2009 - Cc-Ti

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10.06.2013 Views

Ospite Intervista a Claudio Generali, Presidente dell’Associazione Bancaria Ticinese, di Elisabetta Pisa 16 Ticino Business la crIsI FInanzIarIa è sotto controllo Qual è la situazione del settore bancario ticinese? “In tempi di recessione è ovvio che la crisi lambisca anche la nostra realtà. Però i nostri istituti non sono coinvolti direttamente nella parte finanziaria della crisi. Attendiamo le ripercussioni sull’economia reale: in questo senso non mancano le preoccupazioni”. È però vero che il Credit Suisse ha annunciato 650 tagli in Svizzera e UBS nella Confederazione ha finora cancellato 2'000 posti di lavoro e potrebbe procedere a nuovi licenziamenti. “I tagli riguardano soprattutto il settore dell’investment banking, un tipo di attività non praticata in modo importante in Ticino. Dunque il Cantone dovrebbe essere colpito in misura minore”. Siamo di fronte a un ridimensionamento strutturale o contingente del settore? ”Per ciò che riguarda l'investment banking e la costruzione di prodotti speciali (l'ingegneria finanziaria per intenderci) si tratta di cambiamenti sicuramente strutturali”. A suo parere la piazza finanziaria svizzera cambierà configurazione? “Secondo me la fase della crisi finanziaria è superata. Quello per UBS è stato uno degli interventi effettuati dai vari governi accanto a provvedimenti di politica fiscale e monetaria presi quando la crisi di fiducia era tale che gli istituti non si prestavano soldi nemmeno fra di loro. Verranno abbandonati i prodotti complessi, quelli più redditizi, con una riduzione dei ricavi da commissione. Comunque è anche vero che ci sono istituti che in precedenza hanno cavalcato l’onda. Adesso la vera sfida è la crisi dell’economia, che potrebbe riflettersi anche sui bilanci delle banche. Se qualche azienda fallisse, le ripercussioni sarebbero inevitabili. Personalmente non sono molto ottimista sulla ripresa dell’economia. Questa non è una crisi di passaggio. È una crisi del sistema senza precedenti. Negli ultimi 20 anni gli obiettivi di crescita non sono stati realistici, adesso devono essere ridimensionati”. La ricerca di nuovi mercati non può essere la soluzione? ”Quello della finanza era già globale. La finanza internazionale si muove su Internet. Adesso è finita un’epoca”. Pare che a soffrire in Svizzera siano più che altro i grandi istituti mentre le piccole banche registrano l'arrivo di nuova clientela che scinde il patrimonio anche per diversificare oltre che per una crisi di fiducia nei colossi bancari. È effettivamente così? “Nel momento del panico c’è stato chi ha diversificato e le banche prive di titoli tossici ne hanno beneficiato. Ma questa fase è superata. D’altro canto si dice: «Too big to fail», troppo grosso per fallire. Altrimenti crollerebbe tutto, anche le piccole banche fallirebbero”. Lehman Brothers però è colata a picco e nessuno se lo aspettava. “In quel caso il governo americano ha deciso di non intervenire. Personalmente mi sono formato in un periodo in cui la finanza creativa non esisteva, allora c’era più cautela: negli ultimi 20 anni sono state dimenticate le regole d’oro della finanza. Ora il pericolo è che le banche frenino il credito tradizionale alle aziende e alle famiglie, il che potrebbe portare qualche impresa al fallimento”. È quello che sta succedendo in Ticino? ”Al momento non ci sono dati disponibili. Non credo che ci sia da temere una stretta creditizia anche se qualche istituto può averlo fatto”. Come vede lo scenario economico-finanziario del Ticino? “Condivido quanto pensa il Presidente della Camera di commercio, Franco Ambrosetti, secondo cui il Cantone non è una realtà dai grandi voli ma nemmeno dai grandi tonfi. Sono i vantaggi delle piccole dimensioni. Certo, il comparto finanziario preoccupa: la piazza elvetica ha subito un duro colpo di credibilità a livello internazionale. Un tempo si diceva che investire in Svizzera non dava grandi rendimenti, ma almeno il denaro era al sicuro. Di recente il franco sembra tornato a svolgere il ruolo di moneta rifugio: il che sta a significare che la nostra immagine non deve aver subito danni irrimediabili. Deve comunque far riflettere il fatto che il volume dei bilanci bancari è 6,5 volte il PIL elvetico, nessuna nazione importante ha un sistema bancario che è un multiplo del PIL”. Quali sarebbero a suo parere le misure da adottare per uscire dalla crisi? “La crisi finanziaria è ormai sotto controllo. Ciò che più preoccupa è la ricaduta sull’economia reale. Investimenti degli enti pubblici, sgravi fiscali, immissione monetaria… quello che si sta facendo è utile. Però è vano pensare ad esempio che investimenti da parte del Cantone possano sortire effetti determinanti. Sarebbe opportuno già avere progetti pronti con le procedure approvate, perché purtroppo i tempi della democrazia sono lunghi. Il risultato paradossale potrebbe essere che si cominci a investire troppo tardi quando sarà il momento di mettere sotto controllo l’inflazione che presto o tardi seguirà la recessione”.

Biblioteca liberale di Alessio del Grande non sarà la polItIca a salvare Il mondo “La crisi. Può la politica salvare il mondo?” è il titolo del nuovo saggio di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, in cui i due noti economisti fanno a pezzi il revival statalista e la “retorica grossolana” del rimettere tutto in mano alla politica per scongiurare il rischio di una nuova Grande Depressione. “Sembra all’improvviso irrilevante - premettono nella loro analisi - che in molti Paesi i politici spesso rispondano a pressioni di lobby e a interessi economici particolari, ragionino sul breve periodo a scapito delle future generazioni, in qualche caso siano persino corrotti, che il settore pubblico sia spesso inefficiente e sperperi il denaro dei contribuenti, che più Stato significhi anche più tasse”. Basterebbe questa premessa per smontare la vulgata corrente secondo cui il capitalismo sarebbe finito e lo Stato dovrebbe recuperare un ruolo egemone per evitare i danni che, come nella crisi del 1929, il libero mercato può arrecare all’economia reale. Già, la crisi del ’29. In realtà, oggi come allora - avvertono Alesina e Giavazzi - è vero il contrario: “Sono gli errori della politica a portare al collasso. Oggi il nazionalismo economico sembra tornato di moda; sono rinate tendenze protezionistiche, come spesso accade nei periodi difficili. È una concezione che va a colpire le funzioni vitali dei mercati finanziari, ignorando le leggi dell’economia. Soluzioni populiste e in gran parte sbagliate”. Se la crisi attuale non è, per fortuna, lontanamente paragonabile a quella del 1929, quando negli USA un cittadino su quattro perse il posto di lavoro e il PIL, prodotto interno lordo, americano scese del 30% (ora si prevede al più qualche trimestre di crescita negativa dell’1 o 2 percento), è purtroppo oggi riemersa forte ovunque la tentazione di ristatalizzare l’economia, mascherandola con piani di salvataggio per banche e industrie, e invocando un nuovo sistema di regole e controlli per il sistema finanziario internazionale, additato come il principale responsabile della recessione. Che certa finanza, anche e soprattutto per le sue ambigue commistioni con la politica, abbia la sua parte di responsabilità è assodato, che abbia pure dato origine a quella che Bush padre ha definito la “voodoo economics”, in cui si sono incubati i germi di questa crisi, è altrettanto vero, ma non basta questo per condannare il sistema finanziario internazionale, per ingabbiarlo in una più rigida rete di regole. Si dimentica troppo facilmente che è stato questo sistema a finanziare la crescita economica mondiale degli ultimi 15 anni, che ha sostenuto l’innovazione tecnologica raccogliendo risparmi in quei Paesi, come la Cina, dove si risparmiava, per investirli nei Paesi avanzati, incrementandone la produttività. Si dimentica che senza le tanto vituperate banche d’investimento e i venture capitalist - ricordano Alesina e Giavazzi - non sarebbero nati fenomeni come Google o Yahoo, che furono essi a scommettere su queste aziende quando ancora non facevano alcun profitto. E senza quell’enorme flusso di risparmio verso le “dot.com” (sino a far scoppiare la grande bolla del 2001) Internet non avrebbe avuto l’impetuoso sviluppo che nel giro di pochi anni ha cambiato il mondo. Ad innescare la crisi non sono stati la liberalizzazione dei mercati, la globalizzazione, gli speculatori finanziari o la tumultuosa crescita della Cina che ha pure sostenuto la frenesia consumistica degli USA, ma la cattiva politica. Quella politica che ha alterato gli equilibri tra Stato e mercato, che ha incoraggiato con protezioni e privilegi la mala finanza disancorandola da ogni principio di responsabilità. Negli USA il terremoto dei subprime è nato nell’ombra degli apparati governativi e di potenti protezioni politiche, si è alimentato con la folle strategia della banca centrale che aveva azzerato il costo del denaro. Ora dalla crisi non si esce ingessando l’economia e i mercati finanziari o elevando nuove barriere protezionistiche. Né salvando, dal fallimento o sussidiando, come si tenta di fare in qualche Paese, imprese nazionali scarsamente produttive, poiché ciò significherebbe solo impedire la nascita di altre imprese capaci di offrire qualità migliore a costo minore, con grande vantaggio dei cittadini consumatori. Perché è questa la logica del libero mercato: distruggere per creare in un processo continuo di avanzamento. “Il capitalismo può produrre crisi gravi - concludono i due economisti - ma rimane il sistema economico migliore che il genere umano sia stato in grado di creare”. Titolo: La crisi. Può la politica salvare il mondo? Autore: Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Editore: : Il Saggiatore Pagine: 142 17

Biblioteca liberale<br />

di Alessio del Grande<br />

non sarà la polItIca a salvare Il mondo<br />

“La crisi. Può la politica salvare il mondo?” è il titolo del<br />

nuovo saggio di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, in<br />

cui i due noti economisti fanno a pezzi il revival statalista<br />

e la “retorica grossolana” del rimettere tutto in mano alla<br />

politica per scongiurare il rischio di una nuova Grande<br />

Depressione. “Sembra all’improvviso irrilevante - premettono<br />

nella loro analisi - che in molti Paesi i politici spesso<br />

rispondano a pressioni di lobby e a interessi economici<br />

particolari, ragionino sul breve periodo a scapito delle<br />

future generazioni, in qualche caso siano persino corrotti,<br />

che il settore pubblico sia spesso inefficiente e sperperi<br />

il denaro dei contribuenti, che più Stato significhi anche<br />

più tasse”. Basterebbe questa premessa per smontare la<br />

vulgata corrente secondo cui il capitalismo sarebbe finito<br />

e lo Stato dovrebbe recuperare un ruolo egemone per<br />

evitare i danni che, come nella crisi del 1929, il libero<br />

mercato può arrecare all’economia reale.<br />

Già, la crisi del ’29. In realtà, oggi come allora - avvertono<br />

Alesina e Giavazzi - è vero il contrario: “Sono gli errori<br />

della politica a portare al collasso. Oggi il nazionalismo<br />

economico sembra tornato di moda; sono rinate tendenze<br />

protezionistiche, come spesso accade nei periodi difficili.<br />

È una concezione che va a colpire le funzioni vitali dei<br />

mercati finanziari, ignorando le leggi dell’economia. Soluzioni<br />

populiste e in gran parte sbagliate”.<br />

Se la crisi attuale non è, per fortuna, lontanamente paragonabile<br />

a quella del 1929, quando negli USA un cittadino<br />

su quattro perse il posto di lavoro e il PIL, prodotto<br />

interno lordo, americano scese del 30% (ora si prevede<br />

al più qualche trimestre di crescita negativa dell’1 o 2<br />

percento), è purtroppo oggi riemersa forte ovunque la<br />

tentazione di ristatalizzare l’economia, mascherandola<br />

con piani di salvataggio per banche e industrie, e invocando<br />

un nuovo sistema di regole e controlli per il sistema<br />

finanziario internazionale, additato come il principale<br />

responsabile della recessione.<br />

Che certa finanza, anche e soprattutto per le sue ambigue<br />

commistioni con la politica, abbia la sua parte di responsabilità<br />

è assodato, che abbia pure dato origine a quella<br />

che Bush padre ha definito la “voodoo economics”, in<br />

cui si sono incubati i germi di questa crisi, è altrettanto<br />

vero, ma non basta questo per condannare il sistema finanziario<br />

internazionale, per ingabbiarlo in una più rigida<br />

rete di regole. Si dimentica troppo facilmente che è stato<br />

questo sistema a finanziare la crescita economica mondiale<br />

degli ultimi 15 anni, che ha sostenuto l’innovazione<br />

tecnologica raccogliendo risparmi in quei Paesi, come la<br />

Cina, dove si risparmiava, per investirli nei Paesi avanzati,<br />

incrementandone la produttività. Si dimentica che senza<br />

le tanto vituperate banche d’investimento e i venture capitalist<br />

- ricordano Alesina e Giavazzi - non sarebbero nati<br />

fenomeni come Google o Yahoo, che furono essi a scommettere<br />

su queste aziende quando ancora non facevano<br />

alcun profitto. E senza quell’enorme flusso di risparmio<br />

verso le “dot.com” (sino a far scoppiare la grande bolla<br />

del 2001) Internet non avrebbe avuto l’impetuoso sviluppo<br />

che nel giro di pochi anni ha cambiato il mondo.<br />

Ad innescare la crisi non sono stati la liberalizzazione dei<br />

mercati, la globalizzazione, gli speculatori finanziari o la<br />

tumultuosa crescita della Cina che ha pure sostenuto la<br />

frenesia consumistica degli USA, ma la cattiva politica.<br />

Quella politica che ha alterato gli equilibri tra Stato e mercato,<br />

che ha incoraggiato con protezioni e privilegi la mala<br />

finanza disancorandola da ogni principio di responsabilità.<br />

Negli USA il terremoto dei subprime è nato nell’ombra<br />

degli apparati governativi e di potenti protezioni politiche,<br />

si è alimentato con la folle strategia della banca centrale<br />

che aveva azzerato il costo del denaro. Ora dalla crisi<br />

non si esce ingessando l’economia e i mercati finanziari<br />

o elevando nuove barriere protezionistiche. Né salvando,<br />

dal fallimento o sussidiando, come si tenta di fare in<br />

qualche Paese, imprese nazionali scarsamente produttive,<br />

poiché ciò significherebbe solo impedire la nascita<br />

di altre imprese capaci di offrire qualità migliore a costo<br />

minore, con grande vantaggio dei cittadini consumatori.<br />

Perché è questa la logica del libero mercato: distruggere<br />

per creare in un processo continuo di avanzamento. “Il<br />

capitalismo può produrre crisi gravi - concludono i due<br />

economisti - ma rimane il sistema economico migliore<br />

che il genere umano sia stato in grado di creare”.<br />

<strong>Ti</strong>tolo: La crisi.<br />

Può la politica salvare il mondo?<br />

Autore: Alberto Alesina<br />

e Francesco Giavazzi<br />

Editore: : Il Saggiatore<br />

Pagine: 142<br />

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