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parte prima<br />
crudo, dicendo, al cospetto dei colleghi di Elia, «qui c’è qualcuno che ha bisogno<br />
della psicologa!». Elia vive questa esperienza come una sconfitta: «non sono<br />
riuscita neanche a tenermi un posto di lavoro!» cui si ripromette di rimediare<br />
immaginando una via alternativa per la propria autorealizzazione. Elia decide di<br />
«realizzarsi come madre».<br />
Comunque poi son stata a casa e dopo qualche mese mi è venuta l’idea del figlio, mi ero<br />
messa in testa che volevo avere un figlio per essere felice, che volevo... volevo realizzarmi<br />
come madre. Ho detto: va bene, lavoro a casa, mi guardo mio figlio, fac cio la mamma,<br />
è come se lavorassi in casa, ho detto io.<br />
Vinte le resistenze del marito, Elia progetta nei minimi dettagli la propria ma -<br />
ter nità: «ho studiato sui libri del periodo dell’ovulazione, del periodo fer tile, del<br />
periodo non fertile, ho studiato tutto, sapevo tutto» e di lì ha poco ri mane incinta.<br />
La gravidanza procede bene fino al quinto mese, quando un’ecografia - forse mal<br />
fatta o mal interpretata - porta a credere che il bimbo sarà affetto dalla sindrome<br />
di Down. Elia decide comunque di tener il bimbo e per quattro mesi vive in uno<br />
stato di continua tensione, che si scioglie solo con la nascita del figlio: un bimbo<br />
sano.<br />
Il bimbo dorme e mangia poco e, benché ciò non comporti alcun serio<br />
problema per il neonato, Elia diviene preda di una crisi particolarmente severa.<br />
Comunque fatto sta che dopo cinque, sei mesi dal parto è successo il patatrac: io sono<br />
proprio partita, sono andata, ma nel vero senso della parola, nel vero senso della parola<br />
[stringe gli occhi, si tortura le mani, batte i piedi sul pavimento], cioè non avevo più<br />
l’equilibrio, e vedevo, avevo proprio la realtà distorta, nello stesso tempo ho avuto la crisi<br />
mistica, non so, vedevo il diavolo, vedevo il diavolo allo specchio e vedevo - va bene, nel<br />
frattempo era morta anche mia mamma - e vedevo mia mamma e il papà di T. che era<br />
il socio di mio marito (...) lo vedevo in casa, vedevo i morti in casa (...) mio marito mi<br />
aveva portato da mia mamma, e allora lasciavo il bambino sul letto e dicevo che andavo<br />
a prendere gli asciugamani, dovevo prendere giù qualcosa per lui, e mia mamma mi<br />
diceva: “ma cosa fai, lo lasci solo sul letto un bambino di pochi mesi’”, “cosa c’è? tanto<br />
lui è un angelo, se cade non si fa niente”, dicevo. (Elia, Intervista libera).<br />
Elia si rivolge a uno psichiatra, presso un ambulatorio privato, e ottiene la re -<br />
missione dei sintomi positivi solo due anni più tardi. Nel frattempo il marito aveva<br />
aperto un bar che contava di gestire con un socio e con l’aiuto della mo glie. Elia,<br />
però, non ce la fa, contenuto il proprio delirio, si trova a fare i conti con un disturbo<br />
che le impedisce ogni forma di rapporto sociale, Elia parla di una «fobia sociale».<br />
Questa chiusura che avevo verso-verso gli altri, s’è poi trasformata, s’è poi tra sformata<br />
in malattia, proprio, era proprio una cosa che facevo tutti i giorni, che una cosa proprio<br />
ossessiva, il fatto di non riuscire a parlar di non riuscire a parlare con gli uomini, il fatto<br />
di non riuscire a parlare con le donne, e io per esempio, mio marito mi aveva chiesto di<br />
andare ad aiutarlo al bar, però io andavo, però stavo in cucina, salutavo, poi il bello-il