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FONDAMENTI ETICI DELLA FINANZA ISLAMICA 1. Introduzione

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<strong>1.</strong> <strong>Introduzione</strong><br />

<strong>FONDAMENTI</strong> <strong>ETICI</strong> <strong>DELLA</strong> <strong>FINANZA</strong> <strong>ISLAMICA</strong> *<br />

Antonino Gatto **<br />

Da più di trent’anni si sta sviluppando nei paesi di religione islamica un<br />

sistema finanziario originale, e supposto come “alternativo” a quello convenzionale,<br />

perché fondato sulla negazione della pratica dell’interesse (riba) nelle<br />

transazioni finanziarie e, in aggiunta, sul divieto d’investimento in attività<br />

soggette ad eccesso di incertezza ed ambiguità (gharār) ed in quelle che implichino<br />

ricorso alla speculazione e all’azzardo (maysir). Ciò non significa<br />

che il capitale prestato non debba percepire alcuna remunerazione; solo che<br />

essa è condizionata, in linea di principio, all’assunzione da parte del prestatore<br />

di parte del rischio dell’attività finanziata. L’Islam, infatti, privilegia le<br />

forme di finanziamento “associativo” che prevedano l’equa assunzione di rischi<br />

e benefici tra prestatore e prenditore, come era pratica corrente ai primi<br />

tempi del radicamento della nuova religione. O, al più, consente pratiche di<br />

finanziamento fortemente associate ad un asset tangibile ed identificabile.<br />

Si tratta di regole che incuriosiscono e, a prima vista, lasciano perplessi<br />

quanti da sempre sono abituati a ragionare secondo la logica consolidata<br />

dell’economia “dominante”. Proprio per questo motivo, in un momento in cui<br />

si avverte la tendenza ad un sempre più ampio meticciato culturale e intellettuale<br />

a livello globale e mentre la modernità non sembra più riconducibile al<br />

solo polo della cultura occidentale, appare utile e stimolante uno sforzo di<br />

conoscenza della esperienza della finanza islamica.<br />

Preliminarmente, come indispensabile quadro di riferimento, saranno richiamati<br />

le fonti del diritto musulmano, i valori dell’Islam, i principi di<br />

un’economia islamica, di cui i fondamentali divieti di riba, gharār, maysir<br />

sono espressione. Segue una presentazione delle tecniche e della evoluzione<br />

quantitativo-spaziale della finanza islamica per discuterne, quindi, lo scarto<br />

tra ideali e realtà.<br />

L’obiettivo del lavoro, in particolare, è quello di mostrare che la finanza<br />

islamica non è solo una sintesi di tecniche alternative a quelle convenzionali,<br />

JEL Classification: G2; N2; Z0.<br />

Parole chiave: Finanza, Islam; Economia e Religioni.<br />

* Ringrazio Mazhar Hussain e Cem Eyerci per discussioni e commenti e per l’assistenza<br />

prestatami durante una mia visita al SESRTCIC, Statistical, Economic and Social Research and<br />

Training Centre for Islamic Countries di Ankara.<br />

** Università degli Studi di Messina; e-mail:agatto@unime.it.<br />

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spesso complicate e molto formali, avulsa dal generale sistema di valori di<br />

cui è parte ed espressione, per come, spesso, è rappresentata. Peraltro, è da<br />

ritenere che essa, per avere un senso e risultare credibile, dovrebbe rappresentare<br />

l’”originale” tassello del disegno più complessivo di un’economia<br />

anch’essa “alternativa”, secondo lo spirito dei principi dell’ Islam.<br />

La realtà, per contro, rimanda l’immagine di un’esperienza certamente interessante<br />

e meritevole di attenzione, per le suggestioni etiche e le potenziali attitudini<br />

alla stabilità che la caratterizzano, ma che ancora non sembra essere pienamente<br />

conseguente alle premesse che ne hanno determinato e motivato la nascita.<br />

Il dubbio è se per qualificare come “islamica” una istituzione sia sufficiente<br />

il semplice e formale rispetto delle “norme” islamiche, in assenza di<br />

una riforma della mentalità e di un cosciente e condiviso orientamento alle finalità<br />

superiori, in uno scenario spesso fuorviante di ingiustizia e di ipocrisia. Finendo,<br />

così, col duplicare le istituzioni “convenzionali” che si intende superare, mediante<br />

il semplice condimento di una modesta e cosmetica dose di etica islamica<br />

e, tuttavia, mantenendo il medesimo orientamento produttivistico e tecnocentrico.<br />

Mancando, nei fatti, di mettere le tecniche al servizio di una prospettiva umana<br />

di sviluppo economico e sociale diversa da quella del modello convenzionale<br />

e prevalente, per come i suoi primi teorici auspicavano.<br />

2. Le fonti del diritto islamico<br />

L’Islam non è solo una religione. È anche una “civilizzazione”. Secondo<br />

la formula delle tre “D”: Dîn, Duniya wa Dawla, (Religione, Mondo, Stato) è<br />

insieme, legge, morale, stile di vita, cultura (Balta, 1995, p.41). È, dunque,<br />

una concezione integrale della vita e del destino umano; un codice generale<br />

di condotta che regola non solo le relazioni tra uomo e Dio ma anche quelle<br />

con la natura e tra gli uomini, secondo quanto rivelato nel Corano e nella<br />

sunna (Branca, 1995; Halm, 2003).<br />

Il Corano, il libro sacro per i Musulmani, è diviso in 114 testi (sure), o capitoli,<br />

ciascuno formato da un certo numero di versetti (ayat). Si distinguono<br />

le sure della Mecca, che riguardano aspetti spirituali e principi di fede e le<br />

sure della Medina, (i capitoli rivelati alla Medina durante l’esilio di Maometto),<br />

che riguardano aspetti attinenti al temporale, ai rapporti umani, all’economia,<br />

alla giustizia sociale alla politica regolando in senso lato l’organizzazione<br />

della società.<br />

Il Corano proclama, tuttavia, solo delle enunciazioni di carattere generale<br />

che trovano completamento in altre fonti tra cui la sunna.<br />

La sunna, o tradizione del Profeta, è l’insieme di atti e detti (hadith) che<br />

confermano, spiegano, completano il Corano. È la seconda fonte perché il<br />

Profeta è l’esempio da seguire e la norma che ispira il comportamento indivi-<br />

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duale e quello sociale. Egli incarna, infatti, i valori ai quali ciascun musulmano<br />

aspira. Vale a dire la forza, intesa come potenza della fede; la generosità,<br />

nella sua accezione di carità e di perdono; la serenità, ovvero la capacità di<br />

trascendere il mondo terreno.<br />

Le due fonti rappresentano la base della giurisprudenza islamica (sharia),<br />

che è la risultante dell’ijtihad, ovvero della interpretazione continua della<br />

dottrina religiosa effettuata dagli “Ulema”(dottori della legge islamica).<br />

Quando, infatti, un preciso problema non è contemplato dalle due fonti<br />

maggiori è demandata agli Ulema una interpretazione e nella misura in cui si<br />

trova un consenso il caso “farà giurisprudenza” (fiqh).<br />

La sharia comprende due categorie di “leggi”. Quelle che concernano i<br />

cinque pilastri (comandamenti) dell’Islam: la testimonianza dell’unicità di<br />

Dio, le cinque preghiere quotidiane, il digiuno durante il mese del Ramadan,<br />

la tassa islamica di carità (zakât), il pellegrinaggio alla Mecca. Quelle, poi,<br />

relative alle attività politiche, economiche e sociali.<br />

È il caso di osservare che se le fonti sono comuni, la loro interpretazione,<br />

più o meno rigorista, è soggetta a qualche dissenso. Al riguardo, si ricordano<br />

la scuola malikita, la scuola hanafita, la scuola hanbalita, la scuola Chafi’ita,<br />

dal nome dei grandi giuristi che le hanno ispirate. In ogni caso, però, le differenze<br />

non riguardano le credenze e l’essenziale della religione quanto, piuttosto,<br />

le modalità delle pratiche dell’Islam.<br />

Nel 1981 nell’ambito della Organization of the Islamic Conference è stata<br />

creata la Islamic Fiqh Academy, con sede in Arabia saudita, unanimemente<br />

riconosciuta come un’importante autorità nell’interpretazione.<br />

3. “Ideologia” e valori dell’Islam<br />

Le fonti del diritto islamico, il Corano e la sunna in particolare, determinano,<br />

quindi, la cornice di valori, norme, leggi che “modellano” le istituzioni<br />

a cui sono tenuti a conformarsi i singoli musulmani. Presupposto e fondamento<br />

è la Professione di Fede col riconoscimento della “Unicità” e “Unità”<br />

del Creatore e della Verità del profeta Muhammad, da cui consegue l’accettazione,<br />

in conformità ai precetti della sharia, di un agire umano sinergico<br />

rispetto ad una prospettiva (una speranza) di ricompensa futura (ultraterrena),<br />

secondo principi di uguaglianza tra gli uomini, di solidarietà, di giustizia ed<br />

equità, di fiducia, di armonia, di equilibrio, di responsabilità, nell’obiettivo<br />

della cooperazione alla “costruzione” di quella che può essere considerata<br />

una strategia di sviluppo “umano-centrica”, capace di promuovere la giustizia<br />

economico-sociale ed il benessere di tutte le “creature” di Dio: un riconoscimento<br />

che non può restare atto formale ma che richiede, quindi, una attiva<br />

“risposta”.<br />

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L’idea base è che l’intero universo è creato da Allah e che l’uomo ha il<br />

mandato di suo vice-gerente (vicario) con l’obbligo di obbedienza allo spirito<br />

e alla lettera dei suoi comandi. In tal senso, più che altre religioni, l’Islam<br />

detta le linee guida per ogni aspetto della vita, inclusa evidentemente anche<br />

quella economico-sociale. La sfera di azione delegata alla ragione umana, in<br />

effetti, non è illimitata. Tali comandi, infatti, non sono tanto estesi ed esaustivi da<br />

coprire in dettaglio ogni manifestazione delle attività umane e, tuttavia, non sono<br />

nemmeno così limitati ed ambigui da lasciare piena libertà d’azione. Tra questi<br />

due estremi, ci sono attività e comportamenti che possono essere governati<br />

secondo la ragione umana, ancorché nei limiti prescritti dai precetti. Altre aree,<br />

compresi molti aspetti dell’ambito economico-sociale, sono soggette, secondo<br />

interpretazioni piuttosto radicali, a principi che hanno “eterna applicazione”<br />

e che, quindi, non possono essere violati (Usnami, 2004, pp.15 e ss.).<br />

Anche se, al riguardo, si aprono promettenti prospettive di lettura “innovativa”<br />

dei Testi (Ramadan,2009).<br />

Il discrimine, rispetto ad altre religioni, sembra proprio la maggiore “cogenza”<br />

nel rispetto delle linee guida definite dall’Islam con la difficoltà,<br />

quindi, di una netta distinzione tra “sacro” e “profano”, e la conseguente e<br />

particolare enfatizzazione della natura sociale e collettiva dell’azione umana<br />

(Bichards e Waterbury, 2008, pp. 372-378).<br />

Sicché, in quella tradizione, non sarebbe concepibile, ad esempio, il mito<br />

di Robinson Crusoe caro all’approccio economico neoclassico.<br />

L’uomo “islamico” è consapevole ed accetta di avere con Allah una relazione<br />

come da “servitore” a “signore”, investito, tuttavia, della responsabilità<br />

di sviluppare il proprio potenziale al servizio della creazione di un ordine sociale<br />

giusto, nella consapevolezza della transitorietà e della strumentalità delle cose<br />

terrene e avendo come stella di riferimento, nel proprio agire, la sua meta finale.<br />

Certo della costante presenza al suo fianco di Allah, vicino all’uomo “più della<br />

sua vena giugulare” (Corano,L,16), fiducioso nella doppia ricompensa: prosperità<br />

qui ed oggi, salvezza domani. È suo impegno, pertanto, di discernere<br />

in ogni suo atto (anche economico) la dimensione individuale da quella collettiva,<br />

l’aspetto spirituale da quello temporale, in un potenziale processo “dinamico”<br />

di ricomposizione dei rapporti sociali (Campanini, 2009, pp. 149-59).<br />

Nella convinzione, tuttavia, che ogni “azione” è potenzialmente “spirituale”<br />

nella misura in cui è conforme al sistema di valori dell’Islam.<br />

In questa visione, l’Islam incoraggia il lavoro, il profitto lecito, in quanto<br />

frutto di operosità e di assunzione di rischio, ogni uso produttivo della ricchezza;<br />

raccomanda che l’uomo d’affari oltre che dall’aspettativa di profitto<br />

sia motivato anche dal desiderio di servire la sua comunità. Considera virtù<br />

importanti la moderazione, l’indulgenza, la fratellanza, l’amicizia sul lavoro<br />

mentre biasima i comportamenti iniqui e disonesti. Singolare, al riguardo è<br />

l’esortazione all’onestà nei traffici: “date giusta misura e giusto peso, non fro-<br />

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date la gente nelle loro cose…” (Corano, VII, 85); “Guardatevi dal trasgredire<br />

l’equa bilancia…” (LV, 8-9); “guai ai frodatori sul peso…” (LXXXIII, 1-3).<br />

Ribadisce l’uguaglianza tra gli uomini, “intrinsecamente” identici agli occhi<br />

di Dio (Corano, II, 62 ; Cfr. Sachedina 2001, pp. 23-24).<br />

Altrettanto importante è considerato l’aiutare il prossimo senza aspettarsi<br />

nulla in cambio. Ai ricchi, ad esempio, l’Islam prescrive esplicitamente di<br />

soccorrere chi versa in condizioni di bisogno e, forse, non è un caso che i<br />

maggiori avversari della nuova religione siano stati, a suo tempo, i mercanti<br />

della Mecca mentre la maggioranza dei primi adepti era formata dai poveri e<br />

dai più bisognosi, compresi vedove e schiavi. Assumendo, il Corano, la densa<br />

tradizione profetica che individua “vedove, orfani e stranieri” come paradigma<br />

dei più deboli nella società (Thomas, 2003, pp.1-6). Significativamente, è riferita,<br />

al riguardo, la concreta attuazione del principio di solidarietà da parte<br />

di Maometto, a Yeshreeb, divenuta Médina, mediante i cosiddetti patti individuali<br />

di fraternità conclusi tra gli autoctoni della città e gli immigrati provenienti<br />

dalla Mecca. Con tali patti i residenti, infatti, condividevano coi nuovi<br />

“fratelli” arrivati parte delle ricchezze per consentire loro l’esercizio di attività<br />

economiche (Dramé, 2004): una concreta attuazione del principio della destinazione<br />

universale dei beni , non a caso condiviso da non pochi Padri della Chiesa<br />

(Mosso 1988, p.4); un segno del potenziale “rivoluzionario” del nuovo insegnamento<br />

ed un singolare e antesignano esempio di messa in atto dei valori di fraternità<br />

e di reciprocità, non a caso assunti, nella più recente riflessione critica ispirata<br />

ai valori cristiani, come fondamento di una “rifondazione” dell’economia<br />

(Benedetto XVI, 2009; Zamagni e Bruni, 2004; Zamagni, 2009).<br />

L’Islam sollecita, quindi, la solidarietà, la giustizia, l’equità, la trasparenza,<br />

il primato del lavoro e dello spirito d’impresa, tutti elementi fondanti del codice<br />

di buona condotta di un musulmano. Rappresenta, in tal senso, un messaggio<br />

di “novità” e di “liberazione”, soprattutto per i più poveri (Cfr. Ahsan, 2004).<br />

È scritto: “Invero inviammo i Messaggeri… affinché gli uomini osservassero<br />

l’equità” (Corano, LVII, 25) e, ancora, “O voi che credete, siate testimoni sinceri<br />

davanti ad Allah secondo giustizia. Non vi spinga all’iniquità per un certo<br />

popolo. Siate equi: l’equità è consona alla devozione” (Corano, V, 8).<br />

L’obiettivo è sempre quello di conciliare spirituale e temporale e di promuovere<br />

l’unità e la coesione della società, per una comunità “equilibrata”,<br />

economicamente sicura ed etica (Corano, II, 3). Anche perché, l’ignoranza, la<br />

disoccupazione, la povertà sono considerate condizioni che possono influire<br />

negativamente sulla condotta morale dei singoli e sulla stessa preservazione<br />

della fede (Askari e Taghvi, 2005, p. 184).<br />

Altro concetto-chiave è che ogni profitto è giustificato solo se deriva da<br />

una attività produttiva “lecita” (halal) ed è conseguente ad una adeguata assunzione<br />

di responsabilità e di rischio. Incoraggiato è, in tal senso, lo schema<br />

del profit and loss sharing (PLS). Sono considerate illecite (haram) e, quindi,<br />

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vietate, oltre alle attività che contengono elementi di riba, gharār, maysir,<br />

tutte quelle che comportino un degrado della dignità umana, e quelle legate al<br />

gioco e all’azzardo,alla produzione e distribuzione di liquore, di tabacco, di<br />

armi,di carne di maiale.<br />

4. Principi economici dell’Islam<br />

Dal riconoscimento per la comune origine della famiglia umana e<br />

dall’accettazione, per il buon musulmano, del suo doveroso impegno per il<br />

consapevole uso dei beni, di cui è solo gestore, e che, quindi, deve utilizzare<br />

e salvaguardare al meglio per il proprio benessere ma anche per quello della<br />

collettività, derivano i criteri che organizzano l’attività economica, che possono<br />

essere riassunti nei principi di responsabilità, di sobrietà, di giustizia. Il<br />

ruolo, la posizione, la missione dell’uomo sono descritti “ as istihlaf, that is<br />

fulfilling God’s will on eart, promoting what is good, forbidding what is<br />

wrong, establishing justice (‘adl) and promoting beneficence (ihsan), resulting<br />

in attaining high levels of good life (hayat al-tayyebak) both individual<br />

and collective” (Ahmad, 2003, p. 193). In questo quadro, si segnalano i seguenti<br />

principi economici.<br />

4.<strong>1.</strong> Proprietà privata e ricchezza<br />

È riconosciuta la proprietà privata ma con divieto di poterne disporre in<br />

modo esclusivo ed assoluto, essendo l’interesse individuale protetto fino a<br />

che non entra in conflitto con quello generale della comunità.<br />

Altrettanta consapevolezza è richiesta nell’impiego della ricchezza che,<br />

come un flusso vitale, va di continuo reinvestita per il maggior benessere della<br />

società. In un misto di “potere” ma anche di “responsabilità”, secondo un approccio<br />

che oscilla tra gradualismo e pragmatismo (Baker, 2003). Di conseguenza,<br />

l’Islam scoraggiata la tesaurizzazione (Corano, IX, 34) (per incentivare<br />

l’attività imprenditoriale e la propensione al rischio). È scritto, infatti: “Guai ad<br />

ogni diffamatore maldicente, che accumula ricchezze e le conta; pensa che la sua<br />

ricchezza lo renderà immortale?” (Corano, CIV, 1-3). La sottrazione di denaro<br />

dal circuito economico è, quindi, ritenuta dannosa mentre è auspicata la “fluidità”<br />

dei flussi finanziari, la “liquidità” del sistema, la solvibilità degli agenti. Tutti elementi<br />

ritenuti utili per il buon funzionamento dell’economia e, quindi, per<br />

l’arricchimento della comunità dei musulmani. Ma è richiesta anche sobrietà.<br />

Per l’Islam, infatti, sono sconvenienti l’ostentazione, lo spreco delle risorse,<br />

l’abuso della ricchezza (Saidane, 2009, pp. 38 e ss.) mentre è raccomandata<br />

come rilevante, in particolare, l’attenzione verso i poveri.<br />

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4.2. Zakât<br />

La cooperazione e la solidarietà sono altrettanti aspetti costanti e caratteristici<br />

della dottrina islamica.<br />

Di esse, una ulteriore specifica espressione e uno dei comandamenti è la<br />

zakât: “Assolvete all’orazione, pagate la decima e inchinatevi con chi si inchina”<br />

(Corano, II, 43).<br />

Il termine, normalmente tradotto come “elemosina legale” ha, in verità, un<br />

significato più ampio. Letteralmente sta per “purificazione”. Nel senso che<br />

solo dopo aver pagato la parte che “Dio impone”, la ricchezza accumulata diviene<br />

“pura” e “lecita”: “Preleva sui loro beni un’elemosina tramite la quale<br />

li purifichi e li mondi e prega per loro...”(Corano, IX, 103).<br />

Ovviamente, oltre a questa funzione di “purificazione” (anche dall’egoismo),<br />

la zakât permette al musulmano di contribuire al processo di solidarietà e di<br />

armonia sociale. È dovuta nella misura del 2,5 per cento del valore superiore<br />

ad un minimo, fissato tradizionalmente come pari a quello di 85 grammi<br />

d’oro. Lo Stato, di fatto, può istituire, in aggiunta, altre imposte. La zakât può<br />

essere distribuita sia direttamente che indirettamente. Vanno, quindi, ricordati<br />

gli interventi volontari di carità, attraverso organizzazioni benefiche nonprofit,<br />

per fornire ai più bisognosi beni e servizi che il mercato o lo Stato, a<br />

causa dei loro fallimenti, non sono in grado di assicurare. Infatti, secondo le aspettative,<br />

“all people should have equal opportunities, without discrimination,<br />

to benefit from environmental and public resources” (Ul-Haq, 1995, p. 85).<br />

La carità (sadaqa) verso quanti siano in condizioni di bisogno, musulmani<br />

e non, è da esercitare senza ostentazione e nota a “Dio e a nessun altro”. In un<br />

passaggio, che richiama il Sermone della Montagna, il Corano insegna: “Se<br />

lasciate vedere le vostre elargizioni, è un bene; ma è ancora meglio per voi se<br />

segretamente date ai bisognosi…” (2, 271). Simmetricamente, il Papa di Roma<br />

ricorda: “Dio è il difensore dei poveri e ama ciascun uomo per quel che<br />

egli è e non per quel che possiede o per ciò che egli realizza” (Mounier,<br />

2010).<br />

È importante notare che i vari enti di beneficenza godono di una autonoma<br />

legittimità per cui non necessitano di approvazione o autorizzazione pubblica.<br />

(Iqbal, 1986). Sicché, è da ritenere che il “terzo settore”, con la sua caratteristica<br />

di promozione del capitale sociale, abbia le potenzialità per concorrere<br />

in modo crescente allo sviluppo socio-economico della comunità.<br />

Al solito, tuttavia, la declinazione dei principi in realtà è piuttosto varia. In<br />

alcune situazioni la zakât è esercitata su basi volontarie, in altre (Arabia Saudita,<br />

Malesia, Pakistan) è amministrata dallo Stato, con tassi variabili di evasione in<br />

entrambi i casi (Richards e Waterbury, 2008, p. 375). È significativo, ad esempio,<br />

che la comunità d’affari dello Yemen abbia, nel recente passato, esercitato<br />

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lobbyng per l’abolizione della zakât (Yemen Times, January 12, 1988).<br />

4.3. Lavoro<br />

Il lavoro è considerato un’attività elevata al più alto rango in quanto valutato<br />

come espressione della stessa fede. Basti dire che per il Profeta “il lavoro è adorazione”<br />

ed il Corano menziona la parola al amal (in senso lato lavoro) in più di<br />

360 versetti mentre un concetto analogo (al-fi’l) è ricordato in altri 109 versi<br />

(Iqbal, p. 40). Per questa enfasi sul lavoro l’Islam è considerato “l’ideologia della<br />

pratica e la pratica dell’ideologia” e, quindi, “una religione dell’azione”.<br />

Lavorare non è solo un diritto ma anche un dovere ed un obbligo. Ciascuno,<br />

pertanto, è esortato a lavorare per guadagnarsi da vivere mentre è condannata<br />

ogni forma di pigrizia o di disoccupazione volontaria (Zamir e Miraklor, 2007, p.<br />

40). Tuttavia, quanti hanno un legittimo impedimento ad esercitare un’attività<br />

conservano un diritto su quanto la società produce, secondo il principio<br />

dell’”invariant claim to ownerschip”, per cui ogni essere umano mantiene un diritto<br />

sulle risorse fornite da Allah a beneficio di tutti i membri della società.<br />

4.4. Trasparenza e completezza dei mercati<br />

Particolare rilievo, per il buon funzionamento dell’economia, è riservato<br />

alla completezza dei contratti e alla trasparenza delle transazioni, conseguenti<br />

ai prescritti valori di sincerità e fiducia:<br />

“O voi che credete – recita il versetto 282 della Sura II – quando contraete un<br />

debito con scadenza precisa, mettetelo per iscritto; che uno scriba tra di voi lo<br />

metta per iscritto, secondo giustizia. Lo scriba non si rifiuti di scrivere secondo<br />

quel che Allah gli ha insegnato: che scriva dunque e sia il contraente a dettare,<br />

temendo il suo Signore Allah e badi a non diminuire in nulla. Se il debitore è deficiente,<br />

o minorato o incapace di dettare lui stesso, detti il suo procuratore secondo<br />

giustizia. Chiamate a testimoni due dei vostri uomini o in mancanza di due<br />

uomini, un uomo e due donne tra coloro di cui accettate la testimonianza……Non<br />

fatevi prendere da pigrizia nello scrivere il debito e il termine suo, sia piccolo o<br />

grande…”. Ed è ribadito, nel successivo versetto 283: “Se siete in viaggio e non<br />

trovate uno scriba, scambiatevi dei pegni. Se qualcuno affida qualcosa ad un altro,<br />

restituisca il deposito al depositario e tema Allah il suo Signore…”.<br />

La fiducia, che rappresenta uno degli ingredienti caratteristici del capitale<br />

sociale di una comunità, è considerata come attitudine “connaturale” al credente<br />

in quanto riflesso ed espressione della particolare relazione di “fede”<br />

che lo lega ad Allah. Per cui l’essere fedele alle promesse, ai “contratti”, diviene<br />

impegno conseguente all’originale “patto” tra uomo e Dio (Corano,<br />

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VII, 172). Lo stesso Maometto ha ribadito: “Maintaining promises perfectly<br />

is a sign of faith” (Zamir e Miraklor, 2007, p. 37).<br />

4.5. Lo Stato<br />

Allo Stato è affidato il compito di motivare il settore privato a svolgere il<br />

proprio ruolo senza trascurare il benessere sociale, mediante incentivi ed appropriate<br />

riforme politiche e istituzionali, nell’intento di “umanizzare” il<br />

mercato e attenuarne le “iniquità”. In tal senso, è demandato allo Stato di operare<br />

in modo che siano assicurati: a) il soddisfacimento dei bisogni di base<br />

per tutti, ivi compresi i servizi sanitari e l’istruzione; b) pari opportunità per<br />

tutti, mediante l’efficiente funzionamento dei mercati, il contrasto della concentrazione<br />

della ricchezza, la riduzione delle ineguaglianze nella distribuzione<br />

del reddito e della ricchezza e vigilando che la ricchezza non diventi<br />

strumento di dominio “dell’uomo sull’uomo”; c) la massima libertà nel perseguire<br />

l’eccellenza morale; d) il perseguimento della stabilità e dello sviluppo<br />

economico nella misura necessaria per realizzare i sopradetti obiettivi; più<br />

in generale, la solidarietà e la coesione sociale.<br />

Biasimando, l’Islam, il tesoreggiamento e l’accumulazione eccessivi, particolarmente<br />

raccomandato è il contrasto del monopolio per favorire la concorrenza.<br />

Lo Stato, quindi, può ricorrere a forme di finanza “espansiva” come strumento<br />

di promozione della crescita economica (Askari e Taghvi, 2005, pp.<br />

189-190) anche se, in generale, è sconsigliato l’indebitamento eccessivo. Un<br />

principio, questo, che vale anche per le imprese, in quanto condizione ritenuta<br />

più favorevole alla stabilità auspicata dai principi coranici.<br />

5. Prime considerazioni<br />

Il riconoscimento della proprietà privata e dell’iniziativa economica individuale,<br />

l’enfasi posta sulla dignità del lavoro e la giustizia, sulla sobrietà e la<br />

responsabilità verso gli uomini e la natura; la condanna di ogni forma di arricchimento<br />

non legato all’esercizio di un’attività reale e, quindi, alla assunzione<br />

di rischio; l’incoraggiamento, quasi la obbligatorietà dell’investimento<br />

produttivo nella prospettiva di un profitto; fanno ritenere che il sistema economico<br />

islamico riconosca la legittimità della competizione e del sistema di<br />

mercato a condizione, tuttavia, che siano esercitati sotto il vincolo del “filtro”<br />

dei valori morali dell’Islam. Il sistema islamico, pertanto, si potrebbe configurare<br />

come un’economia socialmente responsabile, con forti connotazioni di<br />

“novità” e di “liberazione”, sulla base di un criterio di limite e di “autolimite”<br />

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alla libertà d’azione dei soggetti economici, che dovrebbero operare non solo<br />

secondo il proprio tornaconto ma preoccupati anche dell’interesse di quanti<br />

con essi interagiscono. Scrive, ad esempio, Timor Kuran:<br />

58<br />

“The primary role of the (behavioral norms of Islam) is to make the individual<br />

member of Islamic society, homo islamicus, just, socially responsible, and<br />

altruistic. Unlike the incorrigibly selfish and acquisitive homo economicus of<br />

neoclassical economics, homo islamicus voluntarily foregoes temptations of<br />

immediate gain when by doing so he protect and promote the interests of his<br />

fellows” (Warde, 2005, p. 44).<br />

E B. Badie (1986, p. 97) sostiene:<br />

“la culture islamique ne peut intégrer l’utopie occidentale d’un sistème de marché<br />

autonome (...), qui, suppose que l’homme n’agisse qu’en function de son intérêt<br />

individuel et de la possession de biens économiques. Tout a l’opposé, l’économie<br />

s’insère en Islam dans une rationalité qui n’est ni individuelle ni possessive, mais<br />

essentiellement réglée par le besoin de sauvegarder l’intégration du groupe social”.<br />

Viene messo in discussione, pertanto, quell’individualismo autoreferenziale<br />

che rappresenta una delle premesse antropologiche del capitalismo moderno<br />

e una delle cause principali dell’“oscuramento” della dimensione della<br />

solidarietà e degli “obblighi” di giustizia, auspicati dall’Islam e comuni anche<br />

alla tradizione antropologica tomista e all’insegnamento sociale della Chiesa.<br />

(Böckenförde e Bazoli, 2010, pp. 10-11). Una visione auspicata, a ben vedere,<br />

più che realizzata, del comportamento umano, non essendo stato il riorientamento<br />

antropologico indicato, adeguatamente supportato da coerenti innovazioni<br />

istituzionali e da adeguate strategie d’azione. Una prospettiva, di fatto,<br />

che richiama alcune delle istanze etiche proprie di approcci teorici alternativi<br />

al paradigma neoclassico e che per alcuni versi rimanda all’ampio dibattito<br />

sulla cosiddetta responsabilità sociale dell’impresa e alla feconda prospettiva<br />

della “economia civile” (Cfr. Marzano 1998 e 2004; Bruni e Zamagni<br />

2004). Allo stesso modo Amartya Sen, Albert Hirschman, George Akerlof,<br />

Amitai Etzoni, tra gli altri, hanno evidenziato i limiti dell’approccio neoclassico,<br />

mettendo in discussione il principio dell’individualismo come unico criterio<br />

di interpretazione delle azioni e dei fenomeni economici, ed enfatizzando<br />

la necessità di utilizzare nei modelli teorici variabili come responsabilità<br />

individuale, “socialità” o “reciprocità”, ad esempio, considerate dai più estranee<br />

al linguaggio economico (Gatto e Migliardo, 2009, p. 346; Kourilsky, 2009).<br />

Ovviamente, così come per la dottrina sociale della Chiesa, anche per<br />

quella islamica, può differire la modalità di attuazione degli obiettivi assegnati,<br />

secondo le interpretazioni e le sensibilità politiche prevalenti. Essendo<br />

possibili soluzioni “rigide” quanto modelli “flessibili” (Felice, 2005).<br />

L’egiziano Sayyid Qotb, teorico dei Fratelli Musulmani (1906-1956), ad


esempio, nel secondo dopoguerra ha definito un programma, largamente attuato<br />

in epoca nasseriana, fondato su riforma agraria, espropriazioni, nazionalizzazioni,<br />

statalizzazione dell’economia, imposta progressiva sul reddito e<br />

sulla grandi fortune, in nome del bene pubblico (Carré, 1984).<br />

Oggi, per contro, in alcuni paesi sembra farsi strada un “Islam di mercato”<br />

permeabile ai modelli occidentali, quasi figlio di una “teologia della prosperità”.<br />

Una esperienza, cioè, che coniuga valori religiosi e successo economico<br />

in chiave prettamente individualistica, che preconizza il maturare di una società<br />

civile “virtuosa”, che interagisce con uno Stato “minimo” (privatizzato),<br />

e assegna la delega della gestione di una prevalente parte del servizio pubblico<br />

alle istituzioni religiose private. Secondo lo schema della faith-based iniziative<br />

cara alla “Destra” americana (Haenni, 2005, pp. 7-12; Hiboux, 1999).<br />

Sulla base di quella che sembra una adesione prevalentemente “formale” e<br />

cosmetica alla lettera dei precetti islamici che suggerirebbero, piuttosto, un<br />

approccio etico ai problemi dello sviluppo, nell’ottica, è da ritenere, quantomeno<br />

di una variante critica del capitalismo “caotico” del nostro tempo. In<br />

contrasto, quindi, con l’ipotesi di un capitalismo dal “volto umano”, a fronte,<br />

nella gran parte delle società a maggioranza musulmana, di grandi sperequazioni<br />

economico-sociali e del prevalere di un codice consumisticoproduttivistico<br />

proprio dell’economia che si vorrebbe “superare”. Di fatto<br />

condividendone gli obiettivi, anche se col parziale utilizzo di tecniche finanziarie<br />

ed economiche formalmente ispirate all’etica islamica. In uno scenario<br />

“politico” che non sembra aver ancora maturato l’idea di affrontare la “sfida”<br />

della democrazia, pur nelle sue possibili declinazioni islamiche, quale ambito<br />

propizio per meglio favorire, nell’era della globalizzazione, l’attuazione delle<br />

prescrizioni coraniche (Fadl 2004; Ramadan, 20009).<br />

6. Sharia e attività finanziaria<br />

È nel quadro delle idealità e delle considerazioni appena esposte che va valutata<br />

la “finanza islamica”, la cui organizzazione e il cui perimetro d’azione<br />

sono scanditi non solo dal fondamentale divieto dell’applicazione dell’interesse<br />

(riba), ma anche da quelli, complementari, della interdizione d’investimento in<br />

attività che comportino irragionevole incertezza ed ambiguità (gharār), e della<br />

proibizione del ricorso alla speculazione e all’azzardo (maysir).<br />

Tutto deriva dall’idea centrale secondo cui il denaro è semplice misura del<br />

valore e mezzo per facilitare gli scambi, senza divenire esso stesso oggetto di<br />

scambio, mentre può creare valore solo se combinato al lavoro dell’uomo.<br />

6.<strong>1.</strong> Il divieto dell’interesse<br />

59


Il Corano si occupa del divieto di riba in ben quattro capitoli: Ar-Rūm<br />

(versetto 39) “Ciò che concedete in usura, affinché aumenti a detrimento dei<br />

beni altrui, non li aumenta affatto presso Allah.”; An-Nisā (versetto 161),<br />

Al-Imrān (versetto 130), “O voi che credete, non cibatevi dell’usura che aumenta<br />

di doppio in doppio” e Al-Baqarah (versetti 275-281).<br />

Secondo alcuni, propensi a privilegiare una interpretazione legata più allo<br />

“spirito” che alla “lettera” del Corano, il termine riba sarebbe da intendere<br />

solo come usura e non manca chi considera lo stesso concetto di riba come<br />

un’idea obsoleta (Ziaul, 1995).<br />

Sul punto, alcuni pronunciamenti sono riferiti anche a Maometto (Mecca,<br />

ca. 570-Medina, 632), che se ne sarebbe occupato in più circostanze (International<br />

Institute of Islamic Economics, 1999, pp. 14-19). È il caso di ricordare,<br />

al riguardo, che l’usura era pratica corrente all’epoca e si racconta che durante<br />

il periodo della sua vita trascorso alla Mecca, Maometto stesso sia stato testimone<br />

di tecniche usuraie adottate dalla sua comunità di commercianti. Era<br />

abituale, infatti, imporre il raddoppio del debito nel caso di difficoltà a rimborsare<br />

un prestito alla scadenza, con un meccanismo che di fatto tendeva a<br />

ridurre in stato di “schiavitù” il debitore (Martens, 2001). Tuttavia, il secondo<br />

califfo dell’Islam, Oumar Ibn El Khattab, uno dei suoi più prossimi compagni,<br />

si sarebbe rammaricato per il fatto che il Profeta sia morto senza aver<br />

precisato in modo esplicito il significato di riba (Saïdane, 2009, pp. 51-52).<br />

In effetti riba significa sia usura che interesse, ma anche guadagno illecito<br />

o sfruttamento economico (El-Ashker e Rodney, 2006). Il concetto si presta,<br />

dunque, a differenti interpretazioni.<br />

Secondo alcuni esegeti il versetto 130 della Sura Al-Imrān, che denuncia<br />

l’usura per moltiplicazione smisurata del capitale, e quello della citata Sura<br />

Al-Baqarah, dove viene chiesta la rinuncia “all’eccesso dell’interesse usuraio”,<br />

sembrerebbero giustificare la limitazione del termine riba al solo caso<br />

dell’usura (Saadallah 2004b). Il riferimento è alla ricordata usanza preislamica<br />

di raddoppiare il debito quando non fosse stato estinto alla scadenza,<br />

facendo del debitore uno schiavo (Corano, 3, 130) o alla consuetudine dei<br />

prestiti “capestro” concessi ai poveri bisognosi e desiderosi di soddisfare taluni<br />

bisogni di base (Shepard, 1996, p. 46).<br />

Per altri, per lo più della corrente zahirita di tradizione sunnita, il divieto<br />

di riba sarebbe quello praticato nel commercio delle sole sei merci indicate in<br />

un noto passo attribuito a Maometto, per come riferito da El Boukhari:<br />

“oro in cambio d’oro, in polvere o in moneta, argento in cambio d’argento, in<br />

polvere o in moneta, grano in cambio di grano, misura contro misura, di mano in<br />

mano, orzo in cambio di orzo, misura contro misura, datteri in cambio di datteri,<br />

misura contro misura, sale in cambio di sale, misura contro misura. Chi aumenta<br />

o moltiplica, pratica l’usura”. (Saïdane, 2009, p. 52). Non riguarderebbe, quindi,<br />

le moderne transazioni effettuate con l’ausilio della moneta (Warde, 2000, p. 68).<br />

60


La maggioranza delle scuole coraniche, tuttavia, concorda sul divieto generalizzato<br />

di ogni forma di interesse. Ciò, sulla base della più generale dimensione<br />

etica dell’Islam, che riconosce la moneta solo come mezzo di scambio<br />

ma non come “oggetto” di scambio mentre, per converso, esalta la funzione del<br />

capitale al servizio della società e incoraggia lo spirito d’impresa contro i “perversi<br />

effetti della speculazione”. Implicitamente condannando l’arricchimento<br />

senza “sforzo”.<br />

La illiceità del riba poggerebbe soprattutto sul fatto che rappresenta un incremento<br />

di capitale non giustificato dall’assunzione di un rischio, quindi una<br />

“rendita” da transazione, deconnessa da una sottostante attività reale. Configurandosi,<br />

di conseguenza, come esito di uno scambio “ineguale” e frutto di<br />

una pura attività finanziaria, come un “vantaggio senza equivalente di un servizio<br />

reso” secondo la prospettiva islamica della giustizia sociale ed economica<br />

(Saïdane, 2009, p. 46).<br />

Riba, pertanto, sarebbe “ogni incremento di ricchezza che non abbia come<br />

base, e quindi non derivi, da un’azione produttiva” (Piccinelli, 1996, pp. 22-<br />

26). Nel caso dell’interesse, in sostanza, non vi sarebbe equivalenza tra la<br />

remunerazione percepita dal creditore e il costo opportunità sopportato a causa<br />

del prestito accordato. Trattandosi di remunerazione “relativamente” certa, garantita<br />

e di ammontare noto mentre, per il prestatore, il “sacrificio” del rendimento<br />

dell’eventuale investimento che egli avrebbe potuto effettuare con la<br />

somma prestata è soltanto probabile e, quando pure si realizzasse, il suo ammontare<br />

non è noto a priori (El-Gamal, 2001). Uno dei motivi principali della<br />

proibizione appare, in questa prospettiva, legato ai valori di giustizia distributiva<br />

in quanto tendente a prevenire il processo cumulativo dell’arricchimento in<br />

“poche” mani, siano esse rappresentate da banche o privati cittadini.<br />

“Il bottino che Allah concesse al Suo Inviato sugli abitanti delle città appartiene<br />

ad Allah e al Suo Inviato, ai (suoi) familiari, agli orfani, ai poveri e al viandante<br />

diseredato cosicchè, non sia diviso tra i ricchi tra di voi…” (Corano, 59, 7).<br />

Non sorprende la “similarità” con la tesi aristotelica della “sterilità” del<br />

denaro o quella del divieto di prestare denaro ad interesse teorizzato da San<br />

Tommaso. L’”usuraio”, infatti, farebbe “fruttare” un bene improduttivo vendendo,<br />

di fatto, il tempo intercorrente tra il momento del prestito e quello del<br />

rimborso dell’interesse. “Ma il tempo appartiene soltanto a Dio”. “L’enorme<br />

delitto” dell’usura è, peraltro, condannato in numerosi passi dell’Antico Testamento:<br />

(Neemia, V, 7; il Salmo XV, 5; Ezechiele, XVIII, 8; i Proverbi<br />

XXVIII, 8; il Deuteronomio, XV, 6 e XXIII, 19; il Levitico, XXV, 36), mentre<br />

il Nuovo Testamento ne fa cenno con le parole di Luca «mutuum date, nihil<br />

inde sperantes» (Luca, VI, 35). La proibizione dell’usura, in effetti, è comune<br />

a molte altre culture, dal giudaismo, al buddismo, all’induismo. Ed è<br />

61


icorrente negli scritti di numerosi pensatori “eretici” non musulmani, come,<br />

ad esempio, Erza Pound (2009).<br />

L’abolizione dell’interesse, peraltro, segna non solo il solco per l’impianto<br />

di un nuovo assetto del sistema finanziario ma anche, forse soprattutto, rappresenta<br />

il primo e fondamentale tassello per l’intera ristrutturazione di un<br />

sistema economico “islamico”, che voglia essere contrapposto o, comunque,<br />

diverso da quello “convenzionale”.<br />

6.2. Contratti e tipi di finanziamento<br />

La canonica modalità di superamento dell’interesse, cuore della filosofia<br />

dell’Islamic banking, è rappresentata dal finanziamento partecipativo, nella<br />

fattispecie del profit and loss sharing ovvero del profit and risk sharing , i<br />

cui caratteristici contratti sono quello musharaka e quello mudaraba. Tale<br />

sistema è considerato il più autentico e il più conforme al complesso di valori<br />

dell’ Islam in quanto riflette pratiche di finanziamento già comuni al tempo<br />

della nascita dell’Islam (cfr. Gatto, 2008).<br />

Il contratto musharaka (parola che deriva dall’arabo chirika o charica,<br />

che significa associazione o società, prevede che una banca ed eventuali altri<br />

finanziatori costituiscano una partnership con un imprenditore per la gestione<br />

di un dato progetto. I finanziatori hanno diritto al pieno coinvolgimento nella<br />

gestione “dell’affare”. I profitti sono divisi secondo quote pattuite tra le parti.<br />

Le perdite, invece, sono partecipate proporzionalmente alla quota di capitale<br />

conferito dai soci. L’imprenditore oltre a prestare le sue capacità organizzative<br />

finanzia in parte l’impresa e partecipa, di conseguenza, non solo alla ripartizione<br />

degli utili ma anche delle perdite. Si tratta di una forma di contratto in<br />

particolare impiegata per transazioni di lungo termine, comprese operazioni<br />

di project financing.<br />

L’altra speciale forma di partnership, più utilizzata per finanziamenti a<br />

breve di tipo commerciale, è rappresentata dal contratto mudaraba : un finanziamento<br />

“fiduciario” che associa in un affare un agente (moudarib) e un finanziatore<br />

(rab-el-mal). La banca, in questo caso, finanzia interamente<br />

l’impresa lasciandone la piena gestione all’imprenditore-lavoratore. Il riferimento<br />

storico è al contratto di commenda operante nei porti italiani nel decimo<br />

secolo e che ha rappresentato il motore del commercio nel Medio Evo<br />

(Renaud, 2003, p. 5).<br />

La banca partecipa al relativo eventuale risultato utile con una percentuale<br />

contrattualmente definita. Anche l’imprenditore è compensato solo con la<br />

partecipazione agli utili, non potendo percepire una remunerazione per la sua<br />

attività manageriale. Le eventuali perdite sono sopportate solo dall’ente finanziatore<br />

a meno che non siano accertate negligenze o condotte improprie<br />

62


da parte dell’imprenditore. Di fatto, l’imprenditore gestisce risorse altrui come<br />

se fossero proprie, e in più non risponde di eventuali perdite di gestione, il<br />

che implica un alto grado di fiducia che deve legare tutti i protagonisti<br />

dell’operazione.<br />

I due detti contratti configurano, quindi, la banca islamica come una sorta<br />

di operatore di private equity.<br />

Malgrado, tuttavia, rappresentino il più originale metodo di finanziamento<br />

“alternativo” rispetto a quello convenzionale, i contratti mudaraba e musharaka<br />

costituiscono una parte molto circoscritta dell’insieme delle attività della<br />

banche islamiche. Il che pone degli interrogativi sulla “sostanza” e sulla<br />

forma dell’Islamic Banking.<br />

In pratica, le forme di finanziamento prevalente sono rappresentate dalla<br />

vendita a credito, basata sul criterio del mark- up, inteso come costo di intermediazione,<br />

che pesa, a seconda delle fonti, tra l’80 e il 95 per cento del totale<br />

dei finanziamenti delle istituzioni finanziarie islamiche (Warde, 2000, p.<br />

133; Haron e Ahmad, 2000, pp. 3-9; Alfano e Fioroni, 2005, p. 175; Richards<br />

e Waterbury, 2008, p. 376). Con questa modalità, l’acquirente, conoscendo il<br />

prezzo del bene oggetto di finanziamento, dà mandato d’acquisto per suo<br />

conto alla banca, o altro ente finanziatore, a cui riconosce, per il servizio, un<br />

margine di “profitto”.<br />

Nel caso classico del contratto del tipo murabaha, che si configura come<br />

una doppia vendita con differimento del pagamento, la banca acquista a nome<br />

proprio ma per conto terzi beni che poi loro rivende a un prezzo pari a quello<br />

di acquisto maggiorato di un mark-up fissato in anticipo (“al bay’ou bi righi<br />

ma’loum”).<br />

Il contratto prevede che la vendita sia preceduta da una promessa<br />

d’acquisto da parte di chi chiede il finanziamento. Ciò per evitare che la banca<br />

si trasformi in qualche modo in un attore commerciale e anche per ridurre<br />

il suo “contatto” con la merce al minimo richiesto per il rispetto delle esigenze<br />

della sharia. La banca autorizza il più delle volte il cliente a negoziare direttamente<br />

col fornitore le condizioni d’acquisto della merce. Il pagamento è<br />

possibile anche in forma rateale.<br />

Per poco che possa essere coinvolta rispetto all’operazione commerciale,<br />

la banca, per il tempo per il quale il bene acquistato rimane di sua proprietà,<br />

si ritiene che sopporti un rischio operativo che consente di annoverare il contratto<br />

di tipo murabaha tra le operazioni conformi allo “spirito” della legge<br />

islamica. Inoltre, a fronte della “similarità” del mark-up col tasso di interesse<br />

convenzionale, si fa notare che nel primo caso c’è alla base una vendita il cui<br />

prezzo subisce un sovrappiù per differimento; l’interesse, invece, rappresenta<br />

incremento di un “debito” differito. E, tuttavia, la vendita a credito è consentita<br />

come forma di finanziamento, in quanto, malgrado l’apparente similarità,<br />

“Allah ha permesso il commercio e proibito l’usura” (Corano, II, 275).<br />

63


È da rilevare, ad ogni modo, che non risulta sempre chiaro il metodo di<br />

applicazione dell’ammontare del mark-up, restando il dubbio che possa trattarsi,<br />

il più delle volte, di un costo definito sulla base del tasso di interesse<br />

prevalente nel sistema bancario convenzionale.<br />

La vendita, salam, invece, è una sorta di credito all’inverso. La banca paga<br />

in anticipo al produttore beni, di solito di tipo stagionale, che saranno consegnati<br />

ad una data successiva. In questo caso è la banca che effettua subito la<br />

sua prestazione mentre il cliente vi fa fronte alla scadenza. Di fatto, il venditore<br />

si propone di offrire un dato bene ad un acquirente ad una data futura<br />

contro un pagamento immediato.<br />

Un terzo tipo di finanziamento è rappresentato dall’operazione di leasing<br />

(ij¯ arah o ‘¯ ıj¯ ar), che si basa sullo stesso principio di quello convenzionale.<br />

Il tipico contratto è l’istinâ, col quale oggetto della transazione è un bene non<br />

ancora esistente. Come nel caso di chi promette di produrre un dato bene da<br />

consegnare in futuro in una certa quantità. Il prezzo è fissato in anticipo ma<br />

non di fatto pagato al momento della stipula del contratto. L’istinâ, pertanto,<br />

non rappresenta necessariamente un mezzo di finanziamento, dato che il pagamento<br />

può essere differito fino al momento della consegna del bene prodotto.<br />

Lo diventa quando, ad esempio, la banca interviene nell’ordinare la<br />

produzione del bene anticipandone l’importo. Si tratta di una tecnica molto<br />

simile alla vendita salam. La differenza è che nel caso dell’istinâ non è<br />

d’obbligo fissare la data di consegna.<br />

Può essere la stessa banca a “produrre” il bene, come nel caso di una autostrada,<br />

accettando che il relativo pagamento sia differito. Non necessariamente,<br />

tuttavia, la banca provvede direttamente alla produzione del bene pattuito.<br />

Può, infatti, far ricorso a terzi, utilizzando un contratto d’istinâ parallelo. La<br />

banca quindi, funge da intermediaria. Finanziando la costruzione o produzione,<br />

ad opera di terzi, del bene domandato dal proprio cliente, al quale viene venduto<br />

al tempo stabilito. È un sistema adatto al finanziamento di grandi opere.<br />

L’ ijara è, invece, un tipico contratto di trasferimento dell’usufrutto. In origine<br />

il termine ijara indicava la prestazione di un servizio da parte di una<br />

persona (ajir) a beneficio di un ‘altra (mousta’jir).<br />

Una seconda forma di ijara riguarda l’usufrutto di un bene o di una proprietà<br />

contro pagamento di una rendita.<br />

È con riferimento a questa seconda accezione che l’ ijara può essere considerata<br />

come un mezzo di finanziamento sotto forma di leasing finanziario.<br />

Nel qual caso, una istituzione finanziaria acquista un bene (un’attrezzatura,<br />

un impianto) e lo affitta a un cliente che ne fa richiesta, ricevendo per il servizio<br />

una commissione non commisurata al tempo. Il bene resta di proprietà<br />

della istituzione finanziaria essendone trasferito al cliente solo l’uso. In alcuni<br />

casi il contratto prevede il riscatto del bene da parte del cliente.<br />

L’ijara, a differenza della murabaha, prevede che, in prevalenza, il loca-<br />

64


tore resti proprietario del bene affittato, sopportando per questo il rischio di<br />

deterioramento del bene.<br />

Secondo una recente tendenza sono stati adottati, da alcune istituzioni islamiche,<br />

prodotti finanziari vietati o molto discutibili dal punto di vista<br />

dell’etica dell’Islam (Nasser, 2007).<br />

La tecnica bai-al-Einah bai-al-Dayn è il comune sconto di un titolo di credito.<br />

Ma per l’etica islamica ogni vendita di debito (bai-al-dayn) e ogni trasferimento<br />

di debito (shahada-al-dyn) deve avvenire alla pari. Ciò significa che non<br />

vi può essere differenza tra quanto la banca esborsa per il titolo portato allo sconto<br />

e quanto essa incassa allo scadere dello stesso. L’eventuale differenza ha la<br />

natura di riba. Malgrado il chiaro divieto, alcune banche praticano lo sconto di<br />

titoli di credito, trattando il debito alla stregua delle attività “reali”.<br />

La tecnica tawarruq è un altro classico stratagemma per aggirare il divieto<br />

di riba. È consentito, tuttavia, nel rispetto di alcune condizioni. È un mezzo<br />

di finanziamento che combina due transazioni separate di vendita e di acquisto.<br />

Il cliente si rivolge alla banca per un finanziamento, la banca acquista da<br />

un commerciante il bene X per un valore equivalente al fabbisogno del cliente<br />

al prezzo P. Vende, quindi, X al suo cliente con consegna differita al prezzo<br />

P+I. Infine la banca, come agente del cliente, vende in contanti al commerciante<br />

al prezzo P*.<br />

Quel che viene richiesto, per l’ammissibilità della tecnica, è almeno un<br />

gap temporale tra le operazioni di acquisto e di vendita che sottoponga le parti<br />

almeno ad un minimo di rischio di prezzo. In modo che i guadagni che ne<br />

derivano siano configurabili come compenso per il rischio, e quindi esenti da<br />

elementi di riba Un’altra condizione è che non vi sia un preaccordo tra le tre<br />

parti che intervengono nel contratto.<br />

Sono, ovviamente, previsti anche conti correnti (wadia), con capitale garantito<br />

ma non produttivi di interesse.<br />

Per clienti in situazione di precarietà è possibile per le banche accordare<br />

dei prestiti senza interesse, di solito assistiti da garanzia, detti prestiti di benevolenza<br />

(Qard al-hassan). Si tratta di interventi per superare momentanee<br />

e impreviste necessità, particolarmente incoraggiati dal Corano (CVII, 11).<br />

L’aspetto rilevante delle forme di finanziamento considerate è che, in tutti<br />

i casi, a parte quelli più controversi, si realizzerebbe un sostanziale sincronismo<br />

tra sfera reale e sfera monetaria dell’economia. Riducendosi, così, le<br />

spinte all’instabilità connesse ai prestiti a interesse, nella misura in cui essi<br />

alimentano la speculazione basata sul principio “dell’acquistare senza pagare<br />

e del vendere senza possedere”. Non a caso, in relazione alla recente crisi finanziaria<br />

internazionale, alcuni commentatori hanno evocato il possibile contributo<br />

dei principi della finanza islamica alla “rifondazione” di quella occidentale.<br />

Significativa, al riguardo, è l’attenzione per la finanza islamica manifestata<br />

dalla Commissione di esperti sulla riforma del sistema monetario e fi-<br />

65


nanziario internazionale presso le Nazioni Unite, espressa per bocca del suo<br />

presidente, Joseph Stiglitz. In una conferenza stampa del 26 marzo 2009, infatti,<br />

il premio Nobel ha ricordato come, a suo tempo, Malesia e Paesi del<br />

Sud Est Asiatico abbiano saputo gestire meglio, ed in modo etico, la crisi finanziaria<br />

asiatica. (N.U., 09; cfr. Napoleoni e Serge, 2009, pp. 25-33). Come<br />

nota anche Edward Fennel (The Times, 2008),<br />

66<br />

“if all the sub-prime deals in the US had been governed by Sharia there would<br />

have been no massive defaults and the credit crunch would never have loomed<br />

over our shopping expeditions. Instead, Islamic law’s requirements for prudent<br />

lending, the sharing of risk and a ban on the earning of interest would have<br />

insulated the borrowers and the world economy at large from the debacle of the<br />

past six months. And for that even the Archbishop of Canterbury’s harshest critics<br />

might have been a mite grateful”.<br />

In effetti, la finanza islamica, per i principi su cui è basata, tende a scoraggiare<br />

alcuni eccessi tipici della finanziarizzazione dell’economia come la<br />

speculazione o la deconnessione dell’attività finanziaria da quella reale.<br />

Quel che preme ribadire, comunque, è che il divieto di riba, alla luce di<br />

quanto fin qui detto, non va considerato come una misura “isolata” ma è da<br />

ritenere parte integrante dell’ordine socio-economico; espressione del complesso<br />

dei valori islamici e della relativa enfasi sulla giustizia e l’equità nella<br />

produzione e nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Per cui, è da<br />

ritenere, anche la finanza islamica ha senso nella misura in cui sia assunta<br />

come parte di un più complessivo disegno istituzionale e di politica economica<br />

conforme all’etica dell’Islam.<br />

6.3. La raccolta del risparmio<br />

Alla diversità nelle tecniche di finanziamento fa riscontro, nel sistema islamico,<br />

la particolarità delle modalità di raccolta del risparmio. Rispetto alle banche<br />

convenzionali, quelle islamiche offrono tre tipi di conto (Gatto, 2008).<br />

I conti non-profit, assimilabili ai conti correnti delle banche convenzionali,<br />

non rendono alcun tipo di remunerazione, assolvendo sostanzialmente<br />

ad un ruolo di custodia dei fondi risparmiati. La banca ha la possibilità di<br />

utilizzare i relativi depositi con l’impegno, però, che le somme depositate sono<br />

prelevabili senza preavviso, direttamente o mediante i tradizionali strumenti<br />

dell’assegno, del bonifico bancario, l’utilizzo di carte di debito. Non di carte di<br />

credito, che sono proibite in quanto non compatibili con la legge islamica.<br />

I conti di risparmio, su cui vengono depositate somme consistenti e sono<br />

soggetti a più stringenti condizioni per il prelievo. Sebbene non rendano un<br />

interesse fisso molte banche, a loro discrezione, offrono un qualche tipo di


emunerazione sulla base dei risultati d’esercizio.<br />

I conti di investimento sono relazionati agli investimenti mudaraba della<br />

banca e rappresentano la fonte principale di mobilizzazione di fondi della<br />

banca. Il depositante partecipa agli utili o alle perdite delle operazioni finanziate.<br />

Ne risulta che il capitale depositato non è garantito essendo soggetta la<br />

sua consistenza ai risultati delle operazioni che ha concorso a finanziare.<br />

I conti di investimento prevedono una soglia minima d’ingresso e le<br />

somme depositate possono essere prelevate solo periodicamente e con congruo<br />

avviso.<br />

Si tratta di conti che, per loro natura, possono comportare un conflitto di<br />

interessi tra i depositanti e gli azionisti della banca nella misura in cui una più<br />

alta remunerazione delle azioni avvenga a scapito del riparto degli utili destinati<br />

ai titolari di conti mudaraba. Inoltre, gli stessi titolari di conti di investimento<br />

potrebbero essere caricati di rischi impropri, non avendo alcuna possibilità<br />

di controllo dei rischi assunti dalla banca.<br />

È da ritenere, tuttavia, che nella prospettiva del lungo periodo, tali conflitti<br />

siano contenuti e governati per evitare la “fuga” dei clienti e preservare,<br />

quindi, il potenziale di crescita della banca stessa.<br />

Alcune banche offrono particolari conti di deposito coi quali la somma<br />

depositata, con l’autorizzazione del depositante, è impiegata nel finanziamento<br />

di una singola impresa. In tal caso la banca, che trattiene una commissione,<br />

agisce come agente del depositante, che partecipa direttamente alla distribuzione<br />

dell’utile dell’impresa finanziata.<br />

Abitualmente le banche attingono dai conti di risparmio per i finanziamenti<br />

di natura commerciale e a quelli d’investimento per i finanziamenti a<br />

lungo termine. L’evidenza, tuttavia, mostra che l’impegno delle banche si dispiega<br />

in prevalenza nei finanziamenti del primo tipo.<br />

Oltre all’interesse è generalmente considerata contraria alla legge coranica<br />

anche ogni forma di assicurazione sui depositi. Nel qual caso, ovviamente, il<br />

depositante vedrebbe annullata la sua condivisione del rischio.<br />

Ora, mentre in qualche paese di religione islamica sembra che il credo religioso<br />

sia uno dei fattori determinanti nella crescita dei depositi presso le<br />

banche ad orientamento etico, altre osservazioni suggeriscono più spesso che<br />

sia piuttosto un calcolo di convenienza a condizionare le scelte di portafoglio.<br />

Ciò spiegherebbe, nei casi di coabitazione tra banche islamiche e banche<br />

convenzionali, una tendenza all’allineamento del rendimento delle attività finanziarie<br />

islamiche con i tassi di interesse di mercato.<br />

Alcuni studi, ad esempio (Richards e Watebury, 2008, pp.375-378), mettendo<br />

a confronto i tassi di interesse maturati su depositi a risparmio e i rendimenti<br />

ex-post delle attività delle banche islamiche finanziate, conseguenti<br />

al criterio del profit and loss sharing, hanno mostrato un sostanziale analogo<br />

livello ed una alta correlazione nelle variazioni. Come se il riba, uscito dalla<br />

67


porta, sia stato fatto rientrare dalla finestra.<br />

In effetti, è da ritenere che possa essere la stessa politica delle banche islamiche<br />

ad avere come obiettivo un rendimento medio dei depositi prossimo<br />

al tasso di interesse praticato dalle banche convenzionali concorrenti. Avendo<br />

cura di mantenere un fondo di riserva dal quale possano attingere in periodi<br />

di bassi profitti per incrementare il rendimento dei depositi: una tecnica considerata<br />

da alcuni esegeti non del tutto ortodossa. Dal punto di vista legale, tuttavia,<br />

le banche distribuirebbero, tuttavia, profitti accumulati. Di fatto, il rischio<br />

di perdita in conto capitale per i depositanti è attenuato dalla costituzione, in<br />

generale, di due tipi di riserve volontarie: l’Investment Risk Riserve, per fronteggiare<br />

eventuali perdite e il Profit Equalization Reserve, per attenuare gli<br />

sbalzi di rendimento durante il ciclo (Alfano e Fioroni, 2005, pp. 161- 190).<br />

6.4. Il divieto di Gharār e di Maysir<br />

Oltre alla interdizione del riba vanno ricordati anche gli altri due fondamentali<br />

e complementari divieti di gharār e di maysir, che rispondono<br />

all’intento di scoraggiare le speculazioni puramente finanziarie, secondo il<br />

principio che “non si può vendere ciò che non si possiede”.<br />

Per rendere l’idea di gharār si pensi alla vendita di pesce non ancora pescato:<br />

“Do not buy fish in the sea, for it is gharār” (Warde, 2000, p.60), come<br />

metafora di ogni transazione il cui oggetto non sia in possesso di una delle<br />

parti o il cui possesso sia soggetto ad eccessiva incertezza al momento della<br />

transazione. Secondo una corrente definizione:<br />

68<br />

“Gharār is the sale of probable items whose existence or characteristics are not<br />

certain, due to the risky nature which makes the trade similar to gambling” (El-<br />

Gamal, 2000, pp. 6-7).<br />

Come spiega Frank Vogel,<br />

“A possible interpretation of the gharār hadiths is that they bar only risks<br />

affecting the existence of the object as to which the parties transact, rather than<br />

just its price. In the hadiths, such risks arise either 1) because of the parties’ lack<br />

of knowledge (jahl, ignorance) about that object; 2) because the object does not<br />

now exist, or 3) because the object evades the parties’ control. Therefore the<br />

scholars might use one of these three characteristics to identify transactions<br />

infected by the type of risk condemned as gharar.” (Warde, 2000, p. 60).<br />

Si può pensare che si tratti, per questa via, di indurre le parti a maggior diligenza<br />

nel concludere i contratti. Peraltro, considerando il gharār come rischio,<br />

ne risulta anche vietato il “commercio” del rischio e, quindi, il trasferimento<br />

di rischi da un soggetto all’altro, caratteristico di molti prodotti


dell’odierno mercato finanziario legati ad elevati elementi di incertezza e di<br />

speculazione (swaps, futures, ad esempio), che vengono assimilati all’altrettanto<br />

proibito gioco d’azzardo. Ne risulta vietata, di conseguenza, la “pura”<br />

speculazione. Più in generale, è interdetto l’esercizio di attività che implichino<br />

informazioni asimmetriche ed eccesso di incertezza e di rischio. Al riguardo,<br />

si è posto il problema della ammissibilità del “commercio” dei titoli<br />

di borsa, che è stato risolto in senso positivo in quanto si ritiene che, in ogni<br />

caso, quei titoli conservano sempre un qualche legame con una attività economica<br />

reale sottostante (Zamir e Miraklor, 2007, p.68). Altrettanto coinvolto<br />

è il settore assicurativo dato che l’assicurazione e la “sicurezza”, per gli elementi<br />

di rischio e di incertezza ad esse connesse, non possono essere oggetto<br />

di “vendita”.<br />

Il divieto di maysir si riferisce più propriamente al gioco d’azzardo e alla<br />

speculazione, a tutto ciò che “intacca” la lucidità e distrae dal reale (Corano,<br />

V, 90-91) e dal tangibile: “In verità col vino e il gioco d’azzardo, Satana vuole<br />

seminare inimicizia e odio tra di voi..” (Corano, II, 219). È alla base, quindi,<br />

anche della critica di molte pratiche finanziarie convenzionali, già ricordate,<br />

come la speculazione, l’assicurazione, i derivati.<br />

In tal senso il maysir ha elementi di gharar, anche se non sempre il gharar<br />

è maysir. Tuttavia, mentre nel caso del primo divieto è ammessa qualche<br />

deroga, il maysir è sempre vietato.<br />

7. Aspetti evolutivi delle banche islamiche<br />

In conformità ai suddetti principi, a partire dagli anni settanta del secolo<br />

scorso, gli economisti musulmani si sono impegnati nella costruzione di un sistema<br />

finanziario compatibile con l’etica del divieto della pratica dell’interesse.<br />

I primi studi seminali e qualche tentativo di sperimentare forme di credito<br />

ispirate ai dettami coranici sono riconducibili agli anni ‘40. La prima banca<br />

“islamica”, tuttavia, è stata la Ghamr Savings Bank, istituita in Egitto nel<br />

1963, per iniziativa dell’economista Ahmad al-Najjar.<br />

Specializzatosi in Germania in economia sociale, una corrente di pensiero<br />

ispirata, come è noto, ad una sintesi di principi socialisti e cristiani e, quindi,<br />

fortemente influenzato dall’esperienza tedesca delle Casse Rurali, l’economista<br />

egiziano tornando in patria, turbato dalla condizione di povertà e di bisogno<br />

dei contadini del suo piccolo villaggio di Zefta/Mit Ghamar, nel Delta del Nilo,<br />

si ingegnò di sovvenire alle loro necessità di base costituendo, per l’appunto,<br />

la Ghamr Savings Bank (Cassa Rurale di Risparmio), recuperando gli antichi<br />

contratti di mudaraba e di musharaka, tipici della tradizione, per rendere<br />

compatibile l’esercizio del credito con i valori islamici (Abdul-Rahman, 2010, p.<br />

192): una iniziativa motivata da un forte impegno etico, ispirata all’idea del<br />

69


servire al meglio la comunità, quasi ad affermare quel diritto fondamentale<br />

all’accesso al credito divenuto poi manifesto del Nobel per la Pace M. Yunus,<br />

l’innovatore della Grameen Bank (Bruni, 2009, p. 127). Di fatto, risparmiatori<br />

e prenditori di fondi erano soci della banca mentre uno sharia board vigilava<br />

sulla conformità delle operazioni ai principi religiosi.<br />

La Ghamr Savings Bank, attraverso, in particolare, operazioni di microcredito,<br />

favorì la promozione sociale e il nascere di una nutrita schiera di piccoli<br />

imprenditori agricoli. Il crescente successo della Banca, tuttavia, segnalò<br />

Ahmad al-Najjar come un possibile avversario politico di Nasser, l’autoritario<br />

presidente egiziano. Per cui, per motivi in ogni caso non del tutto chiari,<br />

la Ghamr Savings Bank fu costretta alla chiusura e successivamente, nel<br />

1971, riaperta dal nuovo presidente Sadat e rinominata Nasser Social Bank,<br />

con analoga ragione sociale ma priva dei simboli religiosi. (Warde, 2000, p.<br />

74; Hamauti e Mauri, 2009, pp. 50-51).<br />

L’impegno sociale di Ahmad al-Najjar comprende anche la istituzione, al<br />

Cairo, dell’ Institute of Islamic Banking Training, per la formazione di una<br />

nuova generazione di banchieri islamici, poi trasferito a Cipro dove evidentemente<br />

poteva godere di maggior libertà di iniziativa. In età avanzata, vale la<br />

pena di ricordare,<br />

70<br />

“he became very critical of the direction taken by Islamic Banking industry at that<br />

time, because it concentrated more on form and less on substance and because it<br />

abandoned its social responsibility of assisting and building the local communities<br />

that needed urgent help and instead focused on serving the rich”(Abdul-Rahman,<br />

2010, p. 193).<br />

È in quel periodo che il processo di diffusione registra un’accelerazione,<br />

auspici il nascente pan-arabismo e la relativa adozione della tradizionale interpretazione<br />

del riba e, successivamente, lo shock petrolifero conseguente<br />

alla guerra del 1973 che ha “inondato” di petrodollari i paesi del “Golfo”<br />

(Siagh, 2003, pp. 24 e ss.).<br />

Un primo impulso per una modifica di atteggiamento nei confronti del far<br />

banca all’ “occidentale”, in effetti, è già databile intorno al 1930 in Egitto<br />

quando il Movimento del Fratelli Musulmani cominciò a criticare il sistema<br />

bancario fondato sull’interesse, introdotto dalle Potenze coloniali, rivendicando<br />

il diritto dei musulmani a regolare i vari aspetti della vita, compresi<br />

quelli economici, secondo i dettami del Corano. Un richiamo in tal senso è,<br />

successivamente, riscontrabile nella lettera che Hasan al Banna, fondatore del<br />

Movimento, indirizzò nel 1947 ai Capi di Stato Arabi, sollecitandoli ad adottare<br />

misure di riorganizzazione del sistema bancario “on an interest-free basis”<br />

(Saeed, 1996).<br />

Nel 1970 è creata l’ Organizzazione per la Conferenza Islamica che nel<br />

Summit di Lahore, nel 1975, decide di istituire a Jeddah la Banca Islamica di


Sviluppo, col compito di “rispondere ai bisogni di sviluppo economico dei<br />

paesi musulmani e di mantenere l’equilibrio nella loro bilancia dei pagamenti<br />

seguendo i principi generali dell’Islam” e con l’obiettivo di “ incentivare i<br />

paesi musulmani a sviluppare e indirizzare le loro ricchezze naturali verso il<br />

progresso sociale secondo i principi islamici”.<br />

Seguono, sempre nel 1975, la Dubai Islamic Bank, la prima vera banca islamica<br />

moderna e non governativa; nel 1977 la Kuwait Finance House, la<br />

Faisal Islamic Bank of Egypt, la Islamic Bank of Sudan, nel 1978 la Jordan<br />

Islamic Bank for Finance and Investment e la Bahrain Islamic Bank; nel<br />

1980 la International Islamic Bank for Investment and Development in Egitto<br />

(Warde, 2000, pp. 75 e ss.). Nel 1981 è creata su iniziativa di un’associazione<br />

di investitori musulmani la Dar El Mal Islami, con sede a Ginevra: una fase<br />

nascente, caratterizzata da fervore ideale ma, a volte, anche da carenze e difficoltà<br />

tecnico-professionali che hanno fatto registrare più di una delusione.<br />

L’esperienza si estende, quindi, anche al Sud-Est asiatico toccando Filippine,<br />

Malesia e Indonesia, mentre alcuni paesi si spingono oltre, “islamizzando”<br />

l’intero settore bancario. È il caso del Pakistan, nel 1979, seguito nel 1983 dal<br />

Sudan e, poi, dall’Iran.<br />

Più di recente si registra una presenza della finanza islamica soprattutto in<br />

Gran Bretagna, in particolare con la Islamic Bank of Britain, e negli USA dove<br />

hanno sede la Bank of America Finance House e l’Amana Fund. Nel polo<br />

finanziario inglese sono altresì presenti succursali di banche convenzionali,<br />

come Deutsche Bank, Citibank, HSBC Amanah, ad esempio, che forniscono<br />

servizi conformi alla legge coranica. Altri insediamenti in Europa sono previsti,<br />

avendo la European Investment Bank ottenuto nel 2006 la licenza di esercizio<br />

delle sue attività nei vari paesi europei. Il Baraka Banking Group sta, ad<br />

esempio, effettuando uno studio di fattibilità per creare una banca in Francia,<br />

mentre la finanza islamica è già presente in Cina e si sviluppa il Russia<br />

(http://ribh.wordpress.com). In Italia, siamo ancora, alle fasi preliminari di studio<br />

e di fattibilità malgrado la firma, già nel settembre 2007, di un memorandum<br />

d’intesa tra l’Unione delle Banche Arabe e l’Associazione Bancaria Italiana<br />

per l’apertura in Italia entro l’anno successivo di uno sportello islamico.<br />

Sul piano organizzativo, a fronte della possibilità di differenti interpretazioni<br />

della “Legge”, e ai fini dell’armonizzazione delle pratiche bancarie islamiche<br />

sono stati istituiti alcuni organismi internazionali (Brach, 2007).<br />

Si tratta dell’Accounting & Auditing Organization of Islamic Financial<br />

Institution (AAOIFI) che ha per missione l’armonizzazione delle regole contabili<br />

delle banche islamiche; dell’Islamic Financial Services Board (IFSB),<br />

costituito per facilitare l’integrazione tra finanza islamica e finanza internazionale;<br />

dell’International Islamic Financial Market (IIFM) con l’obiettivo di<br />

definire nuovi meccanismi e strumenti di mercato compatibili con la sharia e<br />

con uno sviluppo rapido della banca islamica (Chapra e Khan, 2001, pp. 40-43).<br />

71


A livello di singola banca è, invece, operativo, come nel caso della Ghamr<br />

Savings Bank un comitato di sharia, composto da esperti di giurisprudenza<br />

islamica col compito di supervisori per la verifica della conformità delle attività<br />

della banca ai principi della sharia.<br />

8. La finanza di mercato<br />

A fronte del tentativo di creare un sistema bancario “libero” dall’interesse,<br />

caratterizzato da pratiche e tecniche abbastanza evolute, più problematico è stato<br />

il percorso di definizione di strumenti finanziari rispettosi dei principi della sharia,<br />

anche se su alcuni problemi la ricerca ha proposto soluzioni largamente condivise<br />

(Académie du Fiqh de l’OCI, 1992 G; Ayub, 2007; Gatto, 2008).<br />

L’azione, in quanto titolo di proprietà di una parte dell’attivo netto di<br />

un’impresa, è ammessa ed è scambiabile non in sé ma per gli elementi<br />

dell’attivo che rappresenta. Gli azionisti hanno responsabilità limitata. La<br />

vendita di azioni sul mercato è libera, salve tutte le condizioni di trasparenza<br />

e di completa informazione ai potenziali acquirenti circa le effettive condizioni<br />

della società di cui sono espressione, per evitare ogni forma di gharar.<br />

Analoghi principi governano la gestione dei fondi azionari.<br />

Le obbligazioni convenzionali, in quanto titoli fondati sull’interesse, non<br />

sono consentite. Il loro sostituto islamico è stato individuato nei cosiddetti<br />

Sukuk (plurale di Sak, o Sanadat, che sta per certificato di investimento, un<br />

termine già noto nella tradizione della giurisprudenza islamica). Vale a dire<br />

titoli che conferiscono al possessore la proprietà pro-quota di specifiche attività,<br />

per un tempo definito, con diritto di partecipazione proporzionale ai profitti<br />

e alle eventuali perdite derivanti dalla loro gestione. A differenza della<br />

obbligazione convenzionale, che conferisce al suo possessore il diritto finanziario<br />

ad un flusso di cassa predeterminato e indipendente dall’andamento<br />

delle attività finanziate, l’“obbligazione” islamica è rappresentativa, invece,<br />

di un diritto di proprietà, con una remunerazione legata, perciò, ai risultati<br />

degli asset sottostanti e diretta partecipazione finale ai proventi di realizzo<br />

dell’asset stesso. Ne segue che, tecnicamente, una emissione di certificati di<br />

investimento islamici è molto prossima a una operazione di cartolarizzazione<br />

convenzionale: identificato, infatti, un certo asset libero da ipoteche, si crea<br />

una apposita struttura munita di propria autonomia giuridica (Special purpose<br />

vehicle, Spv). Ad essa, il proprietario che necessita di un finanziamento<br />

(Sponsor), vi conferisce per un prezzo predeterminato d’acquisto l’asset da<br />

cartolarizzare, di norma un bene tangibile, come un aeroporto, un’autostrada.<br />

L’Spv emette, quindi, dei certificati (sukuk notes) di importo pari al prezzo<br />

concordato di acquisto dell’asset, utilizzando i fondi dei sottoscrittori per pagare<br />

il proprietario originario, col quale stipula un contratto islamico, in una<br />

72


delle tipologie note anche per il finanziamento bancario.<br />

Una accelerazione nella diffusione di tali strumenti, non a caso, si deve<br />

agli avvenimenti dell’11 settembre 200<strong>1.</strong> Essi, infatti, hanno determinato un<br />

precipitoso rientro di capitali dagli Stati Uniti verso i Paesi del Golfo, in cerca<br />

di riallocazione.<br />

Il primo sukuk, ad esempio, è stato emesso dal gruppo finanziario sudanese<br />

Dallah Albaraak nel 1998 (Ruimy, 2008, pp. 122 e ss). Ma è solo a partire<br />

dal 2002, auspice anche l’incremento di liquidità conseguente all’aumento<br />

del prezzo del petrolio, che diversi paesi si sono dotati dei mezzi per drenare<br />

e dinamizzare la nuova e abbondante dotazione di risparmio.<br />

Nel giugno 2002 la Malaysia Global Sukuk, una emanazione del Ministero<br />

delle Finanze della Malesia, ha emesso i Malaysia Al-Ijara Certificates a<br />

cinque anni per un ammontare di 600 milioni di dollari, per finanziare<br />

l’acquisto di quattro lotti di terreno. Hanno fatto seguito, quindi, le emissioni<br />

del Qatar nel settembre 2003 per 700 milioni di dollari, del Bahrein nell’ottobre<br />

dello stesso anno per 380 milioni di dollari, dei membri della Banca Islamica<br />

di Sviluppo, sempre nel 2003 per 400 milioni di dollari, di Dubai, novembre<br />

2004, per un miliardo di dollari.<br />

Allo stesso strumento hanno fatto ricorso anche grandi imprese degli Emirati<br />

Arabi Uniti (Dubai Ports World) o americane (Loehmann, East Cameron<br />

Partners), così come banche (Banca Mondiale, Mitsubishi UFJ). Il primo sukuk<br />

europeo è stato emesso dal Land tedesco della Sassonia-Anhalt nel 2004<br />

per un ammontare di 100 milioni di euro con scadenza quinquennale e nel<br />

2007 il Giappone ha annunciato il lancio della prima tranche di un sukuk sovrano<br />

nei paesi del G7. Tra le recenti innovazioni in tema di prodotti finanziari<br />

vanno anche ricordati i “fondi d’acquisto di beni (Commodity Fund) e i<br />

fondi misti. Di recente (2006), ad esempio, sono state sperimentate delle obbligazioni<br />

convertibili in azioni emesse dal porto di Dubai, a testimonianza<br />

dello sforzo di innovazione “compatibile” della finanza islamica.<br />

Nell’arco di poco più di un trentennio l’industria finanziaria islamica, presente<br />

in almeno 65 paesi e con una gestione di fondi intorno agli 800 miliardi di<br />

dollari, operati da quasi 600 istituzioni del settore in più di 50 paesi (Draghi,<br />

2009, p. 1), da fenomeno “periferico” si è, quindi, trasformata in un’attività consistente<br />

e rispettata, ancorché non del tutto assestata e bisognosa di arricchire la<br />

propria curva di apprendimento rispetto all’esperienza della finanza convenzionale<br />

ma anche, probabilmente, di riaffermare la sua vocazione.<br />

9. Tra ideali e realtà<br />

Come nel caso della zakât va, tuttavia, registrato un ampio scarto tra prin-<br />

73


cipi e pratica, essendosi rivelato il criterio principe del profit and risk sharing<br />

un obiettivo piuttosto difficile da perseguire. Ed, infatti, la forma di contratto<br />

prevalente praticato dalle banche islamiche è quello di tipo murabaha, assimilabile<br />

a quello delle banche convenzionali, in quanto “operazione di profitto”<br />

a basso tasso di rischio basata sul criterio del mark-up. Più circoscritto e<br />

minimale, per contro, è stato il ricorso ai contratti del tipo musharakamudaraba,<br />

più corformi al criterio del profit and risk sharing.<br />

Rispetto ai contratti basati su tecniche del tipo mark-up, quelli partecipativi,<br />

come è evidente, sono più “complicati”. Richiedono una rigorosa definizione<br />

dei diritti di proprietà, sono soggetti a possibile alta conflittualità e<br />

accentuano i costi di transazione e i noti problemi di agenzia. Risultando<br />

piuttosto difficile per la banca, ad esempio, controllare gli eventuali errori,<br />

le negligenze, il livello di impegno profuso dall’imprenditore che gestisce<br />

l’impresa finanziata dalla banca, e problematico verificare quanto, eventualmente,<br />

il profitto dichiarato si discosti da quello effettivo, malgrado l’auspicio<br />

dell’etica islamica ad una “eguale, adeguata e accurata informazione” nel<br />

mercato. La circostanza, ad esempio, che in caso di fallimento l’intera perdita<br />

sia sopportata dalla banca può risultare un incentivo ad una condotta dell’imprenditore<br />

contraria all’interesse della banca stessa. Allo stesso modo,<br />

nei casi di coabitazione delle banche islamiche con quelle interest-based è<br />

possibile che si verifichino analoghi fenomeni di selezione avversa, se gli<br />

imprenditori con più alte aspettative di profitto preferiscono rivolgersi alle<br />

banche convenzionali mentre quelli con prospettive meno allettanti preferiranno<br />

le banche islamiche per scaricare su di esse parte del rischio e delle eventuali<br />

perdite. Col paradosso, peraltro, che anche in caso di successo della<br />

banca in un’ eventuale controversia giudiziaria, la stessa, magari dopo anni,<br />

può rientrare in possesso solo dell’originario capitale “prestato” e non anche<br />

maggiorato, per via del divieto dell’ applicazione dell’interesse.<br />

Questi motivi e quelli più generali legati ad un ambiente istituzionale ancora<br />

“opaco”, accentuano, probabilmente, la percezione di maggior rischio<br />

per le banche islamiche delle forme di impiego di tipo profit and loss sharing<br />

e concorrono a spiegare il maggior ricorso a tecniche nella sostanza molto<br />

prossime a quelle di tipo convenzionale.<br />

Va detto, comunque, che nel caso di prestiti di tipo murabaha o ijarah,<br />

benché il risultato possa non essere materialmente diverso da quello delle<br />

forme di finanziamento basate sull’interesse, la similarità è attenuata, nella<br />

misura, almeno, in cui le due operazioni siano condotte con appropriato spirito<br />

ed adeguate modalità, mantenendo un qualche legame tra strumento finanziario<br />

e attività sottostante.<br />

Diverso è il caso del ricorso a tali contratti per “aggirare” deliberatamente<br />

la prescrizione islamica, come quando una banca usa il contratto murabaha<br />

per finanziare, ad esempio, il pagamento dei salari di un cliente: una opera-<br />

74


zione proibita in quanto non basata sull’acquisto di un bene reale da parte<br />

della banca. Altro caso frequente, nell’ambito dello stesso contratto, è quello<br />

dell’incremento del prezzo in casi di ritardato pagamento. Trattandosi, infatti,<br />

di una particolare specie di vendita, è stabilito il principio di sharia che il<br />

prezzo debba essere determinato al momento della vendita stessa. Su questa<br />

scia, qualche osservatore (Usmani, 2004, pp. 244 e ss.) rammenta il principio di<br />

connessione tra transazioni commerciali e obiettivi morali della società, per osservare<br />

che solo poche banche islamiche vi si siano conformate. Auspica, pertanto,<br />

uno sforzo di innovazione di politiche di finanziamento e di sperimentazione<br />

di nuovi canali di investimento per incoraggiare e supportare soprattutto lo sviluppo<br />

della piccola imprenditoria e il miglioramento dello standard di vita della<br />

popolazione in generale, segnalando che “ Islamic obligations of workship as<br />

well as the ethical norms must be prominent in the whole atmosphere of an<br />

institution which claims to be Islamic” (p. 245). Non deve sorprendere, pertanto,<br />

che alcuni possano parlare anche di “finzione” della finanza islamica e<br />

di marginalizzazione della sua dimensione etica (Ruimy, 2008, p.149).<br />

È il caso di rilevare, ancora, che la finanza “partecipativa”, secondo alcune<br />

fonti, (Henry, 2004) sarebbe stata utilizzata in prevalenza a supporto di<br />

operazioni di import-export o per una varietà di transazioni di breve termine,<br />

mancando, di fatto, di assecondare l’altro obiettivo delle banche islamiche<br />

che è quello di contribuire, con gli impieghi a più lungo periodo, allo sviluppo<br />

economico e sociale dei paesi musulmani. In tal senso, c’è anche chi avanza<br />

l’ipotesi che l’Islam banking abbia potuto incentivare la “fuga” di capitali<br />

dalla regione di maggiore sua diffusione verso alcune piazze “più sicure”<br />

dei paesi occidentali (Wilson, 2004).<br />

Nell’insieme, pertanto, la banca islamica non sembra essere ancora riuscita<br />

a dar vita ad un compiuto sistema di “venture capital” secondo il dichiarato<br />

auspicio.<br />

Un’altra difficoltà sua propria è quella legata alla problematica della gestione<br />

della liquidità. Le banche convenzionali hanno facilità di impiego della<br />

propria liquidità e altrettanta passibilità di trovarne quando ne hanno bisogno.<br />

Per le banche islamiche le difficoltà sono maggiori. Le loro operazioni, infatti,<br />

non più basate sull’interesse, richiedono tempi più lunghi e proporzionali<br />

alla complessità dei progetti finanziati. Il che spiega l’asfissia del mercato interbancario<br />

e la necessità per le banche di immobilizzare a fini precauzionali<br />

un eccesso di riserve in bilancio. Per la ricerca di soluzioni adeguate è<br />

all’opera il Liquidity Management Center (Bahrein). Non vanno, poi, sottovalutati<br />

i costi per la banca, associati all’attività istruttoria per la scelta dei progetti<br />

da finanziare e, successivamente, all’attività di controllo gestionale e<br />

contabile dell’attività finanziata, che spesso richiede il ricorso ad esperti. Un<br />

ulteriore fattore ambientale sfavorevole può essere rappresentato dalla non<br />

perfetta standardizzazione dei prodotti offerti a causa delle differenti interpretazioni<br />

della sharia<br />

75


Peraltro, lo sviluppo della finanza islamica e la sua integrazione nella finanza<br />

internazionale richiedono in gran parte una adeguata evoluzione della<br />

struttura, della organizzazione e dell’attività delle banche stesse, per dare adeguata<br />

soluzione ai problemi di trasparenza, governance, gestione dei rischi<br />

e compatibilità contabile di cui ancora soffre (Brack, 2007, pp. 41-44).<br />

In prospettiva, al riguardo, una prima sfida concerne il necessario processo<br />

di accorpamento e di fusione richiesto dal gran numero di banche a bassa<br />

capitalizzazione, per ottimizzarne la dimensione e i livelli di efficienza rispetto<br />

alle concorrenti banche “convenzionali”. Andrebbero, quindi (1) migliorati<br />

i livelli di formazione e di apprendimento, a fronte della complessità tecnica<br />

dei prodotti conformi ai principi islamici, (2) rafforzate le misure di controllo<br />

interno ed esterno, (3) meglio coordinate le attività dei singoli comitati di<br />

sharia, per ridurre le difformità interpretative (Wahab, 2005, pp. 487 e ss.).<br />

L’altra sfida fa riferimento alla capacità del sistema di proporre prodotti<br />

finanziari a medio e lungo termine basati sullo schema della partecipazione<br />

alle perdite e ai profitti. L’esperienza corrente, infatti, come già accennato,<br />

conferma un orientamento prevalente ai finanziamenti di breve termine attraverso<br />

contratti di tipo murabaha.<br />

Al dunque, tuttavia, a parte i possibili e ricordati problemi tecnici, quel<br />

che lascia perplesso l’osservatore è la percezione di una tendenza al “formalismo”<br />

dell’Islamic Banking, col ricorso delle banche all’uso di strumenti di<br />

murabaha e ijara, e risultati sostanzialmente non dissimili da quelli delle<br />

banche convenzionali. Non che non sia rintracciabile, come già ricordato, una<br />

qualche differenza tra quei due tipi di contratto e quelli caratteristici della<br />

banca che utilizza l’interesse, specialmente se opportunamente implementati.<br />

Nondimeno, la sensazione è che si tratti di strumenti che consentono di perseguire<br />

gli stessi affari con nomi diversi e, comunque, non si può negare che<br />

trattasi di tipologie non originali di finanziamento islamico. A parte il fatto<br />

che le banche islamiche operano transazioni anche sui mercati occidentali e<br />

depositano, se necessario, il loro denaro in banche non islamiche che fanno<br />

ricorso all’impiego del tasso di interesse (Benmansour, 1994, pp. 278 ss).<br />

Motivo per cui la loro contabilità, spesso, occulta i conti finanziari per rendere<br />

difficile la individuazione della provenienza delle loro entrate.<br />

È da ritenere che l’uso di strumenti quali murabaha e ijara sia stato consentito<br />

dagli sharia scholars solo in quei settori dove il ricorso al contratto<br />

musharaka risulti di difficile applicazione e sempre sotto osservanza di certe<br />

condizioni. Ma ciò non dovrebbe rappresentare un alibi permanente per eludere<br />

la caratteristica rilevante e distintiva del finanziamento di tipo islamico.<br />

Anche la tendenza alla ricerca di un rendimento delle transazioni delle banche<br />

islamiche sostanzialmente analogo a quello delle banche convenzionali,<br />

ed una certa “deriva” tecnicistica, appena schermata da una osservanza rituale<br />

e formale dei dettami del Corano, rappresentano un ulteriore elemento di<br />

“scetticismo” da parte di molti sulla specificità e sulla pertinenza dell’attuale<br />

“sistema” finanziario islamico.<br />

76


Tutti i ricordati motivi, pertanto, rendono plausibile l’idea che, malgrado i<br />

rilevanti sforzi di ancoraggio di ogni transazione finanziaria ad un asset tangibile<br />

ed identificabile e nonostante i pur ragguardevoli traguardi raggiunti, la<br />

finanza islamica non rappresenti, ancora, un esempio compiuto di reale alternativa<br />

al sistema convenzionale.<br />

“Islamic Banking – è stato scritto – is a good example of a field where basically<br />

the Western system has been partially “Islamized”, but in many aspects “Islamic”<br />

names have been given to various transactions that do not truly reflect the goals or<br />

vision of Islam. The result of this frame of mind is called al-hiyal al shari’ yah,<br />

‘shari’aa tricks’, where forms, terms, and words are changed rather than the substance<br />

when the need is really for a new vision” (Abdul-Rahman, 2010 pp. 237-38).<br />

Ma sarebbe riduttivo assegnare alla finanza islamica il solo obiettivo del superamento<br />

del finanziamento basato sull’interesse. A ben considerare le forti<br />

connotazioni di novità del “messaggio” e dei valori dell’Islam, il suo ulteriore<br />

compito dovrebbe essere anche quello di divenire strumento al servizio di un disegno<br />

più complessivo per la promozione di uno sviluppo economico e sociale<br />

“responsabile” ed antropocentrico. Obiettivo evidentemente mancato se si osserva<br />

lo scenario largamente dominato da inaccettabili disuguaglianze, distorsioni,<br />

povertà, speculazioni, corruzione, e fortemente connotato da uno stile di vita dissipatorio<br />

delle classi dominanti, che caratterizza la maggioranza dei paesi di<br />

maggior diffusione della finanza islamica (Ramadan, 2009, p. 294).<br />

Quel che sembra di poter ribadire è che il compito della finanza islamica<br />

non può essere circoscritto alla semplice offerta di alternative microeconomiche<br />

conformi ai dettami del Corano. La sua “vocazione”, piuttosto, dovrebbe<br />

essere anche quella di rappresentare una opportunità per una “nuova” visione<br />

macroeconomica globale “fondée sur la valorisation du travail au lieu de la<br />

spéculation oisive, la stimulation d’une croissance réelle et durable au lieu de<br />

bulles financières sans rapport avec la sphère économique concrète, la justice<br />

et la moralité qui font tant défaut au monde de la finance d’aujourd’hui”, secondo<br />

le parole di un autorevole operatore del settore (Nasser, 2007, p.70).<br />

10. Conlusioni<br />

Non retrograda (Schart,1964), né moderna (Balle, 2005, p. 222). Più propriamente,<br />

la finanza islamica può essere considerata “problematica”.<br />

Figlia di una interpretazione piuttosto “letterale” dei dettami coranici in<br />

tema di riba, gharār, maysir, in un’epoca caratterizzata da una forte esigenza<br />

di affermazione dell’“orgoglio” musulmano, ed espressione più generale dei<br />

principi etici dell’Islam, la finanza islamica non sembra ancora essere riuscita<br />

ad esprimere compiutamente la sua supposta “alterità” rispetto alla finanza<br />

convenzionale. Né sembra, ancora, essere divenuta, nella sostanza, parte atti-<br />

77


va di un disegno di sviluppo sostenibile ed antropo-centrico coerente con i<br />

principi dell’etica islamica, in un ambiente sostanzialmente cannotato da sottosviluppo,<br />

povertà, disuguaglianze, speculazioni. Pur dovendo riconoscere le<br />

attenuanti della sua giovane “età” e le difficoltà, spesso, di operare in concorrenza<br />

con la ben più matura finanza convenzionale ed in ambiti istituzionali<br />

non sempre consoni al suo affermarsi; malgrado, anche, i ragguardevoli risultati<br />

spazio-quantitativi raggiunti e le sue congeniali attitudini alla stabilità del sistema<br />

finanziario. Da quest’ultimo punto di vista, anzi, la finanza islamica può essere<br />

letta come una storia di successo. Non fossa’altro per l’interesse che suscita e la<br />

facilità con cui le istituzioni islamiche vengono autorizzate ed accolte fuori dal<br />

loro ambiente naturale e per l’interesse col quale molte banche convenzionali aprono<br />

“finestre islamiche” per offrire ai clienti musulmani prodotti più consoni<br />

alla loro religione. Ma anche per il potenziale di stabilità insito nel “sistema”<br />

finanziario islamico, coerente col suo forte richiamo ai valori etici e con la<br />

manifesta aspirazione ad un ancoraggio reale della finanza<br />

Al contempo, tuttavia, la finanza islamica non è riuscita a centrare l’obiettivo<br />

di essere del tutto una realtà originale ed innovativa, almeno nella misura in cui il<br />

principio della condivisione del rischio (secondo la logica “no risk, no gain”),<br />

che sembrava l’aspetto qualificante e maggiormente giustificativo della nascita<br />

della nuova esperienza, in quanto principio di base della sharia, ha trovato solo<br />

applicazione marginale, rispetto ai metodi di finanziamento basati sul criterio del<br />

mark-up o su transazioni sostanzialmente neutre dal punto di vista etico.<br />

Altrettanto, ha mancato, nei fatti, di rappresentare il braccio operativo di<br />

un’ economia orientata agli imperativi morali dell’Islam e alla riconosciuta<br />

natura sociale e collettiva dell’azione umana. Non avendo, se non in qualche<br />

misura, saputo contribuire al miglioramento delle condizioni di vita della generalità<br />

degli individui ed in particolare dei poveri dei suoi bacini di utenza<br />

prevalenti (Ahsan, 2004, pp.181-200).<br />

La finanza islamica può essere quindi rappresentata, pur con molte attenuanti,<br />

come un “processo” problematico in divenire, per la difficoltà di conciliare<br />

tradizione e modernità, per il venir meno di quella “passione per gli<br />

altri” che sembrava averne connotato le istituzioni nel loro percorso originario,<br />

soprattutto per la fatica di farsi motore e strumento di un sistema istituzionale<br />

più generale, coerente con i principi etici ed i percepiti valori di “liberazione”<br />

e di “trasformazione” dell’Islam. Si tratta, per questa via, di là da<br />

ogni pur auspicabile coerenza formale, di ripensare la finanza islamica ancor<br />

più in una visione globale perché possa essere meglio conciliato il carattere<br />

“lecito” dei mezzi da essa offerti con la moralità dei fini e dei risultati, in accordo<br />

con un approccio critico del modello economico dominante, che essa<br />

pretende o pretendeva di superare.<br />

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