 119. Si ricordi l’affermazione di Feuerbach e di Marx della necessità di far camminare l’uomo sui piedi, e non sulla testa come aveva fatto Hegel.<br />
129 Jean Paul Friedrich Richter, Il sogno di Cristo orfano, in Germanica. Racconti di narratori. Dalle origini ai nostri giorni, a cura di Leone Traverso, Bompiani,<br />
1943, p. 133. Il racconto fu scritto da Jean Paul nel 1789, ma riveduto e inserito nel romanzo Siebenkäs pubblicato nel 1799. Si tratta di un breve racconto in cui <strong>lo</strong><br />
scrittore narra di aver fatto il sogno terrificante di un universo senza Dio. Ma al risveglio, si scioglie in lacrime per la gioia di essere sempre sotto <strong>lo</strong> “guardo d’un Pare<br />
Infinito”. Nella prima stesura il personaggio che parla ai morti era Shakespeare, cambiato poi in Cristo.<br />
130 Hölderlin, Iperione, p. 122.<br />
131 Hölderlin, Iperione, p. 37.<br />
22
Pellegrino che torna nella casa<br />
paterna, mi gettai nell’Infinito.<br />
Nella tempesta fra tutte più sacra<br />
cada in rovina il muro del mio carcere<br />
ed avanzi il mio spirito, sovrano,<br />
libero, nella terra sconosciuta. 132<br />
La sua lunga condizione di alienazione mentale è l’effetto in ambito psichico del capovolgimento dei trascendentali dell’essere,<br />
attuato paradossalmente non mediante <strong>lo</strong> sforzo di negazione dell’uno a favore della molteplicità, ma, al contrario, nel tentativo di<br />
attuar<strong>lo</strong> pienamente in se stesso nei confronti della Natura e dell’Umanità. Fin dall’inizio, nel Thalia-fragment Hölderlin afferma che<br />
«il sogno dell’uomo è di essere contemporaneamente in tutto e al di sopra di tutto». 133 Inoltre, in una lettera a Schiller del 1795 scrive:<br />
«Cerco di dimostrare che l’unificazione di soggetto e oggetto in un Io assoluto (comunque si voglia chiamar<strong>lo</strong>) <strong>–</strong> esigenza irriducibile<br />
a ogni forma di sistema <strong>–</strong> può essere ottenuta teoricamente e praticamente soltanto nella modalità di un’approssimazione infinita,<br />
come quella del quadrato rispetto al cerchio: risulta invece possibile in un’intuizione intellettuale estetica.» 134<br />
La vocazione poetica di Hölderlin è dunque propria del ‘poeta sentimentale’: è una radicale vocazione esistenziale che trova nella<br />
poesia (nell’arte in genere) la possibilità di abbattere la dicotomia di soggetto-oggetto. L’‘Idealismo magico’ di Novalis si presenta in<br />
Hölderlin come un titanismo che non può fermarsi al vagheggiamento fantastico, al desiderio sognato, ma che forza la coscienza ad<br />
una identità con il Tutto che è un tragico equivoco del romantico.<br />
Dove nessuna forza della terra,<br />
nessun cenno divino ci divide,<br />
e dove siamo uno e siamo il tutto,<br />
è questo l’elemento entro cui vivo. 135<br />
Scrive non molto dopo Fichte: «Non v’è bisogno di alcun legame tra soggetto e oggetto; il mio essere stesso è questo legame. Io<br />
sono soggetto e oggetto: e questo soggetto-oggettività, questo ritornare del sapere in se stesso, è ciò che ch’io designo col concetto Io,<br />
se è vero che io con esso penso qualcosa di determinato.» 136 Ma questa identità, che risulta teoreticamente dalla dialettica idealistica,<br />
non viene peraltro raggiunta realmente dalla persona se non attraverso un ‘organo’ diverso dalla ragione; e Fichte esclama: «Ti<br />
comprendo ora, Spirito sublime. Ho trovato l’organo col quale afferro questa realtà e con questa insieme, probabilmente, ogni altra<br />
realtà. Quest’organo non è il sapere; nessun sapere può fondare e provare se stesso; ogni sapere presuppone qualcosa di ancora più<br />
elevato come sua causa, e questo risalire non ha termine. È la fede; questo vo<strong>lo</strong>ntario acquetarsi nella concezione che ci si presenta<br />
naturalmente, poiché noi so<strong>lo</strong> in questa concezione possiamo adempiere la nostra missione; è essa che dà al sapere la sua<br />
approvazione ed eleva a certezza e convinzione ciò che senza di lei sarebbe pura illusione. Non è affatto un sapere ma una decisione<br />
della vo<strong>lo</strong>ntà di dar validità al sapere.» 137<br />
La vecchia fede religiosa si rinnova in questo modo in una fede idealistica: l’‘illusione trascendentale’ causata dalla introiezione<br />
della retorica nel Barocco del contenuto, il diritto soggettivo che si estende ad ogni possibile oggetto, il capovolgimento dei<br />
trascendentali dell’essere e l’identità con i <strong>lo</strong>ro contrari sono tutti presenti. I trascendentali kantiani, il tempo e <strong>lo</strong> spazio, sotto <strong>lo</strong><br />
sforzo titanico del romantico si compenetrano e si fondono in quella immaginazione che, più che essere ‘produttiva’, è semplicemente<br />
paranoica: «Io sono immortale, imperituro, eterno, non appena prendo la decisione di obbedire alla legge razionale; non ho bisogno<br />
prima di esser<strong>lo</strong>. Il mondo sovrasensibile non è affatto un mondo futuro, esso è presente; esso non può essere in nessun punto<br />
dell’esistenza finita più presente che in un altro; dopo una esistenza di miriadi di durate di vita non può essere più presente che in<br />
questo momento. Altre missioni della mia esistenza sensibile sono future; però queste sono la vera vita altrettanto poco come <strong>lo</strong> è la<br />
missione presente. Con una decisione io afferro l’eternità e annul<strong>lo</strong> la vita terrena e tutte le altre vite sensibili che ancora mi possono<br />
essere riservate, e mi elevo sopra di esse. Io divento per me stesso la vera fonte di ogni mio essere e dei miei fenomeni: e ho, da ora in<br />
poi, la vita in me stesso, senza dipendere da qualcosa fuori di me. La mia vo<strong>lo</strong>ntà, che io stesso, e nessun altro estraneo, inserisco<br />
nell’ordine di questo mondo, è questa fonte della vera vita e dell’eternità.» 138<br />
È il parricidio romantico per l’autogenesi idealistica: Kant aveva suscitato Fichte, Fichte aveva suscitato Hölderlin e Novalis, ora<br />
questi ultimi suscitano un nuovo Fichte che tenta la sintesi estrema dell’Idealismo. Scrive Mittner: «”Nec tecum possum vivere nec<br />
sine te” è posizione romantica per eccellenza che un Tedesco esprimerà in forma ben diversamente caratteristica, nella forma del<br />
dilemma nel dilemma: “Posso vivere soltanto o simultaneamente due vite opposte o nessuna”. Il dilemma romantico non è infatti<br />
essere o non essere, ma essere quel<strong>lo</strong> che si è e essere quel<strong>lo</strong> che non si è». 139 In questo modo, i trascendentali kantiani sono serviti da<br />
punti d’appoggio al parricidio (annullare il tempo) e al<strong>lo</strong> struggimento dell’esilio in patria (estraneità del<strong>lo</strong> spazio).<br />
Ma occorre prendere in considerazione un po’ da vicino l’Iperione per intraprenderne una verifica, l’opera che già nel sottotito<strong>lo</strong><br />
(o del pellegrino in patria) mostra la prima delle metafore che ci interessano: ‘la patria <strong>lo</strong>ntana’, ‘l’esilio in patria’. «Ancora una volta<br />
il caro suo<strong>lo</strong> della patria mi dona gioia e do<strong>lo</strong>re.» Questo è l’inizio del romanzo epistolare, della prima lettera che Iperione invia<br />
132 Il destino, Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 157.<br />
133 Hölderlin, Iperione, dal saggio introduttivo di Jacques Taminiaux, p. 10.<br />
134 Hölderlin, Iperione, nel saggio introduttivo, p. 18.<br />
135 Diotima [1796], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 181.<br />
136 Johan Gottlieb Fichte, La missione dell’uomo, Editori Laterza, 1970, p. 81.<br />
137 Fichte, La missione dell’uomo, p. 111. Dice Faust: «Io sento il messaggio, ma mi manca la fede, e della fede il miraco<strong>lo</strong> è il figlio prediletto.» Goethe, Faust, p.<br />
26. Al ‘sapere’, che dà l’oggetto al soggetto, Fichte aggiunge la ‘fede’, che genera il ‘miraco<strong>lo</strong>’ della completa identificazione di soggetto e oggetto, e cioè della<br />
proiezione del primo sul secondo: l’immagine nel<strong>lo</strong> <strong>specchio</strong> diviene a questo punto l’immagine del<strong>lo</strong> <strong>specchio</strong>.<br />
138 Fichte, La missione dell’uomo, p. 149. È la fede che prelude a quella dell’eterno ritorno di Nietzsche.<br />
139 Mittner, Ambivalenze romantiche, p. 284.<br />
23
all’amico Bellarmino. 140 Ma la concretezza storico-geografica della Grecia in rivolta contro l’Impero ottomano svapora subito in una<br />
dilatazione immaginifica: «Essere Uno con Tutto: questa è la vita della divinità, questo il cie<strong>lo</strong> dell’uomo.» 141<br />
La coscienza di Hölderlin-Iperione si presenta come coscienza della distinzione tra la forza del sogno e l’impotenza della<br />
riflessione razionale: «L’uomo è un dio quando sogna, è un mendicante quando riflette. E quando l’entusiasmo è scomparso, egli<br />
rimane come un figlio sciagurato che il padre ha cacciato di casa, e osserva i miseri centesimi che la pietà gli ha procurato lungo il<br />
cammino.» 142 Ma questa è una coscienza, come si vede, che viene rifiutata e combattuta, poiché essa sconfesserebbe la tensione<br />
(‘entusiasmo’) verso l’infinito. Va sottolineata la seconda espressione di Iperione, in quanto mostra <strong>lo</strong> stretto legame tra ‘patria<br />
<strong>lo</strong>ntana’ e ‘padre assente’: il romantico è infatti l’Adamo luterano che rinfaccia a Dio di aver<strong>lo</strong> cacciato dal Paradiso terrestre, dalla<br />
terra in cui è nato. 143<br />
Iperione, che nella rivoluzione greca contro i Turchi combatte va<strong>lo</strong>rosamente, e viene ferito e curato dall’amico Alabanda (ma nel<br />
romanzo non c’è traccia di azioni di qualsiasi genere), non ha visto risorgere la propria patria; ma, a questo punto, nella lettera in cui<br />
egli rende noto a Diotìma, la donna amata, l’esito dell’insurrezione, aggiunge qualcosa del tutto inessenziale alla vicenda, ma<br />
fondamentale per tracciare il profi<strong>lo</strong> della mentalità romantica in generale e di Hölderlin in particolare: «E c’è ancora una cosa che ti<br />
ho taciuto a lungo: mio padre mi ha rinnegato solennemente, mi ha cacciato dalla casa della mia giovinezza, non mi vuole vedere mai<br />
più, né in questa vita né, come lui dice, in quella futura. Questa è la risposta alla lettera con cui gli scrivevo della mia impresa.» 144<br />
Siamo giunti alla esplicita ‘maledizione paterna’; 145 ma se guardiamo bene, al di là dell’aspetto biografico del poeta, che aveva<br />
perduto il padre all’età di tre anni, la prospettiva si capovolge, presentandosi piuttosto come la ‘maledizione filiale’: l’insofferenza nei<br />
confronti del ‘padre’ e la ribellione sturmeriana a lui e all’ordine che rappresenta. Anche Iperione, dunque, come quasi tutti i<br />
romantici, doveva avere un ‘padre assente’ o addirittura un padre ostile; e infatti numerose sono le opere letterarie tra Sette e<br />
Ottocento, come abbiamo già ricordato, che presentano il protagonista orfano di padre (mentre la ‘divina fanciulla’ in genere è orfana<br />
di madre); altre poi si imperniano sul contrasto tra padre e figlio, e molte tragedie nascono come tragedie del parricidio o del<br />
tirannicidio, con la variante del fratricidio. 146 È <strong>lo</strong> scontro di generazioni, ma è anche <strong>lo</strong> scontro di due culture e di due classi sociali a<br />
partire dalla seconda metà del Settecento. Si potrebbe dire che la metafora forse più propria del Romanticismo tedesco sia appunto<br />
quella del ‘padre assente’ o del ‘parricidio’; una metafora che, dopo la fi<strong>lo</strong>sofia di Hegel e della sinistra hegeliana, in Nietzsche si<br />
muterà in quella ben più pesante di ‘Dio è morto’.<br />
In prossimità di questa tematica si col<strong>lo</strong>ca naturalmente quella dell’‘infanzia rimpianta’, di cui abbiamo visto qualcosa in Schiller.<br />
Vicina al sogno, <strong>lo</strong>ntana ancora dalla mortificante realtà quotidiana, è la condizione dell’infanzia, dell’individuo appena ‘uscito’ dalla<br />
Natura, dalle ‘mani di Dio’, per dirla con le parole di Rousseau. 147 «Sì, il bambino è un essere divino finché non si immerge nei co<strong>lo</strong>ri<br />
camaleontici degli uomini. [...] Pace è in lui: non è ancora in discordia con se stesso. [...] Ma gli uomini non possono tollerare tutto<br />
questo. Vogliono che il divino diventi come uno di <strong>lo</strong>ro, riconosca la <strong>lo</strong>ro esistenza; e, prima ancora che la natura <strong>lo</strong> cacci dal suo<br />
paradiso, <strong>lo</strong> trascinano fuori con le lusinghe o con la forza sulla terra della maledizione». 148 Il ‘padre’ qui è nascosto nell’anonimato<br />
degli ‘uomini’, e la «terra della maledizione» è naturalmente il contrario della patria a cui aspira Hölderlin-Iperione. Del resto, data la<br />
condizione dell’uomo, Iperione esclama: «Ah, per il cuore selvaggio dell’uomo non esiste possibilità di alcuna patria». 149 E parlando<br />
di Alabanda, l’attivo amico, alter-ego di Iperione, dice: «Lui, scacciato dal destino e dalle barbarie degli uomini fuori della propria<br />
casa tra gente straniera [...]. Io, già così profondamente staccato da ogni cosa, così totalmente straniero e solitario fra gli uomini,<br />
accompagnato nelle più care me<strong>lo</strong>die del mio cuore dalle risa e dalle beffe del mondo». 150<br />
Come si vede, vi è uno stretto legame tra ‘patria’ e ‘padre’, tra la ‘casa del padre’ e il ‘padre’ che <strong>lo</strong> ha cacciato (e maledetto). Ma<br />
dietro questo dramma, che sembra personale e sociale, è evidente il dramma esistenziale provocato da un clima particolare che si è<br />
maturato in Germania, determinato dalla dilatazione della retorica all’interno dell’anima tedesca, per quel Barocco del contenuto di<br />
cui abbiamo parlato. Tutto l’Iperione si presenta come l’espressione di un Pietismo esasperato, che non trova più requie nella<br />
‘capanna’, né sufficiente la presenza di un amico del cuore (Alabanda), o il ‘balsamo’ di un’‘anima bella’ (Diotìma), ma esp<strong>lo</strong>de in un<br />
conato di azione («opera viva») che non si attua mai, e in una lacerazione interiore che ribadisce il romantico nella propria<br />
convinzione: «gli Dei, che concedono il fuoco / del cie<strong>lo</strong>, donano il do<strong>lo</strong>re sacro.» 151<br />
‘Cuore selvaggio’ ed entusiasmo sono le due condizioni in cui viene a trovarsi alternativamente Hölderlin-Iperione, senza mai<br />
trovare un punto intermedio di equilibrio che non sia quel<strong>lo</strong> della spossatezza mortale. Da una parte egli dice: «Talvolta il mio spirito<br />
140 Hölderlin, Iperione, p. 35. Ben diverso è l’inizio del foscoliano romanzo epistolare: «Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita,<br />
seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure e la nostra infamia», Nicolò Ugo Fosco<strong>lo</strong>, Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Iperione è un<br />
greco che partecipa alla ribellione della sua gente al dominio turco durante la guerra russo-turca del 1770. A differenza del Werther, il romanzo di Hölderlin non è<br />
incentrato sull’amore del protagonista per una giovane, ma sull’amore di patria, o meglio sull’aspirazione all’identità di Iperione (Io) con la sua terra (Non io).<br />
Bellarmino è l’ana<strong>lo</strong>go di Guglielmo del Werther, e di Lorenzo dell’Ortis.<br />
141 Hölderlin, Iperione, p. 36.<br />
142 Hölderlin, Iperione, p. 37.<br />
143 Quanto abbia potuto influenzare sull’immaginazione di Hölderlin il grande affresco del Paradiso perduto di Milton possiamo soltanto immaginare. La mito<strong>lo</strong>gia<br />
germanica è da Milton sostituita da una mito<strong>lo</strong>gia cristiana che privilegia largamente una ‘immaginazione produttiva’ dietro la quale non vi è alcun noumeno. Ma alle<br />
due precedenti mito<strong>lo</strong>gie Hölderlin preferisce quella greca.<br />
144 Hölderlin, Iperione, p. 134.<br />
145 Ricordiamo La maledizione paterna dipinta da Greuze.<br />
146 V. anche le tragedie di Vittorio Alfieri.<br />
147 «Tutto è bene uscendo dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo.», aveva affermato Rousseau all’inizio dell’Emilio. J. J.<br />
Rousseau, Emilio e altri scritti pedagogici, Sansoni, 1963, p. 5.<br />
148 Hölderlin, Iperione, p. 38. Scrive Lupi: «La bellezza del mistero dell’uomo traluce in abissale profondità soltanto dal lucido limpido occhio del fanciul<strong>lo</strong>, che sa<br />
‘vedere’ la verità delle cose senza conoscerle. Questa conoscenza di qua dalla conoscenza è <strong>lo</strong> stato adamico prima del peccato, prima della distinzione del bene e del<br />
male, nella perenne felicità del paradiso terrestre: la felicità che giubila intatta nell’animo del fanciul<strong>lo</strong>, che può ancora godere del contatto originario.» Sergio Lupi,<br />
Hölderlin e il mito del paradiso perduto, in “Arte e Storia”, Università di Torino, Facoltà di Lettere e Fi<strong>lo</strong>sofia, 1965, p. 174.<br />
149 Hölderlin, Iperione, p. 43.<br />
150 Hölderlin, Iperione, p. 52.<br />
151 Paese natale [1799?], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 335.<br />
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itrova un poco di forza, ma soltanto per distruggere», 152 dall’altra afferma che «Anche il più generoso ze<strong>lo</strong> degli uomini è una ben<br />
misera cosa di fronte all’onnipotenza dell’entusiasmo indiviso.» 153<br />
La mancanza di un suo<strong>lo</strong> sotto di lui è la mancanza della sua sintonia con il suo popo<strong>lo</strong>: «Un popo<strong>lo</strong> in cui spirito e grandezza non<br />
generano più spirito e grandezza, non ha più nulla in comune con quei popoli che sono ancora formati da uomini; non ha più alcun<br />
diritto [...]. Scompaiano!» 154 La condanna sbrigativa di questi popoli, privi di diritto all’esistenza, certamente è una iperbole retorica;<br />
ma non si esprime diversamente Fichte: «Quei selvaggi son destinati ad essere gli antenati di generazioni più forti, più colte, e più<br />
degne; altrimenti non si potrebbe pensare alcuno scopo della <strong>lo</strong>ro esistenza, né si comprenderebbe la possibilità di questa esistenza in<br />
un mondo organizzato razionalmente.» 155<br />
La causa della disarmonia che il romantico sente dentro di sé, e che interpreta come mancanza di ‘patria’, egli l’attribuisce agli<br />
uomini, alla storia, al ‘padre’, così che risulta drammaticamente conflittuale il rapporto triangolare tra il ‘padre’ (tradizione), la<br />
‘patria’ (territorio di un popo<strong>lo</strong>) e la sua stessa anima, la quale resta senza punti di riferimento. La ‘patria’ è infatti un terreno che<br />
l’uomo non ha mai sotto i propri piedi: «Ma a noi non è dato / riposare in un luogo». 156 La tentazione è quella che ci si volga ad una<br />
‘patria’ che non è di questo mondo; ma Hölderlin si oppone a questa tentazione che nasce da semplice debolezza: «[...] e perché<br />
questa anima esiliata / non cerchi sempre e aneli oltre la vita». 157 Quanto alla Germania, è a lei che va costantemente il suo pensiero:<br />
Terra del Genio arduo e severo.<br />
Terra d’amore. E io che sono dei tuoi<br />
spesso mi sdegno e piango perché sempre<br />
rinneghi stolta la tua vera anima. 158<br />
La condizione perché un territorio diventi ‘patria’ è quella dell’unità spirituale del popo<strong>lo</strong> che vi abita; unità che in particolare<br />
proprio i tedeschi possono raggiungere:<br />
Genio del nostro popo<strong>lo</strong>, o creatore,<br />
anima della patria, quando intera<br />
apparirai, perché mi genufletta,<br />
e ammutolisca innanzi a te il mio canto [...]? 159<br />
Nella poesia Il Reno Hölderlin svela come nasca il conflitto romantico in questo triango<strong>lo</strong> e per quale ragione:<br />
Pure è <strong>lo</strong>ro [degli dèi] decreto<br />
che infranga la propria casa<br />
e dica villania a ciò che più<br />
ama come a un nemico<br />
e seppellisca sotto le macerie<br />
padre e figlio, chi voglia<br />
essere come <strong>lo</strong>ro e non sopporta<br />
l’ineguaglianza nella sua follia. 160<br />
Qui ‘ineguaglianza’ sta per ‘divisione’, poiché il tema è sempre quel<strong>lo</strong> del raccogliere in unità nella ‘propria casa’ ‘padre e figlio’,<br />
fare di tutti un uno che naturalmente sia all’altezza del ‘figlio’, non del ‘padre’: l’idiosingrasia del romantico per la normalità è totale.<br />
La nostalgia dell’Assoluto, questo «Essere Uno con Tutto», come ha detto, nasce secondo Hölderlin nel contatto con la finitezza<br />
alla prima scoperta della bellezza: è il momento della nascita dell’amore (mito platonico di Eros). «Conoscete voi il suo nome? Il<br />
nome di ciò che è l’Uno e il Tutto? Il suo nome è Bellezza», 161 così esclama Iperione annunciando a Bellarmino la sua conoscenza di<br />
Diotìma. Amore come forza che spinge alla bellezza e alla identificazione con essa (vedi discorso di Diotìma nel Convivio platonico).<br />
Dalla bellezza tutto si genera per amore perché ritorni alla bellezza (moto circolare). Non Dio, ma la Natura genera: genera sé nella<br />
molteplicità, invitando ogni parte al non isolamento, al sentimento dell’organicità, al ritorno all’unità. E il pensiero di Hölderlin va<br />
subito alla Grecia: «La prima figlia della bellezza è l’arte. Così è stato presso gli Ateniesi. La seconda figlia della bellezza è la<br />
152 Hölderlin, Iperione, p. 68.<br />
153 Hölderlin, Iperione, p. 41. Credo che il concetto di «entusiasmo indiviso» sia fondamentale nel pensiero di Hölderlin, e che significhi la concentrazione totale<br />
delle energie di cui dispone l’io, quale soggetto capace di produrre in se stesso l’adeguato oggetto, dalla cui unione dovrebbe scaturire la scintilla dell’autogenesi o<br />
della fusione dell’io con il tutto. Nell’Inno alla dea dell’Armonia esclama: «Guarda, guarda: dal mare sollevato / E dai colli e dal grembo della valle / Infinite creature<br />
si divincolano / Selvagge, vacillanti nella gioia. [...] / Vieni, Figlio. O prescelto nella dolce / ora della creazione, vieni e amami. / Il bacio mio ti consacrerà al patto, /<br />
spirito del mio spirito t’infusi. / Questo mio mondo è <strong>specchio</strong> alla tua anima, / questo mio mondo, o Figlio, è l’Armonia. / [...] La bellezza perenne da me sgorga, / da<br />
me sgorga l’oceano del sublime.» Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 117. Quella che è la fede per Fichte della Missione dell’uomo è l’entusiasmo indiviso per Hölderlin<br />
dell’Iperione: una fede massimamente potenziata.<br />
154 Hölderlin, Iperione, p. 53.<br />
155 Fichte, La missione dell’uomo. p. 129.<br />
156 Canto di Iperione e del destino [1799], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 253, 257.<br />
157 Il mio regno [1799], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 287. È significativa, nel periodo della pazzia, la preoccupazione di Hölderlin di dichiarare: «Sono proprio sul punto di<br />
diventare cattolico, Vostra Maestà».Waiblinger, Hölderlin, p. 81.<br />
158 Il canto dei tedeschi [1799?], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 303.<br />
159 Ai tedeschi [1799?], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 317. È da notare l’aggettivo ‘intera’, non perché ora frazionata dal gran numero di Stati tedeschi, ma perché divisa in<br />
se stessa, alienata in una infinità di interessi a lei estranei.<br />
160 Il Reno [1801], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 625.<br />
161 Hölderlin, Iperione, p. 75.<br />
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eligione. La religione è l’amore per la bellezza. Il saggio ama la bellezza stessa, la bellezza infinita che tutto abbraccia. Il popo<strong>lo</strong> ama<br />
i suoi dèi che gli appaiono in molteplici forme.» 162<br />
È, quest’ultimo, un punto interessante, che starà alla base delle poesie successive a Iperione: un popo<strong>lo</strong> deve sapere generare i<br />
propri dèi, dèi nati dalla «onnipotenza dell’entusiasmo indiviso», poiché essi soltanto possono rappresentare adeguatamente l’oggetto<br />
di quel soggetto che è il popo<strong>lo</strong>. Al<strong>lo</strong> stesso modo, in un tale contesto, anche l’individuo può raggiungere questa identità di interno ed<br />
esterno: «Sacra natura! <strong>–</strong> esclama Iperione <strong>–</strong> Sei la medesima in me e fuori di me. Non dev’essere tanto difficile unire ciò che è fuori<br />
di me al divino che è in me.» 163 Questo, purché si <strong>lo</strong>tti in solitudine, <strong>lo</strong>ntano dalla folla, poiché questa è la vocazione poetica che<br />
Hölderlin ha sempre sentito.<br />
Grazie a te, solitudine fedele,<br />
che mi hai tolto al vociare della folla<br />
perché io canti ardendo il lauro a cui<br />
unicamente il mio cuore è consacrato. 164<br />
E Hölderlin, come poeta-vate del proprio popo<strong>lo</strong>, sente di poter raggiungere l’identità cercata, anche se Iperione confessa: «Certo<br />
io non sono ancora pronto a guidare il mio popo<strong>lo</strong> nell’Olimpo della divina bellezza, dove il vero e il bel<strong>lo</strong> sgorgano da fonti<br />
eternamente giovani.» 165 Ma ancora una volta egli passa dall’‘entusiasmo indiviso’ alla disperazione: «Sono più che maturo per<br />
l’azione, e se non mi libero presto in un’opera viva, la mia anima infurierà contro se stessa.» 166 Diotìma ci mostra in che consista la<br />
causa dei tracolli che Iperione subisce: «La sconfinata impotenza dei tuoi contemporanei ti ha tolto la vita.» 167<br />
A questo punto, dato il fallimento dell’idea di poter guidare il suo popo<strong>lo</strong> «nell’Olimpo della divina bellezza», Iperione decide di<br />
andare in Germania: così, Hölderlin, che è andato in Grecia sotto la figura di Iperione, è costretto a far tornare nella propria terra<br />
l’eroe che <strong>lo</strong> rappresenta. «Giunsi così tra i Tedeschi. Non esigevo molto ed ero disposto a trovare ancor meno. Arrivai, come il cieco<br />
e senza patria Edipo alle porte d’Atene, dove il bosco sacro <strong>lo</strong> accolse ed anime nobili gli si fecero incontro... Come fu diverso da ciò<br />
che accadde a me! Barbari da tempi immemorabili, resi ancor più barbari dal <strong>lo</strong>ro ze<strong>lo</strong>, dalla <strong>lo</strong>ro scienza e dalla religione stessa,<br />
profondamente incapaci di ogni sentimento divino, troppo corrotti fino al midol<strong>lo</strong> per cogliere la gioia delle sacre grazie, offendevano<br />
un’anima delicata con i <strong>lo</strong>ro eccessi e con le <strong>lo</strong>ro meschinità ed erano vuoti e disarmonici come cocci di un vaso gettato... questi, mio<br />
Bellarmino, furono i miei consolatori. Sono parole dure, ma devo dirle, perché questa è la verità: non posso immaginarmi un popo<strong>lo</strong><br />
più dilacerato di quel<strong>lo</strong> tedesco. Puoi incontrare operai, ma non uomini; pensatori, ma non uomini; sacerdoti, ma non uomini; padroni<br />
e schiavi, giovani e adulti, ma non uomini...» 168 Naturalmente, sono parole di Hölderlin ben più che di Iperione, sulle cui labbra esse<br />
suonano inappropriate.<br />
Nella poesia Alla Natura dice: «Questo nei giorni lieti non provasti, / come la patria tua ti è <strong>lo</strong>ntana» 169 . E sulla patria Iperione fa<br />
queste considerazioni: «Oh, Bellarmino, quando un popo<strong>lo</strong> ama il bel<strong>lo</strong> e onora il genio nei suoi artisti, al<strong>lo</strong>ra comincia a circolare<br />
uno spirito comune simile a un soffio vitale; al<strong>lo</strong>ra il timido pensiero germoglia, la presunzione si dissolve, tutti i cuori sono pii e<br />
grandi e l’entusiasmo genera eroi. Un simile popo<strong>lo</strong> è la patria di ogni uomo e <strong>lo</strong> straniero vi dimora volentieri.» 170 L’unità spirituale<br />
di un popo<strong>lo</strong> è come l’anticipazione di quella più profonda con l’intera Natura, che nelle poesie assume in genere la denominazione di<br />
‘Etere’:<br />
[...] è come la patria del cuore<br />
che da lassù mi chiama, ed io vorrei sulle alpi<br />
di vetta in vetta andare invocando l’aquila pronta<br />
che dalla prigionia mi levasse alla sala del Padre 171 .<br />
In questa «sala del Padre», che non ha certamente i caratteri cristiani, Hölderlin vorrebbe alla fine incontrare il Padre stesso, faccia<br />
a faccia: «Ma ora infine / fa che t’incontri a viso aperto, Padre.» 172 Egli però comprende il silenzio del ‘padre assente’, perché ne ode<br />
il richiamo: quel<strong>lo</strong> che non può comprendere è invece il parlare dell’uomo; e amaramente il poeta confessa la propria incomprensione:<br />
«[...] io capii il silenzio del Cie<strong>lo</strong>, / io non ho mai capito la parola umana.» 173 Qui la ‘parola umana’ è la parola della colpevole<br />
limitatezza dell’uomo, della negazione dell’entusiasmo, della mancanza di slancio verso l’alto, verso la propria origine. Il Cie<strong>lo</strong>,<br />
l’Etere, è ciò da cui tutto deriva, e soprattutto è ciò a cui tutto dovrebbe tendere, perché gli aspetti della Natura sono un richiamo<br />
all’alto. Alcuni elementi naturali hanno in particolare funzione simbolica: monti, fiumi, fuoco, sole, alba, ecc.: essi da sempre<br />
realizzano la relazione di dipendenza-tendenza nei confronti dell’Etere. In modo particolare, i fiumi realizzano il moto naturale per<br />
eccellenza: disge<strong>lo</strong>, discesa, cammino, raggiungimento del fine. Il fiume rappresenta per di più non il singo<strong>lo</strong>, ma l’insieme; esso<br />
rappresenta poi il tempo per il suo scorrere e l’eterno per il suo permanere. Esprime ancora l’eterno ritorno. Al fiume sono legati i<br />
162<br />
Hölderlin, Iperione, p. 99. Così l’uomo amando, cioè attratto dalla bellezza (non da particolari belli), pur sentendosi finito, si riconosce infinito: ne soffre il<br />
contrasto e ne ricerca l’armonia. Il Greco, nella sua mentalità mitica, ha creato questo equilibrio: il suo essere a contatto con la Natura è il suo sentirla, che non è una<br />
semplice sensazione né un semplice atto intellettuale, ma la sintesi di entrambi e il <strong>lo</strong>ro potenziamento.<br />
163<br />
Hölderlin, Iperione, p. 107.<br />
164<br />
Il lauro [1788], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 97.<br />
165<br />
Hölderlin, Iperione, p. 114.<br />
166<br />
Hölderlin, Iperione, p. 122.<br />
167<br />
Hölderlin, Iperione, p. 142.<br />
168<br />
Hölderlin, Iperione, p. 164.<br />
169<br />
Alla Natura [1795], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 161, 163.<br />
170<br />
Hölderlin, Iperione, p. 166.<br />
171<br />
All’Etere [1796?], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 191. Hölderlin (come Nietzsche) crede che proprio il finito sia il luogo dell’infinito, e che l’autocoscienza non sia<br />
quella che l’infinito ha di sé, ma quella che il finito ha di sé come infinito; per questo l’etere è il simbo<strong>lo</strong> dell’infinito che si finitizza: è il momento della generazione<br />
del finito, il momento del dono, dell’amore, della bellezza, del richiamo.<br />
172<br />
Lo Spirito del tempo [1799], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 275.<br />
173<br />
Canto di Iperione e del destino [1799], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 253, 257.<br />
26
monti, considerati il luogo d’origine, il luogo in cui si genera il ghiaccio e dunque il fiume. Da qui l’importanza della primavera che<br />
disgela, vivifica, fa sentire la presenza dell’Etere mediante il sole. Sono tutti temi frequentemente trattati nelle poesie della coscienza<br />
e in quelle successive.<br />
Potremmo dire che tutta la concezione di Hölderlin (e poi di Nietzsche) si riassuma in questo eterno ritorno naturalistico, nel quale<br />
l’uomo, espressione più elevata dell’Etere (motore non immobile, ma sempre attivo), deve elevare sempre più se stesso tanto da far<br />
coincidere il proprio cic<strong>lo</strong> con quel<strong>lo</strong> cosmico, tanto da essere la coscienza di quel<strong>lo</strong> stesso cic<strong>lo</strong>, e dunque viver<strong>lo</strong> pienamente e per<br />
ciò stesso vivere <strong>lo</strong> stesso Etere.<br />
Se di retorica si deve parlare in questo contesto idealistico, al<strong>lo</strong>ra essa deve essere retorica totale o della totalità; ma così intesa<br />
essa è poetica. D’altra parte, anche la poetica deve essere poetica totale, e in questo modo essa è mito<strong>lo</strong>gia: non la mito<strong>lo</strong>gia riflessa,<br />
ma quella che nasce spontanea nell’uomo nella sua simbiosi con la ‘patria’ che <strong>lo</strong> circonda. Ma un ritorno a una tale condizione<br />
comporta il sacrificio di ogni cosa, e nell’Iperione Diotìma infatti è votata alla morte, poiché Iperione deve andare oltre ogni realtà<br />
finita, così come nella realtà Hölderlin ‘sacrifica’ Diotìma, la donna amata che egli chiamava con <strong>lo</strong> stesso nome. Il dramma di<br />
Hölderlin in fondo sta nel fatto che la realtà non si lascia sacrificare: essa è refrattaria all’appel<strong>lo</strong> del vate. Il suo dramma, dal punto di<br />
vista psico<strong>lo</strong>gico, è ana<strong>lo</strong>go a quel<strong>lo</strong> di Stirner, di Wagner, di Nietzsche. 174 Questo dramma della coerenza che tutto è costretto a<br />
travolgere, nella vita dei tre tedeschi diviene rispettivamente, paranoia, ambiguità, demenza. Altra tempra e altra concezione sono<br />
quelle di Goethe, di cui ancora dobbiamo dire qualcosa.<br />
Che convergenze e che divergenze si possono trovare, infatti, in un raffronto tra Iperione e Werther, tra Hölderlin e Goethe? La<br />
prima cosa che si può dire è che manchi a Hölderlin ciò che diceva Goethe: «Ricordati di vivere». Per Goethe il precetto invitava alla<br />
accettazione della realtà, alla proiezione verso un esterno oggettivo e autonomo con cui voleva confrontarsi. Vi è infatti in Goethe un<br />
istintivo senso della vita che <strong>lo</strong> pone al riparo dal Romanticismo totale.<br />
Iperione cerca l’Assoluto, non certo la Grecia o Diotìma, mentre Werther ama soltanto Lotte (o meglio Werther non so<strong>lo</strong> ama<br />
Lotte, ma ama anche il suo proprio amare; ovvero il suo amore per Lotte è assoluto in quanto so<strong>lo</strong> lei gli permette di amare<br />
assolutamente il proprio amare). Vi è cioè in Werther una assolutizzazione tipicamente romantica, ma essa non perde di concretezza<br />
(di verosimiglianza), in quanto essa stessa scaturisce dalla concretezza del<strong>lo</strong> scrittore. Ciò permette a Goethe di sdoppiarsi senza<br />
perico<strong>lo</strong> di alienazione, anzi gli permette di guardare ai Do<strong>lo</strong>ri del giovane Werther con occhio distaccato. In Iperione c’è invece tutto<br />
Hölderlin; e se l’opera è in fin dei conti una finzione letteraria, essa <strong>lo</strong> è nei limiti di una prova del<strong>lo</strong> scrittore a pensarsi, a prendere<br />
coscienza di sé, ad essere se stesso: è una prova del<strong>lo</strong> spirito. È abbastanza chiaro che il romanzo doveva mancare di conclusione:<br />
quale risultato avrebbe potuto raggiungere Iperione? Ciò che manca ad Iperione è la pazzia di Hölderlin; ma questo non poteva essere<br />
certamente il fine a cui Hölderlin poteva destinar<strong>lo</strong>.<br />
La terza parte dell’Iperione non fu scritta: alla tesi e all’antitesi (poiché di questo si tratta) manca la sintesi. Ma questa sintesi non<br />
scritta, quale sarebbe dovuta essere secondo la <strong>lo</strong>gica interna dell’ispirazione di Hölderlin? La Germania sarebbe risorta come una più<br />
alta Ellade? Avrebbe fatto ricuperare ai Tedeschi la coscienza della propria cultura davanti ai popoli della Terra, come scriverà Fichte<br />
nei Discorsi alla Nazione tedesca? 175 Questa era forse l’ispirazione; ma abbiamo visto il giudizio di Iperione sui Tedeschi. Hölderlin<br />
in realtà cerca di compiere un altro percorso letterario, affascinato dalla figura di Empedocle, il fi<strong>lo</strong>sofo agrigentino. L’unione<br />
individuale con la Natura sarà il tema della Morte di Empedocle, la seconda grande opera incompiuta, per ana<strong>lo</strong>ga ragione.<br />
Non ostante la positività riconosciuta alla figura di Empedocle e al suo vo<strong>lo</strong>ntario precipitarsi nel cratere dell’Etna, essa non è la<br />
possibilità piena a cui Hölderlin aspira. L’o<strong>lo</strong>causto del fi<strong>lo</strong>sofo greco non è più che un nobile suicidio: un donarsi del soggetto<br />
all’oggetto, ma non un assorbire (‘riassorbire’) l’oggetto nel soggetto. L’uomo non riesce a ‘ricondurre’ a sé quella Natura che crede<br />
di aver generato. In essa agiscono Amore e Odio di Empedocle; e l’amore che unisce non è statico, non immobilizza né nel finito né<br />
nell’infinito, ma rende il finito infinito. Di contro, l’Odio, dividendo e separando, rende tutto finito e distrugge l’infinito: da qui invece<br />
la necessità dell’‘entusiasmo indiviso’.<br />
Dopo questi fallimenti, egli si dedica totalmente alla poesia; e dal 1800 nascono i grandi componimenti poetici: le Odi, le Elegie,<br />
gli Inni, che rappresentano la vetta più alta della lirica romantica tedesca. Ciò che li rende grandi è l’adesione di Hölderlin alla forma<br />
classica, in cui il contenuto romantico si cala e non si annulla nella ‘pagina bianca’, poiché non c’è affatto una rinuncia alla forma.<br />
Abbiamo in questo modo un ulteriore e felice paradosso: il più grande poeta lirico tedesco è un poeta ‘classico’, che salva la forma, la<br />
luce meridiana; che salva i trascendentali dell’essere dal capovolgimento nei <strong>lo</strong>ro contrari, e tuttavia non quel<strong>lo</strong> dell’uno, dell’unità,<br />
che, spinto oltre i propri limiti, nella psiche di Hölderlin si scinde tragicamente creando una doppia personalità.<br />
«Nella stupenda, amplissima e drammaticissima ode in esametri Der Archipelagus (1800) <strong>–</strong> scrive Mittner <strong>–</strong> i contrasti di<br />
Hyperion si risolvono come per incanto. Il poeta non si identifica più con una figura pseudogreca, ma rappresenta sé come vate<br />
tedesco che ha un’alta missione religiosa da compiere, quella di recarsi in Grecia per animare col suo canto la terra greca deserta dagli<br />
dèi e dagli uomini e di far risorgere in Grecia gli dèi greci; ma ha anche la missione di rinnovare il <strong>lo</strong>ro culto in Germania». 176<br />
Tuttavia, nella poesia Il Reno ritroviamo il tema del ‘padre assente’ che ci mostra l’eterno oscillare del suo animo, l’eterna<br />
irrequietezza: «Non conosce il Reno <strong>–</strong> aggiunge Mittner <strong>–</strong> la via facile verso il mare, come il Ticino ed il Rodano che insieme a lui<br />
nascono dal Gottardo; titano incatenato, maledice il Padre Etere e la Madre Terra, rompe le pareti rocciose ond’è trattenuto; cieco<br />
nella sua violenza, sembra trascinare via con sé tutta la natura; finché, purificato e rinvigorito da terribili sofferenze, si merita il nome<br />
di padre e nutritore della terra tedesca.» 177 La ricerca di un vero ‘padre’ non è mai abbandonata, non può essere abbandonata, se egli<br />
non si vuole perdere la propria identità di poeta, la propria identità di tedesco, di uomo. Ma la tensione sta per diventare sogno,<br />
174<br />
Afferma Stirner nella prefazione alla sua ‘unica’ opera: «La mia causa non è né il divino né l’umano, non è ciò che è vero, buono, giusto, libero, ecc., bensì so<strong>lo</strong><br />
ciò che è mio, e non è una causa generale, ma <strong>–</strong> unica, così come io stesso sono unico. Non c’è nulla che m’importi più di me stesso!» Max Stirner, L’Unico e la sua<br />
proprietà, Adelphi, 1978, p. 13. Ma Stirner rappresenta quasi una caricatura romantica (hoffmanniana) del romantico.<br />
175<br />
Scrive Fichte: «I discorsi precedenti hanno esposto, illustrandoli con esempi tratti dalla storia, le caratteristiche del tedesco come popo<strong>lo</strong> primitivo, anzi come il<br />
popo<strong>lo</strong> che so<strong>lo</strong> ha il diritto di chiamarsi “il popo<strong>lo</strong>” senz’altre designazioni, a differenza dai rami che da lui si staccarono, come indica d’altronde di per sé la parola<br />
“tedesco”». Fichte, Discorsi alla Nazione tedesca, UTET, 1965, VII discorso, p. 125.<br />
176<br />
Mittner, Dal Pietismo al Romanticismo, p. 716. «La Grecia è per Hölderlin un miraggio della poesia, sublimata in una icona favo<strong>lo</strong>sa di al<strong>lo</strong>ntanamento nel<br />
tempo e nel<strong>lo</strong> spazio; ed è perciò una trascendenza della Poesia, trasferita fascinosamente nell’Ideale e nell’Assenza: è un’ebbrezza di visione profetica rovesciata alle<br />
origini, in cui l’età dell’oro di Rousseau viene proiettata sui marmi dell’Acropoli, sui templi di Delfo o sulle isole dell’Arcipelago», Vigo<strong>lo</strong>, Introduzione, p. XCVII.<br />
177<br />
Mittner, Dal Pietismo al Romanticismo, p. 729.<br />
27
‘favola’ novalisiana: in Patmos, dice ancora Mittner, «La “tentazione titanica”, pur respinta prontamente, rimane la vera molla segreta<br />
dell’inno che si chiude con un’affermazione orgogliosa senza protervia: dal canto del popo<strong>lo</strong> tedesco <strong>–</strong> dei poeti tedeschi in generale o<br />
di tutti i poeti tedeschi uniti o di un so<strong>lo</strong> poeta tedesco non nominato <strong>–</strong> nascerà, al termine della notte attuale, una nuova espressione<br />
del divino, in cui tutte le espressioni precedenti saranno conciliate e fuse.» 178<br />
Scrive Vigo<strong>lo</strong> nell’Introduzione alle poesie di Hölderlin: «L’Io Poetico (das poetische Ich) prende il posto dell’Io fichtiano come<br />
principio e fondamento dell’hölderliana Dottrina della Poesia». 179 E ancora: «Se per Hegel “il reale è razionale”, per Hölderlin invece<br />
il reale è poetico, e so<strong>lo</strong> dalla poesia riceve il suo essere, poiché la via verso l’essere e dall’essere decorre so<strong>lo</strong> nella poesia.» 180<br />
Wackenroder, pur nella sua semplice ingenuità, ha visto più chiaramente l’illusione di una tensione assoluta, e ciò nella favola del<br />
santo eremita, poiché la vita è meraviglioso mistero in cui converrebbe entrare conservandone il segreto: «Lo spirito dell’arte è e<br />
rimane un eterno mistero per l’uomo, dinanzi al quale egli è preso da vertigine, se tenta di scoprirne la profondità; ma è anche eterno<br />
argomento della più alta meraviglia: come si deve dire di ogni cosa veramente grande nel mondo.» 181<br />
Non è questo però il punto di vista di Hölderlin: egli fa ogni sforzo per non essere oleografico; e se l’Iperione ha una ingenuità<br />
evidente, ciò non toglie che <strong>lo</strong> sforzo di Iperione non è volto a mantenere in vita o ad esaltare la bellezza di un’esistenza illusoria,<br />
quanto piuttosto a far scaturire la sublimità di un’esistenza reale.<br />
L’ambiguità romantica consiste proprio nel nascondere e mostrare il sogno dell’autogenesi dell’uomo; e se ciò è massimamente<br />
evidente in Hölderlin e Nietzsche, è però il basso continuo del Romanticismo (e tendenzialmente del Barocco). Vi è in questo<br />
atteggiamento una contaminazione di Cristianesimo e diritto germanico che crea una forma di misticismo della rigenerazione, della<br />
rinascita, della resurrezione: non si tratta infatti di vera autogenesi, ma di autorigenerazione nel ritrovamento di un Graal assoluto, più<br />
alto di quel<strong>lo</strong> cantato da Wagner. In questo senso, il Romanticismo tende ad assumere il carattere di fede, di religione: religione nuova<br />
perché non più trascendente né volta al futuro. ‘Qui e ora’ sono i termini ai quali esso si può ridurre l’anelito del romantico,<br />
soprattutto se si tiene conto della ‘rivoluzione tolemaica’ di Kant: l’Io nel tempo e il Non io nel<strong>lo</strong> spazio tendono a fondersi nel moto<br />
circolare in cui il tempo non si disperde in un ‘falso infinito’ e <strong>lo</strong> spazio si vivifica nella organicità.<br />
In qualche modo, Hölderlin esprime l’esigenza di Kant, con la correzione del primato del giudizio riflettente rispetto alla ragion<br />
pura e alla ragion pratica: la morale (l’imperativo categorico) è un dovere che si è trasformato in tensione esistenziale, che non ha<br />
fine in se stesso, ma tende all’armonia dell’io penso (Urania), 182 e ciò è possibile non con la <strong>lo</strong>tta contro la natura propria ed esterna,<br />
ma attraverso la scoperta che la Bellezza conduce al Bene, e il Bene è l’Unità. La forza non è più il dovere per il dovere, ma l’amore:<br />
si reintroduce così uno dei temi fondamentali della concezione platonica, e si salvano in Hölderlin i trascendentali dell’essere nella<br />
poesia, ma, come abbiamo detto, viene meno l’unità nella psiche.<br />
Nell’ultimo periodo, pur rimanendo ancora presente a tratti l’ispirazione, assistiamo ad un collasso psichico che si accompagna ad<br />
una ‘consapevolezza’ che l’ideale si è infranto, e che l’anelito all’infinito si è trasformato nell’accettazione passiva dei limiti del<br />
finito. «Il piacere del mondo, l’ho gustato. / Le ore della giovinezza sono / dileguate, da tempo, molto tempo. / Lontano è aprile, e<br />
maggio, e luglio. / Io non sono, non ho più gioia di vivere.» 183<br />
L’inconscio di Hölderlin vuole testimoniare che vi è un’armonia e una unità anche nell’accettazione umile dei limiti quotidiani.<br />
«Le linee della vita sono varie, / come vie, come orli di montagne. / Ciò che qui siamo un Dio può terminare / Nell’armonia,<br />
nell’eterno compenso, nella pace.» 184 E ancora:<br />
Il cerchio della terra ricamato di rocce<br />
non è come la nube che a sera si disperde.<br />
Ma in un giorno dorato si rivela;<br />
la perfezione è senza lamento. 185<br />
La stessa Natura cerca di venire incontro alla profonda aspettativa umana:<br />
La sera con il fresco, già alla fine,<br />
cerca per l’uomo d’essere perfetta.<br />
24 maggio 1758 Con umiltà<br />
Scardanelli 186<br />
E ancora la testimonianza del poeta J. G. Fischer, pochi mesi prima della morte di Hölderlin: «Rivivo nel ricordo la mia ultima<br />
visita a Hölderlin. Andai da lui con altri due amici del seminario di teo<strong>lo</strong>gia, Brandauer e Ostertag, nell’aprile 1843. dissi a Hölderlin<br />
che venivo a prendere congedo, poiché avrei dovuto lasciare presto Tubinga, cosa a cui prestò ascolto con molta partecipazione. Se tra<br />
l’una e l’altra delle mie visite egli avesse serbato il ricordo della mia immagine, e anche quella dei miei amici, o se invece l’avesse<br />
cancellata, io non so dire, poiché ogni volta mi riceveva con la stessa moderata cortesia e nessuna espressione del viso sembrava<br />
indicare in lui un’eco di precedenti incontri. Nella mia ultima visita gli rivolsi questa preghiera: “Signor Bibliotecario, mi riterrei<br />
fortunato se volesse, per il mio congedo, donarmi alcuni versi come ricordo”. Lui rispose: “Come Vostra Santità desidera! Vuole che<br />
scriva sulla Grecia, o sulla primavera, o sul<strong>lo</strong> spirito del tempo?” Gli amici sussurrarono: “Spirito del tempo!”, e io <strong>lo</strong> pregai in tal<br />
senso. Al<strong>lo</strong>ra quell’uomo, quasi sempre diffidente, si sedette, drizzandosi su se stesso, al<strong>lo</strong> scrittoio, prese un foglio e una penna d’oca<br />
178<br />
Mittner, Dal Pietismo al Romanticismo, p. 732. «Il canto tedesco ubbidisce a questo precetto divino.», afferma Hölderlin. Ivi, p. 734.<br />
179<br />
Giorgio Vigo<strong>lo</strong>, Introduzione a Fiedrich Hölderlin, Poesie, Mondadori, 1986, p. LXXVIII.<br />
180<br />
Vigo<strong>lo</strong>, Introduzione, p. LXIX.<br />
181<br />
Wackenroder, Scritti di poesia e di estetica, p. 133,<br />
182<br />
Urania dea dell’Armonia, cantata da Hölderlin: da qui l’esaltazione nel riconoscere nell’Armonia la scaturigine e il legame di tutto, ed essa stessa il Tutto.<br />
L’uomo ne è <strong>lo</strong> <strong>specchio</strong> perfetto: creatura prediletta; suo fine è sentirla in sé, ed esaltarla esaltandosi.<br />
183<br />
Il piacere del mondo... [prima del 7 agosto del 1811], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 811.<br />
184<br />
Le linee della vita... [prima del 19 aprile del 1812], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 813.<br />
185<br />
L’autunno [pubblicata nel 1837], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 843.<br />
186 L’estate [1842], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 867.<br />
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munita di tutte le sue barbe e si dispose a scrivere. Sino alla fine dei miei giorni mi rimarrà il ricordo del suo volto che s’illuminò di<br />
colpo, dei suoi occhi e della sua fronte che risplendevano, come se mai su di lui fossero calate le tenebre della follia. E scrisse<br />
scandendo ogni verso con la mano sinistra e alla fine di ogni riga emetteva dal profondo del suo petto un soddisfatto “ehm!”. Al<br />
termine mi consegnò con un profondo inchino il foglio, con queste parole: “Si degni di accettar<strong>lo</strong>, Vostra Santità”. Un’ultima stretta di<br />
mano a quell’uomo diletto fu il mio ringraziamento. [...] I versi [...] dicevano:<br />
Gli uomini si trovano qui nel mondo per viverci;<br />
come anni, sono; come le età, tendono in alto;<br />
così tanto mutare, così copioso vero<br />
che una durata cala nel variare degli anni;<br />
e tanta perfezione s’aduna nella vita<br />
che l’alto sogno umano vi s’adagia.<br />
Con umiltà<br />
24 maggio 1748 Scardanelli». 187<br />
Tuttavia, questa acquiescenza pietistica a volte trasale:<br />
E perché o Sole, o fiore dei miei fiori,<br />
a me non basta<br />
in un giorno di maggio nominarti?<br />
dunque io so qualcosa di più alto? 188<br />
Tutto qui è ormai placato nell’animo spezzato di Hölderlin, so<strong>lo</strong> però ad un patto: che egli non sia più se stesso, e non sia più<br />
riconosciuto da nessuno come Hölderlin. «Può ricordarsi ancora di qualche particolare, ma ha dimenticato se stesso.» 189 Si fa<br />
chiamare ‘Signor Bibliotecario’; e ad un visitatore confessa: «Io, mio signore, non ho più il nome di un tempo, ora mi chiamo<br />
Killalusimeno.» 190 Ma egli si firma ‘Scardanelli’, ‘Salvator Rosa’, e con altri nomi italiani. L’importante è per lui che non sia<br />
chiamato ‘Hölderlin’. Egli stesso aveva scritto:<br />
Se morrò con vergogna, se di quei vili non<br />
farà vendetta l’anima, e sotterra<br />
dai nemici del Genio<br />
vinto, io giaccia nella fossa vile,<br />
oh mi dimentica al<strong>lo</strong>r, non salvar più<br />
il mio nome, anche tu, caro cuor, dall’oblio. 191<br />
In proposito abbiamo un aneddoto molto significativo. «Oggi sono stato nuovamente da lui per ritirare alcune poesie che aveva<br />
composto. Erano due, in calce alle quali non vi era la firma. La figlia di Zimmer mi dice che dovevo pregar<strong>lo</strong> di scrivervi sotto il<br />
nome, Hölderlin. Tornai nella sua stanza e glie<strong>lo</strong> chiesi; divenne al<strong>lo</strong>ra veramente furioso, incominciò a correre su e giù per la stanza,<br />
poi prese una sedia e con atteggiamento volutamente maestoso la col<strong>lo</strong>cava ora qua ora là, urlando parole incomprensibili, tranne<br />
queste che pronunciò in modo chiaro: “Io mi chiamo Scardanelli”; poi si sedette e scrisse sotto la poesia, rabbiosamente, il nome<br />
Scardanelli. Volli andarmene subito e sebbene continuasse a fare dei gesti violenti con le mani e imprecasse contro di me, non mi<br />
lasciai intimidire e con un decoroso inchino uscii. Ciò che soprattutto mi impressionava in lui era l’impossibilità di guardar<strong>lo</strong> negli<br />
occhi, a causa della <strong>lo</strong>ro mobilità e della mancanza di raccoglimento e di concentrazione del proprio spirito.» 192<br />
Scrive Zweig: «L’uomo muore in lui prima del poeta, la ragione prima della me<strong>lo</strong>dia; e la morte e la vita foggiano a suo destino<br />
quella che il suo desiderio veggente aveva annunciato un tempo come la vera fine del vero poeta: “distrutto dalle fiamme, espiare la<br />
fiamma che non abbiamo saputo domare». 193 Hölderlin aveva scritto: «Ah ci conosciamo poco, / ché in noi comanda un Dio.» 194<br />
A tutti co<strong>lo</strong>ro che vanno a trovare il ‘titano’ del Romanticismo ora egli si rivolge con questi titoli: «Vostra altezza! Vostra Santità!<br />
Vostra Eminenza! Vostra Maestà!» L’umiliazione che Hölderlin si infligge è totale.<br />
5. 3- E.T.A. Hoffmann e <strong>lo</strong> sdoppiamento dell’unità<br />
Quando l’ironia penetra nel Romanticismo e subentra all’Idealismo magico, all’Idealismo titanico, all’Idealismo fi<strong>lo</strong>sofico, la<br />
tensione verso l’unità dell’Io si trasforma nella constatazione del ‘doppio’: non so<strong>lo</strong> non è possibile raggiungere l’identità di soggetto<br />
e oggetto, ma risulta che <strong>lo</strong> stesso soggetto in se stesso vive una dicotomia che <strong>lo</strong> divide, <strong>lo</strong> sdoppia, <strong>lo</strong> duplica, sempre secondo quel<br />
principio che è dato dal capovolgimento dei trascendentali dell’essere. Per questa nuova coscienza romantica, a parte altri casi<br />
notevoli, precedenti e successivi, 195 ci paiono quanto mai significative l’opera di Hoffmann e la sua stessa personalità. «Può darsi,<br />
187<br />
Wilhelm Waiblinger, Hölderlin, SE, 1986, p. 92.<br />
188<br />
Poco per sapere [?], Hölderlin, <strong>Li</strong>riche, p. 893.<br />
189<br />
Zweig, La <strong>lo</strong>tta col demone, p. 137.<br />
190<br />
Waiblinger, Hölderlin, p. 37.<br />
191<br />
Stefan Zweig, La <strong>lo</strong>tta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, Sperling e Kupfer, Milano, 1945, p. 92.<br />
192<br />
Waiblinger, Hölderlin, p. 86.<br />
193<br />
Zweig, La <strong>lo</strong>tta col demone, p. 153.<br />
194<br />
Zweig, La <strong>lo</strong>tta col demone, p. 141.<br />
195<br />
L’ironia, in realtà, compare prima del Romanticismo e <strong>lo</strong> accompagna costantemente, da Wieland, alle ‘Wertherine’ successive al Werther, a Jean Paul, da<br />
Hoffmann fino ad Heine.<br />
29
inoltre, <strong>–</strong> egli scrive <strong>–</strong> che la natura consenta talvolta un dualismo psichico e che un rapporto di reciproca influenza spirituale fra due<br />
individui possa generare i fenomeni più straordinari.» 196<br />
Pittore, caricaturista, musicista, direttore d’orchestra, critico musicale, novelliere, Hoffmann è, per unanime consenso, una delle<br />
figure più interessanti ed emblematiche della cultura romantica tedesca. Nella sua poliedricità artistica, come nella sua vita, egli<br />
appare un fuoco pirotecnico per i mille scoppiettii, bagliori, traiettorie luminose, figure iridate su un fondo nero; su un fondo nero,<br />
appunto, perché tutto il mondo di Hoffmann, dopo che <strong>lo</strong> si è avvicinato, sembra inabissarsi e scomparire nella tenebra originaria dalla<br />
quale pare emerso.<br />
È questa, direi, una caratteristica di fondo, in senso proprio della sua produzione letteraria: non ostante il forte realismo della sua<br />
narrazione, figure, ambienti, episodi portano le stigmate di una razionalità disoggettivata, ambigua, mutabile, e per ciò non<br />
permanente in una luminosità solare. È pur vero che tutta la cultura nordica è pervasa dal senso della tenebra e dal fascino che da essa<br />
emana: torniamo a pensare alla grande stagione pittorica tedesca con i suoi Cranach, Dürer, Grünewald, agli Inni alla Notte di<br />
Novalis, ai Notturni di Bonaventura, ecc., ecc.; 197 ma direi che il mondo di Hoffmann <strong>lo</strong> sia non so<strong>lo</strong> con modalità del tutto originali,<br />
ma con una forza tale da incidere notevolmente sulla stessa cultura tedesca e su quella europea. La chiave del suo successo è il suo<br />
realismo narrativo, in cui appare l’affascinante contradittorietà tra l’oggettività di tale realismo e l’irrealtà dell’oggettività narrata. Il<br />
‘luogo’ di incontro di queste opposte categorie è la tenebra: la divina tenebra di Eckhart e di Böhme, delle ‘rappresentazioni inconsce’<br />
di Leibniz, ma calata ora nel realissimo mondo borghese, parte integrante della struttura dei corpi, della psiche, del<strong>lo</strong> spirito.<br />
Vi è una profonda e nel<strong>lo</strong> stesso tempo palese affinità tra ciò che è strano, difforme, morboso, ambiguo, terrificante, spettrale,<br />
alienante, demoniaco e ciò che è di per sé il buio, l’indeterminatezza della tenebra: la tenebra non è so<strong>lo</strong> il luogo da cui le figure<br />
emergono, prive di quella determinazione solare che noi diciamo oggettiva: essa è anche il luogo in cui ogni trasformazione si col<strong>lo</strong>ca<br />
più propriamente. È il luogo in cui, per usare come esempio l’episodio del Consigliere Krespel del racconto omonimo, si può costruire<br />
tutta intera una casa senza porte né finestre, per poi ricavarle qua e là, in piena libertà, aprendo brecce nei suoi muri.<br />
Il buio è il luogo dell’inganno e del terrore, del disorientamento e della perdita di oggettività, dell’irrazionale e della perdita<br />
dell’identità delle cose e di sé. Il buio è anche la profondità dell’interiorità, il contenuto magmatico dell’io, <strong>lo</strong> <strong>specchio</strong> profondo nel<br />
quale compaiono le forme evanescenti di ciò che diciamo reale. Il buio è <strong>lo</strong> <strong>specchio</strong> romantico in cui l’io cerca la propria immagine,<br />
la propria identità, il proprio contenuto. Da questo punto di vista, non è che una metafora la tragedia del protagonista di Le avventure<br />
della notte di San Silvestro, fratel<strong>lo</strong> letterario del più famoso Peter Schlemihl di Chamisso, poiché egli ha venduto la propria<br />
immagine: per lui <strong>lo</strong> <strong>specchio</strong> non ha riflesso; la sua immagine non compare; ed egli vive in tal modo la sua personale crisi di<br />
identità. 198 Nell’Enrico di Ofterdingen Novalis aveva scritto: «Sofia [...] li ammonì ad assiduamente consultare quel<strong>lo</strong> <strong>specchio</strong>, che<br />
aveva il potere di riflettere ciascuna cosa nel suo vero aspetto, di distruggere ogni vana apparenza e ritenere in eterno l’immagine<br />
originaria.» 199<br />
Cos’è l’uomo senza la propria immagine? O cos’è la realtà senza la forma? E il romantico, che vorrebbe assurgere all’esistenza di<br />
un puro contenuto, si divide e si aliena in ciò che non è e vorrebbe essere, e da ciò che è e vorrebbe non essere. Iniziando il racconto<br />
de Le avventure della notte di San Silvestro Hoffmann scrive: «Il viaggiatore entusiasta, dal cui diario ci accingiamo a trarre e<br />
presentare un altro pezzo di fantasia alla maniera di Cal<strong>lo</strong>t, separa evidentemente così poco la propria vita interiore da quella reale, da<br />
renderci quasi impossibile scorgere una linea di demarcazione tra l’una e l’altra.» 200<br />
Scissione e ricomposizione sono due momenti del sentire romantico: quasi la diastole e la sistole di cui parla Goethe; momenti<br />
tipicamente hoffmanniani, oggettivi e dialettici della realtà. «E, sappi<strong>lo</strong>, Medardo <strong>–</strong> dice un personaggio ad un altro ne Gli elisir del<br />
diavo<strong>lo</strong> <strong>–</strong> : io <strong>–</strong> io stesso sono la follia che ti segue dovunque per puntellare la tua vacillante saggezza. che tu <strong>lo</strong> voglia o no, soltanto<br />
nella follia trovi scampo, perché la tua saggezza è una povera, una miserabile cosa». 201<br />
Hoffmann crea personaggi scissi, alienati, ‘doppi’, non tanto e non so<strong>lo</strong> a livel<strong>lo</strong> di coscienza, quanto piuttosto a livel<strong>lo</strong> di essenza<br />
o a livel<strong>lo</strong> fisico, sempre in un realismo onirico: «L’imperversare della bufera, il crepitio della fiamma divennero un sommesso<br />
sussurro armonioso e una voce interiore gli disse: “Io sono il sogno... Questo è il dolce fruscio delle mie ali... Lo si ode quando mi<br />
adagio sul petto dell’uomo come un bimbo affettuoso e ne schiudo, con un tenero bacio, l’occhio interiore, di modo che egli possa<br />
scorgere le incantevoli immagini di una vita più alta, piena d’ogni magnificenza e splendore...”». 202<br />
Seppure molti siano i personaggi stravaganti e folli, personaggi la cui psiche non concorda né con le cose né con se stessa,<br />
Hoffmann cerca di creare o di scoprire una dicotomia ad una profondità maggiore, alla massima profondità: quella profondità in cui si<br />
pone la scissione di Io e Non io, teorizzata da Fichte.<br />
Qual’è l’autentica realtà dell’Io, del Non io? Non certo il corpo umano, struttura mimetica caricaturale di un’interiorità refrattaria<br />
all’espressività, come appare nel Kappelmeister Kreisler del Gatto Murr. Il corpo è una maschera, un’immagine difforme dal model<strong>lo</strong><br />
che esprime; così, la moglie del conte del racconto Vampirismo può essere una bella e sognante giovanetta, ma nel buio della notte<br />
s’inoltra nel vicino cimitero in cerca di cadaveri che divora assieme ad altre donne-vampiro. Il buio svela <strong>lo</strong> sdoppiamento della<br />
personalità della giovane sposa che la luce del giorno ricompone. È per ciò nel buio che si rivela la profonda realtà delle cose, la <strong>lo</strong>ro<br />
dicotomia, la <strong>lo</strong>ro alienazione. Il buio è <strong>lo</strong> schellinghiano ‘Assoluto indifferenziato’ da cui sorgono e in cui ricadono le forme del<br />
reale, ma esse sono appunto forme scisse, eccentriche, sdoppiate, perché neppure lì sono ‘indifferenziate’. Il soggetto per ciò contiene<br />
molto di oggettivo, e l’oggetto, molto di soggettivo: ciascuna delle due realtà può presentarsi improvvisamente ‘doppia’, e per di più<br />
permutabile nell’altra.<br />
196<br />
Hoffmann, Romanzi e racconti, vol. II, p. 241: I confratelli di San Serapione.<br />
197<br />
«Ma io non sono che una parte della parte che in origine era un tutto, una parte della tenebra che generò la luce, la superba luce, che ora alla Madre Notte<br />
contende il primato e <strong>lo</strong> spazio; ma non le riesce, ché, per quanto si affanni, essa è prigioniera dei corpi cui aderisce.» Sono le parole che Mefistofele rivolge a Faust,<br />
presentandosi a lui. Goethe, Faust, p. 40.<br />
198<br />
«Così Erasmus Spikher si mise i viaggio per il vasto mondo. Un giorno incontrò un certo Peter Schlemihl il quale aveva venduto la propria ombra. Decisero di<br />
viaggiare in compagnia: l’ombra l’avrebbe gettata Spikher e Peter Schlemihl gli avrebbe prestato il proprio riflesso nel<strong>lo</strong> <strong>specchio</strong>. Ma non se ne fece nulla.»<br />
Hoffmann, Romanzi e racconti: Le avventure della notte di San Silvestro, vol. I, p. 263:<br />
199<br />
Novalis, Enrico di Ofterdingen, p. 158.<br />
200<br />
Hoffmann, Romanzi e racconti, vol. I, p. 238.<br />
201<br />
Hoffmann, Romanzi e racconti: Gli elisir del diavo<strong>lo</strong>, vol. I, p. 579.<br />
202<br />
Hoffmann, Romanzi e racconti: I confratelli di San Serapione, vol. II, p. 251.<br />
30
Hoffmann, muovendosi all’interno dell’Idealismo di Fichte e di Schelling, sembra aver fatto propria la formula, già ricordata, del<br />
principio enunciata nell’Intera dottrina della scienza, secondo la quale l’Io cede al Non io parte di sé, e ne riceve dal Non io, in una<br />
complementarietà che in fondo fa di ciascuna cosa sempre la sintesi di opposti caratteri: ciò permette a Schelling di affermare che<br />
ogni realtà è sempre una sintesi di soggettivo e di oggettivo, e a Hoffmann di creare personaggi, cose e situazioni appunto di una<br />
razionalità disoggettivata.<br />
Il motivo del<strong>lo</strong> sdoppiamento è dunque al centro della poetica di Hoffmann, assumendo forme varie e molteplici, a volte evidenti,<br />
a volte nascoste e insospettate. Il ‘doppio’ innanzitutto compare nella figura del sosia; un sosia hoffmanniano, naturalmente, che è e<br />
non è altra persona rispetto ad un dato personaggio: così, negli Elisir del diavo<strong>lo</strong>, di fra’ Medardo è sosia il conte Vittorino, in un<br />
‘casuale’ gioco di travestimenti che tendono a far smarrire l’identità e la diversità dei due.<br />
Ma <strong>lo</strong> sdoppiamento nella formula del sosia concorre a porre in evidenza la ‘doppiezza’ in cui ciascuno vive la propria personalità,<br />
poiché il sosia è soprattutto il nostro contrario: l’immagine di una dimensione della nostra profondità sconosciuta che<br />
improvvisamente affiora alla coscienza tentando di travolgerci. La tematica del sosia svolge quindi la funzione di mostrare un duplice<br />
sdoppiamento: quel<strong>lo</strong> fisico (identità di aspetto in due persone), quel<strong>lo</strong> psichico (dicotomia psichica in un’identica persona). Nelle<br />
realistiche pagine di Hoffmann la realtà non è mai stabile, e può subire un cambiamento improvviso, può trasformarsi in qualcosa di<br />
totalmente diverso, sia in se stessa, sia davanti alla coscienza del soggetto che la contempla. Così, una meravigliosa fanciulla, dalla<br />
voce ancor più meravigliosa, si rivela un automa meccanico, un cane randagio risulta un profondo conoscitore della musica e della<br />
natura umana; per non parlare del gatto Murr, figura di intellettuale ‘filisteo’, secondo la ricorrente espressione del tempo. Siamo in<br />
presenza delle prime forme di surrealismo moderno, in episodi come quel<strong>lo</strong> delle foglie di salice che si rivelano essere dei serpentelli<br />
smeraldini, che non sono infine se non graziose fanciulle, figlie del archivista-mago del racconto Il vaso d’oro.<br />
Il lungo racconto Punti di vista e considerazioni del gatto Murr mostra come la poetica del doppio possa coinvolgere anche<br />
l’aspetto formale del<strong>lo</strong> stile letterario, risultando il racconto una ‘casuale’ mescolanza delle pagine della vita di Giovanni Kreisler e di<br />
quelle dell’autobiografia del Gatto. L’anima ‘filistea’ e l’anima romantica di Hoffmann qui, più che incontrarsi, si alternano in un<br />
continuo cambiamento di scena: la vita del Gatto egoista e quella esuberante e incompresa del musicista; e si alternano il comico e il<br />
drammatico, dei quali ingredienti è imbevuta tutta la sua arte.<br />
E l’arte di Hoffmann è tutta giocata sull’ironia, amara o comica, sottile a volte, ma più spesso ingenua, caricaturale o grottesca, in<br />
una fantasmagoria di variazioni che suscita alla fine la persuasione che il mondo narrativo hoffmanniano non sia in fondo né un<br />
incubo di cui <strong>lo</strong> scrittore voglia liberarsi, né una perversione fantastica che egli alimenti. Per un certo verso, e fino ad un certo punto,<br />
esso è un canto della fantasia: una necessità narrativa dell’immaginazione di chi, pur accettando la prosaicità delle regole della vita<br />
sociale, in cui ogni entusiasmo è soffocato, crede legittimo il sogno (questo doppio della vita!) come possesso individuale della<br />
entusiasta interiorità. Se vi è nelle sue opere un’ironia politica (Il picco<strong>lo</strong> Zaccheo) o artistica (Il cavaliere Gluck) o caricaturale di tipi<br />
umani o di cultura, ciò non è dovuto alla forza di una convinzione ideo<strong>lo</strong>gica, programmatica o casuale, quanto piuttosto all’acutezza<br />
di Hoffmann uomo, realista nell’osservare ‘va<strong>lo</strong>ri’ contradittori del suo ambiente e del suo tempo, completamente immerso in esso.<br />
Lontano dalla polemica e dalla apo<strong>lo</strong>gia, ogni elemento della realtà gli è utile per costruire, nella trasfigurazione fantastica, il suo<br />
mondo onirico, sognato diversamente da un Novalis o da un Wackenroder o da un qualsiasi romantico, sognato ad occhi ben aperti.<br />
Un canto della fantasia, perché la sua arte non ha di mira cambiamenti sociali o politici, ma se mai soltanto culturali; non però in quel<br />
senso, in genere deteriore, che è quel<strong>lo</strong> programmatico di una scuola, di un circo<strong>lo</strong>, di un’Accademia, di una nazionalità: il suo è un<br />
canto ‘serapionico’, come le mille bizzarre, piacevoli, felici narrazioni nella narrazione della Confraternita di S. Serapione.<br />
Racconta per sé a sé o al più agli amici, come si improvvisa da soli al pianoforte o tutt’al più per chi ti può comprendere: credo<br />
che questo sia il modo più genuino di leggere Hoffmann, per scoprire che non è altro che un’anima fondamentalmente semplice, nel<strong>lo</strong><br />
stesso tempo pervicacemente incatenata al lavoro burocratico, ed entusiasticamente libera davanti al vino del Reno, capace di<br />
indossare maschere sempre diverse, come, ad esempio, quella arcigna del<strong>lo</strong> zio nella Storia del Re dei Topi e del<strong>lo</strong> Schiaccianoci.<br />
La sublimazione del bisogno romantico di evasione dalla realtà, dal finito, l’idealizzazione e l’elevazione della vita individuale<br />
nella vita del Tutto, dell’Assoluto, il salto mistico nell’infinito di Dio o della Storia o della Nazione: tutto ciò in Hoffmann non si<br />
trova: egli resta un realista, un realista sia pure fantastico nell’arte, sia pure entusiasta, ma di un entusiasmo ‘diviso’ e pienamente<br />
accettato nella sua divisione.<br />
«Hoffmann, le fantastique», dirà Baudelaire: fantastico come uomo, fantastico come narratore. Ciò che di personale c’è nella sua<br />
arte è un caricaturale autobiografismo, ciò che vi è di ‘negativo’ fa parte dell’equivoco romantico in cui è immerso, ma che<br />
essenzialmente combatte. Il suo realismo è infatti sempre a equidistanza tra idealità intravista e malvagità incalzante, tra tensione al<br />
bene e attrazione del male, in un tessuto narrativo che le rispecchia. Ma è proprio la idealistica contrapposizione di bene e male<br />
l’espressione più alta del suo equivoco, e dunque della sua lacerazione drammatica e ironica. L’origine del ‘doppio’ hoffmanniano sta<br />
in questo equivoco: da una parte l’interiorità, dall’altra l’esteriorità; la prima, realtà vera e profonda; la seconda, immagine, copia,<br />
contraffazione, caricatura. Da qui, la comica drammaticità di rifiutare l’esteriorità e di non poterne fare a meno; di identificarci con<br />
l’interiorità e di riconoscerci so<strong>lo</strong> nell’esteriorità; di esaltare la prima e spasimare per la seconda; e, cosa più imbarazzante, di non<br />
trovare nulla al di là di ciascuna di esse. 203 La grandezza di Hoffmann consiste nell’avere intravisto, o forse inconsciamente sentito,<br />
l’equivoco romantico; e se non l’ha evitato, egli <strong>lo</strong> ha in qualche modo denunciato vivendo in quella doppia fisionomia della sua arte<br />
che è data dal realismo e dall’ironia.<br />
Ma Hoffmann rappresenta anche un passo verso il Positivismo, nel quale si consuma il problema del rapporto soggetto-oggetto: il<br />
soggetto non è altro che una manifestazione dell’oggetto, la spiritualità non è che una espressione della materia. La Natura, che il<br />
romantico voleva assimilare nel proprio spirito, ha assimilato invece l’uomo, dandogli il contraccambio: la Natura ora gli mostra che<br />
non è lei ad essere una illusoria forma della ‘immaginazione produttiva’, bensì è egli una sua casuale escrescenza.<br />
Ma non è nostro obbiettivo entrare in questo contesto, come ci asteniamo dal prendere in considerazione altre figure delle<br />
numerosissime del Romanticismo tedesco: ci accontentiamo di ricordare a conclusione il fi<strong>lo</strong> che corre tra la fi<strong>lo</strong>sofia di<br />
Schopenhauer, la musica di Wagner e il ‘sentire’ di Nietzsche. Si tratta di un fi<strong>lo</strong> che dalla Vo<strong>lo</strong>ntà assoluta (assoluto principio di<br />
203 Con ben altra genialità, Kafka riprenderà il ‘problema’ hoffmanniano, calato ora in una realtà onirico-esistenziale che, in controluce, svela l’enigma di una<br />
soluzione religiosa vista in una sperante attesa di salvezza.<br />
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autorità) del fi<strong>lo</strong>sofo idealista passa alla immaginazione del musicista, dandogli la possibilità di ricreare quegli dèi della Nazione,<br />
quella mito<strong>lo</strong>gia degli dèi della patria, a cui mirava Hölderlin, e dal musicista passa al fi<strong>lo</strong>sofo nichilista che tenta un disperato<br />
ingresso in quella vera patria che, nel mito, rimane l’Ellade, e nella realtà metafisica è data dall’‘eterno ritorno’, nel quale spazio e<br />
tempo dovrebbero trovare ancora una volta la <strong>lo</strong>ro identità. 204<br />
Ma, come ad Hölderlin, anche a Nietzsche si spalanca la ‘voragine interiore’, divinata in una poesia scritta poco prima del crol<strong>lo</strong><br />
psichico: Tra uccelli di rapina.<br />
Chi tende in basso, qui,<br />
come presto<br />
<strong>lo</strong> inghiotte il profondo!<br />
- Ma tu, Zarathustra,<br />
ami ancora l’abisso,<br />
fai come l’abete? <strong>–</strong><br />
Esso getta radici, dove<br />
rabbrividisce anche il dirupo<br />
nel guardare il profondo -,<br />
su abissi esso esita,<br />
dove tutto all’intorno<br />
tende all’ingiù:<br />
tra l’impazienza<br />
di frana selvaggia, di precipitoso rivo<br />
patendo paziente, duro, silente,<br />
solitario... 205<br />
204<br />
In termini ana<strong>lo</strong>ghi, il Terzo Reich cercò di attuare una identità che desse unità al popo<strong>lo</strong> tedesco; unità che derivava dal ‘diritto soggettivo’, dal diritto<br />
germanico, e nella quale si cercò di ricapitolare a livel<strong>lo</strong> di tutto il popo<strong>lo</strong> la storia di questo popo<strong>lo</strong> nelle sue manifestazioni e nel suo carattere. Ma il suo carattere era<br />
ed è un ossimoro.<br />
205<br />
Friedrich Nietzsche, Ecce Homo, Nietzsche contra Wagner, Poesie e scelta di frammenti postumi 1888-1889, Mondadori, 1977, p. 114.<br />
32