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IL VILLAGGIO PLANETARIO

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CAPITOLO 2<br />

<strong>IL</strong> V<strong>IL</strong>LAGGIO<br />

<strong>PLANETARIO</strong><br />

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A. Wheeler, il noto fisico americano,<br />

ha detto una volta che «noi siamo i<br />

discendenti della palla di fuoco che diede<br />

John<br />

origine al presente stadio dell’Universo». Almeno,<br />

questa è l’opinione più diffusa in una cosmologia<br />

ancora alquanto mitologica. Sembra però fuor<br />

di dubbio che la nascita delle stelle e dei pianeti sia stata<br />

(e seguiti a essere) un evento drammatico come la nascita degli<br />

animali e dell’uomo. I medici sanno che quando si nasce il nostro<br />

corpo subisce tremende sollecitazioni meccaniche e traumi ambientali.<br />

Negli interventi ostetrici si può esercitare col forcipe una<br />

trazione equivalente a 50 kg, pari a 15 volte il peso del bambino.<br />

Nessun adulto potrebbe resistere a una corrispondente trazione<br />

sulla testa di una tonnellata. Inoltre, per il brusco mutamento di<br />

ambiente, le funzioni organiche del bambino si trasformano. Pare<br />

sia molto più facile abituarsi a una vita da astronauta che nascere.<br />

E nascere a fatica, in mezzo a mille tormenti e pericoli, si direbbe<br />

una regola universale tanto per gli esseri viventi che per le cose<br />

inanimate.<br />

L’esempio più notevole, quasi a portata di mano, è la nostra<br />

Luna con la sua superficie butterata di crateri e di «mari» ben visibili<br />

a occhio nudo. Anche tutti gli altri pianeti rocciosi e simili alla<br />

Terra, come Mercurio, Venere e Marte, hanno subito nascendo le<br />

medesime traversie e portano anch’essi i segni dei crateri scavati<br />

dalla caduta di meteoriti. Se sulla Terra queste martellate originali<br />

non si vedono più, è perché sono state cancellate dall’erosione<br />

esercitata per centinaia di milioni d’anni dall’acqua e dai venti.<br />

Tuttavia, si sono scoperte molte tracce di crateri più recenti detti<br />

«astroblemi», cioè ferite stellari (dal greco astér, astro; e blema,<br />

che significa colpo di freccia o ferita). Sono crateri dalla struttura<br />

circolare e molto erosi, alcuni dei quali vennero prodotti 200 o 300<br />

milioni d’anni fa, dalla caduta di grossi meteoriti. Esempi sono il<br />

Manicouagan Lake e il Clearwater Lake nel Canada, che all’inizio<br />

dovevano misurare un diametro di 65 e 32 km rispettivamente.<br />

Ancora fresco e molto ben conservato è il famosissimo Meteor<br />

Crater dell’Arizona, il quale ha un diametro di circa 1300 metri. Si<br />

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stima abbia un’età inferiore ai 100.000 anni, e venne scavato da<br />

un meteorite che, secondo Ernst J. Opik, doveva avere una massa<br />

di 2,6 milioni di tonnellate.<br />

Meteoriti così grossi cadono una volta ogni 10.000 o 100.000<br />

anni (che è appunto l’età del Meteor Crater), mentre quelli via via<br />

più piccoli cadono molto più di frequente: si possono citare il bolide<br />

che il 10 agosto 1972 sfiorò da poco più di 50 km di altezza<br />

alcune regioni degli Stati Uniti e del Canada, e venne fotografato<br />

e ripreso con videocamere amatoriali da centinaia di persone, e<br />

il meteorite roccioso che, frammentandosi prima della caduta, ha<br />

prodotto numerosi piccoli crateri l’8 marzo del 1976 nella provincia<br />

orientale cinese di Kirin. Lincoln La Paz ha calcolato che un<br />

meteorite potrebbe colpire un uomo una volta ogni 300 anni, ma<br />

le cronache registrano soltanto 5 o 6 casi di «morte da meteorite»<br />

in tutta la storia. Negli ultimi anni si sono avuti in media 4 casi<br />

comprovati di cadute di meteoriti piccole o medie ogni anno, con<br />

ritrovamento del campione e successivo studio e conservazione in<br />

collezioni private o musei. 1-2<br />

Non c’è dubbio che, sebbene oggi lo spazio interplanetario sia<br />

molto meno polveroso di quando i pianeti si formarono dalla nebulosa<br />

primitiva, esso sia ancora abbastanza ricco di detriti più o<br />

meno antichi di ogni dimensione: da quelli asteroidali a polveri più<br />

fini della cipria. I residui più vecchi sono stati quasi tutti spazzati<br />

via dai pianeti nel corso di miliardi d’anni, mentre le collisioni fra<br />

gli asteroidi, e le comete quando si avvicinano al Sole, immettono<br />

nello spazio sempre nuovo materiale. La Terra nella sua orbita ne<br />

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CAPITOLO 2<br />

1 A sinistra, il Meteor<br />

Crater in Arizona. Questo<br />

cratere è uno dei meglio<br />

conservati sul nostro<br />

Pianeta, ha un diametro di<br />

1,3 km e una profondità di<br />

175 metri. È stato prodotto<br />

da un meteorite grande<br />

appena una trentina di<br />

metri, caduto circa 35.000<br />

anni fa. (NASA, M.WADHWA)<br />

2 A destra, frammento<br />

di meteorite. I meteoriti<br />

sono generalmente<br />

residui del Sistema<br />

solare primitivo. Qui<br />

vediamo un frammento<br />

del meteorite Tenham,<br />

caduto in Australia nel<br />

1879 frammentandosi<br />

entro un’area di chilometri,<br />

che viene classifi cato<br />

come condrite. Per ragioni<br />

espositive e di studio,<br />

spesso i meteoriti vengono<br />

tagliati in sottili sezioni in<br />

modo da poter studiare la<br />

struttura interna, come in<br />

questo caso.<br />

(J. TAYLOR, WIKIMEDIA COMMONS)<br />

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3 Crateri meteoritici<br />

sulla Luna. Il cratere<br />

presso il bordo lunare<br />

è intitolato a Guglielmo<br />

Marconi (sopra<br />

l’antenna), mentre i due<br />

crateri maggiori sono<br />

Chaplygin (al centro) e<br />

Schliemann (in basso).<br />

Questa impressionante<br />

veduta è stata ripresa<br />

dal fi nestrino del LEM, il<br />

modulo di discesa in cui<br />

gli astronauti dell’Apollo 13<br />

si erano rifugiati, mentre<br />

sorvolavano la faccia<br />

nascosta della Luna. In<br />

tale drammatica missione,<br />

infatti, il modulo principale<br />

dell’astronave era esploso<br />

prima di raggiungere la<br />

Luna, per cui gli astronauti<br />

rinunciarono allo sbarco<br />

lunare e riutilizzarono<br />

invece il LEM come<br />

«scialuppa di salvataggio»<br />

per ritornare sul nostro<br />

pianeta. (NASA ALSJ)<br />

raccoglie qualcosa come 43 o 44 tonnellate al giorno, pari a circa<br />

16.000 tonnellate ogni anno, compresi i residui di comete. Le dimensioni<br />

di un cratere dipendono dalla massa, dalle dimensioni, e<br />

dalla velocità del meteorite. Più esattamente, siccome l’attrazione<br />

gravitazionale dei corpi celesti varia a seconda della loro massa, e<br />

dato che un meteorite può arrivare da qualsiasi direzione, lo stesso<br />

meteorite può avere differenti velocità di impatto sui vari pianeti,<br />

formando crateri di dimensioni diverse. Quando il meteorite penetra<br />

nel suolo crea una formidabile pressione, deformandolo come<br />

un fluido. Gli strati del suolo, che prima erano piatti, vengono sospinti<br />

in alto e in fuori come i petali di un fiore che si apra. Non<br />

appena formato, il cratere, oltre a un bordo che si innalza ripido,<br />

mostra segni di rocce percosse e frantumate, e pieghe che altro<br />

non sono se non deformazioni plastiche di masse rocciose stratificate,<br />

che prima erano disposte orizzontalmente.<br />

Sulla Luna, o su un pianeta senza atmosfera o quasi come<br />

Mercurio, simili catastrofi e collisioni avvengono (almeno nel caso<br />

dell’impatto di grossi meteoriti) come esplosioni luminose, ma nel<br />

più assoluto silenzio. 3<br />

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I sismografi piazzati sulla Luna, e in seguito pure quelli depositati<br />

dai Viking su Marte, registrarono gli impatti anche di piccoli<br />

meteoriti, come quelli piovuti sulla Luna dal primo gennaio 1973<br />

al 13 luglio 1975. In quell’intervallo di 924 giorni si sono contati<br />

815 impatti. In certi periodi i meteoriti sono piovuti più numerosi,<br />

come nel giugno del 1975, quando, in una decina di giorni, si sono<br />

contati 29 impatti.<br />

In questo caso, si pensa che la Luna abbia incontrato nella sua<br />

orbita una «nube» di meteoriti avente un diametro di circa 0,1<br />

U.A. (U.A. è l’abbreviazione di Unità Astronomica, con la quale si<br />

intende la distanza Terra-Sole, pari a circa 150 milioni di km. Viene<br />

usata come unità di distanza nel Sistema solare). Precisiamo<br />

che una «nube» di meteoriti, non significa un qualcosa di molto<br />

consistente, ma piuttosto una specie di sciame di moscerini, separati<br />

l’uno dall’altro anche da centinaia di chilometri. I 29 meteoriti<br />

appartenenti a questa nube caduti sulla Luna si stima pesassero<br />

in totale 320 kg, con una massa media di circa 11 kg.<br />

A questo punto, viene spontaneo domandarsi cosa succederebbe<br />

se una nave spaziale con una sezione traversale di 1 km 2<br />

attraversasse una tale nube meteoritica, con una velocità rispetto<br />

a questa di 20 km/s. Anche se la maggioranza dei meteoriti hanno<br />

una densità di appena 3 volte quella dell’acqua, è certo che<br />

sarebbe pericoloso incontrare sassi di questa specie. Viaggiando<br />

dentro la nube, però, ci sarebbe una probabilità di collisione solo<br />

una volta ogni 9000 anni, e perciò non sembra necessario preoccuparsi<br />

di questo problema.<br />

COME NACQUE (FORSE) <strong>IL</strong> SISTEMA SOLARE<br />

Come abbiamo accennato, questi proiettili cosmici sono in maggioranza<br />

di origine recente e prodotti da collisioni di asteroidi situati<br />

specialmente fra Marte e Giove, oppure dalla disgregazione delle<br />

comete. Quando i pianeti si formarono erano assai più numerosi…<br />

e tutto ebbe inizio da una nebulosa ruotante costituita di gas e polveri,<br />

simile a quella che si vede anche con un piccolo telescopio<br />

nella costellazione di Orione. A causa della rotazione, i gas e le polveri<br />

della nube si dispersero su un disco, con al centro una massa<br />

che poi sarebbe diventata il Sole. Intanto, i granelli di polvere si<br />

aggregavano via via in corpi sempre più grandi. Dapprima questi<br />

aggregati erano simili a fiocchi di neve, ogni granellino essendo<br />

avvolto di ghiacci e altri composti volatili; in seguito, o si dispersero<br />

evaporando, o riuscirono a condensarsi in corpi grossi come i<br />

meteoriti, gli asteroidi e infine i pianeti. Ma perché tutti questi corpi<br />

sono diversi sia per dimensioni che per aspetto e composizione?<br />

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CAPITOLO 2<br />

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4 L’origine del Sistema<br />

solare. I modelli teorici che<br />

descrivono la formazione del<br />

Sole e dei pianeti ipotizzano<br />

la condensazione di una<br />

nube di polveri e gas, dotata<br />

di moto rotatorio, in uno<br />

sciame di corpi che, in<br />

seguito a continui processi di<br />

aggregazione, incrementano<br />

via via la loro massa dando<br />

origine ai pianeti. La<br />

condensazione centrale,<br />

essendo molto più massiccia,<br />

è destinata a produrre nel suo<br />

interno temperature di milioni<br />

di gradi tali da innescare<br />

reazioni nucleari, generando<br />

così il nostro Sole.<br />

Questo disegno rappresenta<br />

uno scenario evolutivo<br />

che è oggi confermato<br />

dall’osservazione telescopica.<br />

Infatti, in alcune regioni<br />

della Via Lattea ricche di<br />

formazione stellare, sono<br />

stati scoperti numerosi dischi<br />

protoplanetari (detti anche<br />

proplìdi), al centro dei quali è<br />

anche visibile la protostella in<br />

formazione. (NASA IMAGES 113035)<br />

Infatti, Mercurio, Venere, la Terra, Marte e gli asteroidi sono di tipo<br />

«roccioso», mentre i pianeti detti «giganti», quali Giove, Saturno,<br />

Urano e Nettuno, sono in prevalenza gassosi.<br />

Il fatto è che, vicino alla massa centrale della nebulosa dove il<br />

Sole si andava formando, la temperatura permetteva l’aggregazione<br />

di oggetti costituiti da elementi con altissimo punto di ebollizione<br />

come i metalli. Invece, più lontano e alla periferia della<br />

nebulosa, dove, alla distanza di Plutone, la temperatura si abbassava<br />

fin oltre i -200 °C, intorno ai nuclei rocciosi di tipo terrestre si<br />

potevano aggregare allo stato solido gli altri elementi volatili come<br />

l’acqua, l’ammoniaca, il metano. 4<br />

Questi corpi diventarono tanto grossi da attrarre anche grandi<br />

quantità di elementi volatili e leggeri come l’elio e l’idrogeno, che<br />

finirono anzi per comporre la maggior parte della loro massa. Quella<br />

di Giove equivale a ben 317,9 masse terrestri, quella di Saturno<br />

a 95, Urano a 14 e Nettuno a 17. Frattanto, la massa centrale di<br />

gas caldi collassava sotto il proprio enorme peso, dando origine<br />

al Sole, che a quel tempo era simile a una di quelle stelle dette T<br />

Tauri, immerse in vaste nubi di polveri e gas, in gran parte espulsi<br />

dalle stelle medesime, ancora in formazione e alla ricerca di un<br />

equilibrio fra pressione interna e massa gravitante.<br />

Cerchiamo di descrivere la nascita della Luna e della Terra. Le<br />

indagini più recenti ci dicono che la composizione chimica dei<br />

due corpi è più simile di quanto si pensasse, il che forse favorisce<br />

l’ipotesi che la Luna sia nata accanto alla Terra, e non nella parte<br />

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del Sistema solare più vicina al Sole, per essere poi catturata dal<br />

nostro pianeta. Quest’ultima era l’opinione di coloro che si basavano,<br />

appunto, su una composizione chimica della Luna più ricca<br />

di elementi quali l’alluminio, il calcio, l’uranio della Terra e sulle<br />

dimensioni medesime del nostro satellite. Infatti, il diametro della<br />

Luna è circa la metà di quello della Terra, non per nulla si dice<br />

che la Terra e la Luna formano piuttosto un pianeta doppio. Solo<br />

Plutone ha anch’esso un satellite, Caronte, il cui diametro è circa<br />

la metà del diametro del pianeta.<br />

Ecco la sequenza di eventi che si suppone si sia verificata.<br />

All’attuale distanza della Terra dal Sole, e all’interno della grande<br />

nube originaria del sistema planetario, esisteva una piccola nube<br />

in rapida rotazione, simile ad altre nubi secondarie poste nei punti<br />

dove sarebbero nati gli altri pianeti. La nube del sistema Terra-<br />

Luna, nel raccogliersi in un globo più denso, aveva lasciato indietro<br />

un inviluppo di elementi più leggeri, di polveri, meteoriti e gas,<br />

i quali finirono per aggregarsi in un anello. Il tutto era avvolto da<br />

una spessa atmosfera di idrogeno ed elio con piccole quantità di<br />

acqua, metano e altri gas. In questo periodo, circa 4,5 miliardi di<br />

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CAPITOLO 2<br />

5 Ricerche geologiche<br />

sulla Luna. La missione<br />

Apollo 17 è stata l’ultima<br />

delle esplorazioni umane<br />

sul nostro satellite, con il<br />

più complesso programma<br />

scientifi co. Qui vediamo il<br />

geologo Schmitt, accanto<br />

al lunar rover, sull’orlo del<br />

cratere Shorty. Poco a sinistra<br />

del rover, alla base di una<br />

montagnola, si nota una<br />

zona dove il terreno ha colore<br />

rossiccio. Alcuni campioni<br />

sono stati riportati sulla Terra<br />

e al microscopio si è visto che<br />

il colore rossastro è dovuto<br />

a microsferule di sabbia<br />

vetrifi cata. Questo indica la<br />

presenza di attività vulcanica,<br />

successiva alla formazione<br />

dei primi crateri meteoritici.<br />

(NASA APOLLO IMAGE GALLERY)<br />

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anni fa, la Terra, o meglio, la proto-Terra, assomigliava a Saturno,<br />

ma naturalmente non c’era nessuno che la potesse osservare: il<br />

sistema planetario era come un’officina sovraccarica di fumi, polveri<br />

e detriti, e il Sole era ancora invisibile.<br />

La complessa avventura della «gestazione» si sarebbe svolta in<br />

un buio totale, se fra gas e polveri nebulari e tutto intorno alla Terra<br />

non ci fosse stato un quasi ininterrotto lampeggiare di scariche<br />

elettriche. Inoltre, un’infinità di proiettili piccoli e grandi squassava<br />

la Terra, mentre dalla giovane crosta ribollente si levavano fontane<br />

di lava. Intanto, il disco che circondava il nostro pianeta non era<br />

più come un anello, ma si era raggruppato in numerose lune più<br />

o meno grandi: qualcosa di simile alle numerose lune di Giove e<br />

di Saturno.<br />

Considerate tutte insieme queste lune dovevano avere una massa<br />

assommante allo 0,01% della massa della Terra, in confronto<br />

a meno dello 0,001 per mille, dei satelliti dei pianeti giganti. La<br />

conseguenza fu che le forze d’attrazione mareale esercitate dai<br />

primitivi satelliti della Terra erano molto più forti. Ammettiamo dunque<br />

che a un certo stadio dello sviluppo esistessero diverse lune<br />

terrestri. La più grossa fra esse, avrebbe «inghiottito» la maggior<br />

parte degli altri satelliti. Quelli sopravvissuti e lasciati indietro sarebbero<br />

stati gradualmente eliminati dalle perturbazioni gravitazionali<br />

prodotte dalla luna maggiore. Questo è il risultato che si<br />

ottiene dalla soluzione del problema più complesso della meccanica<br />

celeste, il cosiddetto «problema a molti corpi», problema<br />

che si può risolvere numericamente grazie ai moderni calcolatori<br />

elettronici. Oggi è possibile ricostruire al computer anche un altro<br />

possibile scenario di formazione della Luna, che sta riscuotendo<br />

un crescente consenso dagli esperti. La Terra primordiale appena<br />

formata, inizialmente isolata, sarebbe stata colpita da un colossale<br />

asteroide. Tale asteroide avrebbe squarciato la Terra senza<br />

distruggerla, disintegrandosi e proiettando un’enorme quantità di<br />

materiale (di origine anche terrestre) in orbita attorno al nostro<br />

Pianeta. Da questa grande massa di detriti si sarebbe poi rapidamente<br />

condensata la Luna. 5<br />

Le collisioni, le aggregazioni di materiale piccolo e grande che<br />

aveva formato i pianeti come la Terra e un satellite come la Luna,<br />

caratterizzarono anche il periodo immediatamente successivo alla<br />

nascita. Ai bombardamenti di meteoriti che avevano fuso la superficie<br />

della Terra e della Luna fino a una profondità di alcune centinaia<br />

di chilometri, qualcosa come 4 miliardi d’anni fa, ne seguirono altri<br />

che sconvolsero di nuovo una crosta appena consolidata. Fu la<br />

tempesta che butterò la Luna quasi come la vediamo oggi, e ne<br />

rifuse le rocce più superficiali. Enormi crateri si riempirono di lave<br />

e crearono quei mari, visibili anche a occhio nudo, quale il Mare<br />

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Nectaris, Humorum e Crisium, che quindi avrebbero un’età di circa<br />

4 miliardi d’anni. Analoga sorte toccò pure alla Terra, ma mentre<br />

questa cancellò presto ogni traccia per l’azione erosiva della sua<br />

atmosfera e specialmente per la sua plasticità derivata dal forte<br />

calore interno, il nostro satellite, più piccolo, più freddo, più rigido<br />

e senza atmosfera, ne ha fedelmente conservata tutta l’evidenza.<br />

Circa 4 miliardi di anni fa avvenne dunque il secondo e ultimo<br />

grande bombardamento che colpì indiscriminatamente tutti<br />

i pianeti più interni del Sistema solare con proiettili di cui non<br />

sappiamo esattamente né il luogo di provenienza, né le perturbazioni<br />

che li spinsero verso il Sole, né la catastrofe che li produsse.<br />

Tuttavia, sappiamo che Giove e Saturno, ma soprattutto Giove, a<br />

motivo della loro massa, sono quelli che dirigono il «traffico» del<br />

sistema planetario, e, a seconda della direzione di marcia e della<br />

velocità dei corpi che si avventurano nelle loro vicinanze, possono<br />

scagliarli verso i pianeti più interni o addirittura al di fuori del Sistema<br />

solare. Quindi, è probabile che gli avvenimenti che coinvolsero<br />

o addirittura scolpirono i pianeti «terrestri» e la Luna siano stati<br />

determinati da Giove.<br />

A questo punto si potrebbe concludere il già lungo paragrafo<br />

dando per certo che il Sistema solare si sviluppò proprio come si<br />

è accennato. Invece, dobbiamo sottolineare quel (forse) messo fra<br />

parentesi nel titolo, perché la scienza persegue la verità fra mille<br />

dubbi e correggendosi di continuo.<br />

In realtà, sono state avanzate due critiche piuttosto serie all’ipotesi<br />

nebulare. La prima concerne il modo in cui il sistema planetario<br />

venne «ripulito» da polveri, detriti e gas non raccolti dai pianeti.<br />

Finora si pensava che la «scopa» adatta fosse stata la materia<br />

espulsa energicamente dal Sole sotto forma di «vento solare» all’inizio<br />

di quel suo stadio evolutivo detto T Tauri. Gli astronomi inglesi<br />

M. J. Handbury e I. P. Williams hanno tuttavia calcolato che, pure<br />

ammettendo che il Sole, in quel periodo, emettesse 10.000 miliardi<br />

di tonnellate di materia al secondo, come effettivamente fanno<br />

certe stelle T Tauri, è difficile che sia stato in grado di «spazzare»<br />

il Sistema solare e, quindi, è necessario che i teorici scoprano un<br />

meccanismo diverso.<br />

La seconda critica è stata avanzata dagli americani David C. Black<br />

e Peter Bodenheimer. In un articolo apparso sull’«Astrophysical<br />

Journal» (la più famosa rivista specializzata in astrofisica) essi sostengono<br />

che dal collasso di una nube interstellare non si può<br />

formare una nebulosa solare, cioè un disco appiattito da cui poi<br />

dovrebbero nascere i pianeti, conservando una massa principale<br />

che darebbe origine al Sole. Infatti, a causa della rapida rotazione,<br />

la nebulosa si trasformerebbe in una specie di ciambella quasi<br />

vuota nel mezzo, senza nessuna possibilità che vi si possa formare<br />

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CAPITOLO 2<br />

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6 Dischi protoplanetari<br />

nella nebulosa di Orione.<br />

Chiamati anche proplidi,<br />

sono sistemi planetari<br />

in formazione, grandi<br />

circa come il nostro<br />

Sistema solare. Si nota la<br />

condensazione centrale,<br />

destinata a generare una<br />

stella come nel disco più<br />

a destra. L’immagine è del<br />

Telescopio Spaziale. (O’DELL,<br />

RICE UNIVERSITY, NASA, ESA)<br />

una stella come il Sole. Però queste previsioni sono contraddette<br />

da osservazioni che mostrano l’esistenza di stelle ancora circondate<br />

da una nebulosa a forma di disco, molto più estesa della stella<br />

e molto più fredda. La prima nebulosa proto planetaria è stata<br />

scoperta attorno a una stella simile al Sole, Beta Pictoris, ed è stata<br />

osservata col telescopio da 3,6 metri dell’osservatorio europeo<br />

dell’emisfero australe, occultando con uno schermo la luce della<br />

stella. Il disco si estende fino a circa 400 volte la distanza Terra-<br />

Sole, circa 10 volte la distanza di Plutone dal Sole.<br />

Poi numerose altre nebulose proto planetarie sono state osservate<br />

attorno a giovani stelle immerse nella grande nube di Orione,<br />

che è una vera e propria fabbrica di stelle neonate. Queste ultime<br />

sono state osservate col telescopio spaziale Hubble in orbita attorno<br />

alla Terra. 6<br />

Sembra dunque molto probabile che i sistemi planetari si formino<br />

insieme alla loro stella in una nebulosa proto planetaria simile<br />

a quella ipotizzata da Kant e da Laplace.<br />

Si può dire che nel Sistema solare tutti i personaggi siano importanti,<br />

dai pianeti alle polveri interplanetarie. E oggi che lo spazio è<br />

diventato la nuova frontiera dell’umanità, è come se lo stesso sistema<br />

planetario acquistasse una nuova vita, inaugurasse un nuovo<br />

teatro. È difficile enumerare tutti i personaggi del Sistema solare.<br />

Gli antichi ne conoscevano solo sette, ma sono molti di più. Infatti,<br />

oltre ai 9 pianeti (o meglio 8, come ora vedremo), ci sono molti<br />

pianetini, alcuni grandi come Plutone. Mentre all’interno del Sistema<br />

solare si trovano i piccoli pianeti rocciosi (Mercurio, Venere,<br />

Terra e Marte, le cui densità medie vanno da 5,5 volte a 3,94 volte<br />

la densità dell’acqua), dopo la fascia degli asteroidi incontriamo<br />

i pianeti giganti (Giove poco più denso dell’acqua, 1,314, Saturno<br />

addirittura meno denso dell’acqua, 0,71,Urano e Nettuno con<br />

densità rispettivamente 1,3 e 1,64).<br />

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Infine ecco Plutone. Il suo diametro è circa la metà di Mercurio,<br />

ha densità 1,75, ma un’orbita fortemente inclinata sull’eclittica e<br />

anche marcatamente ellittica, tanto che interseca l’orbita di Nettuno<br />

e fra il 1970 e il 1999 era più vicino al Sole di Nettuno e<br />

tornerà a esserlo nel 2231. Per queste sue stranezze si pensava<br />

che Plutone potesse essere stato un satellite di Nettuno strappato<br />

al suo pianeta dalle perturbazioni planetarie.<br />

Ma dopo la scoperta dell’esistenza di un’altra fascia di pianetini<br />

oltre l’orbita di Plutone fra cui qualcuno anche più grande di<br />

Plutone, si è ritenuto più corretto declassarlo ad asteroide, capostipite<br />

di questa famiglia di trans plutoniani, detti «plutini». Fino<br />

a oggi si sono scoperti 120 satelliti, ma è certo che ne esistono<br />

ancora tanti, attorno a Giove e agli altri pianeti più esterni: non si<br />

vedono perché troppo piccoli, e occorrerà andarli a cercare con<br />

le sonde spaziali.<br />

Poi vengono gli asteroidi, detti anche pianetini, che fra grandi,<br />

piccoli e piccolissimi formano una popolazione di parecchi milioni.<br />

Se ne conoscono tre famiglie. La prima è quella della fascia situata<br />

fa Marte e Giove, di cui l’asteroide più grande è Cerere, con un<br />

diametro di 933 km. 7<br />

Altre due fasce sono state scoperte grazie alle sonde spaziali:<br />

una è quella dei «plutini», ai confini del Sistema solare, accennata<br />

poco sopra, e un’altra è detta dei NEO, – Near Earth Objects –<br />

oggetti vicini alla Terra, perché orbitano attorno al Sole circa alla<br />

stessa distanza a cui orbita il nostro pianeta.<br />

Ancora più numerosi i meteoriti, le comete, senza dire delle<br />

polveri che riempiono lo spazio interplanetario e che di continuo<br />

finiscono nel Sole (e anche sulla Terra come «stelle filanti») e di<br />

continuo vengono sostituite da altre polveri perdute dalle comete<br />

o da polveri provenienti dallo spazio interstellare. Inoltre, il Sistema<br />

46<br />

CAPITOLO 2<br />

7 Le dimensioni dei<br />

pianeti. Il Sole è rappresentato<br />

in proporzione e risulta così<br />

grande che soltanto una sua<br />

parte limitatissima è visibile<br />

sulla sinistra, mentre le enormi<br />

distanze interplanetarie non si<br />

possono riportate in scala.<br />

I quattro pianeti vicini al<br />

Sole sono piccoli e rocciosi, i<br />

quattro successivi sono grandi<br />

e gassosi; tra i due gruppi si<br />

trova la fascia degli asteroidi,<br />

che contiene il pianetino<br />

Cerere. Un’altra fascia di<br />

asteroidi si trova oltre Nettuno.<br />

Secondo le defi nizioni<br />

approvate dall’Unione<br />

Astronomica Internazionale nel<br />

2006, i pianeti propriamente<br />

detti sono 8, poiché Plutone<br />

è stato declassato al ruolo di<br />

pianetino o «pianeta nano»<br />

(in inglese: dwarf planet).<br />

Recentemente sono stati<br />

individuati 3 nuovi pianetini<br />

oltre Plutone, che sono<br />

riportati nel disegno. In futuro<br />

è possibile che nuove scoperte<br />

costringano a rivedere<br />

ulteriormente il quadro<br />

complessivo del Sistema<br />

solare, secondo le defi nizioni<br />

degli organismi internazionali.<br />

(ADATTATO DA IAU - INTERNATIONAL<br />

ASTRONOMICAL UNION)<br />

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solare è permeato di tenuissimi gas, di raggi cosmici che potremmo<br />

chiamare «nostrani» perché di origine solare e planetaria, e<br />

raggi cosmici di origine galattica. Abbiamo campi magnetici planetari,<br />

interplanetari e solari, nonché dei venti solari e stellari: ossia,<br />

un continuo flusso di particelle di origine solare e stellare che<br />

spazza tutto il sistema planetario, a volte a raffiche, come quando<br />

il Sole è perturbato da qualche tempesta.<br />

Sono tutti personaggi principali, attivi e importanti, simili e diversissimi<br />

l’uno dall’altro. Sono attivi per la loro influenza gravitazionale<br />

anche pianeti e satelliti, come Mercurio e la Luna, considerati<br />

«morti» perché, specialmente in conseguenza della loro massa<br />

più che della loro composizione chimica, hanno avuto una «vita<br />

geologica» più breve di quella della Terra, e non perché siano nati<br />

prima degli altri pianeti e poi siano morti di «vecchiaia».<br />

Oggi si sa che il Sole e i pianeti sono nati all’incirca contemporaneamente,<br />

ma una volta si riteneva che i pianeti si fossero formati<br />

in epoche diverse, e che fossero abitati da creature evolute più<br />

o meno di noi terrestri, in accordo con l’evoluzione fisica dei loro<br />

rispettivi pianeti.<br />

La diversa età dei pianeti era un’ipotesi fondata sulle idee di<br />

Laplace, il famoso astronomo, fisico e matematico francese, circa<br />

l’origine del Sistema solare. Laplace suggeriva che, siccome i pianeti<br />

girano intorno al Sole nella medesima direzione e quasi nello<br />

stesso piano, Sole e pianeti nacquero da un’estesa nube di gas<br />

caldo in rotazione. Come il gas si contraeva, la velocità di rotazione<br />

aumentava, producendo per forza centrifuga il distacco del bordo<br />

più esterno: un anello che, spezzandosi, finiva per condensarsi in<br />

un pianeta, oppure originava una moltitudine di asteroidi simili a<br />

quelli presenti fra le attuali orbite di Marte e Giove. Dato che all’epoca<br />

di Laplace non si conoscevano Nettuno e Plutone, il pianeta<br />

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più lontano era Urano, che perciò doveva essere pure il più vecchio.<br />

Poi il distacco di un altro anello aveva creato Saturno e così<br />

via fino a Mercurio, l’ultimogenito.<br />

INCOMINCIAMO DA GAIA: LA TERRA<br />

È ormai molto tempo che gli scienziati non hanno più bisogno di<br />

chiamare in causa il soprannaturale per spiegare certi fenomeni,<br />

come l’origine della rotazione terrestre e dello stesso Sistema solare.<br />

Se Newton aveva pensato che a mettere in moto la macchina<br />

del Sistema solare fosse stato il dito di Dio e così pure a regolarne<br />

di tanto in tanto il meccanismo, in seguito la conoscenza delle<br />

nebulose e ipotesi come quelle di Laplace esclusero ogni spinta<br />

iniziale e altri interventi posteriori.<br />

Bisogna riconoscere che questa indipendenza dal soprannaturale<br />

è stata una specie di rivoluzione o evoluzione intellettuale<br />

che iniziò con Copernico e Galileo, e ha fatto grandi passi in<br />

tutti i campi; tra cui i più importanti, dopo quello astronomico e<br />

fisico, sono stati compiuti da Charles Lyell nella geologia, e dal<br />

suo amico Charles Darwin nella biologia. Il primo, pubblicando<br />

nel 1830 i Principi della geologia, dimostrò che la storia della<br />

Terra è una storia naturale, regolata da comuni leggi fisiche e da<br />

processi, che, oggi come ieri, sono i medesimi: basta comprenderli<br />

per ricostruire la storia geologica del passato. E così fece<br />

anche Darwin, che avendo escluso il soprannaturale dalla storia<br />

della Terra, dimostrò che tutti gli organismi, compresa la specie<br />

umana, debbono la loro esistenza a processi naturali e non a<br />

interventi divini.<br />

Nel 1774, l’astronomo inglese Nevil Maskelyne notò che un<br />

pendolo vicino alla parete di una grossa montagna non cadeva<br />

perpendicolarmente, ma subiva una lieve deviazione. Ciò indicava<br />

che l’attrazione della massa della montagna, per quanto minima<br />

rispetto a quella della Terra, non era trascurabile. Siccome la massa<br />

della montagna si poteva stimare in base alle sue dimensioni<br />

e composizione, misurando la deviazione del pendolo, Maskelyne<br />

ne dedusse la massa relativa della Terra. Poco tempo dopo, Henry<br />

Cavendish, anch’egli inglese, la misurò con un altro metodo,<br />

ottenendo, dopo ripetuti esperimenti, che la Terra ha una massa<br />

di 5,98 per 10 27 grammi. Si sarà notato che abbiamo parlato di<br />

massa e non di peso. Il peso infatti è il prodotto della massa per<br />

l’accelerazione di gravità, e quindi se sulla superficie della Terra si<br />

può parlare indifferentemente di massa o di peso perché tutti i corpi<br />

sono soggetti alla medesima accelerazione di gravità terrestre,<br />

nello spazio invece occorre parlare di massa. In altre parole, il peso<br />

48<br />

CAPITOLO 2<br />

8 La Terra fotografata<br />

dalla navicella Apollo 8<br />

durante il suo viaggio<br />

di ritorno dalla Luna.<br />

Fu in occasione della<br />

missione Apollo 8, nel<br />

dicembre 1968, che per<br />

la prima volta gli occhi<br />

umani videro la Terra<br />

rimpicciolire in lontananza<br />

nello spazio. Fino ad<br />

allora – e come tuttora<br />

avviene con la Stazione<br />

Spaziale – gli astronauti<br />

si erano limitati a orbitare<br />

a poche centinaia di<br />

chilometri d’altezza,<br />

vedendo scorrere sotto di<br />

sé i mari e le montagne,<br />

un po’ come dai fi nestrini<br />

di un aereo. La traiettoria<br />

dell’Apollo 8 tracciò<br />

invece un’inedita rotta<br />

interplanetaria intorno<br />

alla Luna, portando per la<br />

prima volta tre uomini nei<br />

pressi di un altro corpo<br />

celeste. (NASA/JSC)<br />

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è relativo al corpo di cui si subisce l’accelerazione gravitazionale.<br />

Così, se noi sulla Terra pesiamo 70 kg, sulla Luna, che ha gravità 6<br />

volte minore, peseremmo circa 12 kg, su Marte 27, su Giove 177,<br />

nello spazio interplanetario quasi niente. 8<br />

Le più recenti notizie ci danno un’immagine della Terra alquanto<br />

diversa da quanto impariamo a scuola. L’inglese Desmond King-<br />

Hele e altri, analizzando il moto dei satelliti artificiali, hanno trovato<br />

che la Terra ha una leggera forma «a pera», accentuata dal fatto<br />

che il Polo Nord presenta una specie di protuberanza alta 44,7<br />

metri rispetto al Polo Sud e 18,9 metri rispetto allo sferoide medio,<br />

mentre la depressione al Polo Sud risulta in questo caso di 25,8<br />

metri. Tuttavia, se fosse possibile tagliare la Terra trasversalmente<br />

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lungo l’equatore, ci si accorgerebbe che ha la sezione simile a<br />

quella di una patata.<br />

Totalmente cambiato, anzi capovolto, è oggi il vecchio concetto<br />

di una Terra statica con continenti e bacini oceanici permanenti<br />

da miliardi d’anni. La nuova tettonica globale (cioè, il ramo della<br />

geologia che studia l’evoluzione e la trasformazione della superficie<br />

terrestre) parla di continenti in movimento e di bacini oceanici<br />

che si aprono o si chiudono. Circa l’interno della Terra, tutti i nuovi<br />

strumenti sismici hanno rivelato dettagli, prima inosservabili, sulla<br />

natura del nucleo. Ora sembra si possa affermare che al centro del<br />

globo esista un nucleo solido con densità 13,5 volte maggiore di<br />

quella dell’acqua, e un raggio di 1216 chilometri. Esso sarebbe circondato<br />

da una zona di transizione di 500 chilometri di spessore, a<br />

sua volta circondato da un nucleo esterno liquido con uno spessore<br />

di 1700 chilometri. Attorno al nucleo liquido esterno, abbiamo il<br />

mantello, spesso 2900 chilometri e formato di rocce solide. Arriva<br />

fino a 40 chilometri sotto i continenti e 10 sotto gli oceani. Quest’ultimo<br />

strato sottile è quello che costituisce la crosta terrestre, e si<br />

distingue in litosfera e idrosfera, la quale, fra mari e oceani, copre<br />

i tre quarti della superficie del globo. Poi vengono vari strati atmosferici,<br />

che rarefacendosi via via si estendono nello spazio per oltre<br />

2000 chilometri, con una massa complessiva stimata a 5,6 milioni<br />

di miliardi di tonnellate, dei quali circa il 75% si trova nella troposfera<br />

che giunge fino ai quindici chilometri di quota.<br />

Al di sopra di tutto, e tutto avvolgente, c’è la magnetosfera. Che la<br />

Terra si comporti come un magnete lo sappiamo fin dal 1600, per<br />

merito del medico e fisico inglese William Gilbert. Attualmente, il<br />

Polo Nord Magnetico si trova a 100° di longitudine Ovest e circa 70°<br />

50<br />

CAPITOLO 2<br />

9 La magnetosfera in<br />

laboratorio. Le fasce di Van<br />

Allen sono state riprodotte<br />

in laboratorio per mezzo di<br />

un propulsore al plasma,<br />

entro una camera stagna<br />

al centro di ricerca Lewis di<br />

Cleveland. Si vede anche<br />

un tecnico che osserva<br />

il fenomeno dall’esterno<br />

attraverso un oblò. (NASA<br />

ELECTRIC PROPULSION LAB)<br />

10 A destra: un’aurora<br />

vista dall’orbita. Le luci<br />

colorate sono emesse dagli<br />

atomi di ossigeno, colpiti<br />

dalle particelle energetiche<br />

provenienti da una tempesta<br />

solare. Sul bordo sinistro<br />

dell’immagine si nota lo<br />

Space Shuttle. (NASA)<br />

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di latitudine Nord, all’estremità settentrionale del Canada; e il Polo<br />

Sud Magnetico non lontano dalla costa dell’Antartide. Tra i due Poli si<br />

incurvano le linee di forza del campo magnetico. Nel 1957, un fisico<br />

dilettante, il greco Nicolas Christofilos, fece l’ipotesi che le particelle<br />

cariche, come gli atomi ionizzati (cioè privi di uno o più elettroni) e gli<br />

elettroni presenti nello spazio e provenienti specialmente dal Sole,<br />

venivano intrappolate dal campo magnetico terrestre disponendosi<br />

a spirale lungo le sue linee di forza. Sarebbero queste particelle che,<br />

incontrandosi con quelle dell’alta atmosfera in prossimità dei Poli,<br />

danno origine al fenomeno delle aurore boreali. 9-10<br />

L’ipotesi di Christofilos venne confermata dalla scoperta nel<br />

1958 delle fasce di Van Allen, dal nome del fisico statunitense<br />

James A. Van Allen. In seguito, si è visto che queste fasce sono<br />

regioni magnetosferiche dove la concentrazione delle particelle è<br />

massima. La prima si trova a una distanza di 4830 km dalla superficie<br />

della Terra, a 18.000 la seconda, con una fascia intermedia<br />

più sottile a circa 13.000 chilometri. La magnetosfera dunque,<br />

creata dal magnetismo terrestre, che a sua volta si pensa sia un<br />

prodotto di moti turbolenti instaurati dalla rotazione della Terra nel<br />

suo nucleo liquido, è come una trappola per le particelle cariche<br />

espulse dal Sole e per i raggi cosmici.<br />

Questa trappola magnetica non ha sempre le stesse dimensioni.<br />

Per esempio, si restringe e si allunga sotto il «soffio» del vento solare.<br />

Inoltre, mentre dal lato diurno forma una semisfera di raggio<br />

pari a 60.000 km, dalla parte notturna si estende a grandissima<br />

distanza come la coda di una cometa. Analoghe trappole magnetiche<br />

sono state scoperte anche intorno a Mercurio e a Giove, il<br />

quale ha un campo magnetico 10 volte più forte del nostro, che è<br />

di soli 0,3 gauss, capace di emettere radioonde di grande intensità<br />

e perfino raggi cosmici. Ma è una radiosorgente anche la Terra.<br />

L’hanno scoperto i satelliti artificiali IMP 6 (Interplanetary Monitoring<br />

Platform) e il RAE 2 (Radio Astronomy Explorer) rilevando<br />

le onde prodotte dagli elettroni della magnetosfera e riflesse nello<br />

spazio interplanetario dalla sottostante ionosfera.<br />

Prima di lasciare la Terra mi sembra importante sottolineare<br />

quello che è il suo aspetto principale: il suo dinamismo quasi vitale<br />

dalle profondità del nucleo ai limiti della magnetosfera, dove<br />

il vento solare, incontrandola, forma come una risacca. E che dire<br />

di questo suolo dove poggiamo i piedi, e degli oceani e dell’atmosfera?<br />

Se la Terra ha grandi bacini d’acqua e grandi masse d’aria,<br />

mentre mancano su altri corpi come Mercurio e la Luna, ciò è<br />

dipeso dalla massa e dalla temperatura del nostro pianeta. Una<br />

massa minore e una temperatura più elevata avrebbero provocato<br />

l’evaporazione degli oceani e assottigliato l’atmosfera, favorendo la<br />

fuga nello spazio dei gas che la compongono.<br />

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Ma bisogna aggiungere che alla formazione del suolo, del mare<br />

e dell’atmosfera quali noi oggi li possiamo conoscere ha contribuito<br />

in misura rilevante anche l’evoluzione della vita, specie quella<br />

vegetale e quella dei microorganismi. Per questo, non pochi ecologi<br />

pensano che la materia vivente, l’aria, gli oceani, il suolo formino<br />

quasi un solo organismo: quello di Gaia, come i Greci chiamavano<br />

la madre Terra divinizzandola e umanizzandola così da eliminare<br />

la barriera tra vivente e non vivente.<br />

LA LUNA E LE LUNE, MERCURIO, VENERE E MARTE<br />

Che cosa abbiamo imparato dalle esplorazioni lunari? Durante le<br />

sei spedizioni Apollo avvenute dal luglio del 1969 al dicembre del<br />

1972 sono stati raccolti 382 chili di rocce distribuiti a vari istituti<br />

in tutto il mondo. Con le loro sonde artificiali Luna 16, 20 e 24 i<br />

Sovietici hanno riportato sulla Terra qualche centinaio di grammi<br />

di materiale. 11<br />

Da queste rocce e da altre ricerche si è dedotto quanto già<br />

abbiamo accennato, cioè che la Luna ha un’età di circa 4,6 miliardi<br />

d’anni, e che da questa data e per 5 o 600 milioni d’anni i<br />

bombardamenti meteoritici le hanno dato quell’aspetto generale<br />

e definitivo per cui ci sembra di vedere nella sua «faccia» delle<br />

figure come di uomo o di donna. Formazioni molto più giovani<br />

sono invece crateri quali Copernico e Tycho, prodotti dalla caduta<br />

sporadica di qualche meteorite o grosso nucleo cometario.<br />

I sismometri piazzati dagli astronauti hanno dimostrato che è<br />

quasi una tomba: l’energia totale liberata dai terremoti lunari in<br />

un anno è infatti equivalente a quella di un chilogrammo di tritolo<br />

in confronto ai 5 milioni di tonnellate nel caso dei terremoti<br />

terrestri durante lo stesso periodo. Si è constatato che l’impatto<br />

di un oggetto quale il modulo lunare fa risuonare il nostro satellite<br />

come una campana, indicando che l’interno della Luna è per lo<br />

più costituito da una grande massa fredda, con al centro, forse, un<br />

nucleo liquido relativamente piccolo. La superficie lunare è polverosa<br />

e poco conduttiva. Scendendo in profondità la temperatura<br />

dovrebbe raggiungere 1500 °C verso i 1000 chilometri: questa è<br />

la regione dove i dati sismici indicano delle rocce allo stato liquido,<br />

e la sorgente dei deboli terremoti lunari.<br />

Tutti gli esami compiuti sulle rocce hanno escluso ogni traccia di<br />

vita e di molecole organiche. La maggior parte del carbonio trovato<br />

si ritiene di origine meteoritica o depositato dal vento solare. Perciò<br />

le ricerche biologiche ora sono dirette soprattutto verso Marte e le<br />

altre lune del sistema planetario… in attesa di esplorare gli altri<br />

sistemi della nostra Galassia.<br />

52<br />

CAPITOLO 2<br />

11 La Luna come la<br />

vediamo nel cielo nelle<br />

notti di plenilunio. Sono<br />

indicate le località raggiunte<br />

dalle sonde americane e<br />

sovietiche. I Surveyor (in<br />

giallo) furono sonde USA<br />

destinate a preparare i<br />

successivi sbarchi umani.<br />

Le sei missioni del progetto<br />

Apollo (in verde) portarono<br />

poi complessivamente<br />

12 astronauti a esplorare<br />

il suolo lunare. Da parte<br />

sua, l’URSS mandò ben<br />

8 stazioni automatiche<br />

Lunik (in rosso), anche con<br />

ritorno dei campioni sulla<br />

Terra. (NASA/GSFC)<br />

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È noto che noi possiamo vedere solo una faccia della Luna, perché<br />

la forte attrazione gravitazionale della Terra ne ha rallentato il<br />

periodo di rotazione fino a farlo coincidere con quello di rivoluzione<br />

e costringere pertanto la Luna a rivolgere sempre la stessa faccia<br />

verso la Terra. Abbiamo potuto vedere l’altra faccia della Luna solo<br />

nel 1959 quando la sonda sovietica Luna 3 circumnavigò la Luna<br />

e ci inviò le immagini della faccia nascosta. 12<br />

Eccoci dunque alle altre lune. La sonda Galileo che ha esplorato il<br />

sistema di Giove e dei suoi satelliti ne ha contati almeno 63 fra vecchi<br />

e nuovi. lo, il primo dei quattro satelliti scoperti da Galileo Galilei intorno<br />

a Giove e il più vicino alla superficie del pianeta dopo Amaltea, è<br />

forse anche il più interessante. Sembra possegga un’atmosfera carica<br />

di neve di metano, una ionosfera con nubi di sodio molto estese (tanto<br />

che la sua superficie potrebbe essere coperta di sale), e una specie<br />

di nube di idrogeno che si estende a forma di tubo per quasi un terzo<br />

della sua orbita. È l’unico satellite ad avere vulcani attivi. 13<br />

Procedendo verso l’esterno del Sistema solare incontriamo Saturno<br />

e i suoi satelliti. La sonda Cassini, che ha esplorato il sistema<br />

54<br />

CAPITOLO 2<br />

12 La faccia nascosta<br />

della Luna fu svelata per<br />

la prima volta nel 1959<br />

della sonda sovietica Luna<br />

3. Qui la vediamo ripresa<br />

dalla sonda interplanetaria<br />

Galileo, partita verso Giove<br />

nel 1990. L’area scura al<br />

centro è il Mare Orientale.<br />

(NASA)<br />

13 Il satellite Io passa<br />

davanti a Giove. Notare<br />

la superfi cie butterata di<br />

vulcani, il bordo di Giove<br />

a sinistra nella fi gura e un<br />

pennacchio vulcanico sul<br />

bordo destro di Io. (NASA)<br />

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14 Il suolo di Titano.<br />

Il modulo di discesa<br />

Huygens si è posato su<br />

questo lontano corpo<br />

celeste il 14 gennaio 2005,<br />

dopo essersi staccato dalla<br />

sonda Cassini al termine<br />

di un lungo viaggio fi no a<br />

Saturno. La panoramica<br />

verticale a sinistra è<br />

stata ripresa dal livello<br />

del terreno, rivelatosi la<br />

spiaggia fangosa di un lago<br />

di metano, sollevando la<br />

visuale fi no all’orizzonte.<br />

Per confronto, l’immagine<br />

è qui affi ancata da<br />

un’analoga veduta del<br />

suolo lunare ripresa da una<br />

missione Apollo. I colori<br />

sono quelli reali. (ESA, NASA,<br />

JPL, ARIZONA UNIVERSITY)<br />

di Saturno ne ha contati 18. Però lo scopo principale del viaggio<br />

di Cassini è stato quello di portare «in groppa» la sonda Huygens<br />

e inviarla verso il più grande satellite di Saturno, Titano, dopo Tritone<br />

la più grossa luna del Sistema solare, che col suo diametro<br />

di 5150 km supera Mercurio e ha un’atmosfera ricca di molecole<br />

organiche, 25 volte più densa di quella di Marte.<br />

La Cassini è partita il 15 ottobre 1997 per arrivare nei dintorni<br />

di Saturno nel luglio 2004, dopo quasi sette anni di viaggio. Per<br />

Natale 2004 la Huygens ha lasciato la Cassini e si è avviata verso<br />

Titano, che ha raggiunto il 14 gennaio 2005 ed è scesa sulla superficie<br />

del satellite frenata da più paracadute. 14<br />

Durante la discesa ha inviato immagini del suolo in cui si vedevano<br />

scorrere fiumi, probabilmente formati da metano liquido,<br />

dato che a quelle temperature di circa -200 gradi centigradi non<br />

poteva trattarsi di acqua. Il terreno era bagnato come dopo una<br />

pioggia recente.<br />

Nonostante la sua temperatura super refrigerata non è escluso<br />

che esistano zone vulcaniche e quindi abbastanza calde da<br />

alimentare forme di vita. Quella di Titano, a parte la temperatura,<br />

sarebbe un’atmosfera non molto dissimile dall’atmosfera primitiva<br />

della Terra.<br />

Forse un giorno un’altra sonda riuscirà a portare sulla Terra campioni<br />

di quel liquido e dirci se in esso ci sono almeno dei batteri, e<br />

se la vita può nascere anche in un liquido diverso dall’acqua. 15<br />

Se Titano è la sesta luna di Saturno, Giapeto, l’ottavo satellite<br />

scoperto da Giovanni Domenico Cassini nel 1671, è detto «dai due<br />

volti», perché ha la straordinaria caratteristica di apparire 6 volte<br />

più luminoso quando si trova a Ovest, invece che a Est di Saturno.<br />

Si stima che abbia un diametro di circa 1500 km, e, a meno che<br />

non abbia una forma irregolare, uno dei suoi emisferi deve essere<br />

molto più riflettente dell’altro. Sempre a proposito delle lune, l’11 a<br />

luna di Saturno ha la particolarità di viaggiare in strettissima coppia<br />

con Giano (la 10 a luna scoperta nel 1966 dal francese Audouin<br />

Dollfus) dal quale dista meno di 8000 km. Sebbene una collisione<br />

sia improbabile, esse possono influenzare reciprocamente le loro<br />

orbite.<br />

Satelliti estremamente interessanti sono quelli che orbitano intorno<br />

a Urano. Prima delle missioni interplanetarie si conoscevano<br />

solo 5 di essi, i più grandi: Titania, Oberon, Umbriel, Ariel e il<br />

più piccolo Miranda, con diametri fra 1580 km per Titania e 484<br />

km per Miranda. La sonda Voyager 2 ne scoprì altri 10 nel 1986.<br />

Altri ancora sono stati scoperti col 5m di Monte Palomar e oggi<br />

ne conosciamo 28. Eccetto Miranda, il più vicino alla superficie<br />

del pianeta, gli altri hanno orbite regolarissime e quasi circolari,<br />

giacenti su un piano pressoché coincidente con quello equatoriale<br />

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di Urano. Queste lune girano nel senso di rotazione del pianeta,<br />

formando un sistema di satelliti ancora più regolare di quelli di<br />

Giove e Saturno.<br />

Nettuno ha due satelliti principali, Tritone e Nereide, dal diametro<br />

rispettivamente di 2707 km e 340 km. Altri 6 sono stati scoperti<br />

da Voyager 2 nel 1989. Oggi se ne conoscono almeno 13.<br />

Di forma notevolmente irregolare sono i satelliti di Marte, Phobos<br />

e Deimos. Il primo misura 20 x 23 x 28 chilometri, e il secondo<br />

10 x 12 x 16. In fotografia assomigliano a due patate, e sono butterati<br />

di crateri e di solchi. Inoltre, il loro colore è quello più «nero» di<br />

tutti i membri del Sistema solare. Non si sa nulla sulla loro origine,<br />

e poco sulla loro composizione, che si suppone sia basaltica e<br />

cioè di rocce vulcaniche ricche di ferro e magnesio, oppure come<br />

quella di certi meteoriti chiamati condriti carboniose. 16<br />

Anche il piccolo Plutone, declassato ad asteroide, ha un satellite,<br />

Caronte, che ha un diametro di 1186 km, circa la metà di<br />

quello di Plutone, 2390 km, per cui più che di un pianeta col suo<br />

satellite si dovrebbe parlare di un pianeta doppio. Lo stesso, come<br />

abbiamo già osservato, vale per il sistema Terra-Luna.<br />

56<br />

CAPITOLO 2<br />

15 Titano e gli anelli di<br />

Saturno. Il colore rossastro<br />

del satellite Titano è dovuto<br />

alla sua atmosfera, mentre<br />

gli anelli di Saturno in primo<br />

piano sono composti di<br />

particelle di ghiaccio.<br />

(NASA, CASSINI)<br />

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16 Phobos, uno dei<br />

due satelliti di Marte.<br />

L’immagine è stata ripresa<br />

dal Mars Reconnissance<br />

Orbiter. Si notano le striature<br />

provocate dal rotolamento<br />

di detriti sulla superfi cie<br />

di questo piccolo satellite.<br />

(NASA, JPL, UNIVERSITY OF ARIZONA)<br />

Dalle varie lune del Sistema solare a Mercurio, il passo è meno<br />

grande di quanto sembri. Non soltanto perché 4 dei satelliti del<br />

Sistema solare sono più grossi di Mercurio, e cioè Tritone (satellite<br />

di Nettuno), Titano, Ganimede e Callisto, ma anche perché c’è chi<br />

pensa che Mercurio sia stato un tempo un satellite di Venere. Il che,<br />

a parte altre ragioni, spiegherebbe il fatto che lo stesso Mercurio<br />

non ha satelliti. Inoltre, un motivo più importante in favore di questa<br />

ipotesi potrebbe essere la distribuzione asimmetrica dei crateri sulla<br />

sua superficie, un po’ come la Luna. Ritorneremo in seguito su<br />

questo argomento.<br />

Fino al 1965 si credeva che Mercurio rivolgesse sempre lo stesso<br />

emisfero al Sole, poi in quell’anno Gordon H. Pettengill e Rolf Bhucanam<br />

Dyce, col radar di Arecibo, scoprirono che invece ruotava in<br />

quasi 59 giorni e non in sincronia col suo periodo orbitale di 88 giorni.<br />

Un professore dell’Università di Padova, Giuseppe Colombo, fece<br />

subito notare che 59 giorni corrispondevano all’incirca a due terzi del<br />

periodo di rivoluzione, e ciò non era dovuto a una coincidenza fortuita,<br />

ma a una precisa causa fisica: l’azione gravitazionale del Sole su<br />

un piccolo rigonfiamento nella regione equatoriale del pianeta.<br />

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La NASA, l’Agenzia Spaziale Americana, deve anche a Colombo<br />

se il Mariner 10, lanciato all’esplorazione di Venere e Mercurio,<br />

ha avuto un successo maggiore del previsto. Con tale lancio<br />

la NASA sperimentava per la seconda volta, dopo il Pioneer 10<br />

diretto a Giove, la tecnica del «Rimpallo Gravitazionale». Ossia,<br />

senza maggior spesa di carburante, e servendosi dell’attrazione<br />

gravitazionale di Venere come di una fionda, con un solo satellite<br />

si esploravano prima Venere e poi Mercurio. Colombo suggerì<br />

che si sarebbe potuto fare ancora meglio, se il Mariner avesse incrociato<br />

Mercurio in modo da entrare in un’orbita di «risonanza»<br />

con quella del pianeta, invece di immettersi in una delle tante<br />

orbite circumsolari. In altre parole, occorreva far girare il Mariner<br />

intorno al Sole in un periodo di 176 giorni, il doppio di quelli<br />

impiegati da Mercurio, perché la sonda lo ritrovasse puntualmente<br />

ogni volta che questo completava due orbite. Perciò, non<br />

un incontro singolo con Mercurio, ma ripetuti quanto si voleva,<br />

pagando solo il prezzo del carburante per le piccole correzioni di<br />

rotta e di assetto.<br />

In effetti, ci sono stati tre incontri del Mariner 10 con Mercurio:<br />

il 29 marzo e il 21 settembre del 1974, e poi il 13 marzo 1975,<br />

con un intervallo di 176 giorni l’uno dall’altro, pari a tre rotazioni di<br />

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CAPITOLO 2<br />

17 Il pianeta<br />

Mercurio ripreso a colori<br />

dalla sonda Messenger<br />

nel gennaio 2008.<br />

Il suolo del pianeta è per<br />

certi versi simile a quello<br />

della Luna. (NASA)<br />

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Mercurio su se stesso. Questo significa che il pianeta presentava<br />

lo stesso emisfero rivolto verso il Sole a ogni incontro col Mariner,<br />

che per questa ragione ha sempre fotografato la stessa metà del<br />

pianeta: quella illuminata, mentre l’altra rimaneva avvolta nella<br />

notte. Si è trovato che Mercurio è disseminato di crateri forse più<br />

della Luna, e ricoperto da uno strato anche più alto di «terriccio»<br />

e di polveri. Esso presenta pure delle caratteristiche non lunari,<br />

come, per esempio, una strana regione a 30° di longitudine Ovest<br />

e 25° di latitudine Sud, ricca di formazioni collinari, come tagliate e<br />

cosparse di materiale levigato. In complesso, però, non si vedono<br />

tracce di erosione. Comunque, tale apparenza lunare, anche se<br />

preannunciata dalle osservazioni telescopiche di Audouin Dollfus,<br />

è stata una sorpresa, considerata la densità di Mercurio che si<br />

aggira sui 5,5 grammi per centimetro cubo in confronto ai 3,3<br />

della Luna. Ne deriva che Mercurio, come la Terra, deve avere un<br />

nucleo di ferro e nichel. Ma allora, come è possibile che due corpi<br />

così differenti all’interno siano così simili in superficie? Sorpresa<br />

non minore, è stata la scoperta del campo magnetico di Mercurio<br />

(che ammonta ad appena 1/100 di quello della Terra) con relativa<br />

magnetosfera e «risacca» del vento solare ai suoi limiti esterni.<br />

Abbiamo già detto, a proposito della magnetosfera del nostro pianeta,<br />

che per il suo formarsi si credono necessarie due condizioni:<br />

un nucleo liquido e una rotazione planetaria abbastanza rapida da<br />

instaurarvi turbolenza e vortici. Siccome sappiamo che Mercurio<br />

ruota molto lentamente, non si capisce quale sia il meccanismo<br />

causa della formazione della sua magnetosfera. 17<br />

A proposito dei crateri, invece, vale la pena ricordare un contributo<br />

alla vecchia polemica sull’origine dei crateri lunari. Per dire il<br />

vero, gli scienziati non hanno mai escluso che la Luna, Mercurio,<br />

Venere, la Terra e Marte (chiamati anche generalmente «pianeti<br />

terrestri») siano passati attraverso un periodo di vulcanismo diffuso.<br />

Tale periodo si farebbe risalire a circa 3,5 miliardi d’anni<br />

fa. Ma l’americano Robert G. Strom, un planetologo del Lunar<br />

and Pianetary Laboratory di Tucson, Arizona, sostenne di aver<br />

scoperto un altro periodo vulcanico avvenuto 500 milioni d’anni<br />

prima, ossia pressappoco 4 miliardi d’anni fa. Ciò indicherebbe<br />

un’associazione fra vulcanismo primitivo e formazione del nucleo<br />

di un pianeta. Così, se è vero che molti crateri primari sparsi nelle<br />

pianure mercuriane e simili ai crateri lunari vennero prodotti<br />

dall’impatto dei meteoriti, e quelli secondari dai materiali di ricaduta,<br />

non tutti si possono spiegare allo stesso modo. Il numero<br />

e la distribuzione dei crateri in alcune regioni della Luna non si<br />

accordano con la distribuzione dei crateri in altre regioni circostanti:<br />

secondo Strom, queste pianure su Mercurio e la Luna vennero<br />

prodotte dal vulcanismo primitivo, non dagli impatti. Ana-<br />

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loghi processi vulcanici potrebbero essere accaduti anche sulla<br />

Terra, Venere e Marte. Certo, sulla Terra, a motivo dell’erosione<br />

e dell’attività endogena che ha trasformato i continenti e creato<br />

le montagne, è scomparsa ogni traccia di rocce più antiche di<br />

3,8 miliardi d’anni. Dell’infanzia della Terra non resta più nulla, è<br />

perduta per sempre. Ecco perché è così interessante e importante<br />

ritrovare queste tracce e stabilire con la maggiore precisione<br />

possibile quali furono nei dettagli la natura, il tempo, il modo delle<br />

fasi di formazione sia dei pianeti più simili e vicini alla Terra, sia di<br />

quelli più dissimili e lontani.<br />

Nel nostro villaggio planetario, Venere è il pianeta più vicino e più<br />

nascosto. Sempre avvolto di nubi, non fa scorgere nemmeno un<br />

briciolo della sua «pelle». Per saperne qualcosa, occorre sondarla<br />

con le onde radar, e fino al 1961 non si sapeva nemmeno quale<br />

fosse il suo periodo di rotazione: chi diceva un giorno, chi 4, chi<br />

225. Quando nel ‘62 i grandi radar americani e sovietici riuscirono<br />

a stabilire che Venere, rispetto alle stelle, ruota in un periodo di<br />

243,16 giorni e in senso retrogrado (da Est a Ovest, contrario a<br />

quello di rivoluzione), non fu un risultato facilmente accettato. 18<br />

Si era perplessi, perché tre rotazioni di Venere, equivalenti a<br />

circa 730 giorni, risultano in «risonanza» con due rivoluzioni della<br />

Terra. È come se la Terra, o meglio, le sue forze mareali, le medesime<br />

che obbligano la Luna a «guardarci» sempre con la stessa<br />

faccia, riuscisse a controllare anche Venere in modo da obbligarla<br />

a presentarci lo stesso emisfero ogni volta che si avvicina a noi,<br />

cioè a ogni congiunzione inferiore. Si ha una congiunzione inferiore<br />

quando Terra, Venere e Sole sono allineati, con Venere fra la<br />

Terra e il Sole, e fase di Venere «nuova». Si parla invece di congiunzione<br />

superiore quando i tre corpi sono allineati, con il Sole<br />

fra la Terra e Venere, la quale è in fase «piena». Altri suppongono<br />

che a far ruotare Venere così lentamente, invece dell’attrazione<br />

terrestre, sia stato l’impatto di una piccola luna che si muoveva in<br />

un’orbita retrograda.<br />

Comunque sia, la lentissima rotazione di Venere è un fatto incontestabile.<br />

Dalla combinazione del moto di rivoluzione di Venere<br />

intorno al Sole con un periodo di 225 giorni, e dal moto di rotazione<br />

retrogrado pari a 243,16 giorni, consegue che il periodo di<br />

rotazione sinodico (ossia, rispetto al Sole) è di 117 giorni terrestri,<br />

con 58,5 giorni d luce e 58,5 di buio. Se le nubi non nascondessero<br />

il cielo, una mitica salamandra vedrebbe il Sole spostarsi di<br />

appena 3° durante 24 ore, e, naturalmente, da Ovest a Est. Inoltre<br />

Venere non ha stagioni perché il suo asse è inclinato soltanto di<br />

3°. Se Venere è una «tardona», al contrario sono veloci le nuvole<br />

più alte che la ricoprono: possono raggiungere i 100 metri al secondo,<br />

e fanno un giro completo intorno al pianeta in un periodo<br />

60<br />

CAPITOLO 2<br />

18 Fotografi a di<br />

Venere, realizzata in luce<br />

visibile e ultravioletta<br />

dal Mariner 10 nel<br />

1974. Il pianeta appare<br />

interamente avvolto da<br />

una coltre di nubi.<br />

(NASA/JPL, M. MALMER)<br />

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di 4 giorni. Era questa rotazione della coltre<br />

di nubi che confondeva gli astronomi<br />

e li rendeva così incerti sulla vera durata<br />

del periodo di rotazione.<br />

La temperatura su Venere è elevatissima:<br />

un vero inferno, e, a volerla visitare,<br />

ci vorrebbe un batiscafo, adattato al<br />

fuoco, oltre che alle alte pressioni. Infatti,<br />

se la temperatura alla quota delle<br />

nubi più alte è di -40 °C; al suolo arriva<br />

a circa +480 °C, con una pressione di<br />

93 kg/cm 2 , pari ad altrettante atmosfere.<br />

La composizione dell’aria consiste per il<br />

97% di anidride carbonica e per il 3%<br />

di azoto, ossigeno e argon in proporzioni<br />

non ancora fissate. Inutile aggiungere<br />

che con questo calore, capace di liquefare<br />

il piombo e lo zinco, sulla superficie di<br />

Venere non c’è traccia di acqua allo stato<br />

liquido. Tuttavia questa superficie si comporta<br />

in un certo senso proprio come l’acqua<br />

sulla Terra, in quanto reagisce con<br />

l’anidride carbonica dell’atmosfera. Tale<br />

fenomeno avviene anche sulla Terra, ma<br />

con estrema lentezza a causa della bassa<br />

temperatura; su Venere, al contrario, le<br />

reazioni sono rapide e in base a esse si<br />

riesce a spiegare la presenza nelle nubi<br />

venusiane di vari acidi, compreso l’acido<br />

solforico e l’acido cloridrico, scoperti<br />

fin dal 1967 dai francesi Pierre e Janine<br />

Connes per mezzo dell’analisi spettrografica<br />

e dall’americano William S. Benedict.<br />

Quindi se su Venere piove, è pioggia all’acido<br />

solforico e il nostro batiscafo dovrebbe essere attrezzato anche<br />

contro la corrosione.<br />

Ma perché su Venere fa tanto caldo? Perché funziona come una<br />

serra. Se l’80% della radiazione solare viene riflessa nello spazio,<br />

le nubi assorbono la percentuale rimanente tanto nell’infrarosso<br />

che nell’ultravioletto. La superficie si riscalda, ma le radiazioni infrarosse<br />

rimangono intrappolate dall’atmosfera. Il meccanismo è<br />

lo stesso che si verifica in una macchina lasciata al Sole con i<br />

finestrini chiusi: la luce entra liberamente e viene riemessa; ma le<br />

radiazioni infrarosse a cui il vetro è meno trasparente vengono intrappolate<br />

e dopo poco l’interno della macchina diventa un forno.<br />

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Ancora in tema di radiazioni, domandiamoci quanta luce solare<br />

arriva al suolo. Le sonde sovietiche Venera 9 e 10, atterrate in<br />

pieno giorno venusiano rispettivamente il 22 e il 25 ottobre 1975,<br />

a una distanza di 2200 chilometri l’una dall’altra, trovarono un<br />

ambiente meno crepuscolare di quello sperimentato in ore più<br />

mattutine, dalla Venera 8 nel 1972. Forse, è dipeso anche dalle<br />

condizioni meteorologiche: un cielo di nubi più alto e diradato. Per<br />

avere un’idea più precisa, la Venera 8 aveva misurato un illuminamento<br />

sui 2-300 lux col Sole mattutino basso sull’orizzonte. Per<br />

illuminamento si intende la luce ricevuta per unità di superficie. Si<br />

misura in lux, che equivale a una candela a 1 metro di distanza.<br />

Con opportuni calcoli si deduceva che col Sole allo Zenit, si poteva<br />

arrivare a 2000 lux, da paragonare ai 100.000 lux presenti quando<br />

il Sole estivo brilla sulla Terra, e al chiaro di Luna equivalente<br />

soltanto a un quarto di lux.<br />

Le foto scattate da Venera 9 e 10 hanno mostrato in una località<br />

un panorama uniforme di rocce tagliate ad angoli acuti e come<br />

prodotte dallo spezzarsi di rocce fortemente stratificate e, altrove,<br />

rocce più arrotondate e «vecchie». Le ultime due sonde di questa<br />

serie, Venera 13 e 14, hanno trasmesso sulla Terra straordinarie<br />

panoramiche a colori del suolo venusiano. Da queste foto e dalle<br />

ricerche radar sembra si possa concludere che si tratta di un’attività<br />

tettonica d’origine interna, e probabilmente vulcanica. 19<br />

Il radiotelescopio di Arecibo in coppia con un’antenna da 30<br />

metri posta a circa 11 chilometri di distanza nell’agosto del 1975<br />

ha ottenuto dei segnali radar, che, convertiti in immagini, ci hanno<br />

mostrato una vasta regione compresa fra 46° e 75° di latitudine<br />

Nord, e circa 80° di longitudine, una sorta di grande bacino forse<br />

di origine meteoritica. Invece, altre zone di colore chiaro, in particolare<br />

una battezzata Maxwell, si direbbero quasi sicuramente di<br />

natura tettonica, con effusioni laviche. Sembra pure di intravedere<br />

alcune serie di catene montuose. «Sulla Luna non c’è nulla di<br />

simile», dicono gli scienziati R. B. Dyce e G. H. Pettengill. Anzi,<br />

aggiungono che le indicazioni di un’attività tettonica sono così va-<br />

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CAPITOLO 2<br />

19 Il suolo di Venere,<br />

ripreso dalla sonda<br />

sovietica Venera 13<br />

nel 1982. Si scorgono<br />

in primo piano la base<br />

dentata della sonda, il<br />

coperchio semicircolare<br />

della telecamera caduto sul<br />

terreno e un’asticella per<br />

la calibrazione dei colori.<br />

Il paesaggio venusiano<br />

mostra dei lastroni di roccia<br />

vulcanica che si perdono<br />

in lontananza. In questa<br />

ripresa, che è una strisciata<br />

grandangolare, l’orizzonte<br />

si trova in alto negli angoli a<br />

sinistra e a destra.<br />

(ROSCOSMOS E NASA)<br />

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20 Il pianeta Marte.<br />

Il caratteristico colore rosso<br />

è dovuto alle rocce e a<br />

polveri rossastre molto fi ni.<br />

Nelle antiche mappe di<br />

Marte comparivano «mari»<br />

e «canali», ma si trattava di<br />

impressioni visive e illusioni<br />

ottiche riportate nelle prime<br />

osservazioni telescopiche.<br />

Anche se di queste primitive<br />

denominazioni rimane<br />

traccia nella nomenclatura<br />

marziana, oggi sappiamo<br />

che sulla superfi cie di Marte<br />

non c’è acqua allo stato<br />

liquido, ma c’è ghiaccio<br />

nelle calotte polari.<br />

(NASA/HST)<br />

ste «da sollevare qualche dubbio anche sull’origine meteoritica del<br />

grande bacino». Ricorderete gli analoghi ripensamenti di Strom<br />

riguardo le pianure di Mercurio e della Luna.<br />

Altrettanto importante dell’esplorazione delle sonde sovietiche<br />

su Venere è stata quella dei Viking americani atterrati su Marte,<br />

dopo i memorabili sorvoli e l’immissione in orbita dei Mariner.<br />

Fu specialmente il Mariner 9 che, arrivato su Marte durante una<br />

tempesta di sabbia durata diverse settimane, non appena la polvere<br />

prese a diradare, ci rivelò un mondo tutto diverso da quello<br />

osservato da Terra e dai precedenti Mariner. Nell’opinione dello<br />

scienziato americano Harold Masursky, l’aspetto globale di Marte<br />

rammentava l’immagine che noi ci facciamo della Terra all’epoca<br />

di Pangea, cioè di quell’ipotetica massa continentale unica dalla<br />

quale si sarebbero distaccati i continenti attuali. 20<br />

In breve, si vide che oltre che di crateri, Marte era ricco di poderosi<br />

vulcani, in particolare nell’emisfero settentrionale. Uno di<br />

questi, «Olympus Mons» (Nix Olimpica) coi suoi 26 km di altezza<br />

e 5 o 600 chilometri di diametro, è il più alto che si conosca sia<br />

su Marte che sugli altri pianeti. Si videro lunghissimi e larghissimi<br />

canyon che non hanno nulla a che vedere con i famosi «canali<br />

d’irrigazione» marziani, ma indicherebbero (anche se altri scien-<br />

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ziati, come Ernst J. Opik sono di diverso parere) che effettivamente<br />

su Marte ci sarebbero stati dei fiumi e un’atmosfera e un<br />

clima più umido e caldo. Nel giugno e nell’agosto del 1976 sono<br />

arrivati i Viking 1 e 2, i quali, dopo un periodo di esplorazione in<br />

orbita, hanno sganciato le capsule di atterraggio il 20 luglio nella<br />

regione di «Chryse Planitia» (22,27° di latitudine Nord e 48,00°<br />

di longitudine Ovest), e il 3 settembre a «Utopia Planitia» (40,97°<br />

latitudine Nord, 225,67° longitudine Ovest), con lo scopo principale<br />

di rintracciare eventuali forme di vita. La parte dei Viking<br />

rimasta in orbita serviva da collegamento con la Terra e svolgeva<br />

importanti ricerche, fra cui l’analisi della calotta polare, della<br />

conformazione del suolo, della forma di Marte, della costituzione<br />

dell’atmosfera. 21<br />

Vale la pena di riferire le difficoltà tecniche e di programmazione<br />

superate dagli ingegneri e dagli scienziati. A parte un atterraggio<br />

«morbido» per non danneggiare gli strumenti, si doveva<br />

scegliere un luogo, basso, umido e caldo, relativamente alla rigida<br />

temperatura di Marte che al suolo, in media, è di 23 °C sotto zero.<br />

Queste tre condizioni, considerate le più adatte per qualche forma<br />

di vita marziana, erano però anche piuttosto contraddittorie. Infatti,<br />

se vicino all’equatore marziano era facile trovare luoghi bassi<br />

e caldi, quelli presumibilmente più umidi si trovano al margine<br />

delle calotte polari. Infine, questi luoghi dovevano essere anche<br />

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CAPITOLO 2<br />

21 I pianeti Mercurio,<br />

Venere e Marte, a<br />

confronto con la Terra. Le<br />

dimensioni sono in scala.<br />

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molto bassi, in modo che vi dominasse una pressione superiore<br />

ai 6,1 millibar: necessaria per trovare possibili pozze d’acqua allo<br />

stato liquido. È una pressione, che, sulla Terra, si riscontra a circa<br />

35 km di altezza, e su Marte a 3 km sotto il livello medio della<br />

superficie.<br />

A «Chryse Planitia», la pressione è risultata di 7,7 millibar, il che<br />

farebbe presumere che si trovi a circa 5 chilometri sotto il livello<br />

medio marziano, mentre la temperatura oscillava da un minimo<br />

di -90°C, a un massimo di -10°C, con venti deboli di pochi metri<br />

al secondo. In altre regioni, come al di sopra dei grandi vulcani,<br />

si sono osservate formazioni di nubi trasportate dal vento a 200<br />

chilometri l’ora. Sono nuvole in genere piuttosto tenui e stagionali,<br />

in quanto sembra si formino soltanto in primavera e in estate. A<br />

questo proposito, il Viking 1 è atterrato quando sull’emisfero settentrionale<br />

l’estate era cominciata da una decina di giorni, e corrispondeva<br />

al 361° giorno dell’anno marziano, che ha una durata di<br />

668,6 giorni marziani, pari a 686,97 giorni terrestri.<br />

Dopo l’atterraggio sono cominciate subito le «giornate lavorative»<br />

del Lander, la capsula-laboratorio; giornate che i tecnici hanno chiamato<br />

SOL dalla frase Surface Operation Lander (attività del Lander<br />

sulla superficie). SOL 0 è stata chiamata la prima giornata, iniziata<br />

alle ore 4,13 pomeridiane (tempo locale), mentre SOL 1 è iniziata<br />

alla mezzanotte lungo la longitudine 48,01° Ovest. L’attività del laboratorio<br />

è proseguita fino a SOL 43, corrispondente al nostro 1° settembre,<br />

quando è stata ridotta, in attesa dell’atterraggio del Viking 2.<br />

Il panorama di Marte è un deserto rossastro disseminato di pietre<br />

di ogni dimensione, e anche il cielo è più o meno «rugginoso»<br />

in relazione alla quantità di polveri sollevate dal vento. È un suolo<br />

polveroso che i «bracci» dei Viking hanno scavato con facilità, ma<br />

è anche consistente. Le rocce hanno una composizione chimica<br />

basaltica, mentre mancherebbero i graniti. I gas atmosferici sono<br />

formati da anidride carbonica per il 95%, azoto 2-3%, argon intorno<br />

all’1%, e poi tracce di ossigeno, monossido di carbonio o altri<br />

gas inerti.<br />

Anche il Viking 2 è atterrato in una «foresta» di rocce, a un livello<br />

più basso di quello di «Chryse Planitia». Contrariamente alle<br />

aspettative, si tratta di una regione piatta e simile alla precedente,<br />

diversa da come appariva dalle capsule rimaste in orbita, che, abbracciando<br />

un panorama più ampio, avevano notato inconfondibili<br />

segni di crateri formatisi per impatto o vulcanismo e terreni fluviali.<br />

Gli strumenti in orbita hanno potuto stabilire che le calotte polari<br />

nella stagione estiva sono costituite in gran parte di ghiaccio<br />

e d’acqua, essendo evaporate le nevi invernali di anidride carbonica,<br />

e che Marte, pur rimanendo un pianeta arido, contiene<br />

racchiusa nei minerali più acqua di quanto si ritenesse. Inoltre si è<br />

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visto che le calotte polari sono formate da strati di ghiaccio e strati<br />

di polveri accumulati l’uno sull’altro per uno spessore di diversi<br />

chilometri, e che subiscono caratteristiche erosioni. Le polveri, in<br />

cui sono parzialmente affondati i piedi dei Lander, contengono<br />

percentuali di materiale magnetico, forse soprattutto magnetite,<br />

che è un ossido di ferro.<br />

Va aggiunta qualche informazione sui vulcani e sulla costituzione<br />

interna di Marte e Venere. Si pensa che la maggior parte<br />

dei vulcani marziani siano spenti da miliardi d’anni. I sismografi<br />

hanno avvertito appena una o due deboli scosse, la qual cosa concorda<br />

con l’ipotesi di un pianeta ormai geologicamente inattivo da<br />

moltissimo tempo. Lo dimostra anche l’assenza di rocce bianche<br />

come il nostro granito e la presenza di vulcani ma non di montagne:<br />

queste si crede risultino da compressioni della crosta di un<br />

pianeta, quelli da fuoriuscite di magma. Ciò si spiega con quanto<br />

dicevamo che Marte è un pianeta rimasto per sempre con la crosta<br />

unita come quella di Pangea, perché il suo «motore» interno non<br />

avrebbe avuto la forza di spezzare i continenti.<br />

Venere, con una massa e una densità quasi uguali a quelle del<br />

nostro pianeta, è probabile abbia la medesima struttura e composizione<br />

interna. La mancanza di una magnetosfera è spiegabile<br />

con la sua lenta rotazione. Marte, più piccolo e meno denso (3,9<br />

grammi per centimetro cubo, in confronto ai 5,4 di Mercurio, 5,2<br />

di Venere, 5,5 della Terra), deve essere composto soprattutto di<br />

silicati pur non mancando di un nucleo di ferro. Però, siccome<br />

Marte ruota più rapidamente della Terra, e tuttavia non ha magnetosfera,<br />

dovrebbe avere un nucleo di ferro ormai solido oppure<br />

troppo piccolo.<br />

Da quelle lontane «giornate lavorative» del Lander nell’estate<br />

del 1976, l’esperimento più atteso, quello biologico, malgrado anche<br />

le recenti esplorazioni, non ha dato finora risultati conclusivi. A<br />

causa dell’assenza di piogge da miliardi d’anni, Marte si è rivelato<br />

un mondo che ha subito pochi mutamenti nel corso dei millenni.<br />

Da questo si può inferire che si trovi anche in uno stato prebiologico<br />

permanente; ciò significa che la sua esplorazione ci dà l’opportunità<br />

inestimabile di studiare i fenomeni che trasformano la<br />

materia inerte in materia vivente. Nei laboratori terrestri abbiamo<br />

avuto la prova che certi microbi sopravvivono in un ambiente che<br />

simula quello marziano. Perciò, i Lander hanno condotto e condurranno<br />

ancora delicati esperimenti di metabolismo, respirazione,<br />

fotosintesi su vari campioni di terreno.<br />

L’esplorazione di Marte è proseguita attivamente, in vista della<br />

grande avventura del secolo XXI: sbarco di astronauti sul pianeta<br />

rosso. Fra le varie sonde che sono scese sul suolo di Marte dopo i<br />

Viking ricordiamo il Pathfinder atterrato nel luglio 1997 in una zona<br />

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CAPITOLO 2<br />

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22 Il rover<br />

Opportunity su Marte, al<br />

bordo del cratere Victoria<br />

nel 2006. L’immagine<br />

è stata ripresa dallo<br />

stesso Opportunity, qui<br />

sovrapposto con un<br />

fotomontaggio. (NASA)<br />

ricca di antiche rocce, che sembrano simili al meteorite ALH84001<br />

proveniente da Marte e che potrebbe contenere un fossile di batterio;<br />

il Mars Global Surveyor che ha compiuto centinaia di orbite attorno<br />

a Marte inviandoci un gran numero di immagini della superficie<br />

marziana in cui si vedono dettagli di 1,5 metri, mentre i dettagli più<br />

piccoli visti dai Viking sono di 4 metri; la sonda 2001 Mars Odyssey<br />

in orbita attorno a Marte che aveva rilevato la presenza di ghiaccio;<br />

la sonda Phoenix, atterrata al polo nord di Marte il 25 maggio 2007,<br />

che ha prelevato un campione del suolo, e i suoi strumenti lo hanno<br />

esaminato e provato la presenza di acqua, che si ritiene essenziale<br />

per qualsiasi forma di vita.<br />

Le esplorazioni più complesse sono state compiute dalle due<br />

sonde gemelle Spirit e Opportunity, giunte in luoghi differenti di<br />

Marte nel gennaio 2004. Si tratta di veicoli a 6 ruote dotati di intelligenza<br />

artificiale, capaci di analizzare il terreno e di evitare gli<br />

ostacoli anche senza istruzioni dalla Terra, che hanno viaggiato<br />

sul pianeta rosso per molti chilometri. Spirit ha raggiunto la vetta<br />

di una collina marziana, mentre Opportunity ha esplorato numerosi<br />

crateri e nel 2012 non ha ancora concluso la sua onorata<br />

attività. 22<br />

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GLI ASTEROIDI E LE AVVENTUROSE COMETE<br />

Nella sua Enciclopedia delle Scienze Filosofiche, G. W. F. Hegel<br />

scrive che «colui che erra è pur sempre spirito», e perciò superiore<br />

a tutte le meraviglie della natura. Succedeva, però, che fidandosi<br />

troppo dello spirito e tenendo in nessun conto l’esperienza, incorresse<br />

in grossi errori. È noto, per esempio, che nella Discussione<br />

filosofica sulle orbite dei pianeti dimostrava con orgogliosa sicurezza<br />

che non potevano esistere più di 7 pianeti. E ciò, otto mesi dopo<br />

la scoperta di Cerere fatta da Giuseppe Piazzi la notte dal 1° al 2°<br />

gennaio del 1801. Quando, poi, si trovarono anche Pallade, Giunone<br />

e Vesta, pur riconoscendo l’esistenza degli asteroidi, Hegel<br />

proclamò che le leggi che regolavano l’ordine dei pianeti esigevano<br />

la loro suddivisione in tre gruppi: il primo formato dai quattro pianeti<br />

interni con soltanto la Terra provvista di un satellite; il secondo<br />

formato dai soli asteroidi, il terzo costituito dagli altri pianeti con<br />

molti satelliti o anelli come Saturno. Quando l’americano Asaph<br />

Hall, nel 1877, scoprì le due lune di Marte, Hegel era morto da 46<br />

anni e non poté inventare un altro schema adattabile alla realtà.<br />

L’intuito scientifico che mancava a Hegel, invece non difettava<br />

in Giovanni Keplero, sebbene anch’egli fosse alquanto malato di<br />

pitagoriche stramberie; e dopo Keplero, in uomini come Christian<br />

Freiherr von Wolf, Johann Heinrich Lambert, e specialmente Johann<br />

Daniel Titius che enunciò la famosa legge, conosciuta come<br />

Legge Titius-Bode, perché fu Johann Bode a pubblicizzarla. Keplero<br />

si era accorto che nel succedersi delle distanze planetarie,<br />

quella fra Marte e Giove era troppo grande rispetto alle altre, e per<br />

ristabilire «l’armonia» pensò che bisognava metterci un pianeta. Il<br />

posto preciso a 2,8 U.A. lo trovò Titius, rappresentando con una<br />

serie di numeri le distanze dei pianeti dal Sole, misurate in base alla<br />

distanza Terra-Sole. Per esempio, aggiungendo 0,4 ai numeri della<br />

serie 0; 0,3; 0,6; 1,2; 2,4; 4,8; 9,6; 19,2; 38,4… si ottiene 0,4; 0,7;<br />

1,0; 1,6; 2,8; 5,2; 10,0; 19,6; 38,8: valori che si accordano con le<br />

distanze vere fino a Urano, ma non per Nettuno e Plutone, a meno<br />

che non si salti da Urano a Plutone, trascurando Nettuno.<br />

Come si vede, è una «legge» per modo di dire, nonostante possa<br />

esprimere delle relazioni non ancora ben comprese. Tuttavia, specie<br />

dopo che William Herschel aveva scoperto casualmente Urano<br />

nel 1781, alla distanza media di 19,2 U.A. (non troppo diversa da<br />

quella di 19,6 di Titius-Bode), questa legge era ritenuta valida e<br />

meritevole di controllo. Fu così che, organizzata dal barone ungherese<br />

Franz Xavier von Zach, incominciò la caccia a questo corpo<br />

celeste che si nascondeva a 2,8 U.A. Vinse, come abbiamo detto,<br />

Giuseppe Piazzi, che non partecipava alla gara: Von Zach gli aveva<br />

spedito l’invito, ma Piazzi non aveva ricevuto la lettera, e quando<br />

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CAPITOLO 2<br />

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23 L’asteroide Eros.<br />

La sua orbita incrocia<br />

quella della Terra e quindi<br />

Eros rappresenta una<br />

potenziale minaccia per<br />

il nostro Pianeta. Questo<br />

asteroide, lungo 33 km, è<br />

stato raggiunto nel 2000<br />

dalla sonda Near. (NASA)<br />

scoprì Cerere, osservava il cielo per<br />

compilare un catalogo stellare.<br />

L’importanza di Cerere non consiste<br />

soltanto nella scoperta di oggetti fino<br />

allora sconosciuti come gli asteroidi (o<br />

pianetini, come vengono anche chiamati<br />

per le loro esigue dimensioni), o<br />

nella conferma della strana legge di<br />

Titius- Bode, ma nel contributo dato<br />

in quell’occasione da un grandissimo<br />

matematico, Karl Friedrich Gauss, allora<br />

ventiquattrenne. Le osservazioni<br />

di Piazzi erano state sufficienti a stabilire<br />

che l’orbita di Cerere era quasi<br />

circolare, situata a circa 2,8 U.A., e<br />

non allungata come quella di una cometa: quindi si trattava proprio<br />

del «pianeta mancante». Però, a causa del cattivo tempo, le<br />

osservazioni avevano dovuto essere interrotte, e risultavano insufficienti<br />

per il calcolo dell’orbita completa. Era quasi come dire che<br />

Cerere era stato trovato e subito perso. In realtà, i dati disponibili<br />

non bastavano per i vecchi metodi matematici, tanto è vero che<br />

Gauss ne inventò uno nuovo: quello dei «minimi quadrati», che gli<br />

permise di calcolare l’orbita intera con sole 3 osservazioni.<br />

Dopo i primi quattro e più grossi asteroidi di forma sferica – Cerere,<br />

1000 km di diametro; Pallade, 545; Vesta, 525; Giunone, 230<br />

(ma sembra si debbano annoverare fra i «grandi» anche Davida che<br />

avrebbe un diametro di 285 km ed Eunomia di 260) – ne sono state<br />

trovate alcune altre migliaia di forma irregolare. In tutto si crede<br />

siano milioni, e naturalmente quelli più piccoli sono i più numerosi.<br />

Piuttosto, si è constatato che non tutti circolano fra Marte e Giove,<br />

nella cosiddetta fascia degli asteroidi, in quanto ve ne sono molti<br />

altri che orbitano più lontano o più vicino. Fra i più interessanti, è il<br />

gruppo degli EGA (Earth-Grazing Asteroids), asteroidi che sfiorano<br />

la Terra, ma possono sfiorare e cadere anche su Marte e Venere.<br />

Uno interessantissimo è stato scoperto il 7 gennaio 1976 dall’americana<br />

Eleanor Helin col telescopio di Monte Palomar. Si tratta<br />

dell’asteroide denominato 1976 AA, e la sua particolarità consiste<br />

nel fatto che gran parte della sua orbita si trova all’interno di quella<br />

della Terra e si avvicina a quella di Venere. Esso conferma l’esistenza<br />

di un’altra fascia di asteroidi orbitanti attorno al Sole circa alla<br />

stessa distanza a cui orbita la Terra e che perciò sono stati chiamati<br />

NEO, acronimo di tre parole inglesi, Near Orbiting Objects. 23<br />

Ci sono gruppi di ricercatori, sia della NASA che dell’ESA, come<br />

pure di vari osservatori astronomici, che si dedicano allo studio dei<br />

NEO, sia per determinarne accuratamente le orbite, e scoprirne<br />

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altri, sia per valutare l’eventuale rischio che qualcuno di questi<br />

cada sulla Terra con effetti devastanti, equiparabili all’esplosione<br />

di diverse testate nucleari. Vari metodi sono stati individuati per<br />

proteggersi da tale rischio. Oltre alla possibilità di distruggere l’oggetto<br />

pericoloso lanciandovi contro una carica nucleare, si pensa<br />

di avvicinarlo con una grossa astronave che con la sua attrazione<br />

gravitazionale potrebbe trascinarlo su un’orbita meno pericolosa,<br />

oppure farci atterrare sopra un’astronave che con i suoi motori<br />

potrebbe fargli cambiare leggermente orbita, quanto basta per evitare<br />

l’impatto. Sembrano scenari da fantascienza, e in effetti negli<br />

ultimi anni il cinema ci ha ricamato sopra, basti pensare a colossal<br />

hollywoodiani come Deep Impact e Armageddon. Ma il rischio di<br />

impatto non è una fantasia. Uno di questi asteroidi in rotta di collisione,<br />

chiamato Apofis, dal nome di un dio egizio che significa<br />

«Il distruttore», senza l’intervento umano si schianterebbe quasi<br />

certamente sulla Terra nel 2036.<br />

Una terza famiglia di asteroidi è stata scoperta con sonde sensibili<br />

all’infrarosso, nelle gelide regioni oltre Plutone ed è responsabile<br />

del declassamento di Plutone da pianeta ad asteroide, capostipite<br />

della famiglia dei «plutini», come abbiamo già accennato.<br />

Uno dei principali risultati ottenuti da quando si studiano le caratteristiche<br />

fisiche oltre che orbitali degli asteroidi è la loro suddivisione<br />

in due tipi, a seconda della composizione delle loro superfici:<br />

quelli formati da ferro e silicati, e quelli composti di carbonio. Questo<br />

fatto ci dovrebbe illuminare circa le loro origini, ma le opinioni<br />

sono contrastanti. C’è chi sostiene la vecchia teoria dell’esplosione<br />

di un pianeta, o della collisione fra una decina di pianetini delle<br />

dimensioni di Cerere, e chi vede negli attuali asteroidi quanto resta<br />

di una popolazione molto più numerosa di corpi formatisi all’inizio<br />

del Sistema solare. Non riuscendo a unirsi in un solo pianeta per<br />

le forze mareali esercitate da Giove, avrebbero ripreso a frammentarsi<br />

e a costituire la più formidabile santabarbara di proiettili che<br />

bombardarono i pianeti più interni all’epoca della loro nascita. Sia<br />

che si tratti di frammenti o di resti di corpi primordiali, tranne i<br />

maggiori che sono all’incirca sferici, per lo più gli asteroidi hanno<br />

forma irregolare.<br />

Abbiamo poc’anzi affermato che Piazzi e Von Zach si accorsero<br />

che Cerere non era una cometa, perché aveva un’orbita quasi<br />

circolare e non allungata. Infatti l’ellitticità a volte pronunciatissima<br />

del loro cammino è una delle principali caratteristiche delle comete,<br />

che ne denuncia anche l’età, in quanto si considerano giovani<br />

le comete che vengono da molto lontano, al di là di Plutone, e forse<br />

vedono il Sole da vicino per la prima volta. Tuttavia questo non è<br />

sempre vero, dato che vi sono comete che hanno preso dimora<br />

stabile nelle regioni più interne del Sistema solare, hanno orbite<br />

70<br />

CAPITOLO 2<br />

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24 La cometa di Halley<br />

nel passaggio del 1986.<br />

poco allungate e invecchiando hanno perso tutto il materiale volatile<br />

che circondava il loro nucleo, così da diventare asteroidi, o<br />

essere in procinto di diventarlo.<br />

Scoprire comete non è difficile e non richiede sempre grossi<br />

strumenti. Non di rado basta perfino un semplice binocolo. Quel<br />

che occorre è soprattutto l’abitudine a osservare il cielo, controllare<br />

sulle carte il campo stellare, tanta pazienza e tanta fortuna. Il<br />

più grande scopritore di comete è stato Jean-Louis Pons (1761-<br />

1831), che era un semplice portiere all’Osservatorio di Marsiglia.<br />

Ne scoprì 37, compresa la cometa che porta il nome di Encke,<br />

perché fu questi a calcolarne l’orbita. Oggi, il record di scopritori<br />

di comete lo detengono i Giapponesi, fra i quali si può ricordare<br />

Hiroaki Mori che la notte del 5 ottobre del 1975 ha scoperto due<br />

comete nello spazio di 70 minuti. Vi sono degli anni ricchi, come<br />

il 1973, quando su 28 comete osservate, si sono trovate 9 comete<br />

nuove; e anni poveri come il 1971 con una sola cometa. Questi<br />

corpi celesti un tempo temuti, perché si credeva annunziassero<br />

sventure di ogni genere, nell’Ottocento fruttavano un premio ai loro<br />

scopritori e oggi sono diventati quasi un hobby.<br />

Il primo passo importante nello studio delle comete lo fece Tycho<br />

Brahe, il grande astronomo danese. Osservando il cammino<br />

della cometa del 1577, comprese che essa non costituiva un fenomeno<br />

sublunare, ma passava attraverso quelle sfere cristalline<br />

che a quei tempi si pensava servissero a sostenere e far muovere<br />

i pianeti. Dunque, le sfere cristalline non esistevano, e le comete<br />

viaggiavano anche fra le dimore dei beati. La cometa del 1680<br />

diede occasione a Newton di applicare la sua legge gravitazionale<br />

per calcolarne l’orbita. Lo stesso metodo servì due anni dopo a<br />

Edmund Halley per determinare l’orbita della cometa del 1682,<br />

identificarla con quella delle comete apparse nel 1607, 1531 e<br />

1456, e «predire con sicurezza che sarebbe ritornata nel 1758».<br />

Il che avvenne proprio il giorno di Natale di quell’anno, quando<br />

la individuò Georg Palitzch, un astronomo dilettante di Dresda. È<br />

difficile rendersi conto del clamore suscitato fra gli scienziati dalla<br />

verifica puntuale della predizione di Halley. Fu una delle cause<br />

determinanti del discredito degli astrologi e dei maghi. 24<br />

Le comete non si presentano sempre con lo stesso aspetto, anche<br />

se il più consueto è quello che ne ha determinato il nome derivato<br />

dal greco kométes, chiomato. Altri le chiamavano «stelle che<br />

fumano», e i Cinesi «scope del cielo». In generale, le più vistose<br />

permettono di intravedere un nucleo quasi puntiforme e brillante,<br />

circondato da una coma da cui si sviluppa, ma non sempre, una<br />

coda di gas e polveri, oppure più code. La cometa di Chéseaux<br />

del 1744, detta «il pavone delle comete», dispiegava non meno<br />

di 6 code.<br />

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Le forti variazioni di luminosità in rapporto alla distanza dal Sole<br />

suggeriscono che la luce delle comete dipende da quella solare.<br />

Infatti, alla distanza di Giove e Saturno, dove la temperatura dello<br />

spazio è inferiore ai 100 K, una cometa è ridotta a un nucleo<br />

solido che riflette semplicemente la luce solare come farebbe un<br />

asteroide. Ma avvicinandosi al Sole, il calore la mette in subbuglio,<br />

e il nucleo prende lentamente a sublimare formando un inviluppo<br />

gassoso, la coma, che per eccitazione da parte dei fotoni solari<br />

emette luce fluorescente.<br />

Se potessimo vedere da vicino una cometa quando si trova<br />

all’altezza dell’orbita di Saturno, questa ci sembrerebbe una<br />

montagna di ghiaccio sporchissimo e appena rilucente, mentre ai<br />

grandi telescopi posti sulla Terra appare come una stellina di 16 a<br />

magnitudine, cioè 10.000 volte più debole di una stella appena<br />

visibile a occhio nudo. Questi nuclei cometari ghiacciati, dai quali<br />

non si è ancora sviluppata una coma, possono variare da qualche<br />

centinaio di metri di diametro a qualche decina di chilometri. Si è<br />

calcolato che la cometa di Encke abbia un nucleo di 1,7 km di diametro<br />

e una massa di 3000 milioni di tonnellate. La cometa di Halley<br />

è 6 volte più grande, avendo un diametro di una decina di km<br />

e una massa di 800.000 milioni di tonnellate. La cometa record è<br />

la Humason, molto più grande di quella di Halley, misurando 41<br />

km di diametro con una massa di 37.500 miliardi di tonnellate. Ci<br />

vorrebbero 8 miliardi di comete Halley per fare un pianeta come il<br />

nostro, oppure 160 milioni di comete Humason.<br />

Avvicinandosi al Sole, queste montagne di ghiaccio si trasformano,<br />

si complicano, si espandono enormemente nello spazio,<br />

anche se con una costante parsimonia di mezzi. Infatti, meno di<br />

un milionesimo della massa di una cometa fluisce a ogni istante<br />

nella sua coma e nella sua coda. Eppure, il 99,9% della luminosità<br />

di una cometa pienamente sviluppata proviene proprio da queste<br />

sue componenti, mentre lo 0,1% deriva dal nucleo che le ha generate.<br />

Naturalmente, questo avviene non solo perché il nucleo,<br />

essendo così minuscolo e compatto, espone soltanto una piccola<br />

area alla luce del Sole, ma anche perché si limita a riflettere la<br />

luce solare, mentre i gas che si sviluppano nella coma e nella coda<br />

possono emettere anche luce propria fluorescente.<br />

Tale trasformazione da un nucleo a una cometa con tanto di coda<br />

si verifica per un tratto breve dell’orbita cometaria e per il tempo<br />

altrettanto breve che impiega a percorrerlo, come una fuggevole<br />

estate: pochi mesi trascorsi nelle vicinanze del Sole e dei pianeti<br />

più interni, in confronto agli anni, ai secoli e spesso alle decine di<br />

migliaia d’anni che trascorrono oltre Urano e Nettuno. È il caso della<br />

cometa di Halley, avente un periodo di 77 anni, o della Kohoutek,<br />

che si spinge ai confini del Sistema solare con un periodo di ol-<br />

72<br />

CAPITOLO 2<br />

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25 La cometa Hale-Bopp.<br />

Si vedono bene le componenti<br />

che formano la spettacolare<br />

coda. Vi è una componente<br />

gassosa, strutturata in<br />

molteplici fi lamenti, che<br />

segue il campo magnetico<br />

interplanetario emettendo una<br />

luce azzurrognola. La coda<br />

di pulviscolo forma invece<br />

una scia leggermente arcuata<br />

lungo l’orbita cometaria<br />

e rifl ette la luce solare con<br />

un colore giallastro.<br />

Entrambe le code si dipartono<br />

dal nucleo, che è avvolto<br />

nell’alone della chioma.<br />

(WIKIMEDIA COMMONS)<br />

tre 70.000 anni. Per contro la Encke<br />

ha un’orbita che non arriva a quella di<br />

Giove e un periodo di tre anni e quattro<br />

mesi, il più breve tra quelli conosciuti.<br />

Non tutte le comete sviluppano una<br />

coda, ma in generale è sempre per<br />

azione del calore solare che si formano<br />

le scie di polveri e di gas. Le scie di<br />

polveri sono prodotte dalla pressione<br />

esercitata dai fotoni solari che spingono<br />

i granelli fuori dalla coma e selettivamente,<br />

a seconda delle dimensioni,<br />

e in composizione con il moto orbitale,<br />

li distribuiscono nella caratteristica<br />

forma a ventaglio in direzione opposta<br />

al Sole. Le code formate da gas hanno<br />

struttura assai più complessa. Come<br />

nella coma, i gas risplendono soprattutto<br />

per fluorescenza, ma fanno assumere<br />

alle code una forma diritta,<br />

mentre all’interno sviluppano moti rapidi<br />

e turbolenze, che la pressione di<br />

radiazione è troppo debole per giustificare;<br />

le code gassose dunque hanno<br />

forma allungata e sono costituite in<br />

massima parte di ioni, ossia di molecole<br />

che per azione della luce solare<br />

hanno perduto elettroni, trasformandosi<br />

da molecole neutre in molecole<br />

cariche positivamente. 25<br />

Il meccanismo che sviluppa e modifica le code di gas è stato<br />

compreso soltanto negli anni Cinquanta del secolo scorso, con la<br />

scoperta del «vento solare», a cui si è accennato più volte. Questo<br />

è costituito da un fiume di particelle cariche (protoni ed elettroni)<br />

che, insieme ai campi magnetici cui tali particelle rimangono<br />

legate, vengono espulse in continuazione dal Sole, ma con maggiore<br />

intensità durante le tempeste solari. Sono le particelle che<br />

nella nostra atmosfera producono le Aurore Boreali, e fenomeni<br />

analoghi anche nelle atmosfere cometarie. In particolare, secondo<br />

Ludwig F. B. Biermann e Fred Whipple, avviene che gli elettroni<br />

ad alta energia del vento solare, unitamente alla radiazione elettromagnetica,<br />

ionizzano le molecole della coma. Allora il turbinio dei<br />

campi magnetici funziona come un rastrello che separa gli ioni da<br />

molecole e atomi non ionizzati. Mentre questi ultimi vengono lasciati<br />

dove si trovano, gli ioni subiscono un’accelerazione di alcune<br />

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decine di chilometri al secondo. È per questo che nelle code gassose<br />

si osservano variazioni e spostamenti di gas che percorrono<br />

milioni di chilometri, nello spazio di mezz’ora.<br />

Ecco perché le comete sono state chiamate anche «barometri<br />

interplanetari»: perché rivelano la «febbre» del Sole e il cammino<br />

percorso dal vento solare. Ed ecco perché, riassumendo, si può<br />

affermare che se da un lato le code di polveri assomigliano al fenomeno<br />

della Luce zodiacale, la quale effettivamente non è altro<br />

che una nube di polveri cometarie e asteroidali in orbita solare,<br />

dall’altro le code sono il luogo di interazioni simili a quelle che<br />

danno origine alle aurore boreali.<br />

Avvicinandosi al Sole può darsi che alla cometa non succeda<br />

niente di straordinario, oltre una maggiore perdita di polveri e gas.<br />

Però può anche darsi che essa si spezzi, come è successo alla<br />

brillantissima cometa West, il cui nucleo, nel marzo del 1966, si è<br />

suddiviso in 4 parti: un caso piuttosto raro (il precedente avvenne<br />

alla cometa Brooks 2, nel 1889) che dimostra a un tempo sia la<br />

costituzione dei nuclei, che il destino delle comete e la durata della<br />

loro vita. Queste e altre osservazioni condussero a fine Ottocento<br />

all’ipotesi delle comete simili a un «banco di ghiaia» e di polveri<br />

come quelle delle meteore, ricoperte di gas ghiacciati.<br />

È opportuno ricordare a questo punto il contributo dato da due<br />

italiani alla comprensione della natura chimico-fisica delle comete.<br />

Fu nel 1860, quando l’astrofisica era appena nata e ancora pochi<br />

credevano nelle sue possibilità, che Giambattista Donati rilevò i<br />

primi spettri cometari e individuò alcuni degli elementi di cui erano<br />

composte le comete. A Giovanni Schiaparelli va il merito di aver<br />

dimostrato nel 1866 una stretta relazione fra meteore e comete,<br />

provando che le meteore di agosto seguivano la medesima orbita<br />

della cometa Tuttle del 1862. Perciò, le celebri «lacrime di<br />

San Lorenzo» altro non sono che le polveri perdute dalla suddetta<br />

cometa, ne percorrono la medesima orbita, e quando la Terra<br />

incrocia quest’orbita, le polveri bruciano non appena penetrano<br />

negli strati più alti della nostra atmosfera e ne eccitano le molecole<br />

dando luogo alla striscia luminosa erroneamente chiamata «stella<br />

cadente». Analogamente, le stelle cadenti che vediamo negli altri<br />

mesi dell’anno sono le polveri di altre comete.<br />

Il modello «banco di ghiaia» è stato criticato, perché se da un<br />

lato poteva spiegare l’accendersi delle comete che si avvicinano<br />

al Sole, d’altra parte non spiegava la lunga vita di alcune di esse, e<br />

in particolare la grande quantità di gas sfuggenti da certi nuclei. In<br />

altre parole, occorreva un modello che comprendesse una maggiore<br />

quantità di sostanze volatili. Per esempio, la Encke è stata<br />

osservata per oltre 50 rivoluzioni, ma dal materiale abbandonato<br />

lungo il cammino, come le stelle filanti che si vedono a giugno<br />

74<br />

CAPITOLO 2<br />

26 Il nucleo della<br />

cometa Hartley 2,<br />

fotografato dalla sonda<br />

Epoxy nel 2010. (NASA/JPL)<br />

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e a novembre, Whipple ha dimostrato che deve aver compiuto<br />

almeno 1500 rivoluzioni. Se fosse costituita da un banco di ghiaia<br />

e polveri rivestite di ghiaccio, non avrebbe potuto campare tanto<br />

a lungo. 26<br />

È stato da queste e da altre considerazioni che lo stesso Whipple<br />

ha proposto il modello «iceberg sporco»: una montagna di ghiacci<br />

di metano, ammoniaca e acqua, letteralmente disseminata o mescolata<br />

a minerali, come polveri di ferro, nichel, magnesio, silicio<br />

e altri elementi.<br />

La teoria spiega anche certe perturbazioni rilevate nel cammino<br />

di alcune comete; non causate dagli altri pianeti e dovute a effetti<br />

«non-gravitazionali», come una specie di «effetto-razzo». Lo sfuggire<br />

dei gas dalla parte esposta al Sole di una cometa tende ad allontanarla<br />

in direzione contraria. Supponendo che la cometa ruoti<br />

come tutti i corpi celesti, la rotazione introduce una componente<br />

nella propulsione lungo l’orbita. Quando la rotazione ha direzione<br />

opposta al moto di rivoluzione, frena la velocità orbitale e la cometa<br />

prende a scendere verso il Sole, come pare succeda alla cometa<br />

Encke. Avviene il contrario quando la cometa ruota nella stessa<br />

direzione del moto di rivoluzione.<br />

Chiarito il funzionamento e la composizione di questi corpi celesti,<br />

occorre chiedersi: qual è l’origine delle comete? Un tempo<br />

si pensava fossero fenomeni meteorologici e limitati alla Terra. Poi<br />

si passò all’opinione contraria e si disse che erano visitatrici forestiere<br />

provenienti dagli spazi interstellari dove ritornavano, tranne<br />

quelle che si avventuravano troppo vicino a Giove e agli altri grossi<br />

pianeti. Con la loro forza d’attrazione ciascuno di essi aveva aggiunto<br />

una famiglia di comete a quella dei rispettivi satelliti. Oggi,<br />

non si crede molto alla origine interstellare delle comete, perché<br />

non se ne è trovata nemmeno una che abbia un’orbita sicuramente<br />

iperbolica. I dati orbitali ci dicono invece che appartengono tutte<br />

al Sistema solare, anche se nate nella sua più lontana periferia.<br />

Così si ritiene plausibile l’ipotesi di Jan Hendrik Oort di una fascia<br />

di comete estesa fino ai confini del Sistema solare e costituita dai<br />

resti della nebulosa primitiva: blocchi di molecole ghiacciate e polveri,<br />

cioè nuclei cometari.<br />

Alle maggiori distanze si muovono a velocità dell’ordine di 100<br />

metri al secondo, alcune addirittura come oscure lumache intorno<br />

a un Sole ridotto a un puntino luminoso che quasi non le trattiene<br />

più. In queste condizioni, basta un nulla, una perturbazione leggera<br />

di una stella vicina o l’attrazione combinata di Giove e degli altri<br />

pianeti, per alterare la loro velocità e direzione, costringendole a<br />

un lunghissimo e avventuroso pellegrinaggio verso il Sole. Se questa<br />

ipotesi è vera, lo sapremo fra qualche anno quando varie sonde<br />

spaziali potranno ripetere l’impresa della sonda Giotto – che come<br />

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vedremo è andata a guardare da vicino la cometa di Halley durante<br />

il passaggio del 1986 – e addirittura potranno scendere su una<br />

cometa dandoci la possibilità di conoscere un pezzetto di quella<br />

nebulosa da cui è nato il Sole e tutto il suo sistema planetario.<br />

Il passaggio della cometa di Halley nel 1986 fu un’occasione<br />

unica per studiare questa famosa cometa con tutti i mezzi che la<br />

tecnologia ci mette oggi a disposizione, e in particolare la tecnologia<br />

spaziale.<br />

L’URSS mandò due sonde, Vega 1 e Vega 2 a girare attorno<br />

alla cometa affinché potessero inviarci delle immagini. Vega 1 è<br />

passata a 8890 km dal nucleo, Vega 2 è arrivata un po’ più vicina,<br />

a 8030 km dal nucleo.<br />

Anche il Giappone ha inviato due sonde, Sakigake (pioniere) e<br />

Suisei (cometa). La prima passò a quasi 7 milioni di km dal nucleo,<br />

la seconda a 151.000 km.<br />

L’Agenzia spaziale europea (ESA) registrò un grande successo<br />

con la sonda Giotto, che passò a soli 596 km dal nucleo e riuscì<br />

a riprenderne e inviare splendide immagini fino a una distanza di<br />

soli 1372 km dal nucleo prima che la camera fosse messa fuori<br />

uso dal bombardamento delle particelle. La sonda fu chiamata<br />

Giotto perché la cometa al suo passaggio del 1301 fu dipinta dal<br />

celebre pittore nella sua Annunciazione nella cappella degli Scrovegni<br />

a Padova.<br />

La Giotto ci ha mostrato un nucleo a forma di patata, lungo 15<br />

76<br />

CAPITOLO 2<br />

27 Il nucleo della<br />

cometa di Halley,<br />

fotografato dalla sonda<br />

europea Giotto nel 1986.<br />

Si vedono i getti di gas e di<br />

pulviscolo che fuoriescono<br />

da crateri o avvallamenti.<br />

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(ESA)


km e largo 8, di colore molto scuro, come catrame. Nella chioma<br />

la molecola più abbondante è quella dell’acqua, ma ci sono anche<br />

molecole di anidride carbonica, metano e ammoniaca. 27<br />

Il prossimo passaggio avverrà nel 2061, mentre i passaggi considerati<br />

certi sono avvenuti nel 240, 164, 87 e 12 a.C, nel 66, 141,<br />

218, 295, 374, 451, 530, 607, 684, 760, 837, 912, 989, 1066,<br />

1145, 1222, 1301, 1378, 1456, 1531, 1607, 1682, 1759, 1835,<br />

1910.<br />

Si può dire che la cometa di Halley ha assistito a gran parte della<br />

storia umana.<br />

I PIANETI DI GHIACCIO: I QUATTRO GRANDI<br />

Giove è un pianeta così grosso, che se per assurdo il Sole svanisse,<br />

la Terra e tutti gli altri pianeti sarebbero costretti a girargli intorno.<br />

Giove viaggia intorno al Sole a una distanza media di 778,3 milioni<br />

di chilometri e percorre la sua orbita in 11 anni, 10 mesi e 17<br />

giorni alla velocità media di circa 13 km al secondo.<br />

In confronto, la velocità della Terra è più che doppia: 30 km al<br />

secondo. La massa di Giove è due volte e mezzo la massa degli<br />

altri pianeti messi insieme, o quasi 318 volte quella della Terra. La<br />

sua composizione chimica è molto simile alla composizione del<br />

Sole, ma non la sua struttura, che del resto non assomiglia neppure<br />

a quella dei pianeti più interni, detti anche terrestri. Infatti,<br />

Giove è quasi del tutto liquido, tranne un nucleo solido relativamente<br />

piccolo. Più in dettaglio, si deduce che al di sopra di questo<br />

nucleo di composizione terrestre e con un diametro di circa 9000<br />

km, vi è uno strato alto 40.000 km di idrogeno metallico liquido,<br />

ricoperto da uno strato di idrogeno molecolare di 24.000 km. Il<br />

tutto ancora avvolto da un migliaio di chilometri di atmosfera altrettanto<br />

complessa, composta, dal basso verso l’alto da cristalli di<br />

ghiaccio, cristalli di idrosolfuro di ammonio e cristalli di ammoniaca,<br />

sotto un tetto di nuvole di idrogeno gassoso. A questo livello<br />

la temperatura si aggira sui -140, -150 °C, mentre a 5000 km di<br />

profondità si superano i 2000 °C e l’idrogeno diventa sempre più<br />

denso. Scendendo a 24.000 km, sotto una pressione di 3 milioni<br />

di atmosfere e a una temperatura di 11.000 °C, incomincia la<br />

regione dell’idrogeno metallico, un tipo di idrogeno che in piccole<br />

quantità si è ottenuto pure in laboratorio e che non è propriamente<br />

solido, ma si può assimilare a una sorta di melma, ottima<br />

conduttrice di energia elettrica. Nel nocciolo di Giove si stima che<br />

la pressione raggiunga 40 milioni di atmosfere, mentre la temperatura<br />

deve aggirarsi sui 30.000 °C, troppo pochi perché possano<br />

innescarsi reazioni nucleari come sul Sole. Vi è chi dice che Giove<br />

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è quasi una stella: in realtà per diventarlo dovrebbe essere almeno<br />

70 volte più grosso. 28<br />

Fin qui non abbiamo parlato di una superficie solida come quella<br />

dei pianeti simili alla Terra; infatti Giove non ha una crosta, ma è<br />

tutto liquido fino al nucleo. Questa affermazione è suffragata dalla<br />

maggiore e migliore quantità di dati di osservazione e dal calcolo<br />

teorico.<br />

Grazie alla sua grossa massa Giove esercita una forte attrazione<br />

gravitazionale sulle comete e gli asteroidi e qualcuno ogni tanto<br />

precipita sul pianeta. Particolarmente interessante è stato l’impatto<br />

con la cometa Shoemaker-Levy 9 nel 1994. Questa cometa aveva<br />

di strano di essere in orbita attorno a Giove e non direttamente<br />

intorno al Sole. L’attrazione del pianeta causò la frammentazione<br />

del nucleo, e dalle osservazioni dell’orbita si poteva prevedere che<br />

sarebbe caduta su Giove nel luglio 1994.<br />

L’impatto coi 21 frammenti del nucleo avvenne effettivamente<br />

fra il 16 e il 22 luglio di quell’anno e fu osservato dal telescopio<br />

spaziale Hubble, dal satellite Rosat e dalla sonda Galileo diretta<br />

verso Giove. Per la prima volta si è potuto osservare «in diretta» le<br />

fasi dell’evento.<br />

Quando il primo frammento A colpì l’emisfero sud di Giove fu osservata<br />

una palla di fuoco e un getto che si innalzò fino a circa 1000<br />

km. La massima liberazione d’energia fu sprigionata dall’impatto<br />

del frammento G, ed è stata stimata pari a 6 milioni di megaton.<br />

Le cicatrici dei vari impatti erano delle macchie scure e restarono<br />

visibili per parecchi mesi. Un altro impatto notevole, rivelato<br />

dalla cicatrice, è avvenuto nel luglio 2009.<br />

Tornando alla struttura e la composizione interna di tutti i corpi<br />

celesti, dagli asteroidi alla Terra, al Sole, va detto in effetti che si<br />

ricavano dalla loro massa e forma, dai fenomeni che producono e<br />

dalla composizione della superficie visibile (solida, liquida o gassosa<br />

che sia), nonché da teorie e ipotesi, comprese quelle più generali<br />

concernenti la nascita di questi corpi dalla nebulosa primitiva di<br />

cui abbiamo parlato. Abbiamo intitolato questo paragrafo ai «pianeti<br />

ghiacciati», riferendoci ai quattro giganti (Giove, Saturno, Urano<br />

e Nettuno) che occupano le orbite più esterne del nostro Sistema<br />

solare. Abbiamo detto che su Giove alla profondità di 5000 km la<br />

temperatura oltrepassa i 2000 °C per arrivare fino a 30.000 °C man<br />

mano che si sprofonda. In effetti potevamo definirli anche gassosi<br />

o semiliquidi, ma con il termine «ghiacciati» abbiamo voluto sottolineare<br />

il fatto che alla loro distanza dal Sole la condizione principale<br />

che li ha resi quali sono, ricchi di elementi volatili come l’idrogeno<br />

e l’elio, piuttosto che di minerali, è stata proprio la temperatura.<br />

Giove è bellissimo a vedersi anche a occhio nudo. Sebbene<br />

5,25 volte meno luminoso di Venere, perché questa al suo mas-<br />

78<br />

CAPITOLO 2<br />

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28 Il pianeta Giove con<br />

tre dei suoi satelliti. Sono<br />

visibili i satelliti Io (davanti a<br />

Giove), Europa (a destra) e<br />

Callisto (in basso), mentre<br />

sul pianeta si può notare a<br />

sinistra la grande macchia<br />

rossa. La foto è stata fatta<br />

dal Voyager 1 nel 1979.<br />

(NASA/JPL)<br />

simo raggiunge una magnitudine -4,3 e Giove -2,5, può persino<br />

proiettare un’ombra dietro gli oggetti, come si è constatato frequentemente<br />

anche con Venere. Il celebre astronomo francese<br />

di fine Ottocento Camille Flammarion, afferma di aver osservato<br />

varie volte l’ombra di Venere, e una volta anche quella di Giove,<br />

mentre camminava lungo un corridoio esterno, davanti a un muro<br />

bianco. Molto note e facili da individuare, anche con un piccolo<br />

telescopio, le fasce scure intervallate dalle zone chiare che contraddistinguono,<br />

insieme alla famosa grande macchia rossa, l’atmosfera<br />

gioviana. Che questa macchia sia un immenso uragano,<br />

che da almeno tre secoli (e cioè da quando fu visto per la prima<br />

volta da Gian Domenico Cassini nel 1665) imperversa nella regione<br />

subtropicale di Giove, ormai è ammesso quasi da tutti. Tuttavia<br />

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esistono altre macchie rosse più piccole e meno durevoli, come<br />

quella scoperta dal Pioneer 10 e non più rilevata l’anno seguente<br />

dal Pioneer 11. 29<br />

Non si può non rammentare la storica esplorazione di queste<br />

due sonde americane, che, il 4 dicembre 1973 e il 3 dicembre<br />

1974, hanno sorvolato il più grosso dei pianeti, rispettivamente<br />

da una distanza di 131.400 e di 46.400 km, con due traiettorie<br />

di lancio che hanno costituito esse stesse una delle più belle imprese<br />

della tecnica astronautica. Infatti, non si trattava di studiare<br />

soltanto Giove e il suo ambiente, ma di scoprire se le sonde si potevano<br />

avvicinare abbastanza per sfruttarne l’energia gravitazionale<br />

rimanendo «vive», e proseguire oltre i confini del Sistema solare,<br />

all’esplorazione di Saturno e degli altri pianeti.<br />

Occorre sapere che, senza l’aiuto di Giove, nemmeno i più potenti<br />

razzi vettori oggi disponibili dagli Stati Uniti o da altre potenze<br />

sarebbero capaci di scagliare una nave spaziale fuori dal Sistema<br />

solare. Perciò, si è imitata la natura, e in particolare le comete,<br />

che vengono catturate o respinte da Giove nello spazio interstellare,<br />

a seconda di come gli si avvicinano. La manovra sembrerà<br />

strana, se si pensa che una sonda diretta verso un corpo celeste,<br />

prima viene accelerata dalla sua forza gravitazionale, poi, una<br />

volta compiuto il sorpasso, subisce una decelerazione all’incirca<br />

della stessa misura. Questo sarebbe del tutto vero, se il pianeta<br />

fosse un oggetto stazionario. Invece si muove lungo la sua orbita,<br />

col risultato che quando la sonda sorpassa il pianeta, contemporaneamente<br />

il pianeta si allontana dalla sonda. Ne deriva un<br />

piccolo incremento di accelerazione, che permette alla sonda di<br />

uscire dal Sistema solare, oppure, in determinati casi, di trovarsi<br />

all’appuntamento con altri pianeti. Così, a differenza del Pioneer<br />

10 che incontrò Giove andando in senso antiorario, passandogli<br />

da destra a sinistra e sul piano dell’equatore, prima di involarsi<br />

verso le orbite dei pianeti più esterni e oltre il Sistema solare in<br />

direzione di Aldebaran, il Pioneer 11 ha sorpassato Giove in senso<br />

orario passando prima sotto il Polo Sud e poi sopra il Polo Nord,<br />

iniziando, per la spinta di Giove, un viaggio alto sull’eclittica, che,<br />

dopo averlo ricondotto verso il Sole, lo ha portato a esplorare Saturno<br />

il 5 settembre 1979.<br />

La sonda Galileo della NASA, lanciata il 18 ottobre 1989, è stata<br />

la prima dedicata in particolare allo studio di Giove e della sua<br />

numerosa famiglia. Il 7 dicembre 1995 la sonda entrò in orbita<br />

attorno al pianeta. 147 giorni prima, il 13 luglio, era stato liberato<br />

il modulo di discesa nell’atmosfera di Giove. La sonda è stata distrutta<br />

nell’atmosfera di Giove il 21 settembre 2000 dopo 14 anni<br />

di attività nel corso dei quali ha studiato i frammenti della cometa<br />

Shoemaker-Levi 9, ha analizzato l’atmosfera gioviana rivelando la<br />

80<br />

CAPITOLO 2<br />

29 La macchia rossa<br />

di Giove. (NASA/B.JOHNSSON)<br />

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presenza di venti a più di 600 km/ora, ha fornito preziosi dati sulla<br />

geologia, la mineralogia, i campi magnetici dei 4 satelliti maggiori<br />

scoperti da Galileo nel 1610, Io, Europa, Ganimede e Callisto. Particolarmente<br />

importante è stata la scoperta di un grande oceano<br />

sotto la superficie ghiacciata di Europa. Il che fa supporre che lì si<br />

possa forse trovare qualche forma di vita primitiva. 30<br />

Prima dell’incontro con Giove dei Pioneer, Van Allen, lo scopritore<br />

delle fasce di radiazione che circondano la Terra, aveva<br />

avvertito che di Giove non si sapeva molto, ma che la radiazione<br />

che lo avvolgeva poteva essere tanto forte da mettere fuori uso<br />

tutti i circuiti e gli strumenti anche molto prima del sorvolo. Perciò<br />

i tecnici avevano dovuto risolvere tanti problemi, per proteggere<br />

non soltanto la parte elettronica, ma anche gli isolanti intorno ai fili:<br />

il vetro ordinario, infatti, esposto alla radiazione sarebbe diventato<br />

opaco, mentre i consueti isolanti dei fili si sarebbero polverizzati.<br />

Mentre il Pioneer 10 si avvicinava ci fu un momento in cui sembrò<br />

che non potesse farcela.<br />

Fortunatamente i Pioneer 10 e 11 sono sopravvissuti e seguitarono<br />

a trasmettere per molti anni. Si è così scoperto che le particelle<br />

intrappolate dal campo magnetico gioviano producono delle<br />

fasce di radiazione da 10.000 a 1 milione di volte più forti di quelle<br />

della Terra, e formano una specie di disco appiattito con un diametro<br />

di 6,4 milioni di km, inclinato di 15° rispetto all’asse di rotazione<br />

del pianeta. Ne risulta che il disco di particelle intrappolate oscilla<br />

in su e in giù di circa 30° a ogni rotazione, che dura 10 ore. Il campo<br />

magnetico di Giove è di polarità opposta a quello della Terra e<br />

10 volte più intenso. Mediante il Pioneer 10, che nel febbraio del<br />

1976 sorpassò l’orbita di Saturno, si è accertato che la «coda magnetica»<br />

di Giove si allunga ben oltre Saturno, e si innalza a circa<br />

6° sopra il piano dell’orbita di Giove.<br />

Siccome il vento solare soffia radialmente dal Sole (a una velocità<br />

di circa 500 km/s) la coda dovrebbe giacere per lo più sul<br />

piano orbitale gioviano. Tuttavia, si è visto che il vento solare è<br />

molto turbolento almeno fino all’orbita di Saturno, il che spiega<br />

come la coda magnetica, o parte di essa, venga soffiata anche<br />

in alto, dove il Pioneer 10 l’ha incontrata. Cosa succede quando<br />

Saturno si imbatte nella coda magnetica di Giove? Questo fenomeno<br />

avviene una volta ogni 20 anni, quando Giove e Saturno si<br />

trovano allineati dalla stessa parte rispetto al Sole, come accadde<br />

nell’aprile del 1981.<br />

Riguardo alle possibilità di vita su Giove è fuor di dubbio che<br />

nella sua atmosfera esistono molecole da cui potrebbe nascere la<br />

vita: si tratta comunque di una eventualità poco probabile, specialmente<br />

se si considerano le correnti di gas che salgono e scendono<br />

producendo formidabili tempeste come la grande macchia rossa.<br />

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È evidente che questo ambiente turbinoso è poco adatto sia allo<br />

sviluppo che al mantenimento di forme di vita, per quanto semplici<br />

e primitive.<br />

I programmi di studio per mezzo di sonde spaziali si stanno<br />

ora occupando dei maggiori tra i satelliti di Giove: è infatti probabile<br />

che essi stiano ancora orbitando vicino alle regioni in cui si<br />

formarono, e offrano la possibilità di esaminare esemplari locali<br />

della nebulosa primitiva. Al contrario le lune più piccole si ritiene<br />

siano «vagabonde interplanetarie», catturate dai pianeti cui ora<br />

appartengono, in qualche periodo più o meno lontano della loro<br />

esistenza. Si tenta inoltre di risolvere il problema del modo in cui<br />

lo, una delle quattro grosse lune di Giove, agisca quasi da interruttore<br />

nelle emissioni radio del pianeta, oltre ad accertare l’intensità<br />

alle varie lunghezze d’onda delle radioemissioni di Saturno, di<br />

Urano e di Nettuno, senza dimenticare quelle della Terra, specie<br />

in associazione con le aurore boreali.<br />

Nota a tutti è la vicenda di Galileo che il 25 luglio 1610 osservando<br />

Saturno con il suo piccolo cannocchiale a 32 ingrandimenti<br />

notò che aveva un aspetto singolare, come se avesse «gli orecchioni»;<br />

egli comunicò questo fatto insolito e misterioso ai colleghi<br />

astronomi con un messaggio cifrato, secondo l’usanza dei tempi<br />

per rivendicare la priorità delle scoperte scientifiche. Il messaggio<br />

consisteva di 37 lettere SMAISMRM<strong>IL</strong>MEPOETALEVMIBU-<br />

NENUGTTAVIRAS, e naturalmente nessuno lo comprese finché<br />

Galileo non ne rivelò il significato nel novembre 1610: Altissimum<br />

planetam tergeminum observavi (ho osservato che il pianeta più<br />

lontano è tricorporeo).<br />

Il mistero venne risolto nel 1655 da Christian Huygens, mediante<br />

un telescopio lungo 7 metri, con lenti lavorate secondo un metodo<br />

migliore, e i consigli e l’esperienza del grande filosofo Benedetto<br />

Spinoza, il quale, come si sa, per tirare avanti faceva anche l’ottico.<br />

Egli poté vedere che ciò che aveva dato l’impressione di un oggetto<br />

tricorporeo era l’anello che circondava Saturno. Quando esso si<br />

presentava di taglio diventava per la sua sottigliezza invisibile, e<br />

quando si inclinava dava a Saturno aspetti impossibili a determinarsi<br />

coi piccoli e imperfetti cannocchiali del tempo di Galileo.<br />

Nel 1656, Huygens scoprì anche Titano, la più grossa luna di<br />

Saturno e del Sistema solare dopo Tritone. Così, in quell’anno, si<br />

conoscevano 6 pianeti (compresa la Terra) e 6 satelliti (compresa<br />

la Luna). A Huygens questo numero e questa simmetria parvero<br />

un fatto tanto straordinario che venne preso, si direbbe, da una<br />

crisi di misticismo, tanto frequente anche fra gli scienziati più razionali,<br />

oltre che tra i filosofi alla «Hegel». Egli affermò dunque che<br />

«non ci possono essere altri pianeti né satelliti».<br />

Venne però smentito alcuni anni dopo da Giovanni Domenico<br />

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CAPITOLO 2<br />

30 Il satellite Europa.<br />

(NASA/GAL<strong>IL</strong>EO)<br />

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31 Gli anelli di Saturno<br />

in controluce. Il puntino<br />

fra gli anelli è la Terra,<br />

lontanissima. (NASA/JPL)<br />

Cassini, il quale dal 1671 al 1684 scoprì altri 4 satelliti di Saturno:<br />

Giapeto, Rea, Dione e Teti; e inoltre, nel 1675, si accorse che l’anello<br />

di Saturno era diviso in due, e quindi bisognava parlare di anelli<br />

e non di un anello solo. Questi anelli sono composti da miliardi di<br />

pezzi di ghiaccio grossi come un pugno o fino a qualche metro di<br />

diametro, e perciò Saturno è stato anche chiamato «il pianeta con<br />

un miliardo di lune». Certo, per accorgersi che Saturno ha più di<br />

un anello occorre un telescopio di almeno 15 cm di diametro, che<br />

permetta di distinguere anche quattro o cinque delle sue 11 lune,<br />

insieme ad alcuni particolari della superficie di Saturno, come le<br />

fasce e il colore della regione equatoriale, più biancastra delle regioni<br />

polari. A questo proposito è interessante riportare una curiosa<br />

notizia tratta dal volume Music of the Spheres, di Guy Murchie, che<br />

scrive: «Uno dei grandi misteri connessi con Saturno è il problema<br />

ancora irrisolto di come gli antichi Maori della Nuova Zelanda conoscessero<br />

gli anelli, perché in effetti, se ne parla in una loro leggenda<br />

molto più antica di Galileo». Forse che in un passato perduto, una<br />

civiltà scomparsa, quella del «continente perduto di Mu», di cui i<br />

Maori sarebbero i discendenti, conoscesse l’uso degli specchi concavi<br />

parabolici, o, in altre parole, del telescopio? Non è certo facile<br />

cercare una risposta razionale per questa domanda.<br />

Un problema complesso è quello concernente l’origine e formazione<br />

degli anelli. Vi è chi si attiene più o meno strettamente all’opinione<br />

dell’astronomo francese Édouard Albert Roche, secondo cui<br />

essi sono nati dai resti di un satellite di Saturno accostatosi troppo<br />

al pianeta e distrutto da quelle stesse forze mareali che agiscono<br />

fra la Terra e la Luna e, in misura minore, fra il Sole e la Terra. Però,<br />

non si capisce come un satellite si sia potuto formare troppo vicino<br />

a Saturno e poi venirne distrutto; oppure, come si sia potuto avvicinare<br />

tanto da oltrepassare quel limite, detto «limite di Roche»<br />

dove le forze mareali di Saturno, o di qualsiasi altro pianeta, sono<br />

tanto forti da distruggere un altro corpo di non sufficiente densità<br />

o coesione. 31<br />

Altri condividono invece l’opinione di Opik. Egli sostiene che gli<br />

anelli di Saturno sono il resto della nubecola che formò il pianeta,<br />

le cui forze mareali impedirono a questi residui situati all’interno del<br />

limite di Roche di riunirsi in un corpo unico formando un satellite.<br />

Ma come è possibile che quella miriade di «chicchi di grandine»<br />

che costituisce gli anelli abbia potuto mantenersi in un’orbita<br />

quasi circolare senza disperdersi per perturbazioni di vario genere<br />

che avrebbero dovuto farli cadere prima o poi su Saturno come i<br />

satelliti artificiali in orbita terrestre finiscono sempre per ricadere<br />

sulla Terra? Ciò vuol dire che gli anelli non sono un fenomeno che<br />

risale all’origine di Saturno, ma dovrebbero essere un fenomeno<br />

molto più recente e forse prodotto dall’incontro di un asteroide o<br />

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di un satellite con Saturno; oppure derivare dal materiale perduto<br />

da qualche satellite di Saturno eroso dai meteoriti.<br />

Recentemente si è poi scoperto che anche Giove, Urano e Nettuno<br />

hanno un sistema di anelli, sebbene molto meno cospicuo<br />

di quello di Saturno. Per finire con Saturno, sembra che sia costituito<br />

da un nucleo di materiale roccioso, come Giove. Nei calcoli<br />

dei teorici, dovrebbe avere un diametro di 20.000 km, ed essere<br />

avviluppato da uno strato di ghiaccio alto 5000 km e un altro di<br />

idrogeno metallico di 8000 km, il tutto ricoperto da 37.000 km di<br />

idrogeno molecolare, sul quale infine galleggiano nubi di idrogeno,<br />

elio, metano, ammoniaca. Sono questi gas che danno a Saturno il<br />

suo colore giallastro, anzi «giallo plombé», tanto caratteristico da<br />

essere entrato nella letteratura medica: è un’eredità astrologica di<br />

quando si credeva che esistesse un’affinità fra il piombo e il pianeta<br />

Saturno, perciò anche oggi i medici chiamano «saturnismo»<br />

le intossicazioni da piombo. In realtà, il piombo nelle nuvole di<br />

Saturno non c’è, e i suoi colori sono dovuti probabilmente a cristalli<br />

ammoniacali con tracce di metalli alcalini. 32<br />

Se possiamo dire che i pianeti più esterni formano la famiglia dei<br />

pianeti di ghiaccio, dobbiamo però ammettere che si tratta di una<br />

famiglia alquanto eterogenea. Già fra Giove e Saturno esistono notevoli<br />

differenze, che non riguardano soltanto gli anelli di quest’ultimo,<br />

ma anche la massa e il moto. Infatti, non soltanto Saturno<br />

è notevolmente più piccolo di Giove, equivalendo quest’ultimo a<br />

317,9 masse terrestri contro le 95,2 del primo; ma anche il periodo<br />

di rotazione è diverso, in quanto il giorno di Saturno è di 10 h 14 m , in<br />

confronto alle 9 h 50 m 30 s di Giove. Sebbene le differenze fra i due<br />

più grossi pianeti del sistema siano tante e molto significative, tuttavia<br />

ancora più straordinarie si stanno rivelando le differenze fra<br />

Giove e Saturno da una parte, e Urano e Nettuno dall’altra. Urano<br />

fu scoperto per caso il 13 marzo 1781 da William Herschel che a<br />

quell’epoca era un astrofilo, un dilettante di astronomia quasi sconosciuto.<br />

Da principio, Herschel pensò di vedere nel suo telescopio<br />

una cometa, poi altre osservazioni rivelarono che si trattava di<br />

un nuovo pianeta. La cosa strana è che, pur essendo molto debole<br />

(magnitudine 5,7), è però visibile a occhio nudo, e quindi fa meraviglia<br />

che per tanti millenni astrologi e astronomi non lo abbiano<br />

individuato, scambiandolo per una stella. L’esistenza di Nettuno,<br />

visibile soltanto al telescopio, venne invece dedotta e calcolata in<br />

base a perturbazioni nel moto di Urano, prima che il pianeta venisse<br />

osservato direttamente. Fu un’altra conferma della validità della<br />

teoria della gravitazione newtoniana. I calcoli e le previsioni sulla<br />

posizione di Nettuno furono eseguiti quasi contemporaneamente<br />

dall’astronomo inglese John Couch Adams e dal francese Urbain-<br />

Jean-Joseph Le Verrier, il quale nel 1846 comunicò i risultati a<br />

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CAPITOLO 2<br />

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32 Il pianeta Saturno<br />

proietta la sua ombra sugli<br />

anelli. Il globo gassoso del<br />

pianeta è avvolto da fasce<br />

nuvolose delicatamente<br />

colorate. Gli anelli, costituiti<br />

da minuscoli frammenti<br />

ghiacciati, hanno una<br />

struttura complessa con<br />

molteplici suddivisioni<br />

parzialmente trasparenti,<br />

che a loro volta proiettano<br />

un’ombra azzurrata<br />

sull’emisfero inferiore del<br />

pianeta. (NASA CASSINI)<br />

un allievo tedesco, Johann Gottfried Galle, perché cercasse nella<br />

regione di cielo indicata. Il pianeta venne scoperto quasi subito, il<br />

23 settembre di quello stesso anno. In realtà, la storia è molto più<br />

complicata: se Adams non avesse avuto un direttore che gli tenne<br />

per mesi i risultati nel cassetto, è probabile che l’onore della scoperta<br />

di Nettuno sarebbe andata più a lui che a Le Verrier, grande<br />

astronomo e matematico, ma anche antipaticissimo.<br />

Quando Le Verrier fece questi calcoli aveva 33 o 34 anni; lo occuparono<br />

per undici mesi, nei quali riempì di numeri più di 10.000<br />

pagine, concludendo: «Si possono giustificare tutte le perturbazioni<br />

di Urano mediante l’azione di un pianeta avente una massa molto<br />

vicina a quella di Urano e di cui la longitudine eliocentrica al 1°<br />

gennaio 1847 sarà all’incirca 325°». In seguito, in una memoria del<br />

31 agosto 1846 precisò meglio questa longitudine: 326°32 . Galle,<br />

ricevuta a Berlino l’informazione, trovò una stella di 8 a magnitudine<br />

a 327°24 , uno scarto minore di due lune piene rispetto alla posizione<br />

prevista. Era Nettuno. Il nome fu suggerito da Le Verrier forse<br />

per il suo colore verdastro che ricordava il mare e il suo antico dio.<br />

Le ricerche più recenti hanno dimostrato che Urano, pur avendo<br />

la stessa massa stimata in precedenza, è risultato più grande, e<br />

perciò ha una densità di 1,3 volte quella dell’acqua, vicina alla densità<br />

di Saturno, che è l’unico pianeta con densità minore dell’ac-<br />

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qua. Si sa, infatti, che era molto difficile<br />

misurare il diametro di Urano per i suoi<br />

contorni molto sfumati, e quindi si davano<br />

misure varianti tra i 48.000 e i 51.000 km,<br />

mentre le ultime stime danno 53.440 km.<br />

La sorpresa più grossa tuttavia ci è venuta<br />

da osservazioni eseguite da un aereo<br />

d’alta quota in occasione dell’occultazione<br />

di una stella (SAO 150 687) da parte<br />

del pianeta. Questa stella è stata brevemente<br />

occultata due volte dai corpi vicini<br />

a Urano, che hanno tutta l’apparenza di<br />

anelli come quelli di Saturno. Andando<br />

dall’interno verso l’esterno troviamo U2R,<br />

con raggio da 37.000 a 39.500 km, U6R<br />

con raggio di 41.850 km, U5R con raggio<br />

di 42.240 km, U4R con raggio di 42.580<br />

km. Altri anelli sono stati scoperti da Voyager<br />

2 e sono indicati dalle lettere greche<br />

a, b, h, g, d, l ed e con raggi compresi<br />

fra 44.730 e 51.160 km. Secondo James<br />

Elliot dell’Università Cornell, che ha fatto<br />

queste osservazioni, gli anelli più interni<br />

formerebbero una banda larga 7000 km.<br />

Ciascuno degli anelli più interni avrebbe<br />

un’ampiezza di una decina di km mentre<br />

quello più esterno arriverebbe a 100 km.<br />

Questo sarebbe il più spesso o più denso,<br />

dato che occultava circa il 90% della luce<br />

della stella (in confronto al 50% occultata<br />

da ciascuno degli altri anelli), e sarebbe<br />

anche asimmetrico, per ragioni che non<br />

sappiamo, ma forse dipendenti dal fatto<br />

che l’anello non giace sullo stesso piano<br />

degli altri.<br />

Un’altra caratteristica ben nota di Urano è l’inclinazione del suo<br />

equatore quasi ad angolo retto (98°) rispetto all’eclittica, tanto che<br />

sembra ruzzolare piuttosto che ruotare su se stesso. Ebbene, fino<br />

a oggi si credeva che questa rotazione avvenisse in circa 10 ore e<br />

tre quarti, cioè una rotazione veloce che doveva appiattire Urano<br />

(tenuto conto della densità) quasi alla stessa maniera di Giove e<br />

Saturno. Al contrario nuovi metodi di misura ci danno un pianeta<br />

perfettamente rotondo. Le osservazioni di Voyager 2 danno invece<br />

un periodo di 17 ore e 12 minuti. Un fatto analogo è vero anche<br />

per Nettuno. 33-34<br />

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CAPITOLO 2<br />

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33 Urano con i suoi<br />

anelli e satelliti. In questa<br />

ripresa all’infrarosso,<br />

effettuata dal Telescopio<br />

Spaziale, si nota la presenza<br />

di anelli multipli e di<br />

numerosi satelliti. Urano è<br />

orientato verticalmente in<br />

ragione della particolare<br />

inclinazione dell’asse di<br />

rotazione, che è pari a 98<br />

gradi. (NASA JPL STSCI)<br />

34 Nettuno e Tritone<br />

in controluce. Tritone<br />

si vede in basso<br />

a sinistra. (NASA VOYAGER2)<br />

Come si vede, la Terra, Marte, Urano e Nettuno hanno all’incirca<br />

lo stesso periodo di rotazione, e tutti e quattro sono composti di<br />

elementi condensabili, rocce e ghiaccio, in contrasto con Giove e<br />

Saturno, fatti soprattutto di idrogeno e ruotanti con velocità doppia.<br />

Questi fatti sono forse dipesi dalla massa e dalla forza gravitazionale<br />

dei due ultimi, i quali, attraendo materiale dalla nebulosa primitiva,<br />

anche da molto lontano, hanno incrementato sia la massa che il<br />

momento angolare, acquistando l’attuale rapida rotazione. Sembrerebbe<br />

dunque di poter distinguere i pianeti del Sistema solare<br />

in due categorie: terrestri, per il loro periodo di rotazione non troppo<br />

dissimile da quello della Terra e la costituzione di elementi condensabili,<br />

e gioviani, per la loro più rapida rotazione con conseguente<br />

schiacciamento polare e costituzione di elementi volatili. Alcuni Autori<br />

preferiscono tuttavia ripartire i pianeti in: terrestri (da Mercurio<br />

a Marte), gioviani (Giove e Saturno) e uraniani (Urano e Nettuno).<br />

In realtà, la maggiorazione dei diametri di Urano e Nettuno e quindi<br />

la loro minore densità, rende difficile mantenere questa distinzione,<br />

in quanto presuppone negli uraniani proprio una densità maggiore<br />

di quelli gioviani, ma minore dei pianeti terrestri, con conseguenti<br />

differenze di composizione chimica e processi evolutivi.<br />

PLUTONE: SI CREDEVA GRANDE E INVECE È PICCINO<br />

Con questi discorsi non si è voluto confondere il lettore più di quanto<br />

non sia confuso l’astronomo. Non si può negare che ne sappiamo<br />

molto più di prima e anche molto più di 80 anni fa, quando si era<br />

all’inizio di quella nuova branca dell’astrofisica costituita dalla radioastronomia<br />

(cioè lo studio dei corpi celesti per mezzo della misura<br />

delle loro emissioni radio, invece che della sola radiazione visibile,<br />

quella che chiamiamo luce), e poi soprattutto dalle ricerche spaziali.<br />

Ma moltissimi problemi restano da risolvere e novità da scoprire,<br />

come dimostrano le ultime notizie su Plutone, detto romanticamente<br />

per la sua collocazione ai confini del Sistema solare «la scolta<br />

delle tenebre». Al contrario di ciò che accadde per Urano e Nettuno,<br />

più misure si fanno più si è costretti a diminuire Plutone, tanto che<br />

oggi si crede sia più piccolo della nostra Luna. Dopo la scoperta di<br />

Nettuno ci si accorse che questo pianeta non bastava a spiegare le<br />

perturbazioni di Urano, che continuava a deviare dalla sua orbita<br />

in una misura che, nei calcoli di allora, richiedeva la presenza di<br />

un pianeta con una massa 6,6 volte maggiore di quella della Terra.<br />

Ora si dubita di tale valutazione, ma nei primi anni del Novecento<br />

molti astronomi, fra cui Aimable-Jean-Baptiste Gaillot, William<br />

Henry Pickering e Percival Lowell (il convinto assertore dei «canali»<br />

di Marte), calcolarono la posizione di questo pianeta, che Lowell<br />

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stesso si diede a cercare con passione. Pickering l’aveva designato<br />

come pianeta 0, e pensava che fosse il primo di una serie di almeno<br />

7 nuovi pianeti oltre Nettuno. Lowell lo chiamava pianeta X, e del<br />

pianeta calcolato da Pickering pensava che fosse «assolutamente<br />

giusto averlo designato con lo 0, perché non è proprio niente».<br />

Le ricerche non diedero risultati validi che 13 anni dopo la morte<br />

di Lowell, per merito e fortuna di un giovane astronomo di 23 anni,<br />

Clyde W. Tombaugh, che scoprì il nono pianeta del Sistema solare,<br />

non lontano dalla posizione predetta da Lowell e Pickering. In realtà<br />

è stato accertato che Plutone era già stato fotografato, senza<br />

riconoscerlo, per ben 16 volte in vari Osservatori: 5 volte prima<br />

della morte di Lowell, 4 nel 1919, 2 nel 1921, 1925 e 1927, e una<br />

nel 1929. Preciseremo che le osservazioni del 1919 vennero fatte<br />

su richiesta di Pickering, il quale per quell’anno aveva di nuovo<br />

pronosticato la posizione di un pianeta transnettuniano, questa<br />

volta in base a studi sulle perturbazioni di Nettuno e non di Urano.<br />

Però non si riconobbe la debolissima immagine di Plutone sulle<br />

lastre, si pensò che fossero difetti dell’emulsione, e così Pickering<br />

perse l’occasione di diventare lo scopritore di Plutone.<br />

Come avvenne la scoperta? Tombaugh, in un articolo intitolato<br />

Reminiscenze sulla scoperta di Plutone, racconta che nell’autunno<br />

del 1929 aveva cominciato a lavorare per 6 o 7 ore al giorno per<br />

esaminare delle lastre fotografiche con uno strumento chiamato<br />

comparatore di immagini: una specie di microscopio che permette<br />

di vedere, in rapida successione, ora l’una ora l’altra di due lastre<br />

riproducenti la stessa regione stellare, ma prese in epoche diverse.<br />

L’occhio non avverte l’alternarsi delle immagini, se non nel<br />

caso in cui, fra tutti quei punti che occupano sulle lastre un luogo<br />

praticamente identico, ve ne sia qualcuno che abbia mutato, pur<br />

di pochissimo, la sua posizione; quel punto, che è solitamente un<br />

pianeta, risalta sullo sfondo e richiama l’attenzione dell’osservatore.<br />

Le lastre con i campi stellari nei Pesci e nell’Ariete contenevano<br />

qualcosa come 50.000 stelle ciascuna, oltre a centinaia di immagini<br />

di galassie spirali; le lastre della parte occidentale dei Gemelli<br />

e orientale del Toro riproducevano circa 400.000 stelle ciascuna e<br />

occorreva molta più attenzione e più tempo per esaminarle. In febbraio,<br />

terminate le «superaffollate» fotografie del Toro, incominciò<br />

l’osservazione di quelle della regione orientale dei Gemelli, dove le<br />

stelle erano un po’ meno numerose. Queste fotografie erano state<br />

realizzate alla fine di gennaio, e Tombaugh scelse tre lastre, del<br />

21, 23 e 29 di gennaio, centrate su e Geminorum. La prima venne<br />

scartata perché le immagini non erano buone, le altre furono esaminate<br />

iniziando dalla zona a Sud-Est. Alle 4 pomeridiane del 18<br />

febbraio, due gradi a Est di e, «Improvvisamente colsi un oggetto<br />

di 15 a magnitudine che occhieggiava sullo sfondo. A distanza di<br />

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CAPITOLO 2<br />

35 Immagini di<br />

Plutone, ai limiti delle<br />

capacità strumentali del<br />

Telescopio Spaziale. Si<br />

nota il movimento dei<br />

satelliti attorno a Plutone<br />

in un intervallo di 3 giorni,<br />

tra il 15 e il 18 maggio<br />

2005. La sonda New<br />

Horizons, partita nel 2006,<br />

raggiungerà Plutone nel<br />

luglio 2015. (NASA)<br />

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appena 3,5 millimetri, un altro oggetto della stessa magnitudine si<br />

comportava in modo simile, ma alternativamente rispetto all’altro,<br />

via via che attraverso l’oculare del microscopio si vedeva la prima<br />

o la seconda lastra. Eccolo, dissi a me stesso». 35<br />

Pieno d’eccitazione, riprese la lastra del 21 gennaio, cercando<br />

di ricavarne qualcosa; e, infatti, poté individuare la medesima<br />

immagine spostata di un millimetro rispetto alla posizione del 23<br />

gennaio. Ciò significava che non si trattava di una coppia di stelle<br />

variabili, perché l’oggetto si muoveva in senso retrogrado di circa<br />

70 secondi di arco al giorno. Tombaugh fece controllare le lastre<br />

agli altri colleghi e al direttore Vesto Melvin Slipher. C’era un’aria<br />

d’entusiasmo. «Guardammo fuori della finestra. Il cielo era nuvoloso,<br />

nessuna possibilità di prendere una lastra quella notte. Slipher<br />

ordinò di non fare alcun annuncio finché non si fosse ottenuta<br />

conferma da altre osservazioni nelle settimane successive… La<br />

notte successiva, il 19 febbraio, era bel tempo e si poté prendere<br />

un’altra lastra della regione di e Geminorum, con un’ora di esposizione.<br />

Sviluppai la lastra e la misi ad asciugare, per ricominciare<br />

la mattina dopo l’esame al comparatore d’immagini e confrontarla<br />

con una lastra precedente. Sebbene fossero trascorse tre settimane,<br />

la nuova immagine si trovò subito a circa un centimetro a Ovest<br />

della posizione del 29 gennaio…»<br />

Col passare delle settimane, il moto dell’oggetto confermò perfettamente<br />

che si trattava dell’atteso pianeta transnettuniano. Venne<br />

deciso di annunciare la scoperta il 13 marzo 1930, che era il<br />

75° anniversario della nascita di Percival Lowell e la data della scoperta<br />

di Urano 149 anni prima. Nella tarda notte del 12, Slipher<br />

mandò un telegramma all’Osservatorio di Harvard perché ne venisse<br />

data comunicazione ufficiale. Da questo momento incominciò<br />

il problema di come chiamarlo. Fra i nomi suggeriti c’erano<br />

Lowell, Minerva, Chronos e Postumus, visto che era stato scoperto<br />

dopo la morte di Lowell. Un tale commentò che battezzare il nuovo<br />

pianeta era diventato nella regione di Boston uno dei più favoriti<br />

sport al coperto (indoor sport). Chi doveva scegliere era però<br />

Slipher, il direttore dell’Osservatorio di Flagstaff, che decise con i<br />

collaboratori di nominarlo Plutone, e contrassegnarlo col simbolo<br />

«P ¯ »: un monogramma che conteneva le iniziali di Percival Lowell<br />

e riconosceva anche il contributo di William Pickering, in quanto le<br />

due iniziali potevano anche voler dire Pickering e Lowell.<br />

Ambedue avevano usato differenti metodi matematici per la ricerca<br />

di Plutone e dedotto orbite diverse. Tuttavia, la posizione di<br />

Plutone, quando venne trovato, si discostava solo di uno o due gradi<br />

dalle orbite calcolate sia da Pickering che da Lowell. Piuttosto, col<br />

passare degli anni, ci si accorse che il pianeta si rivelava all’osservazione<br />

con una massa troppo piccola per spiegare le perturbazioni di<br />

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Urano. Fra parentesi, un problema simile riguarda anche Nettuno,<br />

in quanto oggi si riconosce che i calcoli laboriosi e le deduzioni sia di<br />

Adams che di Le Verrier hanno parecchi punti oscuri; sicché anche<br />

in quell’occasione fu più la fortuna che il calcolo a far rintracciare il<br />

pianeta. Però, il caso di Plutone è ancora più straordinario.<br />

Fu il noto astronomo e matematico Ernst W. Brown che, riesaminando<br />

i calcoli di Lowell, concluse che nonostante i metodi analitici<br />

di Lowell fossero corretti, i risultati ottenuti, rivelatisi quasi in accordo<br />

con la posizione dove venne scoperto Plutone, furono semplicemente<br />

un caso. Infatti, i valori che Lowell aveva trovato per la distanza,<br />

la massa e l’eccentricità di Plutone dipendevano sostanzialmente<br />

da tre gruppi di osservazioni fatte prima del 1783 e piene di errori.<br />

Prima di dare le più recenti misure della massa di Plutone, ricorderemo<br />

che la sua orbita è la più eccentrica (0,25) ossia quella che<br />

più si scosta dal cerchio e la più inclinata rispetto all’eclittica (17°).<br />

Plutone la percorre in 249 anni, e segna attualmente i confini del<br />

Sistema solare sebbene le orbite delle comete si estendano anche<br />

molto più lontano. A causa dell’eccentricità di questa orbita, la distanza<br />

di Plutone dal Sole varia da un massimo di 49,4 U.A., pari a<br />

7 miliardi 400 milioni di km all’afelio, a un minimo perielico di 31,6<br />

U.A., pari a 4 miliardi 700 milioni di km. Ricordiamo che afelio e<br />

perielio indicano rispettivamente i due punti dell’orbita in cui il pianeta<br />

si trova alla massima e alla minima distanza dal Sole. L’inclinazione<br />

dell’orbita fa sì che il perielio cada leggermente all’interno<br />

dell’orbita di Nettuno, quando viene proiettata sul piano dell’eclittica.<br />

Tuttavia, nello spazio le orbite non si incrociano. Nei periodi in<br />

cui Plutone si avvicina al Sole e raggiunge il perielio (l’ultima volta è<br />

successo nel 1989), il pianeta apparirà di mezza magnitudine più<br />

splendente che al tempo della sua scoperta, quando si trovava a<br />

una distanza media dal Sole. Cioè, avrà una magnitudine di 14,9,<br />

troppo debole per essere individuato con un piccolo telescopio,<br />

specie se non si conosce l’esatta posizione. Gerard Peter Kuiper nel<br />

1952-53 mostrò che la luminosità di Plutone varia di circa il 10%<br />

in un periodo di 6 giorni e 9 ore, che è il suo periodo di rotazione. Il<br />

diametro trovato da Kuiper confrontando il disco apparente del pianeta<br />

con le immagini di piccoli dischi luminosi proiettati nel campo<br />

del telescopio, e tenendo conto degli effetti atmosferici e strumentali,<br />

corrispondeva a un diametro di 5760 km, o al 45% di quello<br />

terrestre. Questo diametro e la magnitudine apparente del pianeta<br />

fecero stimare una albedo pari a 0,14 (si tenga presente che l’albedo<br />

è il potere riflettente di una superficie, eguale a 1 quando tutta<br />

la luce ricevuta viene completamente riflessa, un buon esempio<br />

è uno specchio; ed è eguale a zero quando tutta la luce ricevuta<br />

viene assorbita, un esempio è una superficie coperta di carbone).<br />

Ci si accorse subito che il diametro osservato non si accordava<br />

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CAPITOLO 2<br />

36 Oltre Plutone:<br />

pianetini e asteroidi nel<br />

Sistema solare. In questa<br />

tavola originale sono<br />

riportati i 5 pianetini –<br />

defi niti dalle convenzioni<br />

internazionali – insieme<br />

ai maggiori asteroidi, con<br />

i loro eventuali satelliti e<br />

con i dettagli superfi ciali<br />

conosciuti. Se confrontati<br />

con la Terra e la Luna, tutti<br />

i pianetini e gli asteroidi<br />

sono molto piccoli, incluso<br />

Plutone. Le distanze dal<br />

Sole sono misurate in unità<br />

astronomiche (1 AU = 150<br />

milioni di km, pari al raggio<br />

medio dell’orbita terrestre).<br />

Il pianetino più vicino è<br />

Cerere, che appartiene alla<br />

fascia asteroidale tra Marte<br />

e Giove. Gli altri pianetini<br />

sono Plutone, Haumea,<br />

Makemake ed Eris,<br />

tutti oltre Nettuno nella<br />

cosiddetta fascia di Kuiper.<br />

L’asteroide più distante<br />

è Sedna, dieci volte più<br />

lontano di Plutone.<br />

(WWW.FERLUGA.NET)<br />

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con la massa di Plutone dedotta dalle perturbazioni di Urano e Nettuno,<br />

anche se nel frattempo queste ultime erano state rivalutate,<br />

così da richiedere una massa dell’80 o 90% di quella della Terra, e<br />

non più quasi 7 masse terrestri come pensava Lowell. Però, anche<br />

con questa massa molto diminuita, se il diametro era quello trovato<br />

da Kuiper, la densità di Plutone doveva essere 9,3 volte maggiore di<br />

quella del nostro pianeta, per cui ci si trovava di fronte a queste 3<br />

alternative: o era sbagliato il diametro; o era sbagliata la massa dedotta<br />

dalle perturbazioni o il pianeta aveva una densità eccezionale.<br />

Scartata la terza possibilità, che avrebbe richiesto per Plutone<br />

una densità troppo alta per un pianeta, oggi si ritiene che siano probabili<br />

le altre due. In particolare, si tende a riconoscere che la massa<br />

dedotta dalle perturbazioni di Urano e Nettuno è troppo grande, e<br />

quindi le predizioni quasi precise di Lowell e Pickering furono dovute<br />

al caso.<br />

Inoltre, ci sono novità per la prima ipotesi. In effetti, l’osservazione<br />

che Plutone è coperto di metano ghiacciato significa che<br />

esso riflette la luce solare in maniera più efficiente che se fosse<br />

Il villaggio planetario 91<br />

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di roccia nuda, e che la sua albedo non è 0,14 come assumeva<br />

Kuiper, ma più alta. In altri termini, questo significa che più alto<br />

è il potere riflettente della sua superficie, minore è la sua area, e<br />

quindi (assumendo che sia composto di elementi volatili come gli<br />

altri pianeti esterni) minore la sua massa.<br />

Se l’albedo di Plutone è 0,4, il diametro sarà all’incirca di 3300<br />

km, mentre un’albedo pari a 0,6, implicherebbe un diametro di soli<br />

2800 km. Osservazioni fatte col telescopio spaziale Hubble danno<br />

un diametro ancora più piccolo, 2390 km. Così, questo pianeta<br />

sarebbe più piccolo della Luna, e la sua densità di appena 1,75 g/<br />

cm 3 , in confronto ai 5,5 della densità della Terra. Vogliamo riportare<br />

le parole di Dale P. Cruikshank, l’astronomo che, coi suoi colleghi<br />

dell’Università delle Hawaii, ha condotto le ricerche suddette:<br />

«Questa densità, insieme a un diametro quasi come quello della<br />

Luna, fa derivare una massa pari a qualche millesimo di quella<br />

della Terra: molto minore di quanto sarebbe richiesto dai moti misurabili<br />

di Urano o Nettuno. Se è così, è evidente che la scoperta di<br />

Plutone da parte di Tombaugh è stata più il risultato di un’intuizione<br />

che una previsione fondata sulla dinamica planetaria».<br />

A questo punto, veniva spontaneo chiedersi se esistono altri<br />

pianeti al di là di Plutone. Già Ian Oort aveva supposto che oltre<br />

Plutone ci fosse una regione, detta appunto la nube di Oort popolata<br />

da numerosi asteroidi che trascinati dentro il Sistema solare<br />

dalle perturbazioni dei pianeti maggiori avrebbero dato origine alle<br />

comete, e che si estenderebbe fino 100.000 Unità Astronomiche.<br />

Più interna ci sarebbe la fascia di Kuiper, fra 35 e 1000 UA. Oggi<br />

si sono scoperti all’interno di questa fascia, con le sonde per infrarosso,<br />

numerosi pianetini, che come abbiamo già accennato hanno<br />

convinto gli astronomi a ritenere Plutone il capostipite di questa<br />

famiglia di asteroidi piuttosto che un pianeta a tutti gli effetti.<br />

Già ci si era chiesti se l’eccentricità dell’orbita di Plutone, e<br />

la sua forte inclinazione sul piano dell’eclittica, oltre alle piccole<br />

dimensioni non rendevano dubbio il suo stato di pianeta. Si era<br />

notata la somiglianza di Plutone con Tritone, uno dei due satelliti<br />

di Nettuno. È stato per questo che Raymond Arthur Lyttleton ha<br />

avanzato l’ipotesi che una volta Tritone e Plutone fossero satelliti<br />

nettuniani, entrambi orbitanti nel senso di rotazione del pianeta. A<br />

un certo punto, Plutone e Tritone si avvicinarono troppo l’un l’altro,<br />

con una duplice conseguenza: Tritone invertì la sua direzione di<br />

moto, mentre Plutone venne espulso dal sistema di Nettuno.<br />

Ma, naturalmente, c’è anche chi sostiene sia avvenuto il contrario:<br />

Tritone e Plutone sarebbero stati originalmente due piccoli<br />

pianeti indipendenti, vicini a Nettuno, che finì per catturare Tritone<br />

facendolo diventare un suo satellite… 36<br />

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CAPITOLO 2<br />

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