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parte prima<br />
In seguito alla crisi lascia il lavoro per oltre un anno, combinado cassa<br />
integrazione e assenze per malattia. Al momento del rientro ha più di una<br />
difficoltà: “io non volevo più rientrare anche in fabbrica, perché mi facevo ...<br />
diciamo le paranoie... sul fatto che ero stato male, sul fatto poi ero giù, ero<br />
imbottito di psicofarmaci, eee mi senti ero ingrassato ero arrivato a cento<br />
chili”. Al rientro si presenta con un certificato medico della psichiatra e viene<br />
sottoposto a visita medica, sulla base di ciò viene reintegrato nel ruolo in linea<br />
che non riesce a sopportare. Ottiene poi, anche grazie alla mediazione della<br />
madre - che decide di rivolgersi direttamente al capo del personale - di essere<br />
assegnato a una mansione meno gravosa. A Marco viene assegnato il ruolo di<br />
magazziniere: “Insomma ho cercato di adattarmi, poi [sospiro] all’inizio co -<br />
munque ho trovato duro anche lì perché gente nuova, poi mi facevo anche un<br />
po’ di paranoie...” Il rapporto con i colleghi è del tutto sovrapponibile a quelli<br />
tipici dell’ambiente di fabbrica: “con i colleghi, adesso dove sono, non ho<br />
diciamo che sicuramente in tutti i posti c’è il buono e il cattivo, l’antipatico, il<br />
simpatico, perché si sa, non è che si può andare diciamo d’accordo con tutti o<br />
magari ...puoi essere simpatico a tutti. Però io diciamo che in linea di massima<br />
faccio il mio lavoro, sto sulle mie [silenzio] io voglio fare il mio lavoro, do, cerco<br />
di dare confidenza nei limiti”.<br />
Marco mostra un acuto senso critico e una buona autonomia. Vive solo,<br />
anche se con l’aiuto costante e affettuoso della madre, che abita nello stesso<br />
quartiere, e delle zie che vivono nello stesso condominio. L’espressione del<br />
viso, le movenze, il modo di parlare non mostrano in alcun modo i suoi<br />
problemi di salute. Marco ha una conversazione piacevole, punteggiata speso<br />
da ironia e autoironia. Marco ha una vita sociale modesta ma tutta protesa<br />
all’esterno della cerchia psichiatrica: frequenta, oltre alla madre e ai parenti,<br />
qualche collega di lavoro e qualche volta va a ballare. Gli amici non sono<br />
accompagnatori: “io vado anche da solo [a ballare], non mi faccio paranoie, se<br />
devo uscire anche da solo esco.<br />
ANTONIO ha 40 anni, i genitori, originari del Veneto, si trasferiscono a<br />
Torino nel 1960: il padre lavora ai mercati generali, la madre lavora come<br />
collaboratrice domestica. A otto anni Antonio perde il padre, di lui si<br />
occuperanno, con la madre i fratelli maggiori: «i miei fratelli maggiori, hanno<br />
sostituito mio padre e mia madre - naturalmente - ha fatto il suo ruolo di ma -<br />
dre». Antonio procede negli studi sino alla licenza media, per mettersi poi alla<br />
ri cerca di un’occupazione che troverà di lì a poco a sedici anni, in un’azienda<br />
della cintura torinese. L’ambiente di fabbrica, i modi rudi con i quali - sul piano<br />
informale - venne socializzato al lavoro, mettono in difficoltà Antonio che<br />
comincia ad accusare i primi sintomi del proprio disagio: «quando ero giovane,<br />
tra i sedici e i diciotto anni, non sopportavo gli scherzi di fabbrica. Cioè in<br />
fabbrica facevano degli scherzi che mettevano le mani addosso forse è da lì che<br />
è partito tutto e io non sopportavo quel genere di scherzi (...) e allora da lì ho