2009 - Cc-Ti
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Il tema di Alessio del Grande livello cantonale che federale, potrebbe compensare almeno in parte gli effetti dello scudo fiscale italiano sulla piazza finanziaria e sulla nostra economia. Mobilità e commerci I trasporti sono un altro nervo scoperto del sistema Ticino. Il raddoppio della galleria autostradale del San Gottardo, il collegamento veloce del Locarnese con l’autostrada, il proseguimento verso sud di Alptransit rappresentano condizioni irrinunciabili per una strategia di sviluppo, poiché è su una rete di trasporti e di mobilità veloce, efficiente e sicura che si può consolidare la crescita economica. Senza questi tre interventi, l’infrastruttura stradale e ferroviaria del Cantone sconterebbe il prezzo di un grave handicap che, oltre a limitare fortemente i flussi turistici e commerciali, allontanerà sempre di più il Ticino dai centri nevralgici dell’economia nazionale e internazionale. Non c’è da fare però solo un discorso di strade. La mobilità indotta dalla società moderna richiede anche altre infrastrutture, quali la realizzazione di un numero di posteggi sufficienti per supportare l’espansione dei centri e degli agglomerati urbani dove ormai si concentra il grosso delle attività del terziario. Purtroppo sinora si è battuta la strada inversa facendo di tutto per scoraggiare la mobilità individuale a vantaggio di quella collettiva, con una logica pianificatoria punitiva che non tiene in nessuna considerazione le odierne esigenze negli spostamenti per il lavoro o per il tempo libero. Altrettanto importante è arrivare una volta per tutte alla nuova legge sugli orari dei negozi. Il braccio di ferro coi sindacati in occasione delle aperture domenicali per la campagna di promozione turistica e commerciale “Emozione Ticino”, ha dimostrato ulteriormente quanto sia paralizzante la difesa dello status quo da parte delle organizzazioni sindacali, la loro resistenza ad ogni innovazione per permettere al cantone di reggere la concorrenza commerciale d’oltre confine e per promuovere il turismo anche con un consumo del tempo libero che non può più essere regolato col calendario e gli orari di una società agricola. Da oltre dieci anni si attende la nuova legge, intanto si va avanti con il farraginoso sistema di de- 18 Ticino Business roghe e permessi soggetto alle abituali opposizioni e agli scontati ricorsi dei sindacati. Anche su questo versante il Cantone, e non è colpa soltanto del governo, è bloccato da un pericoloso immobilismo, da una paura per qualsiasi cambiamento e blindato in vecchie abitudini che non fanno i conti col dinamismo della concorrenza d’oltre frontiera. Rapporti con Berna In una recente intervista al Giornale del Popolo, il governatore della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, con una bella metafora sosteneva che il Ticino deve diventare “il volto di Berna a Milano”, vale a dire della capitale economica d’Italia, con la forza di una regione di nove milioni di abitanti e un sistema produttivo che da solo garantisce il 20% del Pil italiano. Purtroppo è che il Ticino a Berna pare non contare nulla. Nessun ministro, nessun ticinese ai vertici delle aziende federale e per di più con una presenza insignificante nei posti che contano nell’amministrazione. Molto difficile, dunque, che a Berna ci si renda conto di quale ruolo possa giocare il Ticino, nell’interesse nazionale, grazie alla contiguità non soltanto con la Lombardia, ma con tutta la macro regione Nord Italia, una delle aree economicamente più forti dell’Europa. Per questo il Cantone si deve battere sin adesso, e non aspettando la prossima elezione in Consiglio federale, per aumentare da sette a nove il numero dei ministri e ottenere finalmente la giusta rappresentanza in governo. Ma se contiamo poco nella stanza dei bottoni non è colpa solo di Berna. E’ colpa anche del fatto che il Cantone si è fatto sentire poco. Fallita l’esperienza di qualche anno fa col “delegato” per i rapporti con la Confederazione, bisogna trovare nuove modalità per dare più voce e più peso al Ticino. Evidentemente Deputazione alle camere e Conferenze dei Direttori cantonali, a cui di solito partecipano non i nostri ministri ma gli alti funzionari, non bastano. Visto che i politici tardano a decidere, bene ha fatto la Camera di commercio ad ipotizzare la possibilità di un suo rappresentante permanente nella capitale. Se la politica anche in questo caso se la prende comoda, l’economia come sempre deve, invece, muoversi in fretta.
Biblioteca liberale di Alessio del Grande 1989: la caDuta Del muro. la fiNe Del ‘900 e Del comuNismo La rivoluzione ungherese del 1956, la Primavera di Praga del 1968, e la caduta del Muro di Berlino, 9 novembre 1989, che segna la fine dei Governi socialisti o delle cosiddette democrazie popolari dell’Est europeo, e con essi il crollo anche di quasi tutti i regimi dei Paesi satelliti che nel mondo facevano capo all’Impero sovietico.Tra il giugno e il dicembre di vent’anni fa per l’Europa comincia un’altra storia. Il 4 giugno del 1989, dopo una lunga ondata di scioperi, in Polonia si tengono le prime elezioni semilibere, vince Solidarnosc il sindacato-movimento cattolico di Lech Walesa, tre mesi dopo il Paese sarà guidato dal primo Governo democratico dell’Est; il 23 agosto una catena umana lunga 600 chilometri unisce Tallinn, Riga e Vilnius, le capitali degli Stati baltici che uno dopo l’altro dichiarano la loro indipendenza dall’Unione sovietica; ad ottobre si scioglie il Partito comunista ungherese, che rinasce come Partito socialista e con un programma di riforme tra cui anche elezioni democratiche; il 9 novembre dopo aver sostituito il Presidente Erich Honecker con Egon Grenz, il Partito comunista della Germania orientale decide di aprire la frontiera con l’Ovest: decine di migliaia di cittadini superano la linea di confine, crolla il muro di Berlino, l’anno seguente si riunifica la Germania. Il 10 novembre viene deposto il dittatore bulgaro Zhivkov, nel giugno del ’90 ci saranno le prime elezioni democratiche; il 28 dello stesso mese anche in Cecoslovacchia viene abolito il Governo del partito unico e s’indicono elezioni democratiche, nel 1993 si arriva alla divisione dello Stato tra Ceca e Slovacchia; il 25 dicembre in Romania la rivolta popolare travolge la dittatura di Nicolae Ceausescu, giustiziato assieme alla moglie dopo un processo sommario. Un inarrestabile effetto domino che avrà come sanguinoso epilogo la guerra civile seguita al disfacimento della Jugoslavia del maresciallo Tito. Sei mesi per un’incredibile accelerazione della storia, lucidamente analizzata da Enzo Bettiza nel suo ultimo libro “1989” (edito da Mondadori), che ripercorre, da testimone diretto e gran conoscitore di quei Paesi, anche i passaggi chiave di quell’anno ancora poco indagati dagli studiosi. Nessuno aveva supposto, ricorda Bettiza, che i problemi dell’Est e del socialismo reale si sarebbero palesati nel Paese in cui la dittatura “più perseverante e immarcescibile” aveva murato vivi 17 milioni di tedeschi: “Una dittatura che aveva combinato la tradizione autoritaria russa con quella prussiana applicandole entrambe, nella macchina del Muro, nei sotterranei e negli archivi della Stasi (la polizia segreta della Germania democratica, ndr) nell’indottrinamento e nell’uniforme dei Vopos, con minuziosa puntigliosità nazionalsocialista”. Per Bettiza, che ha già alle spalle numerosi saggi sul mondo comunista, in quella data si racchiude la fine del Novecento. Che sia stato un secolo breve o tragicamente sin troppo lungo, felice per l’incredibile progresso tecnico, scientifico e sociale oppure drammaticamente infelice perché insanguinato da due guerre mondiali, dittature e distruzione atomica, certo è che la caduta del muro e la riunificazione della Germania segnano non solo per l’Europa, ma per il mondo intero, una svolta senza precedenti: tramonta il comunismo che si accartoccia su stesso, sul fallimento economico e sociale di quella che doveva essere una società più giusta, e vince la libertà, scompare l’economia pianificata col suo impianto ideologico e si afferma l’economia capitalistica col suo modello di democrazia politica. Un rivolgimento così radicale da spingere qualcuno a parlare persino di “Fine della storia”. Quando nell’ottobre del 1989, Michail Gorbaciov tenne a Berlino il discorso celebrativo per i quarant’anni della Repubblica democratica tedesca, pochi seppero leggere tra le sue parole, pochi riuscirono ad intuire l’incredibile metamorfosi che stava maturando nell’Est comunista. Nell’Europa di allora si festeggiava sì la glasnost e la perestrojka del leader russo, ma si temevano anche repentini cambiamenti degli equilibri geopolitici. Anzi, come ricorda Bettiza, la riunificazione tedesca non piaceva affatto a Inghilterra, Italia e Francia, la si guardava con quel timore ben sintetizzato da una furbesca battuta del presidente francese Mitterand, il quale diceva di amare talmente la Germania che preferiva averne due. “Passerà alla storia la favola di un 1989 come anno conclusivo di una guerra sommersa “vinta” dall’Occidente democratico contro l’Oriente comunista. Niente di più esagerato o, quantomeno, superficiale. Il comunismo era morto di comunismo – nota Bettiza –. L’Occidente non solo aveva fatto poco o niente per affrettarne la fine, ma, al contrario, con generosi sussidi all’URSS, applausi e promesse a Gorbaciov, inviti alla prudenza ai tedeschi, ai polacchi, ai croati, aveva fatto di tutto per conservare e mantenere il più a lungo possibile le cose come stavano: la Germania divisa, la Jugoslavia unita, la Polonia calma, l’Unione Sovietica foraggiata e tranquilla. L’unico che, all’epoca, dava l’impressione di muoversi come un veggente fra una marea di ciechi era il perspicace pontefice che veniva dal freddo, che teneva il passo alla storia e non dava mostra di temere l’imminente cataclisma. Karol Wojtyla era il solo a volere che precipitasse al più presto ciò che stava per precipitare sulla Vistola e di là dalla Vistola”. Titolo: “1989 – La fine del Novecento” Autore: Enzo Bettiza Editore: Mondadori 19
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almeno in parte gli effetti dello scudo fiscale italiano<br />
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Gottardo, il collegamento veloce del Locarnese con<br />
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rappresentano condizioni irrinunciabili per una strategia<br />
di sviluppo, poiché è su una rete di trasporti e di<br />
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sconterebbe il prezzo di un grave handicap che, oltre<br />
a limitare fortemente i flussi turistici e commerciali,<br />
allontanerà sempre di più il <strong>Ti</strong>cino dai centri nevralgici<br />
dell’economia nazionale e internazionale.<br />
Non c’è da fare però solo un discorso di strade. La<br />
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altre infrastrutture, quali la realizzazione di un numero<br />
di posteggi sufficienti per supportare l’espansione dei<br />
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il grosso delle attività del terziario. Purtroppo<br />
sinora si è battuta la strada inversa facendo di tutto<br />
per scoraggiare la mobilità individuale a vantaggio di<br />
quella collettiva, con una logica pianificatoria punitiva<br />
che non tiene in nessuna considerazione le odierne<br />
esigenze negli spostamenti per il lavoro o per il tempo<br />
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Altrettanto importante è arrivare una volta per tutte<br />
alla nuova legge sugli orari dei negozi. Il braccio di<br />
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commerciale “Emozione <strong>Ti</strong>cino”, ha dimostrato ulteriormente<br />
quanto sia paralizzante la difesa dello<br />
status quo da parte delle organizzazioni sindacali, la<br />
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Da oltre dieci anni si attende la nuova legge,<br />
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roghe e permessi soggetto alle abituali opposizioni e<br />
agli scontati ricorsi dei sindacati. Anche su questo<br />
versante il Cantone, e non è colpa soltanto del governo,<br />
è bloccato da un pericoloso immobilismo, da<br />
una paura per qualsiasi cambiamento e blindato in<br />
vecchie abitudini che non fanno i conti col dinamismo<br />
della concorrenza d’oltre frontiera.<br />
Rapporti con Berna<br />
In una recente intervista al Giornale del Popolo, il<br />
governatore della Regione Lombardia, Roberto Formigoni,<br />
con una bella metafora sosteneva che il <strong>Ti</strong>cino<br />
deve diventare “il volto di Berna a Milano”, vale a dire<br />
della capitale economica d’Italia, con la forza di una<br />
regione di nove milioni di abitanti e un sistema produttivo<br />
che da solo garantisce il 20% del Pil italiano.<br />
Purtroppo è che il <strong>Ti</strong>cino a Berna pare non contare<br />
nulla. Nessun ministro, nessun ticinese ai vertici<br />
delle aziende federale e per di più con una presenza<br />
insignificante nei posti che contano nell’amministrazione.<br />
Molto difficile, dunque, che a Berna ci si renda<br />
conto di quale ruolo possa giocare il <strong>Ti</strong>cino, nell’interesse<br />
nazionale, grazie alla contiguità non soltanto<br />
con la Lombardia, ma con tutta la macro regione<br />
Nord Italia, una delle aree economicamente più forti<br />
dell’Europa. Per questo il Cantone si deve battere<br />
sin adesso, e non aspettando la prossima elezione in<br />
Consiglio federale, per aumentare da sette a nove il<br />
numero dei ministri e ottenere finalmente la giusta<br />
rappresentanza in governo.<br />
Ma se contiamo poco nella stanza dei bottoni non è<br />
colpa solo di Berna. E’ colpa anche del fatto che il<br />
Cantone si è fatto sentire poco. Fallita l’esperienza di<br />
qualche anno fa col “delegato” per i rapporti con la<br />
Confederazione, bisogna trovare nuove modalità per<br />
dare più voce e più peso al <strong>Ti</strong>cino. Evidentemente<br />
Deputazione alle camere e Conferenze dei Direttori<br />
cantonali, a cui di solito partecipano non i nostri ministri<br />
ma gli alti funzionari, non bastano. Visto che i<br />
politici tardano a decidere, bene ha fatto la Camera<br />
di commercio ad ipotizzare la possibilità di un suo rappresentante<br />
permanente nella capitale. Se la politica<br />
anche in questo caso se la prende comoda, l’economia<br />
come sempre deve, invece, muoversi in fretta.