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2009 - Cc-Ti

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Biblioteca liberale<br />

di Alessio del Grande<br />

la caT<strong>Ti</strong>va Poli<strong>Ti</strong>ca<br />

soffoca la liberTà<br />

Chi lo conosce e lo segue sul Corriere della Sera o attraverso<br />

i suoi libri – memorabile “Il dubbio” – sa che<br />

Piero Ostellino è uno dei pochi veri liberali, di quelli cioè<br />

senza aggettivi, rimasti in circolazione. Nel suo ultimo<br />

saggio già il titolo rispecchia l’orizzonte del suo pensiero<br />

critico: “Lo Stato canaglia. Come la cattiva politica continua<br />

a soffocare l’Italia” (editore Rizzoli). Ma non si tratta<br />

dell’ennesimo libro denuncia sul malaffare del Palazzo,<br />

l’intoccabilità e gli sperperi dei politici italiani, sulla scia<br />

de “ La casta” di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Né<br />

la sua analisi si limita o vale solo per l’Italia. Muove sì da<br />

essa, come paradigma di uno statalismo culturale, prima<br />

ancora che politico, frutto insano dell’incesto tra la tradizione<br />

socialcomunista e il cattolicesimo collettivista, ben<br />

sintetizzato nella Costituzione repubblicana. Applicando<br />

gli sperimentati strumenti della critica liberale, l’analisi<br />

di Ostellino si allarga, invece, “all’invasività della sfera<br />

pubblica nella sfera privata, alla politica che da servizio ai<br />

cittadini mette i cittadini al suo servizio”, in poche parole<br />

allo “Stato canaglia”, i cui tratti distintivi sono ormai ben<br />

visibili in molti Paesi, Svizzera compresa.<br />

Uno Stato che, si legge nei primi capitoli, rimodellandosi<br />

sul Leviatano di Hobbes, ha fondato la sua politica<br />

sulla paura e di questa continua ad alimentarsi. Che sta<br />

deprivando larghe fette della società dal sano principio<br />

della responsabilità individuale, che usa il fisco come un<br />

randello per punire i ricchi, la spesa pubblica per creare<br />

consenso, finanziando i suoi apparati e le sue clientele,<br />

e la spesa sociale per perpetuare una condizione di<br />

dipendenza dall’ente pubblico dei cittadini meno fortunati,<br />

anziché promuovere attivamente la loro autonomia<br />

con il reinserimento nella vita produttiva. A quest’ultimo<br />

proposito, Ostellino ricorda l’insegnamento di Benjamin<br />

Franklin, secondo cui la cosa migliore da farsi per i poveri<br />

“non era di rendere loro la vita più agevole in povertà,<br />

ma spingerli a uscirne, offrendo ad essi l’opportunità di<br />

scalare la piramide sociale e di migliorare le proprie condizioni<br />

economiche”.<br />

Ostellino invoca una grande rivoluzione liberale, “per fare<br />

in modo – scrive – che il cittadino dipenda meno dallo<br />

Stato (riduzione della spesa pubblica) e più da se stesso<br />

(avere più soldi in tasca grazie al taglio delle tasse). Significa<br />

incoraggiarne e apprezzarne il senso di responsabilità<br />

nell’amministrare le proprie risorse. In definitiva, significa,<br />

smetterla di trattarlo come un bambino irresponsabile,<br />

che ha bisogno di un padre (lo Stato) che lo guidi.<br />

E incominciare a rispettarlo”. Un appello coraggioso ma<br />

che in tempi di crisi si scontra fragorosamente<br />

con il rilancio dello statalismo<br />

nelle sue forme più perverse e pericolose<br />

(dirigismo, protezionismo e nazionalismo), con gli osanna,<br />

non solo a sinistra, ad una presunta fine del capitalismo.<br />

“Dalla comparsa del Manifesto del Partito comunista di<br />

Karl Marx (1848) ad oggi, il capitalismo – ricorda Ostellino<br />

– ha attraversato una decina di crisi, le più gravi delle<br />

quali sono state quella del 1929 e la crisi odierna. Ad<br />

ogni crisi i nemici del capitalismo ne hanno annunciato<br />

la fine e ne hanno attribuito la causa al mercato. Che<br />

vuol dire l’avidità dei capitalisti. Si sono invocati maggiori<br />

interventi dello Stato nell’economia, regole più stringenti<br />

al mercato. Che vuol dire più potere a chi governa, sia sul<br />

processo di accumulazione sia nell’allocazione delle risorse”.<br />

Niente di nuovo, dunque, sotto il cielo della storia, da<br />

queste crisi, grazie alla creatività distruttrice del mercato,<br />

il capitalismo è uscito sempre rinnovato e più forte, per<br />

confermarsi come l’unico sistema economico in grado di<br />

produrre benessere e ricchezza per tutti.<br />

Di nuovo c’è, forse, la virulenza e l’estensione dell’attacco<br />

al mercato in molti Paesi, la voglia dirompente di<br />

tanti governi d’impastoiarlo con i lacci della politica, di<br />

degradarlo a “mercatismo”, come fa il ministro italiano<br />

dell’Economia, Giulio Tremonti, tutto “Dio, patria e famiglia”,<br />

che ha violentemente “arringato” contro la globalizzazione<br />

nel suo terrificante “La paura e la speranza”.<br />

Una teologia della redenzione del capitalismo, sottolinea<br />

Ostellino, che ignora bellamente i benefici generati per<br />

tutti i Paesi, anche quelli poveri, dal libero mercato e dalla<br />

mondializzazione dell’economia. “La libertà di mercato<br />

non è una religione fondamentalista. È un meccanismo<br />

non un’ideologia, che ha dimostrato il suo valore più e<br />

più volte negli ultimi duecento anni”, ricorda Ostellino<br />

citando un interessante editoriale apparso tempo fa sul<br />

Financial <strong>Ti</strong>mes. “ L’errore dei nemici della libertà di mercato<br />

– aggiunge – è che essi puntano il dito sulla parola<br />

mercato, mentre quella più importante è libertà”. Parola,<br />

purtroppo, assai spesso bistrattata.<br />

<strong>Ti</strong>tolo: “Lo Stato canaglia”<br />

Autore: Piero Ostellino<br />

Editore: Rizzoli<br />

Pagine: 240<br />

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