Omelia per la S. Messa del Crisma - Ordinariato Militare in Italia

Indice
Editoriale
Camminare, costruire, confessare 3
Daniele Rocchi
Magistero di Papa Benedetto XVI
Omelia della S. Messa nella solennità di Maria SS. Madre di Dio 7
Declaratio 10
Omelia per la S. Messa del mercoledì delle Ceneri 11
Udienza generale 14
Magistero di Papa Francesco
Benedizione Apostolica “Urbi et Orbi” 21
Omelia per l’inizio del ministero petrino del Vescovo di Roma 22
Omelia per la S. Messa del Crisma 25
Omelia nella Veglia Pasquale 28
Magistero dell’Arcivescovo
Giornata della pace 33
Saluto a Sua Em.za il Card. Agostino Vallini
Omelia per la S. Messa in onore di San Sebastiano 36
Testimoni della fede nel mondo militare: Don Carlo Gnocchi 40
Intervento al ciclo di letture teologiche sui Documenti del Concilio 47
Vaticano II
Preghiera per Papa Benedetto XVI 54
Omelia per la S. Messa in occasione dell’incontro con le famiglie 55
dei caduti e i feriti in missione di pace
Messaggio dell’Arcivescovo ai fedeli della Chiesa Ordinariato 58
in occasione della “Visita ad limina Apostolorum”
Omelia per la S. Messa in occasione della Giornata mondiale del malato 60
Dichiarazione 63
Messaggio in occasione della benedizione del monumento in ricordo del 64
primo caporal maggiore Sebastiano Ville
Omelia per la S. Messa con i Granatieri di Sardegna 66
Conversazione con i docenti della Scuola di formazione A.M. “G. Douhet” 69
1

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Bonus Miles Christi
Conversazione con gli studenti della Scuola di formazione A.M. “G. Douhet” 73
Testimoni della fede nel mondo militare: Don Giuseppe Gabana 76
Messaggio per il centesimo anniversario della nascita di mons. 81
Enelio Franzoni
Lettera ai cappellani militari 85
Testimoni della fede nel mondo militare: Egidio Bullesi 86
Omelia per la S. Messa pro eligendo Pontifice 94
Conferenza alla Scuola di Polizia Tributaria 99
Omelia per la S. Messa in preparazione alla Pasqua per i militari di Cagliari 107
Omelia per la S. Messa in preparazione alla Pasqua per i militari del 4° 110
Stormo A.M. e del Centro Militare Veterinario
Omelia per la S. Messa in preparazione alla Pasqua per il personale militare 113
e civile del Raggruppamento Autonomo del Ministero della Difesa.
Omelia per la S. Messa del Crisma 115
Agenda pastorale 119
• Gennaio 2013
• Febbraio 2013
• Marzo 2013
Vita della nostra Chiesa
Atti della Curia
Trasferimenti e incarichi dei cappellani militari 125
Sacerdoti collaboratori
Ufficio Economato 129
Attività pastorali
Onorificenza del Presidente della Repubblica all’Arcivescovo Pelvi 134
Attraversando la Porta della fede. Appunti di un pellegrinaggio 135
Abramo, nostro padre nella fede 142
La benedizione di Papa Benedetto alle famiglie dei caduti in missione 144
Udienza generale per 300 Carabinieri dell’Umbria 147
Tre giorni di grazia 149
La sezione Pasfa di Roma si prepara alla Pasqua 152
In breve 155
Segnalazioni bibliografiche 156
Gennaio-Marzo 2013

Editoriale
“Camminare, costruire,
confessare”
Dall’11 febbraio al 13 marzo, trentuno giorni che hanno fatto la storia della Chiesa. Un
mese nel quale abbiamo prima assistito alla rinuncia al ministero petrino di Papa Benedetto
XVI, caso unico dell’era moderna, e dopo all’elezione, in conclave, del Cardinale
Jorge Mario Bergoglio, Arcivescovo di Buenos Aires (Argentina), primo sudamericano e primo
gesuita, a 266° vicario di Cristo alla guida della Chiesa universale. Dalla Chiesa, guidata dallo
Spirito Santo, è arrivato un messaggio agli uomini del XXI secolo. Il carisma benedettino, di
Papa Benedetto, quello francescano e ignaziano di Papa Francesco, si sono fusi per dire e
dare ancora molto alla Chiesa. Papa Francesco: “un gesuita in saio, un militante sorridente,
un Papa ancor più a servizio della Chiesa e del papato, uno che si prende cura della fede di
tutti a partire dai semplici” e, quindi, “vero servo dei servi di Dio come recita l’ultimo titolo
papale riportato dall’annuario pontificio e che ora rischia di diventare il primo”, un evangelizzatore
che sceglie contenuti e stile del Vangelo per annunciare la buona notizia, un pastore
dalla parte dei poveri che non rinuncia a prendere decisioni: il suo motto cardinalizio è Miserando
atque eligendo. Papa Francesco è molto amato in Argentina per la sua attenzione ai
problemi sociali e alla povertà, era facile vederlo sui mezzi pubblici, vestito da sacerdote andare
in ospedale a trovare gli ammalati o persone in difficoltà. Quando fu creato cardinale,
convinse centinaia di fedeli argentini a non seguirlo a Roma per le celebrazioni, ma a devolvere
il denaro che avrebbero speso per il viaggio, ai poveri. I suoi primi gesti da Pontefice
sembrano andare proprio in questa direzione: la vicinanza al popolo, le scelte sobrie come
quella di non avere troni o ricchi paramenti, il risiedere – per il momento – a santa Marta, la
sua attenzione ai più svantaggiati, hanno molto colpito le sue carezze ed il bacio al giovane
disabile in piazza san Pietro, la lavanda dei piedi ai giovani detenuti di Casal del Marmo ai
quali ha ripetuto, «non lasciatevi rubare la speranza, sempre avanti con la speranza».
Sempre avanti. Papa Francesco esorta la Chiesa a guardare avanti, a «camminare, costruire
e confessare» Cristo, centro della fede, come da lui affermato, parlando ai cardinali nella sua
prima celebrazione all’indomani dell’elezione. Tre parole che dettano le linee del suo pontificato,
cui se ne aggiunge una quarta, “misericordia”. Parole che sono il reticolo attraverso cui
passano e filtrano i problemi che hanno afflitto la Chiesa in questi ultimi tempi. «Dio – ha
detto il Papa nella Messa di intronizzazione il 19 marzo, san Giuseppe – non desidera una
casa costruita dall’uomo, ma desidera la fedeltà alla sua Parola, al suo disegno; ed è Dio stesso
che costruisce la casa, ma di pietre vive segnate dal suo Spirito». E poi la stoccata: «il vero
potere è il servizio», prima di tutto ai più umili. Il modello che Papa Francesco ha offerto è
quello “umile, concreto” di san Giuseppe. «Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio
e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che
ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede,
di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il popolo di Dio e accogliere
con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli
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Bonus Miles Christi
che Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità; chi ha fame, sete, è straniero, nudo malato,
in carcere».
Il potere si esercita servendo, una lezione che molti potenti e leader oggi nel mondo dovrebbero
fare propria. Potere che fa rima con servizio, con bontà, con tenerezza. Ancora il
Papa: «non dobbiamo avere paura della bontà, neanche della tenerezza. Il prendersi cura, il
custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. La tenerezza non è la virtù
del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione,
di vera apertura all’altro». In altre parole, «lottare contro la povertà sia materiale, sia
spirituale; edificare la pace e costruire ponti». Indicazioni precise e chiare che impegnano
tutti senza distinzione, dal singolo fedele all’ambasciatore del Paese più o meno potente, dal
religioso al sacerdote, nessuno può e deve sentirsi escluso da questo cammino. Non si possono
costruire ponti tra gli uomini dimenticando Dio e non si possono instaurare relazioni autentiche
con Dio dimenticandosi degli uomini.
Ecco la prima lezione di Papa Francesco, venuto «dalla fine del mondo», dalle periferie:
«camminare, costruire e confessare», farsi incontro agli altri come Dio, senza calcoli né misure,
non restare nel recinto delle 99 pecore, uscire per andare a cercare quella smarrita. Uscire da
se stessi, dalle pastoie di una fede stanca e abitudinaria, mescolarsi alle pecore, prendere il
loro “odore”, andando in quelle periferie, che sono spesso sotto i nostri occhi, abitate dai dimenticati
della storia e che tante volte facciamo finta di non vedere.
Trentuno giorni che hanno segnato la storia e che la Chiesa Ordinariato militare ha vissuto
accompagnando nella preghiera Benedetto XVI e pregando per i cardinali che dovevano entrare
in conclave. Profetica, allora, appare oggi la visita ad limina da Papa Ratzinger dell’Arcivescovo
Ordinario militare per l’Italia, mons. Vincenzo Pelvi, lo scorso 8 febbraio, solo tre giorni prima
della rinuncia al ministero petrino del Papa. Un incontro «molto intenso e ricco di commovente
familiarità» lo ha definito lo stesso mons. Pelvi che al Pontefice ha presentato «alcune
sfide della Chiesa castrense, quali la pastorale integrata, l’annuncio del Vangelo, la famiglia».
Un tempo di sede vacante in cui forte è stata la riflessione sul primato e sul ministero petrino.
Nella Messa pro eligendo Pontifice del 12 marzo, mons. Pelvi, ha ricordato come questo ministero
si manifesta pienamente sullo sfondo dell’umana debolezza di Pietro e per questo proviene
totalmente dalla grazia. «A nessuno – secondo mons. Pelvi – sfugge la sproporzione
degli uomini chiamati a succedere a Pietro, per una tale funzione. Ma proprio nel conferimento
a un uomo della funzione di roccia diventa chiaro che non sono tali uomini che sostengono
la Chiesa, ma solo Colui il quale la sostiene, più nonostante gli uomini che attraverso di essi».
Dunque, con lo stesso realismo con cui oggi «ammettiamo le fragilità dei papi, la loro inadeguatezza
rispetto alla grandezza del loro ministero, dobbiamo anche riconoscere che sempre
Pietro è stato la roccia contro le ideologie; contro la riduzione della Parola a quanto è plausibile
in un’epoca determinata; contro la sottomissione ai potenti di questo mondo. Riconoscendo
questi fatti nella storia, – ha affermato mons. Pelvi – noi non celebriamo degli uomini,
ma diamo lode al Signore, che non abbandona la Chiesa e che ha voluto realizzare il suo esser
roccia attraverso Pietro, la piccola pietra d’inciampo». E la scelta dei cardinali di eleggere
Papa Francesco ne è la più eloquente delle testimonianze. Questo è il tempo di «camminare,
costruire, confessare», e Papa Francesco è il pastore che guida.
4 Gennaio-Marzo 2013
Daniele Rocchi ■

Magistero
di Papa
Benedetto XVI

Omelia per la S. Messa nella
Solennità di Maria SS.ma
Madre di Dio
XLVI Giornata mondiale della pace
Basilica Vaticana, 1° gennaio 2013
Cari fratelli e sorelle!
«Dio ci benedica, su di noi faccia splendere il suo volto». Così abbiamo acclamato,
con le parole del Salmo 66, dopo aver ascoltato nella prima Lettura l’antica benedizione
sacerdotale sul popolo dell’alleanza. È particolarmente significativo che all’inizio
di ogni nuovo anno Dio proietti su di noi, suo popolo, la luminosità del suo
santo Nome, il Nome che viene pronunciato tre volte nella solenne formula della benedizione
biblica. E non meno significativo è che al Verbo di Dio – che «si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi» come la «luce vera, quella che illumina ogni
uomo» (Gv 1,9.14) – venga dato, otto giorni dopo il suo natale – come ci narra il
Vangelo di oggi – il nome di Gesù (cfr. Lc 2,21).
È in questo nome che siamo qui riuniti. Saluto di cuore tutti i presenti, ad iniziare
dagli illustri Ambasciatori del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede.
Saluto con affetto il Cardinale Bertone, mio Segretario di Stato, e il Cardinale Turkson,
con tutti i componenti del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace; ad
essi sono particolarmente grato per il loro impegno nel diffondere il Messaggio per
la Giornata Mondiale della Pace, che quest’anno ha come tema «Beati gli operatori
di pace».
Nonostante il mondo sia purtroppo
ancora segnato da «focolai
di tensione e di contrapposizione
causati da crescenti diseguaglianze
fra ricchi e poveri, dal prevalere di
una mentalità egoistica e individualistica
espressa anche da un capitalismo
finanziario sregolato», oltre
che da diverse forme di terrorismo
e di criminalità, sono persuaso che
«le molteplici opere di pace, di cui
è ricco il mondo, testimoniano l’innata
vocazione dell’umanità alla
pace. In ogni persona il desiderio
di pace è aspirazione essenziale e
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Bonus Miles Christi
coincide, in certa maniera, con il desiderio di una vita umana piena, felice e ben
realizzata. L’uomo è fatto per la pace che è dono di Dio. Tutto ciò mi ha suggerito
di ispirarmi per questo Messaggio alla parole di Gesù Cristo: Beati gli operatori di
pace, perché saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,9)» (Messaggio, 1). Questa beatitudine
«dice che la pace è dono messianico e opera umana ad un tempo … È pace con
Dio, nel vivere secondo la sua volontà. È pace interiore con se stessi, e pace esteriore
con il prossimo e con tutto il creato» (ibid., 2 e 3). Sì, la pace è il bene per eccellenza
da invocare come dono di Dio e, al tempo stesso, da costruire con ogni sforzo.
Ci possiamo chiedere: qual è il fondamento, l’origine, la radice di questa pace?
Come possiamo sentire in noi la pace, malgrado i problemi, le oscurità, le angosce?
La risposta ci viene data dalle Letture della liturgia odierna. I testi biblici, anzitutto
quello tratto dal Vangelo di Luca, poc’anzi proclamato, ci propongono di contemplare
la pace interiore di Maria, la Madre di Gesù. Per lei si compiono, durante i giorni in
cui «diede alla luce il suo figlio primogenito» (Lc 2,7), tanti avvenimenti imprevisti:
non solo la nascita del Figlio, ma prima il viaggio faticoso da Nazaret a Betlemme,
il non trovare posto nell’alloggio, la ricerca di un rifugio di fortuna nella notte; e
poi il canto degli angeli, la visita inaspettata dei pastori. In tutto ciò, però, Maria
non si scompone, non si agita, non è sconvolta da fatti più grandi di lei; semplicemente
considera, in silenzio, quanto accade, lo custodisce nella sua memoria e nel
suo cuore, riflettendovi con calma e serenità. È questa la pace interiore che vorremmo
avere in mezzo agli eventi a volte tumultuosi e confusi della storia, eventi
di cui spesso non cogliamo il senso e che ci sconcertano.
Il brano evangelico termina con un accenno alla circoncisione di Gesù. Secondo
la Legge di Mosè, dopo otto giorni dalla nascita, un bambino doveva essere circonciso,
e in quel momento gli veniva dato il nome. Dio stesso, mediante il suo messaggero,
aveva detto a Maria – e anche a Giuseppe – che il nome da dare al Bambino
era «Gesù» (cfr. Mt 1,21; Lc 1,31); e così avviene. Quel nome che Dio aveva già stabilito
prima ancora che il Bambino fosse concepito, ora gli viene dato ufficialmente
nel momento della circoncisione. E questo segna una volta
per sempre anche l’identità di Maria: lei è «la madre di Gesù»,
cioè la madre del Salvatore, del Cristo, del Signore. Gesù non
è un uomo come qualunque altro, ma è il Verbo di Dio, una
delle Persone divine, il Figlio di Dio: perciò la Chiesa ha dato
a Maria il titolo di Theotokos, cioè «Madre di Dio».
La prima Lettura ci ricorda che la pace è dono di Dio ed
è legata allo splendore del volto di Dio, secondo il testo del
Libro dei Numeri, che tramanda la benedizione usata dai sacerdoti
del popolo d’Israele nelle assemblee liturgiche. Una
benedizione che per tre volte ripete il nome santo di Dio, il
nome impronunciabile, e ogni volta lo collega con due verbi
indicanti un’azione a favore dell’uomo: «Ti benedica il Signore
e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il
suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto
e ti conceda pace» (6,24-26). La pace è dunque il culmine
8 Gennaio-Marzo 2013

Magistero di Papa Benedetto XVI
di queste sei azioni di Dio a nostro favore, in cui Egli rivolge a noi lo splendore del
suo volto.
Per la Sacra Scrittura, contemplare il volto di Dio è somma felicità: «Lo inondi di
gioia dinanzi al tuo volto», dice il Salmista (Sal 21,7). Dalla contemplazione del
volto di Dio nascono gioia, sicurezza e pace. Ma che cosa significa concretamente
contemplare il volto del Signore, così come può essere inteso nel Nuovo Testamento?
Vuol dire conoscerlo direttamente, per quanto sia possibile in questa vita, mediante
Gesù Cristo, nel quale si è rivelato. Godere dello splendore del volto di Dio vuol dire
penetrare nel mistero del suo Nome manifestatoci da Gesù, comprendere qualcosa
della sua vita intima e della sua volontà, affinché possiamo vivere secondo il suo
disegno di amore sull’umanità. Lo esprime l’apostolo Paolo nella seconda Lettura,
tratta dalla Lettera ai Galati (4,4-7), parlando dello Spirito che, nell’intimo dei nostri
cuori, grida: «Abbà! Padre!». È il grido che sgorga dalla contemplazione del vero
volto di Dio, dalla rivelazione del mistero del Nome. Gesù afferma: «Ho manifestato
il tuo nome agli uomini» (Gv 17,6). Il Figlio di Dio fattosi carne ci ha fatto conoscere
il Padre, ci ha fatto percepire nel suo volto umano visibile il volto invisibile del
Padre; attraverso il dono dello Spirito Santo riversato nei nostri cuori, ci ha fatto
conoscere che in Lui anche noi siamo figli di Dio, come afferma san Paolo nel brano
che abbiamo ascoltato: «Che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri
cuori lo Spirito del suo figlio, il quale grida: Abbà! Padre!» (Gal 4,6).
Ecco, cari fratelli, il fondamento della nostra pace: la certezza di contemplare in
Gesù Cristo lo splendore del volto di Dio Padre, di essere figli nel Figlio, e avere così,
nel cammino della vita, la stessa sicurezza che il bambino prova nelle braccia di un
Padre buono e onnipotente. Lo splendore del volto del Signore su di noi, che ci concede
pace, è la manifestazione della sua paternità; il Signore rivolge su di noi il suo
volto, si mostra Padre e ci dona pace. Sta qui il principio di quella pace profonda –
«pace con Dio» – che è legata indissolubilmente alla fede e alla grazia, come scrive
san Paolo ai cristiani di Roma (cfr. Rm 5,2). Niente può togliere ai credenti questa
pace, nemmeno le difficoltà e le sofferenze della vita. Infatti, le sofferenze, le prove
e le oscurità non corrodono, ma accrescono la nostra speranza, una speranza che
non delude perché «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello
Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).
La Vergine Maria, che oggi veneriamo con il titolo di Madre di Dio, ci aiuti a contemplare
il volto di Gesù, Principe della Pace. Ci sostenga e ci accompagni in questo
nuovo anno; ottenga per noi e per il mondo intero il dono della pace. Amen!
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Benedictus PP XVI ■
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Declaratio
Vaticano, 10 febbraio 2013
Carissimi Fratelli,
vi ho convocati a questo Concistoro
non solo per le tre canonizzazioni,
ma anche per comunicarvi una
decisione di grande importanza per
la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente
esaminato la mia coscienza
davanti a Dio, sono pervenuto
alla certezza che le mie forze,
per l’età avanzata, non sono più
adatte per esercitare in modo adeguato
il ministero petrino. Sono ben
consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto
non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando.
Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di
grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare
il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore
che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia
incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole
della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero
di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, a me affidato per mano dei
Cardinali il 19 aprile 2005, in modo che, dal 28 febbraio 2013, alle ore 20,00, la
sede di Roma, la sede di San Pietro, sarà vacante e dovrà essere convocato, da coloro
a cui compete, il Conclave per l’elezione del nuovo Sommo Pontefice.
Carissimi Fratelli, vi ringrazio di vero cuore per tutto l’amore e il lavoro con cui
avete portato con me il peso del mio ministero, e chiedo perdono per tutti i miei
difetti. Ora, affidiamo la Santa Chiesa alla cura del suo Sommo Pastore, Nostro Signore
Gesù Cristo, e imploriamo la sua santa Madre Maria, affinché assista con la
sua bontà materna i Padri Cardinali nell’eleggere il nuovo Sommo Pontefice. Per
quanto mi riguarda, anche in futuro, vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata
alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio.
Gennaio-Marzo 2013
© Copyright 2013 - Libreria Editrice Vaticana
Benedictus PP XVI ■

Omelia per la S. Messa
del Mercoledì delle Ceneri
Basilica Vaticana, 13 febbraio 2013
Venerati Fratelli,
cari fratelli e sorelle!
Oggi, Mercoledì delle Ceneri, iniziamo un nuovo cammino quaresimale, un cammino
che si snoda per quaranta giorni e ci conduce alla gioia della Pasqua del Signore,
alla vittoria della Vita sulla morte. Seguendo l’antichissima tradizione romana
delle stationes quaresimali, ci siamo radunati oggi per la Celebrazione dell’Eucaristia.
Tale tradizione prevede che la prima statio abbia luogo nella Basilica di Santa Sabina
sul colle Aventino. Le circostanze hanno suggerito di radunarsi nella Basilica Vaticana.
Siamo numerosi intorno alla Tomba dell’Apostolo Pietro anche a chiedere la
sua intercessione per il cammino della Chiesa in questo particolare momento, rinnovando
la nostra fede nel Pastore Supremo, Cristo Signore. Per me è un’occasione
propizia per ringraziare tutti, specialmente i fedeli della Diocesi di Roma, mentre mi
accingo a concludere il ministero petrino, e per chiedere un particolare ricordo nella
preghiera.
Le Letture che sono state proclamate ci offrono spunti che, con la grazia di Dio,
siamo chiamati a far diventare atteggiamenti e comportamenti concreti in questa
Quaresima. La Chiesa ci ripropone, anzitutto, il forte richiamo che il profeta Gioele
rivolge al popolo di Israele: «Così dice il Signore: ritornate a me con tutto il cuore,
con digiuni, con pianti e lamenti» (2,12). Va sottolineata l’espressione «con tutto
il cuore», che significa dal centro dei nostri pensieri e sentimenti, dalle radici delle
nostre decisioni, scelte e azioni, con un gesto di totale e radicale libertà. Ma è possibile
questo ritorno a Dio? Sì, perché c’è una forza che non risiede nel nostro cuore,
ma che si sprigiona dal cuore stesso di Dio. È la forza della sua misericordia. Dice
ancora il profeta: «Ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e
pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male» (v. 13).
Il ritorno al Signore è possibile come ‘grazia’, perché è opera di Dio e frutto della
fede che noi riponiamo nella sua misericordia. Questo ritornare a Dio diventa realtà
concreta nella nostra vita solo quando la grazia del Signore penetra nell’intimo e lo
scuote donandoci la forza di «lacerare il cuore». È ancora il profeta a far risuonare
da parte di Dio queste parole: «Laceratevi il cuore e non le vesti» (v. 13). In effetti,
anche ai nostri giorni, molti sono pronti a “stracciarsi le vesti” di fronte a scandali
e ingiustizie – naturalmente commessi da altri –, ma pochi sembrano disponibili ad
agire sul proprio “cuore”, sulla propria coscienza e sulle proprie intenzioni, lasciando
che il Signore trasformi, rinnovi e converta.
Quel «ritornate a me con tutto il cuore», poi, è un richiamo che coinvolge non
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Bonus Miles Christi
solo il singolo, ma la comunità. Abbiamo ascoltato sempre nella prima Lettura: «Suonate
il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate una riunione sacra.
Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli,
i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo
talamo» (vv. 15-16). La dimensione comunitaria è un elemento essenziale nella fede
e nella vita cristiana. Cristo è venuto «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi»
(cfr. Gv 11,52). Il “Noi” della Chiesa è la comunità in cui Gesù ci riunisce insieme
(cfr. Gv 12,32): la fede è necessariamente ecclesiale. E questo è importante
ricordarlo e viverlo in questo Tempo della Quaresima: ognuno sia consapevole che il
cammino penitenziale non lo affronta da solo, ma insieme con tanti fratelli e sorelle,
nella Chiesa.
Il profeta, infine, si sofferma sulla preghiera dei sacerdoti, i quali, con le lacrime
agli occhi, si rivolgono a Dio dicendo: «Non esporre la tua eredità al ludibrio e alla
derisione delle genti. Perché si dovrebbe
dire fra i popoli: “Dov’è il
loro Dio?”» (v. 17). Questa preghiera
ci fa riflettere sull’importanza
della testimonianza di fede e
di vita cristiana di ciascuno di noi
e delle nostre comunità per manifestare
il volto della Chiesa e come
questo volto venga, a volte, deturpato.
Penso in particolare alle
colpe contro l’unità della Chiesa,
alle divisioni nel corpo ecclesiale.
Vivere la Quaresima in una più intensa
ed evidente comunione ecclesiale,
superando individualismi e
rivalità, è un segno umile e prezioso per coloro che sono lontani dalla fede o indifferenti.
«Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2 Cor 6,2).
Le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto risuonano anche per noi con
un’urgenza che non ammette assenze o inerzie. Il termine “ora” ripetuto più
volte dice che questo momento non può essere lasciato sfuggire, esso viene offerto
a noi come un’occasione unica e irripetibile. E lo sguardo dell’Apostolo si concentra
sulla condivisione con cui Cristo ha voluto caratterizzare la sua esistenza, assumendo
tutto l’umano fino a farsi carico dello stesso peccato degli uomini. La frase di san
Paolo è molto forte: Dio «lo fece peccato in nostro favore». Gesù, l’innocente, il
Santo, «Colui che non aveva conosciuto peccato» (2 Cor 5,21), si fa carico del peso
del peccato condividendone con l’umanità l’esito della morte, e della morte di croce.
La riconciliazione che ci viene offerta ha avuto un prezzo altissimo, quello della
croce innalzata sul Golgota, su cui è stato appeso il Figlio di Dio fatto uomo. In
questa immersione di Dio nella sofferenza umana e nell’abisso del male sta la radice
della nostra giustificazione. Il «ritornare a Dio con tutto il cuore» nel nostro cam-
12 Gennaio-Marzo 2013

Magistero di Papa Benedetto XVI
mino quaresimale passa attraverso la Croce, il seguire Cristo sulla strada che conduce
al Calvario, al dono totale di sé. È un cammino in cui imparare ogni giorno ad uscire
sempre più dal nostro egoismo e dalle nostre chiusure, per fare spazio a Dio che apre
e trasforma il cuore. E san Paolo ricorda come l’annuncio della Croce risuoni a noi
grazie alla predicazione della Parola, di cui l’Apostolo stesso è ambasciatore; un richiamo
per noi affinché questo cammino quaresimale sia caratterizzato da un ascolto
più attento e assiduo della Parola di Dio, luce che illumina i nostri passi.
Nella pagina del Vangelo di Matteo, che appartiene al cosiddetto Discorso della
montagna, Gesù fa riferimento a tre pratiche fondamentali previste dalla Legge mosaica:
l’elemosina, la preghiera e il digiuno; sono anche indicazioni tradizionali nel
cammino quaresimale per rispondere all’invito di «ritornare a Dio con tutto il cuore».
Ma Gesù sottolinea come sia la qualità e la verità del rapporto con Dio ciò che qualifica
l’autenticità di ogni gesto religioso. Per questo Egli denuncia l’ipocrisia religiosa,
il comportamento che vuole apparire, gli atteggiamenti che cercano l’applauso
e l’approvazione. Il vero discepolo non serve se stesso o il “pubblico”, ma il suo Signore,
nella semplicità e nella generosità: «E il Padre tuo, che vede nel segreto, ti
ricompenserà» (Mt 6,4.6.18). La nostra testimonianza allora sarà sempre più incisiva
quanto meno cercheremo la nostra gloria e saremo consapevoli che la ricompensa
del giusto è Dio stesso, l’essere uniti a Lui, quaggiù, nel cammino della fede, e, al
termine della vita, nella pace e nella luce dell’incontro faccia a faccia con Lui per
sempre (cfr. 1 Cor 13,12).
Cari fratelli e sorelle, iniziamo fiduciosi e gioiosi l’itinerario quaresimale. Risuoni
forte in noi l’invito alla conversione, a «ritornare a Dio con tutto il cuore», accogliendo
la sua grazia che ci fa uomini nuovi, con quella sorprendente novità che è
partecipazione alla vita stessa di Gesù. Nessuno di noi, dunque, sia sordo a questo
appello, che ci viene rivolto anche nell’austero rito, così semplice e insieme così
suggestivo, dell’imposizione delle ceneri, che tra poco compiremo. Ci accompagni
in questo tempo la Vergine Maria, Madre della Chiesa e modello di ogni autentico
discepolo del Signore. Amen!
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Benedictus PP XVI ■
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Udienza generale
Piazza San Pietro, 27 febbraio 2013
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato!
Distinte Autorità!
Cari fratelli e sorelle!
Vi ringrazio di essere venuti così numerosi a questa mia ultima Udienza generale.
Grazie di cuore! Sono veramente commosso! E vedo la Chiesa viva! E penso che
dobbiamo anche dire un grazie al Creatore per il tempo bello che ci dona adesso ancora
nell’inverno.
Come l’apostolo Paolo nel testo biblico che abbiamo ascoltato, anch’io sento nel
mio cuore di dover soprattutto ringraziare Dio, che guida e fa crescere la Chiesa, che
semina la sua Parola e così alimenta la fede nel suo Popolo. In questo momento il
mio animo si allarga ed abbraccia tutta la Chiesa sparsa nel mondo; e rendo grazie
a Dio per le «notizie» che in questi anni del ministero petrino ho potuto ricevere
circa la fede nel Signore Gesù Cristo, e della carità che circola realmente nel Corpo
della Chiesa e lo fa vivere nell’amore, e della speranza che ci apre e ci orienta verso
la vita in pienezza, verso la patria del Cielo.
Sento di portare tutti nella preghiera, in un presente che è quello di Dio, dove
raccolgo ogni incontro, ogni viaggio, ogni visita pastorale. Tutto e tutti raccolgo
nella preghiera per affidarli al Signore: perché abbiamo piena conoscenza della sua
volontà, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, e perché possiamo comportarci
in maniera degna di Lui, del suo amore, portando frutto in ogni opera buona (cfr.
Col 1,9-10).
In questo momento, c’è in me una grande fiducia, perché so, sappiamo tutti noi,
che la Parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita. Il Vangelo
purifica e rinnova, porta frutto, dovunque la comunità dei credenti lo ascolta e accoglie
la grazia di Dio nella verità e nella carità. Questa è la mia fiducia, questa è
la mia gioia.
Quando, il 19 aprile di quasi otto anni fa, ho accettato di assumere il ministero
petrino, ho avuto la ferma certezza che mi ha sempre accompagnato: questa certezza
della vita della Chiesa dalla Parola di Dio. In quel momento, come ho già espresso
più volte, le parole che sono risuonate nel mio cuore sono state: Signore, perché mi
chiedi questo e che cosa mi chiedi? È un peso grande quello che mi poni sulle spalle,
ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai, anche
con tutte le mie debolezze. E otto anni dopo posso dire che il Signore mi ha
guidato, mi è stato vicino, ho potuto percepire quotidianamente la sua presenza. È
stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma
14 Gennaio-Marzo 2013

Magistero di Papa Benedetto XVI
anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella
barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera,
giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui
le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e
il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore
e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E
il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso
gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza,
che nulla può offuscare. Ed è per questo che oggi il mio cuore è colmo di ringraziamento
a Dio perché non ha fatto mai mancare a tutta la Chiesa e anche a me la sua
consolazione, la sua luce, il suo amore.
Siamo nell’Anno della fede, che ho voluto per rafforzare proprio la nostra fede in
Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secondo piano. Vorrei invitare
tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia
di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di
camminare ogni giorno, anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da
quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza
confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano. In una bella preghiera
da recitarsi quotidianamente al mattino si dice: «Ti adoro, mio Dio, e ti amo con
tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano…». Sì, siamo contenti
per il dono della fede; è il bene più prezioso, che nessuno ci può togliere! Ringraziamo
il Signore di questo ogni giorno, con la preghiera e con una vita cristiana
coerente. Dio ci ama, ma attende che anche noi lo amiamo!
Ma non è solamente Dio che voglio ringraziare in questo momento. Un Papa non
è solo nella guida della barca di Pietro, anche se è la sua prima responsabilità. Io
non mi sono mai sentito solo nel portare la gioia e il peso del ministero petrino; il
Signore mi ha messo accanto tante persone che, con generosità e amore a Dio e alla
Chiesa, mi hanno aiutato e mi sono state vicine. Anzitutto voi, cari Fratelli Cardinali:
la vostra saggezza, i vostri consigli, la vostra amicizia sono stati per me preziosi; i
miei Collaboratori, ad iniziare dal
mio Segretario di Stato che mi ha
accompagnato con fedeltà in questi
anni; la Segreteria di Stato e l’intera
Curia Romana, come pure tutti
coloro che, nei vari settori, prestano
il loro servizio alla Santa
Sede: sono tanti volti che non
emergono, rimangono nell’ombra,
ma proprio nel silenzio, nella dedizione
quotidiana, con spirito di
fede e umiltà sono stati per me un
sostegno sicuro e affidabile. Un
pensiero speciale alla Chiesa di
Roma, la mia Diocesi! Non posso di-
15

16
Bonus Miles Christi
menticare i Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato, le persone consacrate e l’intero
Popolo di Dio: nelle visite pastorali, negli incontri, nelle udienze, nei viaggi, ho
sempre percepito grande attenzione e profondo affetto; ma anch’io ho voluto bene
a tutti e a ciascuno, senza distinzioni, con quella carità pastorale che è il cuore di
ogni Pastore, soprattutto del Vescovo di Roma, del Successore dell’Apostolo Pietro.
Ogni giorno ho portato ciascuno di voi nella preghiera, con il cuore di padre.
Vorrei che il mio saluto e il mio ringraziamento giungesse poi a tutti: il cuore di
un Papa si allarga al mondo intero. E vorrei esprimere la mia gratitudine al Corpo
diplomatico presso la Santa Sede, che rende presente la grande famiglia delle Nazioni.
Qui penso anche a tutti coloro che lavorano per una buona comunicazione e
che ringrazio per il loro importante servizio.
A questo punto vorrei ringraziare di vero cuore anche tutte le numerose persone
in tutto il mondo, che nelle ultime settimane mi hanno inviato segni commoventi
di attenzione, di amicizia e di preghiera. Sì, il Papa non è mai solo, ora lo sperimento
ancora una volta in un modo così grande che tocca il cuore. Il Papa appartiene a
tutti e tantissime persone si sentono molto vicine a lui. È vero che ricevo lettere
dai grandi del mondo – dai Capi di Stato, dai Capi religiosi, dai rappresentanti del
mondo della cultura eccetera. Ma ricevo anche moltissime lettere da persone semplici
che mi scrivono semplicemente dal loro cuore e mi fanno sentire il loro affetto, che
nasce dall’essere insieme con Cristo Gesù, nella Chiesa. Queste persone non mi scrivono
come si scrive ad esempio ad un principe o ad un grande che non si conosce.
Mi scrivono come fratelli e sorelle o come figli e figlie, con il senso di un legame familiare
molto affettuoso. Qui si può toccare con mano che cosa sia Chiesa – non
un’organizzazione, un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo,
una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti. Sperimentare
la Chiesa in questo modo e poter quasi toccare con le mani la forza della
sua verità e del suo amore, è motivo di gioia, in un tempo in cui tanti parlano del
suo declino. Ma vediamo come la Chiesa è viva oggi!
In questi ultimi mesi, ho sentito che le mie forze erano diminuite, e ho chiesto
a Dio con insistenza, nella preghiera, di illuminarmi con la sua luce per farmi prendere
la decisione più giusta non per
il mio bene, ma per il bene della
Chiesa. Ho fatto questo passo nella
piena consapevolezza della sua gravità
e anche novità, ma con una
profonda serenità d’animo. Amare
la Chiesa significa anche avere il
coraggio di fare scelte difficili, sofferte,
avendo sempre davanti il
bene della Chiesa e non se stessi.
Qui permettetemi di tornare ancora
una volta al 19 aprile 2005. La
gravità della decisione è stata proprio
anche nel fatto che da quel
Gennaio-Marzo 2013

momento in poi ero impegnato sempre
e per sempre dal Signore. Sempre
– chi assume il ministero petrino non
ha più alcuna privacy. Appartiene
sempre e totalmente a tutti, a tutta
la Chiesa. Alla sua vita viene, per così
dire, totalmente tolta la dimensione
privata. Ho potuto sperimentare, e lo
sperimento precisamente ora, che uno
riceve la vita proprio quando la dona.
Prima ho detto che molte persone che
amano il Signore amano anche il Successore
di san Pietro e sono affezionate
a lui; che il Papa ha veramente
fratelli e sorelle, figli e figlie in tutto il mondo, e che si sente al sicuro nell’abbraccio
della vostra comunione; perché non appartiene più a se stesso, appartiene a tutti e
tutti appartengono a lui.
Il “sempre” è anche un “per sempre” – non c’è più un ritornare nel privato. La
mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non
ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera.
Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso.
Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della
preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome
porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato la via per
una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera di Dio.
Ringrazio tutti e ciascuno anche per il rispetto e la comprensione con cui avete
accolto questa decisione così importante. Io continuerò ad accompagnare il cammino
della Chiesa con la preghiera e la riflessione, con quella dedizione al Signore e alla
sua Sposa che ho cercato di vivere fino ad ora ogni giorno e che vorrei vivere sempre.
Vi chiedo di ricordarmi davanti a Dio, e soprattutto di pregare per i Cardinali, chiamati
ad un compito così rilevante, e per il nuovo Successore dell’Apostolo Pietro: il
Signore lo accompagni con la luce e la forza del suo Spirito.
Invochiamo la materna intercessione della Vergine Maria Madre di Dio e della
Chiesa perché accompagni ciascuno di noi e l’intera comunità ecclesiale; a Lei ci affidiamo,
con profonda fiducia.
Cari amici! Dio guida la sua Chiesa, la sorregge sempre anche e soprattutto nei
momenti difficili. Non perdiamo mai questa visione di fede, che è l’unica vera visione
del cammino della Chiesa e del mondo. Nel nostro cuore, nel cuore di ciascuno di
voi, ci sia sempre la gioiosa certezza che il Signore ci è accanto, non ci abbandona,
ci è vicino e ci avvolge con il suo amore. Grazie!
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Magistero di Papa Benedetto XVI
Benedictus PP XVI ■
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Magistero
di Papa
Francesco

Benedizione Apostolica
“Urbi et Orbi”
Fratelli e sorelle, buonasera!
Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare
un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli Cardinali
siano andati a prenderlo quasi alla fine del
mondo… ma siamo qui… Vi ringrazio dell’accoglienza.
La comunità diocesana di Roma ha il suo
Vescovo: grazie! E prima di tutto, vorrei fare una
preghiera per il nostro Vescovo emerito, Benedetto
XVI. Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore
lo benedica e la Madonna lo custodisca.
[Recita del Padre Nostro, dell’Ave Maria e del
Gloria al Padre]
E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo
e popolo. Questo cammino della Chiesa di
Roma, che è quella che presiede nella carità tutte
le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di
fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l’uno
per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché
ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo
cammino di Chiesa, che oggi incominciamo e nel quale mi aiuterà il mio Cardinale
Vicario, qui presente, sia fruttuoso per l’evangelizzazione di questa città tanto bella!
E adesso vorrei dare la Benedizione, ma prima – prima, vi chiedo un favore: prima
che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi
benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la Benedizione per il suo Vescovo. Facciamo
in silenzio questa preghiera di voi su di me.
Adesso darò la Benedizione a voi e a tutto il mondo, a tutti gli uomini e le donne
di buona volontà.
[Benedizione]
Fratelli e sorelle, vi lascio. Grazie tante dell’accoglienza. Pregate per me e a presto!
Ci vediamo presto: domani voglio andare a pregare la Madonna, perché custodisca
tutta Roma. Buona notte e buon riposo!
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Franciscus ■
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Omelia per l’inizio del ministero
petrino del Vescovo di Roma
Piazza San Pietro, 19 marzo 2013
Cari fratelli e sorelle!
Ringrazio il Signore di poter celebrare
questa Santa Messa di inizio
del ministero petrino nella solennità
di San Giuseppe, sposo della Vergine
Maria e patrono della Chiesa universale:
è una coincidenza molto ricca
di significato, ed è anche l’onomastico
del mio venerato Predecessore:
gli siamo vicini con la preghiera,
piena di affetto e di riconoscenza.
Con affetto saluto i Fratelli Cardinali e Vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i religiosi
e le religiose e tutti i fedeli laici. Ringrazio per la loro presenza i Rappresentanti
delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, come pure i rappresentanti della comunità
ebraica e di altre comunità religiose. Rivolgo il mio cordiale saluto ai Capi di Stato
e di Governo, alle Delegazioni ufficiali di tanti Paesi del mondo e al Corpo Diplomatico.
Abbiamo ascoltato nel Vangelo che «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’Angelo
del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). In queste parole è già racchiusa
la missione che Dio affida a Giuseppe, quella di essere custos, custode. Custode
di chi? Di Maria e di Gesù; ma è una custodia che si estende poi alla Chiesa,
come ha sottolineato il beato Giovanni Paolo II: «San Giuseppe, come ebbe amorevole
cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo,
così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine Santa è
figura e modello» (Esort. ap. Redemptoris Custos, 1).
Come esercita Giuseppe questa custodia? Con discrezione, con umiltà, nel silenzio,
ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende.
Dal matrimonio con Maria fino all’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di
Gerusalemme, accompagna con premura e tutto l’amore ogni momento. È accanto a
Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita, nel viaggio a Betlemme
per il censimento e nelle ore trepidanti e gioiose del parto; nel momento
drammatico della fuga in Egitto e nella ricerca affannosa del figlio al Tempio; e poi
nella quotidianità della casa di Nazaret, nel laboratorio dove ha insegnato il mestiere
a Gesù.
Gennaio-Marzo 2013

Magistero di Papa Francesco
Come vive Giuseppe la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa?
Nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto,
non tanto al proprio; ed è quello che Dio chiede a Davide, come abbiamo ascoltato
nella prima Lettura: Dio non desidera una casa costruita dall’uomo, ma desidera la
fedeltà alla sua Parola, al suo disegno; ed è Dio stesso che costruisce la casa, ma di
pietre vive segnate dal suo Spirito. E Giuseppe è “custode”, perché sa ascoltare Dio,
si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle
persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a
ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui cari amici, vediamo
come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo
anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra
vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!
La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una
dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire
l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e
come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di
Dio e per l’ambiente in cui viviamo. È il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di
ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono
più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. È l’aver cura l’uno dell’altro
nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si
prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. È
il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza,
nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una
responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio!
E quando l’uomo viene meno a questa responsabilità di custodire, quando non ci
prendiamo cura del creato e dei fratelli, allora trova spazio la distruzione e il cuore
inaridisce. In ogni epoca della storia, purtroppo, ci sono degli “Erode” che tramano
disegni di morte, distruggono e deturpano il volto dell’uomo e della donna.
Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in
ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà:
siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro,
dell’ambiente; non lasciamo che segni di
distruzione e di morte accompagnino il cammino
di questo nostro mondo! Ma per “custodire”
dobbiamo anche avere cura di noi stessi!
Ricordiamo che l’odio, l’invidia, la superbia
sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare
sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché
è proprio da lì che escono le intenzioni
buone e cattive: quelle che costruiscono e
quelle che distruggono! Non dobbiamo avere
paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!
E qui aggiungo, allora, un’ulteriore annotazione:
il prendersi cura, il custodire chiede
23

Bonus Miles Christi
bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza.
Nei Vangeli, san Giuseppe appare
come un uomo forte, coraggioso, lavoratore,
ma nel suo animo emerge una
grande tenerezza, che non è la virtù del
debole, anzi, al contrario, denota fortezza
d’animo e capacità di attenzione,
di compassione, di vera apertura all’altro,
capacità di amore. Non dobbiamo avere
timore della bontà, della tenerezza!
Oggi, insieme con la festa di san Giuseppe,
celebriamo l’inizio del ministero
del nuovo Vescovo di Roma, Successore
di Pietro, che comporta anche un potere. Certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro,
ma di quale potere si tratta? Alla triplice domanda di Gesù a Pietro sull’amore,
segue il triplice invito: pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Non dimentichiamo
mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere
deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce;
deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui
aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza
l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che
Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità: chi ha fame, sete, chi è straniero,
nudo, malato, in carcere (cfr. Mt 25,31-46). Solo chi serve con amore sa custodire!
Nella seconda Lettura, san Paolo parla di Abramo, il quale «credette, saldo nella
speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18). Saldo nella speranza, contro ogni speranza!
Anche oggi davanti a tanti tratti di cielo grigio, abbiamo bisogno di vedere
la luce della speranza e di dare noi stessi la speranza. Custodire il creato, ogni uomo
ed ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l’orizzonte della speranza,
è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della
speranza! E per il credente, per noi cristiani, come Abramo, come san Giuseppe, la
speranza che portiamo ha l’orizzonte di Dio che ci è stato aperto in Cristo, è fondata
sulla roccia che è Dio.
Custodire Gesù con Maria, custodire l’intera creazione, custodire ogni persona,
specie la più povera, custodire noi stessi: ecco un servizio che il Vescovo di Roma è
chiamato a compiere, ma a cui tutti siamo chiamati per far risplendere la stella della
speranza: Custodiamo con amore ciò che Dio ci ha donato!
Chiedo l’intercessione della Vergine Maria, di san Giuseppe, dei santi Pietro e
Paolo, di san Francesco, affinché lo Spirito Santo accompagni il mio ministero, e a
voi tutti dico: pregate per me! Amen.
24 Gennaio-Marzo 2013
© Copyright 2013 - Libreria Editrice Vaticana
Franciscus ■

Omelia per la S. Messa del Crisma
Basilica Vaticana, 28 marzo 2013
Cari fratelli e sorelle,
con gioia celebro la prima Messa Crismale come Vescovo di Roma. Vi saluto tutti
con affetto, in particolare voi, cari sacerdoti, che oggi, come me, ricordate il giorno
dell’Ordinazione.
Le Letture, anche il Salmo, ci parlano degli “Unti”: il Servo di Javhè di Isaia, il
re Davide e Gesù nostro Signore. I tre hanno in comune che l’unzione che ricevono
è destinata a ungere il popolo fedele di Dio, di cui sono servitori; la loro unzione è
per i poveri, per i prigionieri, per gli oppressi… Un’immagine molto bella di questo
“essere per” del santo crisma è quella del
Salmo 133: «È come olio prezioso versato
sul capo, che scende sulla barba, la barba
di Aronne, che scende sull’orlo della sua
veste» (v. 2). L’immagine dell’olio che si
sparge, che scende dalla barba di Aronne
fino all’orlo delle sue vesti sacre, è immagine
dell’unzione sacerdotale che per
mezzo dell’Unto giunge fino ai confini
dell’universo rappresentato nelle vesti.
Le vesti sacre del Sommo Sacerdote
sono ricche di simbolismi; uno di essi è
quello dei nomi dei figli di Israele impressi
sopra le pietre di onice che adornavano le
spalle dell’efod dal quale proviene la nostra
attuale casula: sei sopra la pietra della
spalla destra e sei sopra quella della spalla sinistra (cfr. Es 28, 6-14). Anche nel pettorale
erano incisi i nomi delle dodici tribù d’Israele (cfr. Es 28,21). Ciò significa
che il sacerdote celebra caricandosi sulle spalle il popolo a lui affidato e portando i
suoi nomi incisi nel cuore. Quando ci rivestiamo con la nostra umile casula può farci
bene sentire sopra le spalle e nel cuore il peso e il volto del nostro popolo fedele,
dei nostri santi e dei nostri martiri, che in questo tempo sono tanti!
Dalla bellezza di quanto è liturgico, che non è semplice ornamento e gusto per i
drappi, bensì presenza della gloria del nostro Dio che risplende nel suo popolo vivo
e confortato, passiamo adesso a guardare all’azione. L’olio prezioso che unge il capo
di Aronne non si limita a profumare la sua persona, ma si sparge e raggiunge “le periferie”.
Il Signore lo dirà chiaramente: la sua unzione è per i poveri, per i prigionieri,
25

Bonus Miles Christi
per i malati e per quelli che sono tristi e soli. L’unzione, cari fratelli, non è per profumare
noi stessi e tanto meno perché la conserviamo in un’ampolla, perché l’olio
diventerebbe rancido … e il cuore amaro.
Il buon sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo; questa è una
prova chiara. Quando la nostra gente viene unta con olio di gioia lo si nota: per
esempio, quando esce dalla Messa con il volto di chi ha ricevuto una buona notizia.
La nostra gente gradisce il Vangelo predicato
con l’unzione, gradisce quando il
Vangelo che predichiamo giunge alla sua
vita quotidiana, quando scende come
l’olio di Aronne fino ai bordi della realtà,
quando illumina le situazioni limite, “le
periferie” dove il popolo fedele è più
esposto all’invasione di quanti vogliono
saccheggiare la sua fede. La gente ci ringrazia
perché sente che abbiamo pregato
con le realtà della sua vita di ogni giorno,
le sue pene e le sue gioie, le sue angustie
e le sue speranze. E quando sente che il
profumo dell’Unto, di Cristo, giunge attraverso
di noi, è incoraggiata ad affidarci tutto quello che desidera arrivi al Signore:
“preghi per me, padre, perché ho questo problema”, “mi benedica, padre”, “preghi
per me”, sono il segno che l’unzione è arrivata all’orlo del mantello, perché viene
trasformata in supplica, supplica del Popolo di Dio. Quando siamo in questa relazione
con Dio e con il suo Popolo e la grazia passa attraverso di noi, allora siamo sacerdoti,
mediatori tra Dio e gli uomini. Ciò che intendo sottolineare è che dobbiamo ravvivare
sempre la grazia e intuire in ogni richiesta, a volte inopportuna, a volte puramente
materiale o addirittura banale – ma lo è solo apparentemente – il desiderio della
nostra gente di essere unta con l’olio profumato, perché sa che noi lo abbiamo. Intuire
e sentire, come sentì il Signore l’angoscia piena di speranza dell’emorroissa
quando toccò il lembo del suo mantello. Questo momento di Gesù, in mezzo alla
gente che lo circondava da tutti i lati, incarna tutta la bellezza di Aronne rivestito
sacerdotalmente e con l’olio che scende sulle sue vesti. È una bellezza nascosta che
risplende solo per quegli occhi pieni di fede della donna che soffriva perdite di sangue.
Gli stessi discepoli – futuri sacerdoti – tuttavia non riescono a vedere, non
comprendono: nella “periferia esistenziale” vedono solo la superficialità della moltitudine
che si stringe da tutti i lati fino a soffocare Gesù (cfr. Lc 8,42). Il Signore,
al contrario, sente la forza dell’unzione divina che arriva ai bordi del suo mantello.
Così bisogna uscire a sperimentare la nostra unzione, il suo potere e la sua efficacia
redentrice: nelle “periferie” dove c’è sofferenza, c’è sangue versato, c’è cecità
che desidera vedere, ci sono prigionieri di tanti cattivi padroni. Non è precisamente
nelle autoesperienze o nelle introspezioni reiterate che incontriamo il Signore: i
corsi di autoaiuto nella vita possono essere utili, però vivere la nostra vita sacerdotale
passando da un corso all’altro, di metodo in metodo, porta a diventare pelagiani,
26 Gennaio-Marzo 2013

Magistero di Papa Francesco
a minimizzare il potere della grazia, che si attiva e cresce nella misura in cui, con
fede, usciamo a dare noi stessi e a dare il Vangelo agli altri, a dare la poca unzione
che abbiamo a coloro che non hanno niente di niente.
Il sacerdote che esce poco da sé, che unge poco – non dico “niente” perché, grazie
a Dio, la gente ci ruba l’unzione – si perde il meglio del nostro popolo, quello
che è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale. Chi non
esce da sé, invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un
gestore. Tutti conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore “hanno già la
loro paga” e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non
ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore. Da qui deriva precisamente
l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati
in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere
pastori con “l’odore delle pecore” – questo io vi chiedo: siate pastori con “l’odore
delle pecore”, che si senta quello –; invece di essere pastori in mezzo al proprio
gregge e pescatori di uomini. È vero che la cosiddetta crisi di identità sacerdotale
ci minaccia tutti e si somma ad una crisi di civiltà; però, se sappiamo infrangere la
sua onda, noi potremo prendere il largo nel nome del Signore e gettare le reti. È
bene che la realtà stessa ci porti ad andare là dove ciò che siamo per grazia appare
chiaramente come pura grazia, in questo mare del mondo attuale dove vale solo l’unzione
– e non la funzione –, e risultano feconde le reti gettate unicamente nel nome
di Colui del quale noi ci siamo fidati: Gesù.
Cari fedeli, siate vicini ai vostri sacerdoti con l’affetto e con la preghiera perché
siano sempre Pastori secondo il cuore di Dio.
Cari sacerdoti, Dio Padre rinnovi in noi lo Spirito di Santità con cui siamo stati
unti, lo rinnovi nel nostro cuore in modo tale che l’unzione giunga a tutti, anche
alle “periferie”, là dove il nostro popolo fedele più lo attende ed apprezza. La nostra
gente ci senta discepoli del Signore, senta che siamo rivestiti dei loro nomi, che
non cerchiamo altra identità; e possa ricevere attraverso le nostre parole e opere
quest’olio di gioia che ci è venuto a portare Gesù, l’Unto. Amen.
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Franciscus ■
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Omelia nella Veglia Pasquale
Basilica Vaticana, 30 marzo 2013
Cari fratelli e sorelle!
1. Nel Vangelo di questa Notte luminosa
della Vigilia Pasquale incontriamo per
prime le donne che si recano al sepolcro
di Gesù con gli aromi per ungere il suo
corpo (cfr. Lc 24,1-3). Vanno per compiere
un gesto di compassione, di affetto, di
amore, un gesto tradizionale verso una
persona cara defunta, come ne facciamo
anche noi. Avevano seguito Gesù, l’avevano
ascoltato, si erano sentite comprese
nella loro dignità e lo avevano accompagnato
fino alla fine, sul Calvario, e al momento
della deposizione dalla croce. Possiamo immaginare i loro sentimenti mentre
vanno alla tomba: una certa tristezza, il dolore perché Gesù le aveva lasciate, era
morto, la sua vicenda era terminata. Ora si ritornava alla vita di prima. Però nelle
donne continuava l’amore, ed è l’amore verso Gesù che le aveva spinte a recarsi al
sepolcro. Ma a questo punto avviene qualcosa di totalmente inaspettato, di nuovo,
che sconvolge il loro cuore e i loro programmi e sconvolgerà la loro vita: vedono la
pietra rimossa dal sepolcro, si avvicinano, e non trovano il corpo del Signore. È un
fatto che le lascia perplesse, dubbiose, piene di domande: “Che cosa succede?”, “Che
senso ha tutto questo?” (cfr. Lc 24,4). Non capita forse anche a noi così quando
qualcosa di veramente nuovo accade nel succedersi quotidiano dei fatti? Ci fermiamo,
non comprendiamo, non sappiamo come affrontarlo. La novità spesso ci fa paura,
anche la novità che Dio ci porta, la novità che Dio ci chiede. Siamo come gli Apostoli
del Vangelo: spesso preferiamo tenere le nostre sicurezze, fermarci ad una tomba, al
pensiero verso un defunto, che alla fine vive solo nel ricordo della storia come i
grandi personaggi del passato. Abbiamo paura delle sorprese di Dio. Cari fratelli e
sorelle, nella nostra vita abbiamo paura delle sorprese di Dio! Egli ci sorprende sempre!
Il Signore è così.
Fratelli e sorelle, non chiudiamoci alla novità che Dio vuole portare nella nostra
vita! Siamo spesso stanchi, delusi, tristi, sentiamo il peso dei nostri peccati, pensiamo
di non farcela. Non chiudiamoci in noi stessi, non perdiamo la fiducia, non
rassegniamoci mai: non ci sono situazioni che Dio non possa cambiare, non c’è peccato
che non possa perdonare se ci apriamo a Lui.
28 Gennaio-Marzo 2013

Magistero di Papa Francesco
2. Ma torniamo al Vangelo, alle donne e facciamo un passo avanti. Trovano la
tomba vuota, il corpo di Gesù non c’è, qualcosa di nuovo è avvenuto, ma tutto questo
ancora non dice nulla di chiaro: suscita interrogativi, lascia perplessi, senza offrire
una risposta. Ed ecco due uomini in abito sfolgorante, che dicono: «Perché cercate
tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto» (Lc 24, 5-6). Quello che era un
semplice gesto, un fatto, compiuto certo per amore – il recarsi al sepolcro – ora si
trasforma in avvenimento, in un evento che cambia veramente la vita. Nulla rimane
più come prima, non solo nella vita di quelle donne, ma anche nella nostra vita e
nella nostra storia dell’umanità. Gesù non è un morto, è risorto, è il Vivente! Non è
semplicemente tornato in vita, ma è la vita stessa, perché è il Figlio di Dio, che è il
Vivente (cfr. Nm 14,21-28; Dt 5,26; Gs 3,10). Gesù non è più nel passato, ma vive
nel presente ed è proiettato verso il futuro, Gesù è l’«oggi» eterno di Dio. Così la
novità di Dio si presenta davanti agli occhi delle donne, dei discepoli, di tutti noi:
la vittoria sul peccato, sul male, sulla morte, su tutto ciò che opprime la vita e le
dà un volto meno umano. E questo è un messaggio rivolto a me, a te, cara sorella,
a te caro fratello. Quante volte abbiamo bisogno che l’Amore ci dica: perché cercate
tra i morti colui che è vivo? I problemi, le preoccupazioni di tutti i giorni tendono
a farci chiudere in noi stessi, nella tristezza, nell’amarezza… e lì sta la morte. Non
cerchiamo lì Colui che è vivo!
Accetta allora che Gesù Risorto entri nella tua vita, accoglilo come amico, con
fiducia: Lui è la vita! Se fino ad ora sei stato lontano da Lui, fa’ un piccolo passo:
ti accoglierà a braccia aperte. Se sei indifferente, accetta di rischiare: non sarai deluso.
Se ti sembra difficile seguirlo, non avere paura, affidati a Lui, stai sicuro che
Lui ti è vicino, è con te e ti darà la pace che cerchi e la forza per vivere come Lui
vuole.
3. C’è un ultimo semplice elemento che vorrei sottolineare nel Vangelo di questa
luminosa Veglia Pasquale. Le donne si incontrano con la novità di Dio: Gesù è risorto,
è il Vivente! Ma di fronte alla tomba vuota e ai due uomini in abito sfolgorante, la
loro prima reazione è di timore: «tenevano il volto chinato a terra» – nota san
Luca –, non avevano il coraggio neppure di guardare. Ma quando ascoltano l’annuncio
della Risurrezione, l’accolgono con fede. E i
due uomini in abito sfolgorante introducono
un verbo fondamentale: ricordate. «Ricordatevi
come vi parlò, quando era ancora in Galilea…
Ed esse si ricordarono delle sue parole»
(Lc 24,6.8). Questo è l’invito a fare
memoria dell’incontro con Gesù, delle sue
parole, dei suoi gesti, della sua vita; ed è
proprio questo ricordare con amore l’esperienza
con il Maestro che conduce le donne
a superare ogni timore e a portare l’annuncio
della Risurrezione agli Apostoli e a tutti gli
altri (cfr. Lc 24,9). Fare memoria di quello
29

30
Bonus Miles Christi
che Dio ha fatto e fa per me, per noi, fare memoria del cammino percorso; e questo
spalanca il cuore alla speranza per il futuro. Impariamo a fare memoria di quello che
Dio ha fatto nella nostra vita!
In questa Notte di luce, invocando l’intercessione della Vergine Maria, che custodiva
ogni avvenimento nel suo cuore (cfr. Lc 2,19.51), chiediamo che il Signore
ci renda partecipi della sua Risurrezione: ci apra alla sua novità che trasforma, alle
sorprese di Dio, tanto belle; ci renda uomini e donne capaci di fare memoria di ciò
che Egli opera nella nostra storia personale e in quella del mondo; ci renda capaci
di sentirlo come il Vivente, vivo ed operante in mezzo a noi; ci insegni, cari fratelli
e sorelle, ogni giorno a non cercare tra i morti Colui che è vivo. Amen.
Gennaio-Marzo 2013
© Copyright 2013 - Libreria Editrice Vaticana
Franciscus ■

Magistero
dell’Arcivescovo

Giornata per la Pace
della Chiesa Ordinariato
Saluto a Sua Em.za
Card. Agostino Vallini
Roma - Seminario, 17 gennaio 2013
Eminenza Reverendissima,
per la nostra Chiesa Ordinariato militare è un giorno di preghiera e di riflessione:
l’incontro con lei, Vicario del Papa per la Diocesi di Roma, offre la provvidenziale
opportunità di manifestare ancora una volta la nostra filiale e devota riconoscenza
al Santo Padre, che ci aiuta a incontrare Gesù fondamento, origine e radice della
vera pace.
A Papa Benedetto, che accoglierà in Udienza speciale i militari italiani il prossimo
18 marzo, esprimiamo piena comunione, adesione sincera e immutata al Suo luminoso
Magistero. Non Le nascondiamo, Eminenza carissima, la commozione, la trepidazione
e la consapevolezza dell’immenso dono per la nostra famiglia militare, che,
dopo il cammino quinquennale sull’Annuncio del Vangelo, avverte l’esigenza di essere
confermata nella fede dal Successore di Pietro.
33

Bonus Miles Christi
A nome mio personale, del Signor Ministro della Difesa, del Sottosegretario alla
Difesa, del Consigliere militare del Presiedente della Repubblica, dei Capi di Stato
Maggiore, del Signor Procuratore generale militare, del Direttore Generale Persociv,
del Presidente della Regione Lazio, di tutte le Autorità presenti, degli appartenenti
all’Esercito, alla Marina, all’Aeronautica, ai Carabinieri e alla Guardia di Finanza, dei
cappellani e dei seminaristi, ma anche dell’Associazione PASFA e della Croce Rossa,
la profonda gratitudine per aver accolto l’invito a presiedere la Celebrazione eucaristica
e invocare con noi dal Signore il dono della pace.
Come ricorda il Pontefice nel Messaggio per la Giornata della pace: «La pace non
è un sogno, non è un’utopia: è possibile. I nostri occhi devono vedere più in profondità,
sotto la superficie delle apparenze e dei fenomeni, per scorgere una realtà
positiva che esiste nei cuori, perché ogni uomo è creato ad immagine di Dio e chiamato
a crescere, contribuendo all’edificazione di un mondo nuovo».
Nonostante il mondo sia purtroppo ancora segnato da focolai di tensione e di
contrapposizione causati da crescenti diseguaglianze fra ricchi e poveri, dal prevalere
di una mentalità egoistica espressa anche da un capitalismo finanziario sregolato,
oltre che da diverse forme di terrorismo e di criminalità, siamo certi che il mondo è
ricco di molteplici opere di pace. In ogni persona il desiderio di pace è aspirazione
essenziale e coincide, in certa maniera, con il desiderio di una vita umana piena,
felice e ben realizzata.
Ogni persona e ogni comunità è chiamata a operare la pace, realizzando il bene
comune. L’etica della pace è etica della comunione e della condivisione. L’uomo è
fatto per la pace.
Per essere veramente operatori di pace dobbiamo educarci alla compassione, alla
solidarietà, alla collaborazione, alla fraternità. Agli operatori di pace che hanno sempre
viva la tensione verso gli ideali, spetta il compito di avere la pazienza e la tenacia
di coltivare il gusto per ciò che è giusto e vero, anche quando tutto ciò può
comportare sacrificio e andare controcorrente.
Non posso, in questo momento, non ricordare i nostri amati militari che quoti-
34 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
dianamente contribuiscono alla sicurezza e alla pace sia sul territorio nazionale sia
nelle missioni internazionali in terre martoriate.
Il nostro pensiero, stasera, va al Medio Oriente, dove il risveglio del fanatismo
islamico e una situazione di gravi tensioni e crisi politiche lasciano il fiato sospeso.
Ci uniamo alla voce del Pontefice per chiedere la fine della violenza e delle armi in
Siria e incoraggiare il sostegno agli oltre seicentomila rifugiati siriani in Libano,
Giordania e Turchia. Come non ricordare anche nella preghiera l’esplosione della ribellione,
il caos politico e umanitario nel Mali con il proliferare di gruppi armati e
la miseria delle famiglie provate dagli effetti della siccità, dalle sempre più scarse
scorte alimentari e il ricatto degli islamisti che promettono lavoro, forniture gratuite
di acqua ed elettricità ai loro proseliti.
In quest’Anno della fede, vogliamo essere sempre più consapevoli che la fede
senza la carità non porta frutto e la carità senza la fede sarebbe un sentimento in
balia costante del dubbio. Fede e carità si esigono a vicenda, così che l’una permette
all’altra di attuare il suo cammino.
Proprio per questo, la Chiesa Ordinariato è convinta che vi sia l’urgenza di un
nuovo annuncio di Gesù Cristo, primo e principale fattore dello sviluppo integrale
dei popoli e anche della pace. Gesù, infatti, è la nostra pace, la nostra giustizia, la
nostra riconciliazione (cfr. Ef 2,14; 2 Cor 5,18). L’operatore di pace, secondo la beatitudine
di Gesù, è colui che ricerca il bene dell’altro.
La Vergine Maria ci aiuti a contemplare il volto di Gesù, Principe della Pace.
Eminenza cara, ci sostenga e ci accompagni in questo nuovo anno, con la preghiera,
il consiglio e la Sua paterna amicizia.
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo
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Omelia per la S. Messa
in onore di San Sebastiano,
patrono dell’Arciconfraternita
della Misericordia di Firenze
Firenze, 20 gennaio 2013
L’arte di accorgersi
Carissimo Provveditore,
membri del Corpo generale,
Confratelli e amici,
abbiamo ascoltato un testo evangelico molto significativo per la circostanza che
ci vede riuniti nel cantare le lodi del Signore, amante della vita. Il gesto compiuto
da Gesù a Cana di Galilea è una chiara manifestazione del Messia che viene a salvarci.
Mentre al Battesimo del Giordano è il Padre a rivelare in quell’uomo di Nazaret il suo
divin figlio, qui è Gesù stesso che si manifesta. Diversamente dagli altri evangelisti,
Giovanni rivela al mondo il Verbo fatto carne nel contesto di una festa di nozze.
«Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli» (Gv 2,2): Gesù partecipa
ad una festa, ad una festa dell’amore per dirci che la carità è l’unica forza che riempie
di gioia e felicità la terra.
Nel frattempo «viene a mancare il vino» (Gv 2,3): la dedizione e la tenerezza, la
prossimità e la gratuità sono minacciate quotidianamente, tanto che l’amore può
svanire, tramontare e finire.
«Non hanno più vino» (Gv 2,3):
Maria è a capo di una carovana di poveri,
umili e abbandonati e insegna
che chi ama non si rassegna e che è
possibile ricominciare, ripartire, iniziare
ad apprendere seriamente l’arte
dell’attenzione. La Madre appare come
una presenza amica, attenta e vigile
perché non si spenga il nome di Dio
che è amore.
«Fate quello che vi dirà» (Gv 2,5):
realizzate le parole di Gesù, vivendo il
Vangelo della carità attraverso scelte
concrete così da riempire il vuoto della
36 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
vita, come furono riempite le anfore del banchetto. La Vergine non ha un messaggio
suo, ma rinvia alle parole di Gesù, ogni qualvolta nelle nostre famiglie viene a mancare
la pace, nella società la speranza, nel mondo la fiducia.
«Riempite di acqua le giare» (Gv 2,7): i servi docili si affrettarono ad obbedire e
quell’acqua prese colore, acquistò gusto e cambiò completamente natura. I nostri
gesti di misericordia, per non perdere continuità, ardore e bellezza, hanno bisogno
di essere arricchiti e cambiati dall’interno, da un amore che non deve mai mancare:
quello di Gesù.
Cari amici della Misericordia, non abbiamo altra strada che l’amore. Vivere vuol
dire amare, ma amare vuol dire morire, perché significa non essere, non esistere che
per gli altri e in forza degli altri. Ecco quello che Gesù manifesta morendo sulla
croce. Il nostro è un Dio “disarmato”. Lo si immaginava ricco e potente, e certo lo
è dal momento che egli è l’infinito; ma ora si vede che la sua ricchezza non consiste
nel possedere, ma nel donare: è la ricchezza di una consegna totale di sé, senza riserva
o secondi fini. L’amore non offre qualcosa di sé riservandosi la parte più profonda;
ma dona esattamente questa parte profonda. Noi siamo ricchi quando possediamo;
Dio invece è ricco spossessandosi. Noi siamo forti quando dominiamo; Dio
invece è forte facendosi servo. Quando Cristo rende l’ultimo respiro, si priva della
vita stessa, dunque di tutto; ed è in quel momento che Cristo diventa umanamente
onnipotente, come Dio è divinamente onnipotente (cfr. F. Varillon, Gioia di credere,
gioia di vivere, Bologna 1984, 76-78).
Il messianismo che Gesù rivela a Cana di Galilea è tutto proteso verso l’ora della
Croce e risurrezione. È proprio alla luce della Croce che si capisce la natura profonda
della gloria che a Cana, per la prima volta, si è fatta manifesta. Potrebbe sembrare
strano e scandaloso affermare che la gloria si riveli sulla Croce, che è il luogo dell’umiliazione
e della sconfitta. Ma Giovanni insiste su questo pensiero. E ha ragione.
La gloria di Dio è l’inaudita potenza dell’amore che resta fedele fino al martirio.
Lo testimonia il nostro san Sebastiano, soldato cristiano che si prodigò per far visita
ai carcerati e assisterli e per questo fu trafitto dalle frecce. Sopravvisse a esse. Anzi
si risollevò più coraggioso di prima e affrontò l’imperatore, rimproverandolo per la
sua crudeltà. Questo per noi è simbolo di come spesso ci sentiamo esposti alle frecce
di tante persone che non credono nella gratuità ed evangelicità del nostro servizio
ai sofferenti, ai bisognosi, agli ultimi e ai più dimenticati. Non scoraggiamoci anche
se riesce veramente difficile sopravvivere in un ambiente così sospettoso e aggressivo.
Sebastiano vuole sostenerci e farci sapere che queste frecce non possono recar
danno. Fanno male, ma non possono ferire il nostro cuore che vede le necessità dei
poveri. In noi c’è uno spazio invulnerabile. La gente può denigrarci, può offenderci,
può ferirci, ma non arriva a toccare il nostro intimo. Dio mantiene le sue mani protettrici
su coloro che operano il bene. Era tale il senso dell’apostolato dell’amatissimo
don Luigi Stefani, il generoso alpino cappellano della Misericordia, di cui quest’anno
ricorderemo il trentennale della morte e il centenario dalla nascita.
Cosa è il vino nuovo se non il vino dell’amore di Dio che si manifesta in Cristo?
Tutte le cose si rovinano con il tempo, solo il vino migliora invecchiando. Uniti a
Gesù i nostri piccoli gesti di generosità acquistano un sapore di gloria eterna. Di
37

Bonus Miles Christi
qui l’impegno della Misericordia che cammina nella carità caratterizzandola di concretezza
e immediatezza, di competenza, passione e progettualità. Gesti concreti,
impegni personali e familiari, accoglienza e ospitalità nella propria casa, messa a
disposizione gratuita del proprio tempo e delle proprie capacità, presa in carico da
parte della comunità cristiana di un servizio continuativo, interventi di solidarietà
nelle emergenze, possono essere occasioni per crescere come famiglia di Dio, in una
fraternità sempre più ampia. Agire nel quotidiano, sporcarsi le mani con i poveri,
progettare insieme le risposte e riflettere sul senso di quello che si fa, di che cosa
cambia nella vita degli ultimi e della comunità che li accoglie, sono orizzonti che
orientano a percorrere la via della prossimità, del servizio e del dono di sé. E ancora,
lo stretto collegamento tra gli impegni di carità e i doveri di giustizia, la percezione
che per risolvere i problemi bisogna risalire alle cause e contrastarle, la necessità di
saldare insieme le grandi prospettive di cambiamento sociale e politico con i piccoli
passi quotidiani e con la coerenza personale.
Continuate nel vostro impegno quotidiano nell’ispirarvi ad una spiritualità della
carità, che ha come anima la speranza, in grado di reggere dinanzi alle prove e agli
insuccessi, che accetta la fatica del
servizio meno gratificante, che vede
un cammino di salvezza anche nelle situazioni
umane più degradate, che
mette in crisi l’efficienza dei suoi risultati.
Perché ciò accada, è indispensabile
un profondo legame tra la preghiera
personale e comunitaria e la
disponibilità a farsi dono ai fratelli.
La spiritualità che nasce dall’esercizio
della carità è una spiritualità che
scruta la presenza e l’opera di Dio nelle
realtà create. In una società segnata
da concorrenza, disgregazione, opposizione,
nella quale non siamo nem-
meno più capaci di parlarci senza ricorrere ai toni dell’offesa, l’esigenza della spespe- ranza, così controcorrente rispetto alla cultura dominante, è un cammino al quale
sono chiamati tutti gli uomini. L’umanità, infatti, è una, e ogni essere umano o si
colloca in una comunità, in relazione con altri, e allora si umanizza, oppure sperimenta
quell’individualismo che ha come unico esito possibile la violenza. Solo la
carità ricevuta e donata è per ogni persona l’esperienza originaria dalla quale nasce
la speranza.
Riprendendo, cari amici, il brano del Vangelo odierno, notiamo che all’inizio si
parla della Madre di Gesù, alla fine il richiamo è ai suoi discepoli, i quali «credettero
in lui» (Gv 2,11). La fede è uno slancio. Non si crede in una cosa o in una dottrina,
ma in una persona. Il discepolo si fida di Gesù, si abbandona a lui e si lascia condurre.
La messianità di Gesù include un passaggio dal vecchio al nuovo. La fede è con-
38 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
versione, apertura al nuovo, disponibilità. Come la fede di Maria che accetta l’apparente
rifiuto e si lascia condurre verso un’attesa superiore. «Non hanno vino»: queste
parole esprimono, discretamente, la speranza del miracolo. La risposta di Gesù
esprime una chiara reticenza, pur acconsentendo, poi, a intervenire. La reticenza ha
lo scopo di far passare la fede della Chiesa (di cui Maria è il modello) da una forma
incipiente a una più matura. A riguardo, quale grazia ci sta offrendo questo tempo
propizio dell’Anno della fede, indetto dal Santo Padre Benedetto XVI.
Sappiamo, infatti, che al centro della fede è posta la stessa verità che è al centro
della vita dell’uomo: l’amore. La fede durerà quanto durerà l’uomo. Per questo,
quando le sei giare di pietra della mia umanità saranno offerte a lui, colme fino all’orlo
di tutto ciò che è umano, sarà Gesù, autore dell’amore, a mutare questa semplice
acqua nel migliore dei vini.
A Cana, Maria è icona del volto gratuito di un Dio che desidera la felicità degli
uomini più ancora che la loro fedeltà: nulla hanno fatto gli sposi per meritare il miracolo,
ma Dio interviene, indifferente ai meriti (unico merito è la povertà, il finire
del vino).
Il Dio in cui io credo è il Dio delle nozze di Cana, il Dio della festa, dell’amore
gioioso, un Dio felice che sta dalla parte del vino, che ama il profumo di Betania,
che rende la carità il luogo in cui germogliano miracoli, un allietatore di poveri, che
dà il piacere di esistere e credere (cfr. Ronchi).
«I discepoli credettero non quello che vedevano accadere, ma quello che gli occhi
di carne non potevano vedere. Credettero non che Gesù Cristo era figlio di una vergine,
poiché lo sapevano, ma che era l’unigenito dell’Altissimo, cosa di cui il miracolo offriva
la prova. Perciò, fratelli, anche noi crediamo che egli è figlio della nostra stessa
natura e uguale alla sostanza del Padre, poiché partecipò alle nozze come uomo e
trasformò le acque in vino come Dio. In virtù di questa fede voglia il Signore nostro
darci da bere il sobrio vino della sua grazia (San Massimo di Torino, Omelie 23).
Signore, su richiesta di tua madre hai compiuto un segno rivelatore della tua gloria:
hai cambiato l’acqua in vino, hai trasformato l’antica legge nella novità dello Spirito.
Tu operi, come a Cana, in un contesto ordinario tante meraviglie che noi stentiamo a
riconoscere. Non abbiamo gli occhi della fede che ci permettono di vedere i gesti del
tuo amore verso gli uomini.
Tu, invece, operi il definitivo passaggio dalla legge alla grazia e inauguri le nozze
dell’amore tra Dio e gli uomini. Facci comprendere che non è nella molteplicità delle
nostre azioni che ci rendiamo graditi a te, ma per la gratuità con cui le facciamo,
come ci hai insegnato tu e come ha fatto esemplarmente Maria madre tua e nostra.
Amen.
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo
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Testimoni della fede
nel mondo militare:
Don Carlo Gnocchi
Un alpino sulle montagne dello Spirito
«In quei giorni fatali posso dire di aver visto finalmente l’uomo. L’uomo nudo;
completamente spogliato, per la violenza degli eventi troppo più grandi di lui, da
ogni ritegno e convenzione, in totale balìa degli istinti più elementari emersi dalle
profondità dell’essere»: così don Carlo
Gnocchi, nel suo scritto-confessione Cristo
con gli Alpini, ricorda la tragedia della ritirata
di Russia (1942-1943) degli Alpini
della Divisione Tridentina, che accompagnava
come cappellano militare, incarico
che lui stesso volle assumere, chiedendo
per questo, il 12 gennaio 1941, il permesso
al cardinale arcivescovo di Milano,
Ildefonso Schuster che glielo accordò. Don
Gnocchi, si legge nelle sue Lettere, dopo
cinque anni di assistenza nel prestigioso
istituto Gonzaga di Milano, sentiva, infatti,
«il bisogno di un contatto più diretto
con il popolo, di una vita più sana e più vera, di un apostolato più concreto e conclusivo».
Don Carlo Gnocchi viene assunto, recita il suo foglio matricolare, «in temporaneo
servizio per esigenze di carattere eccezionale per l’assistenza spirituale
presso il Regio esercito quale cappellano militare di mobilitazione assimilato a tenente,
il 27 febbraio 1941». Assegnato al 105° Battaglione compl. del 5° Reggimento
Alpini, parte il 23 marzo 1941 per il fronte greco-albanese, destinato al Btg.
Val Tagliamento della Divisione Alpina Julia. Il 6 novembre dello stesso anno viene
collocato a congedo. A maggio del 1942 don Gnocchi riprende servizio come cappellano
militare e il 12 luglio dello stesso anno parte per il fronte russo assegnato
al Quartier generale della 2° Divisione Alpina Tridentina. Di lì a poco iniziano gli
scontri contro le forze russe, la battaglia del Bolshoj (settembre 1942) che fece centinaia
di vittime tra gli alpini fino all’inizio della terribile ritirata (17 gennaio 1943)
da aprirsi con le armi dopo l’accerchiamento russo. È nelle battaglie di Bolshoj, di
Kotowski, di Quota 228, di Ferma 4, di Jagodny, di Belogory, di Bassowka, di Vitewski,
di Marabut, è nei settecento chilometri di marcia nella steppa gelata, a 40 gradi
sottozero, con pochi viveri e poche munizioni, che don Gnocchi vide la grandezza
dei suoi alpini. Nel suo Cristo con gli alpini scrive dei suoi soldati: «tutti hanno dato
40 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
fino all’estenuazione, fino all’eroismo… Dio fu con loro, ma gli uomini furono degni
di Dio». Mirabile, poi, il racconto del ripiegamento della Tridentina: «Mi buttai verso
il Quartier generale e dall’alto di una slitta alzai, sugli uomini che mi si erano stretti
intorno ancora sbiancati dalla sorpresa (causata dall’arrivo dei carri armati russi,
ndr.) il mio piccolo crocifisso d’argento, quello regolamentare che ogni cappellano
deve portare nel taschino della giubba militare. Cento sguardi fermi ed intensi si
confissero su di Lui e io non so come ne reggessero il peso e l’audacia… Quante
volte il mio piccolo Crocifisso si levò in guerra per la benedizione e l’assoluzione
prima del combattimento, sui feriti, sui morenti, nel segreto della Confessione. Soltanto
nel Crocifisso può darsi speranza di intesa, di risurrezione e di vita per il
mondo». Fu in questo inferno che don Gnocchi progettò la sua carriera che così
spiegò in una lettera al cugino Mario (17 settembre 1942): «sogno dopo la guerra
di potermi dedicare per sempre ad un’opera di Carità, quale che sia o meglio quale
Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per
tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia carriera». E sarà una carità smisurata, quella
di don Gnocchi, che connoterà una parte della storia d’Italia, e che offre ancora oggi
aiuto e speranza alle generazioni che si avvalgono dei servizi della Fondazione che
porta il suo nome. Il cappellano don Gnocchi diventa il padre dei mutilatini, dedicandosi
al sostegno delle famiglie dei caduti viaggiando in lungo e in largo per la
penisola, portando loro conforto e vicinanza spirituale e materiale.
Don Gnocchi: un santo cappellano o un cappellano santo?
Don Carlo non è il primo e certo non sarà l’ultimo dei nostri cappellani santi.
Egli può definirsi un santo “con le stellette” dall’animo chiaro e l’intelligenza limpida,
dal cuore ardente e poetico, che ha incarnato tra gli Alpini in Albania, in Grecia
e nella sconfinata terra russa, quei valori trascendenti e mai negoziabili sui quali si
edificano le basi di una società fondata su una visione della persona non viziata da
pregiudizi ideologici e culturali o da interessi politici ed economici. L’uomo, creato
a immagine di Dio, ha la dignità di persona, ma senza riferimento costante al soprannaturale
costruisce soltanto civiltà incapaci di dare fondamenta all’uguaglianza,
alla tolleranza e alla pace. Considerato santo dai suoi ragazzi militari, lo è diventato
perché lo ha desiderato con tutte le sue forze. Ai giovani del suo Oratorio di S. Pietro
in Sala a Milano, diceva: «Nulla è più santificante e salvifico della santità. Credetelo.
La santità, come un corpo incandescente o radioattivo, ha un’irradiazione quanto
misteriosa altrettanto potente, ben più efficace dei più industriosi mezzi umani. La
santità irradia tacitamente fede e bontà». Perciò, egli fu nemico della mediocrità,
soprattutto nel bene, vivendo il Vangelo di un amore “più grande” che compendia
ogni altro valore: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i
propri amici” (Gv 15,13). Amare non è emozione, mero sentimento, è un’azione:
dare. Ma dare che cosa? Dare la vita è dare ciò che fa belle e intense le giornate, ciò
che fa vibrare l’animo dinanzi al bene, comunicare la bellezza dell’incontro con Dio.
Anche per questo scelse di arruolarsi tra gli Alpini, perché più vicini alla natura,
alla rocciosità dei monti e all’eco delle valli.
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Bonus Miles Christi
Su quali binari corre la santità di don Gnocchi?
La santità di don Gnocchi corre sui binari della carità e della preghiera. Egli aveva
capito che per migliorare gli uomini, prima ancora di dare loro principi di pensiero,
bisognava indurli a esercitarsi nella carità. Non si può fare altro bene alle persone
se non amandole. Perciò riuscì a far nascere la pianta della vita anche tra le macerie
della guerra. Don Carlo bruciava di carità: fu l’amore i giovani che lo condusse nel
gelo della steppa russa, accanto agli Alpini. Da lì non smise di stimolare ad una vita
di carità chi era rimasto a casa. Scrisse alle Dame di San Vincenzo: «Di una cosa
sola ha bisogno il mondo e per questo bisogna lottare: di carità e amore evangelico.
Ciascuno di noi ha il dovere di anticipare e
attuare, per quanto gli compete, l’avvento
della carità». Carità appresa alla scuola di
don Luigi Orione la cui vita, diceva, «insegna
con l’efficacia irresistibile delle opere,
che una cosa sola durevolmente e universalmente
vale, in vita e oltre la morte: la
Carità. Le altre cose tutti cui tanto teniamo,
l’ingegno e la cultura, le ricchezze
e la posizione sociale, la casta e il sangue,
finiscono per dividere gli uomini e metterli
qualche volta gli uni contro gli altri, ferocemente:
la carità non mai. La carità unifica
e salva”. Restò sempre convinto che
non basta operare, cioè fare della carità,
ma soprattutto bisogna “pregare per la carità”.
È dallo Spirito Santo che viene nei
nostri cuori quell’amore, di cui ha tanto bisogno il mondo e le anime per salvarsi.
Non basta dedicarsi ai poveri, ma è necessario moltiplicare accanto ai gesti concreti
di servizio, l’impegno quotidiano della preghiera perché la Carità di Cristo abiti in
noi.
Quale eredità don Gnocchi lascia ai cappellani militari dei nostri giorni?
Don Carlo fu un sacerdote che custodì nel suo cuore la dimensione della lode.
Era un sacerdote entusiasta, una persona realizzata, convinto che non avrebbe potuto
vivere una vita più bella della propria. La prova era in quel sorriso che sprizzava
sempre dal suo volto, quel sorriso che identifichiamo con l’immensa tenerezza riversata
nell’abbraccio dei suoi piccoli mutilatini. Comunicava agli altri la gioia di essere
ciò che era e la sua grande lezione, radicata nell’abbandono alla volontà divina, era
impregnata di quell’ottimismo che ha sempre caratterizzato le sue azioni. Egli era
un uomo di preghiera, un’anima – come amava definirsi – affascinata dall’Eucaristia.
Egli non ha mai trascorso un giorno senza celebrare la Messa. Se sapeva che avrebbe
dovuto affrontare un lungo viaggio, celebrava al mattino presto, prima di mettersi
in cammino. Anche nei periodi più difficili, sul fronte russo, il cappellano degli
Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
Alpini non ha mai smesso di essere un sacerdote, nonostante le difficoltà e la disperazione
della condizione in cui si trovava. Testimoni raccontano che i soldati non
hanno abbandonato l’altare da campo di don Gnocchi, lo portavano sempre con loro,
nonostante il peso, perché potesse celebrare la Messa. Gli Alpini nello sconforto gli
chiedevano: “Hai il Signore?”. Lui, aprendo il cappotto, mostrava la piccola teca
contenente il Corpo di Cristo, rinfrancando i soldati.
Di lui si ricorda anche una particolare devozione per il Rosario…
Per i sacerdoti, poi, accanto all’amore eucaristico, don Carlo diventa esempio
della devozione alla Vergine, a cui affidò l’intera sua opera e tutta la sua esistenza.
Tra l’altro, raccomandava la recita del Rosario: «Vale assai più un’Ave Maria per i figliuoli
– come a dire una parolina di Dio sussurrata al loro orecchio – che tutte le
vostre esortazioni, tutte le conferenze, le lezioni di catechismo, i tornei di calcio e
le scuole di canto. Sono la preghiera e il sacrificio che possono fecondare spiritualmente
queste opere esterne; senza la preghiera, questa celeste rugiada, le opere finiscono
per essere frastuono vano». Anche da cappellano militare, quello che lo consolò
e lo fece maturare fu la scoperta di quanto i suoi soldati fossero fedeli al
Rosario. Al cardinale Schuster scriveva: «Durante il mese di maggio abbiamo recitato
il santo rosario in pubblico, collettivamente, ma già in linea in quasi tutte le tende
si recitava la corona del santo rosario con breve fervorino sulla Madonna. E resterà
nella mia vita il ricordo dolce e commovente di questi rosari recitati sotto il cielo
immenso, con intorno il gregge fitto e nero dei miei alpini inginocchiati sulla nuda
terra e sparsi a gruppi sulle rocce!». Quella corona recitata spontaneamente nelle
tende, lo entusiasmava. «Non c’è quasi tenda, dove non si reciti il santo rosario ogni
sera! Sono andato anch’io un po’ per turno a presiederne la recita nelle tende più
capienti e le dico che poche volte in vita mia l’ho detto con maggior fervore e commozione.
(...) Come può la Madonna non proteggere queste anime semplici e generose?»
(a Fratel Gioachino, direttore del Gonzaga). Proprio prendendo spunto da
questa devozione, Giovanni XXIII ai mutilatini amava ripetere: «Voi siete il Rosario
vivente di Maria. Dite sempre bene il Rosario».
Carità, preghiera ma anche opzione preferenziale per i più poveri, in particolare
per i piccoli sofferenti. In che modo il tema del dolore innocente viene affrontato
da Don Gnocchi?
Direi subito che don Carlo trovava nella croce di Cristo la gioia della sua fede e
la forza di continuare ad amare i più deboli. Il Crocifisso gli ha donato per grazia la
sua stessa compassione per il dolore umano, soprattutto per il dolore dei bambini.
Una testimonianza: «dopo lo scoppio della bomba, Marco, l’unico superstite dei quattro
bambini… era stato sottoposto immediatamente all’intervento chirurgico: amputazione
delle gambe, estrazione del bulbo oculare e regolarizzazione delle vaste e
numerose ferite che crivellavano il fragile corpo palpabile. Lo vidi qualche tempo
dopo l’operazione, quando ancora le medicazioni quotidiane lo facevano soffrire e
gli domandai: Quando ti strappano le bende, ti frugano nelle ferite e ti fanno pian-
43

Bonus Miles Christi
gere, a che pensi? A nessuno, mi rispose con
una punta di meraviglia nella voce. Ma tu
non pensi che ci sia qualcuno al quale potresti
offrire il tuo dolore? Marco fissò nel
vuoto il viso devastato, guardando con
l’unico occhio stranito e poi, scuotendo lentamente
la testa, disse: Non capisco! E tornò
a giocherellare distratto con l’orlo del lenzuolo.
Fu in quel momento che ebbi la precisa,
quasi materiale, sensazione di una immensa
irreparabile sciagura: della perdita di
un tesoro… Era il grande dolore innocente
di un bimbo che cadeva nel vuoto, inutile e
insignificante… dissennato dispendio, senza
che gli educatori cristiani vi si opponessero
sufficientemente» 1 . Il racconto è di don
Carlo Gnocchi, cappellano militare che, nel-
l’immediato dopoguerra non ha lasciato perdere il dolore innocente, raccogliendolo
e valorizzandolo.
La domanda è sempre la stessa: perché Dio non interviene a liberare dal dolore
le sue creature? E quale è stata la risposta di don Gnocchi?
Per don Carlo, la fede cristiana afferma che Dio è infinitamente buono e ha cura
di tutte le creature, in particolare dei piccoli e dei poveri. Doveva perciò rispondere
alle domande dei moribondi e degli ammalati sul silenzio di Dio che metteva la fede
a durissima prova quando si presentava la sofferenza umana, in particolare quella
degli innocenti, dei giusti e dei bambini. Don Gnocchi continuava a predicare che
Dio è venuto in nostro aiuto e nella persona del suo Figlio Gesù, ha preso su di sé i
peccati degli uomini, ha sofferto, è morto per liberarci dall’inganno e dal peccato e
renderci partecipi della sua vita e della sua infinita felicità. Questo non significa
che Gesù con la sua sofferenza e morte abbia abolito la sofferenza e la morte degli
uomini, ma le ha rese strumento di redenzione e segni della vittoria di Dio sul male.
La sofferenza e la morte sono così riscattate dall’assurdo e hanno acquistato un
senso nuovo, divenendo da simboli di perdizione e castigo a segni di salvezza. Nel
mistero della solidarietà umana Dio associa la sofferenza e la morte innocente alla
sofferenza e alla morte dell’Innocente, il Santo. Così nessuna lacrima è versata invano
e nessun grido di dolore si perde nel nulla, ma nel dolore e nella morte dei
bambini innocenti e nella sofferenza di coloro che per il bene dell’umanità sono uccisi,
vittime della ferocia umana che non conosce limiti, e di quelli che senza colpa
sono travolti dai disastri della natura, si costruisce attorno all’albero della Croce,
1 C. Gnocchi, Pedagogia del dolore innocente, in “Don Carlo Gnocchi. Gli scritti (1934-1956), Editrice
Ancora, Milano 1993, pp. 759-760.
44 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
piantato nel cuore della storia umana una solidarietà in Cristo che vince ogni disperazione
e morte. La Croce di Gesù era per don Carlo la risposta di Dio al problema
della sofferenza umana.
Sacerdote di alto profilo spirituale, don Carlo ha rappresentato anche il volto
moderno della guida spirituale, una figura che oggi andrebbe riscoperta e rivalutata
soprattutto in ambito giovanile. Quale è stato il rapporto di don Gnocchi
con i giovani?
Don Carlo era convinto che come non si riceve la vita senza genitori, così non si
ricevono la Parola di Dio e i fondamenti della vita nello Spirito senza un padre spirituale
saldamente radicato nel vangelo di Cristo. Divenne, perciò, un padre vigoroso
e tenero dei suoi giovani, ai quali dava amore, ricordando che Dio li amava molto di
più. Ispirava fiducia e trovava le risposte migliori alle domande più difficili dei suoi
giovani, considerati come la pupilla di quegli occhi che alla fine della vita offriva a
due di essi. Un gesto che richiama la carità eroica trasmessa nella fede di generazione
in generazione. Un sacerdote ricco di umanità, chi lo incontrava, pur ferito dalla
sofferenza e dalla malattia, ritrovava speranza e ricentrava la propria esistenza sul
Signore. Don Carlo è il padre dei mutilatini, ma è anche la guida che segue i suoi
giovani con lo sguardo caldo che dice a ciascuno: tu mi interessi più di ogni altra
cosa; tu sei la persona più importante per me. «La direzione spirituale – affermava
don Gnocchi – costituisce l’anima profonda di tutta l’educazione cristiana». La spiritualità
non è al di fuori dell’esperienza quotidiana o della ricerca della propria identità.
Costituisce l’intelaiatura dell’esistenza e la trama di tutte le relazioni che ogni
persona intesse. E poiché l’integrazione tra fede e vita non risulta sempre facile,
può essere richiesto l’aiuto dell’accompagnatore spirituale, che con il dono del consiglio
orienta e sostiene le scelte. In questo modo don Gnocchi ha saputo interpretare
in modo superlativo il ministero sacerdotale: essere un formatore della coscienza,
luce, sostegno, conforto e speranza per tutti i giovani che la provvidenza
metteva sulla sua strada. Il colloquio spirituale assumeva per don Carlo una valenza
educativa perché favoriva non solo il senso del mistero di Dio e delle realtà soprannaturali,
ma anche dell’uomo stesso. Un buon educatore può salvare il mondo: era
la convinzione di don Gnocchi che vedeva nell’opera educativa non solo il mezzo
per consentire la corretta crescita umana e cristiana del singolo individuo, ma anche
il mezzo per educare a quella carità evangelica verso i più bisognosi, dove vive Cristo,
il più piccolo dei piccoli. Prete appassionato dei suoi fratelli, bruciato personalmente
dall’amore di Dio, resta uno splendido testimone dell’accompagnamento spirituale
come via alla santità, cammino impegnativo ma bello e fonte di gioia e di vita piena.
Possiamo dire che don Gnocchi fu il cappellano dei giovani militari?
La formazione della gioventù era ossigeno per il ministero sacerdotale di don
Gnocchi, che gli faceva scrivere: «La giovinezza, che tesoro inestimabile!». Ma l’educatore
deve vegliare continuamente e intelligentemente sui giovani per proteggerli
dalle difficoltà e dalle insidie del cammino quotidiano. Fu proprio la partenza per la
45

Bonus Miles Christi
seconda guerra mondiale nei vari fronti di guerra, che fece chiedere a don Carlo di
partire volontario come cappellano militare. «I soldati – scrisse – ci vanno per dovere,
il sacerdote ci va per amore delle anime». Egli insegnava che la giovinezza non
è proprietà esclusiva di chi la vive e non di rado la sciupa; se vissuta come dono è
una sorgente di freschezza, di tenerezza, di passione, di entusiasmo capace di irrorare
il territorio arido di chi è avvezzo alla superficialità, alla frenesia di godimento, alla
violenza e alla sopraffazione. Soleva, infatti, ripetere che i giovani vogliono avere
fiducia e il modo migliore per dimostrarla loro è quella di impegnarli a fondo, facendo
credito alle loro possibilità; essi hanno bisogno di essere rivelati a se stessi e solo
le imprese rischiose possono dare la misura delle energie presenti nel loro essere.
L’attualità di don Gnocchi, allora, è nell’indicare ai giovani la coerenza come forma
specifica della testimonianza evangelica, anche a prezzo del sacrificio della propria
vita. La coerenza di essere impegnati al servizio del bene comune, custodi della concordia
civile, messaggeri di quella pace, che racchiude sempre qualcosa di sacro, pur
cosciente delle furbizie e delle asprezze che gli altri lasciano sulla strada della vita.
Cosa rappresenta don Gnocchi per l’Italia?
L’Italia è un Paese profondamente bisognoso della testimonianza cristiana, per
la presenza di una cultura predominante in Occidente, caratterizzata dall’autosufficienza
e dominata dal relativismo e dall’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio
morale valido e vincolante per se stesso, e dove la libertà individuale è considerata
valore fondamentale a cui tutti gli altri dovrebbero sottostare. In tale
contesto Dio risulta estraneo e assente. Di qui l’educazione alla fede che per don
Gnocchi non avviene solo attraverso il semplice passa parola di informazioni e neppure
con i mezzi di comunicazione, ma mediante la conoscenza e la fedeltà al Vangelo,
sino ad accettare di morire, perché la risurrezione sia narrata concretamente
come una ragione per la quale vale la pena di vivere e sacrificare la vita. Don Gnocchi
può dirsi un vero seminatore di umanità e di alto senso cristiano, che fanno di lui
un esempio anche per i giovani del nostro tempo di tenero padre e di fratello indimenticabile.
Il suo testamento, perciò, resta la lotta per la vita che riempie di speranza
anche la morte. Non a caso Papa Giovanni Paolo II lo definì seminatore di
speranza, una speranza non ingenua né inoperosa ma solida e coraggiosa, perché
fondata sulla roccia, Cristo, che guida la storia e al quale tutto è possibile.
24 gennaio 2013
46 Gennaio-Marzo 2013
(a cura di) Daniele Rocchi ■

Intervento al ciclo di
letture teologiche sui Documenti
del Concilio Vaticano II
Vicariato di Roma - Sala della Conciliazione, 31 gennaio 2013
Nella Tua natura, conoscerò la mia
Cristo è l’uomo nuovo
Nel recente volume, Un Concilio per il XXI secolo, il prof. Gilles Routhier presenta
alcune riflessioni per rendere fruttuosa l’eredità del Vaticano II. Per il docente di
Teologia dell’Università canadese, essere eredi di un bene, che non è frutto dei nostri
sforzi, non è così semplice 1 .
La costituzione pastorale Gaudium et Spes (approvata il 7 dicembre 1965) potrebbe
essere, infatti, accolta senza comprenderne l’importanza, seppellita per paura
di danneggiarla o addirittura rifiutata, perché motivo di inquietudine per un’autentica
vita cristiana.
Nel mio intervento, perciò, vorrei avvertire con voi quell’entusiasmo missionario
e quel cuore pastorale che vissero i protagonisti del Concilio, riprendendo stasera
una lettura che tiene conto delle attese delle nuove generazioni.
Il documento del Concilio ha come oggetto centrale della sua preoccupazione,
l’uomo: «È l’uomo dunque, ma l’uomo integrale, nell’unità di corpo e anima, di cuore
e coscienza, di intelletto e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione»
(GS, 3). E non potrebbe essere diversamente. I problemi del mondo contemporaneo
che la Chiesa vuole illuminare sono: «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce
degli uomini d’oggi» (GS, 1).
Fondamentale nella Gaudium et Spes è l’uomo, che fonda il legame che intercorre
tra la Chiesa e il mondo. La Chiesa può dire Cristo come la verità dell’uomo, solo se
essa è capace di svelare pienamente l’uomo all’uomo, ossia rivelargli la grandezza e
la bellezza della sua dignità personale.
La Chiesa crede di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine
di tutta la storia umana. Al di sotto di tutti i mutamenti ci sono cose che non cambiano;
esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri,
oggi e nei secoli (Eb 13,8). Così nella luce di Cristo, immagine del Dio invisibile,
1 Cfr. G. Routhier, Un Concilio per il XXI secolo. Il Vaticano II cinquant’anni dopo, Vita e Pensiero,
Milano 2012.
47

Bonus Miles Christi
primogenito di ogni creatura (Col 1,15), il Concilio intende rivolgersi a tutti per illustrare
il mistero dell’uomo (cfr. GS, 10).
Cristo, uomo nuovo
La Gaudium et Spes presenta, nella prima parte del documento, dal n. 10 al n.
45, la centralità di Cristo, via decisiva per la comprensione dell’uomo. In particolare,
il n. 22 è la chiave per accostare Cristo, uomo nuovo, nuovo Adamo nel quale viene
svelato al soggetto umano il senso e il futuro della storia umana e del cosmo. Il Signore
è il fine della storia umana (cfr. GS, 45). Si tratta di un testo di elevata statura
teologica, che contrasta con l’evidente timidezza con cui la GS affronta le questioni
più strettamente teologiche. Il Concilio parla dell’uomo alla luce di Cristo, non semplicemente
perché in Cristo tutto viene illuminato ma perché nel Figlio incarnato si
scopre chi è e a che cosa è chiamato l’essere umano. Non si tratta di una luce che
viene dal di fuori ma della stessa realtà della vita di Cristo. Non è l’uomo che spiega
Cristo, ma Cristo che spiega l’uomo. Perciò, solo per mezzo di Cristo possiamo sapere
che cos’è l’uomo. La manifestazione di ciò che l’uomo è viene dunque unita alla rivelazione
del Padre ed è conseguenza inseparabile di essa.
Cristo, rivelatore dell’amore di Dio Padre, manifestatosi come Figlio, con la sua
vita, rivela anche la vocazione dell’uomo: da sempre siamo stati chiamati alla comunione
con Dio, a essere suoi figli nel Figlio.
Perché Cristo è l’uomo nuovo? Dico subito che Egli porta la novità della fraternità.
La dottrina della Gaudium et Spes stabilisce le basi di una teologia della fraternità,
che viene elaborata in base alla distinzione-correlazione tra fraternità, filialità e paternità:
la fraternità presuppone la filialità, e questa, a sua volta, la paternità.
La concezione dell’essere umano, negli scritti del Nuovo Testamento, è collegata
con la fede in Gesù, riconosciuto e proclamato Cristo, Figlio di Dio e Signore. Come
primogenito tra molti fratelli, Egli non è solo il mediatore tra Dio e gli uomini, ma
anche il prototipo della relazione filiale con Dio Padre. La verità dell’uomo consiste
nell’essere «figlio nel Figlio» e «secondo il Figlio» (cfr. GS, 22).
Filialità e paternità divina
Nel Cristo e per il Cristo, Dio Padre diviene realmente nostro Padre e noi siamo
introdotti nelle particolari relazioni provvidenziali esistenti tra il Padre e il Figlio
fatto uomo. Se Dio si prende personalmente cura di noi, è come un Padre che lo fa
e non come l’amministratore dell’universo. Il concetto di «padre» aveva in Oriente,
al tempo di Gesù, un significato più largo di quello che ha oggi per noi. Non escludeva
la tenerezza, ma esprimeva soprattutto la sollecitudine, la guida autorevole di
colui dal quale tutto dipende. L’atteggiamento del figlio di fronte a suo padre era
fatto di obbedienza e rispetto. La volontà del padre era sempre determinante nella
famiglia ebrea, che veniva chiamata «la casa del padre». I figli non lasciavano la
casa paterna e lavoravano negli affari del loro padre.
In quest’ottica, la fede è adesione alla «volontà del Padre», un amore obbediente,
intriso di intimità, che fa esclamare a Gesù: Abbà. Accanto al rispetto religioso, Cri-
48 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
sto introduce nella relazione del Padre al Figlio una sfumatura di tenerezza e di confidenza.
Gesù insegna agli uomini a pregare Dio come loro Padre, ma dice sempre «mio
Padre», oppure «vostro Padre», mai «nostro Padre» (Mt 7,11; Lc 22,29; cfr. Gv 20,17).
Egli ha una posizione talmente unica nei confronti del Padre, che ne è il «Rivelatore»
per eccellenza.
La condizione nuova, nella quale la venuta di Gesù ha posto l’essere umano, è la
filialità. Questa consiste nel dono di grazia attraverso il quale siamo chiamati a partecipare
alla dignità del Figlio di Dio incarnato, crocifisso e risorto, che si rivela
l’Unigenito del Padre.
Cristo «immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura» (Col 1,15)
proclama chi è Dio, ma ci dice anche chi è l’uomo. Egli ci rivela l’immagine dell’uomo
che Dio, nella sua ineffabile bontà, porta dentro di Sé fin dall’eternità e alla quale
vuole conformare tutti gli uomini fino a che Cristo non sia in essi formato (cfr. Gal
4,19). Perciò siamo collegati ai misteri della sua vita, resi conformi a lui, morti e
resuscitati con lui, finché con lui regneremo (cfr. Fil 3,21; 2 Tm 2,11; Ef 2,6). Ancora
pellegrini sulla terra, mentre seguiamo le sue orme nella tribolazione e nella persecuzione,
veniamo associati alle sue sofferenze, come il corpo al capo e soffriamo
con lui per essere con lui glorificati (cfr. Rm 8,17). «Chiunque segue Cristo, l’uomo
perfetto, diventa anch’egli più uomo» (GS, 41).
Questa verità si rinnova in tutti i cristiani: più aumenta la loro fede e la loro
unione con Cristo, più essi vi scorgono lo splendore del mistero di Dio, più si aprono
a un apprezzamento nuovo delle persone e degli avvenimenti, acquisendo una maggiore
consapevolezza dello splendore del loro mistero, «artefici di una umanità
nuova» (GS, 30). «Redento, infatti, da Cristo e diventato nuova creatura nello Spirito
Santo, l’uomo può e deve amare anche le cose che Dio ha creato. Da Dio le riceve,
e le guarda e le onora come se al presente uscissero dalle mani di Dio. Di esse ringrazia
il Benefattore e, usando e godendo delle creature in povertà e libertà di spirito,
viene introdotto nel vero possesso del mondo, quasi al tempo stesso niente
abbia e tutto possegga: “Tutto, infatti, è vostro: ma voi siete di Cristo, Cristo di
Dio” (1 Cor 3, 22)» (GS, 37). In Gesù Cristo, i cristiani diventano davvero segni del
Regno e amici degli uomini 2 .
In Dio l’essere umano diventa se stesso e assume la missione di rendere umana
la storia, di condividere con la creazione la libertà alla quale essa aspira (cfr. Rm
8,19 s.). Divenire se stesso, significa ricostruire la propria identità di immagine di
Dio nella creazione.
Essere figlio di Dio e divenire persona umana sono aspetti di una sola e medesima
realtà, che è tanto più umana quanto più è in unione con Dio e viceversa. Le dimensioni
divina e umana della persona non sussistono che simultaneamente; separate,
successive, giustapposte, esse non sono vere. La relazione dell’uomo con Dio non
2 Cfr. M. J. Le Guillou, Il Volto del Risorto. Grandezza profetica, spirituale e dottrinale, pastorale e
missionaria del Concilio Vaticano II, Cantagalli, Siena 2012, pp. 271-272.
49

Bonus Miles Christi
può esistere a danno dell’uomo. Là ove non c’è essere umano, non si può neanche
avere relazione con Dio. Pensarsi in Dio, significa pensarsi nella verità; volersi in
Lui, significa volersi autenticamente. Il solo essere umano che si ama veramente è
colui che non falsa la propria verità, colui che aspira sinceramente all’unità, alla
bellezza e alla bontà della propria persona nella comunione del popolo di Dio.
Ne consegue che la separazione tra Dio e l’umanità condanna l’essere umano all’incomprensione
radicale. Dio e l’essere umano costituiscono un solo e medesimo
mistero. Dio crea e unisce a sé l’umanità che divinizza e adotta. Secondo il messaggio
cristiano, la teologia è antropologia e l’antropologia è teologia: Dio e l’umanità non
possono essere pensati separatamente. Il Dio degli uomini e gli uomini di Dio sono
uniti in Gesù Cristo. Se l’essere umano non è se stesso, vero, non può riconoscere
Dio, e se non riconosce il Dio rivelato, non è se stesso e si ignora.
Tutto ciò che si riferisce a Gesù Cristo riguarda l’umanità che egli ha assunto con
l’incarnazione e nella quale è vissuto, è morto ed è stato glorificato. In questa ottica,
anche la domanda antropologica cambia. Non ci si chiede più «chi è l’essere
umano?», ma «chi è l’essere umano in Gesù Cristo e che cosa diventa in Gesù Cristo?».
Come pensare la trasformazione che la condizione umana ha subito in Lui e,
di conseguenza, quello che è in Lui lo status dell’umanità? Se l’umanità è rinviata a
Lui per conoscere e vivere la propria verità, quale visione della realtà implica un simile
modo di pensare? È un modo di pensare che non può essere compreso se non
nella prospettiva di una storia che è tutta intera di Dio e in Dio, e nella quale l’essere
umano è se stesso nel Verbo e con il Verbo «per mezzo del quale tutte le cose sono
state create» (Gv 1,3; Col 1,16-17). Questa relazione non cresce in maniera astratta;
essa viene vissuta in comunione vivente con la comunità dei credenti (cfr. GS, 22 e
RH, 2-3) motivando la speranza della «creatura nuova» (Gal 6,15).
Quanti cristiani, attraverso il loro vissuto quotidiano animato dallo stile delle
beatitudini evangeliche, mostrano nei fatti e proclamano con la parola che davvero
nel mistero di Cristo trova vera luce il mistero dell’uomo. Penso a tanti credenti che
hanno saputo scrivere storie appassionanti di questa genuina antropologia guidata
dallo spirito della Gaudium et spes.
La vocazione definitiva dell’uomo è quella divina: di conseguenza, il riferimento
a Cristo non è necessario solamente per comprendere l’uomo cristiano ma l’uomo in
generale. «[Nella persona umana] eccellono i valori dell’intelligenza, della volontà,
della coscienza e della fraternità, che sono fondati tutti in Dio creatore e sono stati
mirabilmente sanati ed elevati in Cristo» (GS, 61). Un po’ prima, però, in GS, 57, si
parla della Sapienza creatrice con probabile riferimento a Cristo e si aggiunge: «[Il
Verbo di Dio], prima di farsi carne per tutto salvare e ricapitolare in se stesso, già
era nel mondo come luce vera che illumina ogni uomo (Gv 1,9)».
Fraternità umana
Il termine fraternità sembra scomparso dal nostro vocabolario e sostituito da
quello di solidarietà. Ci si domanda se solidarietà e fraternità siano sinonimi o semplici
varianti del medesimo concetto; se il legame profondo che lega gli uni agli altri
50 Gennaio-Marzo 2013

218.
Magistero dell’Arcivescovo
e al mondo, può essere indicato indifferentemente dall’una o dall’altra parola. Pare
che parlare di solidarietà sia un “indebolimento” del termine fraternità perché si
passa dal concetto di fraternità a quello di solidarietà quando scompare dall’orizzonte
l’idea di Dio. Il concetto di fraternità cristiana può essere compreso solo in riferimento
alla parola di Dio e alla sua piena rivelazione in Gesù di Nazareth, il Figlio di
Dio. In questo orizzonte, risulta decisivo l’apporto della teologia cristologica
espressa nel Vaticano II. La fraternità, come forma di vita e come messaggio da trasmettere
all’umanità, è una logica conseguenza della confessione della paternità di
Dio.
Come la filiazione è reale (ontologica), così la fraternità, che ne deriva. In altre
parole, il principio fraternità è ontologico, prima che etico: siamo fratelli e, pertanto,
dobbiamo comportarci come fratelli. Base della fraternità è, quindi, la concezione
cristiana della persona 3 . La redenzione restituisce all’uomo la possibilità e la capacità
di riscoprire l’immagine e la somiglianza con Dio in sé e nel proprio simile; gli consente
di compiere un passo decisivo verso Dio di cui diviene figlio, gli permette di
chiamare fratello il Salvatore e di trovarsi fratello con quanti sono a lui uniti e a lui
appartengono. «Il Padre vuole che in tutti gli uomini noi riconosciamo ed efficacemente
amiamo Cristo nostro fratello, con la parola e con l’azione, rendendo così testimonianza
alla verità, e comunicando agli altri il mistero dell’amore del Padre celeste»
(GS, 93). Chiamarsi fratelli, dirsi fraternità, impegna a spendersi per l’altro,
gli altri; a costruire una storia dove ciascuno è termine della sollecitudine dell’altro,
dove il ciascuno per sé si collega al ciascuno per l’altro. «Dio, che ha cura paterna
di tutti, ha voluto che gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero tra
loro con animo di fratelli» (GS, 24 e cfr. 92). Quando amiamo, amiamo da Dio e in
Dio.
L’amore è fondamento della vita umana, e in particolare della vita cristiana, perché
Dio è amore. Perciò amare non è per l’uomo un dovere morale, è la via per essere
secondo verità, per rimanere e crescere nell’essere, esistere umanamente. L’uomo è
fatto per donarsi; perdendosi, si ritrova, superando ogni forma di individualismo ed
egoismo, rivela l’immagine di Dio e nella comunione con Cristo si realizza come vera
persona (cfr. GS, 37-38).
Opportunamente Paolo VI scriveva: «Servono uomini di pensiero capaci di riflessione
profonda, votati alla ricerca d’un umanesimo nuovo, che permetta all’uomo
moderno di ritrovare se stesso» (Populorum progressio, 20). E Papa Benedetto XVI,
riflettendo sulla mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli, afferma: «La
società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione,
da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza
civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità. Questa ha origine da
una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci
per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna» (Caritas in Veritate, 19).
3 Cfr. L. Lorenzetti, Fraternità o solidarietà? In “Rivista di teologia morale” 142 (2004) pp. 217-
51

Bonus Miles Christi
Amare l’uomo, amare Dio
La porta della fede è sempre aperta e una teologia conclusa è una contraddizione
in termini. Non si riuscirà a sondare compiutamente in lungo e in largo, in altezza
e in profondità tutto quello che si può affermare del mistero di Cristo, uomo nuovo.
Il mistero di Dio è un oceano che più si naviga e più mostra l’illimitatezza dei propri
confini. Ma tale mistero, come quello dell’uomo che ne è il riflesso, secondo la fede
cristiana si concentra in Gesù. Se consideriamo la testimonianza di Giovanni: «Io
sono la via, la verità, la vita» (14,6), non ci sorprende che Gesù resta ancora da conoscere
e da amare più a fondo, e che i secoli futuri non potranno esaurire l’infinita
ricchezza di senso che da lui riesce a sprigionarsi.
Se Dio è amore (cfr. 1 Gv 4,8) non può che volere amore. Cristo stesso è l’amore
di Dio in azione nel mondo. Chi ama veramente sa di avere a che fare con il novum,
che è la forte attrattiva del trascendente. Dio ha creato l’uomo “chiamandolo”: si
chiama una persona, un soggetto, non un oggetto. La vita umana è un continuo essere
chiamati da Dio e rispondere a lui per formare in Cristo una comunità con il
Padre. Il momento in cui l’essere non risponde a Dio, tratta Dio come un oggetto e
diventa egoista (cfr. Ef 1,4). «Abbiamo bisogno di amore, di significato e di speranza,
di un fondamento sicuro, di un terreno solido che ci aiuti a vivere con un
senso autentico anche nella crisi, nelle oscurità, nelle difficoltà e nei problemi quotidiani.
La fede ci dona proprio questo: è un fiducioso affidarsi a un “Tu”, che è Dio,
il quale mi dà una certezza diversa, ma non meno solida di quella che mi viene dal
calcolo esatto o dalla scienza (...). Penso che dovremmo meditare più spesso – nella
nostra vita quotidiana, caratterizzata da problemi e situazioni a volte drammatiche –
sul fatto che credere cristianamente significa questo abbandonarmi con fiducia al
senso profondo che sostiene me e il mondo, quel senso che noi non siamo in grado
di darci, ma solo di ricevere come dono, e che è il fondamento su cui possiamo vivere
senza paura» 4 . È Cristo la certezza liberante e rassicurante dell’esistenza umana;
Colui che aiuta la persona a: convertirsi e a innamorarsi progressivamente di Lui, ad
affidarsi a Lui; dimorare in Lui, a essere e a muoversi in Lui, a vivere Lui, per Lui;
costruire l’edificio della propria esistenza su Gesù Cristo, ossia a vivere ogni dimensione
della propria vita, compresa quella sociale. Dio e l’uomo non sono mai due
concorrenti nel campo della libertà e dell’azione, l’umanità di Gesù risalta integralmente
senza pregiudizio per la divinità vera: è il segreto di una lettura teologica
della Gaudium et Spes.
«Il nostro umanesimo si fa cristianesimo, e il nostro cristianesimo si fa teocentrico;
tanto che possiamo altresì enunciare: per conoscere Dio (…) quel Dio “dal
Quale allontanarsi è cadere, al Quale rivolgersi è risorgere, nel Quale rimanere è stare
saldi, al Quale ritornare è rinascere, nel Quale abitare è vivere” (S. August., Solil. 1,
1, 3; P. L. 32, 870) bisogna conoscere l’uomo» 5 .
1965.
4 Benedetto XVI, Udienza, 24 ottobre 2012.
5 Paolo VI, Allocuzione all’ultima sessione pubblica del Concilio ecumenico Vaticano II, 7 dicembre
52 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
Dinanzi a Cristo l’uomo figura come incompiuto, possibile fratello spirituale di
Cristo; perciò l’essere divino dell’umano è in divenire. Nella relazione totale a Dio
l’uomo diviene se stesso. Tale relazione non viene ad aggiungersi ma è costitutiva
non solo nel senso che io sono chiamato da Dio all’esistenza, ma anche nel senso
che io dipendo in ogni mia parte da lui, nei miei pensieri, nella volontà come nella
mia incarnazione in questo mondo. Più sono di Dio, più divento me stesso: in tale
relazione costitutiva a Dio che è mistero, anche io sono un mistero, una relazione
donata, prima ancora che assunta da me liberamente.
Gesù di Nazareth, quel singolare irripetibile uomo che duemila anni fa si dichiarò
Figlio di Dio e si propose ad un pugno di pescatori come la via alla verità e alla vita
continua ad esserlo per noi oggi? Gesù è l’ideale o è un sogno, una fiaba utopica?
Gesù, morto e risorto per noi uomini, è la verità vivente e personale, presente qui
ed ora, o è un personaggio del passato? Il Nazareno è un evento che accade nell’oggi
della storia e mi muove ad incontrare la realtà tutta intera – un evento in cui trova
risposta l’enigma – uomo, senza che il dramma della sua libertà sia svuotato - o è
solo un pretesto cui ispirare genericamente la nostra vita decisa, invece, in autonomia
da Lui? Sono gli interrogativi esistenziali della nuova evangelizzazione.
Gesù è un uomo singolare in modo del tutto straordinario. Egli è unico ed irripetibile
non come lo è ogni altro uomo. In questo senso, ognuno di noi è singolare,
perché la sua umanità è l’umanità del Figlio di Dio.
Dimorando nel nuovo Adamo, Uomo-Dio, ciascuno è reso partecipe di un’umanità
redenta, purificata, liberata dalla chiusura, dalle divisioni e dall’inimicizia nei confronti
degli altri, dal fallimento morale, implicante lo stravolgimento della propria
identità, il capovolgimento tra mezzi e fini. Secondo tale umanità l’amore al prossimo
è senza frontiere, la ricerca della giustizia è compiuta non con la volontà della vendetta
e dell’odio, ma con un animo di perdono e la volontà della riconciliazione,
imitando Dio Padre che non è nemico di nessuno dei suoi figli, non discrimina il
sole e la pioggia su buoni e cattivi (cfr. Mt 5,21-48).
Vi ringrazio per l’ascolto.
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo
53

Preghiera
per il Santo Padre Benedetto XVI
In preparazione all’Udienza speciale
con i militari italiani del 18 marzo 2013
Dio onnipotente ed eterno,
sapienza che regge l’universo,
ascolta la nostra preghiera:
custodisci con la tua bontà Benedetto XVI,
il Papa che hai scelto per noi
e che nel Tuo nome governa la Chiesa
con soave amore e luminosa verità.
Donagli vita e salute,
conservalo quale umile servitore della tua vigna,
pietra viva, preziosa davanti a Te,
perché il popolo cristiano progredisca
nella fede, nella speranza e nella carità.
Santi Pietro e Paolo,
con la predicazione e il vostro sangue
avete fondato la Chiesa che è in Roma,
fate scendere sul nostro amato Pontefice
le celesti benedizioni
perché veda realizzati i suoi santi desideri
a gloria della Trinità e per la salvezza della famiglia umana.
Amen.
54 Gennaio-Marzo 2013
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo

Omelia per la S. Messa
in occasione dell’incontro
con le famiglie dei caduti
e i feriti in missione di pace
Assisi - Santa Maria degli Angeli, 10 febbraio 2013
Gesù sulla barca della mia vita
Carissimi,
è motivo di intensa emozione per tutti noi trovarci insieme, raccolti accanto alla
Porziuncola, per la Celebrazione eucaristica. Questo luogo ricco di spiritualità e pace
vuole aiutarci a lenire le sofferenze che sopportiamo con eroica fortezza. I nostri
giovani, caduti per seminare il Vangelo della carità nel cuore della famiglia umana,
sono testimoni di una fede, che non è caratteristica soltanto della Chiesa degli inizi,
ma appartiene a ogni epoca della sua storia. Quanti cristiani, in ogni Continente,
pagano il loro amore a Cristo e al prossimo anche versando il sangue. Così i nostri
giovani hanno subito la persecuzione, hanno sperimentato l’odio, la violenza e l’assassinio.
Le letture di questa domenica presentano tre racconti di vocazione che si articolano
in modo assai armonico: Isaia evoca le circostanze dell’inizio della sua missione;
Paolo parla di se stesso e del dono di annunciare il vangelo; il racconto della pesca
miracolosa richiama la vocazione di Pietro.
Una costante di queste tre esperienze è l’incontro con Dio percepito come una
scoperta che ci trascende radicalmente.
Soffermiamoci sulla figura di Pietro,
che somiglia molto a ciascuno
di noi. Egli è affascinato da un maestro
sconosciuto, ma eloquente; impressionato
e pronto a piegarsi di
fronte a un ordine nel quale, in
fondo, non crede; sconvolto, poi,
dalla pesca miracolosa, ma ancora
più dal suo peccato.
Pietro era un uomo semplice, diretto,
un po’ brusco e anche instabile,
pronto a infiammarsi e con la
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56
Bonus Miles Christi
stessa rapidità a scoraggiarsi, allo stesso tempo appassionato e timoroso. Così com’era
seguirà Gesù, per tre anni, su un cammino in cui si moltiplicheranno incomprensioni
e malintesi tra Gesù e lui stesso. Nella notte del Giovedì Santo, dopo aver
giurato solennemente di seguire Gesù fino alla morte, lo rinnegherà. Tuttavia, Gesù
gli vuole bene. Appena Pietro lo ha tradito, lo sguardo di Gesù incrocia il suo. Gli
occhi del peccatore provano vergogna e confusione; quelli del Redentore sono un
oceano di tenerezza e dolcezza. Pietro ha compreso immediatamente fino a che
punto Gesù lo ama, nonostante il suo tradimento.
Nel Vangelo, poi, si presenta Gesù che osserva un gruppetto di pescatori stanchi,
mentre ripongono le reti e tornano a casa senza aver pescato nulla.
Gesù sale su una delle loro due barche vuote e prega Pietro di allontanarsi un po’
dalla riva. E, infatti, nel momento del fallimento, quale parola ti dà più energia e
speranza? Un comando? Un’imposizione? Un rimprovero? O non invece qualcuno che
ti prega? Anche a noi Gesù dice: Vi prego, prendete il largo, non abbiate paura dei
vostri fallimenti, delle inquietudini, delle scelte sbagliate e dei giorni che considerate
inutili, delle fragilità e dei peccati ricorrenti. Gesù desidera stare con te e sale sulla
barca della tua vita, che è vuota, pregandoti di ripartire, di ricominciare a sperare,
affidandoti un nuovo mare: «Prendi il largo e getta le reti per la pesca».
La potenza di Dio trionfa sul peccato e sulla debolezza: Non temere… per grazia
di Dio sei quello che sei e la grazia del Signore in te non è vana. Dio respira con la
sua sapienza nella tua debolezza.
A Lui confermiamo la fede, esclamando: credo in te, Signore, perché tu credi in
me; ti do fiducia perché tu mi dai fiducia; ti seguirò perché sei salito sulla barca
della mia vita.
Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
Nel brano evangelico, poi, viene annunciata
la bellezza della fraternità. L’altra
barca viene in aiuto a quella di Pietro
che è in difficoltà, per la grande quantità
di pesci: nella comunità cristiana ci si
aiuta, ci si sostiene, si riconosce il bisogno
che uno ha dell’altro e allora il
gruppo diviene una vera fraternità.
Anche noi, come gli apostoli, uniti a
Gesù diventiamo membri di una stessa
famiglia. Nel concreto riconoscimento del
bisogno dell’altro, nella condivisione
delle povertà e fragilità di ciascuno,
nell’accettare di venirsi in aiuto amabilmente
nel tempo della sofferenza, della solitudine, del lutto, il nostro stare insieme
manifesta la fraternità evangelica che consola e lenisce il dolore.
Care mamme, papà, fratelli, sorelle, spose, figli, amici, la memoria dei nostri
amati militari non deve andare perduta, perché siano orgoglio delle nostre famiglie
e modello per le nuove generazioni nel servire i più bisognosi e dimenticati.
Questi nostri fratelli, che stamane ricordiamo nella preghiera con gratitudine e
commozione, costituiscono come un grande affresco del vangelo delle Beatitudini,
vissuto sino allo spargimento del sangue. «Beati voi quando vi insulteranno e vi
perseguiteranno e, mentendo, diranno contro di voi ogni sorta di male a causa mia,
rallegratevi ed esultate, poiché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (Mt 5, 11-
12). Quanto si addicono queste parole di Cristo agli operatori di pace, mai piegati
dalla forza dell’odio e della violenza. Con il loro esempio, i nostri giovani ci ricordano
che non bisogna considerare il proprio tornaconto, il proprio benessere, la propria
sopravvivenza come valori più grandi della fedeltà al bene comune.
Resti viva la memoria di questi nostri fratelli e sia custodita come un tesoro per
la pace nel mondo. È con animo pieno di intima commozione che prego perché il Signore
ci aiuti a esprimere con uguale coraggio il nostro amore per Cristo e per coloro
che soffrono per la mancanza di pace.
Dio ti guarda, chiunque tu sia. Ti chiama per nome. Lui che ti ha fatto, ti vede e
ti capisce. Tutto ciò che c’è in te, egli lo conosce: tutti i tuoi sentimenti e i tuoi pensieri,
le tue inclinazioni, i tuoi gusti, la tua forza e la tua debolezza. Ti vede nei giorni
di gioia come nei giorni di pena. Si interessa a tutte le tue angosce e ai tuoi ricordi,
a tutti gli slanci e a tutti gli scoraggiamenti del tuo spirito; ha contato i tuoi capelli.
... Ti stringe fra le braccia e ti sostiene; ti solleva o ti ripone a terra. Contempla il tuo
volto, sia nel sorriso che nel pianto, nella salute e nella malattia. Guarda le tue mani
e i tuoi piedi con tenerezza, ascolta la tua voce, il battito del tuo cuore e perfino il
tuo respiro (Beato John Henry Newman).
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo
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Messaggio dell’Arcivescovo
ai fedeli della Chiesa Ordinariato
in occasione della
“Visita ad limina Apostolorum”
Roma, 11 febbraio 2013
Carissimi,
preceduta dalla preghiera sulla
tomba dei martiri Pietro e Paolo e dal
dialogo con i responsabili dei Dicasteri
della curia romana, venerdì 8 febbraio,
alle ore 11.00, sono stato in Visita ad
limina da Papa Benedetto XVI, insieme
ad un gruppo di vescovi del Lazio.
La visita è un’esperienza di grazia
vissuta a rotazione, ogni cinque anni,
dai vescovi del mondo che sono accolti
nell’Urbe per condividere con il Santo
Padre le soddisfazioni e le preoccupazioni
che accompagnano la loro sollecitudine
pastorale. Una tradizione che
ha le sue radici nei primi secoli della
Chiesa e che manifesta la profonda comunione
e l’affetto collegiale tra i vescovi
e il Vescovo di Roma, successore dell’apostolo Pietro.
L’incontro è stato molto intenso e ricco di commovente familiarità. Ho presentato
con semplicità al Pontefice alcune sfide della nostra Chiesa castrense, quali la pastorale
integrata, l’annuncio del Vangelo, la famiglia.
La Chiesa Ordinariato non può fare a meno di relazioni e rapporti molto stretti
con le altre Chiese, specialmente del nostro Paese. Privilegiare la formazione cristiana
del militare implica l’accompagnamento, assieme ai suoi familiari, nel percorso dell’iniziazione
cristiana, del cammino vocazionale, della maturazione nella fede e nella
testimonianza.
Il primo compito della Chiesa è l’evangelizzazione, che mira ad annunciare e testimoniare
Cristo e a promuovere in ogni ambiente e cultura il suo Vangelo di pace
e amore. Anche nel mondo militare la Chiesa è chiamata a essere sale, luce e lievito,
Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
per usare le immagini cui Gesù stesso fa riferimento, affinché le mentalità e le strutture
siano sempre più pienamente orientate alla costruzione della pace.
I militari, poi, trovano nell’odierno contesto difficoltà ad armonizzare la vita e
la residenza familiare con la sede di servizio. Ciò li induce a vivere un pendolarismo
che incide negativamente sulla vita familiare e assorbe le modeste risorse economiche
di cui si dispone. La carenza di alloggi di servizio e di unità abitative a prezzi
agevolati, le minori possibilità lavorative del coniuge nella sede di servizio, non
consentono alla famiglia di vivere unita nella stessa casa, con tutte le conseguenze
che tali situazioni possono creare.
Papa Benedetto ha ascoltato con grande attenzione facendo domande sui giovani
e le missioni internazionali. Ha, infine, affidato ai sacerdoti l’impegno di considerare
la famiglia, come luogo della trasmissione della fede e della formazione alla carità
evangelica.
In quest’Anno della fede, consegno queste riflessioni, perché ognuno con l’aiuto
del Signore contribuisca a concretizzarle nel vissuto quotidiano mediante uno stile
di interiore dedizione e retta coscienza.
Nell’invocare la protezione della Regina della pace sul nostro cammino di Chiesa,
trasmetto la benedizione del Santo Padre e il suo grande affetto per le famiglie, i
giovani e i cappellani militari.
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo
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Omelia per la S. Messa della XXI
Giornata mondiale del malato
Policlinico Militare “Celio”, 11 febbraio 2013
Farsi prossimo
Carissimi,
oggi, memoria liturgica della
Beata Vergine Maria di Lourdes, celebriamo
la XXI Giornata Mondiale
del Malato. Una giornata per i malati,
per gli operatori sanitari, per i
fedeli cristiani e per tutte le persone
di buona volontà; momento
forte di preghiera, di condivisione,
di offerta della sofferenza per il
bene della Chiesa e di richiamo per
tutti a riconoscere nel volto del fratello infermo il Santo Volto di Cristo che, soffrendo,
morendo e risorgendo ha donato la salvezza alla famiglia umana.
In questa circostanza, mi sento particolarmente vicino a ciascuno di voi, che,
nel Policlinico militare come anche nelle vostre case, vivete accanto a persone inferme
e doloranti. Non siete né abbandonati, né inutili: voi siete chiamati da Cristo,
voi siete per gli ammalati l’immagine consolatrice del Signore Crocifisso.
Nella prima lettura biblica, abbiamo ascoltato che Dio crea il mondo attraverso
la sua parola: «Dio disse: “Sia!”. E così fu. E Dio vide che era cosa buona». Dio apprezza
le cose che fa, le trova belle, ben riuscite, se ne compiace.
Ogni mattina, l’opera della creazione riprende il suo cammino nella speranza segreta
di raggiungere un grado ancora più profondo di grazia e bontà. Il dono della
creazione è un’opera che siamo chiamati a completare e far progredire. Ciò è possibile
se, come la folla a Genesaret, cercheremo di stabilire un contatto con Gesù, nostra
vita inseparabile.
Il Maestro, ricorda il Vangelo, passa accanto e ci permette di sperimentare la
gioia di essere ricreati, cioè salvati. Se la creazione è il tocco con cui Dio trae dal
nulla la bellezza e la verità di ciò che esiste, l’amicizia con Cristo implica il desiderio
di essere da lui trasformati nell’esistenza quotidiana cercando di toccare «almeno il
lembo del suo mantello». Spesso pensiamo alla creazione come a qualcosa che sta
alle nostre spalle e di cui ci sentiamo semplicemente spettatori. Essa, invece, è da-
60 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
vanti a noi ed è, soprattutto, dentro di noi. Il mondo è certamente un dono, una realtà
che richiede non solo la nostra ammirazione ma pure la nostra generosa collaborazione.
Con Gesù facciamo nuove tutte le cose.
Al cristiano, infatti, è affidata la custodia del creato, per cui dobbiamo costruire,
come Gesù, un di più di vita, condividendo le difficoltà e le fragilità degli altri.
Il tempo, la professione, i nostri sensi sono talenti da mettere al servizio di chi
è nel bisogno e nella prova, come al tempo di Gesù: «accorrendo da tutta quella regione,
cominciarono a portargli sulle barelle i malati, dovunque udivano che egli si
trovasse» (6,55).
Tanti malati non sarebbero mai arrivati da Gesù senza l’aiuto di questi anonimi
benefattori, persone che credevano che Gesù avesse operato qualche guarigione.
Portare tutti a Gesù e permettere a Gesù di incontrare le persone là dove sono, nelle
loro case, nelle città, nelle piazze, con le loro situazione concrete. Egli si lascia toccare,
guarisce; ha nel cuore la guarigione non solo di membra doloranti, ma anche
dei cuori induriti.
Carissimi, anche noi, nel corpo e nello spirito, siamo malati in attesa di guarigione.
Spesso siamo increduli e duri di cuore, ma Gesù vuole guarirci, essere tra noi,
vicino a noi. Ogni giorno, quando lo chiamiamo e lo invochiamo ci viene incontro e
ci guarisce trasformandoci in Samaritani.
Coloro che nel Vangelo aiutano i malati ad andare da Gesù siete voi operatori sanitari,
volontari, familiari che assistete malati e anziani di casa, autentici benefattori
che alleviano le sofferenze altrui e quindi dello stesso Gesù sofferente. Voi siete i
Samaritani del Vangelo.
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62
Bonus Miles Christi
Non riceveremo premi particolari, non saremo insigniti di titolo, né il nome comparirà
su targhe commemorative, ma il Signore che vede nel segreto è prodigo nel
ricompensare, oggi con la gioia di aver costruito un mondo più giusto e più umano,
domani con la pienezza della sua vita eterna.
Celebriamo questa santa Messa fissando lo sguardo sulle reliquie del Beato Papa
Giovanni Paolo II, grande Pastore che noi tutti portiamo nel cuore.
Quel corpo vigoroso, abituato al lavoro manuale, instancabile nelle solenni liturgie,
avvezzo alle fatiche dei viaggi, è innalzato agli occhi del mondo come icona
gemella del Crocifisso.
Un viandante indomito, mendicante della pace, custode della dignità dell’uomo,
in cammino anche sotto il peso della malattia, il simbolo eloquente del Suo Pontificato,
che, proprio per questo, si è caratterizzato come stupore per le nuove generazioni
desiderose di traguardi compassionevoli e pacificanti.
Non è stato lui a parlare del dolore, ma Dio ha parlato in Lui con le sue sofferenze
e infermità accolte con santa perseveranza. La sua è stata un’esperienza di fede così
forte, piena e intensa, nel corso del Suo instancabile ministero, per cui ora vede e
tocca il Signore, congiunto com’è al nostro unico Salvatore.
Affidiamo questa Giornata Mondiale del Malato all’intercessione della Vergine di
Lourdes, perché accompagni l’umanità sofferente, in cerca di sollievo e di ferma speranza;
aiuti tutti coloro che sono coinvolti nell’apostolato della misericordia a diventare
dei buoni Samaritani per i loro fratelli e sorelle provati dalla malattia e dalla
sofferenza.
Vegli Maria su tutti gli abitanti della nostra Nazione e particolarmente sulla nostra
famiglia militare, sia maestra di fede, speranza e carità, e con il suo sorriso materno
brilli su di noi e ci guidi nel nostro cammino.
Gennaio-Marzo 2013
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo

Dichiarazione
Ordinariato militare, 12 febbraio 2013
Ricevuto in Udienza, venerdì scorso, per la Visita ad limina, porto nel cuore lo
sguardo luminoso e l’incoraggiamento paterno di Papa Benedetto: “Porti, eccellenza,
la mia benedizione ai familiari dei giovani caduti al servizio del bene e a tutti i
feriti. I militari sappiano testimoniare il Vangelo dell’amore a Dio e ai fratelli”.
Ancora segnato da queste parole, la rinuncia del Santo Padre ha provocato in me e
nei fedeli militari uno stato d’animo addolorato e smarrito. Ci siamo sentiti orfani
di un padre così umanamente attento e divinamente vicino.
La Chiesa castrense accoglie con fede la volontà del Papa, ammirando il suo straordinario,
originale e profondo Pontificato. Anche le dimissioni sono un atto di governo
nel quale si manifesta chiaramente come Egli ama la Chiesa più di se stesso.
Noi credenti abbiamo posto i nostri passi sui suoi, le mani nelle sue, il cuore nel
suo cuore. Papa Benedetto è un dono straordinario di Dio per l’umanità smarrita, un
profeta radicato sulla roccia della verità evangelica, un discepolo di Gesù, da lasciare
meno solo, da continuare ad amare e ascoltare in una comunione interiore fatta di
filiale affetto e devota obbedienza.
Trasfigurato dallo Spirito Santo, nell’aula del conclave, con la Sua elezione, il
Successore di Pietro non ci lascia soli ma con soave determinazione e una grazia
speciale continuerà a scandagliare le profondità del mistero, fecondando la Chiesa
nel santo riposo dell’orazione continua.
La sproporzione tra il vigore spirituale e l’umana debolezza fisica, accolta nel
nome del Signore, arricchirà la Chiesa di particolari benedizioni divine.
Nel monastero sul colle vaticano, come Mosè sul monte, Papa Benedetto continuerà
ad essere luce e sale, lievito e granello, e, nella serenità più piena si abbandonerà
al Padre buono per sostenere la santità della famiglia umana.
In quest’Anno della fede, l’augurio è di imparare dal Sommo Pontefice ad accettare
le nostre fragilità, attraversare la prova della morte dei nostri progetti, per poter
essere liberi e autentici annunciatori del Vangelo nei modi e nei luoghi che Dio vorrà.
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo
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Messaggio in occasione del ricordo
del primo caporal maggiore
Sebastiano Ville
Francofonte, 16 febbraio 2013
Seme di vita
Carissimi,
con fraterna commozione mi unisco alla vostra preghiera. Esprimo affetto e vicinanza
alla famiglia Ville, riconoscente comunione a don Giovanni Salvia, capo servizio
della zona pastorale.
Mentre saluto cordialmente il Generale Corrado Dalzini, le Autorità civili e militari,
ringrazio i presenti, particolarmente gli organizzatori di questo evento.
Il passo del Vangelo ascoltato è molto significativo per il nostro incontro. Gesù
sale a Gerusalemme in occasione della festa di Pasqua. Ci sono alcuni Greci che
vanno da Filippo e gli dicono: «Vogliamo vedere Gesù, vogliamo conoscerlo». È una
domanda che anche noi dovremmo porci. Infatti, abbiamo sempre bisogno di accostare
Gesù, volergli bene, perché non si finisce mai di conoscere e amare il Signore.
Ogni giorno dovremmo sentirci sorgere dentro più vivo questo desiderio: vedere Gesù.
«In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore
rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Il chicco di frumento
è lui stesso: Gesù. La vitalità di quel seme sepolto è prodigiosa. La legge del
seme è quella di morire per moltiplicarsi: non ha altro senso, altra funzione che questa:
è un servizio alla vita. Per Gesù amare è servire e servire è scomparire nella vita
degli altri, morire per far vivere. Ogni dono di sé è una semina di amore che fa nascere
amore.
Di fronte a chi vuole incontrarlo, Gesù parla della sua morte. Anche noi ti vogliamo
vedere, Gesù, in quest’ora in cui, come seme, affondi nella terra del nostro
dolore e germogli in una speranza di messe abbondante. Tu sveli come è dolce morire
per chi ama e si dona con gioia. Perdere la vita con te e per te è trovarla. Allora
anche il pianto fiorisce in sorriso. Chi ha una ragione per vivere ha anche una ragione
per morire.
«Se il chicco di grano non muore, rimane solo; se muore produce molto frutto».
La parola centrale non è morire, ma molto frutto. Lo sguardo è sulla fecondità. Vivere
è dare vita. Essere attaccati alla propria vita è invece distruggersi. Non dare è già
morire.
Per questo mi farò chicco di grano caduto, lontano dal clamore e dal rumore, nel
64 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
silenzio della terra umana, seminato nel mio quotidiano, senza smania di visibilità
e di apprezzamenti.
Seguire Gesù è seguirlo ogni giorno nella via dell’amore e della donazione di sé.
Questa logica libera dall’egoismo, dall’affermazione di sé a scapito degli altri, dal
vedere sempre e solo se stessi.
Cara famiglia Ville, nella vostra casa, Sebastiano ha imparato quella “grammatica”
che ogni bambino apprende dai gesti e dagli sguardi della mamma e del papà, prima
ancora che dalle loro parole.
L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane un essere incomprensibile, la
sua vita è priva di senso se non gli viene rivelato l’amore, se non lo sperimenta e
non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente nel dono sincero di sé, perché non
esiste amore senza sacrificio.
Ma com’è possibile imparare ad amare e a donarsi generosamente? Niente muove
tanto ad amare quanto il sapersi amati.
Cari genitori, proprio voi avete insegnato quell’amore gratuito, disinteressato e
generoso, che Sebastiano ha manifestato nella professione militare, perché educato
a quegli slanci di solidarietà creativa, capaci di allargare il cuore, verso le necessità
dei deboli e fare quanto concretamente possibile per venire loro in soccorso.
Vieni, amico dei bambini...
Tu, soldato senza fucile,
armato solo d’amore,
vieni sulle mie strade
e rendile strade di pace e non di guerra.
Prendimi per mano,
quando sono sofferente, smarrito, dilaniato dell’odio e dal dolore;
senza né casa, né pane, né sorriso…
Conducimi dove i campi biondeggiano di grano
e i fiori profumano di bontà.
Non ci lasciare soli, tienici stretti!
Per noi hai lasciato tutto, ma non sei solo,
sei nel nostro cuore, in una terra che è diventata tua.
Fratello, amico, padre,
continua a seminare speranza,
a donare la tua preziosa vita,
armato solo dell’Amore.
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo
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Omelia per la S. Messa
con i Granatieri di Sardegna
Roma - Basilica S. Maria degli Angeli, 19 febbraio 2013
Dio Padre, al primo posto
Carissimi,
la Quaresima è un tempo favorevole per riscoprire la fede in Dio come criteriobase
della nostra vita. Ciò comporta sempre una lotta, un combattimento spirituale,
perché lo spirito del male si oppone naturalmente alla nostra santificazione e cerca
di farci deviare dalla via di Dio. Nel Vangelo di oggi, Gesù ci consegna la preghiera
del Padre nostro. Come figli di Dio, nostro padre, non dobbiamo aver paura ma affrontare
ogni difficoltà assieme a Gesù, il vincitore.
Pregare è per molti cristiani una difficile impresa. C’è chi dice che la preghiera
non serve o che lavorare è pregare; chi l’accantona scusandosi di non trovare il
tempo e chi riconosce la difficoltà come reale, ma evita di affrontarla perché non sa
cosa dire. Non mancano neppure, fra i più devoti, coloro che «sprecano parole come
i pagani», perché si accaniscono a domandare cose buone solo in apparenza.
Gesù sposta il centro del problema: non si tratta di pregare per vedere realizzati
determinati bisogni e desideri, ma per scoprire che Dio è Padre e chiama alla comunione
d’amore con lui e con tutti gli uomini. Pregare non è più questione di cose da
dire, bensì di innamoramento, che si esprime nelle parole, ma anche nel silenzio, e
progressivamente avvolge l’intera esistenza rendendola lode incessante al Creatore.
Voi pregate così: «Padre nostro». Forse l’uomo d’oggi non percepisce la bellezza,
la grandezza e la consolazione profonda contenute nella parola «padre» con cui possiamo
rivolgerci a Dio nella preghiera, perché la figura paterna oggi non è sufficien-
Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
temente presente, spesso non è sufficientemente positiva nella vita quotidiana. L’assenza
del padre nella vita del bambino è un grande problema del nostro tempo, perciò
diventa difficile capire nella sua profondità cosa vuol dire che Dio è Padre per noi.
Da Gesù stesso, dal suo rapporto filiale con Dio, possiamo imparare che cosa significhi
propriamente «padre», intuire la vera paternità, che è libertà dalla chiusura,
dall’autosufficienza, dall’egoismo.
L’originalità del Padre nostro non sta nelle singole petizioni, quanto nel rapporto
filiale con Dio che traspare dalla preghiera di Gesù e da tutta la sua vita, e che egli
comunica ai discepoli. Gesù dispone le invocazioni secondo un ordine che conferisce
un tono nuovo alla preghiera: le prime tre sono orientate al compimento della volontà
del Padre, le altre quattro riguardano l’uomo e le sue necessità presenti. Eternità
e tempo, gloria di Dio e vita dell’uomo sono l’orizzonte dell’esistenza cristiana
e l’oggetto di ogni orazione che fiorisce nel segreto di un cuore puro. Senza preghiera,
in realtà, Dio diventa secondario, si riduce a un mezzo, in definitiva diventa
irreale, non conta più, svanisce. In ultima analisi, chi non prega mette in discussione
la propria fede, perché mette in gioco Dio. Ma noi vogliamo seguire l’io o Dio? L’interesse
individuale oppure il vero Bene, ciò che realmente è bene?
Nel Padre nostro, il Signore mette in guardia da due pericoli: l’ostentazione e la
moltiplicazione di parole. Il Maestro insegna a pregare con due caratteristiche: l’intimità
e l’essenzialità. La preghiera può veramente essere una guarigione, semplice ed
efficace, per il nostro cuore, perché aiuta a ricomporre quotidianamente la nostra relazione
filiale con un «Padre nostro». Ciò rimanda continuamente al mistero di figliolanza
e a quello, consequenziale ed essenziale, della nostra fraternità. Ne consegue
che la preghiera si concluda con una consegna di serena relazione: «Se voi infatti perdonerete
agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi».
Siamo, così, per grazia divina liberati dal male, noi che abbiamo vergogna di essere
cristiani o che, al contrario, facciamo della fede cristiana l’insegna della superiorità
e del disprezzo; noi che parliamo di Dio e siamo troppo spesso così poco
umani; noi che facciamo così in fretta a parlare d’amore e non sappiamo rispettarci
reciprocamente.
La preghiera del Padre nostro – come indica Papa Benedetto – aiuta a superare
la tentazione di sottomettere Dio a sé e ai propri interessi o di metterlo in un angolo.
Convertiamoci al giusto ordine di priorità, dando a Dio il primo posto nella vita personale,
familiare e sociale. “Convertirsi”, un invito che ascolteremo molte volte prima
di Pasqua, significa seguire Gesù in modo che il suo Vangelo sia guida concreta della
vita; significa lasciare che Dio, nostro Padre, ci trasformi; smettere di pensare che
siamo noi gli unici protagonisti e costruttori della nostra storia; significa riconoscere
che siamo figli, che dipendiamo da Dio, dal suo amore, e soltanto «perdendo» la
vita, cioè donandola, possiamo guadagnarla. Questo significa aprirsi alla scoperta
della fede con la preghiera desiderata e concretamente vissuta, sentendo il bisogno
di andare in chiesa, stare in ginocchio e chinare il capo dinanzi al Crocifisso in un’atmosfera
di ascolto.
Dice il salmista: «Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore
mi ha raccolto» (Sal 27,10). Dio è un Padre che non abbandona mai i suoi figli, un
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Bonus Miles Christi
Padre amorevole che sorregge, aiuta, accoglie, perdona, salva, con una fedeltà che
sorpassa immensamente quella degli uomini, per aprirsi a dimensioni di eternità.
La fede ci dona questa certezza, che diventa una roccia sicura nella costruzione
della nostra vita: noi possiamo affrontare tutti i momenti di difficoltà e di pericolo,
l’esperienza del buio della crisi e del tempo del dolore, sorretti dalla fiducia che Dio
non ci lascia soli ed è sempre vicino, per renderci felici e portarci alla vita eterna.
Carissimi, «se sei paziente, pregherai sempre con gioia. A volte, non appena ti
sarai messo a pregare, pregherai bene; a volte, invece, nonostante grandi sforzi, non
raggiungerai il fine. È perché tu cerchi ancor di più e, dopo aver ottenuto il risultato,
tu l’abbia al sicuro da qualsiasi furto. Se desideri pregare, rinuncia a tutto per ottenere
tutto.
Prega innanzitutto per essere purificato dalle passioni, e in secondo luogo per
essere liberato dall’ignoranza e dalla dimenticanza, in terzo luogo da ogni tentazione
e desolazione.
Se vuoi pregare, hai bisogno di Dio che dona la preghiera a chi prega (1Sam 2,9).
Invocalo dunque dicendo: Sia santificato il tuo Nome, venga il tuo Regno (Mt 6,9-
Io), cioè lo Spirito santo e il suo Figlio unigenito. Così, infatti, ha insegnato il Signore,
dicendo di adorare il Padre in spirito e verità (Gv 4,24).
Nel tempo delle tentazioni ricorri a una preghiera breve e intensa.
Al momento della preghiera prega non al modo del fariseo, ma al modo del pubblicano
nel sacro luogo della preghiera per essere anche tu giustificato dal Signore.
Lotta per non pregare contro qualcuno; sarebbe demolire quello che vuoi edificare
e rendere la tua preghiera abominevole» (cfr. Evagrio Pontico, Trattato sulla preghiera).
Gennaio-Marzo 2013
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo

Conversazione con i docenti
Firenze - Scuola di formazione A.M. “G. Douhet”, 21 febbraio 2013
Educatori di carità nella verità
La desertificazione spirituale
In questi decenni è avanzata una “desertificazione” spirituale. A partire dall’esperienza
di questo deserto, da questo vuoto possiamo nuovamente scoprire la gioia di
credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne. Nel deserto si riscopre il
valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli
i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del
senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che,
con la loro stessa vita, indicano la via verso la Terra promessa e tengono desta la
speranza. La fede vissuta apre il cuore alla grazia di Dio che libera dal pessimismo
e invita a testimoniare una vita nuova.
A nessuno sfugge il distacco che si costata in molti tra la fede che professano e
la vita quotidiana, ma anche l’indifferenza, l’agnosticismo e l’ateismo che non consentono
di giungere a una risposta sul senso della vita.
L’assenza di Dio nella nostra società si fa più pesante e la storia della sua rivelazione,
di cui parla la Scrittura, sembra collocata in un passato lontano, ma non
bisogna cedere alla pressione della secolarizzazione. La fede deve essere ripensata
e soprattutto rivissuta in modo nuovo per diventare una realtà che appartiene al
presente. Ma non è l’annacquamento
della fede che aiuta, bensì il viverla
interamente nel nostro oggi. Dobbiamo
aiutarci a credere in modo più
profondo e vivo. Non saranno le tattiche
a salvarci, a salvare il cristianesimo,
ma una fede mediante la
quale Cristo, e con Lui il Dio vivente,
entri in questo nostro mondo.
Viviamo, perciò, nella sequela di
Cristo, per un mutamento interiore
dell’esistenza. Ciò richiede che non
sia più chiuso nel mio io, considerando
l’autorealizzazione la ragione
principale della mia vita. Richiede
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Bonus Miles Christi
che io mi doni liberamente e gratuitamente. Si tratta della decisione fondamentale
di non considerare l’utilità e il guadagno, la carriera e il successo come scopo ultimo
della mia vita, ma riconoscere come criteri autentici la verità e l’amore. Seguendo
Gesù entro nel servizio della verità e dell’amore. Perdendomi in Gesù mi ritrovo nell’amore.
È importante, pertanto, che si riprenda il primato del mistero che trasforma e
converte non tanto per dimostrare primariamente l’esistenza di Dio ma anzitutto per
mostrare come senza la sua presenza e vicinanza l’uomo diventa estraneo a se stesso.
Testimoni di verità
Ci sentiamo uniti a quella catena di uomini e donne che si sono impegnati a proporre
e a far stimare la fede davanti all’intelligenza degli uomini. E il modo di farlo
non consiste solo nell’insegnarlo, ma nel viverlo, incarnarlo. I giovani hanno bisogno
di autentici maestri, persone aperte alla verità totale nei differenti rami del sapere,
ascoltando e vivendo al proprio interno un dialogo interdisciplinare; persone convinte,
soprattutto, della capacità umana di avanzare nel cammino verso la verità.
La gioventù è tempo privilegiato per la ricerca e l’incontro con la verità. Come
insegna Platone: Cerca la verità mentre sei giovane, perché se non lo farai, poi ti
scapperà dalle mani.
Cari docenti, questa alta aspirazione è la più preziosa da trasmettere in modo
personale e vitale ai vostri studenti, a cui non bastano semplicemente alcune tecniche
strumentali e anonime o freddi dati, usati in modo funzionale.
Vi incoraggio a non perdere mai questa sensibilità e quest’anelito per la verità;
a non dimenticare che l’insegnamento non è un’arida comunicazione di contenuti,
bensì una comunicazione del cuore con la quale suscitare sete di verità e ansia di
giustizia.
Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
Abbiamo bisogno, specialmente i nostri ragazzi, adolescenti e giovani, di vivere
la fede come gioia, assaporando quella serenità profonda che nasce dall’incontro con
il Signore. La fonte della gioia cristiana è la certezza di essere amati da Dio, amati
personalmente dal Creatore, da Colui che tiene nelle mani l’universo, che ama ciascuno
e tutta la famiglia umana con amore appassionato e fedele, un amore più
grande delle nostre infedeltà, un amore che perdona e apre alla speranza.
Pedagoghi del desiderio
Sarebbe di grande utilità, promuovere oggi una pedagogia del desiderio, che comprende
almeno due aspetti. In primo luogo, imparare il gusto delle gioie autentiche
della vita. Non tutte le soddisfazioni producono in noi lo stesso effetto: alcune lasciano
una traccia positiva, sono capaci di pacificare l’animo, ci rendono più attivi
e generosi. Altre, dopo la luce iniziale, sembrano deludere le attese che avevano suscitato
e lasciano amarezza, insoddisfazione o un senso di vuoto.
Educhiamo sin dalla tenera età ad assaporare le gioie vere, in tutti gli ambiti
dell’esistenza (la famiglia, l’amicizia, la solidarietà con chi soffre, la rinuncia al proprio
io per servire l’altro, l’amore per la conoscenza, per l’arte, per le bellezze della
natura). Esercitare il gusto interiore contro la banalizzazione e l’appiattimento tanto
diffusi. Gli adulti hanno bisogno di riscoprire realtà autentiche, purificandosi dalla
mediocrità nella quale possono trovarsi invischiati. Diventerà, così, più facile lasciar
cadere o respingere ciò che, pur apparentemente attrattivo, si rivela fonte di assuefazione
e non di libertà.
Un secondo aspetto è non accontentarsi di quanto si è raggiunto. Le gioie più
vere sono capaci di liberare in noi quella sana inquietudine che porta ad essere più
esigenti – volere un bene più alto, più profondo – e insieme a percepire con maggiore
chiarezza che nulla di finito può colmare il nostro cuore. Impareremo così a fissare
quel bene che non possiamo costruire o procurarci con le nostre forze; a non lasciarci
scoraggiare dalla fatica o dagli ostacoli che vengono dal male e dal peccato.
A riguardo, però, non dobbiamo dimenticare che il dinamismo del desiderio è
sempre aperto alla speranza, anche
quando si inoltra su cammini sviati
e perde la capacità di aspirare al
vero bene. Anche nell’abisso del
peccato non si spegne nell’uomo
quella scintilla che gli permette di
riconoscere il bene, assaporarlo e
avviare un percorso di risalita, al
quale Dio, con il dono della grazia,
non fa mancare il suo aiuto. Tutti,
del resto, abbiamo bisogno di percorrere
un cammino di purificazione
e di guarigione del desiderio. Siamo
pellegrini verso quel bene, eterno,
che nulla ci potrà più strappare.
71

Bonus Miles Christi
Non si tratta, dunque, di soffocare il desiderio che è nel cuore dell’uomo, ma di liberarlo,
affinché possa raggiungere la sua vera altezza.
«Con l’attesa, Dio allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l’animo e dilatandolo
lo rende più capace» (sant’Agostino).
Tre motivi di speranza
Il primo motivo consiste nel fatto che il desiderio di Dio, la ricerca di Dio è profondamente
scritta in ogni anima umana e non può scomparire. Certamente, per un
certo tempo, si può dimenticare Dio, accantonarlo, occuparsi di altre cose, ma Dio
non scompare mai. Noi uomini siamo inquieti finché non abbiamo trovato Dio. Questa
inquietudine anche oggi esiste. È la speranza che l’uomo sempre di nuovo, anche
oggi, si ponga in cammino verso questo Dio.
Il secondo motivo di speranza consiste nel fatto che il Vangelo di Gesù Cristo, la
fede in Cristo è semplicemente vera. E la verità non invecchia. Anch’essa si può dimenticare
per un certo tempo, si possono trovare altre cose, la si può accantonare,
ma la verità come tale non scompare. Le ideologie hanno un tempo contato. Sembrano
forti, irresistibili, ma dopo un periodo si consumano, non hanno più forza,
perché manca loro una verità profonda. Sono particelle di verità, ma alla fine si sono
consumate.
Il Vangelo è verità e non si consuma mai. In tutti i periodi della storia appaiono
sue nuove dimensioni, appare tutta la sua novità, nel rispondere alle esigenze del
cuore e della ragione umana che può camminare in questa verità e trovarvisi. E perciò,
proprio per questo motivo, sono convinto che ci sia anche una nuova primavera
del cristianesimo.
Un terzo motivo lo vediamo nel fatto che l’inquietudine è presente nella gioventù.
I giovani hanno visto ideologie e consumismo, ma ne colgono il vuoto e l’insufficienza.
L’uomo è creato per l’infinito. Tutto il finito è troppo poco. Vediamo, così,
nelle nuove generazioni, l’attenzione alla bellezza del cristianesimo; un cristianesimo
non a prezzo moderato, non ridotto, ma nella sua radicalità e profondità.
Dovremmo meditare più spesso, nella nostra vita quotidiana, caratterizzata da
problemi e situazioni a volte drammatiche, sul fatto che credere cristianamente significa
abbandonarci con fiducia al senso profondo che sostiene noi e il mondo, quel
senso che non siamo in grado di darci, ma solo di ricevere come dono e che è il fondamento
su cui possiamo vivere senza paura. E questa certezza liberante e rassicurante
della fede dobbiamo essere capaci di mostrarla con la nostra vita di cristiani.
La vita non è governata dalla sorte, ma voluta da Dio, benedetta da lui e a essa
è stato dato un progetto di vero, di bene e di bello.
Grazie per l’ascolto.
72 Gennaio-Marzo 2013
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo

Conversazione con gli allievi
Firenze - Scuola di formazione A.M. “G. Douhet”, 21 febbraio 2013
Seminatori di speranza
Carissimi,
in una società e in una cultura, dove il relativismo è diventato una sorta di certezza,
si considera pericoloso parlare di verità e si finisce per dubitare della bontà
della vita. È bene essere uomo? È bene vivere? Sono validi i rapporti e gli impegni
che costituiscono la vita? Come sarebbe possibile, allora, proporre ai più giovani e
trasmettere di generazione in generazione qualcosa di valido e di certo, delle regole
di vita, un autentico significato e convincenti obiettivi per l’umana esistenza, sia
come persone sia come comunità?
Il relativismo, dando valore indiscriminatamente a tutto, ha reso l’ “esperienza”
importante più di tutto. In realtà, le esperienze, staccate da ogni considerazione di
ciò che è buono o vero, possono condurre non ad una genuina libertà, bensì ad una
confusione morale o intellettuale, ad un indebolimento dei principi, alla perdita
dell’autostima e persino alla disperazione.
I giovani, perciò, messi ai margini e spesso abbandonati a se stessi, sono fragili
e devono affrontare da soli una realtà che li supera.
Giovani in difficoltà
I ragazzi e i giovani sono l’avvenire. Penso a loro quando la cronaca riferisce episodi
di violenza giovanile o la stampa riporta incidenti stradali. Sembra si affievoliscano
tra le giovani generazioni i valori naturali e cristiani che danno significato
al vivere quotidiano e formano ad una visione della vita aperta alla speranza; emergono
desideri, passaggi e attese non durature, che alla fine generano noia e falli-
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Bonus Miles Christi
menti. Banalizzando il valore della vita ci si rifugia nella trasgressione, nella droga
e nell’alcool, diventati per taluni rito abitudinario del fine settimana. Persino l’amore
rischia di ridursi ad “una semplice cosa che si può comprare e vendere” e “anzi
l’uomo stesso diventa merce”.
Davanti al vuoto che tenta in maniera crescente il mondo giovanile, occorre impegnarci
in iniziative serie, che permettano loro di comprendere il valore della vita,
dando la possibilità di progettare con fiducia il futuro, allontanando quella cultura
del nulla, che corrode la speranza nel cuore, inducendo a pensare che non esiste
nulla prima della nascita, nulla dopo la morte.
Penso, perciò, a tanti giovani feriti dalla vita, condizionati da una fragilità personale
che è spesso conseguenza di un vuoto familiare, di scelte educative permissive
e di esperienze negative e traumatiche. Per alcuni lo sbocco quasi obbligato è
una fuga verso comportamenti a rischio, violenti, e verso forme di disagio giovanile.
Cristo vive in me
Oggi non pochi giovani dubitano profondamente che la vita sia un bene e nelle
difficoltà si chiedono: io che cosa posso fare? Di qui il desiderio di cercare Gesù.
La luce della fede in Lui illumina ogni oscurità, fa comprendere che l’esistenza
ha un valore inestimabile, perché frutto dell’amore di Dio, che ama anche chi si è
allontanato da Lui o lo ha dimenticato.
Chiediamoci: cosa vuole Dio da me? Qual è il suo disegno sulla mia vita? Non potrei
spendere tutta la mia vita nella missione di annunciare al mondo la grandezza
del suo amore attraverso il sacerdozio o il matrimonio?
Riflettete: chi si è avvicinato a Gesù e ha fatto esperienza del suo amore vuole
subito condividere la bellezza di questo incontro e la gioia che nasce dalla sua amicizia.
Più conosciamo Cristo, più desideriamo annunciarlo. Più parliamo con Lui, più
desideriamo parlare di Lui. Più ne siamo conquistati, più desideriamo condurre gli
altri a Lui.
L’incontro con Cristo rinnova i rapporti umani, orientandoli, di giorno in giorno,
alla solidarietà e fraternità, nella logica dell’amore. Avere fede nel Signore non è un
fatto che interessa solamente la nostra intelligenza, l’area del sapere intellettuale,
ma è un cambiamento che coinvolge la vita, noi stessi: sentimento, cuore, intelligenza,
volontà, corporeità, emozioni, relazioni.
La fede è la forza trasformante nella mia vita? La fede in un Dio che è amore
aiuta a capire che solo nell’amore consiste la pienezza dell’uomo. La fede afferma
che non c’è vera umanità se non nei luoghi, nei gesti, nei tempi e nelle forme in cui
l’uomo è animato dall’amore che viene da Dio, si esprime come dono, si manifesta
in relazioni ricche di compassione e di servizio disinteressato. Dove c’è dominio,
possesso, sfruttamento, mercificazione dell’altro per il proprio egoismo, dove c’è
l’arroganza dell’io chiuso in se stesso, l’uomo viene impoverito, degradato, sfigurato.
La fede è credere a questo amore di Dio che non viene meno di fronte alla malvagità,
al male e alla morte, ma è capace di trasformare ogni schiavitù, donando
salvezza. Avere fede, allora, è incontrare questo “Tu”, Dio, che mi sostiene e mi ac-
Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
corda la promessa di un amore indistruttibile che non solo aspira all’eternità, ma la
dona; è affidarmi a Dio con l’atteggiamento del bambino, il quale sa bene che tutte
le sue difficoltà, tutti i suoi problemi sono al sicuro nel “tu” della madre.
Carissimi, non lasciatevi ingannare da quanti vedono in voi semplicemente dei
consumatori in un mercato di possibilità indifferenziate, dove la scelta in se stessa
diviene il bene, la novità si contrabbanda come bellezza, l’esperienza soggettiva
soppianta la verità.
Cristo offre tutto. Come cristiani, voi siete in questo mondo sapendo che Dio ha
un volto umano, Gesù Cristo, è la “vita” della quale siamo chiamati a dare testimonianza,
camminando sempre nella sua luce.
Certo il compito di testimone non è facile. Vi sono molti che pretendono che Dio
debba essere lasciato “in panchina”
e che la religione e la fede, per
quanto accettabili sul piano individuale,
debbano essere o escluse dalla
vita pubblica o utilizzate solo per
perseguire interessi soggettivi. Questa
visione tenta di spiegare la vita
umana e di plasmare la società con
pochi o nessun riferimento al Creatore.
Quando Dio viene eclissato, la
nostra capacità di riconoscere l’ordine
naturale, lo scopo e il “bene”
comincia a svanire. Ciò che ostentatamente
è stato promosso come
umana ingegnosità si è ben presto manifestato come follia, avidità e sfruttamento
egoistico.
Al contrario le preoccupazioni per la non violenza, lo sviluppo sostenibile, la giustizia
e la pace, la cura del nostro ambiente sono di vitale importanza per l’umanità.
Tutto ciò non può però essere compreso a prescindere da una profonda riflessione
sull’innata dignità di ogni vita umana dal concepimento fino alla morte naturale,
una dignità che è conferita da Dio stesso e perciò inviolabile. Il nostro mondo si è
stancato dell’avidità, dello sfruttamento e della divisione, dei falsi idoli, di risposte
parziali e della pena di false promesse. Il nostro cuore e la nostra mente anelano ad
una visione della vita dove regni l’amore, dove i doni siano condivisi, dove si edifichi
l’unità, dove la libertà trovi il proprio significato nella verità, e dove l’identità sia
trovata in una comunione rispettosa. Questa è la speranza offerta dal Vangelo di
Gesù Cristo.
Così, oggi, io vorrei dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo. Egli non
toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate
le porte a Cristo e troverete la vera vita. Amen (cfr. Benedetto XVI).
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo
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Testimoni della fede
nel mondo militare:
Don Giuseppe Gabana
Soldato di Cristo
«Cappellano militare presso la sesta Legione “Giulia” nel corso dell’ultimo conflitto
mondiale, con eccezionale spirito di sacrificio, alto senso del dovere ed abnegazione,
svolse un’encomiabile opera di conforto e di soccorso in favore dei tanti
finanzieri impegnati in aspre lotte per la difesa ed il mantenimento dell’ordine pubblico.
Si prodigò, inoltre, nell’attività di assistenza ed aiuto nei confronti della popolazione
civile, in particolar modo degli ebrei. Ritenuto un possibile pericolo per i
principi della dottrina marxista, anche in relazione al suo ministero, venne assalito
e ferito mortalmente dai sostenitori degli slavo-comunisti, immolando la vita ai più
nobili ideali di cristiana solidarietà. Trieste, 1941/1944». Recita così il decreto, datato
18 giugno 2008, con cui il Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano,
ha conferito la Medaglia
d’Oro al Merito Civile “alla memoria”
del tenente Giuseppe Gabana, Cappellano
Militare della Legione Guardia
dì Finanza di Trieste.
Gennaio-Marzo 2013
Ma chi era don Gabana?
Don Giuseppe Gabana nacque a
Carzago della Riviera (Brescia) il 26
aprile 1904, figlio di Giovanni e di
Maddalena Bigotti, genitori di altri
sette figli. A 24 anni fu ordinato sacerdote
destinato dapprima a Pezzaze
ed in seguito alla parrocchia di
Gazzane, frazione di Roè Volciano,
dove viveva la sua famiglia. Alla fine
di novembre del 1935, fu assunto,
come volontario, in temporaneo servizio
come “Cappellano Militare di
mobilitazione con assimilazione al
grado di Tenente” per seguire i soldati
italiani inviati a combattere in

Magistero dell’Arcivescovo
Etiopia. Raggiunse Mogadiscio nel gennaio del 1936. Dopo essere stato impiegato
in un ospedale da campo, chiese ed ottenne di essere inviato con i reparti combattenti
in prima linea dove venne ferito mentre prestava aiuto ai militari colpiti, e
per questo fu insignito della Medaglia di Bronzo al valor militare, prima, e della
Croce di guerra, poi. Alla fine del conflitto rientra in Italia, e il 24 aprile del 1937,
fu destinato al Presidio Militare di Villa del Nevoso (Fiume), dove rimase sino allo
scoppio della seconda guerra mondiale, assistendo i soldati e le guardie di frontiera
dislocate in località disagiate del confine. Il 24 maggio 1941, don Gabana fu trasferito
nella Regia Guardia di Finanza, nominato Cappellano Militare presso la sesta
Legione “Giulia” di Trieste. In quel periodo la città viveva un momento delicato con
la Legione impegnata nel fronteggiare attacchi terroristici portati da frange slovene.
Don Gabana prestò la sua missione tra le Fiamme Gialle anche dopo l’8 settembre
1943, portando aiuto ai profughi istriani e agli ebrei triestini, perseguitati dopo
l’arrivo dei tedeschi in città. Situazione drammatica quella della comunità ebraica
triestina, composta da circa 5000 persone: con l’occupazione tedesca, i territori
della Venezia Giulia furono annessi nella cosiddetta “Adriatisches Küstenland”, una
vera e propria provincia del Reich, mentre a Trieste fu allestito un lager all’interno
dell’ex Risiera di San Sabba, munito di un forno crematorio, ove, si stima, furono
detenute circa 5.000 persone, oltre alle migliaia di vittime di passaggio verso altri
campi di sterminio del Nord-Europa. Numerosi furono i finanzieri che si prodigarono
a favore della comunità ebraica triestina e don Gabana muoveva le fila di tanta solidarietà.
Nonostante le difficoltà del momento celebrava Messa ogni giorno presso
l’Oratorio dei Salesiani, procurandosi l’odio da parte degli irredentisti slavi che ritenevano
la fede nemica della dottrina marxista. Ed è in tale contesto che va inserita
la sua morte avvenuta il 2 marzo del 1944, alla sera, quando alcuni uomini in divisa
militare “imprecisata e con volto travisato” lo prelevarono mentre era in casa. Appena
fuori dell’abitazione lo aggredirono ferocemente lasciandolo agonizzante a
terra. Il cappellano dopo due giorni di agonia si spense. Prima di morire invocò il
perdono per i suoi assassini. Con dichiarazione sottoscritta il 4 marzo 1944 dal Direttore
dell’Ospedale Militare dove fu ricoverato, la morte dei Tenente Gabana fu ritenuta
dipendente da causa di servizio e, come tale, il suo nome è stato iscritto fra
i “Caduti della Guardia di Finanza durante la seconda guerra mondiale”.
Quale è stata, nella vita di don Gabana, la testimonianza più grande?
Oggi vi è urgenza di uomini che, come i primi martiri cristiani e i grandi padri
della Chiesa, più che sforzarsi di provare la risurrezione di Cristo attraverso ragionamenti
o indizi di ordine storico, ne testimoniano la perdurante verità nella storia
tramite la loro fedeltà al Vangelo. Già da ragazzo, Giuseppe Gabana manifestava una
profonda umanità e una non comune cordialità. Vissuto in una famiglia animata da
solide tradizioni contadine e da una spiccata fede religiosa, egli fu sempre rispettoso
sia verso gli anziani del paese che dei più deboli e bisognosi. La sua formazione
umana e cristiana fu ispirata dalla presenza di sacerdoti e vescovi santi. Certamente
la sua giovialità e il desiderio di diventare educatore di giovani menti in continua
77

Bonus Miles Christi
ricerca di verità furono a lui offerti dall’esempio di don Giovan Battista Piamarta,
una delle personalità di rilievo della seconda metà dell’ottocento, proclamato santo
da Benedetto XVI il 21 ottobre del 2012.
Inoltre, Gabana negli anni di seminario si lasciò guidare dal Rettore mons. Mosè
Tovini, altra figura emblematica della Chiesa bresciana recentemente beatificato. Il
Tovini, già cappellano militare fu il fondatore in parrocchia dell’Opera del pane di
sant’Antonio. Professore per tutta la vita in Seminario, nel 1926 divenne Rettore e
apprezzò molto il giovane Gabana, seminando nel suo cuore l’ideale del sacerdozio
con l’assimilazione a “tre candori” che dovevano riempire il cuore del candidato
ideale al sacerdozio: l’Eucaristia, la Vergine immacolata e il Papa. Beatificato il 17
settembre 2006 nella Cattedrale di Brescia. Don Giuseppe fu ordinato il 2 giugno
1928 da monsignor Giacinto Gaggia, Vescovo di quella Diocesi. Nonostante la povertà
e le imposizioni del fascismo, così come le contraddizioni dell’antifascismo, don Giuseppe
rese la parrocchia di Pezzaze, a lui affidata, una delle più vivaci della zona,
attenta particolarmente ai giovani. Giovane tra i giovani sin dai primi momenti del
suo sacerdozio, fu animatore di coscienze libere e di cristiani autentici.
Nel 1935 un’altra svolta della sua vita: nella stazione ferroviaria di Brescia rimase
segnato dalla partenza di un Reggimento di fanti per la guerra Italo-Etiopica.
Decise, perciò, di arruolarsi nonostante il disagio sempre avvertito verso
un tipo di società “esageratamente militarizzata” dal fascismo. Cosa spinse
don Gabana a seguire i militari?
Lo fece per seguire e sostenere i tanti ragazzi che partivano per la guerra. La
sua disponibilità ad andare incontro al prossimo, a mostrargli amore, lo rese certo
che il servizio al prossimo apre lo sguardo su quello che Dio fa per l’uomo. Amore
di Dio e amore del prossimo sono inseparabili, sono un unico comandamento. Entrambi
però vivono dell’amore preveniente di Dio che ci ha amati per primo. Così
non si tratta più di un comandamento dall’esterno che ci impone l’impossibile, bensì
di un’esperienza dell’amore donata dall’interno, un amore che, per sua natura, deve
essere ulteriormente partecipato ad altri. L’amore cresce attraverso l’amore. Con
questo spirito sacerdotale che lo aveva sempre animato, don Giuseppe non smise
mai di celebrare la Messa presso la Chiesa dei Salesiani, nel popoloso quartiere di
San Giacomo: lo stesso ove si erano già consumati eccidi ai danni di onesti e bravi
italiani. Analogamente, si fece instancabile promotore di concordia e dialogo fra le
diverse etnie del luogo, base per una futura e pacifica convivenza fra italiani e slavi
sino ad essere ucciso per salvare la vita di donne, vecchi e bambini in fuga dalle
persecuzioni razziali e dall’odio etnico. Un sapiente dialogo, il suo, dove tutto partiva
e conduceva all’amore di Dio, anche quando i temi erano quelli dell’odio, della
distruzione, dell’emarginazione, della sofferenza e della morte. Don Gabana rimase
in Venezia Giulia sino alla morte. Nel 1941, fu trasferito dal Regio Esercito nella
Guardia di Finanza vivendo tra i Finanzieri gli anni più cruenti della seconda Guerra
Mondiale. Si distinse nell’organizzare il rimpatrio a Trieste di famiglie italiane in
fuga dall’Istria e per aver salvato la vita di molti ebrei, alla scuola dell’indimenti-
78 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
cabile vescovo di Trieste, mons. Antonio Santin, che accorse al suo capezzale appena
ricevuta la notizia del gravissimo ferimento e ascoltò la dichiarazione di perdono
per i suoi uccisori.
Don Gabana, ucciso dal fanatismo politico, ci ricorda tanti altri martiri morti
per la loro adesione alla fede, ieri come oggi…
Don Gabana fu barbaramente assassinato, agli inizi di marzo del 1944, da partigiani
comunisti sul pianerottolo della sua abitazione privata, in via Istria, presa
in fitto perché in caserma mancava l’alloggio di servizio. Moriva così, per fanatismo
politico, un sacerdote generoso che aveva esercitato un ministero ricco di amore e
di sapiente accompagnamento spirituale tra i Finanzieri di Trieste e Istria, assicurando
una instancabile dedizione ai più deboli, a migliaia di profughi italiani e a
tanti ebrei attivamente ricercati dai nazi-fascisti. L’apostolato di don Giuseppe, notato
da alcuni esponenti del locale movimento di liberazione slavo-comunista, infastidiva
perché l’annuncio del Vangelo era considerato una pericolosa alternativa
all’ideologia marxista-leninista. L’insegnamento della vita e dell’attività pastorale
di Gabana era centrato sulla fraternità, come via per sentirsi figli di Dio e vicini
agli uomini. Dalle testimonianze sulla sua esperienza di cappellano emerge la priorità
della fraternità come forma di vita e messaggio da trasmettere all’umanità, logica
conseguenza della paternità di Dio. Siamo fratelli e, pertanto, dobbiamo comportarci
come fratelli. Base della fraternità è, quindi, la concezione cristiana della
persona.
C’è un elemento distintivo della vita di don Gabana che più di ogni altro ce lo
consegnano come testimone di fede da proporre alla comunità dei credenti di
oggi?
Credo che questo tratto vada ricercato nella fraternità che ha sempre testimoniato.
Fraternità che impegna a spendersi per l’altro, gli altri; a costruire una storia
dove ciascuno è termine della sollecitudine dell’altro, dove il ciascuno per sé si collega
al ciascuno per l’altro. Quando amiamo, amiamo da Dio e in Dio. Non basta essere
vicini, ma serve essere fratelli. In tale prospettiva, la cura spirituale dei militari
assumeva una connotazione di sollievo. Don Gabana si distinse, dopo la tragedia
dell’8 settembre 1943, nel momento in cui a Trieste affluirono reparti allo sbando
dell’Esercito, gli uomini delle Brigate di frontiera della Legione, i nostri battaglioni
mobilitati della Slovenia e della Croazia, ma soprattutto le migliaia di civili provenienti
dall’Istria, dove era calata un’ondata di partigiani slavi. Tutti costoro furono
spogliati di tutto e, quando giunsero a Trieste, don Giuseppe si prodigò per dar loro
ospitalità, indumenti, alimenti. Si prodigò con tutte le forze, pur di alleviare le sofferenze
contando sugli aiuti che raccoglieva da chiunque, ricevendo persino da padre
Agostino Gemelli un grosso sostegno morale e finanziario. In tal modo fu possibile
concedere mensilmente alle famiglie dei Finanzieri con figli fino a 500 lire ed inviare
numerosi pacchi agli internati in Germania. C’è poi un altro aspetto di don Giuseppe
da non dimenticare…
79

Bonus Miles Christi
Quale?
Il suo impegno a favore della numerosa comunità ebraica di Trieste che anche
grazie a lui ricevette ospitalità nelle famiglie del territorio. Furono così salvate migliaia
di vite umane, per lo più profughi provenienti dalla Germania, dalla Polonia,
dalla Cecoslovacchia, dall’Austria e, in ultimo, dalla vicinissima provincia di Lubiana
e da altre località croate, le quali proprio dal porto triestino speravano di raggiungere
la Palestina o le lontane Americhe. Don Gabana annunciava la liberazione ai prigionieri,
fasciava le piaghe dei cuori spezzati, consolava gli afflitti, allietava i sofferenti,
seppelliva i morti. Un mandato, questo, a cui non si è mai sottratto, pagando di
persona, convinto che quando il dolore umano continua quello di Cristo, diviene un
dolore che salva il mondo. Egli, perciò, non è mai fuggito dinanzi al sudore e alle
lacrime; anzi, condividendo il dolore suo e del popolo, ha risposto alla sua e altrui
santificazione, come il buon cireneo, dando la mano a chi porta la croce dopo una
lunga giornata di lavoro. La fatica dell’attenzione, l’ascolto paziente delle ragioni,
l’affanno per contenere la contestazione e difendere la legalità facevano di don Giuseppe
un sacerdote che stava accanto, senza passare oltre, a quella umanità stanca
della guerra, che aspirava ad una serenità quotidiana.
25 febbraio 2013
80 Gennaio-Marzo 2013
(a cura di) Daniele Rocchi ■

Messaggio per il centesimo
anniversario della nascita
di mons. Enelio Franzoni
Bologna - Seminario Arcivescovile, 3 marzo 2013
Innamorato dell’Eucaristia
Cari amici,
la memoria è un dovere ma è anche una forza interiore necessaria per non arretrare
di fronte ad alcuna difficoltà, vincendo il male con il bene. È il testamento del
nostro fratello Enelio che mi porta con il pensiero a quei trecentomila soldati inviati
nella tragica Campagna di Russia della seconda guerra mondiale, dove morirono migliaia
di italiani, mandati allo sbaraglio equipaggiati in tutta fretta, in modo assolutamente
inadeguato per far fronte alla durezza dell’inverno.
È bene non dimenticare questa dolorosa pagina della storia del nostro Paese che
fatica a trovare il giusto posto nella memoria nazionale; pagina amara, anche perché
causata non solo da nemici stranieri e anonimi.
In realtà, le celebrazioni annuali dell’indimenticato presbitero della Chiesa bolognese
e della Chiesa Ordinariato contribuiscono non poco a rendere sempre più
umano l’uomo. Un uomo che possa essere di più e non solo avere di più, che impari
non solo a vivere con gli altri, ma per gli altri, come insegnano i reduci o caduti
nelle steppe russe per il freddo, la fame, la paura, nel fango e nella neve. Don Enelio,
sacerdote in divisa, condivise il dolore dando la mano a chi portava la croce, stando
accanto e prendendosi cura di un’umanità stanca, che attendeva semi di fiducia.
Uomo buono realizzava nel suo ministero il legame indissolubile e salvifico tra la
storia del cielo e quella della terra. La sua parola ricca di profezia era capace di spargere
grandi desideri e slanci positivi; la sua presenza solare, gioiosa e intrisa di vita,
attraverso la sua coscienza chiara e sincera, trasmetteva ciò che è bello e promettente.
Mons. Franzoni è stato un sacerdote fedele alla Croce, racconto luminoso della
carità evangelica, non delle armi e della gloria; un cappellano militare che dinanzi
all’offensiva sovietica rimase volontariamente con i soldati accerchiati per non abbandonarli,
affrontando al loro fianco la prigionia.
Era partito, nel luglio del 1941, motivando la scelta nel suo Diario: «C’era la
guerra e quei giovani mi dissero… andiamo lontano dalle nostre case; tu non vieni
per combattere; ci farai sentire più vicine le nostre famiglie, metterai il tuo saluto
in fondo alle nostre lettere, ci farai pregare e se qualcuno di noi sarà ferito, ci veglierai
e offrirai a Dio le nostre sofferenze e, se capita, la nostra morte. Se moriremo,
ci scaverai una fossa, ci metterai su una croce».
81

Bonus Miles Christi
Chi è il cappellano militare? È un prete come tutti gli altri che prende su di sé le
gioie, i dolori, le fatiche e le speranze di coloro che la Provvidenza gli affida. La sua
arma vera, l’arma in dotazione, obbligatoria per i cappellani militari in guerra era il
crocifisso e l’altarino con il calice, un crocifisso vero.
L’apostolato del cappellano militare è atto di amore soprannaturale. Egli si slancia
verso gli altri, perché Cristo si slanciò per primo. Per questo non può esservi testimonianza
più autentica di quella nata nel profondo mistero della carità, quella che
affonda le sue radici in Dio, quella che si perde nella pienezza della celebrazione
eucaristica.
«Nel novembre 1943 – racconta mons. Franzoni – ci trasferirono a Susdal. Ricordo
ancora l’emozione che provai quando l’8 dicembre, padre Brevi che già si trovava in
quel campo, ci fece giungere il Pane Eucaristico attraverso i reticolati della quarantena
in cui eravamo isolati. Nel ritirare la piccola scatoletta di legno che conteneva
il nostro Viatico, padre Brevi mi avvertiva: “Non è molto, cerca di farlo bastare”. Distribuii
in Comunione, piccole briciole di pane comune quasi bianco. L’emozione mi
vinse: pensai all’ultima Comunione che avevo fatto un anno avanti, il giorno 16 dicembre
1942, quando circondato dai Russi avevo in fretta consumato, per sottrarle
alla profanazione, le Specie eucaristiche che avevo con me. Da quel giorno, che fu
il primo di mia prigionia, non avevo più potuto ne celebrare né comunicarmi. E mi
pareva di sognare ora davanti a quel rozzo ciborio».
Di qui due consegne che mons. Franzoni affida ai cappellani militari e a coloro
che si preparano al sacerdozio ministeriale: l’amore all’Eucaristia e l’amicizia spirituale.
Don Enelio era un innamorato dell’Eucaristia. Capiva bene che la vita umana ha
in Cristo il suo compimento, perché quotidianamente diventa non solo il cibo per
ciascuno, ma stimolo di carità per i fratelli che hanno bisogno di aiuto, di comprensione
e di solidarietà. Cristo è necessario per ogni uomo, per ogni comunità, per
ogni evento veramente sociale, cioè fondato sull’amore e sul sacrificio di sé, per il
mondo.
Per don Enelio la comunione con Dio fonda e spiega tutti i bisogni dell’uomo. Di
essi il più grande, forse l’unico, è uscire dalla solitudine, riversando vita in altre vite
e comunicando con qualcosa che non abbia fine, che non sia sottomesso all’usura
della fragilità e all’offesa della divisione.
Mons. Franzoni dava molta importanza all’espressione “ricevere la comunione”
riferita all’atto di mangiare il Pane eucaristico, consapevole che quando compiamo
quest’atto, entriamo in comunione con la vita stessa di Gesù, che si dona a noi e
per noi. Da Dio, attraverso Gesù, fino a noi: un’unica comunione si trasmette nella
santa Eucaristia.
Sant’Agostino ci aiuta a comprendere la dinamica della comunione eucaristica
quando fa riferimento ad una sorta di visione che ebbe, nella quale Gesù gli disse:
«Io sono il cibo dei forti. Cresci e mi avrai. Tu non trasformerai me in te, come il
cibo del corpo, ma sarai tu ad essere trasformato in me» (Confessioni VII, 10, 18).
Mentre dunque il cibo corporale è assimilato dal nostro organismo e contribuisce al
suo sostentamento, nel caso dell’Eucaristia si tratta di un pane differente. Non siamo
82 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
noi ad assimilarlo, ma esso ci assimila a sé, così che diventiamo conformi a Gesù
Cristo, membra del suo corpo, una cosa sola con Lui. Questo passaggio è decisivo.
Infatti, proprio perché è Cristo che, nella comunione eucaristica, ci trasforma in sé,
la nostra individualità, in questo incontro, è aperta, liberata dal suo egoismo e inserita
nella Persona di Gesù, che a sua volta è immersa nella comunione trinitaria.
Così l’Eucaristia, mentre ci unisce a Cristo, ci apre agli altri e ci rende fratelli. La comunione
eucaristica mi unisce alla persona che ho accanto. È una chiamata rivolta
di preferenza a chi più soffre e fatica; a chi è povero e piange; a chi è solo e senza
aiuto; a chi è piccolo e innocente. Gesù chiama e invita al banchetto dell’amicizia
gli uomini che diventano essi stessi cuore e suo amore. Quest’unione non si limita
al momento della comunione sacramentale, ma qui comincia e diviene vita, carne e
sangue nella quotidianità del mio stare con l’altro e presso l’altro. Per mons. Franzoni,
la carità nasce dall’unico pane, dallo stesso Signore ed è a partire da lui, fin
dall’inizio e ovunque, che si forma l’unico corpo.
Da questa comunione – affermava il Cardinale Carlo Caffarra nel giorno dei funerali
– nasce il realismo del legame che ogni sacerdote stringe con Cristo, il bisogno
che sia plasmato quasi nella fisicità di un incontro vissuto nel concreto della
fraternità umana. «Chi è fedele ad un Dio che si è alleato con l’uomo; chi nel cuore
di Cristo ha visto la passione per la dignità dell’uomo che vi dimora, non può non
essere fedele all’uomo. Non può non avere nel cuore una grande passione per il suo
bene e la difesa della sua dignità. E questa la spiegazione ultima della testimonianza
sublime che don Enelio ha dato di fedeltà all’uomo. Fu fatto prigioniero proprio
perché non volle abbandonare i feriti. Ecco come chi è fedele a Dio non abbandona
l’uomo. Fino in fondo gli resta vicino perché Dio si è fatto vicino all’uomo, fino in
fondo».
Conseguenza di una così profonda spiritualità e vita eucaristica è l’altra consegna
di don Enelio: vivere nell’amicizia spirituale, cammino di fede che cresce in compagnia
di un fratello per discernere la voce e l’azione di Dio a cui rispondere in libertà
e responsabilità. La fede si trasmette da persona a persona, e addirittura l’insegnamento
e la catechesi non dovrebbero svincolarsi da quest’arte evangelica. A riguardo,
il capitano Gabriele Gherardini, in una delle prime testimonianze sulla tragedia di
Russia, ricorda Franzoni come: «un pretino piccolo, quasi venerabile nel candore
dell’aspetto e degli atteggiamenti, sobriamente colto, tutto luce di carità e di fede.
Ricordo la sua voce, che nelle preghiere si percepiva appena, il suo insistere, da sanitario,
perché si ingurgitasse un po’ di quella brodaglia che il male ci faceva respingere,
l’accorrere dall’uno all’altro ascoltando le mille pene di ognuno con sovrumana
pazienza, senza mai uno scatto, un atto di impazienza. [...] Pensavo allora
che se mi fosse avvenuto di morire, con lui vicino, il trapasso non avrebbe avuto
niente di pauroso» (La vita si ferma, Milano 1948, pp. 255-6). Mons. Franzoni ne
aveva viste veramente tante nella sua lunga vita e aveva dimostrato veramente, a
carissimo prezzo, che cosa significava testimoniare l’amore di Cristo per l’uomo. E
sapeva guardare ai casi della vita con quella serenità, con quella sapienza tipica di
chi sa di aver fatto il proprio dovere fino in fondo, restando sempre accanto ai tanti
giovani che sembrava avessero smarrito ogni orientamento positivo della vita.
83

Bonus Miles Christi
La sua era la presenza di un sacerdote amico attento a un aiuto spirituale saggio
e sperimentato per garantire le scelte giuste, evitando decisioni affrettate e poco
prudenti. Nel cammino della vita è bello prendere consiglio e domandare aiuto a chi
può accompagnarci nel bene, prevenire i pericoli che possiamo incontrare, suggerire
i rimedi idonei e in tutte le difficoltà interne ed esterne condurre rettamente a quella
perfezione esigita dal Vangelo. Don Enelio ha incarnato il gesto del samaritano che
si carica sulle spalle il viandante percosso dai banditi, lo porta alla locanda, ci rimette
del suo. È l’offerta della propria disponibilità, della propria casa, della propria
vita. È lo stile dell’accoglienza rispettosa, del dialogo consolante, della proposta di
una speranza per il mondo.
Cari amici, nella lieta ricorrenza del centesimo anniversario della nascita dell’amatissimo
mons. Enelio, lasciamo risuonare, nel nostro cuore, all’inizio di questa
celebrazione eucaristica il suo augurio: «Facciamo centro attorno al Pane e al Vino
e al Messale… nella Presenza di Dio che accompagna l’uomo ovunque vada». Vivere
in maniera eucaristica significa uscire da se stessi, dalla ristrettezza della propria
vita e crescere nella vitalità di Cristo. Le persone si conoscono amandole. Perché
solamente nell’amore la persona si affida completamente.
Alla Vergine Immacolata, Donna eucaristica e Regina della Pace, affidiamo la
Chiesa nella delicata ma esaltante missione al servizio dell’Amore che sostiene il
mondo.
84 Gennaio-Marzo 2013
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo

Prot. N. 156 / III - A – 1
Roma, 4 marzo 2013
Carissimi.
«Siamo nell’Anno della fede, che ho voluto per rafforzare proprio la nostra fede in
Dio in un contesto che sembra metterlo sempre più in secondo piano. Vorrei invitare
tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia
di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di
camminare ogni giorno, anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da
quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza
confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano». Le parole dell’ultima
Udienza di Papa Benedetto XVI ci riportano con il cuore e la mente al suo meraviglioso
e fecondo ministero petrino. Nel calore orante del suo paterno abbraccio, gli diciamo
ancora grazie, assicurandogli il nostro affetto e la nostra preghiera.
Benedetto XVI appartiene a tutti, è necessaria all’umanità la sua intercessione
presso il Signore crocifisso. Noi continueremo a sentirci a lui molto vicini e infinitamente
riconoscenti.
Con l’inizio delle Congregazioni generali, si aprono giorni importanti per la vita
della Chiesa, che culmineranno nel Conclave, convocato per eleggere il Successore
di San Pietro, Pastore della Chiesa universale.
In questo tempo la Chiesa Ordinariato eleva particolari invocazioni, perché Dio
doni un Pontefice secondo il suo cuore.
Invito, pertanto, i cappellani militari a promuovere momenti di preghiera per il
nuovo Papa, celebrando una speciale Santa Messa durante il Conclave. Nei giorni feriali
è concessa ai sacerdoti la facoltà di celebrare la Santa Messa “Per l’elezione del
Papa”, secondo il formulario presente nel Messale Romano, conservando le letture
del giorno.
Nella Chiesa principale di Santa Caterina da Siena a Magnanapoli, martedì 12
marzo alle ore 10,30, si terrà la concelebrazione eucaristica da me presieduta con i
sacerdoti e i militari della città di Roma.
Dio guida e sorregge sempre la sua Chiesa: non perdiamo mai questa visione di
fede. Nel nostro cuore sia sempre viva la gioiosa certezza che il Signore ci è accanto,
non ci abbandona e ci avvolge con il suo amore.
Tutti benedico di cuore.
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo
85

Testimoni della fede
nel mondo militare:
Egidio Bullesi
Apostolo dei giovani
Apostolo tra i ragazzi di Azione Cattolica, scout, e della San Vincenzo. Giovane
laico del Terz’Ordine francescano: Egidio Bullesi è una di quelle figure di laici che
hanno fatto della loro vita un esempio di donazione e di apostolato al punto di meritare
l’avviarsi delle relative cause di beatificazione. Nato a Pola nell’Istria, che
allora apparteneva all’Austria, il 24 agosto 1905, era il terzo dei nove figli di Francesco
e Maria Diritti. Frequentò la scuola italiana, fino a quando nel 1914, scoppiata
la Prima guerra Mondiale, dovette con la famiglia rifugiarsi a Rovigo in Italia. Dopo
il 1919 la famiglia fece ritorno a Pola, diventata italiana, qui ancora adolescente
cominciò a frequentare i padri Francescani nel santuario della Madonna di Siana e
nell’orfanotrofio di S. Antonio. Maturò così una coerente pratica religiosa che mostrò,
ancorché adolescente quando prese a lavorare come carpentiere nell’Arsenale di Pola,
ambiente di chiara impronta socialista e guadagnandosi la stima di tutti i suoi compagni
di lavoro. Non era privo di coraggio che mostrò durante uno sciopero “rosso”
arrampicandosi sulla gru più alta del cantiere per issarvi il tricolore. L’anno 1920
segna il suo ingresso nella Gioventù d’Azione Cattolica e nei Terziari francescani.
«Non c’era bisogno di un occhio di lince per scorgere la miseria morale e materiale
della vecchia città adriatica nell’immediato dopo guerra – si legge dai suoi scritti –
le strade, i moli, le rive mostravano lo spettacolo triste di tanti poveri ragazzi abbandonati
a sé stessi, bisognosi di una mano che li guidasse e di un cuore che li
amasse. Bisognava avvicinarli, difenderli, educarli,
prepararli alla vita». All’inizio del 1921 passò dall’Arsenale
di Pola al cantiere navale di Scoglio Olivi, distinguendosi
ancora una volta per la sua dedizione
lavorativa e fedeltà ai valori religiosi. Non solo, alla
sera, Egidio frequentava le lezioni per conseguire la
licenza di perfezionamento per apprendisti, poi seguì
la scuola superiori per costruttori ed anche un corso
di letteratura. Estroverso, convinto delle sue idee,
istruito, fu scelto nel suo circolo di Pola per partecipare
al raduno nazionale dei Giovani cattolici del
1921 al quale si presentò con l’abito da lavoro non
avendone altri. Tornò da Roma determinato a lavorare
nel campo dell’apostolato: conosciuto lo Scoutismo,
Egidio fondò nella sua città il gruppo scout
86 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
“San Michele”. Nel febbraio del 1925, a 19 anni, è chiamato a prestare servizio militare
di leva nella Marina militare ed imbarcato sulla nave “Dante Alighieri”, impegnandosi
anche in questo caso nella missione di annuncio del Vangelo tra i suoi
1300 commilitoni. Diceva sempre: «L’Italia sarà grande solo quando sarà veramente
cristiana!» per poi scrivere, «con la branda sotto braccio, in alto sulla prua della
nave, guardavo il cielo, pensavo a Dio fonte della mia gioia, della mia pace e della
mia felicità». Sulla nave militare riesce a far nascere una sorta di club, trasformatosi
poi in un vero e proprio circolo cattolico che sarà battezzato “attività serali frigorifere”,
perché si riuniva nei locali dei frigoriferi della nave da guerra. Durante i 25
mesi di ferma in Marina nacquero anche alcune conversioni tra i suoi commilitoni:
tra queste, quella di Guido Foghin, che dopo la morte di Bullesi prenderà i voti diventando
francescano, missionario in Cina e Guatemala, e assumendo significativamente
il nome da religioso di Padre Egidio-Maria Foghin. In una sua lettera mandata
da La Spezia il 20 febbraio 1927, ormai prossimo al congedo, Egidio annotava: «lascerò
il servizio militare felice e orgoglioso d’aver dato alla Patria nostra coscienziosamente
l’opera mia per oltre due anni e d’averla servita con fedeltà ed onore».
Intanto nel 1926 il Fascismo aveva deciso la chiusura dei gruppi scout. In una lettera
al fratello Giovanni, datata 9 febbraio 1927, Egidio scriveva: «puoi immaginare quale
impressione mi fece la notizia dello scioglimento degli Esploratori. Ammirabile la
vostra fortezza d’animo e la devozione al Vicario di Cristo, colla quale accoglieste sì
dolorosa deliberazione. Ora, Giovanni, conservando uniti gli Esploratori, sarà bene
costituire un Circolo a Panzano e federarlo alla Gioventù Cattolica, poi mantenere
intatto lo spirito scautistico, evitando solo quello che può essere contrario alle intenzioni
del Papa. E del resto continuare l’identica attività».
Nonostante la chiusura del gruppo scout Egidio proseguì la sua missione fra i
più giovani, raccontando storie, spiegando il Vangelo e animando i giochi. Congedato
a marzo del 1927, e ritrovatosi senza lavoro, trovò un’occupazione nel cantiere
navale di Monfalcone (Gorizia), e qui riprese il suo apostolato fra gli operai dedicandosi
anche alla Conferenza di San Vincenzo, facendo visita alle famiglie povere.
«Si tratta di salvare molte anime di fanciulli – scriveva – si tratta di orientarle per
tutta la vita verso Nostro Signore, verso il suo Cuore. Si tratta di dare all’Italia
nostra la giovinezza di domani, forte e pura, colta e pia, si tratta di popolare il
Cielo di Santi». Ma la sua missione era destinata a chiudersi anzitempo: verso la
fine di febbraio 1928 si ammalò di tubercolosi e in soli due mesi, a poco meno di
24 anni di età, morì. Era il 25 aprile 1928. Ai suoi funerali vi erano tutti, ragazzi
e bambini dell’orfanotrofio che Egidio aveva sostenuto anche con la sua povera
paga militare, i Terziari Francescani e le associazioni, i Padri francescani ed il suo
padre spirituale don Antonio Santin, futuro vescovo di Trieste. Prima della tumulazione,
furono queste le parole di don Santin: «Non spargiamo lacrime, perché più
che pianto, Egidio deve essere invidiato ed imitato. Non preghiere per lui, ma bensì
attendiamo una pioggia di grazie per sua intercessione». Oggi il suo corpo riposa
nell’isola di Barbana (Grado, Gorizia). Ai piedi della statua che lo ricorda si legge
un verso tratto dal suo diario e ispirato da una frase di Santa Teresa di Lisieux:
«Viver d’amore è navigare, ognora gioia spargendo e riso attorno a me». Il 6 di-
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Bonus Miles Christi
cembre 1974 la Curia di Trieste aprì la Causa per la sua beatificazione. Con decreto
del 7 luglio 1997, Giovanni Paolo II gli riconobbe l’eroicità delle sue virtù e il titolo
di venerabile. Nel 2000 la diocesi di Trieste ha trasmesso alla Congregazione per le
cause dei santi i risultati del processo informativo sul presunto miracolo avvenuto
nel 1929 sulla motonave “Vulcania”.
Per quanto giovane, Bullesi è stato un esempio di donazione e di apostolato.
Da dove traeva tutta questa forza?
«Questa vita è tanto bella e quindi perché rattristarci? Allegria, sempre allegri,
ma nel Signore. Una allegrezza cioè che derivi dalla buona coscienza, dal dovere
sempre compiuto e dall’amore, dall’amicizia con il Signore. Essere sempre felici nel
Signore: ecco la nostra allegrezza!». Queste parole scritte da Egidio Bullesi a un
amico sintetizzano una profonda spiritualità trinitaria vissuta, con la protezione di
Francesco d’Assisi e Teresina di Lisieux, nella luce della fede, nella gioia della speranza
e nel fervore della carità. Egidio è un innamorato di Gesù Eucaristia. Vissuto
in un’esemplare famiglia cristiana, la prima che nella città di Pola si consacrò al
Sacro Cuore, già nel giorno della prima Comunione, il 25 marzo 1915, manifestò un
forte desiderio di silenzio dinanzi al tabernacolo. Ciò fu confermato l’anno successivo,
quando con la Confermazione volle impegnarsi per sempre a essere un angelo
del tabernacolo (Tabernakelengel) ricevendo una pagellina, su cui registrare buone
azioni, visite eucaristiche e comunioni. L’anima del suo apostolato, perciò, traeva
forza dalla docilità a Gesù Cristo, tanto da affermare in una lettera inviata all’amico
Amedeo Zovi quando era soldato di leva sulla nave “Dante Alighieri”: «È Gesù Cristo
che traspare da ogni mia azione, da ogni manifestazione del mio cuore, che, senza
farsi scoprire piace a tutti; è lui e solo lui che mi rende amabile, buono e caro».
Quale festa per lui trovarsi in Chiesa ad adorare il Signore. Diversi sono gli episodi,
da lui stesso raccontati dove traspare, particolarmente dal 1925 al 1927, durante la
leva, l’animo del suo apostolato eucaristico.
C’è un fatto, un episodio particolare, dove traspare tutta la sua ricchezza spirituale?
La sua vita è ricca di fatti e di testimonianze, come quella resa da Guido Foghin,
che dopo la morte di Bullesi prenderà i voti diventando missionario francescano. Foghin,
che conobbe Egidio durante i 25 mesi di ferma in Marina, racconta: «Partimmo
per Siracusa, ed in questa prima navigazione fu di guardia con me al timone a mano.
Mi stava al fianco scrutando giù dentro l’anima, studiando le vie più ovvie per arrivarci.
Attaccò discorso di conoscenze polesi e poi nel nome di Dio lanciò la rete.
Guido, sei stato a fare la comunione pasquale? Gli risposi un no asciutto e commentai
che non ci credevo a quelle cose. Non aggiunse altro; mi rivolse solo uno di quegli
sguardi penetranti con un così mesto sorriso, che non so descrivere. Cercò di profittare
delle serate, quando liberi dalla guardia, si saliva in coperta dopo cena. Erano
lunghe discussioni di religione: io lo interrogavo senza lascialo approdare a nulla.
Davo anzi mostra d’inacerbirmi.
88 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
In una di quelle tanto lunghe e amare ore (quanto soffrivo in segreto, imprecando
al mondo, agli uomini) Egidio mi avvicinò col suo bel sorriso, mi confortò, mi additò
una specie di ancora e mi addomesticò col candore della sua vita e della sua espressione.
Lo maltrattavo, tormentavo, lo deridevo, ed egli mi pigliava per braccio come
un amico che ha voluto scherzare spavaldamente. Una bella pagina il suo apostolato
tra i cannonieri e i marinai di coperta. Ogni tanto, abbandonando l’aria pura e serena
e l’allegra compagnia degli amici, scendeva a trovarmi mentre ero di guardia, e facendo
finta di non accorgersi dell’aria viziata, del caldo soffocante, della facilità di
sporcarsi di olii, mi si poneva vicino.
Io leggevo libracci, e come provocazione “vedi cosa sto leggendo”: e glieli mettevo
sott’occhio. Quegli occhi sereni scontrandosi ingenuamente nella bruttura, si
turbavano, arrossiva, ma non si allontanava. Anzi mi si sedeva accanto: era il buon
samaritano che comprendeva e curava le ferite con delicatezza signorile. Avendo conosciuto
il mio desiderio di apprendere un po’ di matematica e di meccanica, passò
ore e ore accanto a me, giù nella stiva ad aiutarmi in esercizi, pur senza ottenere
che dicessi almeno una Ave Maria. Un sabato sera, come al solito, venne a dirmi:
“Domani scendo a terra prima di pranzo, vado alla Messa e a fare la Comunione”.
Non so da quale forza spinto: “Vengo anch’io”, gli risposi. Sembrava l’avesse presentito.
Mi preparò e, l’indomani mi accostavo al lavacro purificatore della penitenza
e assistito da lui, ricevetti Gesù. In quel fortunatissimo giorno, dopo tanti anni,
aprivo il labbro al sorriso, il cuore alla speranza» (22 aprile 1925).
Quella di Bullesi fu una vita trascorsa da giovane in mezzo ai giovani…
Nel 1927, era il 16 febbraio, da Gaeta, scriveva: «sento che è necessario infiammare
i giovani ed avviarli all’apostolato per mezzo della preghiera e dell’Eucaristia:
vorrei che un turbine trascinasse tutti i giovani per questa strada: tanti sono i mali
da rimediare, tanti i difetti da correggere, tante le anime da salvare. Poveri giovani,
quanti non conoscono questa bella, grande fede, quanti non provano questi divini
sublimi amori: quanti non amano Gesù e, al contrario, tuffandosi nel fango delle
passioni e dei piaceri, ne provano le troppo amare delusioni, riportando tante gravissime,
forse inguaribili, ferite. Che più fare per questi giovani? Come trovare per
loro un rimedio? Se sono sordi ad ogni preghiera, se rifiutano ogni invito? Ecco il
problema che un giovane non preparato alla scuola della preghiera e dell’Eucaristia
non sa risolvere, e forse, deluso e scoraggiato anche lui, si lascia portare a più facili
opere ed abbandona questa grande e tanto necessaria opera di redenzione.
Qui è necessario amore, ma grande, ma forte amore, che trasformi il nostro cuore
secondo il cuore di Gesù; qui è necessaria la fede, ma grande, ma forte fede che
arrivi alla fede voluta da Gesù; qui è necessaria la preghiera, ma preghiera fervente,
devota e confidente che strappi le grazie al Signore, e poi è necessaria l’Eucaristia:
l’unione col corpo di Gesù Cristo; divenire un sol corpo, un’anima sola con lui, il
Maestro, il Cristo, l’Onnipotente. Ed allora cosa è impossibile? Nulla! Questo è l’apostolato
delle cose difficili: unirsi a Dio, invocarlo e dirgli: “noi siamo incapaci, fai
tu”. Ma vi è un altro apostolato dove il Signore vuole l’azione nostra. È l’apostolato
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Bonus Miles Christi
della formazione dei ragazzi che richiede tutta la nostra buona volontà, tutto il nostro
spirito di abnegazione e di sacrificio. Si tratta di nascondersi alla vista degli
altri, essere sconosciuti o, meglio ancora, trascurati ed avere per compagno Gesù.
Si tratta di far conoscere Gesù ai fanciulli, di formare i giovani cuori all’amore divino,
d’istruire quelle giovani menti nella religione, d’avviarli alla vera vita cristiana, di
formare veri apostoli. Si tratta di condurli per mano sulla via del Paradiso. Per tutti
questi bisogna scuotersi, bisogna ravvedersi: è necessario che ognuno preghi di più,
chieda la grazia al Signore per divenire più conforme alla sua volontà. Occorre spesso
chiederci seriamente se si fa abbastanza, se il Signore è contento di noi, oppure
vuole di più: più Eucaristia, più Apostolato, più uniti a Lui solo».
Di particolare attualità è anche la sua testimonianza nell’ambiente di lavoro
dove Bullesi seppe farsi apprezzare, oltre che per le sue doti professionali,
anche per la sua sensibilità spirituale...
Bullesi aveva tredici anni, quando iniziò a lavorare come apprendista carpentiere
nell’arsenale di Pola, una città essenzialmente militare e operaia, dove le idee sovversive
si erano diffuse tra la popolazione portando disordine economico e sociale,
risentimenti politici, una classe operaia decisa alla ribellione. Egli attendeva con
impegno al suo lavoro e si esercitava a tagliar d’ascia fino a conseguire il grado di
operaio maestro. Fu, poi, carpentiere di ferro nelle costruzioni di grandi navi, dove
il materiale non era più tavoloni e travi di abete, di rovere, di olmo ma lamiere e
trafilati d’acciaio, tra le grandi macchine delle officine e sugli scali del cantiere nell’assordante
fragore delle ribattitrici. Con la sua sensibilità spirituale, non trascurava
la preghiera e la carità. Amava definire l’apostolato come un termometro che scende
e sale in rapporto a quanto si prega, considerandolo davvero l’esplicazione più bella
di un’anima cristiana, l’attività più degna dei figli di Dio (cfr. lettera del 27 luglio
1926). Distribuiva fra gli operai giornali, riviste, libri. Con amici e colleghi cercava
sempre di parlare del Vangelo. Coinvolse, così, molti giovani nelle attività del Circolo
Giovanile San Francesco. Fervente apostolo fra i giovani, li avvicinava e li aiutava a
dare un senso positivo alla vita. Teneva istruzioni e raccontava la vita di Gesù in
modo semplice e attraente. I ragazzi lo incontravano con piacere e facevano a gara
per dargli una mano e stargli vicini. A lui ricorrevano per consiglio, per aiuto, per
consolazione, per rifugio. Tra le lettere più significative in tutto l’epistolario di Egidio,
è quella che scrisse alla sorella, dove rivela che il suo vero martirio non fu la
malattia né la visione della morte, ma la fine del suo lavoro professionale e soprattutto
apostolico.
Si riferisce al periodo di lavoro nel cantiere navale di Monfalcone, dove riprese
il suo apostolato fra gli operai dedicandosi anche alla Conferenza di San Vincenzo,
facendo visita alle famiglie povere?
Esattamente. In quella lettera indirizzata alla sorella Egidio scriveva: «Ti voglio
raccontare una cosa tanto bella, ma che per me ha avuto per conseguenza la mia
influenza. La Conferenza di S. Vincenzo ebbe a suo tempo ad interessarsi d’una fa-
90 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
miglia povera composta di babbo, mamma e sette figli. Questa famiglia venne affidata
a me. Abita lontano da Panzano. Presto mi interessai dello stato religioso della
famiglia e appresi che il figlio più piccolo, di anni tre, non era ancora battezzato e
che degli altri più grandi (10, 12, 14, 16 anni), nessuno aveva ancora ricevuto i sacramenti
della Penitenza e della Comunione. Senza indugiare provvidi per il più piccolo
un abito, un paio di scarpette e pregai la madre di condurmelo un dopopranzo
in chiesa, dove avvisato il sacerdote, fu battezzato. Poi mi interessai della preparazione
degli altri quattro e il Signore mi venne in aiuto.
Un bravo seminarista durante le vacanze li istruì, ma pensa, con quanta difficoltà,
perché quei fanciulli non sapevano leggere. Le ultime settimane, essendo quel caro
giovane partito per il Seminario, mi recai io e completai la loro istruzione. Si provvide
al vestiario e alle scarpe per tutti quattro – un fanciullo e tre fanciulle – e si stabilì
per il trenta ottobre, festa di Cristo Re, la Prima Comunione. Alla mattina m’alzai
alle cinque per recarmi a prenderli affinché non facessero tardi: era una nebbia fitta
quella mattina. Tutto riuscì a meraviglia. E’ stato ciò che di più bello e commovente
si può immaginare. Poi vi fu la festa di Cristo Re: anche qui grandi preparativi. Tutto
l’insieme, quell’affaccendarmi, quella nebbia della mattina ed un poco la fatica, mi
esaurirono assai. Il giorno dopo avevo la febbre. Cosa devo fare? Dimmelo tu; limitare,
ridurre al minimo ogni attività, declinare gli impegni che mi assegnano, ritirarmi
in riposo? Come costa tutto ciò; è vero Maria? Eppure, se è necessario bisognerà
che lo faccia; il Signore si compiacerà egualmente del mio riposo che delle mie fatiche,
è vero?». Questo è Egidio. E potremo conoscerlo anche meglio quando lo accosteremo
mentre salirà il Calvario, dove consumerà, nello splendore d’una lunga liturgia,
il suo sacrificio.
Da quanto sopra descritto i cardini della vita di Egidio Bullesi sono stati l’Eucarestia
e la carità: stanno in questo binomio la sua santità e l’attualità del
suo messaggio?
Sono due le dimensioni della vita di Egidio Bullesi: l’Eucarestia e la carità. La
sua unione a Gesù Eucaristia lo spinge a uscire fuori di se stesso e a donarsi ai suoi
coetanei, attratti dalla semplicità limpida e cordiale del suo esempio. Un giovane
lieto, che diffonde gioia con la sua presenza, e fa amare quello che egli appassionatamente
ama. Nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a
propria volta gli altri. Un’Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato
è in se stessa frammentata. Il comandamento dell’amore diventa possibile
solo perché non è soltanto esigenza: l’amore può essere “comandato” perché prima
è donato. Bullesi riconosce il Signore nel tabernacolo, lo riconosce nei sofferenti e
nei bisognosi; appartiene a coloro, cui il giudice del mondo dirà: avevo fame e mi
avete dato da mangiare; avevo sete e mi avete dato da bere; ero nudo e mi avete rivestito;
ero malato e mi avete visitato; ero in prigione e siete venuti a trovarmi (cfr.
Mt 25,35). Nessuno può essere escluso dal nostro amore, dal momento che con l’incarnazione
il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Nasce così intorno
al mistero eucaristico il servizio della carità nei confronti del prossimo, che consiste
91

Bonus Miles Christi
appunto nel fatto che io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non gradisco
o neanche conosco. Allora imparo a guardare l’altro non più soltanto con i miei occhi
e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo. In tal modo riconosco
nelle persone che avvicino dei fratelli per i quali il Signore ha dato la vita.
L’Eucaristia spinge ogni credente a farsi pane spezzato per gli altri, e dunque a impegnarsi
per un mondo più giusto e fraterno: “voi stessi date loro da mangiare” (Mt
14,16). Davvero la vocazione di ciascuno è trasformarsi, insieme a Gesù, in pane
spezzato per la vita del mondo. Ne consegue che la carità costruita senza Dio o addirittura
contro di lui finisce nella confusione e nella distruzione totale, nell’odio e
nella sopraffazione di tutti contro tutti. L’Eucaristia porta nascosta in sé la vocazione
all’amore del mondo e ne segna il destino.
Si può parlare in Bullesi anche di formazione alla fraternità?
Egidio ci ha insegnato con la vita che essere cristiani significa stare intorno a
Cristo, come in cerchio, riconoscere in Lui il centro e riconoscere negli altri coloro
che egli ci fa incontrare, accogliere e amare a causa della fede che tutti abbiamo
in Lui. Insieme ai nostri fratelli ci riconosceremo radunati, compaginati e nutriti
da Cristo, formeremo un solo popolo e un solo corpo per innalzare il rendimento di
grazie e l’intercessione per il mondo intero; ci uniremo alla sua offerta, portando
all’altare noi stessi, le nostre fatiche e le cose create; ripartiremo come inviati nel
suo nome, per fare sbocciare in ogni ambito dell’esistenza la novità del Vangelo, e
così glorificarlo con la nostra stessa vita. Se imparo a guardare l’altro non con i
miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo allora
il suo amico è mio amico. Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all’altro ben
più che le cose esternamente necessarie; posso donargli lo sguardo di amore di cui
egli ha bisogno. Ma se il contatto con Dio manca nella mia vita, posso vedere nell’altro
sempre soltanto l’altro e non riesco a riconoscere in lui l’immagine divina.
Se, però, nella mia vita tralascio completamente l’attenzione per l’altro, volendo
solamente compiere i miei doveri religiosi, allora s’inaridisce anche il rapporto con
Dio. La mia disponibilità ad andare incontro al prossimo, a mostrargli amore, mi
rende sensibile anche di fronte a Dio, certo che il servizio al prossimo apre lo
sguardo su quello che Dio fa per me e su come Egli mi ama. I santi hanno attinto
la loro capacità di amare il prossimo, in modo sempre nuovo, dal loro incontro col
Signore eucaristico e, reciprocamente, questo incontro ha acquisito il suo realismo
e la sua profondità proprio nel loro servizio agli altri. Amore di Dio e amore del
prossimo sono inseparabili, sono un unico comandamento. Entrambi però vivono
dell’amore preveniente di Dio che ci ha amati per primo. Così non si tratta più di
un comandamento dall’esterno che ci impone l’impossibile, bensì di un’esperienza
dell’amore donata dall’interno, un amore che, per sua natura, deve essere ulteriormente
partecipato ad altri. L’amore cresce attraverso l’amore. L’amore è divino perché
viene da Dio e ci unisce a Dio e, mediante questo processo unificante, ci trasforma
in un Noi che supera le divisioni e ci fa diventare una cosa sola, fino a che,
alla fine, Dio sia “tutto in tutti” (1 Cor 15,28).
92 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
A soli 24 anni, Egidio abbraccia la malattia e la sofferenza come strumento di
sequela di Cristo. È qui la santità?
Per essere genuina, la carità cristiana deve partire dal cuore, dalle viscere di misericordia
(cfr. Col 3,12). Quando un cristiano ama così, è Dio che ama attraverso di
lui; egli diventa un canale dell’amore divino. Questo spiega la risonanza, apparentemente
sproporzionata, che ha talvolta un semplicissimo atto di amore, spesso perfino
nascosto, per la speranza e la luce che crea. Certo «l’amore – caritas – sarà
sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale
giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi
dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza
che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci
saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto
nella linea di un concreto amore per il prossimo» (Deus caritas est, n. 28/b). Ecco
perché Gesù nell’Eucaristia rimane con noi sempre, sino alla fine dei secoli. In sintesi,
come sottolinea mons. Antonio Santin, già suo padre spirituale, poi arcivescovo di
Trieste: «La fede è la luce dell’esistenza di Egidio, la grazia è la vita soprannaturale
nella quale vive. Tutti i giovani sono fatti per il Signore ed egli a lui vuole condurli.
La vita militare diventa così un periodo splendido vissuto fra tanta gioventù. È un
quadro che incanta. Essere santi è il suo ideale. Non che non gli sorridesse la vita
con tutti i suoi incanti e i sogni di apostolato che ardevano nel cuore. Ma la mano
del Signore gli indicava un’altra strada ed egli la percorreva sicuro. Così a ventiquattro
anni, in ospedale, si spegnerà la sua vita terrena e si accenderà quella gloriosa
nel cielo. I giovani furono attratti da questa donazione sorridente di piccole cose,
ma totale, fatta con giovanile amore. Non sta qui la santità? Non metà, ma tutto.
Non freddamente ma con ardore. Non orgogliosamente e puntigliosamente, ma in
umiltà. E con gioia. Perché aveva capito che questo è seguire Gesù» (Pola, 28 luglio
1975).
15 marzo 2013
(a cura di) Daniele Rocchi ■
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94
Omelia per la S. Messa
pro eligendo Pontifice
Roma - Chiesa S. Caterina a Magnanapoli, 12 marzo 2013
Ubi Petrus, ibi ergo Ecclesia
Carissimi,
Gesù attraversa un crocevia di miserie umane presso la piscina di Betzata, a Gerusalemme.
Lì incontra e rivolge la parola al paralitico infermo da trentotto anni:
«Vuoi guarire?... Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina» (5,6-7).
Quest’uomo è solo e disorientato. «Alzati, prendi la tua barella e cammina». Gesù
autorizza l’uomo a farsi carico di se stesso sino in fondo, portando, e non gettando,
la sua «barella» (5,10). La guarigione non è negazione delle sofferenze, ma consapevolezza
di ciò che nella vita siamo chiamati a sperimentare e assumere, nel tentativo
quotidiano di uscire dal nostro isolamento, aprendoci a ricevere il dono di
una vita nuova.
«Àlzati! Tu ora non devi più giacere, devi trionfare di ogni prigionia, essere sciolto
e libero, camminare speditamente, devi portare il letto che prima ti portava e che
ora devi alzare con energia e con forza» (Giovanni Taulero). L’opera di guarigione è
compiuta da Gesù con sovrana delicatezza e amorosa misericordia. Ma il guarito nel
corpo non sembra risanato nello spirito, non solo perché non è stato capace di conoscere
il suo benefattore, entrando in comunione di vita con lui, ma anche perché,
nel secondo incontro che avviene nel tempio, Gesù deve ammonirlo con parole gravi:
«Ecco: sei guarito. Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio!» (v.
14). Anche questo secondo richiamo finisce nel vuoto. L’uomo, chiamato nuovamente
alla vita, spreca un’altra occasione di salvezza. Potendo decidere tra il confessare la
Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
sua fede o non aderire alla persona di Gesù, va a riferire ai Giudei il nome del suo
guaritore. Senza dare di Gesù alcuna testimonianza, il beneficato si fa accusatore e
dirige verso Gesù l’odio dei capi, che «incominciarono a perseguitare Gesù, perché
faceva tali cose di sabato» (v. 16).
Seduto ai bordi della speranza, deluso e smarrito è l’uomo di sempre, che Cristo
viene a cercare lì dove si trova, paralizzato dalla sofferenza, dal peccato o dalle circostanze.
Gesù semplicemente chiede: «Vuoi guarire?». Domanda ovvia ma tale da risvegliare
la speranza. Vuoi guarire? Solo se tu vuoi, io ti guarirò. Non siamo forse anche
noi reticenti a guarire di qualche infermità con la quale ci siamo da lungo tempo
abituati a stare? Mi riferisco a infermità spirituali. Non siamo affezionati a qualche
nostra debolezza di carattere, di mentalità, a certe inclinazioni, per cui, anche trovandoci
davanti al sacramento della guarigione noi resistiamo al cambiamento di situazione?
Se voglio guarire devo prendere la mia barella e portarla, e non trovare
continue attenuanti dietro le quali mi è comodo ripararmi. Vuoi guarire? Àlzati!
Quell’uomo all’istante obbedì, si alzò e si mise a camminare.
Carissimi, in questa celebrazione mentre ringraziamo il Signore per il grande dono
del ministero petrino di Benedetto XVI, Pontefice emerito, ci uniamo alla preghiera
della Chiesa per i Cardinali in conclave, perché il Signore ci doni un pastore secondo
il suo cuore, un pastore che ci guidi alla conoscenza di Cristo, al suo amore, alla
vera gioia. Desidero, perciò, soffermarmi con voi sul primato che Gesù affida a Pietro
e ai suoi successori nel tempo della Chiesa. La Chiesa cattolica è consapevole di
aver conservato il ministero del Successore dell’apostolo Pietro, il Vescovo di Roma,
che Dio ha costituito quale «perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità»
(LG, 23).
95

Bonus Miles Christi
Nel Nuovo Testamento, la persona di Pietro ha un posto eminente. Nella prima
parte degli Atti degli Apostoli, egli appare come il capo e il portavoce del collegio
apostolico designato come «Pietro [...] con gli altri Undici» (2,14; cfr. anche 2,37;
5,29). Il posto assegnato a Pietro è fondato sulle parole stesse di Cristo, così come
esse sono ricordate nelle tradizioni evangeliche.
Il Vangelo di Matteo delinea e precisa la sua missione pastorale nella Chiesa:
«Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato,
ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò
la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò
le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli,
e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (16,17-19).
Luca evidenzia che Cristo raccomanda a Pietro di confermare i fratelli, ma che
allo stesso tempo gli fa conoscere la sua debolezza umana e il suo bisogno di conversione
(cfr. Lc 22,31-32). È proprio come se, sullo sfondo dell’umana debolezza di
Pietro, si manifestasse pienamente che il suo particolare ministero nella Chiesa proviene
totalmente dalla grazia; è come se il Maestro si dedicasse in modo speciale
alla sua conversione per prepararlo al compito che si appresta ad affidargli nella sua
Chiesa e fosse molto esigente con lui.
La stessa funzione di Pietro, sempre legata a una realistica affermazione della
sua debolezza, si ritrova nel quarto Vangelo: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di
costoro? [...] Pasci le mie pecorelle» (cfr. Gv 21,15-19).
È inoltre significativo che secondo la Prima Lettera di Paolo ai Corinzi, il Cristo
risorto appaia a Cefa e quindi ai Dodici
(cfr. 15,5).
È importante rilevare come la debolezza
di Pietro manifesti che la
Chiesa si fonda sulla infinita potenza
della grazia (cfr. Mt 16,17).
Pietro, subito dopo la sua investitura,
è redarguito con rara severità
da Cristo che gli dice: «Tu mi sei di
scandalo» (Mt 16,23). Come non vedere
nella misericordia di cui Pietro
ha bisogno una relazione con il ministero
di quella misericordia che
egli sperimenta per primo? Ugualmente,
tre volte egli rinnegherà
Gesù. Anche il Vangelo di Giovanni
sottolinea che Pietro riceve l’incarico
di pascere il gregge in una triplice
professione d’amore (cfr.
21,15-17) che corrisponde al suo
triplice tradimento (cfr. 13,38).
Luca, da parte sua, nella parola di
96 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
Cristo già citata, alla quale aderirà la prima tradizione nell’intento di tracciare la
missione di Pietro, insiste sul fatto che questi dovrà «confermare i suoi fratelli una
volta che si sarà ravveduto» (cfr. Lc 22,32).
Questo incarico può esigere di offrire la propria vita (cfr. Gv 10,11-18). La missione
del Vescovo di Roma nel gruppo di tutti i Pastori consiste appunto nel “vegliare”
come una sentinella, in modo che, grazie ai Pastori, si oda in tutte le Chiese
particolari la vera voce di Cristo-Pastore. Così, in ciascuna delle Chiese particolari
loro affidate si realizza l’una, sancta, catholica et apostolica Ecclesia. Tutte le Chiese
sono in comunione piena e visibile, perché tutti i Pastori sono in comunione con
Pietro, e così nell’unità di Cristo. Certo a nessuno sfugge la sproporzione degli uomini
chiamati a succedere a Pietro, per una tale funzione. Ma proprio nel conferimento a
un uomo della funzione di roccia diventa chiaro che non sono tali uomini che sostengono
la Chiesa, ma solo Colui il quale la sostiene, più nonostante gli uomini
che attraverso di essi.
Questa lezione del Vangelo deve essere costantemente riletta, affinché l’esercizio
del ministero petrino nulla perda della sua autenticità e trasparenza.
Ogni singola parola biblica sul primato resta così, di generazione in generazione,
un’indicazione, una misura, a cui dobbiamo sempre nuovamente piegarci. Se la Chiesa
mantiene la sua fede in queste parole, non si tratta di trionfalismo, ma di umiltà,
che riconosce grata la vittoria di Dio, sulla debolezza umana e attraverso di essa.
Chi per paura del trionfalismo o del potere arbitrario dell’uomo toglie a queste parole
la loro forza, non annuncia affatto un Dio più grande, piuttosto lo rimpicciolisce.
Egli, infatti, manifesta la potenza
del suo amore proprio nel paradosso
dell’impotenza umana e così rimane
fedele alla legge della storia della
salvezza.
Dunque, con lo stesso realismo
con cui oggi ammettiamo le fragilità
dei papi, la loro inadeguatezza rispetto
alla grandezza del loro ministero,
dobbiamo anche riconoscere
che sempre Pietro è stato la roccia
contro le ideologie; contro la riduzione
della Parola a quanto è plausibile
in un’epoca determinata; contro
la sottomissione ai potenti di
questo mondo.
Riconoscendo questi fatti nella
storia, noi non celebriamo degli uomini,
ma diamo lode al Signore, che
non abbandona la Chiesa e che ha
voluto realizzare il suo esser roccia
attraverso Pietro, la piccola pietra
97

Bonus Miles Christi
d’inciampo: non la «carne e il sangue», ma il Signore salva attraverso coloro che
provengono dalla carne e dal sangue. La promessa fatta a Pietro e la sua realizzazione
storica in Roma rimangono quindi nel più profondo un motivo perenne di gioia: le
potenze degli inferi non prevarranno contro di essa...
Il Signore vince sempre. Sì, è vera la sua promessa: i poteri della morte, le porte
degli inferi non prevarranno contro la Chiesa che Egli ha edificato su Pietro (cfr. Mt
16,18) e che Egli, proprio in questo modo, continua a edificare personalmente.
Nell’Anno della fede, nel giorno in cui inizia il conclave, professiamo la verità
evangelica su Pietro e i suoi successori. «La Chiesa con piena verità si fonda come
in un fondamento visibile, prima in Pietro e sui suoi successori, immediatamente
poi sugli apostoli e sui vescovi, successori degli apostoli» (Leone XIII). Nella figura,
nella missione e nel ministero di Pietro, nella sua presenza e nella sua morte a Roma,
la Chiesa contempla una profonda realtà, che è in rapporto essenziale con il suo
stesso mistero di comunione e di salvezza: «Ubi Petrus, ibi ergo Ecclesia» (Sant’Ambrogio).
La Chiesa, fin dagli inizi e con crescente chiarezza, ha capito che come esiste la
successione degli Apostoli nel ministero dei Vescovi, così anche il ministero dell’unità,
affidato a Pietro, appartiene alla perenne struttura della Chiesa di Cristo e
che questa successione è fissata nella sede del suo martirio. Il compito di Pietro è
di presiedere a questa comunione universale; di mantenerla presente nel mondo
come unità anche visibile, incarnata. Egli, insieme con tutta la Chiesa di Roma,
deve – come dice sant’Ignazio di Antiochia – presiedere alla carità: presiedere alla
comunità di quell’amore che proviene da Cristo e, sempre di nuovo, oltrepassa i limiti
del privato per portare l’amore di Cristo fino ai confini della terra. Tale è stata anche
la fede della Chiesa nel corso della storia, tale è pure la fede di noi, cristiani di oggi.
Ci guidi e ci accompagni sempre con la sua intercessione la santa Madre di Dio:
la sua fede indefettibile, che sostenne la fede di Pietro e degli altri Apostoli, continui
a sostenere quella delle generazioni cristiane: Madre della Chiesa, prega per noi!
98 Gennaio-Marzo 2013
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo

Conferenza
alla Scuola di Polizia Tributaria
Lido di Ostia, 19 marzo 2013
Meno consumi e più relazioni
Etica e bene comune
La crisi economica e finanziaria che sta attraversando il mondo chiama tutti, persone
e popoli, ad un profondo discernimento dei principi e dei valori culturali e morali
che sono alla base della convivenza sociale. Essa «ci obbliga a riprogettare il
nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare
sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione
di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che
rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente» (Benedetto XVI,
Caritas in veritate, 21).
Dal riconoscimento del primato dell’essere rispetto a quello dell’avere, dell’etica
rispetto a quello dell’economia, i popoli della terra dovrebbero assumere, come anima
della loro azione, un’etica di fraternità, abbandonando ogni forma di egoismo, abbracciando
la logica del bene comune mondiale che trascende ogni interesse particolare.
Dovrebbero, in definitiva, avere vivo il senso di appartenenza alla famiglia
umana in nome della comune dignità di tutti gli esseri umani: «prima delle forme di
giustizia, [...] esiste un qualcosa
che è dovuto all’uomo perché è
uomo, in forza della sua eminente
dignità» (Giovanni Paolo II, Centesimus
Annus, 70).
L’odierna crisi non è solamente di
natura economica e finanziaria, ma
prima di tutto di natura morale,
oltre che ideologica. L’economia, infatti,
ha bisogno dell’etica per il suo
corretto funzionamento, non di
un’etica qualsiasi, bensì di un’etica
amica della persona.
Infatti, sebbene la difesa dei diritti
abbia fatto grandi progressi nel
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100
Bonus Miles Christi
nostro tempo, la cultura odierna, caratterizzata da un individualismo utilitarista e
un economicismo tecnocratico, tende a svalutare la persona.
L’uomo di oggi appare spesso un essere isolato, considerato in chiave prevalentemente
biologica o come parte di un ingranaggio produttivo e finanziario che lo
sovrasta. Eppure è costitutivamente trascendente rispetto agli altri esseri e beni
terreni, gode di un reale primato che lo pone come responsabile di se stesso e del
creato. Di qui l’esigenza di un nuovo umanesimo che aiuta ad abolire gli idoli moderni,
a sostituire l’individualismo, il consumismo materialista e la tecnocrazia, con
la cultura della fraternità e della gratuità.
Alle radici della crisi odierna: il consumismo
Il modello attuale delle relazioni tra famiglie, organizzazioni civili e cooperazione
dei mercati si realizza, purtroppo, nel consumo. Il livello di consumo determina la
nostra posizione sociale come pure gli ambiti ai quali ci è possibile accedere e il
potere che gli altri ci attribuiscono. Il consumo è diventato il simbolo della riuscita
e della sicurezza, la chiave dell’autostima, la forma privilegiata e attesa di espressione
dell’affetto, il sedativo per eccellenza dell’ansietà.
Ormai gli apparati di marketing utilizzano le migliori risorse della psicologia e
modificano il senso tradizionale della produzione economica. Non si tratta di creare
beni e servizi per soddisfare le necessità e rispondere ai progetti esistenziali delle
persone, ma di creare, in modo sistematico e continuo, l’insoddisfazione per i beni
già posseduti, in modo che le persone puntino a colmare questa insoddisfazione rinnovandola
continuamente.
Nel breve termine, l’utente deve rimanere soddisfatto del suo acquisto ricevendone
una gratificazione; è essenziale però che questa gratificazione svanisca presto
e che ritorni ad essere insoddisfatto, per comprare di nuovo. I prodotti si rinnovano
Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
più volte, apportando modifiche, perché la versione precedente sia considerata presto
superata e, anche se continua a esercitare perfettamente le sue funzioni pratiche,
sia sentita come insufficiente e insoddisfacente. Occorre che ciò avvenga rapidamente,
produca una sensazione di urgenza e renda difficile quella riflessione attenta,
razionale o spirituale.
È così che il consumatore si indebita per consumare. Tale indebitamento accresce
il consumo a breve termine e “riscalda” l’economia. Ci sono imprese che possono
avere successo soltanto perché i consumatori vivono al di sopra delle loro possibilità.
Queste imprese creano lavoro e pagano imposte non sostenibili a lungo. Usando il
ricavato di tali imposte, i politici offrono servizi pubblici e sussidi molto al di là di
ciò che il Paese si può permettere.
Ogni imprudenza o trascuratezza dell’utente provocherà non soltanto un abbassamento
del livello di consumo, ma anche l’impossibilità di pagare i debiti, il fallimento,
il licenziamento, forse la miseria e la dipendenza per tutta la vita dal creditore.
Un sistema, il nostro, fondato su un consumo molto superiore a quanto si
possiede.
La domanda di senso nell’economia dell’abbondanza
Siamo passati ai nostri giorni dall’economia della sopravvivenza all’economia
dell’abbondanza, con una crescita eccessiva di produzione dovuta alla progressiva
applicazione di nuove tecnologie. Ma quale arricchimento scaturisce dall’economia
dell’abbondanza e del benessere, che produce sì cose necessarie, ma anche superflue,
lussuose e addirittura dannose? Produrre sempre più beni e servizi è il fine ultimo
dell’economia? Un’economia senza misura conduce alla dismisura, esaurisce le risorse
del pianeta, esaspera i conflitti, dà la preminenza all’economico sul politico, sul culturale
e sullo spirituale, in una parola sull’umano.
Inoltre, con le tecnologie aumenta la produttività, ma diminuisce il tempo del
lavoro necessario per la produzione. Così risulta sempre più difficile assicurare lavoro
a tempo pieno e per tutti, a meno che non si voglia aumentare indefinitamente la
quantità prodotta, cosa fisicamente e socialmente non desiderabile. Si avrebbe una
crescita indefinita dei consumi, con quanto implica in termini di spreco della merce.
Nell’economia tecnologica, poi, emerge il problema della mancanza di lavoro.
Non sembra vero sostenere che la disoccupazione sia causata da eccesso di lavoratori,
anche immigrati, perché l’informatizzazione toglie posti di lavoro. La riduzione
del tempo di lavoro produttivo è uno dei nuovi problemi delle società economicamente
avanzate. Come e secondo quali criteri si deve risolverlo? Il dibattito è aperto
e le soluzioni proposte risultano finora insufficienti. Di sicuro c’è solo che la disoccupazione
è un grave male personale e sociale.
È, perciò, urgente la domanda di senso su un’economia dell’abbondanza affidata
quasi esclusivamente alle cosiddette leggi economiche. Il progresso economico è
indubitabile, ma non è stato un progresso anche umano e sociale. Nessuno può rallegrarsi
di uno sviluppo che avanza creando inaccettabili disuguaglianze, frutto non
già di eventi fatali, ma di libere decisioni umane.
101

102
Bonus Miles Christi
Diamo un senso etico all’economia
«La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente
nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità
e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La
convinzione, poi, della esigenza di autonomia dell’economia, che non deve accettare
“influenze” di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico
in modo persino distruttivo» (Caritas in Veritate, 34). Il fine dell’economia
non è insito in essa. Una scissione tra economia e società ha delle conseguenze tragiche,
come pure è fonte di innumerevoli sprechi e disfunzioni anteporre l’uomo economico
all’uomo-solidale.
Purtroppo la modernità ci ha lasciato in eredità l’idea in base alla quale per poter
operare nel campo dell’economia sia indispensabile mirare al profitto ed essere animati
prevalentemente dal proprio interesse; come a dire che non si è pienamente
imprenditori se non si persegue il massimo del profitto.
Al contrario a nessuno sfugge che fare impresa è possibile anche quando si perseguono
fini di utilità sociale e si è mossi all’azione da motivazioni a vantaggio del
sociale. È un modo concreto, anche se non l’unico, di colmare il divario tra l’economico
e il sociale dato che un agire economico che non incorporasse al proprio interno
la dimensione del sociale non sarebbe eticamente accettabile, come è altrettanto
vero che un sociale meramente redistributivo, che non facesse i conti col vincolo
delle risorse, non sarebbe alla lunga sostenibile: prima di poter distribuire occorre,
infatti, produrre.
Quando lo scopo dell’agire economico non è la tensione verso un comune obiettivo
(come l’etimo latino cum-petere lascerebbe chiaramente intendere) ma l’hobbesiana
mors tua, vita mea, il legame sociale viene ridotto al rapporto di mercato e
l’attività economica tende a divenire non umana e inefficiente. Anche nella compe-
Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
tizione, perciò, possono essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia,
di socialità e di reciprocità, anche all’interno dell’attività economica e non soltanto
fuori di essa o “dopo” di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale né
di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio
perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente. È chiaro che
il retto agire economico non può prescindere dalla centralità della persona umana e
dal bene comune. Ma cosa è il bene comune?
Il concetto di bene comune
Il concetto di bene comune risente della svolta individualistica della cultura moderna,
che accentua le forme di particolarismo e di corporativismo date dalla ricerca
di interessi soggettivi e dalla difesa dei propri privilegi.
Nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa tuttavia si trova una definizione
ben chiara: «Il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari
di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune,
perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo
e custodirlo, anche in vista del futuro».
Il bene comune è definibile in una stretta correlazione tra esigenze dei singoli
ed esigenze dell’intera collettività, facendo leva, come criterio di fondo, sul principio
dell’equità sociale che ha le sue radici nell’uguaglianza delle persone e nella parità
dei loro diritti.
Ciò esige una mutua armonia tra soggettività e socialità. Il bene comune coniuga
il personale e il sociale, ed invoca una maggiore interazione tra soggettività e socialità.
La persona è, infatti, individualità e socialità; singolarità irripetibile ma
anche riferimento costitutivo alla relazionalità. La persona è “ponte” essenziale per
passare dall’umanità di me e al mondo delle istituzioni e della civiltà.
Accanto all’io e al tu c’è il terzo, che non è l’anonimo ma un soggetto dal volto
e dal nome preciso, con il quale non potremo mai entrare in un rapporto diretto e
che tuttavia reclama l’esercizio della nostra responsabilità a creare strutture giuste
capaci di tutelare e promuovere i diritti di tutti. I bisogni di ciascuno vanno infatti
definiti in relazione ai bisogni di tutti.
Cosa possiamo imparare dalla crisi
Alla radice della crisi si trovano l’eccesso dei consumatori, disposti a lasciarsi
trascinare all’indebitamento per acquistare molto al di sopra delle loro possibilità;
l’eccesso degli investitori, che, spinti da avidità, hanno fatto pressioni per avere
redditi molto al di là del ragionevole in un’economia sana; e l’eccesso dei politici,
che, per avere qualche voto in più, hanno facilitato operazioni economiche non sane,
impegnando il denaro ricavato dalle imposte per offrire servizi e diritti non sostenibili
a lungo termine.
Quanti si sono abbandonati a tali eccessi cercavano la felicità nei loro interessi,
non nelle relazioni personali e sociali di valore. Bisogna allora ritornare al senso
della misura scegliendo di non giocarsi la vita e quella degli altri sul consumo, sul
103

Bonus Miles Christi
guadagno e sul potere. Inauguriamo
una stagione di quella sobrietà che
sa distinguere tra cose necessarie e
superflue.
L’eccessiva disponibilità di ogni
tipo di beni materiali in favore di alcune
fasce sociali sta rendendo gli
uomini schiavi del “possesso” e del
godimento immediato, senza altro
orizzonte che la moltiplicazione o la
continua sostituzione delle cose, che
già si possiedono, con altre ancora
più perfette. Un oggetto posseduto,
e già superato da un altro più perfetto,
è messo da parte, senza tener
conto del suo possibile valore permanente per sé o in favore di un altro essere umano
più povero. Così le cose diventano le ragioni della vita. Non è certo un male essere
ricchi, poter disporre di beni che aumentano la qualità della vita. Il male subentra
quando la ricchezza è ottenuta con danno e sfruttamento di altri; quando non è
usata per scopi ragionevoli; quando per produrre si danneggia l’ambiente che è donato
a tutti; quando si ignora o si fa finta di ignorare la moltitudine di coloro che
non hanno nemmeno il necessario per vivere.
La sobrietà apprezza i beni e i servizi, ma non si lascia sopraffare, non è schiava
delle cose; è uno stile di vita che coltiva il senso della misura, del limite, della moderazione;
mira alla qualità più che alla quantità.
La sobrietà non significa non produrre, ma produrre meglio; consumare meno e
meglio; non si tratta di rinunciare, ma di sapere distinguere tra bisogni necessari e
bisogni indotti dalla moda, dalla pubblicità, dalla logica di mercato, non significa
rinunciare, ma pensare anche agli altri. La sobrietà si qualifica come esercizio concreto
di carità. A riguardo la Chiesa dispone di una ricca dottrina e soprattutto di
una bi millenaria testimonianza. Basti soffermarsi sulla storia di carità dei santi e
l’insegnamento dei pontefici, come l’odierna omelia di Papa Francesco per l’inizio
del Suo ministero petrino.
La fraternità è il nome nuovo della sobrietà
Il termine fraternità, scomparso dal nostro vocabolario, è sostituito da quello di
solidarietà. Ci si domanda se solidarietà e fraternità siano sinonimi o semplici varianti
del medesimo concetto; se il legame profondo che lega gli uni agli altri e al
mondo, può essere indicato indifferentemente dall’una o dall’altra parola. Pare che
parlare di solidarietà sia un “indebolimento” del termine fraternità perché si passa
dal concetto di fraternità a quello di solidarietà quando scompare dall’orizzonte
l’idea di Dio. Il concetto di fraternità cristiana può essere compreso solo in riferimento
a Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio. La fraternità, come messaggio da tra-
104 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
smettere all’umanità, è una logica conseguenza della confessione della paternità di
Dio. Siamo tutti figli dell’unico Padre.
Il principio di fraternità è ontologico, prima che etico: siamo fratelli e, pertanto,
dobbiamo comportarci come fratelli. Base della fraternità è, quindi, la concezione
cristiana della persona. «Il Padre vuole che in tutti gli uomini noi riconosciamo ed
efficacemente amiamo Cristo nostro fratello, con la parola e con l’azione, rendendo
così testimonianza alla verità, e comunicando agli altri il mistero dell’amore del
Padre celeste» (GS, 93). Chiamarsi fratelli, dire fraternità, impegna a spendersi per
l’altro, gli altri; a costruire una storia dove ciascuno è termine della sollecitudine
dell’altro, dove il ciascuno per sé si collega al ciascuno per l’altro. «Dio, che ha cura
paterna di tutti, ha voluto che gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero
tra loro con animo di fratelli» (GS, 24 e cfr. 92).
Amare non è per l’uomo un dovere morale, è la via per rimanere e crescere nell’essere,
esistere umanamente. L’uomo è fatto per donarsi; perdendosi, si ritrova; superando
ogni forma di individualismo ed egoismo si realizza come vera persona.
Papa Benedetto XVI, riflettendo sulla mancanza di fraternità tra gli uomini e tra
i popoli, afferma: «La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci
rende fratelli. La ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini
e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità.
Questa ha origine da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per
primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna» (Caritas in
Veritate, 19).
Nella fraternità il nostro umanesimo si fa cristianesimo, tanto che possiamo affermare
con sant’Agostino: «per conoscere Dio (…) quel Dio dal Quale allontanarsi
è cadere, al Quale rivolgersi è risorgere, nel Quale rimanere è stare saldi, al Quale ritornare
è rinascere, nel Quale abitare è vivere» bisogna conoscere l’uomo.
Una speranza per il futuro: un’Autorità politica mondiale
La crisi economica e finanziaria insegna il limite di ogni visione nazionale quando
le dinamiche economiche di fondo sono globali. Nessuna forma di nazionalismo sarà
in grado di imporre moderazione ai mercati, di proteggere le comunità come luogo
di relazioni più umanitarie o di regolare in modo giusto la ripartizione dei beni e
degli oneri della globalizzazione. Questo può ottenerlo soltanto un’Autorità politica
mondiale.
Costruire questa autorità richiede una crescita della capacità di comprendere e
delle intese fra i popoli, fino a collocarci tutti sotto la stessa legge e a creare schemi
ridistributivi globali. Non è la prima volta che il capitale sfugge al controllo politico
e che si devono creare nuove strutture politiche per imbrigliarlo. La crisi ci chiama
a un futuro nel quale, riconoscendo la potenzialità della globalizzazione per ridurre
la povertà e abbandonando come inutile la tentazione nazionalistica, cercheremo la
stabilità sociale, l’efficienza dell’economia per procurare le basi materiali dell’umanizzazione,
la giustizia per tutti, con relazioni politiche più intense, più salde e più
efficaci tra i popoli, fino a giungere a un Governo globale per una società globale.
105

Bonus Miles Christi
Esso appare necessario se si pensa alle questioni da trattare a livello globale:
alla pace e alla sicurezza; al disarmo e al controllo degli armamenti; alla promozione
e alla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo; al governo dell’economia e alle politiche
di sviluppo; alla gestione dei flussi migratori e alla sicurezza alimentare; alla
tutela dell’ambiente. In tutti questi ambiti risulta sempre più evidente la crescente
interdipendenza tra Stati e regioni del mondo e la necessità di risposte, non isolate,
ma integrate, ispirate dalla fraternità e orientate al bene comune universale.
Lo scopo dell’Autorità dovrebbe essere quello di servire il bene comune. Essa,
pertanto, deve dotarsi di strutture e meccanismi adeguati, efficaci, ossia all’altezza
della propria missione e delle aspettative che in essa sono riposte.
L’Autorità dovrebbe sorgere da un processo di maturazione progressiva delle coscienze
e delle libertà, nonché dalla consapevolezza di crescenti responsabilità. Non
possono, per conseguenza, essere tralasciati come superflui elementi quali la fiducia
reciproca, l’autonomia e la partecipazione. Il consenso deve coinvolgere un sempre
maggior numero di Paesi che aderiscono in maniera convinta, mediante quel dialogo
sincero che non emargina, bensì valorizza le opinioni minoritarie. Tutti i popoli, perciò,
andrebbero coinvolti nel contribuire con il patrimonio delle loro virtù e delle
loro civiltà.
La concezione di una nuova società, la costruzione di nuove istituzioni dalla vocazione
e competenza universali, sono una prerogativa e un dovere per tutti, senza
distinzione alcuna. È in gioco il bene comune dell’umanità e il futuro stesso dell’uomo.
Ricordiamo: il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è la persona nella
sua integrità.
Grazie per l’attenzione.
106 Gennaio-Marzo 2013
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo

Omelia per la S. Messa
in preparazione alla Pasqua
Santuario Nostra Signora di Bonaria, 21 marzo 2013
Il Vangelo, miele per la tua bocca
Carissimi,
l’immagine con cui si apre la prima lettura ci aiuta a cogliere quello che potremmo
definire il segreto di Abramo. Il nostro padre nella fede, in un momento delicato e
drammatico dell’azione del Signore nella sua vita, «si prostrò con il viso a terra e
Dio parlò con lui» (Gen 17,3). Abramo
è l’uomo che, giorno dopo giorno e
passo dopo passo, si pone in ascolto
del Signore accettando in tutta verità
di camminare con lui, lasciandosi rivelare
le strade in modo graduale,
senza avanzare pretese.
Un lungo cammino è stato quello
di Abramo, per imparare a diventare
«padre» (17,4) attraverso un lento
processo di purificazione interiore.
Questo cammino interiore lo renderà
padre di molti, proprio perché si dimostra
sempre più capace di diventare
padre di sè, fino a essere in grado di
generare il suo cuore a una libertà dall’attaccamento
verso se stesso che lo renderà capace di generare alla libertà pure
noi che amiamo definirci suoi figli.
Accogliere e intercedere sembrano essere le caratteristiche di Abramo. Queste attitudini
sembrano mancare a quanti discutono tanto di Dio e infine «raccolsero delle
pietre per gettarle contro di Gesù» (8,59). Il Signore Gesù non nega affatto di essere
parte della stirpe di Abramo, ma rettifica il modo in cui i giudei rivendicano questa
paternità, perché non disposto ad entrare nel medesimo cammino di fede che fu del
patriarca. Con e come Abramo siamo chiamati a lasciarci alle spalle le nostre abitudini
religiose e devote, che spesso rivelano una incapacità ad accogliere e a riprendere
percorsi inediti.
Il primo passo di ogni cammino di fede sembra esigere la capacità di prostrarsi
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Bonus Miles Christi
in adorazione. In tal modo dichiariamo la disponibilità a lasciare che la nostra vita
ci appartenga, non come qualcosa che dipende solo da noi, ma che è una realtà accolta
come dono e continuamente vissuta insieme al nostro Creatore, che impariamo
a conoscere sempre più come Padre. L’esperienza di Dio come Padre è l’esperienza
più forte del Signore Gesù, ma è pure il dono più grande che ci viene dal suo dono
pasquale.
Nel Vangelo, Gesù viene contrastato dai Giudei, ma non si adira di fronte agli insulti
e non ricambia con parole offensive. Questo atteggiamento che cosa ci suggerisce,
se non il silenzio nel momento in cui riceviamo dal prossimo insulti e calunnie?
Gesù invita ad essere pazienti. Come, però, i buoni diventano migliori anche di fronte
alle offese, così i malvagi peggiorano persino ricevendo il bene. Le menti incredule,
incapaci di comprendere la verità, prendono i sassi e cercano di lapidare colui che
non riuscivano a capire. Come si sia comportato Cristo di fronte al furore di chi lo
voleva lapidare, è espresso nelle parole: «Gesù si nascose e uscì dal tempio» (Gv
8,59). Proviamo meraviglia vedendo Cristo sfuggire ai suoi persecutori e nascondersi,
mentre, se avesse voluto ricorrere alla sua divina potenza, con un cenno della volontà
li avrebbe resi impotenti nell’atto stesso in cui stavano per lapidarlo o li avrebbe
colpiti facendoli subito morire. Siccome però era venuto per soffrire non volle esercitare
questa rigorosa giustizia.
Che cosa insegna in questa circostanza se non a sfuggire con umiltà l’ira dei violenti
anche quando potremmo resistervi? Nessuno, ricevendo delle offese, si lasci
travolgere dall’ira nè risponda con l’insulto. Secondo l’esempio di Gesù è maggiore
il merito di chi sfugge all’ingiuria, tacendo, di chi pensa di esserne vittorioso ri-
Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
cambiandola. Ma come riuscire ad essere misericordiosi con chi ci offende e ci maledice?
Gesù disse ai Giudei: osservate la mia Parola.
Carissimi, ciascuno abiti nell’amore del Signore.
L’amore desidera conoscere e vedere. Noi non abbiamo ascoltato e visto Gesù,
Verbo fatto carne. Ma sappiamo che la sua carne è tornata Parola, per farsi carne in
noi che l’ascoltiamo e contempliamo. Perché l’uomo diventa la parola che ascolta e
si trasfigura in colui davanti al quale sta. Il Vangelo che racconta la storia di Gesù
è per noi la sua carne, norma di fede e criterio supremo di discernimento quotidiano
in ogni scelta di vita. Diversamente ci inventiamo un Dio fatto su misura delle nostre
fantasie, credendo non in lui, ma nelle nostre idee su di lui.
Andiamo alla scuola del Vangelo, per conoscere la verità che rende liberi. Leggi
sempre con stupore e rendimento di grazie la Parola, che è luce per i tuoi occhi,
miele per la tua bocca e gioia per il tuo cuore. Leggi e stupisci; convertiti e gioisci;
discerni e scegli, quindi agisci.
Sappi che dove non stupisci, non capisci; dove non ti converti, non gioisci; dove
non gioisci, non discerni; dove non discerni non scegli; dove non scegli, agisci inevitabilmente
secondo il pensiero dell’uomo e non secondo quello di Dio (Mc 8,33).
Gesù, il Vangelo, sia per te il centro della tua vita.
Signore Gesù Cristo, tu sei lo stesso, ieri, oggi e sempre! Tu sei l’unico a cui possiamo
sicuramente affidare la nostra vita. Aiutaci a vivere con te e abitare nella Parola
che da te ha avuto inizio e in te avrà pieno compimento.
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo
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Omelia per la S. Messa
in preparazione alla Pasqua
Cattedrale di Grosseto, 25 marzo 2013
Non ti ho amato per scherzo
Carissimi,
sei giorni prima di Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Marta, Maria e
Lazzaro, suoi amici. Qui fecero una cena per lui. Dopo quella cena non ci sarà altro
convito a Betania.
Il brano del Vangelo ci fa respirare un atmosfera di affetto e di amicizia, di vita
e di morte: c’è Lazzaro ormai risuscitato; Marta che serve a tavola; Maria che, con il
suo silenzioso gesto di amore adorante,
cosparge di profumo i piedi
del Signore; c’è Giuda che si lamenta
per non aver pensato ai poveri.
La cena di Betania prelude l’ultima
Cena: due cene vissute diversamente.
Nella prima, Gesù è
l’ospite amato a cui Maria bagna i
piedi profumandoli e asciugandoli
con i suoi capelli, mentre all’orizzonte
si profila la condanna a
morte. Al cenacolo, invece, è Gesù
che serve, consola e lava i piedi ai
discepoli.
Due figure, Maria e Giuda:
l’amore dilata il cuore dell’una, la
meschinità chiude all’amore il
cuore dell’altro. Il nardo è capace
di vincere l’odore della morte, richiamata
dall’egoismo di Giuda che
prendeva di nascosto quello che
c’era dentro la cassa per i poveri.
Ma a Betania il Povero era colui
che, tradito e abbandonato da
Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
tutti, si preparava ad accettare, con la morte di croce, anche lo strazio della sua adorabile
carne. Troppa gente cosiddetta buona ha paura più che degli “eccessi dell’egoismo”,
degli “eccessi della carità”.
Il gesto della donna dovrebbe inquietarci. Gesù è davvero importante per noi da
voler “sprecare” per lui noi stessi e i nostri beni?
Ci fermiamo spesso in una fede vissuta come rapporto di dare e avere, in cui
esporsi a seconda della convenienza. Il Vangelo è tutt’altro: è amore, un amore più
forte di ogni morte, che è guadagno in se stesso. L’amore o è gratuito o non è.
La donna, dando il suo profumo prezioso, esce dalla sala con un cuore ancora
più grande, capace di accogliere il dono della vita. Anche il Signore ha bisogno
d’amore. Gesù ha bisogno di tutto e di niente. Ha bisogno di un puledro di asina per
il suo ingresso a Gerusalemme, di una stanza per l’ultima Pasqua con i suoi, ha bisogno
di questo olio profumato per i suoi piedi che stanno per salire il Calvario.
«Amo vederlo così il Signore, bisognoso e indulgente; e benedico le mani che lo
soccorrono. Benedico l’olio che scende sui suoi piedi. Questo amore è dell’ordine di
quella divina carità che dal Cenacolo sale al Calvario e porta il segno dei chiodi sino
alla fine dei secoli per amor nostro. E l’olio, che nella casa ospitale di Lazzaro è
stato sparso sui piedi di Gesù, i quali s’avviavano verso l’offerta non ben capita né
ben accolta dalla maggioranza degli uomini, indica la prima spaccatura della pietra
del nostro cuore, su cui il Figlio dell’uomo potrà sostare mentre va a morire per noi»
(P. Mazzolari).
A Betania, Maria non ha neppure avvertito l’ostilità contro di lei, ma tranquilla,
con solerzia tutta femminile, a suo modo, ha reso Gesù incorruttibile per la risurrezione.
Ella nella risurrezione crede più di ogni altro, perché sono pochi giorni che
111

Bonus Miles Christi
ha visto suo fratello Lazzaro uscire
vivo dalla tomba. Per questo è certa
che il suo profumo non andrà perduto.
«Lasciatela fare – aggiunge Gesù
nel Vangelo – perché ella conservi il
profumo per il giorno della mia sepoltura.
I poveri li avete sempre con voi,
ma non sempre avrete me» (12,7s.). Al
primo posto sta la fede, al secondo la
misericordia. La misericordia è preziosa
solo se è accompagnata dalla
fede; senza la fede è spoglia, senza la
fede è insicura; è la fede il sicuro fondamento
di ogni virtù. Beato dunque
chi pensa a Cristo, che, da ricco che
era, si è fatto povero per noi. «Ricco
nel suo regno, povero nella carne, perché
ha preso su di sé questa carne da
poveri. Non ha patito dunque nella sua ricchezza, ma nella nostra povertà. Cerca
dunque di penetrare il senso della povertà di Cristo, se vuoi essere ricco. Cerca di
penetrare il senso della sua debolezza, se vuoi ottenere la salvezza. Cerca di penetrare
il senso della sua croce, se vuoi non vergognartene; il senso della sua ferita,
se vuoi sanare le tue; il senso della sua morte, se vuoi guadagnare la vita eterna; il
senso della sua sepoltura, se vuoi trovare la risurrezione» (sant’Ambrogio).
In questa settimana santa dedichiamoci alla contemplazione del Crocifisso. «Non
ti ho amato per scherzo»: dice Gesù. Questa parola mi colpisce come una ferita di
dolore e risveglia gli occhi dell’anima perché possano aprirsi e comprendere quanto
ha fatto per me il Figlio di Dio. Noi non possiamo amare Gesù per scherzo.
Signore Gesù, Figlio di Dio, venuto nel mondo per essere l’uomo più familiare della
nostra casa, vieni a consumare presso di noi la cena degli amici. Che ciascuno diventi
la tua Betania profumata di nardo, per dirti con un gesto di pura adorazione quanto
sia bello rinnovarti il nostro amore infinito e la nostra fedeltà sincera.
112 Gennaio-Marzo 2013
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo

Omelia per la S. Messa
in preparazione alla Pasqua
Roma - Caserma Amione, 26 marzo 2013
Tra le braccia del nostro Dio
Carissimi,
dopo la lavanda dei piedi e le prime allusioni al tradimento,
Gesù dichiara, con profonda commozione: «Uno di
voi mi tradirà». L’annunzio e il suo stesso turbamento lasciano
smarriti e imbarazzati gli apostoli, che cercano di
identificare il traditore. Giuda, che rifiuta l’amore di Gesù,
la cui sorte è segnata, subito uscì. Ed era notte. La notte
della menzogna e dell’odio relega nella solitudine e nel
regno di satana.
L’anima di Giuda, il traditore, si oscura rispetto alla luce
divina: se uno cammina di giorno non inciampa, perché
vede la luce; ma se cammina di notte inciampa, perché gli
manca la luce.
Inizia, così, l’addio di Gesù ai suoi. Egli sente di essere estraneo nel mondo che
gli appartiene, ma che non l’ha voluto accogliere. Ciononostante, desidera farsi dono
supremo, morire per espiare il peccato.
Il vero peccato di fronte alla passione di Gesù è una fede che non aderisce alla
verità cha libera. È una fede troppo umana, la nostra: Gesù sì; ma non la croce.
Cristo sì, ma secondo le mie idee su di lui, secondo prospettive umane. Al contrario
la scelta di credere è volontà di cambiare vita; lasciare che Cristo conti più di tutti
e di tutto nella nostra esistenza. Gesù, pur denunciando il tradimento di Giuda, vuole
cambiarlo in una manifestazione d’amore. L’amore è più forte della morte e del peccato,
è senza limiti, eccedente, sorprendente. Il Signore non cerca la gloria e il potere,
non viene per dominare, per asservirci o servirsi di noi, ma per essere a nostra
completa disposizione. Ha dato la vita per me, ha messo a servizio della mia la sua
stessa vita. Questo suo esempio sollecita a fare altrettanto: anch’io devo vivere il
mio tempo come un servizio agli altri.
Esercitiamo la carità: senza di essa il ricco è povero; con essa il povero è ricco.
Essa è paziente nella avversità, moderata nella prosperità. È forte in mezzo alle dure
sofferenze, piena di gioia nelle opere buone; nelle tentazioni sicurissima; nell’ospitalità
larghissima; lietissima tra i veri fratelli; pazientissima con quelli falsi. Quanto è grande
la carità! Solo la carità fa sì che la felicità degli altri non turbi, perché non è gelosa.
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114
Bonus Miles Christi
Di fronte all’ira è placida, in mezzo a prove insidiose è innocente. Che cosa vi è di più
fedele della carità? Fedele non all’effimero, ma all’eterno (cfr. sant’Agostino).
Abbiamo bisogno di amore e di speranza, di un fondamento sicuro, di un terreno
solido che ci aiuti a vivere con un senso autentico anche nelle oscurità e nelle prove
quotidiane. La fede ci dona questo: è un fiducioso affidarsi a un «Tu», che è Dio, è
un atto con cui mi affido liberamente a un Dio che è Padre e mi ama; è adesione a
un «Tu» che mi dona speranza e fiducia. Dio ha rivelato che il suo amore verso
l’uomo, verso ciascuno di noi, è senza misura. Sulla Croce, Gesù di Nazaret, il Figlio
di Dio fatto uomo, mostra nel modo più luminoso a che punto arriva questo amore,
fino al dono totale di se stesso.
Avere fede, allora, è incontrare Dio che mi sostiene e a cui mi affido con l’atteggiamento
del bambino, il quale sa bene che le sue difficoltà, i suoi problemi sono
al sicuro nel «tu» della madre. Dovremmo meditare più spesso sul fatto che credere
cristianamente significa abbandonarsi con fiducia al senso profondo che sostiene
l’uomo e il mondo, quel senso che noi non siamo in grado di darci, ma solo di ricevere
come dono, e che è il fondamento su cui possiamo vivere senza paura.
La fede nella Pasqua, perciò, propone un modo diverso di comportarmi nell’ambiente
in cui mi trovo, dove mi faccio guidare da ambizione, competizione, arroganza,
superbia. Di fronte ai bisogni e alle richieste degli altri sono tentato di chiudermi
nel mio egoismo, in un atteggiamento di disimpegno. Mi risparmio, mi nego,
faccio pesare quello che deve essere un servizio dovuto, o vivo la professione, il lavoro,
i compiti a me assegnati mal volentieri. Devo riconoscere anche che mentre
realizzo un servizio per gli altri, mi prefiggo segretamente l’affermazione della mia
persona, cerco il plauso, una gratificazione.
Quanto sarebbe bello poter dire: eccomi, sono a tua completa disposizione, puoi
contare su di me, sul mio aiuto.
Cari amici, il nostro tempo richiede cristiani che siano afferrati da Cristo, che
crescano nella fede grazie alla familiarità con la sua Persona e il suo Vangelo. Persone
che siano quasi un libro aperto che narra l’esperienza della vita nuova, la presenza
di quel Dio che ci sorregge nel cammino e ci apre alla vita che non avrà mai fine.
Gennaio-Marzo 2013
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo

Omelia per la S. Messa del Crisma
Roma - Chiesa S. Caterina a Magnanapoli, 27 marzo 2013
Voi siete miei amici
Carissimi,
in queste ultime settimane molti avvenimenti ci
fanno sperimentare come la Chiesa sia viva e ricca
di speranza. L’inaspettata rinuncia al pontificato di
Benedetto XVI, che in un primo momento ci ha sorpreso,
lasciandoci smarriti e addolorati, è diventata
una coinvolgente esperienza di purificazione della
fede e un incoraggiamento ad amare di più il Signore,
che in Papa Ratzinger ci ha donato una esemplare
testimonianza di fedeltà alla Chiesa. Lo Spirito
Santo, poi, ha continuato a sorprenderci con l’elezione
di Papa Francesco, testimone gioioso ed entusiasta
del Vangelo di Cristo, speranza del mondo.
Il nome del Poverello d’Assisi è un forte messaggio
e annuncia lo stile e l’impronta del nuovo pontificato,
aperto alla misericordia, alla compassione e
all’accoglienza dei giovani, dei poveri e degli ultimi
della terra.
Le parole di Isaia, ora ascoltate, riempiono il silenzio della sinagoga. Gli occhi
di tutti sono fissi su Gesù. Egli arrotola il volume, lo consegna, si siede. Gesù realizza
l’uomo sognato da Isaia, libero come nessuno, dall’occhio luminoso e penetrante, i
cui giorni sono benevolenza e accoglienza dei deboli e degli umiliati. La passione
di Dio è il povero, il cieco, il prigioniero, l’oppresso. Lo spirito del Signore è su di
me, perché mi ha consacrato con olio di letizia. L’olio di letizia, che è stato effuso
su Cristo e da Lui viene a noi, è lo Spirito Santo, il dono dell’Amore che ci rende
lieti dell’esistenza. È cosa buona vivere, perché siamo amati.
Il segno dell’olio che tra poco consacriamo dice riferimento essenziale alla nostra
chiamata al presbiterato. Esiste un unico sacerdote della Nuova Alleanza, lo stesso
Gesù Cristo. E il nostro sacerdozio, pertanto, può essere solo partecipazione al sacerdozio
di Gesù. Il nostro essere sacerdoti non è altro che un nuovo e radicale modo
di unirsi a Cristo. Ciò comporta che non vogliamo imporre la nostra strada e la nostra
115

116
Bonus Miles Christi
volontà; che non desideriamo diventare questo o quest’altro, ma ci abbandoniamo
a Lui, ovunque e in qualunque modo Egli voglia servirsi di noi.
Nel “sì” dell’Ordinazione sacerdotale abbiamo fatto questa rinuncia fondamentale
al voler essere autonomi, alla “autorealizzazione”. Ma bisogna giorno per giorno
adempiere questo grande “sì” nei molti piccoli “sì” e nelle piccole rinunce. Questo
“sì” dei piccoli passi, che insieme costituiscono il grande “sì”, potrà realizzarsi senza
amarezza e senza autocommiserazione soltanto se Cristo è veramente il centro della
nostra vita, se entriamo in una vera familiarità con Lui. Allora sperimentiamo, pur
in mezzo alle rinunce, che in un primo tempo possono causare dolore, la gioia crescente
dell’amicizia con Lui, per tutti i piccoli e a volte anche grandi segni del suo
amore, che ci dona continuamente.
Con profonda gratitudine per la vocazione e con umiltà per tutte le nostre insufficienze
rinnoviamo oggi il nostro gioioso e deciso “sì” alla chiamata del Signore,
rinunciando a noi stessi, convinti che il Signore ha posto la sua mano su di noi. Il
significato di tale gesto lo ha espresso nelle parole: «Non vi chiamo più servi, ma
amici» (Gv 15,15). In queste parole si potrebbe vedere l’istituzione del sacerdozio.
Il Signore ci rende suoi amici, ci affida tutto, ci affida se stesso, così che possiamo
parlare con il suo Io, in persona Christi. Quale fiducia. Egli si è davvero consegnato
nelle nostre mani.
Non vi chiamo più servi ma amici. È questo il significato profondo dell’essere sacerdote:
diventare amico di Gesù. Per questa amicizia dobbiamo impegnarci ogni
giorno di nuovo. Amicizia significa comunione nel pensare e nel volere e quindi
anche dell’agire. Ciò significa che dobbiamo conoscere Gesù in modo sempre più personale,
ascoltandolo, vivendo insieme con Lui, trattenendoci presso di Lui.
Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
Non vi chiamo più servi, ma amici.
Il nucleo del sacerdozio è l’essere
amici di Gesù Cristo, cioè essere uomini
di preghiera. Gli evangelisti ci
dicono che il Signore ripetutamente si
ritirava “sul monte” per pregare da
solo. Di questo “monte” abbiamo bisogno
anche noi: è l’altura interiore
che dobbiamo scalare, il monte della
preghiera. Solo così si sviluppa l’amicizia
e possiamo vivere il nostro servizio
sacerdotale; solo così possiamo
portare Cristo e il suo Vangelo agli uomini.
Pregare, infatti, è camminare in
comunione con Cristo, esponendo a
Lui la nostra vita quotidiana, le nostre riuscite e i nostri fallimenti, le nostre fatiche
e le nostre gioie, presentare noi stessi al Signore.
Il Canone II del nostro Messale descrive l’essenza del ministero sacerdotale con
l’espressione con cui, nel Libro del Deuteronomio (18,5.7), veniva descritta l’essenza
del sacerdozio veterotestamentario: astare coram te. L’essenza del ministero sacerdotale
consiste nello “stare davanti al Signore”, guardare a Lui, esserci per Lui, farsi
carico di Cristo, della sua parola, della sua verità, del suo amore, con un ministero
in rappresentanza degli altri.
Voi siete miei amici: è una verità che assimiliamo nella preghiera. Ciò significa
contrapporsi nelle cose grandi come in quelle piccole alla menzogna, che in modo
così svariato è presente nel mondo; accettare la fatica della verità, perché la sua
gioia più profonda sia presente in noi. L’amore vero non è a buon mercato, può
essere anche molto esigente invitando alla resistenza dinanzi al male, per portare
all’uomo il vero bene. Il semplice attivismo può essere persino eroico. Ma l’agire
esterno, in fin dei conti, resta senza frutto e perde efficacia, se non nasce dalla profonda
intima unione con Cristo. Il tempo che impegniamo per stare dinanzi al Signore
è davvero tempo di attività autenticamente pastorale. L’agire apostolico e le sue
capacità diventano distruttive, se vengono meno le forze della preghiera, dalle quali
scaturiscono le acque della vita capaci di fecondare la terra arida.
Il sacerdozio non è semplicemente “ufficio”, ma sacramento: Dio si serve di un
uomo fragile al fine di essere, attraverso lui, presente tra gli uomini e agire in loro
favore.
Siamo nell’Anno della fede. Vorrei invitare me e voi tutti a rinnovare la ferma fiducia
nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle
braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno,
anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato,
non per scherzo, il suo Figlio per noi e ci ha mostrato il suo amore senza confini.
Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere sacerdote sempre e per sempre, certo
che il Signore ci è accanto, non ci abbandona e ci avvolge con il suo amore.
117

Bonus Miles Christi
La fecondità del ministero, perciò, non sta nello spiegamento di forza o di mezzi,
ma nel bruciore del cuore, in quella forza che spinge a ripartire ogni mattino nel
nome del Signore e fa dire: Ti amo, Cristo, perché sei più buono di me. Avendoti appena
tradito, Tu continui a chiedermi: “Mi ami tu?”. «Rallegriamoci e ringraziamo,
con il sacerdozio, siamo diventati non solo di Cristo, ma Cristo. Stupite e gioite,
Cristo siamo diventati» (sant’Agostino).
L’unica preoccupazione del sacerdote è di essere infinitamente piccolo. Allora il
suo annuncio sarà infinitamente grande. Il sacerdote appare come un sovversivo per
il semplice fatto che richiama il senso della condizione umana alla sorgente, quella
luminosa radice che è prima del pane, del denaro, del vestito, quella radice che è
l’immagine di Dio. Ed ecco perché i sacerdoti saranno perseguitati: perché fanno
crollare tutto un sistema di valori stabilito sul superfluo, sull’apparire, sulla competizione,
sul denaro, sulla carriera. L’uomo non vale per la quantità delle cose che
possiede, ma quanto valgono i suoi ideali. Neppure quanto vale la sua intelligenza,
ma quanto vale il suo cuore.
Carissimi, la Messa del Crisma ci esorta a rientrare in quel “sì” alla chiamata di
Dio, che abbiamo pronunciato nel giorno della Ordinazione sacerdotale. Possiamo
affermare, dopo anni di un servizio al Vangelo spesso faticoso e segnato da sofferenze
di ogni genere, ciò che Paolo scrisse ai Corinzi: «Il nostro zelo non vien meno
in quel ministero che, per la misericordia di Dio, ci è stato affidato» (cfr. 2 Cor 4,1)?
Il nostro zelo non verrà meno con la grazia del Padre buono. A riguardo il p. Giovanni
Semeria in un suo manoscritto inedito si chiede: «Avete mai pensato che cosa sia
una intelligenza, un mondo di intelligenze prive della luce della verità? Che cosa
siano dei cuori ribelli al freno della giustizia? Che cosa siano delle anime insensibili
agli stimoli dell’amore? Anime simili esistono purtroppo in gran numero ancora. C’è
ancora tanta tenebra d’ignoranza, tanto dominio di pregiudizi e di errori, tante passioni
frementi e indocili, tanti soprusi, tanti odi, tanta iniquità. E noi potremmo
dirci amici di Gesù se non amassimo le anime a noi affidate».
«Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi». Signore, tu hai desiderio
di noi, di me. Tu hai desiderio di partecipare te stesso a noi nella santa Eucaristia, di
unirti a noi. Signore, suscita anche in noi il desiderio di te. Rafforzaci nell’unità con
te e tra di noi. Dona alla nostra Chiesa Ordinariato l’unità, perché la famiglia militare
creda in te, speri in te, ami te.
Regina degli Apostoli, prega per noi, prega con noi. Amen.
118 Gennaio-Marzo 2013
✠ Vincenzo Pelvi ■
Arcivescovo

Agenda pastorale gennaio 2013
Magistero dell’Arcivescovo
1 gennaio Presiede il Pellegrinaggio militare nazionale in Terra Santa.
2 Presiede il Pellegrinaggio militare nazionale in Terra Santa.
3 Presiede il Pellegrinaggio militare nazionale in Terra Santa.
4 Presiede il Pellegrinaggio militare nazionale in Terra Santa.
9 Udienze.
10 Udienze.
11 Udienze.
14 Udienze.
15 Udienze.
16 Roma: Vicariato, si reca in visita di cortesia da Sua Em.za il Cardinale Agostino Vallini,
Vicario del Papa per la Diocesi di Roma.
In mattinata incontra il Consiglio Episcopale i Capi Servizio Interforze delle 16 zone
pastorali.
17 Roma-Cecchignola: Chiesa del Seminario, nel pomeriggio in occasione della Giornata
della Pace, alla presenza del Ministro della Difesa, del Presidente della Regione Lazio
e delle più Alte Cariche delle Forze Armate, concelebra la S. Messa presieduta dal Cardinale
Agostino Vallini, Vicario del Santo Padre per la Diocesi di Roma.
18 Udienze.
20 Firenze: celebra la S. Messa per l’Arciconfraternita della Misericordia in occasione della
Festa patronale di San Sebastiano.
21 Riceve in visita di cortesia il Generale C.A. Saverio Capolupo, Comandante Generale
della Guardia di Finanza.
22 Roma: si reca in visita di cortesia dal Generale C.A. Leonardo Gallitelli, Comandante
Generale dell’Arma dei Carabinieri.
Ministero della Difesa: in tarda mattinata riceve dal Ministro della Difesa l’Onorificenza
di Grand’Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, concessa dal
Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Nel pomeriggio: si reca in visita di cortesia dal Generale S.A. Claudio Debertolis, Segretario
Generale della Difesa e Direttore Nazionale Armamenti.
23 Riceve in visita la Dott.ssa Enrica Preti, Direttore Generale di Persociv.
24 Città del Vaticano: in mattinata si reca in visita di cortesia dal Cardinale Angelo Comastri,
Arciprete della Papale Basilica di S. Pietro e Presidente Fabbrica di San Pietro.
Roma: Palazzo Marina, nel pomeriggio si reca in visita di cortesia dall’Ammiraglio Sq.
Luigi Mario Binelli Mantelli, Capo di Stato Maggiore della Marina Militare.
25 Roma: Comando Militare della Capitale, si reca in visita di cortesia dal Generale C.A.
Mauro Moscatelli.
28 Roma: Palazzo Marina, partecipa alla cerimonia di avvicendamento nella carica di Capo
di Stato Maggiore della Marina Militare, tra l’Ammiraglio Luigi Mario Binelli Mantelli
ed il subentrante Ammiraglio Giuseppe de Giorgi.
Nel pomeriggio udienze.
29 Roma: in mattinata si reca in visita di cortesia dall’Ammiraglio Sq. Pierluigi Cacioppo,
Comandante Generale delle Capitanerie di Porto e Guardia Costiera.
Roma: Stato Maggiore Difesa, si reca in visita di cortesia dal Generale Biagio Abrate,
Capo di Stato Maggiore della Difesa.
119

Bonus Miles Christi
30 Chiesa di S. Caterina a Magnanapoli: celebra la S. Messa per il trigesimo del Generale
Ispettore Alfonso Sabatini.
Nel pomeriggio riceve in visita di cortesia il Generale S.A. Giuseppe Bernardis, Capo
di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare.
31 Roma: Caserma Gandin, con le più Alte Cariche dello Stato partecipa alla cerimonia
di avvicendamento nella carica di Capo di Stato Maggiore della Difesa, tra il Generale
Biagio Abrate e l’Ammiraglio Luigi Mario Binelli Mantelli.
Roma: Palazzo Esercito, nel pomeriggio si reca in visita di cortesia dal Generale C.A.
Claudio Graziano, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito.
Roma: Vicariato, Sala della Conciliazione, tiene una conferenza sulla Costituzione
pastorale Gaudium et Spes.
Agenda pastorale febbraio 2013
1 febbraio Udienze.
4 Udienze.
5 Udienze.
Roma: Palazzo del Quirinale, si reca in visita di cortesia dal Generale Rolando Mosca
Moschini, Consigliere per gli Affari Militari e il Consiglio Supremo della Difesa del Presidente
della Repubblica.
6 Udienze.
7 Città del Vaticano: Visita ad Limina Apostolorum.
8 Città del Vaticano: Visita ad Limina Apostolorum.
È accolto in Udienza dal Santo Padre Benedetto XVI.
Nel pomeriggio: parte per Assisi - Santa Maria degli Angeli (PG) dove incontra le famiglie
dei militari caduti e i giovani feriti nelle missioni internazionali di pace.
9 Assisi - Santa Maria degli Angeli (PG): fine settimana di spiritualità con le famiglie
dei militari caduti e i giovani feriti nelle missioni internazionali di pace.
10 Assisi - Santa Maria degli Angeli (PG): fine settimana di spiritualità con le famiglie
dei militari caduti e i giovani feriti nelle missioni internazionali di pace.
11 Udienze.
Roma: Policlinico Militare “Celio”, presiede la S. Messa in occasione della Giornata
Mondiale del Malato.
12 Udienze.
13 Città del Vaticano: Aula Paolo VI, partecipa all’Udienza Generale del Santo Padre Benedetto
XVI.
Chiesa di S. Caterina a Magnanapoli: presiede la S. Messa delle Ceneri per il personale
dell’Ordinariato Militare.
14 Udienze.
15 Sede: incontra la delegazione della Prefettura di Roma, del Fondo Edifici di Culto e
del Demanio dello Stato.
Roma: Nunziatura Apostolica in Italia, si reca in visita di cortesia da Sua Ecc.za mons.
Adriano Bernardini, Nunzio apostolico in Italia.
18 Udienze.
120 Gennaio-Marzo 2013

Magistero dell’Arcivescovo
19 Roma: Basilica di S. Maria degli Angeli, nella tradizionale ricorrenza di Don Alberto
Genovese Duca di San Pietro, presiede la S. Messa per i Granatieri di Sardegna.
20 Udienze.
21 Firenze: si reca in visita pastorale alla Scuola Militare Aeronautica “Giulio Douhet”
dove tiene una conversazione con i docenti e con gli allievi.
22 Udienze.
25 Udienze.
In tarda mattinata: incontra la Commissione per l’Ammissione ai Ministeri e agli Ordini
Sacri.
26 Udienze.
Pratica di Mare: Aeroporto Militare, partecipa alla cerimonia di avvicendamento nella
carica di Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, tra il Generale Giuseppe
Bernardis ed il Generale Pasquale Preziosa.
27 Udienze.
28 Roma: si reca in visita di cortesia dal Generale C.A. Danilo Errico, Sottocapo di Stato
Maggiore della Difesa.
Udienze.
Agenda pastorale marzo 2013
4 marzo Udienze.
5 Udienze.
6 Udienze.
7 Roma: Pontificia Università di San Tommaso d’Aquino, concelebra la S. Messa presieduta
da Sua Ecc.za mons. Angelo Vincenzo Zani, Segretario della Congregazione per
l’Educazione Cattolica.
Udienze.
8 Roma: in mattinata si reca in visita di cortesia dall’Ammiraglio Luigi Mario Binelli
Mantelli, nuovo Capo di Stato Maggiore della Difesa.
11 Udienze.
12 Roma: Chiesa di S. Caterina a Magnanapoli, presiede la S. Messa “Pro Eligendo
Pontifice”.
13 Udienze.
14 Roma: Chiesa di Sant’Eugenio, presiede la S. Messa in preparazione della Pasqua per
il personale della Marina Militare.
15 Modena: Accademia Militare, partecipa alla cerimonia di giuramento degli Allievi del
194° Corso “Coraggio”.
17 Roma: in occasione della Festa dell’Unità Nazionale, partecipa alla cerimonia di deposizione
della corona d’alloro sulla tomba del Milite Ignoto.
18 Udienze.
19 Città del Vaticano: partecipa alla S. Messa di inizio pontificato di Sua Santità Papa
Francesco.
Roma-Lido di Ostia: Scuola di Polizia Tributaria, tiene una conferenza sul tema “Etica
e bene comune” agli Allievi e al Personale dell’Ente.
121

122
Bonus Miles Christi
20 Sede: incontra i Seminaristi e gli educatori del Seminario Maggiore.
21 Cagliari: Santuario di Bonaria, in mattinata presiede la S. Messa in preparazione alla
Pasqua per i militari di Cagliari.
Perdasdefogu (CA): nel primo pomeriggio, si reca in visita pastorale al Poligono Sperimentale
Interforze di Salto di Quirra, incontrando il personale.
22 Città del Vaticano: si reca in visita di cortesia da Sua Em.za il Cardinale Giuseppe Bertello,
Presidente Pontificia Commissione per lo Stato Città del Vaticano e del Governatorato
dello Stato Città del Vaticano.
25 Grosseto: Cattedrale di San Lorenzo, presiede la S. Messa in preparazione della Pasqua
per i militari del 4° Stormo A.M. e del Centro Militare Veterinario.
26 Roma: Scuola Ufficiali Carabinieri, in mattinata Visita Pastorale presso l’Ente di Formazione
e presiede la S. Messa in preparazione alla Pasqua per il personale.
Roma: Caserma Amione, nel pomeriggio, alla presenza del Generale Claudio Debertolis,
Segretario Generale della Difesa e Direttore Nazionale degli Armamenti, presiede la S.
Messa in preparazione alla Pasqua per il personale militare e civile del Raggruppamento
Autonomo del Ministero della Difesa.
27 Chiesa di S. Caterina a Magnanapoli: in mattinata presiede la S. Messa del Crisma con
i cappellani militari.
Nel pomeriggio presiede la Commissione Caritas.
28 Udienze.
31 Napoli - Monastero delle Carmelitane scalze: presiede la S. Messa di Pasqua.
Gennaio-Marzo 2013

Vita della
nostra Chiesa
• Atti della Curia
• Attività pastorali

Atti della Curia
TRASFERIMENTI E INCARICHI DEI CAPPELLANI MILITARI
Don Fausto AMANTEA
Dal Regional Command West (TFS) di Farah in Afghanistan al Comando 9°
Reggimento Alpini - L’Aquila.
Il 12.03.2013.
Don Francesco ARGENTERIO
Revoca estensione d’incarico: 13° Reggimento Carabinieri Friuli Venezia Giulia -
Gorizia.
Il 01.02.2013.
Mons. Ugo BORLENGHI
Revoca estensione d’incarico: Comando Unità Mobili e Specializzate Carabinieri
“Palidoro” e Repp. Dipp. in Roma; Comando Carabinieri presso Ministero Affari Esteri.
Il 14.01.2013.
Don Vincenzo CAIAZZO
Da Nave Garibaldi in Taranto al Comando 2° Rgt. Aves Sirio - Lamezia Terme (CZ).
Il 14.01.2013.
Don Giancarlo CARIA
Estensione d’incarico: Compagnia Carabinieri - Iglesias; Compagnia Carabinieri –
Carbonia.
Il 21.01.2013.
Don Salvatore CARLINO
Dal Comando Trasmissioni e Informazioni dell’Esercito in Anzio (Rm) al Comando
Unità Mobili e Specializzate Carabinieri “Palidoro” e Repp. Dipp. in Roma.
Il 14.01.2013.
Don Fausto CORNIANI
Dal Regional Area Commander West in Herat - Afghanistan al Comando 32°
Reggimento Trasmissioni in Padova.
Il 12.03.2013.
Don Gian Paolo COSTALUNGA
Estensione d’incarico: Base Logistica - Muggia (TS); Capitaneria di Porto - Trieste;
Comando Militare Regionale - Trieste.
Il 01.02.2013.
125

126
Bonus Miles Christi
Don Giuseppe CURCU
Dal Comando Regionale Sardegna G. di F. e Repp. Dipp. in Cagliari al 5° Reggimento
Genio Guastatori in Macomer (NU).
Il 01.02.2013.
Don Teodoro DE PAOLA
Estensione d’incarico: Nave Garibaldi - Taranto; Comando Forze Subaquee - Taranto.
Il 14.01.2013.
Don Epifanio DI LEONARDO
Dal 6° Reggimento Bersaglieri in Trapani al Regional Command West (TFS) di Farah
in Afghanistan.
Estensione d’incarico: Bala Baluk - Afghanistan; Shouz - Afghanistan.
Il 05.03.2013.
Don Emilio DI MUCCIO
Estensione d’incarico: Comando Provinciale Carabinieri - Caserta.
Il 02.01.2013.
Don Albino D’ORLANDO
Estensione d’incarico: Comando Reggimento Lancieri di Novara (5°).
Il 01.03.2013.
Don Franco FACCHINI
Revoca estensione d’incarico: Comando Provinciale Carabinieri - Caserta.
Il 02.01.2013.
Don Giuseppe GANCIU
Dalla Brigata Alpina Julia in Udine al Regional Area Commander West in Herat -
Afghanistan.
Estensione d’incarico: Shindad - Afghanistan
Il 05.03.2013.
Padre Lionel Nicolas M. HEDREUL
Dal 184° Rgt. Sostegno TLC “Cansiglio” in Treviso al Contingente Italiano impiegato
nella missione di pace in Kosovo presso Pec/Peja (Villaggio Italia).
Estensione d’incarico: Comando Task Force Air - Djakovica; Campo Sparta - Decan;
Comando Carabinieri M.S.U. - Pristina (Kosovo); Comando KFOR – Pristina (Kosovo).
Il 11.01.2013.
Don Cataldo LETIZIA
Dal Contingente Italiano impiegato nella missione di pace in Kosovo presso Pec/Peja
(Villaggio Italia) al 21° Rgt. Artiglieria Terrestre “Trieste” in Foggia.
Il 11.01.2013.
Gennaio-Marzo 2013

Don Francesco MAROTTA
Estensione d’incarico: Btg. Di Supporto Tecnico Logistico - Anzio (Rm); Circomare
Anzio (Rm); Ospedale Militare di Lungodegenza - Anzio (Rm); Comando Brigata
R.I.S.T.A./13° Bgt “Aquileia” - Anzio (Rm); Comando Brigata Trasmissioni - Anzio
(Rm); Ufficio Tecnico Territoriale Armi e Munizioni – Nettuno (Rm).
Il 14.01.2013.
Don Franco Giovanni MINERVA
Estensione d’incarico: Caserma Nacci (Le); Caserma Zappalà (Le); Centro Documentale
(Le); R.U.D. Distaccamento (Le); 4° Distaccamento Autonomo Interforze (Le);
Caserma Floriani (Le).
Il 02.01.2013.
Don Sigismondo SCHIAVONE
Estensione d’incarico: 13° Reggimento Carabinieri Friuli Venezia Giulia - Gorizia;
Capitaneria di Porto - Grado (GO); Capitaneria di Porto - Monfalcone (GO); Capitaneria
di Porto - Porto Nogaro (UD).
Il 01.02.2013.
Don Marco ZARA
Dal Reparto Sper.ne e Stand.ne Tito Aereo in Decimomannu (CA) al Comando
Regionale Sardegna G. di F. e Repp. Dipp. - Cagliari.
Estensione d’incarico: Capitaneria di Porto - Cagliari; Comar - Cagliari.
Il 01.02.2013.
SACERDOTI COLLABORATORI
Don Giovanni CAGGIANESE
Comando Legione Carabinieri Basilicata in Potenza.
Il 04.03.2013.
Vita della nostra Chiesa
Don Manfredi GELSOMINO
Reparto Sperimentazione e Standardizzazione Tiro Aereo in Decimomannu (Ca).
Estensione d’incarico: Aeroporto Militare - Alghero Fertilia (Ss); 123 Sq. Radar remota
Capo Frasca - Arbus (Vs); Distaccamento Aeroportortuale - Elmas (Ca); Poligono
Sperimentale Interforze - Perdasdefogu (Og); Distaccamento Aeroportuale Capo S.
Lorenzo – Villaputzu (Ca).
Il 21.02.2013.
127

Bonus Miles Christi
Mons. Michele PES
Comando Regione Toscana G. di F. in Firenze per i Comandi Provinciali G. di F. di: AR
- FI - FI - PO - PT - PT - SI.
Estensione d’incarico: Comando Interregionale G. di F. - Firenze; Centro Documentale
/ Cas. Simoni e Morandi - Firenze; G.I.C.O. / D.I.A. - Firenze; Ispettorato per il
Reclutamento e Forze di Complemento - Firenze: Nucleo Regionale P.T. - Firenze;
Reparti siti Cas. Battisti / Cavalli / Vannini - Firenze; Comando Provinciale G. di F.
- Grosseto; Comando Provinciale G. di F. - Livorno; Comando Provinciale G. di F. -
Lucca; Comando Provinciale G. di F. - Massa Carrara; Comando Provinciale G. di F. -
Pisa.
Il 27.02.2013.
Don Rocco SMALDONE
Revoca estensione d’incarico: Comando Legione Carabinieri Basilicata - Potenza.
Il 04.03.2013.
128 Gennaio-Marzo 2013

Ufficio Economato
OFFERTA MISSIONARIA ANNO 2012
Vita della nostra Chiesa
1. Aldovini Don Andrea € 340/00
2. Allegretti Mons. Ludovico
3. Amantea Don Fausto
4. Amato Padre Mauro € 600/00
5. Ambrosini Don Daniele € 1.000/00
6. Ammazzini Don Massimo
7. Amparore Don Ugo € 300/00
8. Anzolin Don Maurizio
9. Argenterio Don Francesco
10. Asunis Padre Mauro
11. Atzeni Don Antonio € 110/00
12. Bancale Padre Pier Luca € 3.615/00
13. Bartolini Mons. Giovanni € 300/00
14. Bastia Don Giuseppe € 2.650/00
15. Bedognè Padre Cesare € 4.270/00
16. Benecchi Don Daniele € 300/00
17. Benvenuti Don Patrizio Maria Romano € 500/00
18. Bezzi Padre Gino
19. Borello Don Umberto
20. Borlenghi Mons. Ugo
21. Bottazzo Don Marco
22. Bresciani Don Marco Maria
23. Brunetti Don Gianfranco Salvatore
24. Busiello Padre Giovanni
25. Caiazzo Don Vincenzo
26. Calefati Don Marcello Orazio € 500/00
27. Caleffi Padre Claudio € 2.000/00
28. Campominosi Mons. Pietro € 600/00
29. Cannaò Don Salvatore € 360/00
30. Capello Don Mauro € 500/00
31. Caria Don Giancarlo
32. Carlino Don Salvatore Luigi € 250/00
33. Cassano Don Antonio € 250/00
34. Castelli Mons. Gabriele € 2.100/00
35. Catucci Padre Claudio € 300/00
36. Chiantera Don Francesco € 712/00
37. Chirizzi Padre Tommaso
38. Chizzali Mons. Giuseppe € 700/00
39. Ciorra Don Gianni € 200/00
40. Colarusso Don Mauro € 100/00
41. Coppola Don Antonio € 150/00
42. Corniani Don Fausto
43. Costalunga Don Gian Paolo € 521/50
129

130
Bonus Miles Christi
44. Cottali Don Lorenzo € 2.000/00
45. Cunsolo Don Salvatore
46. Curcu Don Giuseppe € 2.150/00
47. D’Agostino Padre Stefano
48. D’Orlando Don Albino
49. De Paola Don Teodoro € 200/00
50. De Pasquale Don Francesco
51. Denegri Mons. Giovanni € 30.000/00
52. Diana Don Francesco
53. Didonna Don Pasquale € 400/00
54. Di Cecco Don Giacomo € 500/00
55. Di Domenico Mons. Pietro Paolo
56. Di Giorgio Don Filippo
57. di Giuseppe Padre Roberto
58. Di Leonardo Don Epifanio
59. Di Muccio Don Emilio € 561/00
60. Di Nanna Padre Francesco € 2.780/00
61. Di Nunno Don Elia
62. Di Paola Don Andrea
63. Di Vita Don Giorgio
64. Facchini Don Franco
65. Falzone Don salvatore € 959/00
66. Faraci Padre Giuseppe € 195/00
67. Fazzi Don Enrico Sandro
68. Fei Don Luciano € 1.000/00
69. Ferlita Don Filippo € 250/00
70. Ferri Don Maurizio € 250/00
71. Franco Don Giuseppe
72. Frigerio Mons. Angelo
73. Galanti Don Marco
74. Galbiati Don Cesare € 230/00
75. Galeotti Don Maurizio € 1.600/00
76. Ganciu Don Giuseppe
77. Gelmi Don Massimo
78. Giacomelli Mons. Giovanni Pietro € 1.500/00
79. Goldin Don Luigi € 900/00
80. Grigolon Don Giuseppe € 6.604/00
81. Grillo Don Vincenzo Arturo € 586/00
82. Grisolia Don Sergio € 300/00
83. Hedreul Padre Lionel Nicolas Michel
84. Iacone Don Ignazio
85. Imperiale Don Sergio € 500/00
86. Lamelza Don Carlo € 1.210/00
87. Lazzara Don Salvatore
88. Lazzini Don Paolo € 1.750/00
89. Letizia Don Cataldo
90. Locatelli Padre Fabio € 100/00
91. Locatelli Padre Giancarlo
92. Loda Don Michele
Gennaio-Marzo 2013

Vita della nostra Chiesa
93. Longo Don Giuseppe Bartolo
94. Magnani Don Michele € 500/00
95. Malizia Mons. Marco € 600/00
96. Mancusi Don Claudio € 100/00
97. Maniscalco Don Giuseppe
98. Marchesi Don Luigi
99. Marchisano Don Antonio
100. Marotta Don Francesco
101. Masci Don Nicola
102. Masiero Don Gianmarco € 150/00
103. Mastropaolo Don Michele
104. Medaglini Don Mauro Nazzareno
105. Medeot Don Giovanni
106. Minerva Don Franco Giovanni
107. Minervini Don Nicola
108. Minin Don Marco € 200/00
109. Modica Don Roberto € 1.640/00
110. Moscarelli Don Pasquale
111. Motta Padre Michele
112. Mottironi Mons. Severino € 300/00
113. Mucci Mons. Mario € 1.500/00
114. Nencini Mons. Giorgio € 350/00
115. Nicotra Don salvatore € 100/00
116. Nigro Don Aldo € 2.045/00
117. Nonini Padre Matteo Giuseppe
118. Oddo Don Pierpaolo
119. Olmeo Don Valentino
120. Paganuzzi Padre Manuel
121. Pagnin Don Fabio € 260/00
122. Palmesano Padre Giuseppe
123. Palminteri Don Donato
124. Pantò Don Corrado Antonio
125. Paoluzzi Don Mauro € 500/00
126. Pasquali Don Claudio € 2.500/00
127. Pavesi Padre Angelo € 1.425/00
127. Pellegrino Don Battista
129. Pes Mons. Michele € 1.000/00
130. Piga Don Gianmario
131. Pigna Don Pasquale € 100/00
132. Pilotto Don Gianfranco € 150/00
133. Pirotta Don Enrico € 1.500/00
134. Pizzigallo Renato
135. Pizzimenti Mons. Vincenzo € 300/00
136. Plata Don Pierluigi
137. Porta Don Giorgio
138. Pozzo Don Antonino
139. Proietti Don Mario
140. Puzone Padre Vincenzo Massimiliano
141. Quinz Don Valentino € 1.510/00
131

Bonus Miles Christi
142. Raineri Don Oscar € 800/00
143. Raneri Mons. Mario € 840/00
144. Raparelli Don Sergio € 690/73
145. Recchiuti Don Claudio
146. Ripepi Don Aldo
147. Riva Don Flavio € 200/00
148. Rizza Don Arturo
149. Romano Mons. Nino € 500/00
150. Ruggiero Don Vincenzo
151. Russo Don Antonio
152. Russo Don Pietro
153. Sacchiero Don Angelo
154. Sacella Mons. Piergiuseppe € 415/00
155. Salvadore Don Simone
156. Salvia Don Giovanni € 1.000/00
157. Sangiovanni Mons. Gerardo € 690/00
158. Sarzi Sartori Mons. Franco € 1.600/00
159. Scalini Padre Adriano
160. Scarcelli Mons. Sabino € 1.500/00
161. Schiavone Don Sigismondo € 100/00
162. Scibilia Don Rosario
163. Siddi Don Sergio
164. Soggiu Don Antonio € 250/00
165. Solidoro Don Paolo
166. Spampinato Don Alfio
167. Spinella Don Paolo
168. Sterli Padre Tiziano € 1.000/00
169. Tabasco Don Angelo
170. Talarico Don Luigi
171. Terranova Don Giuseppe
172. Teti Mons. Gabriele
173. Tombolan Don Corrado € 1.000/00
174. Torosani Don Lionello € 1.300/00
175. Tortora Don Roberto
176. Tramontano Mons. Mauro € 390/00
177. Villa Don Pierpaolo € 1.425/00
178. Villani Don Fabio
179. Vittori Don Roseo Giovanni € 757/57
180. Vivenzio Don Alberto
181. Zara Don Marco € 200/00
Totale € 111.141/80
Spese di animazione per la Giornata Missionaria Mondiale € 3.341/80
Versamento alle Pontificie Opere Missionarie € 107.800/00
132 Gennaio-Marzo 2013

Vita della nostra Chiesa
133

134
Attività pastorali
Onorificenza
del Presidente della Repubblica
per l’Arcivescovo Pelvi
Il Ministro della Difesa, Ammiraglio Giampaolo Di Paola, ha consegnato all’Arcivescovo
Ordinario militare, SE mons. Vincenzo Pelvi, l’onorificenza di Grande Ufficiale
dell’Ordine “Al merito della Repubblica Italiana” conferitagli dal Capo dello Stato,
On. Giorgio Napolitano.
Gennaio-Marzo 2013

Attraversando la Porta della fede
Appunti di un pellegrinaggio in Terra Santa
«Papa Benedetto, incontrando lo scorso anno gli Ordinari militari del mondo, sottolineò
come i militari sono chiamati ad amare Dio e gli uomini, perché la pace
nasce dalla carità. Consapevoli di questa verità abbiamo voluto dare il nostro piccolo
contributo alla costruzione della pace per attraversare la porta della fede e sostenere
economicamente la comunità cristiana residente in Terra Santa». In queste parole
dell’Arcivescovo Pelvi, c’è lo scopo del Pellegrinaggio militare nazionale, vissuto dal
28 dicembre 2012 al 4 gennaio 2013. Circa 150 pellegrini, provenienti da varie regioni
italiane, hanno visitato Nazareth, Betlemme e Gerusalemme, approfondendo
concretamente quella comunione che trascende ogni limite di lingua, di razza e di
cultura.
Ripercorrere i luoghi santi è stato come un ritorno alle sorgenti della fede per
attingere l’acqua viva che irriga e fa fiorire i deserti interiori della nostra esistenza.
Nella terra di Gesù anche le pietre hanno voce, se le lasciamo parlare. Per vivere
pienamente il pellegrinaggio, perciò, è necessario fissare subito il mistero dell’incarnazione,
che porta a confrontare realtà e sogno, concretezza e utopia, miseria e
splendore, in un’altalena di contraddizioni che trovano in Palestina le sue più basse
profondità e le sue vette più alte.
Prima di partire ci si chiede il senso di tale pellegrinaggio; quali le motivazioni
e gli atteggiamenti da assumere per vivere bene l’itinerario programmato in una
terra decisiva per la salvezza dell’umanità.
Eppure a nessuno può sfuggire che in Terra Santa ci sono le radici della nostra
135

136
Bonus Miles Christi
fede. Tutti là siamo nati (cfr. Sal 86). Quella è la terra attraversata dai patriarchi,
nostri padri, nella quale si trova la loro tomba. È la terra di Davide e degli altri re,
è la terra dei profeti, è la terra di Gesù, dove il figlio di Dio incarnato ha vissuto la
nostra esperienza umana. Andare in Terra Santa, quindi, è incontrare Gesù nella concretezza
della sua umanità, capendo che la fede è incontro con una Persona vivente
e presente e non una ideologia, né una filosofia o un programma etico di altissimo
valore.
L’Incarnazione, messaggio di vita
Il pellegrinaggio ha avuto come prima tappa Nazaret, luogo di contemplazione
dell’Incarnazione. Abbiamo sostato nella chiesa di san Giuseppe, dove probabilmente
visse la Sacra Famiglia, e che fu trasformata dai parenti di Gesù divenuti cristiani in
luogo di culto. Vedendo i resti archeologici che si trovano fra la chiesa e il Santuario
dell’Annunciazione ci si rende conto della composizione dell’agglomerato urbano ai
tempi di Gesù. Si trattava di un centro agricolo con cisterne, mulini e vecchi frantoi.
In ogni abitazione c’era la grotta per conservare alimenti e proteggere il bestiame
nei periodi più caldi. L’organizzazione della casa prevedeva che i letti fossero uno
accanto all’altro. In occasione del censimento le persone che arrivarono furono così
tante che la fila di brande arrivava fino alla grotta. Ecco perché probabilmente la
Vergine Maria partorì in quella che da sempre definiamo mangiatoia.
In seguito ci siamo recati alla maestosa Basilica dell’Annunciazione, curata dai
Francescani e divisa su due livelli: la chiesa inferiore, oltre a resti di chiese bizantine
e dei crociati, racchiude la caratteristica Grotta, casa di Maria e luogo dell’Annunciazione;
la chiesa superiore è la parrocchia locale ed è coronata da una stupenda
cupola attraverso la quale filtra la luce che illumina i magnifici mosaici, le opere
d’arte e i bassorilievi in ceramica donati da tutto il mondo cattolico e il prezioso altare
in mosaico italiano.
Gennaio-Marzo 2013

Vita della nostra Chiesa
Durante la celebrazione eucaristica mons. Pelvi ha invitato a riflettere su una
delle pagine più belle del Vangelo. «Si tratta di un vero e proprio inno alla vita e all’amore.
La Vergine Maria è stupita all’annuncio dell’angelo. Non comprende perché
Dio abbia scelto lei e non un’altra giovane donna. La scelta di Dio – ha spiegato il
vescovo castrense – è una scelta di amore, pura grazia, e l’amore non può essere
spiegato». Alla scuola del Vangelo il Presule ha esortato ad «amare la vita, tutte le
vite, in ogni situazione e fase dell’esistenza. Voi militari – ha concluso – siete al
servizio della vita, vi prendete cura dell’uomo fragile e in difficoltà, i vostri gesti
danno speranza. Perciò non dovete temere nel donarvi dicendo sì a chi è nel bisogno,
accogliendo con fiducia ogni nuovo giorno, consapevoli che davanti a Dio conta solo
l’amore, la disponibilità, l’umiltà».
Nel pomeriggio abbiamo visitato il santuario della Trasfigurazione e rinnovate le
promesse battesimali al fiume Giordano.
L’Eucaristia, un amore senza fine
Il secondo giorno è iniziato con la sosta a Cafarnao dove Gesù si trasferì, avendo
lasciato Nazaret. I resti sono quelli dell’antica sinagoga e di una casa, che testimonianze
identificano con quella di Pietro. Si tratta di una zona sismica. Le pietre, infatti,
sono laviche ed è probabile che sia stata distrutta da un terremoto e non più
costruita. Nel Santuario denominato “Memoriale di San Pietro” c’è stata la celebrazione
eucaristica. All’omelia, ispirata al brano
Giovanni (21,1-17), l’Arcivescovo ha commentato
l’apparizione al lago di Tiberiade: «Anche
noi potremmo sentirci come quei discepoli: insoddisfatti,
tristi, smarriti, sperimentare la
notte del cuore, incapaci di vedere la presenza
del Signore che continua a manifestarsi alla nostra
vita in tanti modi». Abbiamo bisogno di incontrare
Dio, senza lasciarci scoraggiare nella ricerca
della sua volontà. Ancora oggi Gesù diventa
pane che dà forza e sostiene nel tempo
della prova e del dolore. Nessuno può spegnere
il suo amore veramente fedele sino alla fine dei
secoli.
Dopo la preghiera abbiamo raggiunto la città
di Tabgha, dove nel 1982 fu costruita una chiesa
per ricordare il miracolo della moltiplicazione
dei pani e di pesci A poca distanza, sul lago
sorge la “Chiesa del Primato di san Pietro”, dove
Gesù risorto apparve ai suoi e affidò a Pietro la
guida della sua Chiesa.
Sul Monte delle Beatitudini, dove Gesù pronunciò
il Discorso della Montagna, abbiamo am-
137

138
Bonus Miles Christi
mirato la chiesa costruita nel 1937 e tenuta dalle suore Francescane. Essa sorge su
una collina ventilata, circondata da giardini ben curati, che offre un suggestivo panorama
sul lago di Tiberiade, una meraviglia della natura che richiama il paesaggio
così come era duemila anni fa.
In questo luogo abbiamo sperimentato una indimenticabile e intensa sensazione
di pace interiore, che ha permesso di meditare a lungo su alcuni episodi evangelici
quali la moltiplicazione dei pani e dei pesci, Gesù che cammina sulle acque, la tempesta
sedata, la pesca miracolosa.
Il buon samaritano, modello di fraternità
Peregrinare in Terra Santa vuol dire anche incontrare la comunità cristiana, che
pur soffrendo persecuzioni e povertà, continua a testimoniare, in mezzo alla maggioranza
islamica, la fede in Gesù Cristo. L’incontro con i fedeli della parrocchia del
Buon Pastore a Gerico ha permesso di condividere alcune forme di concreta solidarietà
e sincera fraternità.
L’esperienza del deserto della Giudea, regione priva di vegetazione che si estende
a est e sud est di Gerusalemme e di Betlemme fino alla valle del Giordano e alle
coste occidentali del Mar Morto, ha caratterizzato il seguito della giornata. Al Mar
Morto, dove si verifica la depressione geologica più profonda della terra, a circa 400
m. sotto il livello del mare, si sono apprezzati gli effetti benefici dei fanghi e delle
acque e molti hanno conosciuto la storia di Qumran, dove nel 1947 furono ritrovati
i celebri manoscritti della comunità degli Esseni. L’incontro con l’esperienza di questi
monaci consacrati all’austerità e all’ascetismo più rigoroso ha edificato i pellegrini.
Betlemme, il pane dell’umiltà
Il giorno seguente abbiamo vissuto l’emozionante visita a Betlemme, “città del
pane”, immersa in coltivazioni di grano, vite e ulivi, a 8 km da Gerusalemme e posta
su un colle a circa 800 m di altezza, in territorio palestinese o Cisgiordania. Ci siamo
recati di buon mattino al Campo dei Pastori e abbiamo pregato in una grotta molto
simile a quella in cui nacque Gesù. In
seguito, abbiamo visitato la Basilica
della Natività, tenuta dai cristiani ordodossi,
dove campeggia una stella
d’argento con la scritta in latino:
“Qui dalla Vergine Maria è nato Gesù
Cristo”. Adiacente alla Basilica, nella
chiesa di santa Caterina d’Alessandria,
parrocchia dei cattolici latini di
Betlemme, c’è stata la concelebrazione
eucaristia.
«A che giova che Cristo sia venuto
nella carne, se non giunge nella profondità
del mio cuore?»: ha chiesto
Gennaio-Marzo 2013

Vita della nostra Chiesa
mons. Pelvi durante l’omelia. «Per permettere
a Gesù di entrare nel nostro
cuore dobbiamo chinarci, come abbiamo
fatto questa mattina per entrare
nella Basilica della Natività. Chi
desidera entrare nella vita di Gesù,
deve abbassarsi e deporre la sua superbia
e presunzione. In quest’anno
della fede, la Chiesa Ordinariato vuole
allontanare ogni forma di egoismo per
incontrare Dio».
«La Vergine madre – ha concluso
l’Ordinario militare – è nostra compagna
di viaggio, perché accogliendo tra
le sue braccia il primogenito, ha stretto a sé la famiglia umana. E Maria ci invita a
continuare a vegliare per scoprire in questa terra i silenziosi segnali con cui vuole
guidarci per portare la vicinanza divina anche ad altri». L’invito conclusivo è stato
quello di diventare sempre più «sorgente di speranza in un mondo in trasformazione,
dove la gioia non può venir meno perché Dio pone nelle nostre mani e nel nostro
cuore ogni giorno la sua pace, dono da invocare e impegno da costruire».
Getsemani, salvati a caro prezzo
A Gerusalemme la prima tappa è stata nella chiesa della Dormizione, dinanzi alla
statua che rappresenta Maria serenamente dormiente in attesa del trapasso; poi al
Cenacolo, luogo dell’ultima cena, inglobato dai crociati in una Basilica, trasformato
in moschea, attualmente semplice luogo di visita culturale ma non di culto.
Una giornata di sole quasi estivo ha accolto noi pellegrini all’orto del Getsemani,
sul Monte degli Ulivi, per la Messa alla Basilica dell’Agonia. Nello splendido scenario
del giardino francescano, con gli ulivi secolari protetti e curati dai frati che custodiscono
questo santo luogo, in mezzo ad innumerevoli gruppi di pellegrini e visitatori
giunti da ogni parte del mondo, si è snodata la processione liturgica del Vescovo
con i concelebranti.
La preghiera vissuta, in un’atmosfera di intenso silenzio e devozione, ha richiamato
ai pellegrini il toccante mistero della Passione, con il racconto evangelico di
Gesù nel Getsemani (Mt 26,36-46). Nell’omelia, l’Arcivescovo si è soffermato sul valore
divino del luogo bagnato dal sangue prezioso di Cristo: «Se fossimo consapevoli
di ciò che qui è avvenuto, di come quell’evento sia decisivo per la nostra vita e per
la nostra salvezza, resteremmo ammutoliti e travolti da tanta consegna, resa più inconcepibile
perché perpetrata nei confronti di Colui che è santo e innocente». Eppure
Gesù conosce la nostra fragilità, vede la fuga di fronte alla sua angoscia, sa che
«siamo sperduti come un gregge», e che ciascuno, pur all’interno di una Chiesa viva,
molte volte «sceglie la strada larga che porta alla rovina». In questo luogo impariamo
a riconoscere la larghezza, l’altezza e la profondità del cuore di Cristo, che a caro
prezzo ci dona la serenità.
139

140
Bonus Miles Christi
Al termine della Messa, mentre i sacerdoti lasciano la Basilica in processione,
mons. Pelvi e i fedeli hanno sostato davanti alla roccia dell’agonia, ai piedi dell’altare,
inginocchiandosi e baciandola devotamente.
Questo momento di preghiera è stato tra i più commuoventi del pellegrinaggio.
Chi di noi non attraversa dolore, malattia, tradimento, morte? Nessuno può dirsi cristiano
se non sulla croce, nessuno può essere nella gioia se non entra prima nella
passione del Signore. Il Getsemani rappresenta l’umanità che vive la croce come via
di speranza. Tutti viviamo forme di solitudine e angoscia. Ma da Gesù dobbiamo imparare
ad abbandonarci alla volontà di Dio passando dal lamento (Dio mio, Dio mio
perché mi hai abbandonato?) alla gioia (sia fatta la tua volontà).
Nel pomeriggio c’è stata la visita al Calvario e al Santo Sepolcro. Nel 135 l’imperatore
Adriano fece spianare il luogo, salvaguardandone così, senza volerlo, l’integrità
e l’autenticità, per costruirci sopra il Campidoglio della nuova città. Nel 326 sant’Elena,
madre dell’imperatore Costantino, fece riportare il luogo allo stato originario
facendo costruire la prima grande basilica.
All’ingresso della Basilica del Santo Sepolcro le persone pregano di fronte alla
Pietra dell’Unzione, dove il corpo di Gesù fu cosparso di unguenti prima di essere
avvolto nella Sindone. Proseguiamo fino a trovarci di fronte all’edicola del S. Sepolcro.
Non ci sono parole per descrivere ciò che si prova varcando quella porta. Nulla
di tutto ciò che abbiamo visto è in grado di suscitare tanta trepidazione. Il mistero
è racchiuso lì dentro. È come toccare con mano quella fede che c’è ma che a volte
è un po’ dubbiosa, che a tratti sembra sparire, proprio perché non si vede, ma che
in quel preciso istante si concretizza con tutta la sua potenza. Salendo pochi gradini
si arriva al Calvario con le sue due Cappelle. Una ricorda dove furono messi i chiodi
a Gesù e l’altra dove fu innalzata la Croce. Un’impressionante roccia mostra la fenditura
che si produsse al momento della morte. Scendendo si arriva invece alla Cappella
del ritrovamento della Croce. In un’antica cisterna romana, furono ritrovati gli
strumenti per la crocifissione di Gesù e dei due ladroni. La folla di fedeli provenienti
da ogni parte del mondo è numerosa e occorre molto tempo per accedere alla Cappella
dell’Angelo che immette nel Sepolcro vuoto di Cristo, dove l’Angelo apparve
per annunciare la Resurrezione.
In serata i pellegrini hanno ricevuto
la gradita visita del Patriarca latino
Twal che ha condiviso la cena in
un clima di profonda amicizia.
Gennaio-Marzo 2013
Dalla comunione, nasce la speranza
L’ultimo giorno in Terra Santa è
iniziato con un momento di preghiera
al Sepolcro, dopo aver percorso una
parte della Via Crucis lungo la via dolorosa,
cioè la strada che Gesù percorse
portando la Croce dal Pretorio
di Pilato fino al Calvario. Successiva-

Vita della nostra Chiesa
mente i pellegrini si sono riuniti nella
chiesa del Patriarcato latino di Gerusalemme,
dove sono stati accolti da
Sua Beatitudine Fouad Twal che ha
presieduto la Messa concelebrata dall’Arcivescovo
Pelvi e dai dieci sacerdoti
presenti.
Il Patriarca Twal ha espresso la gioia
per l’incontro con la Chiesa Ordinariato
militare, rappresentata da circa 150
pellegrini. «A nome della piccola comunità
cristiana rimasta in Terra Santa
– ha detto il Patriarca – vi ringrazio
per la vostra presenza qui, segno della
comunione ecclesiale tra le nostre chiese. Siete venuti a conoscere le vostre radici
e la vostra chiesa madre e vi chiedo, al vostro ritorno, di parlare della Terra Santa ai
vostri amici e familiari, dite loro che la Chiesa madre li aspetta. Non dimenticate la
Chiesa di Gerusalemme». Nel corso dell’incontro il Patriarca latino ha tratteggiato la
situazione dei circa dieci mila cristiani presenti a Gerusalemme. «Sappiamo che i
cristiani sono chiamati ad essere sale e lievito, e cerchiamo di esserlo, così come
dovete esserlo voi in un Continente, l’Europa, dove i fedeli alla Chiesa e al magistero
sono sempre meno ma non dobbiamo temere per questo».
L’Arcivescovo Twal ha, poi, ringraziato mons. Pelvi per l’attenzione dimostrata per i
cristiani di Terra Santa a cui ha voluto destinare il ricavato del progetto di solidarietà
“Un cappuccino per la Terra Santa”, nato lo scorso anno come frutto del precedente
pellegrinaggio in Terra Santa. Così i militari pellegrini hanno potuto consegnare 40
mila euro per le necessità abitative dei cristiani. «Sono grato a mons. Pelvi – ha
sottolineato mons. Twal – perché ci siamo sentiti pensati, amati, sostenuti dal vostro
gesto di solidarietà. Inoltre, grazie a voi da minoranza ci sentiamo maggioranza,
perché sappiamo di avere tanti fratelli sparsi nel mondo».
L’Arcivescovo Pelvi al termine della celebrazione eucaristica ha evidenziato che
la preghiera in Patriarcato è stata tra i momenti più intensi e commuoventi «una
grazia nella grazia del pellegrinaggio nei luoghi di Gesù».
«Anche quest’anno – ha concluso l’Ordinario militare – vogliamo partire con un
nuovo impegno: torneremo ancora a Gerusalemme, perché abbiamo bisogno di ripartire
sempre da Cristo, via, verità e vita».
Il Patriarca Twal ha donato a mons. Pelvi un artistico presepe in madre perla lavorato
a mano che l’Arcivescovo castrense ha detto di voler lasciare in Ordinariato
militare «come testimonianza della significativa comunione tra le nostre Chiese ma
anche come invito a continuare questo cammino verso la pace insieme».
Giuseppina Avolio ■
141

142
Abramo, nostro padre nella fede
La formazione permanente del sacerdote, non è qualcosa di opzionale per integrare
lacune culturali in vista del ministero, ma una necessità, un dovere dei sacerdoti, che
annovera nel suo percorso anche la formazione spirituale, un aspetto privilegiato che
caratterizza la vita delle persone consacrate.
Due sono le iniziative di formazione permanente annualmente proposte dall’Ordinariato
ai Cappellani: il convegno di aggiornamento pastorale a fine estate, unitario
come impostazione e realizzazione e gli esercizi spirituali, solitamente ripartiti in tre
proposte distinte durante i mesi invernali, in modo da consentire ai Cappellani di scegliere
il periodo più gradito.
Gli esercizi spirituali sono una componente significativa della vita sacerdotale, un
tempo di preghiera di silenzio e di meditazione, uno spazio dedicato completamente
alle cose di Dio senza altre distrazioni, un’esperienza di vita comunitaria per ricucire i
frazionamenti che la vita individuale e il ministero provocano.
Nell’Anno della Fede, era inevitabile che gli esercizi spirituali portassero a meditare
su tematiche legate alla fede e sulle risposte di fede date da tanti personaggi evocati
dalla Sacra Scrittura, e così è stato nei tre corsi organizzati tra la fine dell’anno 2012
e i primi mesi dell’anno 2013; inoltre, nel solco del cammino tracciato dal Convegno
di aggiornamento pastorale di fine estate svoltosi ad Assisi (settembre 2012), che
aveva per tema “Annuncio del Vangelo e comunione”, anche l’esperienza degli esercizi
spirituali ha ripreso i temi dell’annuncio e della condivisione/comunione come risposta
di fede.
La compagine militare dove i Cappellani sono inseriti, è una realtà umanamente
eterogenea per provenienza, cultura e formazione: diventa organica e armonica grazie
all’impegno soggettivo, agli obiettivi comuni che si vogliono raggiungere e alle finalità
nobilissime cui la professione militare indirizza le persone; costruire e vivere uno stile
di condivisione e comunione è perciò il segreto di una riuscita negli intenti, perché
“La costruzione della comunione è un impegno non facile e resta una sfida personale
e comunitaria che si misura sul cammino della fede”.
Il Corso di esercizi spirituali che vogliamo menzionare, è quello svoltosi ad Assisi
dal 4 all’8 febbraio u.s. predicato da Padre Giulio Michelini ofm, biblista preparato, che
offre sempre letture avvincenti anche dei passi biblici dal senso più scontato; numerosi
dei circa cinquanta sacerdoti presenti – quasi tutti cappellani militari – avevano già
avuto modo di conoscere il Predicatore nella analoga esperienza dello scorso anno e,
proprio per risentirlo, hanno scelto questa piuttosto che altre proposte parimenti valide.
“Percorsi di fede nella Bibbia: uomini e donne che si affidano a Gesù Messia”. Su
questo tema, con grande padronanza dei testi, il Predicatore, partendo dalla figura sin-
Gennaio-Marzo 2013

Vita della nostra Chiesa
golare di Abramo, ha analizzato le fasi e le modalità dell’alleanza più volte rinnovata
da Dio con Abramo, nostro Padre nella fede: la chiamata e l’invito a lasciare tutto, la
promessa della discendenza, il sacrificio di Isacco, la separazione da Lot, il segno degli
animali divisi e sacrificati, la circoncisione: situazioni nelle quali la fede del Patriarca
era messa a dura prova, una fedeltà che gli venne computata come “giustizia”.
La figura di Abramo è così apparsa paradigmatica di tante esperienze della nostra
vita, tante benedizioni e tanti fallimenti e smentite nei quali agisce la fede: i segni di
cui Abramo è testimone e spettatore, non avvalorano la fede, è piuttosto la fede, nel
senso di affidamento fiduciale, che consente di vedere, leggere nel verso giusto e capire
i segni generosi che Dio ci dona, per rafforzare la nostra adesione/risposta all’alleanza.
Dall’atto di fede di Abramo, gradualmente maturato e portato alla pienezza fino a
renderlo capace di una nuova paternità che potremmo definire universale, il Predicatore
è poi passato ad alcune manifestazioni di fede di uomini e donne del Nuovo Testamento,
in particolare quelle evocate dal Vangelo di Matteo (cap. 9): la fede del Cieco
guarito a Gerico, le domande sull’identità di Gesù/Messia dei discepoli di Giovanni Battista,
le Parabole del Regno (cap. 13) – il buon grano e la zizzania, il lievito nella pasta,
il granello di senape – che narrano le contraddizioni cui si è esposti nell’atto di fede.
Una riflessione molto interessante è stata dedicata alla “fede di Pietro” (Mt. cap.
14 e 16) dal desiderio di camminare sulle acque del Lago di Tiberiade alla consegna del
“primato”, che costituisce la persona di Pietro in “roccia” sulla quale far crescere la
chiesa; alla luce di eventi più recenti, come le dimissioni rassegnate con atto di amore
e responsabilità verso la Chiesa, che hanno segnato il termine del pontificato di Benedetto
XVI, alcune intuizioni presentate da Padre Giulio sulla fede di Pietro, appaiono
illuminanti e di grande consolazione.
Interessante anche la meditazione sulla trasfigurazione: l’evento del Tabor presentato
quasi come una icona della pedagogia amorevole del Padre, che davanti ad una
fede debole e incapace di accettare lo scandalo della croce, i tempi di Dio e gli aspetti
contrastanti del suo mistero, si china sul discepolo di ieri e di oggi, per mostrare in
Cristo il volto di Dio, anticipare la gioia dell’eterna felicità nella risurrezione: la risposta
esauriente a tutti i dubbi e le paure dell’uomo.
Merita un cenno anche l’unica “uscita formale” dal tepore familiare della Domus; la
mattina di giovedì 7 febbraio siamo andati a celebrare l’eucaristia a San Damiano, la
culla del francescanesimo, il primo e originario monastero di Santa Chiara e ora noviziato
dei Frati francescani: l’essenzialità del luogo, così semplice e spartano le cui mura
trasudano santità e narrano la bellezza di tanti atti di fede, è come una fontana che
continua a zampillare freschezza e irradiare il messaggio evangelico di amore e di fedeltà
alla chiesa.
È la grandezza di Dio, che nello spirito dell’incarnazione, continua a trovare spazio
nell’umanità dai volti umili segnati dalle fatiche e dalle fragilità, ma sempre mossi e
sostenuti da un atto di fede semplice e devota.
Mons. Franco Sarzi Sartori ■
143

La benedizione di Papa Benedetto
alle famiglie dei caduti in missione
È iniziata con la benedizione del Papa l’ormai tradizionale fine settimana di spiritualità
ad Assisi che la Chiesa Ordinariato militare propone ogni anno alle famiglie
dei militari caduti e ai giovani militari feriti durante le missioni all’estero. L’incontro,
fissato da tempo, è iniziato infatti venerdì 8 febbraio, poche ore dopo che l’Arcivescovo
castrense Vincenzo Pelvi era stato ricevuto da Benedetto XVI nel quadro della
visita ad limina dei vescovi italiani. Ed è stato proprio il Presule a raccontare ai familiari
di aver parlato al Papa di questo incontro di Assisi. «Il Pontefice – ha riferito
monsignor Pelvi – ha ascoltato con grande commozione e si è raccomandato di portarvi
la sua benedizione». Solo tre giorni dopo papa Ratzinger avrebbe dichiarato la
sua rinuncia al papato a decorrere dal 28 febbraio. Rinuncia che ha in qualche modo
spianato la strada all’elezione a vescovo di Roma del Cardinale gesuita argentino
Jorge Mario Bergoglio il quale ha assunto il nome di Francesco proprio in onore del
santo Poverello.
Ma nessuno dei partecipanti all’incontro di Assisi avrebbe immaginato questa
storia. Così come da tradizione l’appuntamento organizzato dall’Ordinariato si è sviluppato
in una tre giorni di preghiera, amicizia e visite ai luoghi francescani, che
l’arcivescovo Pelvi vive con genitori, mogli, figli e fratelli dei militari colpiti in missioni
umanitarie per condividere esperienze e sostenersi reciprocamente nella fede.
Quest’anno hanno partecipato una novantina di persone provenienti dal Lazio,
dalla Sardegna e dalla Sicilia, dal Molise e dalla Puglia, dalla Campania, dalla Toscana
e dal Veneto. Tutti sono stati salutati dalle autorità militari (il comandante generale
della Regione Umbria dei carabinieri Antonio Pietro Marzo) e civili (il sindaco Claudio
Ricci e l’assessore Lucio Cannelli).
144 Gennaio-Marzo 2013

Vita della nostra Chiesa
Venerdì sera l’Arcivescovo Pelvi ha accolto i partecipanti ricordando il motivo di
questa iniziativa. «Passato il momento delle esequie solenni – ha spiegato – si rischia
di dimenticare, di non essere più riconoscenti a questi ragazzi per il dono della
loro vita e alle loro famiglie per averli generati. Questo momento vissuto insieme
vuole essere invece un ricordare la testimonianza di fraternità da loro vissuta come
pochi altri possono fare oggi». Ha parlato anche fra Pasqualino Massone, il direttore
della Domus Pacis – dove si è svolto l’incontro – che ormai è diventato amico e confidente
spirituale di non poche delle famiglie partecipanti. È stato lui, usando una
bella immagine, ad invitare i presenti «a portar via un pezzo di gioia che Francesco
ha lasciato nella nostra Assisi».
L’incontro, come consuetudine, consiste in momenti di riflessione e anche di approfondimento
culturale come la visita ad una cittadina ricca di storia e di arte. Nel
2012 toccò a Spello, quest’anno è stata la volta Bevagna dove i partecipanti sono
stati accolti dal sindaco Annalita Polticchia e poi ha potuto visitare i caratteristici
laboratori di antichi mestieri che costituiscono il vanto della cittadina. La visita,
che si è tenuta nel pomeriggio di sabato 9, è stata preceduta, nella mattinata, da
un “momento forte” di incontro e dialogo con Alessandro Brustenghi, il “frate tenore”
diventato famoso per essere stato scritturato da una nota casa discografica
per un cd. Fra’ Alessandro ha allietato i partecipanti esibendosi – a gran richiesta –
in un commovente Panis Angelicus ma anche in un coinvolgente O sole mio. Ma soprattutto
ha scaldato il loro cuore raccontando la storia gioiosa della propria conversione
in cui «la musica – ha confessato – è stata l’ancora con cui Dio mi ha tirato
fuori dall’ombra della morte». La testimonianza di fra’ Alessandro ha suscitato tutta
una serie di interventi, con domande drammatiche sul perché di una giovane vita
spezzata, sul perché un papà sia strappato al piccolo figlio e alla moglie da una
fatale granata esplosa nel lontano Afghanistan. Domande radicali che portano a risposte
altrettanto radicali. «È questione di fede nella vita eterna – dice fra’ Alessandro
– è questa fede che permette di andare avanti, ma c’è un cammino per ciascuno
in questo». E in effetti ascoltando le testimonianze ci si accorge della diverse
sfumature di questi percorsi di fede e
speranza. C’è il giovane Vincenzo, che
ha perso il fratello Mario in missione
e che ha ritrovato pace e speranza andando
in pellegrinaggio a Medjugorje
in Erzegovina. E c’è la signora Maria,
madre di un caduto, che racconta la
commovente storia della propria
mamma che a sua volta aveva perduto
un figlio 19nnovenne. «Mia mamma –
racconta Maria – era serena; raccontava
infatti di aver tanto voluto che
quel suo amatissimo figlio diventasse
frate ma – aggiungeva – il Signore
non l’ha fatto frate, l’ha fatto santo.
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146
Bonus Miles Christi
Anche a me è morto un figlio, ma non avevo la fede di mia madre, ma un giorno di
colpo il dolore è diventato diverso, non più disperato. Grazie a Dio e alla nascita di
due nipoti ho visto le cose in modo diverso mi sono ricordata di mia mamma». Intervengono
anche altri. Fra’ Alessandro risponde in modo delicato a tutti e alla fine
dell’incontro viene letteralmente assaltato da moltissimi presenti che vogliono ancora
ascoltare una sua parola di gioia e di conforto. Solo il pranzo e la gita a Bevagna
interrompono questo pacifico assalto.
Domenica 10 infine l’incontro di Assisi ha avuto in qualche modo il suo culmine
nella Concelebrazione eucaristica presieduta dall’Arcivescovo Pelvi nella suggestiva
cappella ricavata presso l’ex-refettorietto di Santa Maria degli Angeli. La liturgia si
conclude con una cerimonia struggente, il cappellano Solidoro consegna ad alcune
famiglie le foto dei propri cari che adornavano i piccoli monumenti costruiti a ricordo
del loro sacrificio nelle basi che sono state smantellate per il ritiro dei reparti. Singhiozzi
e lacrime la fanno da padrone. Ma nell’omelia monsignor Pelvi indica la via
della speranza. «La Messa – sottolinea – è il momento più intenso e ricco di gioia.
Gesù infatti ha compassione della nostra storia di vita». «I nostri ragazzi – aggiunge
– sono come schiere di angeli che ci invitano a cantare il Signore, perché il Signore
ascolti le parole della nostra bocca». Tutti pregano affinché veramente il Signore
conceda la grazia di poter dare un senso alle sofferenze che portano nel cuore.
Come ogni incontro di Assisi il pranzo domenicale è il momento dei saluti e degli
arrivederci. L’anno prossimo monsignor Pelvi, per motivi inesorabilmente anagrafici
non potrà più essere Ordinario militare. Il prossimo agosto infatti compirà a 65 anni,
età in cui secondo le leggi gli Arcivescovi castrensi devono lasciare l’incarico. Ma
ha comunque garantito che continuerà a seguire, per quanto possibile, il destino e
le vite dei familiari dei nostri soldati morti in missione di pace lontano dalla propria
patria.
Gennaio-Marzo 2013
Gianni Cardinale ■

Udienza generale
per 300 Carabinieri dell’Umbria
Una grande manifestazione d’affetto per Benedetto XVI quella che ha vissuto il
13 febbraio durante la sua penultima Udienza generale del Pontificato, nell’Aula
Paolo VI in Vaticano.
Tra i quasi quattromila fedeli c’erano anche trecento Carabinieri dell’Umbria accompagnati
dall’Arcivescovo Pelvi, dal Comandante interregionale Gen. Tullio Del
Sette e da mons. Giuseppe Rotondi.
«Cari fratelli e sorelle come sapete ho deciso di rinunciare al ministero che il Signore
mi ha affidato il 19 aprile 2005. Ho fatto questo in piena libertà per il bene
della Chiesa, dopo aver pregato a lungo ed aver esaminato davanti a Dio la mia coscienza,
ben consapevole della gravità di tale atto, ma altrettanto consapevole di
non essere più in grado di svolgere il ministero petrino con quella forza che esso richiede.
Mi sostiene e mi illumina la certezza che la Chiesa è di Cristo, il Quale non
le farà mai mancare la sua guida e la sua cura. Ringrazio tutti per l’amore e la preghiera
con cui mi avete accompagnato. Grazie! Ho sentito quasi fisicamente, in questi
giorni per me non facili, la forza della preghiera, che l’amore della Chiesa, la vostra
preghiera, mi porta. Continuate a pregare per me, per la Chiesa, per il futuro
Papa. Il Signore ci guiderà». Le toccanti parole con cui il Pontefice ha aperto l’incontro,
interrotte più volte dall’applauso degli ascoltatori, hanno commosso i presenti.
«Non è il potere mondano che salva il mondo, ma il potere della croce, dell’umiltà,
dell’amore»: ha detto il Papa nella catechesi sulla Quaresima. «Riflettere sulle ten-
147

Bonus Miles Christi
tazioni a cui è sottoposto Gesù nel deserto è un invito per ciascuno di noi a rispondere
ad una domanda fondamentale: che cosa conta davvero nella nostra vita?».
Il nocciolo delle tre tentazioni che subisce Gesù per il Santo Padre, «è la proposta
di strumentalizzare Dio, di usarlo per i propri interessi, per la propria gloria e il proprio
successo. E dunque, in sostanza, di mettere se stessi al posto di Dio, rimuovendolo
dalla propria esistenza e facendolo sembrare superfluo».Ogni uomo «dovrebbe
chiedersi allora: che posto ha Dio nella mia vita? È Lui il Signore o sono io?».
Per Benedetto XVI «superare la tentazione di sottomettere Dio a sé e ai propri
interessi o di metterlo in un angolo e convertirsi al giusto ordine di priorità, dare a
Dio il primo posto, è un cammino che ogni cristiano deve percorrere». Convertirsi
significa «seguire Gesù in modo che il suo Vangelo sia guida concreta della vita»,
cioè «lasciare che Dio ci trasformi, smettere di pensare che siamo noi gli unici costruttori
della nostra esistenza, riconoscere che siamo creature, che dipendiamo da
Dio, dal suo amore, e soltanto perdendo la nostra vita in Lui possiamo guadagnarla».
Per fare questo occorre «operare le nostre scelte alla luce della Parola di Dio».
148 Gennaio-Marzo 2013
Giuseppina Avolio ■

Tre giorni di grazia
Quando al raduno dei cappellani
ospedalieri della diocesi di Roma don
Telesforo, cappellano ospedaliero
presso il Policlinico Umberto I, propose,
in occasione dell’anno della
fede, una peregrinatio di una reliquia
del beato Giovanni Paolo II per gli
ospedali e tutte le altre strutture sanitarie
della diocesi di Roma, accolsi
l’iniziativa con grande gioia. Mi parve
da subito un’occasione da non perdere
e dunque, dopo qualche tempo, telefonai
al segretario del centro della pastorale
per la salute per prenotare la
peregrinatio delle reliquia al Policlinico
Militare Celio nel periodo dal 10 febbraio al 13 febbraio 2013. La presenza della reliquia
sarebbe così venuta a coincidere con la giornata del malato (l’11 febbraio) e
con l’inizio della Quaresima, il mercoledì delle Ceneri il 13 febbraio 2013. Appena
parlai di questa iniziativa con il direttore dell’ospedale, il Mag. Generale Mario Alberto
Germani, ne fu subito entusiasta e appoggiò in pieno la proposta.
L’unica mia preoccupazione era che la reliquia del beato Giovanni Paolo II potesse
diventare, come purtroppo qualche volta accade, un fenomeno da baraccone, una
specie di talismano portafortuna e scaccia mali. Volevo che la reliquia fosse compresa
per ciò che essa è: un mezzo che ci aiuta a pregare e ad incontrare Cristo. Troppo
spesso, infatti, si confonde Gesù “salvatore” con Gesù “guaritore”. Gesù ci può anche
guarire fisicamente, ma soprattutto ci salva – e ci ha già salvati con la sua morte e
resurrezione – rendendoci figli di Dio. Con mia sorpresa, questa mia preoccupazione
è stata subito allontanata dalla serietà e dal rispetto con cui tutti hanno partecipato
alle celebrazioni.
Ciò che ho chiesto con forza al Signore, contemplando quella reliquia e supplicando
l’intercessione del Beato Giovanni Paolo II, è stato un maggior entusiasmo e
serietà nel seguire il Cristo risorto da parte di tutti.
E così domenica 10 febbraio, alle ore 17.00, andiamo a prendere la reliquia di
Giovanni Paolo II al Policlinico Umberto I, dove don Telesforo, che custodisce la reliquia,
ci da qualche informazione sulla provenienza della reliquia e, poi, ce la consegna
augurandoci una buona preghiera. Al Celio tutti aspettano con gran trepida-
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150
Bonus Miles Christi
zione. La reliquia viene accolta da un gruppo numeroso di militari schierati in modo
tale da creare un corridoio che conduce dentro la chiesa dedicata alla “Salus Infirmorum”.
Un quartetto di fiati sul sagrato accompagna il solenne ingresso. La chiesa
è gremita. Collocata la reliquia sul trono appositamente preparato, iniziamo i vespri,
che celebriamo solennemente. Al termine della preghiera tutti i presenti si mettono
in fila per il bacio della reliquia. È un momento di preghiera molto intenso e la sensazione
che in qualche modo il Papa polacco sia tornato tra noi è palpabile.
Come il profeta Eliseo chiese al profeta Elia i due terzi del suo spirito così anche
io, nel mio intimo, chiedo al Signore che ci conceda due terzi dello spirito di Giovanni
Paolo II e che doni a tutti i presenti una fede salda ed appassionata per il
Cristo come l’aveva il Beato.
La mattina successiva, in occasione della giornata del malato, Mons. Vincenzo
Pelvi presiede l’Eucarestia che una decina i sacerdoti concelebrano. La Messa si svolge
con grande solennità, i seminaristi dell’Ordinariato militare e alcuni bravi giovani
militari prestano servizio come ministranti, mentre il raffinato coro di don Michele
Loda rende la preghiera ancor più coinvolgente.
Nell’omelia l’Ordinario militare crea, come sa fare lui in queste occasioni, un clima
molto familiare, sottolineando che al Celio “c’è la vita”. Sì, perché i malati, i feriti,
i familiari dei malati e tutto il personale medico e paramedico rappresentano un
inno alla vita, un segno che la morte è stata vinta; e l’unica cosa che resta è la speranza,
racchiusa negli sguardi di chi è stato umiliato nel corpo e desidera ardentemente
l’annuncio di una speranza che può vincere qualsiasi debolezza. E mentre il
Vescovo dice che al “Celio c’è la vita” ripenso agli ultimi tempi della vita di Giovanni
Paolo II, a quel Papa, così debole e provato, al punto che molti di noi si chiedevano
se fosse giusto per lui continuare in quelle condizioni. E paradossalmente da quell’uomo,
così fiaccato e impotente secondo il mondo, promanava una forza d’animo
e una fede che impressionò tutti. Guardando l’assemblea, ancora una volta, realizzo
quanto abbiamo bisogno di testimoni autentici e quanto sia grande la responsabilità
nel collaborare alla crescita della fede dei fedeli che è stata affidata a noi sacerdoti.
La mattina successiva, martedì 12
febbraio, il padre passionista Dario di
Giosia tiene una bella conferenza su
Giovanni Paolo II e i giovani, mettendo
in evidenza il nuovo atteggiamento
che il Papa polacco ebbe nei
confronti dei giovani. Una sguardo diverso,
non tanto teso a condannare gli
errori delle giovani generazioni, ma a
valorizzare le potenzialità e i doni che
Dio semina in loro.
La giornata si conclude con un’intensa
veglia di preghiera, durante la
quale vengono proiettati alcuni filmati
che ritraggono i primi passi da Papa
Gennaio-Marzo 2013

Vita della nostra Chiesa
del Beato. Uno dei filmati riguarda la sua prima apparizione in pubblico subito dopo
l’elezione, con il suo famoso «se mi sbaglio mi corriggerete». E già da questi primi
passi si vede la statura morale e spirituale di questo Papa “venuto da lontano”. La
veglia di preghiera ci ha ricordato quanta positività questo Papa ha seminato, quanto
coraggio ci ha infuso e ancora la sua memoria ci infonde!
La peregrinatio della reliquia si è conclusa nel pomeriggio del mercoledì delle Ceneri,
dopo la recita della coroncina della Divina Misericordia.
Devo dire con grande soddisfazione che la partecipazione a questo evento è stata
molto numerosa. La chiesa del Celio per tre giorni è diventata un santuario, la gente
andava e veniva sostando in preghiera di fronte alla reliquia con gran devozione. La
fede di tutti coloro che hanno partecipato a questa iniziativa è stata senza dubbio
rafforzata. In conclusione mi sento di elevare un grande grazie a Dio per le grazie
che ci ha concesso in questi tre giorni per l’intercessione del Beato Papa Giovanni
Paolo II. Un sentito grazie a tutti coloro, che a diverso titolo, hanno contribuito
alla buona riuscita di questo evento.
p. Matteo Nonini ■
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La sezione Pasfa di Roma
si prepara alla Pasqua
Per molti anni l’incontro in preparazione
alla Pasqua per la sezione
Pasfa di Roma si è tenuto alle Catacombe
di Priscilla. Iniziò questa tradizione
moltissimi anni fa la signora
Andreotti, allora Presidente del Pasfa
ed è durata fino allo scorso anno
quando una serie di considerazioni legate
soprattutto alla praticità hanno
indotto ad optare per la sede dell’Ordinariato
Militare.
L’incontro inizia con il saluto
dell’Arcivescovo Pelvi che ha ringraziato
mons. Fisichella perché «...incontrarlo
è motivo di gioia. Il suo
servizio a favore della nuova evangelizzazione
è meraviglioso e coinvolgente.
La sua parola è carica di passione che illumina...». È sicuro di sè, aggiungo
nella mia mente, forte nella fede, trasmette sicurezza. Continua: «è molto vicino alla
Chiesa Ordinariato militare» e per parlare dell’attenzione della Chiesa verso il mondo
militare cita un libro di Adriana Valeria relativo ad Amalia De Matteis (moglie del
Col. Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo passato poi al Fronte Militare Clandestino,
catturato e trucidato alle Fosse Ardeatine, e madre del Card. Andrea Cordero
Lanza di Montezemolo). Il Vaticano si adoperò per la liberazione di Giuseppe e Paolo
VI volle invitare Amalia come uditrice al Concilio per testimoniare la vicinanza della
Chiesa alla famiglia militare. «Ed è bello – aggiunge mons. Pelvi – vedere che c’è
questa attenzione della Chiesa anche verso il Pasfa».
Mons. Fisichella, cui era stato chiesto da Padre Tommaso Chirizzi di trattare il
tema “Credo in Gesù Cristo” in armonia con le meditazioni sul Credo che si stanno
portando avanti nella Sezione, invita a ringraziare il Signore per l’anno della fede
voluto dal Papa Benedetto XVI per ricordare anche i 50 anni dall’inizio del Concilio
ed i 20 anni della pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica.
Mons. Fisichella racconta: «È stata una tappa che Benedetto XVI ha voluto per
rafforzare la fede dei credenti. Noi dovremmo essere capaci ogni giorno di ripetere
le parole di quel pover’uomo che era andato da Gesù chiedendo che gli guarisse il
152 Gennaio-Marzo 2013

Vita della nostra Chiesa
figlio. E Gesù sembra quasi rimproverarlo perché dice: “Ma, insomma, state sempre
a chiedere, non vi stancate mai di chiedere!”. E quell’uomo risponde: “Guarda che
sono andato dai tuoi discepoli ma non sono stati in grado di scacciare il demonio”.
Allora Gesù gli chiede di fare uno sforzo ulteriore e di credere. E quello: “Signore io
credo ma tu però aumenta la mia fede!” Non possiamo mai dimenticare che la fede
non è data una volta per sempre. La fede è un atto che noi compiamo con il quale
vogliamo abbandonarci al Signore Gesù. Ma è un atto che ha bisogno di essere ratificato
ogni giorno e questo ci obbliga a crescere nella fede e a rafforzarla».
Parlare di Gesù Cristo significa parlare della nostra fede in lui. E quindi inevitabilmente
nell’Anno della fede avremo l’opportunità ogni giorno, se lo vogliamo, di
crescere nella fede. «Una delle espressioni della fede, che noi chiediamo è quella di
pregare ogni giorno il Credo niceno-costantinopolitano perché questa preghiera ritorni
come avveniva fino all’anno 1050. Roma è stata l’ultima ad abbandonare questa
usanza. La celebrazione Eucaristica cominciava col Credo. Abbiamo testi bellissimi,
di sant’Agostino ed altri, che spiegano perchè non veniva messo per iscritto. Il Vescovo
lo insegnava ai Catecumeni e questi erano costretti ad impararlo a memoria.
Ogni giorno ritornavano al Credo per metter dentro di sé i contenti della loro fede
ma soprattutto per ricordare a se stessi gli impegni che avevano assunto con il battesimo».
Ogni battezzato deve conoscere a memoria il Credo perché in qualsiasi momento
deve essere capace di dire chi è e in chi crede. Ecco perché spiega mons. Fisichella
«oggi riflettiamo sul Credo in Gesù Cristo, figlio di Dio. Chiediamoci: ho incontrato
veramente Gesù Cristo nella tua vita? Su questo non si può scherzare. La fede è fondamentale
per dare una risposta di senso alla nostra vita. Non posso dire banalmente
“credo in Gesù Cristo” se non l’ho incontrato nella mia vita. Ma debbo averlo incontrato
personalmente. Non è una teoria. È l’impegno della fede. Non si può credere
in Lui se i nostri occhi non si sono fissati sui suoi occhi. Concretamente».
Ma come è possibile credere in lui ed amarlo senza averlo visto? «È possibile se
si incontra con chi lo annuncia. Lo si incontra nella sua Chiesa, là dove viene annunciato.
Gesù non è un mito antico da duemila anni. Gesù non è un racconto che
può essere fatto con un parola che
anche oggi può essere ancora bella,
Gesù non è soltanto un personaggio
che può aver compiuto dei gesti che
oggi ricordiamo ed hanno ancora
dello strabiliante... Gesù è innanzi
tutto una persona che viene annunciato
da una comunità di persone che
da 2000 anni credono in lui. Non solo
credono in lui ma attestano che lo
hanno visto e lo hanno toccato e che
vivono trasmettendo di generazione
in generazione questa esperienza di
fede».
153

154
Bonus Miles Christi
E poi c’è anche il secondo interrogativo:
«Se hai incontrato Cristo, lo conosci davvero?
Che cosa conosci di lui?
Qui abbiamo due dimensioni particolari.
La prima: sono dei dati storici.
Contrariamente a quanto qualche autore
con molta fantasia pensa, la storia ci da
degli elementi essenziali incontestabili, incontrovertibili,
della persona di Gesù. Che
sia esistito certamente questa persona dal
nome Gesù di Nazareth è un dato che storicamente
non può essere contestato».
Quel Gesù che ha predicato, che ha compiuto
dei segni, che ha sofferto, che è
morto inchiodato sulla croce è risorto. E noi
e siamo testimoni. Quello in cui crediamo è
storia. «E guai se non fosse stato così, perché
avremo sempre avuto l’alibi di non credere
in Lui... Cosa me ne faccio di un Dio
che non capisce la mia vita perché non conosce
la mia sofferenza e i limiti della natura
umana? Credere in un Dio che sta nell’alto dei cieli e non si cura dell’uomo se
non in rari casi mosso a pietà di qualcheduno vorrebbe dire che ha ragione Nietsche
che, in “Così parlò Zarathustra”, dice che Dio è morto e che le chiese sono dei sepolcri
di Dio. Tremendo e per alcuni versi quasi profetico della secolarizzazione che
noi viviamo in questi giorni».
Quanta ricchezza nel credere in Gesù Cristo. Quanta ricchezza si nasconde e tante
volte noi non percepiamo nella nostra vita di fede.
La citazione di un’espressione di Joseph Ratzinger, scritto nel suo primo volume
su “Gesù di Nazareth”, ha chiuso la mattinata di spiritualità: «Gesù non è un mito,
è una presenza fatta di carne, una presenza tutta reale nella storia. Possiamo visitare
i luoghi, seguire le vie che lui ha percorso, possiamo per il tramite di testimoni udire
le sue parole. Egli è morto ed è risorto. Ma che cosa ha portato Gesù veramente se
non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore. Che
cosa ha portato? La risposta è molto semplice: Dio. Ha portato Dio».
Gennaio-Marzo 2013
Gen. Giancarlo Naldi ■

Incontri interconfessionali a Shama
In breve
In occasione della settimana dell’unità dei cristiani il cappellano militare Padre
Claudio Catucci e il comandante della missione “Leonte 13” in Libano, Generale Antonio
Bettelli, hanno organizzato un significativo incontro di preghiera e fraternità
con i rappresentanti delle confessioni religiose presenti nel Sud del Libano.
I leader religiosi islamici sunnita e sciita e i prelati greco-cattolico e maronita si
sono incontrati presso la base militare di Shama sede del comando del settore ovest
di Unifil per condividere un momento di comunione. In ricordo dell’evento vissuto
sono stati piantati cinque alberi di ulivo, come impegno e augurio di pace per ciascuna
comunità religiosa presente, e inaugurato un monumento con inciso un versetto
del salmo 12,92.
«Oggi, piantando questi ulivi, – ha detto nel suo discorso di presentazione Sua
Eccellenza George Bakouni, rappresentante della chiesa greco cattolica – vogliamo
impegnarci a lavorare insieme per costruire l’unità e la pace della famiglia umana
cercando il bene comune, rigettare tutto quello che è contro la dignità umana e negativo
per la convivenza nella società civile».
Sua Eccellenza Chukrallah Nabil El Hajj, vescovo della chiesa maronita di Tiro
nel suo discorso ha augurato ai presenti che «la Pace cresca in Libano con la volontà
del Signore e l’impegno dei caschi blu di Shama, come gli olivi appena piantati sulle
meravigliose colline del sud che portano alla memoria il profumo dei profeti e degli
apostoli che hanno onorato queste terre con il loro passaggio».
Pregevoli e toccanti anche gli interventi dell’Imam Alì Beydoun sciita islamico e
dell’Imam Medrar Al Habbal sunnita islamico.
L’incontro si è concluso in una atmosfera di sentita comunione con un pranzo.
Ten. Col. Andrea Martorana ■
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Segnalazioni bibliografiche
Sui sentieri della pace
Presentazione
«Fin dall’inizio del mio ministero
come Successore di Pietro ho ricordato
l’esigenza di riscoprire il cammino della
fede per mettere in luce con sempre
maggiore evidenza la gioia ed il rinnovato
entusiasmo dell’incontro con Cristo».
Con queste parole, nella Lettera
apostolica Porta fidei, Papa Benedetto
XVI motivava la scelta di indire l’Anno
della fede, iniziato solennemente l’11
ottobre 2012 nella ricorrenza del cinquantesimo
anniversario dell’apertura
del Concilio Vaticano II e a vent’anni
dalla pubblicazione del Catechismo
della Chiesa Cattolica. L’intenzione del
Papa è che questo anno «susciti in ogni
credente l’aspirazione a confessare la
fede in pienezza e con rinnovata convinzione,
con fiducia e speranza. Sarà
un’occasione propizia anche per intensificare la celebrazione della fede nella liturgia,
e in particolare nell’Eucaristia, che è “il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa
e insieme la fonte da cui promana tutta la sua energia”. Nel contempo, auspichiamo
che la testimonianza di vita dei credenti cresca nella sua credibilità» (Porta fidei 9).
Un tempo di grazia, quindi, offerto innanzitutto ad ogni cristiano perché possa
confermare la propria fede nel Signore Gesù, unico salvatore del mondo, e ritrovare
motivazioni autentiche per impegnarsi a vivere, nella vita di ogni giorno, gli impegni
battesimali.
In questo contesto, trova un suo spazio significativo il nuovo libro di Mons. Vincenzo
Pelvi, Ordinario militare in Italia, che raccoglie i suoi interventi ufficiali degli
ultimi tre anni, la maggior parte dei quali sono omelie, tenuti nelle diverse circo-
* Vincenzo Pelvi, Sui sentieri della pace, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2013, pp. 875.
Gennaio-Marzo 2013

Segnalazioni bibliografiche
stanze della vita di quella singolare porzione della Chiesa che è l’Ordinariato. Sono
interventi che spesso intrecciano pagine dolorose della vita della Nazione italiana,
come nel caso delle esequie di militari morti nel compimento del loro dovere nelle
operazioni umanitarie che vedono l’Italia impegnata in diverse parti del mondo.
Altri, invece, sono la testimonianza dell’impegnativo lavoro di formazione e catechesi
che egli ha proposto ai sacerdoti e a quanti sono diversamente impegnati in questa
pastorale. Interventi che, accompagnando la vita quotidiana di una comunità cristiana
nel succedersi dei tempi liturgici e delle feste, offrono un contributo all’impegno
di «riscoprire i contenuti della fede professata, celebrata, vissuta e pregata»
e a «riflettere sull’atto con cui si crede» (Porta fidei 9), che il Papa indica ad ogni
cristiano come sempre più necessario.
La situazione nella quale siamo immersi è segnata da una profonda crisi in molti
aspetti del vivere comune. Anche la Chiesa non ne è rimasta immune, come ha lucidamente
ricordato Papa Benedetto XVI durante il discorso rivolto alla Curia romana
il 22 dicembre 2011: «Il nocciolo della crisi della Chiesa in Europa è la crisi della
fede. Se ad essa non troviamo una risposta, se la fede non riprende vitalità, diventando
una profonda convinzione ed una forza reale grazie all’incontro con Gesù Cristo,
tutte le altre riforme rimarranno inefficaci». Tale constatazione non deve però
far perdere di vista la consapevolezza del primato della grazia di Dio, che interviene
in momenti che l’uomo non può determinare, secondo un piano di salvezza che solo
Lui conosce. La grazia raggiunge il cuore dell’uomo, là dove ognuno dovrebbe decidersi
per Dio e viene interpellato nella sua libertà, chiamato ad accogliere l’amore
che salva e che dona senso definitivo all’esistenza. La persona scopre che, per trovare
una risposta alle tante domande presenti nella sua vita, non può puntare unicamente
sulle proprie sicurezze, ma deve affidarsi al richiamo dell’amore. E si rende conto
che la fede scaturisce dall’amore e ad esso ritorna come suo compimento più significativo.
Tale consapevolezza emerge continuamente dagli interventi raccolti in questo
volume, che tratteggiano una proposta formativa volta a prendere in seria considerazione
la condizione di disorientamento e di confusione nella quale si trova coinvolto
il nostro contemporaneo, vittima talvolta inconsapevole di un progetto che
ha perseguito l’esclusione di qualsiasi riferimento a Dio come condizione di emancipazione
dell’uomo. Con tenacia, anche nei momenti in cui questo risulta difficile,
Mons. Pelvi richiama la necessità di lasciarsi raggiungere dalla grazia di Dio in Gesù
Cristo, coltivando quel rapporto personale con Lui che si radica e matura nell’esperienza
della comunità cristiana. La preghiera liturgica comunitaria, la vita sacramentale
ed in particolare l’Eucaristia – temi questi trattati nelle lettere pastorali – diventano
pilastri costitutivi di una spiritualità essenziale all’uomo di oggi per vivere
il compito di rendere ragione della sua speranza (cfr. 1Pt 3,15). Da essi scaturisce
l’esperienza della preghiera personale, perché più cresce la fede più si intensifica la
preghiera. Più la vita di preghiera si fa forte, più si radica in noi l’esperienza della
fede, cioè l’esperienza dell’abbandono di noi stessi nelle mani del Padre. Per il cristiano
pregare è entrare nella contemplazione del volto di Dio come Gesù stesso ci
ha rivelato. La preghiera, inoltre, consente di prendere coscienza della nostra povertà
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Bonus Miles Christi
e nello stesso tempo apre all’accoglienza della volontà di Dio. Consente di entrare
in noi stessi, di scrutare il cuore, di allargare l’intelligenza a comprendere la verità
che Dio comunica nell’incontro personale con Gesù Cristo.
Tutto ciò è essenziale nella vita del cristiano per sostenerlo nella testimonianza
e nella carità. Ricorda Benedetto XVI che «è la fede che permette di riconoscere Cristo
ed è il suo stesso amore che spinge a soccorrerlo ogni volta che si fa nostro
prossimo nel cammino della vita. Sostenuti dalla fede, guardiamo con speranza al
nostro impegno nel mondo, in attesa di “nuovi cieli e una terra nuova, nei quali
abita la giustizia” (2Pt 3,13; cfr. Ap 21,1)» (Porta fidei 14). La promessa di questo
compimento alimenta la fede di tanti militari e delle loro famiglie che si sforzano di
testimoniare che la costruzione di un mondo migliore non può prescindere dal contributo
del cristianesimo che apre la possibilità di un cammino condiviso perché
consente all’uomo di dare una risposta piena e definitiva alla sua ricerca di verità e
di bene. Queste pagine, insomma, sono un valido aiuto per quanti desiderano vivere
con intensità e in comunione con tutta la Chiesa la grazia di questo Anno della fede,
ed essere confermati nell’impegno di testimonianza. Una via per affrontare con audacia
l’entusiasmante sfida della nuova evangelizzazione.
Gennaio-Marzo 2013
✠ Rino Fisichella ■
Presidente del Pontificio Consiglio
per la Promozione della Nuova Evangelizzazione

Preghiere di un cappellano
militare in Afghanistan
Postfazione
Caro Gianmario,
il servizio vissuto dai giovani militari in
Afghanistan resta un’esperienza indimenticabile
della vita offerta con generosa dedizione
al bene dell’umanità. Accanto ai nostri
ragazzi c’è stato sempre un protagonista
fuori campo che è Dio, nostro Padre.
Nel nome, “Padre”, c’è la garanzia sicura
della speranza; la possibilità di un futuro diverso,
libero dall’odio e dalla vendetta, un
futuro di libertà e di fraternità, per l’Italia,
l’Europa, il mondo. Sì, dovunque sia, in ogni
continente, a qualunque popolo appartenga,
l’uomo è figlio di quel Padre che è nei cieli,
è fratello di tutti in umanità.
Anche il dolore può diventare sorgente di
preghiera che rinnova la potenza dell’amore in ogni situazione della vita, della storia,
del mondo, togliendo il malessere e la malevolenza dal cuore. La preghiera è racconto
della grazia divina e delle lacrime umane.
L’Afghanistan resta una terra bella e incomprensibile, dove il contadino vive la
sua immobile civiltà in un luogo arido, nella costante presenza del dolore sotto un
cielo stellato che attrae e impaurisce per il suo freddo improvviso e infinito e per
un futuro difficile ma significativo nello scenario mondiale. Le strade polverose, i
robusti pashtum con la barba lunga e il turbante nero-bianco sulla testa, i bambini
orfani vestiti di stracci, i soldati vivi per miracolo e quelli ammazzati senza pietà,
le donne avvolte dal burqua senza apparente identità, tanti sguardi senza corpo e
senza dignità hanno risvegliato il pensiero e la volontà nel lodare e invocare il Signore,
amante della vita.
Le missioni internazionali di sicurezza stanno permettendo di riscoprire la bellezza
e la profondità della fede, in quei luoghi martoriati dove l’opera dello Spirito
* Gianmario Piga, Preghiere di un cappellano militare in Afghanistan, Dielle Grafiche - Poligrafix,
Sassari 2012, pp. 149.
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Bonus Miles Christi
libera da ogni palcoscenico o riguardo umano. Con il volto familiare e quel sovrappiù
di umanità, i militari italiani stanno collaborando a superare la paura del terrorismo
e dell’emarginazione, riconoscendo quella parte di verità, di giustizia e di umanità
che ogni uomo porta in sé.
Purtroppo la pace è tuttora debole, fragile, minacciata, e, in non pochi punti
della terra, violata. Essa è più fondata sulla paura che sull’amicizia; è più difesa dal
terrore che dalla reciproca concordia fra i popoli. Bisogna lasciare che cadano le barriere
dell’egoismo e che l’affermazione di legittimi interessi particolari non sia mai
offesa per gli altri, né mai negazione di ragionevole socialità. Di qui l’esigenza di
sostare in preghiera in un colloquio filiale con Colui che è vivente e non lascia mai
soli.
Se oggi la società non è felice, è perché non è fraterna. L’uomo è tentato di adorare
se stesso, di fare di sé il termine supremo del pensiero e della storia. Sta affermandosi
una mentalità falsamente umanistica, imbevuta di radicale egoismo, perché
chiusa alla conoscenza di Dio, fondamentalmente inquieta e sovversiva, perché non
aperta alla luce e alla speranza. La vita è imperscrutabile e appartiene a un Altro, a
Dio, che apre i cuori e allarga le braccia per il bene dell’umanità: è il segreto per accostare
in religioso ascolto queste pagine, che potrebbero somigliare a un salterio
dei nostri giorni.
Ti saluto nel Signore, invocando sulla famiglia militare una speciale benedizione.
Gennaio-Marzo 2013
✠ Vincenzo Pelvi ■