2009 - Cc-Ti

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Contromano di Alessio del Grande il TesoreTTo e la deMocrazia beffaTa Inutile, ormai, chiedersi se il Governo sul tesoretto abbia volutamente barato, ipotizzando un deficit di oltre 162 milioni di franchi che altri, molto avvedutamente, avevano giudicato del tutto campato in aria. Come si è, poi, dimostrato alla prova dei consuntivi che hanno chiuso il 2008 con un avanzo di 26,4 milioni. Le domande da porsi sono, invece, altre: se il Parlamento avesse saputo di questo tesoretto (92 milioni di sopravvenienze fiscali accertati) avrebbe votato il preventivo, “lacrime e sangue”, per il 2009, con un inasprimento di tasse e imposte per cittadini e imprese? Comuni e associazioni economiche avrebbero accettato, dopo l’estenuante concertazione sulla manovra finanziaria, che oneri maggiori per gli enti locali e aggravi fiscali, sebbene alleggeriti, fossero recepiti nel bilancio di previsione? Ma soprattutto: quale sarebbe stato l’esito della votazione popolare dello scorso giugno sugli sgravi fiscali proposti dalla Lega, se i cittadini avessero saputo che le casse del Cantone non erano così disastrate, come lasciava intendere la martellante campagna del Governo? E che c’erano, invece, in arrivo un centinaio di milioni, sebbene non ancora ufficialmente contabilizzati. Se si fosse saputo tutto questo, il Parlamento non avrebbe di certo votato un bilancio con nuovi balzelli a carico dei contribuenti e i cittadini il primo giugno del 2008 avrebbero probabilmente approvato a stragrande maggioranza l’iniziativa fiscale leghista. In definitiva, parlamento, partner sociali, Comuni e cittadini non sono stati messi in condizione di decidere con cognizione di causa. Sarebbe davvero gravissimo dover pensare, soltanto pensare, che il Consiglio di Stato o qualche singolo ministro, avessero a disposizione le cifre su quelle sopravvenienze fiscali – date a ragione per certe e con largo anticipo dal Corriere del Ticino e dalla Lega – e se ne siano stati zitti per accreditare l’immagine di conti pericolosamente in rosso. Sarebbe gravissimo perché, anche se non si è deliberatamente mentito al Paese, con un silenzio omissivo non lo si è correttamente messo in condizione di decidere e votare a ragion veduta. Se così è, non si è rispettata una delle regole fondamentali della democrazia: sapere per decidere, manipolando, con un’informazione non corretta, gli esiti del confronto politico. Aspetto questo che va bene al di là dell’esistenza o meno del tesoretto e della patetica sceneggiata del bauletto vuoto recitata a Palazzo. Certo, si potrà obiettare, c’è sempre stato una differenza tra bilancio preventivo e consuntivo. Ma in questo 6 Ticino Business caso, va ricordato, si erano ripetutamente ipotizzate delle consistenti sopravvenienze fiscali per il triennio 2004-2007, e non si trattava di semplici illazioni, bensì di stime realistiche sul gettito fiscale di quegli anni, che erano state per di più calcolate con uno scarto minimo di approssimazione, come si poi visto al momento della chiusura dei conti 2008. Invece, sulla base di informazioni ufficiali distorte, non solo non si sono approvati gli sgravi fiscali e si è votato un preventivo che in piena fase recessiva penalizza i redditi dei cittadini e le aziende, ma si è pure allestito un piano anticrisi che avrebbe potuto avere ben altra incidenza. Si è persa, insomma, l’occasione di un confronto serio su come gestire le risorse pubbliche per una strategia di rilancio duraturo della nostra economia. È davvero paradossale, quanto mortificante, che persino davanti all’emersione del tesoretto, il partito del “tassa e spendi” si ostini ancora a sostenere che le casse del Cantone sono vuote per colpa degli sgravi fiscali degli anni scorsi, e che per pareggiare i conti bisogna aumentare la pressione contributiva su persone giuridiche e ricchi contribuenti. La verità è che lo Stato meno tassa più incassa, come ha dimostrato l’esperienza fatta in Ticino sino al 2007: la diminuzione del 30% della pressione fiscale su l’arco di un decennio ha generato un aumento del 40% del gettito fiscale. Bene hanno fatto, dunque, il capogruppo dei deputati del PPD, Paolo Beltraminelli e i parlamentari che si riconoscono in “Idea liberale”, a rilanciare il dibattito sugli sgravi fiscali per sostenere le attività produttive confrontate con la cattiva congiuntura, mantenere l’attrattività del Ticino per l’insediamento di nuove aziende e per salvaguardare anche i redditi delle famiglie. Come si sta facendo negli altri Cantoni. Nei Grigioni, ad esempio, per dare una spinta alla congiuntura il Governo ha deciso qualche settimana fa un’ulteriore riduzione delle imposte dal 2010 per cittadini e aziende. Sgravi per 78 milioni di franchi che incideranno sulla compensazione della progressione a freddo e che ridurranno la pressione contributiva su sostanza e utili aziendali. A Zurigo, a fine marzo, il Gran Consiglio ha approvato, invece, una revisione fiscale che riduce l’aliquota di’imposta sugli stipendi superiori ai 250 mila franchi annui. Assieme alla riduzione dell’aliquota che scenderà dal 13 all’11% , sono stati approvati degli alleggerimenti per le famiglie grazie all’introduzione di maggiori deduzioni per i figli. Un pacchetto fiscale da 300 milioni di franchi contro cui la sinistra ha, naturalmente, lanciato un referendum.

Il tema di Alessio Del Grande ProTezionisMo, la bruTTa faccia del nazionalisMo Sicuri di non poter pagare meno tasse con la formula previdenziale giusta? Tra i grandi della Terra aveva già cominciato l’anno scorso, in Gran Bretagna, il premier laburista Gordon Brown con lo slogan “posti di lavoro inglesi ai lavoratori inglesi”; pochi mesi fa ecco gli operai del Regno che scendono in strada per manifestare contro gli operai italiani di una ditta che aveva vinto l’appalto per la costruzione di una raffineria nel Lincolnshire. Poi sono venuti il neo Presidente Usa, Barack Obama, con la clausola “Buy American” compra americano, il Presidente francese Nicolas Sarkozy che ha subordinato gli aiuti all’industria automobilistica nazionale alla conservazione dei posti di lavoro in patria, il Governo di Angela Merkel che in Germania ha blindato interi comparti produttivi e quello di Silvio Berlusconi, in Italia, che ha teorizzato la valenza “strategica” di alcune aziende da tutelare ad ogni costo. Sospinto dalla paura collettiva per la crisi è risorto il protezionismo: il sogno vano di salvaguardare l’economia nazionale imbullonandola sul suolo patrio. Paura collettiva che ha contagiato anche il Ticino, dove la tentazione protezionistica, fomentata, peraltro, da anni da campagne isolazioniste, si è ridestata più forte che mai. Al punto che persino un ministro liberale radicale ha invitato a dare un aiutino all’economia cantonale non andando oltre confine a fare la spesa e commissionando lavoro agli artigiani ticinesi e non ai padroncini italiani. Appello che alcuni artigiani hanno preso alla lettera, protestando duramente contro una grande catena commerciale che a Locarno aveva affidato ad un’impresa di Varese lavori per tre milioni di franchi. Se è legittima la paura davanti una congiuntura internazionale assai maligna, frutto di tre crisi che si sono sovrapposte nello spazio di un anno (crisi alimentare, crisi petrolifera e crisi finanziaria), è per contro assai pericoloso questo ritorno del protezionismo, poiché è molto più dannoso dei mali che vorrebbe curare. Pericoloso per tutti. Per l’economia in generale così come per i grandi Paesi o un piccolo Cantone quale il Ticino. Autarchia e nazionalismo commerciale non hanno mai giovato allo sviluppo economico e sociale. Se nell’immediato sembrano avere un effetto benefico – e sono perciò sponsoriz-

Il tema<br />

di Alessio Del Grande<br />

ProTezionisMo,<br />

la bruTTa faccia del nazionalisMo<br />

Sicuri di non poter pagare meno tasse<br />

con la formula previdenziale giusta?<br />

Tra i grandi della Terra aveva già cominciato l’anno scorso,<br />

in Gran Bretagna, il premier laburista Gordon Brown con lo<br />

slogan “posti di lavoro inglesi ai lavoratori inglesi”; pochi mesi<br />

fa ecco gli operai del Regno che scendono in strada per manifestare<br />

contro gli operai italiani di una ditta che aveva vinto<br />

l’appalto per la costruzione di una raffineria nel Lincolnshire.<br />

Poi sono venuti il neo Presidente Usa, Barack Obama, con<br />

la clausola “Buy American” compra americano, il Presidente<br />

francese Nicolas Sarkozy che ha subordinato gli aiuti all’industria<br />

automobilistica nazionale alla conservazione dei posti<br />

di lavoro in patria, il Governo di Angela Merkel che in Germania<br />

ha blindato interi comparti produttivi e quello di Silvio<br />

Berlusconi, in Italia, che ha teorizzato la valenza “strategica”<br />

di alcune aziende da tutelare ad ogni costo. Sospinto dalla<br />

paura collettiva per la crisi è risorto il protezionismo: il sogno<br />

vano di salvaguardare l’economia nazionale imbullonandola<br />

sul suolo patrio.<br />

Paura collettiva che ha contagiato anche il <strong>Ti</strong>cino, dove la<br />

tentazione protezionistica, fomentata, peraltro, da anni da<br />

campagne isolazioniste, si è ridestata più forte che mai. Al<br />

punto che persino un ministro liberale radicale ha invitato<br />

a dare un aiutino all’economia cantonale non andando oltre<br />

confine a fare la spesa e commissionando lavoro agli artigiani<br />

ticinesi e non ai padroncini italiani. Appello che alcuni artigiani<br />

hanno preso alla lettera, protestando duramente contro<br />

una grande catena commerciale che a Locarno aveva affidato<br />

ad un’impresa di Varese lavori per tre milioni di franchi. Se<br />

è legittima la paura davanti una congiuntura internazionale<br />

assai maligna, frutto di tre crisi che si sono sovrapposte nello<br />

spazio di un anno (crisi alimentare, crisi petrolifera e crisi<br />

finanziaria), è per contro assai pericoloso questo ritorno del<br />

protezionismo, poiché è molto più dannoso dei mali che vorrebbe<br />

curare. Pericoloso per tutti. Per l’economia in generale<br />

così come per i grandi Paesi o un piccolo Cantone quale il<br />

<strong>Ti</strong>cino. Autarchia e nazionalismo commerciale non hanno mai<br />

giovato allo sviluppo economico e sociale. Se nell’immediato<br />

sembrano avere un effetto benefico – e sono perciò sponsoriz-

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