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2009 - Cc-Ti

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Il tema<br />

di Alessio Del Grande<br />

zati spregiudicatamente dai politici, il cui orizzonte temporale<br />

è limitato alla loro rielezione –, sul lungo periodo deprimono<br />

ogni prospettiva di crescita, perché manomettono il motore<br />

stesso della ripresa: il libero commercio e la libera concorrenza.<br />

Oggi, purtroppo, si sta andando ben oltre quei rigurgiti<br />

protezionistici che periodicamente contrassegnano i rapporti<br />

commerciali tra gli Stati, scadendo spesso nel ridicolo come<br />

nel caso dei dazi USA sul Roquefort francese o sull’acqua minerale<br />

italiana per punire l’Europa che non voleva importare la<br />

carne dei bovini americani allevati con gli ormoni. Ora si sta<br />

assistendo ad un arroccamento nazionale che chiude le porte<br />

agli scambi commerciali, tant’è che qualcuno parla persino di<br />

deglobalizzazione. Una brutta china scandita da tanti vertici<br />

internazionali in cui, al di là delle dichiarazioni di principio sulla<br />

libertà di commercio, si registrano progressive chiusure dei<br />

sistemi economici: ogni Paese cerca di spendere, investire e<br />

consumare le proprie risorse all’interno dei confini nazionali,<br />

minando così le basi stesse dell’economia mondiale. Rischio<br />

enorme in un contesto economico globalizzato dove, lo si<br />

voglia o no, giusto o sbagliato che sia, le sorti di ogni sistema<br />

Paese sono legate con mille fili a quelle di altri Paesi.<br />

Guardando le recenti statistiche del commercio mondiale non<br />

si può non notare un pericoloso deflusso, per effetto di una<br />

crisi che pare indurre nuovamente a quel devastante errore<br />

che negli ’30, con dazi e barriere doganali, fece precipitare<br />

del tutto l’economia mondiale nei gorghi della Grande Depressione,<br />

da cui si uscì solo alla fine della seconda guerra mondiale.<br />

Per fortuna non siamo ancora ai livelli di quegli anni,<br />

quando il commercio mondiale si ridusse del 35%. Si assiste<br />

comunque ad una regressione politica che si manifesta con<br />

un’aperta ostilità verso l’internazionalizzazione economica, i<br />

tentativi di ri-nazionalizzare i mercati, la tutela di determinati<br />

settori industriali, gli aiuti pubblici alle grandi imprese nazionali<br />

e i mille espedienti per frenare le importazioni dai Paesi<br />

emergenti, nei cui ritmi di crescita però, paradossalmente, si<br />

spera per venire fuori dalle secche della crisi. Il tutto viene<br />

mascherato con l’alibi che la concorrenza è possibile solo<br />

tra economie che godono delle stesse condizioni. Requisito<br />

assurdo, possibile solamente nel contesto impossibile di<br />

un’economia planetaria pianificata, dove sarebbe annullato<br />

qualsiasi vantaggio competitivo dei singoli paesi.<br />

Ma il potenziale distruttivo del protezionismo è ancora più<br />

devastante per le piccole realtà come il <strong>Ti</strong>cino, la cui economia<br />

vive e prospera da decenni in simbiosi con quella di<br />

oltre confine, sia per la circolazione della manodopera sia per<br />

consumi e investimenti. Che ne sarebbe del nostro sistema<br />

produttivo senza i 40’000 frontalieri che fanno funzionare<br />

centinaia di fabbriche e cantieri? Chiudere le porte, soffocare<br />

gli scambi significa anche alzare muri, barriere verso tante<br />

8 <strong>Ti</strong>cino Business<br />

aziende italiane, ma non solo, che in questi ultimi anni si sono<br />

insediate in <strong>Ti</strong>cino creando migliaia di nuovi posti di lavoro<br />

e sviluppando quell’ innovazione tecnologica di cui il nostro<br />

Cantone non può fare assolutamente a meno. Se l’economia<br />

cantonale, come del resto quella svizzera, soffre ancora di<br />

taluni limiti penalizzanti, ciò è dovuto soprattutto a vecchie<br />

incrostazioni protezionistiche, che hanno tutelato solo rendite<br />

di posizione a scapito degli interessi dei consumatori e a<br />

danno delle imprese più dinamiche e aperte alla concorrenza<br />

internazionale. Svizzera e <strong>Ti</strong>cino non hanno bisogno di misure<br />

protezionistiche, ma di condizioni quadro che agevolino la<br />

libera concorrenza. Dopo tanto discutere sarebbe davvero ora<br />

che nel nostro Paese si applicasse pienamente il principio del<br />

Cassis de Dijon, secondo cui un prodotto fabbricato e commercializzato<br />

legalmente in uno dei Paesi UE, possa essere<br />

venduto liberamente anche negli altri. Se ne avvantaggerebbe<br />

la nostra struttura dei prezzi, che per alcuni generi nella<br />

vendita al dettaglio sono addirittura superiori del 40% alla<br />

media degli altri Stati europei, con gran beneficio, quindi, dei<br />

consumatori e alla lunga delle stesse imprese di produzione<br />

e commercializzazione che invece di contare e prosperare<br />

su tutele protezionistiche sarebbero stimolate a innovare e<br />

rinnovare la loro offerta.<br />

Recentemente è passata quasi inosservata la notizia che gli<br />

allestimenti per i mondiali di ciclismo di Mendrisio sono stati<br />

aggiudicati a ditte ticinesi e svizzere, assai competitive per<br />

qualità e prezzi. Ecco solo un piccolo esempio di come la<br />

concorrenza internazionale non sia un freno, bensì un pungolo<br />

per vincere e affermarsi sul mercato facendo meglio e più<br />

degli altri. Che del resto è stata sempre la qualità distintiva<br />

del made in Svizzera.

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