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188<br />

ogni caso, bisogna intervenire prima che il peggio accada. La situazione di Chiara è<br />

un po’ preoccupante, sia per le difficoltà che ella trova nel lavoro da poco intrapreso<br />

(il cui compenso le sembra serva soltanto a pagare le bollette), sia per la sua solitudine<br />

affettiva, legata alla sua latente omosessualità, e alla mancanza di mo menti<br />

ricreativi e gratificanti. Per fortuna, la psicologa e la psichiatra che la seguono sono<br />

molto attente, e anche il coordinatore dei cantieri di lavoro ha preso a cuore Chiara<br />

con i suoi problemi. Ènotevole che Chiara abbia già tentato il suicidio con psicofarmaci<br />

nel febbraio di quest’anno, quindi pochi mesi fa... la volta scorsa Chiara ci<br />

aveva anche detto che ricordava tale gesto con dolore e senso di ripugnanza.<br />

Di fronte a tale esperienza che tende a ripetersi, nonostante la consapevolezza do -<br />

lorosa del soggetto, mi viene in mente una frase dello psicanalista James Hillmann:<br />

“l’anima è costretta ad ammalarsi sempre di nuovo, finché non ha ottenuto ciò che<br />

vuole” 109 . E Hillmann continua: “il terapeuta dedica le sue cure all’anima, ai sogni e<br />

ai sintomi appunto per scoprire cosa vuole l’anima; cerca il mito del sintomo, rintraccia<br />

la fantasia e il desiderio, perché nel comportamento sintomatico (nel sintomo)<br />

si trovano i segni del telos dell’anima e le direzioni in cui essa vuole andare. Il<br />

sintomo non è, allora, solo una sofferenza, ma è soprattutto una possibilità che ci è<br />

offerta” 110 . Mentre scrivo queste frasi penso anche alla mia sofferenza, ai lunghi anni<br />

di psicoterapia, ai miei sintomi palesi e a quelli nascosti per paura del giudizio della<br />

gente... poi mi viene ancora in mente Chiara e decido di pregare per lei, di pensare<br />

a lei, nella speranza di esserle utile in qualche modo. Anch’io come Chiara sento che<br />

non ho risolto molti problemi, specialmente a livello affettivo, di relazione... ma<br />

diversamente da lei non sono ancora riuscita ad affrontare il lavoro. Per tutto il<br />

resto, devo continuare a vivere giorno per giorno come posso, non inter rompere il<br />

lavoro della psicoterapia, apprezzando le piccole cose positive che la vita mi offre,<br />

senza aver paura dei sintomi e del lato più oscuro di me. La sofferenza (entro certi<br />

limiti, s’intende) è una scuola di vita e una sfida a cui devo sottopormi senza perdere<br />

la speranza di cambiare la mia situazione. La ricercatrice sociale mi ha detto che<br />

durante l’intervista ero molto attenta e sono stata pronta nel rivolgere le domande.<br />

Sì, una piccola consolazione è poter rico noscere che mi sto impegnando nel contribuire<br />

a questa ricerca che - spero - darà dei frutti.<br />

. Le interviste a Ilaria<br />

Prima intervista: 16 maggio 2003<br />

parte seconda<br />

Oggi, 16 maggio, la ricercatrice sociale Danila ed io abbiamo intervistato<br />

una giovane donna (che chiamerò Ilaria), la quale ci ha parlato della sua storia,<br />

in particolare del manifestarsi, dal ‘93 in poi, del disagio psichico: consistente<br />

in attacchi di panico (che la paralizzavano e la rendevano dipendente da altri<br />

per quanto riguarda gli spostamenti, sia a piedi che sui mezzi di trasporto) e<br />

della sua esperienza lavorativa. Il disturbo da attacco di panico o D.A.P. 111 iniziò<br />

quando la ragazza era studentessa universitaria, dopo un anno in cui si<br />

erano verificati eventi stressanti, tra cui la fine di una relazione sentimentale e<br />

un lutto. Ilaria rischiava di non poter proseguire gli studi, ma non si diede per<br />

vinta e continuò a dare gli esami che era possibile sostenere senza frequentare.<br />

Suo padre oppure persone amiche l’accompagnavano nei suoi spostamenti,

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