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143 Anno XVIII - 2008 - Marina Militare

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<strong>143</strong><br />

<strong>Anno</strong> <strong>XVIII</strong> - <strong>2008</strong><br />

DIREZIONE E REDAZIONE<br />

ISTITUTO DI STUDI MILITARI MARITTIMI<br />

CenTRO STUDI<br />

Castello, 2409 - 30122 VeneZIA<br />

Tel. Fax 041/2441730 - Mil.40730<br />

e-mail: maristudi.cs@marina.difesa.it<br />

DIRETTORE RESPONSABILE<br />

C.V. Giuseppe SCHIVARDI<br />

Tel. 041/2441322 - Mil. 40322<br />

GESTIONE TESTI<br />

1° Mrs Riccardo JANNUZZI<br />

SGT. Davide MAGLIONICO<br />

STAMPA E FOTORIPRODUZIONE<br />

O.G. Aldo ROSSETTI<br />

AUS. Marco BUCELLA<br />

AUS. Giovanna VIAN<br />

Registrazione al tribunale Civile di Venezia n. 1353.<br />

La riproduzione, totale o parziale degli scritti e delle<br />

illustrazioni è subordinata all’autorizzazione della<br />

Direzione del Bollettino.<br />

Pubblicazione non in commercio<br />

<br />

DELL’ISTITUTO DI STUDI MILITARI MARITTIMI<br />

Sommario<br />

LA BUSSOLA<br />

4 FAILED STATES<br />

16 L’ITALIA, LA SOMALIA E IL<br />

CINDOTERRANEO<br />

32 A NEw SUN ON ThE hORIzON? ThE<br />

AwN OF JApAN’S ExpEDITIONARy<br />

CApABILITy


Nel corso del 47° Corso Normale recentemente<br />

conclusosi, un paio di frequentatori<br />

impegnati su temi diversi nel campo<br />

dell’analisi strategica sono giunti ad una serie<br />

di deduzioni che, lette in maniera complementare,<br />

convergevano verso un punto<br />

di vista molto prossimo. E’ il caso appunto di<br />

due elaborati frutto delle fatiche del Capitano<br />

di Corvetta Calvetti e del T.V. Quondamatteo: il<br />

primo dedicato al tema dei “failed states” e il secondo<br />

un consueto “caso paese” relativo però ad una delle<br />

entità statuali più evanescenti della scena internazionale<br />

degli ultimi 15 anni , la Somalia. E’ fin troppo evidente<br />

come l’attenzione della Comunità Internazionale negli<br />

ultimi anni, soprattutto quelli in cui il sistema internazionale<br />

è passato dalla chiarezza strategica della guerra<br />

fredda alla più indecifrabile frammentazione, si sia appuntata<br />

sulle fonti dell’instabilità dei sistemi regionali<br />

quali causa di inevitabili scosse telluriche indirette anche<br />

nelle zone come il mondo occidentale usualmente<br />

caratterizzate da maggiore stabilità e ordine. La lista dei<br />

“failed states”, gli stati falliti così come quello dei “weak<br />

states” , gli stati deboli, e di tutte quelle entità statuali già<br />

nel baratro o sull’orlo del baratro del caos istituzionale,<br />

politico e sociale, è continuamente aggiornata e tenuta<br />

sotto stretta osservazione. Gli esperti di settore sono<br />

infatti consapevoli di come i livelli dei problemi e le<br />

dinamiche relative non siano sempre facilmente separabili<br />

e che ciò che avviene a livello locale e regionale può<br />

trasferirsi d’incanto sul livello globale portando con sé<br />

tutta una serie di problemi di non immediata e semplice<br />

soluzione. L’argomentazione potrebbe sembrare puramente<br />

accademica se l’osservazione attenta delle vicende<br />

locali in paesi come il Sudan, il Chad o il Pakistan non<br />

ci riportasse nell’evidenza della pratica applicazione del<br />

principio. Si tratta di paesi che vivono una permanente<br />

condizione di insicurezza istituzionale in bilico fra<br />

colpi di stato e rivolte popolari o, come nel caso della<br />

Somalia, privi di un vero e proprio apparato politico<br />

amministrativo perché nelle mani di capi clan o signori<br />

della guerra. Nell’analisi strategica relativa a questo<br />

paese del corno d’africa la crisi permanente che lo atta-<br />

La BUSSOLA<br />

naglia da anni è vista nella sua dimensione<br />

globale prendendo in esame le presumibili<br />

conseguenze che scaturirebbero dalla<br />

chiusura dello Stretto di Bab el Mandeb<br />

qualora la crisi assumesse dimensioni<br />

ancora più significative. Si tratterebbe<br />

di conseguenze sul piano dei trasporti<br />

marittimi, in particolare delle forniture<br />

energetiche per l’Europa ma anche per l’intero<br />

sistema della portualità italiana che vedrebbe ridotte ulteriormente<br />

le quote di merci scambiate. Mentre elaboriamo<br />

questo numero dell’Osservatorio le forze speciali<br />

della <strong>Marina</strong> Francese sono state costrette ad intervenire<br />

nel Golfo di Aden per liberare alcuni ostaggi nelle<br />

mani di pirati somali; a dimostrazione che l’instabilità<br />

istituzionale politica e sociale si esprime anche nella sua<br />

forma di instabilità “marittima” sulla quale la comunità<br />

internazionale si domanda come intervenire.<br />

La puntualità delle analisi che qui proponiamo non<br />

manca di fare riferimento anche ad un nuovo concetto<br />

geopolitico quello di “Cindoterraneo” 1 che, lungi dall’essere<br />

nato all’interno delle nostre mura, prende però<br />

le mosse, per estensione geografica e politica, da quel<br />

“Mediterraneo Allargato” tanto caro all’IGM che ormai<br />

è stato però superato nei fatti e nelle intenzioni del nostro<br />

sistema paese.<br />

Per i molteplici aspetti trattati ci è sembrato dunque interessante<br />

proporre questo numero dell’Osservatorio<br />

come monografico pubblicando i due lavori citati nella<br />

loro versione integrale comprensiva delle parti allegate<br />

cui normalmente, solo per motivi di spazio, siamo costretti<br />

a rinunciare. I due elaborati che, come abbiamo<br />

detto sono da leggersi in maniera complementare, rispondono<br />

ad un taglio di analisi che racchiude in sé l’essenza<br />

della didattica della strategia propria del nostro<br />

Istituto basata sulla convinzione che i fatti geopolitici<br />

e le vicende connesse agli spazi marittimi siano parti<br />

componenti dell’analisi strategica indissolubilmente<br />

correlati e che, come tali, impongono un approccio il<br />

più globale possibile.<br />

1 Concetto geopolitico introdotto da Alessandro Politi nel rapporto “Nomos e Khaos “ 2006 a cura dell’Osservatorio Scenari<br />

Strategici e di Sicurezza di Nomisma


INTRODUZIONE<br />

Capitano di Corvetta<br />

Stefano CALVETTI<br />

Con la fine della Guerra Fredda l’attenzione del<br />

mondo è stata catturata da problemi che prima,<br />

seppur presenti, erano considerati di minore<br />

rilevanza rispetto agli attriti del bipolarismo:<br />

dal 1989 i cosiddetti failed States (Stati<br />

falliti) hanno, di volta in volta, cominciato ad<br />

occupare un piano di rilievo nelle discussioni<br />

internazionali e nelle strategie di sicurezza<br />

di molti paesi. Si deve aspettare l’inizio del<br />

nuovo millennio, dopo gli avvenimenti dell’11<br />

settembre 2001 che hanno visto alcuni Stati<br />

falliti coinvolti in qualche modo negli attentati<br />

terroristici 1 , affinché le Nazioni prendano<br />

piena coscienza dell’emergenza e della<br />

necessità di doverla affrontare. I failed States<br />

sono “passati dalla periferia al centro della<br />

politica globale” 2 : nel 2002, la US National<br />

Security Strategy riporta che “la minaccia per<br />

l’Occidente non è rappresentata tanto dagli<br />

Stati aggressivi quanto piuttosto da quelli in via<br />

di dissoluzione” 3 . Allo stesso tempo, l’allora<br />

Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi<br />

Annan ha evidenziato come ignorare gli Stati<br />

falliti possa creare problemi alla comunità<br />

stessa 4 , mentre nel 2004 il presidente francese<br />

Chirac ha parlato della “minaccia che gli<br />

Stati falliti costituiscono per l’equilibrio<br />

mondiale” 5 . L’entità del problema raggiunge<br />

anche la lontana Australia il cui Governo nel<br />

2003 definisce gli Stati falliti come la nuova<br />

sfida per il nuovo secolo 6 .<br />

UN FENOMENO<br />

CONTEMPORANEO?<br />

Per meglio comprendere il fenomeno del<br />

fallimento, è necessario definire tre aspetti<br />

fondamentali: il significato del termine, il<br />

criterio per individuarli e l’inquadramento nel<br />

diritto internazionale.<br />

Definizione e caratteristiche<br />

Seppur solo adesso se ne parli in maniera<br />

diffusa, gli Stati falliti “sono parte della<br />

realtà politica da quando esiste il sistema<br />

internazionale degli Stati” 7 , con la differenza<br />

che prima della seconda guerra mondiale un<br />

failed State era oggetto di colonizzazione,<br />

invasione o frammentazione da parte di paesi<br />

terzi 8 .<br />

1 Sudan e Afghanistan ospitarono i terroristi autori degli attacchi al Pentagono e World Trade Center.<br />

2 Ottaway <strong>Marina</strong>, “Atlante delle periferie che incendiano il mondo” del 27/07/05, www.corriere.it, 10/01/08<br />

3 The National Security Strategy of the United States of America, settembre 2002, pag. 1.<br />

4 Annan Kofi, “Larger Freedom: Towards Development, Security And Human Rights For All”, 21/03/05, www.un.org, 18/01/08.<br />

5 Chirac Jacques, intervento nel EU-LAC meeting, Guadalajara (Messico), 28-29 maggio 2004, www.wsws.org, 18/01/08.<br />

6 Australian Strategic Policy Institute (ASPI), Our failing neighbour: Australia and the future of Solomon Islands, Borton, giugno<br />

2003.<br />

7 Fraenkel John, “Political instability, Failed States and Regional Intervention in the Pacific”, intervento alla Conferenza Redefining<br />

the Pacific: Regionalism – Past, Present and Future, Dunedin (Nuova Zelanda), 25-28 giugno 2004, www.otago.ac.nz, 17/01/08.<br />

8 È emblematico il trattato del 25 luglio 1772 quando Prussia, Russia ed Austria decisero la spartizione del territorio della Polonia<br />

afflitta da anarchia e frammentazione politica, al fine di “ristabilire ordine in Polonia e dare a quello Stato un’esistenza politica<br />

maggiormente in linea con gli interessi della regione”. Sorel Albert, La Question d’Orient au <strong>XVIII</strong>e siecle. Les origines de la<br />

triple Alliance, Paris, E. Plon et Cie, 1878.


Non esiste una definizione universale di<br />

Stato fallito e, da quando il fenomeno ha<br />

cominciato ad entrare nell’agenda di politica<br />

estera delle varie Nazioni, molti analisti hanno<br />

cercato di precisare cosa sia un failed State e,<br />

conseguentemente, come riconoscerlo.<br />

Probabilmente i primi ad impiegare il termine<br />

failed States furono nel 1993 Gerald Helman 9<br />

e Steven Ratner 10 , che lo definirono come<br />

“fastidioso nuovo fenomeno” legato ad uno Stato<br />

“incapace di auto-sostenersi come membro<br />

della Comunità Internazionale” 11 . Invero, è<br />

già stato evidenziato come gli Stati falliti siano<br />

parte della realtà politica da quando esiste il<br />

sistema internazionale delle Nazioni.<br />

In tempi più recenti, Michael Ignatieff 12 ,<br />

rifacendosi alla teoria di Machiavelli, ha<br />

affermato che il fallimento consiste nella<br />

perdita, da parte del Governo centrale, del<br />

monopolio della violenza, visto come elemento<br />

basico per assicurare altre condizioni come<br />

il rispetto dei diritti umani e la distribuzione<br />

dei servizi sociali. Più ampia è la definizione<br />

data da William Zartman 13 , secondo il quale<br />

uno stato fallisce se non può più garantire le<br />

sue funzioni basiche in una situazione in cui<br />

struttura, autorità, legge e ordine politico sono<br />

crollati 14 .<br />

Uno studio approfondito sul significato di Stato<br />

fallito, condotto dal ricercatore universitario<br />

australiano Shahar Hameiri 15 , individua due<br />

macro-famiglie che delineano differenti<br />

tipologie di approccio e quindi della definizione<br />

del problema: quella neoliberale e quella neo-<br />

Weberiana.<br />

La visione neoliberale poggia la base sulle<br />

relazioni tra il mercato e la sfera sociale,<br />

economica e politica, con particolare enfasi<br />

alla creazione e costruzione della capacità<br />

delle istituzioni di fornire le condizioni per<br />

un efficace funzionamento del mercato stesso.<br />

Il cuore del problema è quindi visto nel<br />

sottosviluppo e nella diffusa povertà, che però<br />

hanno un’incidenza marginale sull’economia<br />

mondiale mentre ha maggiore rilevanza<br />

l’incapacità statale di assicurare l’integrazione<br />

nell’economia globale e, quindi, la ripresa della<br />

Nazione. In questa letteratura, viene più spesso<br />

usato l’aggettivo “fragile” piuttosto che “fallito”,<br />

ancorché vi sia comunque qualche difformità<br />

nella definizione. A titolo d’esempio, il British<br />

Department for International, Development<br />

(DfID) definisce uno Stato fragile come<br />

quello all’interno del quale “il Governo non<br />

può o non vuole fornire le funzioni basiche<br />

alla maggioranza delle sua gente, inclusi i<br />

poveri” 16 , mentre lo United States Agency for<br />

International Development (USAID) impiega<br />

il medesimo termine per indicare “un ampio<br />

spettro di Stati falliti, in fallimento o in fase di<br />

ripresa” 17 , differenziandoli a seconda della loro<br />

vulnerabilità o crisi.<br />

L’approccio neo-Weberiano è, invece, basato<br />

sullo Stato visto come insieme di capacità<br />

istituzionali relazionate ad un ideal-tipo di<br />

Nazione moderna. La difformità nel definire<br />

le funzioni e quindi le capacità che un<br />

Governo dovrebbe esprimere sono alla base<br />

dell’articolazione del pensiero neo-Weberiano,<br />

che assume sfaccettature diverse a seconda<br />

dell’autore. Tra tutte, si riporta Robert I.<br />

Rotberg 18 che elenca le capacità che vengono<br />

a mancare nello Stato fallito, individuabile<br />

secondo le seguenti caratteristiche 19 :<br />

- crescita della violenza criminale e politica;<br />

- impossibilità di controllare i propri confini;<br />

- aumento delle ostilità etniche, religiose,<br />

linguistiche ovvero culturali;<br />

- guerra civile;<br />

- uso del terrore contro i propri cittadini;<br />

- istituzioni deboli;<br />

- infrastrutture insufficienti o degradate;<br />

- incapacità di raccogliere le tasse senza<br />

coercizione;<br />

- elevati livelli di corruzione;<br />

- sistema sanitario collassato;<br />

- livello di mortalità infantile in crescita e<br />

contestuale diminuzione dell’aspettativa<br />

9 Ambasciatore degli Stati Uniti.<br />

10 Insegnante di Diritto Internazionale all’Università del Michigan (USA).<br />

11 Helman Gerald B. e Ratner Steven R., “Saving failed States”, Foreign Policy nr. 89, inverno 1993.<br />

12 Politico canadese, vice-presidente del Partito Liberale, nonché giornalista e storico.<br />

13 Insegnante di Organizzazioni Internazionali e risoluzione di Conflitti nonchè Direttore del Conflict Management Program presso<br />

l’Università Johns Hopkins.<br />

14 Zartman William, “Introduction: Posing the Problem of State Collapse”, in Collapsed States: the Disintegration and Restoration<br />

of Legitimate Authority, Londra, Colorado and Lynne Rienner Publisher, 1995.<br />

15 Hameiri Shahar, “Failed States or a fialed paradigm? State capacity and the limits of institutionalism” in Journal of International<br />

Relations and Development nr. 10/2007, www.palgrave-journals.com, 15/01/08.<br />

16 DfID, Why we need to work more effectively in fragile States, Londra, gennaio 2005, pag. 7.<br />

17 USAID, Fragile States Strategy, Washington DC, gennaio 2005, pag. 1.<br />

18 Presidente del World Peace Foundation, Direttore del Program on Interstate Conflict della John F. Kennedy School of Government<br />

presso l’Università di Harvard.<br />

19 Robert I. Rotberg, “Failed States in a world of terror” in Foreign Affair vol. 81 nr. 4, pag. 132 .


di vita;<br />

- mancanza di regolari opportunità<br />

scolastiche;<br />

- PIL e reddito pro-capite in diminuzione;<br />

- inflazione in continuo aumento;<br />

- diffusa preferenza per una valuta non<br />

nazionale;<br />

- difficoltà nel reperimento del cibo.<br />

Nel presente articolo è stata comunque<br />

considerata la definizione data da Daniel<br />

Thürer 20 che individua un failed State in uno<br />

Stato nel quale le istituzioni, le leggi e l’ordine<br />

sono parzialmente o totalmente collassati sotto<br />

la pressione e nella confusione di violenza<br />

esplosiva 21 . A questa definizione deve essere<br />

aggiunta la precisazione di Rotberg secondo cui<br />

non è l’intensità della violenza a determinare il<br />

fallimento di uno stato quanto la sua durata ed<br />

il fatto che essa sia diretta contro il governo o<br />

il regime esistente 22 .<br />

Si ritiene necessario precisare che, mentre<br />

alcuni autori (tra cui lo stesso Rotberg)<br />

effettuano una distinzione tra stato fallito e<br />

stato collassato 23 , ai fini del presente documento<br />

e per una maggiore semplificazione trattativa,<br />

all’interno di questo documento, i due termini<br />

sono impiegati come sinonimi. Occorre, invece,<br />

operare un distinguo tra il già citato “Stato<br />

fallito” ed altri termini che sono oramai entrati<br />

nella terminologia politica e sociologica:<br />

- Stato canaglia (rogue State) 24 è una Nazione<br />

che minaccia la pace internazionale, con un<br />

Governo di tipo autoritario incurante dei diritti<br />

umani e quindi propenso alla proliferazione<br />

delle armi di distruzione di massa. Alcuni<br />

esempi di Stati canaglia, secondo la visone<br />

americana, sono l’Iran e la Corea del Nord;<br />

- Stato fragile (fragile State) ovvero una<br />

Nazione suscettibile di crisi in uno o più dei suoi<br />

sottosistemi e conseguentemente vulnerabile a<br />

shock interni ed esterni e conflitti domestici ed<br />

internazionali;<br />

- Stato in crisi (crisis State) con il quale si<br />

intende indicare una Nazione le cui istituzioni<br />

sono oggetto di pressante contestazione e sono<br />

potenzialmente incapaci di gestire conflitti<br />

o traumi, con conseguente minaccia di<br />

fallimento 25 .<br />

Si ritiene che uno Stato fragile ed uno in<br />

crisi siano riconducibili ad un fallimento<br />

non ancora consolidato. Lo Stato canaglia,<br />

invece, non è associabile al collasso né ad<br />

alcuna fase del processo che porta ad esso.<br />

Ancorché possa fallire in seguito alle azioni<br />

prese da Paesi terzi 26 , il Governo centrale<br />

esercita effettivamente la propria sovranità sul<br />

territorio, e costituisce una minaccia più per<br />

altre Nazioni che nei confronti della propria<br />

gente.<br />

Il Failed State index<br />

Oltre a capire cosa sia uno Stato fallito è<br />

importante anche poterlo individuare, al fine<br />

di porre in essere contromisure che possano<br />

aiutarlo nella ripresa politica, sociale ed<br />

economica. In alcuni casi, come ad esempio<br />

il Sudan e la Somalia sconquassati da anni di<br />

20 Professore di Diritto Internazionale, Diritto Europeo e Diritto Amministrativo all’Università di Zurigo, nonché membro del Comitato<br />

Internazionale della Croce Rossa.<br />

21 Thürer Daniel, “The Failed State and the international law”, in International Review of the Red Cross Nr. 836, www.icrc.org, 10<br />

gennaio <strong>2008</strong>.<br />

22 Rotberg Robert I., State Failure and State Weakness in a time of terror, Washington DC, Brookings/WPF, 2003, pag. 5.<br />

23 Secondo Rotberg, uno Stato collassato è una versione estrema di uno Stato fallito in cui i beni politici sono ottenuti attraverso<br />

mezzi privati ovvero ad hoc. E’ una Nazione dove l’autorità è assente ed è equiparata ad un buco nero. State Failure and State<br />

Weakness in a time of terror, op. cit., pag. 9.<br />

24 Durante gli ultimi mesi dell’amministrazione Clinton negli USA, il termine fu sostituito dall’espressione “Stato di preoccupazione”.<br />

25 Le definizioni di “Stato fragile” e di “Stato in crisi” sono tratte dal sito del Crisis States Research Center, www.crisisstates.com,<br />

16/01/08.<br />

26 Sur Serge, “On Failed States”, www.diplomatie.gouv.fr, 18/01/08.


lotte intestine, la designazione a failed State è<br />

piuttosto evidente. Per altre nazioni, invece, la<br />

classificazione non è così immediata. Per questa<br />

ragione, il Fund for Peace, un’organizzazione<br />

nonprofit americana per la ricerca e l’educazione,<br />

ha sviluppato una metodologia denominata<br />

Conflict Assesment System Tool (CAST) 27<br />

al fine di fornire informazioni tempestive ed<br />

apprezzamenti di situazione in merito a conflitti<br />

interni in ogni parte del globo. Il CAST è stato<br />

sviluppato in un software in grado di analizzare<br />

le indicazioni provenienti dalle open sources e<br />

dare indicazioni sulla solidità di una Nazione.<br />

Questo software è la base per la stesura del<br />

Failed State Index, una classifica di Paesi in<br />

base alla loro stabilità pubblicata dall’anno<br />

2005 grazie alla collaborazione del Fund for<br />

Peace con la rivista Foreign Policy.<br />

Il terzo Failed State Index 28 analizza 177<br />

Paesi sulla base di dodici indicatori – detti<br />

“di instabilità” – espressi con una scala da 0<br />

(massima stabilità) a 10 (minima stabilità) e tutti<br />

con lo stesso peso nella stesura dell’elenco 29 . In<br />

base al risultato, una Nazione viene classificata<br />

“Alert” (per punteggi uguali o superiori a 90),<br />

“Warning” (tra 60 e 89.9), “Moderate” (tra<br />

30 e 59.9) o “Sustainable” (con un punteggio<br />

inferiore a 29.9) 30 .<br />

Gli indicatori di instabilità impiegati dal Fund<br />

for Peace sono:<br />

- indicatori sociali:<br />

• crescente pressione demografica (I-1):<br />

derivante dalla densità di popolazione in<br />

rapporto al cibo ed altre risorse disponibili<br />

nell’area, dalla possibilità di partecipare a<br />

forme comuni di attività, dall’insediamento in<br />

talune aree e dall’omogeneità di distribuzione<br />

della popolazione in relazione all’età o al tasso<br />

di crescita;<br />

• movimento massiccio di rifugiati e di<br />

Internally Displaced People (IDP) da cui<br />

derivano emergenze umanitarie (I-2): legato<br />

allo sradicamento di comunità, anche di elevate<br />

dimensioni, per cause varie (conflitti, ricerca di<br />

cibo, malattie, etc.);<br />

• eredità di vendette derivanti da gruppi oggetto<br />

di ingiustizie (I-3): connesso con la storia<br />

di gruppi oggetto di ingiustizie, anche non<br />

recenti, o di atrocità, persecuzione, repressione,<br />

esclusione dalla vita pubblica o qualsiasi altra<br />

forma di isolamento/eliminazione sociale;<br />

• emigrazione cronica e sostenuta (I-4):<br />

comprende sia le c.d. “fughe di cervelli” di<br />

intellettuali, professionisti e dissidenti politici<br />

e sia l’emigrazione della classe media, con<br />

conseguente crescita delle comunità in esilio;<br />

- indicatori economici:<br />

• disparità dello sviluppo economico tra<br />

gruppi (I-5): determinata da ineguaglianze<br />

legate a gruppi dominati, o disparità nei campi<br />

dell’istruzione, lavoro, status economico e<br />

welfare.<br />

Include la nascita di nazionalismi comunitari<br />

derivanti dalle medesime ineguaglianze, sia<br />

che esse siano reali ovvero percepite;<br />

• declino economico netto e/o consistente<br />

politica. Conseguentemente, si diffonde la<br />

sfiducia nelle istituzioni ed aumentano i casi<br />

di boicottaggio nelle elezioni, dimostrazioni<br />

popolari, formazione di gruppi militanti che<br />

guidano rivolte armate;<br />

• progressivo deterioramento dei servizi<br />

pubblici (I-8): derivante dall’inadempienza<br />

dello Stato nell’assicurare le funzioni statali<br />

basiche a favore dei cittadini, tra cui la<br />

sicurezza, il servizio sanitario, trasporti<br />

pubblici, infrastrutture. I soli beneficiari<br />

del ridotto welfare sono i gruppi elitari o le<br />

organizzazioni ad essi connesse;<br />

• diffuse violazioni dei diritti umani (I-9):<br />

legato alle istituzioni e processi democratici<br />

e costituzionali sono sospesi o manipolati.<br />

Violenza ai danni di innocenti ispirata<br />

politicamente. Crescente numero di prigionieri<br />

politici ovvero dissidenti a cui è negato qualsiasi<br />

processo. Ogni diffuso abuso di diritto politici,<br />

legali e sociali;<br />

• apparato di sicurezza come “Stato dentro uno<br />

Stato” (I-10): connesso con la presenza di elite o<br />

“guardie pretoriane” che operano con impunità,<br />

milizie private supportate o sponsorizzate<br />

dallo Stato che terrorizzano qualsiasi forma<br />

di opposizione, un “esercito dentro l’esercito”<br />

asservito agli interessi dell’elite dominante<br />

e milizie rivali, guerriglieri ovvero eserciti<br />

privati in conflitto contro le forze di sicurezza<br />

statali;<br />

• crescita di gruppi faziosi (I-11): ossia la<br />

27 Il CAST è impiegato anche in altri ambiti quali il Dipartimento di Stato USA, il Governo olandese, il US Army Peacekeeping<br />

Institute, il US Defense Advanced Reasearch Projects Agency (DARPA) e diverse università.<br />

28 Pubblicato nel numero di luglio/agosto 2007 della rivista Foreign Policy e sul sito del Fund for Peace (www.fundforpeace.org).<br />

29 La difficoltà di assegnare un peso maggiore o minore a ciascun parametro è legata anche alla percezione che gli Stati stessi hanno<br />

per ogni indicatore e dell’importanza che gli attribuiscono nell’ambito della propria politica. Al proposito, intervista a Pauline<br />

Baker, Presidente di Fund for Peace, rilasciata il giorno 01 giugno 2006 al United States Holocaust Memorial Museum, www.<br />

ushmm.org, 10 gennaio <strong>2008</strong>.<br />

30 La rivista Foreign Policy opera una classificazione diversa, individuando 5 categorie: Critical, In Danger, Borderline, Stable e<br />

Most Stable. Sulla rivista, inoltre, sono pubblicati solo i primi 60 paesi.


L’ultimo Failed State<br />

frammentazione dei gruppi dominanti e delle<br />

istituzioni statali e l’impiego di retorica politica<br />

nazionalista da parte delle elite dominanti,<br />

spesso in termini di irredentismo comunitario<br />

ovvero solidarietà comunitaria;<br />

• intervento di stati terzi o fattori esterni<br />

(I-12): legato all’impiego di forze militari o<br />

para-militari estere negli affari interni dello<br />

Stato a rischio, con lo scopo di influenzare il<br />

bilanciamento del potere o la risoluzione di un<br />

conflitto. In questo indicatore sono compresi<br />

anche gli aiuti economici, specialmente se è<br />

presente una tendenza alla sovra-dipendenza<br />

da aiuti stranieri o missioni di peace-keeping.<br />

Con la premessa che l’Index è una fotografia<br />

della salute mondiale che risale al maggio<br />

2007, è comunque interessante osservare che:<br />

- il Sudan, per il secondo anno consecutivo, è<br />

il Paese maggiormente instabile;<br />

- nelle prime dieci posizioni sono compresi<br />

sette paesi dell’Africa sub-sahariana. Dalla<br />

cartina è immediatamente evidente la<br />

concentrazione di stati della zona “alert”, da<br />

cui si evince anche come, in alcune situazioni,<br />

le cause del fallimento valichino i confini<br />

interstatali. In questo caso si potrebbe quasi<br />

parlare di “regione fallita”;<br />

- al contrario, la regione maggiormente stabile<br />

è quella scandinava. Danimarca, Svezia,<br />

Norvegia, Islanda e Finlandia sono nelle ultime<br />

otto posizioni dell’elenco;<br />

- la maggioranza dei paesi industrializzati,<br />

tra cui l’Italia, gli Stati<br />

Uniti, la Gran Bretagna, la<br />

Francia e la Germania, sono<br />

classificati “moderate”. Ciò<br />

non indica l’imminenza o la<br />

possibilità di un fallimento;<br />

piuttosto, mette in luce le<br />

aree “grigie” dove i Governi<br />

hanno evidenziato maggiori<br />

difficoltà e dove dovrebbero<br />

porre rimedio.<br />

Ovviamente, non tutti i Paesi<br />

classificati “alert” sono da<br />

considerarsi falliti, ma sono<br />

di sicuro quelli più vicini<br />

ad esserlo. In quest’ottica,<br />

la classifica potrebbe<br />

rappresentare uno strumento<br />

diagnostico per evitare<br />

ulteriori fallimenti o per<br />

determinare dove la Comunità Internazionale<br />

dovrebbe agire prima che sia troppo tardi.<br />

Inquadramento nel diritto<br />

internazionale<br />

Il problema dell’inquadramento degli Stati<br />

falliti nel diritto internazionale si è palesato<br />

soprattutto in un memorandum del 22 gennaio<br />

2002, redatto dal capo dell’ufficio legale del<br />

Dipartimento di Giustizia degli USA, Jay. S.<br />

Bybee, ove si legge che “il Presidente Bush<br />

non è vincolato dalle leggi internazionali<br />

nei confronti dell’Afghanistan in quanto<br />

l’Afghanistan è un failed State, vale a dire uno<br />

‘Stato mancato’ e in quanto tale non farebbe<br />

parte della comunità internazionale degli Stati<br />

soggetti alla legislazione internazionale”.<br />

Secondo il memorandum, lo status di failed<br />

State dell’Afghanistan costituisce motivo<br />

sufficiente perché il Presidente sospenda la<br />

Convenzione di Ginevra 31 . Seppur basata<br />

sul concetto che in un failed State viene a<br />

mancare uno dei due elementi costituenti uno<br />

Stato, ossia l’effettività (intesa come “capacità<br />

di esercitare la propria potestà di imperio su<br />

una data comunità stanziata su un determinato<br />

territorio” 32 ), l’affermazione del legale<br />

americano appare alquanto opportunistica e<br />

non aderente alla realtà dei fatti.<br />

La necessità di trovare l’idonea collocazione<br />

degli Stati falliti nel Diritto Internazionale<br />

era già stata evidenziata da Daniel Thürer 33<br />

che, in definitiva, ricorda come la Comunità<br />

31 Babee Jay S. “Memoradum for Alberto R. Gonzales Counsel to the President, and William J. Haynes II, General Counsel of the<br />

Deportment of Defense”, 22/01/02, www.washingtonpost.com 21/01/08.<br />

32 Consorti Benedetto, Diritto Internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2006, Pag. 14.


Internazionale abbia risposto al problema<br />

con la volontà di consolidare, stabilizzare<br />

e confermare la centralità dello Stato come<br />

pietra angolare dell’ordine internazionale.<br />

Gli Stati che sono falliti, i loro confini e la<br />

loro personalità giuridica non sono contestati.<br />

Essi non hanno smesso di partecipare ad<br />

organizzazioni internazionali e, comunque, le<br />

loro relazioni diplomatiche sono rimaste intatte.<br />

Ancorché siano impossibilitati nello stipulare<br />

nuovi trattati, quelli già in vigore rimangono<br />

in forza.<br />

Vi è stato comunque un veloce adattamento<br />

della politica comunitaria internazionale al<br />

problema e sono in aumento gli Stati controllati<br />

ed amministrati da organi dell’ONU (come,<br />

ad esempio, la Cambogia), sempre più efficaci<br />

nell’assicurare la supervisione sul “cessate<br />

il fuoco”, distruzioni di armi, ripresa della<br />

routine ed inserimento di nuovi rappresentanti<br />

statali 34 .<br />

Inoltre, in relazione ad interventi umanitari,<br />

come raccomandato dalla Commission of<br />

Global Governance 35 , l’impiego dell’articolo<br />

39 e dell’articolo 2 - paragrafo 7 - della<br />

Carta dell’ONU è sempre più frequente, con<br />

conseguente intervento in caso di violazione<br />

sistematica dei diritti umani o “del diritto<br />

internazionale tout court, sopperendo ad<br />

una carenza istituzionale del sistema: così il<br />

Consiglio di Sicurezza può legittimamente<br />

ritenere, ad esempio, che costituiscano una<br />

minaccia alla pace la politica di apartheid o<br />

una situazione di guerra civile nella quale non<br />

è neppure identificabile uno Stato” 36 .<br />

LE CAUSE DEL “FALLIMENTO”<br />

Uno Stato arriva al fallimento per motivi<br />

storici, economici e sociali sia interni che<br />

esterni. Ma, soprattutto, è la concatenazione di<br />

questi fattori che porta al risultato di uno Stato<br />

“in dissesto”.<br />

Cause Endogene<br />

Il fattore umano è, di certo, uno degli elementi<br />

che più comunemente sono riscontrati quando<br />

si esaminano le cause del fallimento di una<br />

Nazione. Soprattutto in Africa si è spettatori di<br />

un totale fallimento della leadership, che diventa<br />

un ostacolo insormontabile allo sviluppo:<br />

sistemi politici a partito unico e dittature militari<br />

degenerano in tirannia, nelle quali “l’enorme<br />

concentrazione di potere politico ed economico<br />

nello Stato lo ha trasformato in Stato vampiro<br />

o illegale” 37 . Le istituzioni statali diventano<br />

quindi ostaggio di una ristretta cerchia di<br />

uomini che si arricchiscono, lasciando il resto<br />

della popolazione nella povertà, malnutrizione,<br />

vessazione ed, in generale, nella totale assenza<br />

dei beni che dovrebbero essere garantiti<br />

dal Governo. Lo Zimbabwe ne è uno degli<br />

esempi più efficaci, dove l’84enne dittatore<br />

Robert Mugabe infierisce sulla popolazione<br />

conducendo scellerate campagne come quella<br />

denominata murambatsvina (lavando la feccia),<br />

inaugurata nel 2005 per liberare più di 100.000<br />

abitazioni urbane; l’effetto che ne seguì fu<br />

devastante, con la morte di quasi la metà della<br />

popolazione lasciata senza riparo e cibo nelle<br />

campagne 38 .<br />

Le tirannie possono essere, a loro volta, il<br />

motivo principale – ma non l’unico – delle<br />

ribellioni condotte da gruppi etnici/religiosi/<br />

tribali che si oppongono al regime o all’elite<br />

al potere. Tali conflitti degenerano spesso<br />

in vere e proprie guerre interne che portano<br />

lo Stato al fallimento. L’origine di queste<br />

forme di ribellione è generalmente legata allo<br />

sfruttamento delle risorse che sono concentrate<br />

nella zona contesa 39 . Caso emblematico<br />

è il Sudan, sconquassato da movimenti<br />

indipendentisti sia nella regione meridionale<br />

che nel Darfur dove i pastori stanziali si sono<br />

ribellati al governo, egemonizzato da gruppi<br />

arabi, per far valere i propri diritti sulle poche<br />

risorse che interessano l’intera fascia sudanosaheliana.<br />

Cause Esogene<br />

Se il fallimento è determinato in buona parte<br />

da problematiche endogene, è opportuno<br />

sottolineare che spesso è rilevabile una<br />

componente esogena che favorisce, in qualche<br />

modo, il crollo di uno Stato.<br />

33 Daniel Thürer, op. cit..<br />

34 ONU, Supplement to an Agenda for Peace, New York, 1995, pag. 11.<br />

35 Commission on Global Governance, Our Global Neighbourhood, Oxford, 1995.<br />

36 Faraone Arturo, Cenni di Diritto Internazionale e appunti di Diritto Internazionale Marittimo, Venezia, ISMM, gennaio 2005,<br />

pag. 20.<br />

37 Ayittey George B.N., “L’aiuto che serve”, Aspenia nr. 29/2005, pag. 76.<br />

38 Johnson R.W., “Zimbabwe: the case for intervention” in Current History - Africa, maggio 2007,pag. 233.<br />

39 Per un elenco esaustivo di esempi, motivi ed effetti derivanti dalle contese tra gruppo egemone e ribelli per lo sfruttamento delle<br />

risorse naturali, Le Billon Philippe, Fuelling war: natural resources and armed conflict, Adelphi Paper nr. 373, New York, IISS,<br />

2005.


10<br />

É parere di molti analisti che il primo<br />

fattore esterno sia il colonialismo, durato<br />

sufficientemente da distruggere le strutture<br />

sociali tradizionali, ma non abbastanza da<br />

sostituirle con forme costituzionali occidentali<br />

ed una effettiva identità come nuova nazione.<br />

Il processo di decolonizzazione provocò<br />

“delle zone di anarchia, dei regimi personali o<br />

apertamente dittatoriali, risoltisi col tempo negli<br />

Stati falliti ai quali siamo oggi confrontati” 40 .<br />

Gruppi minoritari si sono trovati a governare con<br />

solo la parvenza di una struttura democratica,<br />

escludendo “la maggioranza etnica o razziale<br />

che è più consistente numericamente, più<br />

povera e molto spesso arrabbiata” 41 . Ancora<br />

una volta, lo Zimbabwe può essere citato quale<br />

esempio dell’effetto che la colonizzazione ha<br />

esercitato sull’evoluzione politica e sociale del<br />

paese dall’indipendenza ai giorni nostri.<br />

Ma più del colonialismo ha fatto il<br />

cosiddetto neo-colonialismo occidentale,<br />

ossia la globalizzazione culturale, politica<br />

ed economica, guidata dal “Washington<br />

Consensus 42 ” che racchiude una serie di riforme<br />

volte a modificare le strutture degli Stati 43 ,<br />

portando però i più deboli al fallimento. La<br />

globalizzazione, per quanto produca evidenti<br />

benefici, ha effetti diversi nel vasto panorama<br />

mondiale. Gli Stati maggiormente fragili<br />

rimangono esclusi 44 o, per dirla in altre parole,<br />

ancorché il mondo tenda all’interdipendenza,<br />

alcune nazioni si isolano, diventando instabili e<br />

sempre più povere 45 , con perdita progressiva di<br />

potere ed evidenti manifestazioni di difficoltà<br />

nel controllare i flussi commerciali, movimenti<br />

finanziari, comunicazioni e trasferimenti di<br />

tecnologia 46 .<br />

Il fallimento è anche una malattia contagiosa,<br />

quasi un cancro che non si ferma ai confini di<br />

uno Stato, ma coinvolge paesi limitrofi con già<br />

un humus favorevole che rende il collasso 47<br />

quasi inevitabile. Questo “effetto domino”<br />

è facilmente individuabile osservando la<br />

cartina del Failed State Index, nella quale si<br />

nota la contiguità di molti stati in condizioni<br />

critiche o disperate. Le migrazioni di massa<br />

per sfuggire dalla miseria di uno Stato già<br />

fallito nascondono anche gruppi di facinorosi<br />

tra le fila dei rifugiati. Il Sudan rappresenta,<br />

da questo punto, un efficace - ma non unico<br />

- esempio, avendo “esportato” verso il Ciad e<br />

verso la Repubblica del Centrafrica gruppi di<br />

ribelli che, spesso fomentati e finanziati dallo<br />

stesso governo di Khartoum, hanno indotto il<br />

fallimento negli Stati che li ospitano 48 .<br />

LA MINACCIA ALLA SICUREZZA<br />

INTERNAZIONALE<br />

Può uno Stato fallito, dove il governo non ha<br />

alcuna o poca sovranità, essere una minaccia<br />

per le più stabili Nazioni come quelle europee,<br />

gli Stati Uniti, etc.? La minaccia dai Paesi<br />

collassati di certo non è di tipo militare,<br />

essendo gran parte delle risorse economiche<br />

prosciugate dall’ingordigia dei dittatori e dalla<br />

loro necessità di pagare i fedeli pretoriani. Il<br />

40 Lenzi Guido, “Il Lume della Ragione”, Affari Esteri, nr. 151, pag. 551.<br />

41 Mufuruki Ali A., “L’Africa può farcela”, Aspenia nr. 29/2005, pag. 177.<br />

42 Liu Henry C. K., “World Order, failed States and Terrorism” del 03/01/05, www.atimes.com 11/01/08.<br />

43 Il termine Washington Consensus è stato coniato nel 1989 da John Williamson per indicare una serie di raccomandazioni fiscali<br />

ed economiche indirizzate da parte di istituzioni USA a governi con economie deboli. Con il tempo, è diventato un sinonimo di<br />

globalizzazione e, in senso negativo, di neo-colonialismo. www.cid.harvard.edu, 24/01/08.<br />

44 Hoffman Stanley, “Clash of Globalizations”, Foreign Affairs nr. 81/2002, pag. 108.<br />

45 Cho Young-Jin, ambasciatore della Repubblica di Corea in un’intervista del 12/12/06, “Terrorism, Failed States and Enlightened<br />

National Interest”, www.cceia.org, 15/01/08.<br />

46 Aravena Francisco Rojas, “La conferenza speciale sulla sicurezza delle Americhe: la difficile costruzione dei consensi”, in Gnosis<br />

nr. 27, www.sisde.it 16/01/08.<br />

47 In questo testo i termini “Stato collassato” e “Stato fallito” sono considerati sinonimi.<br />

48 “There goes the neighborhood”, Foreign Policy nr. 161/2007, pag. 62.


pericolo consiste invece in tutte quei fenomeni<br />

collaterali che nascono proprio dall’incapacità<br />

di controllare il proprio territorio. Come ha ben<br />

evidenziato l’ex-presidente USA Jimmy Carter,<br />

i failed States possono diventare rifugio per<br />

leader terroristici. Sono quindi il terreno fertile<br />

per traffico di droga, riciclaggio di denaro,<br />

la diffusione di malattie infettive, degrado<br />

incontrollato dell’ambiente, flusso di masse di<br />

rifugiati ed immigrazione clandestina 49 .<br />

Terrorismo transnazionale<br />

In questi giorni si sente spesso parlare di<br />

“terrorismo transnazionale”, ossia di una<br />

politica del terrore che non ha confini geografici<br />

e si sviluppa praticamente in tutte le latitudini e<br />

longitudini del globo. Questi gruppi terroristici<br />

– Al-Qaeda e movimenti affiliati in primis -<br />

trovano negli Stati falliti un (forse) involontario<br />

complice 50 , sfruttando il poco controllo sul<br />

territorio per stabilire “rifugi, basi operative,<br />

connessioni con la criminalità organizzata<br />

traffici illegali” 51 , oltre che reclutare adepti tra<br />

i giovani disperati senza lavoro e con scarsa<br />

educazione che trovano forza e sicurezza<br />

all’interno di organizzazioni terroristiche 52 .<br />

Immigrazione clandestina<br />

All’inizio del 1997 sullo schermo radar<br />

delle Unità della <strong>Marina</strong> <strong>Militare</strong> Italiana in<br />

pattugliamento in Adriatico si affollavano<br />

una miriade di piccole tracce, provenienti<br />

dalla costa albanese e dirette verso l’Italia.<br />

Era la rappresentazione della disperazione<br />

che ha spinto migliaia di persone a scappare<br />

da un paese sull’orlo del fallimento. Questo<br />

esempio è solo la prova tangibile che<br />

l’immigrazione clandestina da paesi collassati<br />

è un altro fenomeno collaterale che porta con<br />

sé l’intrinseca emergenza del trasferimento di<br />

individui pericolosi, non solo per un’eventuale<br />

connessione a reti terroristiche, ma anche<br />

per l’aumento della criminalità nel territorio<br />

ospitante. Difatti, il mancato controllo dei<br />

propri confini da parte della nazione fallita<br />

assieme all’assenza di una efficace politica di<br />

limitazione del fenomeno porta al decadimento<br />

di uno dei due filtri che dovrebbero, in qualche<br />

modo, limitare la migrazione clandestina 53 .<br />

Statistiche ufficiali confermano che l’Africa, in<br />

particolare quella sub-sahariana ove maggiore<br />

è la concentrazione di Stati falliti, è destinata<br />

a diventare la protagonista nei flussi migratori<br />

nel Mediterraneo, una delle principali vie di<br />

ingresso per l’Europa dove ogni anno entrano<br />

clandestinamente dalle 400 alle 500 mila<br />

persone 54 .<br />

Attività criminale<br />

Lo scarso controllo dello Stato sul proprio<br />

territorio ha, ovviamente, riflesso sulla<br />

possibilità di condurre attività criminali su vasta<br />

scala, dal riciclaggio di denaro, all’evasione<br />

fiscale e frodi. Le testimonianze di questa<br />

azione criminale, che è spesso connessa con<br />

i gruppi terroristici, sono emerse in Liberia,<br />

Sierra Leone, Congo ed Afghanistan 55 , giusto<br />

per citarne alcuni.<br />

I traffici illeciti attraverso le maglie larghe di<br />

uno Stato fallito sono la fonte di guadagno<br />

per le organizzazioni criminali: la produzione<br />

e contrabbando di armi, ad esempio, è<br />

particolarmente florida nell’africa subsahariana,<br />

con oltre 38 “aziende” riportate<br />

nell’ultimo Small Arms Survey 56 . Inoltre, le<br />

bande locali riescono ad avvalersi delle risorse<br />

naturali del territorio, quali diamanti, oro ed<br />

altri metalli preziosi nonché petrolio, spesso<br />

estraendoli in maniera clandestina.<br />

Il commercio di droga rimane uno dei traffici<br />

illeciti più proficui. Secondo il World Drug<br />

Report redatto dall’United Nations Office on<br />

Drugs and Crime (UNODC) 57 , il 92% dell’eroina<br />

proviene dall’Afghanistan, “leader” anche nella<br />

produzione di oppiacei. Per entrambe le droghe,<br />

il secondo produttore mondiale è il Myanmar.<br />

Ancora, il cannabis, diffuso in tutto il mondo,<br />

vede tra i principali produttori l’Afghanistan ed<br />

il Pakistan.<br />

La connessione tra coltivazione di narcotici e<br />

Stati falliti è quindi evidente: da una parte gli<br />

49 Carter Jimmy, “The human right to peace”, Global Agenda 2004.<br />

50 Questi paesi possono essere definiti come “sponsor passivi del Terrorismo”. Byman Daniel, “Passive Sponsor of Terrorism”, Survival<br />

vol. 47 nr. 4 inverno 2005-2006, pagg.117-144.<br />

51 Natalizia Gabriele, “Stati Uniti – una nuova mappa per il Pentagono” del 18/11/05, www.geopolitica.info, 16/01/08.<br />

52 “Preventing State Failure to Combat Terrorism”, Background Guide, Stanford Model United Nations Conference, 2004.<br />

53 L’altro filtro/barriera è costituito dal controllo dei confini da parte del Paese di accoglienza “attraverso una politica di controllo di:<br />

frontiere, permessi di soggiorno, concessione quote di ingresso e sistema di repressione e prevenzione, etc.”. Gnosis, “Clandestino<br />

& criminale pregiudizi e realtà”, www.sisde.it, 22/01/08.<br />

54 Desiderio Alfonso, “Se vai in cerca d’Eldorado”, Limes nr. 3/2004, pag 53.<br />

55 Rotberg Robert I., “Nation-State failure: a recurring phenomenon?”, intervento al workshop inaugurale per il NIC 2020 project,<br />

06/11/03, www.dni.org, 24/01/08.<br />

56 Stohl Rachel e Myerscough Rhea, “Sub-Saharan small arms: the damage continues”, Current History Africa, mag. 07, pag. 213.<br />

57 UNODC, World Drug Report 2007, giugno 2007, www.un.org, 17/01/08.<br />

<br />

11


12<br />

agricoltori che sono facilmente attratti dalla<br />

proficua coltivazione di papavero 58 e dall’altra<br />

le istituzioni indebolite ed impossibilitate<br />

nel controllare le attività illecite nel proprio<br />

territorio 59 .<br />

Influenzabilità da altri paesi<br />

“Gli stati falliti determinano una intensificazione<br />

delle rivalità regionali... il vuoto di potere<br />

permette alle potenze regionali di consolidare<br />

la loro influenza a spese di altri attori regionali”.<br />

Queste parole sono state pronunciate da Gamal<br />

A. G. Saltan 60 che ha individuato nell’Iran il<br />

maggiore beneficiario del fallimento degli Stati<br />

islamici, riuscendo a manipolare l’ideologia<br />

per i propri interessi nazionali 61 . La segnalazione<br />

del ricercatore egiziano evidenzia quindi<br />

un’ulteriore problema che deriva dal collasso<br />

degli Stati, ossia la loro facile influenzabilità<br />

da ideologie e politiche spesso estremiste e radicali<br />

che si contrappongono alla visione più<br />

moderata (e quindi con un fattore di penetrazione<br />

culturale inferiore) di altri paesi.<br />

Preoccupazione quest’ultima condivisa<br />

anche in ambito italiano dal Ministro degli<br />

Affari Esteri Massimo d’Alema che guarda<br />

con preoccupazione ad “un Medio Oriente<br />

fuori controllo, caratterizzato dal declino<br />

dell’influenza americana, dall’ascesa dell’Iran<br />

come nuova potenza «imperiale 62 »”.<br />

LE NAZIONI ED I FAILED STATES<br />

Gli Stati falliti sono quindi una problematica a<br />

livello globale. Il vuoto di potere che creano e le<br />

attività criminali che sono favorite dall’assenza<br />

dell’efficace esercizio di sovranità sul territorio<br />

preoccupano la Comunità Internazionale,<br />

costretta a chiedersi come affrontare ed<br />

eventualmente prevenire questi fenomeni<br />

statuali. Conseguentemente, il concetto<br />

di failed State entra nei concetti strategici<br />

elaborati dalle nazioni e dalle organizzazioni<br />

internazionali (NATO, UE, etc.), soprattutto<br />

sotto la voce “sicurezza”.<br />

Il punto di vista occidentale<br />

Come già evidenziato in premessa, gli Stati<br />

Uniti già all’indomani degli attentati del<br />

11 settembre 2001 avevano elaborato una<br />

strategia che tenesse conto degli stati in via<br />

di dissoluzione. Tuttavia il termine failed<br />

States viene indicato in maniera esplicita<br />

solo nell’analogo documento del 2006,<br />

all’interno del quale il Governo americano<br />

definisce una strategia di prevenzione nei<br />

confronti del fallimento, intervenendo nei<br />

conflitti regionali che potrebbero esserne la<br />

causa 63 . Dal documento emerge chiara la<br />

volontà della potenza egemone di agire anche<br />

in maniera indipendente sotto la bandiera<br />

della salvaguardia della sicurezza nazionale.<br />

Questa strategia si concretizza in tre livelli,<br />

più volte ribaditi nella loro essenza in tutto il<br />

documento:<br />

- prevenzione e risoluzione del conflitto, ossia<br />

a medio-lungo termine, la promozione della<br />

democrazia come unica vera organizzazione<br />

politica e sociale e a breve termine, l’assistenza<br />

ai paesi in crisi per evitarne il collasso;<br />

- intervento nel conflitto, come soluzione<br />

nel caso in cui sia minata la sicurezza degli<br />

interessi americani 64 ;<br />

- stabilizzazione e ricostruzione post conflitto,<br />

attraverso l’opera di un ufficio governativo ad<br />

hoc 65 responsabile del coordinamento tra le<br />

diverse agenzie e le Forze Armate.<br />

Anche l’Unione Europea vede negli Stati<br />

falliti una minaccia per la propria sicurezza 66 ,<br />

ancorché la sfera degli interessi europei sia<br />

maggiormente circoscritta rispetto a quella<br />

USA e fondamentalmente limitata ai paesi<br />

confinanti (inclusi le nazioni rivierasche del<br />

Mediterraneo ed il Medio Oriente) 67 .<br />

Tuttavia, è ben chiara la volontà dell’Europa<br />

di non agire di iniziativa ma di seguire le<br />

58 Jamal Arif, “Opium production resumes in Afghanistan” del 12/03/02, www.eurasianet.org, 21/01/08.<br />

59 Lambach Daniel, “The Perils of Weakness: Failed states and perceptions of threat in Europe and Australia”, intervento in occasione<br />

della conferenza New Security Agendas: European and Australian Perspectives, Menzies Centre for Australian Studies, King’s<br />

College, Londra 1-3 luglio 2004.<br />

60 Ricercatore presso Al-Ahram Center for Political and Strategic Studies del Cairo.<br />

61 Soltan Gamal A. G., “Stati falliti: una nuova minaccia per gli interessi nazionali dell’Egitto” del 08/03/07, www.arabnews.it,<br />

15/01/08.<br />

62 D’Alema Massimo, “Interessi e valori: la politica estera italiana”, Rivista Italianieuropei nr. 1/2007, www.massimodalema.it,<br />

21/01/08.<br />

63 The National Security Strategy of The United States of America, marzo 2006, pagg. 15-16.<br />

64 È interessante sottolineare come il Governo americano giudichi le Forze Armate della intera Comunità Internazionale non sufficientemente<br />

addestrate per questa tipologia di Peace Support Operations (PSO).<br />

65 Trattasi del Office of the Coordination for Reconstruction and Stabilization, creato il 15 agosto 2004.<br />

66 Consiglio dell’Unione Europea, Un’Europa Sicura in un Mondo Migliore – Strategia Europea in materia di Sicurezza, Bruxelles,<br />

12 dicembre 2003.<br />

67 A conferma di quanto detto, l’UE ha assunto la guida della missione SFOR in Bosnia il 2 dicembre 2004 (che ha assunto la denominazione<br />

di Operazione ALTHEA), sostituendo la NATO. Inoltre, all’inizio dell’anno <strong>2008</strong> l’UE ha iniziato un operazione in<br />

Ciad e Repubblica del Centrafrica per controllarne i confini con il Sudan.


decisioni delle Nazioni Unite, il cui Consiglio<br />

di Sicurezza “ha la responsabilità primaria<br />

del mantenimento della pace e della sicurezza<br />

internazionali”. Nella definizione della Politica<br />

Europea di Sicurezza e Difesa (PESD),<br />

l’UE ribadisce il proprio sostegno all’ONU,<br />

mantenendo un atteggiamento pro-attivo ed<br />

efficace 68 .<br />

Per quanto riguarda la NATO, l’ultimo concetto<br />

strategico, elaborato nel 1999, non tratta di<br />

Stati falliti in maniera esplicita, ma contempla<br />

comunque l’intervento per prevenzione di<br />

conflitti e gestione delle crisi ancorché non<br />

previste dall’Articolo 5. Detto intervento deve<br />

comunque essere motivato dalla “salvaguardia<br />

della pace, prevenzione della guerra e<br />

rafforzamento della sicurezza e della stabilità” 69 .<br />

Per soddisfare questa esigenza, la NATO ha<br />

dato la propria disponibilità sia per effettuare<br />

Peace Support Operations (PSO) sotto mandato<br />

dell’ONU o dell’OSCE che per contribuire alle<br />

operazioni a guida UE in sostegno alla Politica<br />

Estera e di Sicurezza Comune (PESC).<br />

Anche l’Italia si è resa disponibile a fornire<br />

il proprio apporto alle organizzazioni<br />

internazionali (ONU, NATO, UE, etc.)<br />

“mediante la partecipazione ad operazioni<br />

di prevenzione e gestione delle crisi, al<br />

fine di garantire la pace, la sicurezza, la<br />

stabilità e la legalità internazionale, nonché<br />

l’affermazione dei diritti fondamentali<br />

dell’uomo” 70 . L’azione italiana è mirata<br />

alla salvaguardia degli interessi vitali e/o<br />

strategici nazionali 71 anche in alcune aree<br />

dove sono presenti Stati che non sono in<br />

grado di “prevenire l’utilizzazione del<br />

proprio territorio, delle proprie risorse<br />

economiche e strutture sociali da<br />

parte di organizzazioni terroristiche o<br />

criminali” 72 .<br />

L’approccio delle maggiori potenze<br />

orientali<br />

Se gli Stati Uniti, la NATO e l’Europa<br />

guardano agli Stati falliti come una<br />

potenziale minaccia per la propria sicurezza,<br />

è diverso l’atteggiamento delle due più grandi<br />

Potenze del mondo orientale.<br />

La Russia sta cercando di riaffermarsi a<br />

livello mondiale dopo la sofferta dissoluzione<br />

dell’URSS. Tuttavia, in relazione alle esigenze<br />

di sicurezza interne ed alla sempre più crescente<br />

pressione da Cina ed Europa, la politica estera<br />

di Putin è orientata maggiormente ad esercitare<br />

una certa influenza sui paesi che una volta erano<br />

parte dell’Unione Sovietica, assicurandosi una<br />

cintura di sicurezza attorno ad i propri confini.<br />

Lo sguardo della Russia non va oltre il Medio<br />

Oriente, dove comunque la policy è volta<br />

al mantenimento dello status quo 73 . Nessun<br />

impegno, quindi, nei confronti dei failed States<br />

che, al momento non rientrano nell’agenda<br />

politica del Presidente russo.<br />

Dal canto suo, la Cina ha indirizzato la strategia<br />

globale all’allargamento della propria sfera di<br />

influenza in tutto il globo. I “mandarini” vedono<br />

negli Stati falliti dei potenziali clienti con cui<br />

intrecciare rapporti soprattutto economici. Allo<br />

stato attuale, la Cina è prossima a superare<br />

la Francia e comunque dietro gli Stati Uniti<br />

nel numero di scambi commerciali in Africa.<br />

Sudan, Etiopia, Nigeria, Senegal, Zimbabwe<br />

sono solo alcune delle nazioni legate ai cinesi<br />

da interessi economici 74 . Proprio per i forti<br />

68 Un’Europa Sicura in un Mondo Migliore – Strategia Europea in materia di Sicurezza, op. cit., pagg. 9-11.<br />

69 Nuovo Concetto Strategico dell’Alleanza Atlantica, Washington D.C., aprile 1999.<br />

70 Stato Maggiore della Difesa, Il Concetto Strategico del Capo di Stato Maggiore della Difesa, aprile 2005, pag. 16.<br />

71 L’area d’interesse nazionale è individuata nel: territorio nazionale ed aree contigue, area del Trattato Atlantico, area dell’Unione<br />

Europea, Balcani, Europa Orientale, area caucasica, Africa Settentrionale e Corno d’Africa, vicino e medio Oriente e Golfo<br />

Persico, nonché l’intero continente africano limitatamente alla gestione di crisi a bassa e media entità. Concetto Strategico, pagg.<br />

26-27.<br />

72 Concetto Strategico, pagg. 23-24.<br />

73 Rumer Eugene B., Russian foreign policy beyond Putin – Adelphi paper nr. 390, New York, IISS, 2007, pag 29.<br />

<br />

13


1<br />

legami in Sudan, la Cina<br />

ha inizialmente opposto<br />

resistenza alla risoluzione<br />

del Consiglio di Sicurezza,<br />

per poi approvarla avendo<br />

“pattuito” l’invio di circa<br />

315 caschi blu cinesi<br />

con le forze UNAMID<br />

(United Nations - African<br />

Union Mission in Darfur)<br />

che saranno stanziate nella<br />

martoriata zona del Darfur. Queste<br />

relazioni sono talmente salde e<br />

consolidate che il Presidente dello<br />

Zimbabwe, Mugabe, ha affermato<br />

nel maggio 2005 che “ci siamo<br />

voltati verso est dove il sole sorge,<br />

e dato le spalle all’ovest, dove il sole<br />

tramonta”, mentre in Eritrea la Cina è<br />

considerata il partner commerciale più<br />

affidabile 75 .<br />

CONCLUSIONE<br />

La cronaca di questi giorni è affollata di<br />

notizie allarmanti e spesso tragiche che<br />

provengono dalla Somalia, dal Sudan, dal<br />

Ciad, dall’Iraq e da tutti gli altri Paesi che<br />

ricadono sotto la definizione di failed States.<br />

Ma quando e come la Comunità Internazionale<br />

deve intervenire in soccorso di uno Stato fallito<br />

ovvero potenzialmente tale?<br />

Non esiste una ricetta universale per il “mal<br />

da fallimento”, ed ogni situazione merita<br />

un’analisi circostanziata ed attenta delle cause,<br />

delle forze e degli interessi in gioco in quella<br />

regione. Di sicuro, è necessario intervenire<br />

sia per fermare l’emorragia umanitaria che<br />

si consuma quotidianamente e sia per<br />

arginare i devastanti fenomeni collaterali<br />

che crescono in seno ad uno Stato fallito<br />

e che si allargano a macchia d’olio<br />

oltre i suoi confini. Ed è opportuno,<br />

nonché economicamente più conveniente,<br />

intervenire prima che uno Stato collassi.<br />

Al riguardo, le Nazioni Unite dovrebbero<br />

rappresentare l’unico organo deputato ad<br />

organizzare e gestire un intervento in un<br />

Paese fallito, ma sia l’Assemblea Generale<br />

che il Consiglio di Sicurezza hanno più<br />

volte evidenziato difficoltà interne che<br />

hanno rallentato il processo decisionale.<br />

Difficoltà magari dettate da divergenti<br />

punti di vista dei Paesi membri che<br />

vedono uno Stato fallito come un ottimo<br />

cliente piuttosto che come un paziente<br />

da curare. Così, mentre la complessa<br />

macchina dell’ONU fatica a<br />

muoversi, l’Unione Africana non


sembra in grado di assicurare la necessaria stabilità<br />

nei paesi dove è intervenuta. I primi passi dovrebbero<br />

allora arrivare dalle grandi Potenze, Europa e Stati<br />

Uniti in primis, attraverso quel triage 76 che già nel<br />

passato è stato efficace in zone come i Balcani o<br />

alcuni paesi del Medio Oriente 77 ossia:<br />

- supporto alle Nazioni Unite come state-builder e<br />

peacekeeper di prima mano, con l’invio di personale<br />

sotto egida ONU piuttosto che in coalizioni ad hoc;<br />

- sviluppo di maggiori capacità e conoscenze in Crisis<br />

Response Operations (CRO), oggigiorno più attuali e<br />

necessarie della semplice difesa dei confini;<br />

- maggiore cooperazione tra organizzazioni<br />

multinazionali, quali NATO, UE, UA, ONU, etc. per<br />

evitare inerzia e perdita di tempo prezioso.<br />

È quindi di fondamentale importanza che il Sistema<br />

Internazionale, sempre in movimento per la sua<br />

continua ricerca di un equilibrio 78 , ora reagisca<br />

ogniqualvolta uno Stato passi nella condizione<br />

di “fallito”, creando un pericoloso vuoto che<br />

coinvolge l’intera Comunità Internazionale. Se prima<br />

l’attenzione dei Potenti era rivolta a chi accumulava<br />

il potere, ora è la sua assenza a preoccupare.<br />

74 Nel 2006, la Cina ha stipulato contratti<br />

bilaterali per un totale di 55.5<br />

miliardi di dollari, soprattutto per<br />

fornitura di petrolio in cambio di<br />

armi e costruzione di sovrastrutture<br />

( “China’s investments in Africa”,<br />

Strategic Survey 2007, pagg.<br />

<strong>XVIII</strong>-XIX).<br />

75 Vines Alex, “China in Africa: a<br />

Mixed Blessing?”, in Current History<br />

– Africa, maggio 2007, pagg.<br />

213-215.<br />

76 Allin Dana H., Andreani Gilles,<br />

Errera Philippe e Samore Gary,<br />

Repairing the Damage - Possibilities<br />

and limits of transatlantic<br />

consensus – Adelphi paper nr. 389,<br />

New York, IISS, 2007, pagg. 77-<br />

83.<br />

77 L’intervento in Libano del 2006 è<br />

sicuramente il più recente ed efficace<br />

esempio della prontezza e<br />

della disponibilità evidenziata dagli<br />

Stati europei in supporto alle<br />

Nazioni Unite.<br />

78 Kaplan Morton A., System and<br />

process in international politics,<br />

Colchester, ECPR Press, 2005.<br />

<br />

1


1<br />

L’ITALIA, LA SOMALIA<br />

E IL CINDOTERRANEO<br />

Tenente di Vascello<br />

Andrea QUONDAMATTEO<br />

Il “Cindoterraneo” 1 riassume un concetto<br />

prettamente italiano, coniato per la prima volta<br />

da Nomisma nel 2006. E’ così definita una<br />

nuova area di proiezione di interessi economici<br />

e politici, che si spinge fino a India e Cina.<br />

Il Cindoterraneo supera per ambizione ed<br />

attualità quello di Mediterraneo allargato, che<br />

ha tratto ispirazione, presso l’Istituto di Guerra<br />

Marittima di Livorno, dalle esperienze della<br />

<strong>Marina</strong> <strong>Militare</strong> negli anni ‘90 nel Mar Nero,<br />

Mar Rosso, Mare Arabico e Golfo Persico.<br />

Per comprendere come si sia arrivati a tale<br />

speculazione è necessario risalire al 1956, anno<br />

della crisi di Suez. Questo evento, oltre a segnare<br />

la fine dell’Impero Britannico e a sancire il<br />

riconoscimento del ruolo di superpotenza<br />

esclusivamente a USA ed URSS, determinò le<br />

condizioni per l’affermazione di nuovi interessi<br />

economici che avrebbero segnato l’ascesa di<br />

India e Cina.<br />

Parlare oggi di Cindoterraneo significa<br />

riconoscere l’esistenza di un importante flusso<br />

di merci che da Cina ed India, attraverso Bab el<br />

Mandeb e Suez, è diretto in Europa. La storia<br />

insegna come l’esistenza di un flusso di tale<br />

portata sia capace di orientare il senso di un<br />

mare: in primis dal punto di vista commerciale,<br />

in secondo luogo da quello del potere navale (la<br />

presenza delle flotte). La realtà del commercio<br />

globale ha superato il vecchio concetto di<br />

Mediterraneo allargato, in quanto incapace<br />

d’esprimere la valenza oceanica del suo ruolo di<br />

terminale del commercio con l’Asia. Il termine<br />

di Cindoterraneo promuove il “Mare di Mezzo”<br />

da bacino strategicamente limitato a trampolino<br />

di lancio verso gli oceani Indiano e Pacifico.<br />

Il Mediterraneo è il mare che, attraverso il<br />

Canale di Suez (il più importante canale del<br />

mondo), rappresenta il terminale di arterie<br />

del commercio asiatico verso l’Europa dai<br />

paesi del Golfo, da India, Cina, ASEAN 2 ,<br />

Giappone e Corea del Sud. I dati del commercio<br />

internazionale, evidenziano infatti come il<br />

commercio dell’Europa con l’Asia sia in costante<br />

aumento (con tassi di crescita a due cifre), e di<br />

recente abbia superato anche l’interscambio<br />

complessivo con gli Stati Uniti.<br />

Questo dato impone una riflessione globale che<br />

porta a tirare alcune significative conclusioni<br />

per l’Europa e l’Italia.<br />

1. Cfr. Alessandro Politi, Visione d’insieme 2006. Oceano Atlantico – Exit Mediterraneo, enter Cindoterraneo, in Nomos & Khaos<br />

2006.<br />

2. ASEAN (Association of South East Asian Nations), è l’associazione regionale del Sudest asiatico, un’organizzazione politica,<br />

economica e culturale di nazioni situate nel Sud-est asiatico. È stata fondata nel 1967 con lo scopo principale di promuovere la<br />

cooperazione e l’assistenza reciproca fra gli stati membri per accelerare il progresso economico e aumentare la stabilità della<br />

regione. Vi fanno parte Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Vietnam, Laos, Birmania, Cambogia. Cfr.<br />

http://it.wikipedia.org/wiki/ASEAN.


il Cindotterraneo<br />

L’Europa è il bacino d’utenza principale del<br />

nuovo mercato. Urge, infatti, una presa di<br />

coscienza da parte della Comunità Europea (CE)<br />

della mancata definizione di un programma<br />

di politica estera nei confronti di tre attori<br />

fondamentali: Cina, USA e Russia. Un’altra<br />

priorità che i paesi europei devono darsi al più<br />

presto, consiste nella regolazione dei propri<br />

bilanci, alla luce del principio che conta solo<br />

chi è creditore, mentre chi accresce i suoi debiti<br />

è destinato al declino. Data la situazione di<br />

indebitamento pubblico sofferta dalle principali<br />

nazioni Europee, la situazione è allarmante e la<br />

UE da gigante economico rischia di divenire nel<br />

medio termine un’alleanza di stati poveri, tenuti<br />

al guinzaglio dal ricco Oriente.<br />

Nell’ottica del concetto di Cindoterraneo<br />

l’estromissione italiana dalla scena somala, a<br />

seguito del fallimento della missione UNOSOM<br />

II, ha significato per l’Italia la perdita di una<br />

capacità strategica in Oceano Indiano. E’ questo<br />

infatti l’Oceano che oggi vanta il primato su<br />

tutti gli altri mari. Ambire ad una presenza in<br />

tale area significa poter disporre di due elementi<br />

essenziali: accessibilità a punti d’appoggio<br />

in Oceano Indiano e dotazione di una flotta<br />

oceanica, che deve quindi possedere la portaerei<br />

e le cui fregate siano di adeguato dislocamento<br />

(circa 6000 tons).<br />

Secondo tale prospettiva la scelta del Cavour<br />

e delle FREMM 3 rappresenta per l’Italia il<br />

compromesso con cui dare attuazione alle<br />

auspicabili ambizioni future, in politica estera,<br />

del prossimo governo.<br />

In attesa che l’Europa dia seguito ad iniziative<br />

concrete nella definizione dei rapporti<br />

commerciali con la Cina, l’Italia non può più<br />

attendere. E’ indispensabile compiere una svolta<br />

in politica estera e concentrare gli interessi del<br />

paese nel sud-est asiatico.<br />

Per ciò che attiene la politica estera e di<br />

sicurezza italiana è necessario confrontarsi<br />

con il nuovissimo concetto di China-India-<br />

Middle East-Africa (CH.I.M.E.A.), ovvero la<br />

realizzazione di una nuova sinergia tra quattro<br />

attori fondamentali: Cina, India, Medio Oriente<br />

ed Africa. Tale sinergia nasce dalla ricerca di<br />

know-how, mercati, bisogni energetici di Cina<br />

ed India, di soldi da parte del Medio Oriente,<br />

di opportunità e capitali d’investimento per<br />

lo sfruttamento delle abbondanti riserve di<br />

materie prime in Africa. La sua dimensione<br />

3. FREMM (Dall’Italiano Fregata Europea Multi-Missione o dal Francese Frégate Multi-Mission) è la sigla che identifica una nuova<br />

generazione di fregate che nasceranno come progetto congiunto tra Italia e Francia.<br />

<br />

1


1<br />

globale e la sua formidabile incidenza sugli<br />

sviluppi futuri dei flussi economici superano il<br />

concetto di Cindoterraneo. Purtroppo il Chimea<br />

non si preoccupa dell’incapacità dell’Africa<br />

neocolonizzata ad autosostenersi ed essere<br />

indipendente. Non esiste un interesse da parte<br />

di Cina, India e Nazioni arabe mediorientali<br />

in un’Africa stabile e pacifica e ciò rappresenta<br />

un grosso rischio per l’Italia e l’Europa. I costi<br />

diretti e indiretti di un’Africa che non sta in piedi<br />

verrebbero infatti addossati alle regioni europee<br />

del bacino mediterraneo.<br />

Per ciò che concerne la politica economica,<br />

l’Italia riveste il ruolo di hub terminale del<br />

mercato cinese in Mediterraneo, con tutti i<br />

pro e contro che questo rapporto di inferiorità<br />

comporta. Fintanto che il mercato è in ascesa<br />

i problemi non si pongono, ma nel momento in<br />

cui si dovessero verificare defaillances a monte,<br />

queste finirebbero per investire automaticamente<br />

chi ne è a valle con un effetto domino. Per fare<br />

un esempio, se le linee di commercio dovessero<br />

cambiare e Bab el Mandeb o Suez dovessero vivere<br />

una nuova crisi, l’Italia finirebbe per ripetere le<br />

sorti di Venezia, rimanendo tagliata fuori dalle<br />

nuove sloc (sea lane of communication).<br />

Alla luce di quanto ragionato, l’Italia deve<br />

profondere nel breve termine il massimo<br />

sforzo per aumentare la ricettività del porto<br />

di Gioia Tauro 4 e l’integrazione del suddetto<br />

scalo marittimo con il sistema dei trasporti<br />

terrestri (rete ferroviaria). Penalizzare tale<br />

hub commerciale significherebbe soccombere<br />

alla concorrenza di Malta e ai porti spagnoli<br />

emergenti, perdendo competività.<br />

L’Italia e Malta posseggono i principali porti<br />

per container in Mediterraneo in quanto<br />

occupano una posizione baricentrica e risultano<br />

potenzialmente ben inserite anche nelle rotte<br />

di traffico Sud-Nord intra ed extraeuropee. La<br />

lezione che si deve trarre da queste riflessioni<br />

consiste nel fatto che l’Italia non può più<br />

accontentarsi di un concetto di Mediterraneo<br />

Allargato.<br />

Ma non si registra solo un problema di natura<br />

infrastrutturale nazionale. La Russia di Putin<br />

sta offrendo a Cina e Giappone l’opportunità di<br />

avviare una joint venture per la realizzazione<br />

di una nuova transiberiana. Questa ipotesi, se<br />

dovesse trasformarsi in realtà, sottrarrebbe<br />

in maniera fatale traffico pregiato alle rotte<br />

commerciali in questione. La conseguenza<br />

diretta consiste nel fatto che tale volume di<br />

merci non transiterebbe più in Italia e ciò<br />

sancirebbe la perdita di un mercato vitale.<br />

LA MARINA MILITARE E<br />

LE AREE DI PROIEZIONE<br />

Volendo fare un punto della situazione della<br />

flotta della <strong>Marina</strong> <strong>Militare</strong> è possibile ricorrere<br />

al grafico in figura 1:<br />

- in ascisse sono riportate le tre aree di<br />

proiezione di quelli che sono e di quelli che<br />

potrebbero essere in futuro gli interessi policoeconomici<br />

dell’Italia (Mediterraneo Allargato<br />

- Med. Al, Cindoterraneo e CHIMEA);<br />

- in ordinata è riportata l’entità della flotta<br />

italiana, in termini del dispositivo d’altura<br />

e di proiezione di capacità sul mare e dal<br />

mare che la caratterizzano. In tal senso<br />

sono rappresentati i salti di qualità, su scala<br />

lineare, che l’entrata in linea del Cavour, del<br />

Joint Strike Fighter, delle FREMM (fregate<br />

oceaniche da 6000 tons) e dell’EH101<br />

rappresentano nel medio termine, ovvero il<br />

conseguimento della sostenibilità e credibilità<br />

della presenza della Bandiera nazionale<br />

nel contesto del Cindoterraneo. L’eventuale<br />

scelta della dotazione di una vera portaerei è<br />

considerata quale semplice ipotesi di studio,<br />

ma potrebbe rivelarsi la scelta ad hoc quale<br />

chiave d’accesso dell’Italia al CHIMEA;<br />

- la curva disegnata rappresenta l’adeguamento<br />

del dispositivo della <strong>Marina</strong> <strong>Militare</strong> in<br />

funzione dei livelli di ambizione di politica<br />

estera ed economica del paese (riportati in<br />

ascissa);<br />

- la stella individua lo stato attuale della<br />

flotta italiana, che, grazie al Garibaldi e<br />

all’AV8B (Garibaldi Air Wing, GAW), alle<br />

fregate classe Maestrale e alla connotazione<br />

expeditionary del dispositivo d’altura ha<br />

consentito l’affermazione degli interessi<br />

nazionali in Mediterraneo, Mar Nero, Mar<br />

Rosso, Mar Arabico, Golfo d’Aden, Golfo<br />

d’Oman, Golfo Persico.<br />

4. “La disponibilità di grandi spazi a ridosso delle banchine portuali, l’ampiezza degli accosti e la profondità dei fondali, riferiti alle<br />

dimensioni degli altri porti nazionali, hanno aperto la strada al nuovo assetto funzionale del porto.La prevalenza della tipologia<br />

del traffico container che si è affermata alla fine degli anni ’80 ed il particolare favore conferitogli dalla sua posizione geografica<br />

mediana lungo la direttrice Suez – Gibilterra e baricentrica nel mar Mediterraneo, ne hanno orientato la futura caratterizzazione<br />

quale scalo di transhipment di contenitori e merci unitizzate in genere. L’attività operativa ha avuto inizio nel 1995 e si è sviluppata<br />

a ritmo elevato fino a far assumere allo scalo, nel giro di poco tempo, il ruolo leader nel settore del transhipment che ad oggi<br />

lo contraddistingue suscitando il primario interesse delle maggiori compagnie di navigazione”. Cfr Autorità Portuale di Gioia<br />

Tauro, il piano operativo portuale <strong>2008</strong>-2010, http://www.portodigioiatauro.it/ 1701<strong>2008</strong>/POT<strong>2008</strong>2010.pdf.


Ricorrendo all’esemplificazione<br />

grafica del concetto riguardante<br />

l’impiego delle marine (fig. 2),<br />

operandone una rielaborazione<br />

funzionale ai fini della trattazione<br />

(fig. 3), si può concludere che il<br />

Cavour ed in genere l’intera opera<br />

di rinnovamento dello strumento<br />

aereonavale della <strong>Marina</strong> <strong>Militare</strong><br />

comporterà il potenziamento di<br />

quelle capacità che rientrano nella<br />

definizione del ruolo diplomatico e<br />

prettamente militare di una marina.<br />

In fig. 4 è rappresentato graficamente<br />

tale concetto.<br />

Figura 2 - ruolo delle marine<br />

Figura 1 - modello rappresentativo dell’adeguamento dello strumento navale<br />

al livello di ambizione<br />

Figura 4 - schema sinottico riassuntivo<br />

Figura 3 - rielaborazione modello<br />

“ruolo delle marine”<br />

<br />

1


20<br />

SCHEDA SUI FLUSSI<br />

DI CONTAINERS NEL<br />

PORTO DI GIOIA TAURO<br />

Il terminal container di Gioia Tauro (MCT)<br />

è il più grande terminal di transhipment<br />

nel Mediterraneo. Transhipment significa<br />

trasbordare i contenitori da navi oceaniche<br />

a navi più piccole che smistano il traffico nei<br />

porti del Mediterraneo.<br />

I dati analizzati in questa scheda riguardano<br />

le movimentazione di container pieni nel<br />

terminal di Gioia Tauro, in relazione al<br />

periodo che va dal maggio 2005 all’aprile<br />

2006, per un orizzonte temporale di analisi<br />

composizione traFFico container pieni<br />

In generale è possibile effettuare una<br />

classificazione dei flussi scomponendoli<br />

in due categorie, quella dei container in<br />

transhipment e quella relativa ai container<br />

direct. Nella prima classe rientrano<br />

contenitori che compiono trasbordo da una<br />

nave di dimensioni elevate ad una più piccola,<br />

adatta alla navigazione nel Mediterraneo,<br />

detta feeder, e contenitori che, invece fanno<br />

il percorso inverso; alla seconda classe<br />

appartengono, contenitori che, una volta<br />

giunti al terminal, sono collegati direttamente<br />

suddivisione traffico di transhipment<br />

di dodici mesi. La completezza dei dati in<br />

riferimento ad origine e destinazione è<br />

prossima al 100%, mentre quella riferita alla<br />

tipologia di merce è del 97%. Nel periodo<br />

di analisi scelto, il terminal marittimo di<br />

Gioia Tauro è stato attraversato da 918.500<br />

contenitori, di cui il 77,8%, ovvero 716.749,<br />

sono pieni. Ai fini dell’analisi sono presi<br />

in considerazione unicamente questi<br />

ultimi container, poiché, logicamente, essi<br />

contengono merci. Nel grafico sottostante è<br />

evidenziata la composizione del traffico di<br />

container pieni.<br />

scomposizione traFFico di contanier<br />

con la meta via terra (camion o ferrovia) e<br />

contenitori che compiono il transito opposto.<br />

Lo schema in figura mostra la suddivisione<br />

appena descritta.<br />

Concentriamo l’attenzione sul volume di<br />

transhipment, pari ai 662.241 container<br />

pieni. Le movimentazioni di container<br />

appartenenti alla categoria intramed sono<br />

90.520 e quelle catalogabili come extramed<br />

ammontano a 571.721. Il grafico che segue<br />

sintetizza tali informazioni.


Una volta effettuata tale suddivisione, i<br />

flussi sono raggruppati per appartenenza<br />

geografica delle origini/destinazioni. Occorre<br />

precisare che ogni container di transhipment<br />

genera due movimenti nel terminal, uno<br />

di sbarco e uno di imbarco, a cui sono<br />

associati rispettivamente una origine (alla<br />

“move” di sbarco) ed una destinazione (alla<br />

“move” di imbarco), rispetto al terminal di<br />

Gioia. Nel caso di flussi extramed, ciascun<br />

container è valutato una volta in relazione<br />

alla sua origine ed una seconda in relazione<br />

alla sua destinazione, considerando Gioia<br />

Tauro il porto intermedio fra le due. In<br />

tal modo il totale dei movimenti generati<br />

dai contenitori è esattamente il doppio dei<br />

container stessi. Per la categoria intramed<br />

le movimentazioni sono studiate in maniera<br />

globale senza distinguere imbarchi e sbarchi.<br />

Nelle tre figure che seguono è raffigurata la<br />

distribuzione della classe extramed, mentre<br />

nella quarta è indicata la composizione<br />

geografica della categoria intramed.<br />

<br />

21


22<br />

LA SOMALIA E LO STRETTO<br />

DI BAB EL MANDEB:<br />

RISCHI PER L’ITALIA<br />

Bab el Mandeb è uno stretto internazionale,<br />

localizzato tra il Corno d’Africa e il Medio<br />

Oriente. Tale passaggio rappresenta un<br />

collegamento strategico tra il Mediterraneo<br />

e l’Oceano Indiano.Situato<br />

tra Yemen,<br />

Djbouti ed Eritrea,<br />

presenta<br />

u n’a mpiezza<br />

massima di 18<br />

nm e mette in<br />

comunicazione<br />

il Mar rosso<br />

con il Golfo di<br />

Aden.<br />

L’IMO ha approvato<br />

uno<br />

schema di separazione<br />

del<br />

traffico che individua<br />

due canali,<br />

ampi rispettivamente 2 nm, attraverso<br />

i quali viene disciplinata la navigazione dal<br />

Golfo di Aden al Mar Rosso e viceversa.<br />

Le esportazioni di greggio, provenienti<br />

dal Golfo Persico e destinate in occidente,<br />

devono transitare attraverso questo stretto<br />

prima di raggiungere<br />

il Canale di Suez.<br />

Nel 2007 3.3 milioni<br />

di barili di petrolio al<br />

giorno (bbls/d, barrels<br />

per day) hanno<br />

attraversato Bab el<br />

Mandeb per essere<br />

raffinati in Europa,<br />

Stati Uniti ed Asia:<br />

di questi ben 2.1 milioni<br />

bbls/d sono stati<br />

trasportati dai vettori<br />

con direttrice nord.<br />

Grande è l’importanza<br />

strategica di questo<br />

stretto, in quanto,<br />

come può facilmente<br />

intuirsi, un suo blocco<br />

determinerebbe<br />

l’interruzione dei collegamenti<br />

marittimi<br />

che transitano per il<br />

5. La Crisi di Suez, cfr http://it.wikipedia.org/wiki/Crisi_di_Suez e http://news.bbc.co.uk.<br />

Canale di Suez.<br />

Un precedente di tale scenario esiste già<br />

e risale alla crisi di Suez. Conoscere 5 le<br />

dinamiche e gli interessi che entrarono in<br />

gioco in questa circostanza è fondamentale<br />

per i fini che si prefigge la trattazione.<br />

Il 26 luglio 1956, l’Egitto, guidato dal Presidente<br />

Gamal ‘Abd al-Naser, annunciò la<br />

nazionalizzazione del Canale di Suez. In<br />

quel periodo le banche e le imprese britanniche<br />

detenevano una quota pari al 44%<br />

del volume totale dei traffici lungo la vitale<br />

rotta commerciale d’oriente. Nei mesi che<br />

seguirono la nazionalizzazione del canale<br />

(o meglio della compagnia che lo gestiva,<br />

la Compagnie universelle du canal maritime<br />

de Suez), si svolse un incontro segreto<br />

tra Israele, Francia e Regno Unito a Sèvres,<br />

fuori Parigi. Tutte le parti concordarono<br />

che Israele doveva invadere e che britannici<br />

e francesi sarebbero intervenuti successivamente,<br />

istruendo gli eserciti egiziano e<br />

israeliano a ritirare le proprie forze ad una<br />

distanza di 10 miglia dai lati del canale, e<br />

piazzando quindi una forza d’intervento anglo-francese<br />

nella zona del canale attorno a<br />

Porto Said. Questo piano venne chiamato<br />

Operazione Musketeer. L’operazione per<br />

prendere il canale ebbe molto successo dal<br />

punto di vista militare, ma fu un disastro<br />

politico a causa di fattori esterni. La crisi<br />

si concluse quando l’URSS minacciò di


intervenire al fianco dell’Egitto e gli Stati<br />

Uniti, temendo l’allargamento del conflitto,<br />

costrinsero britannici, francesi ed israeliani<br />

al ritiro: l’amministrazione Eisenhower costrinse<br />

Regno Unito e Francia ad un cessate<br />

il fuoco, arrivando addirittura a minacciare<br />

l’Inghilterra a vendere le riserve statunitensi<br />

della sterlina, provocando così il crollo<br />

della valuta britannica. Prima del ritiro<br />

delle forze d’occupazione Lester Pearson,<br />

ministro degli esteri canadese, si era presentato<br />

all’ONU suggerendo la creazione di<br />

una Forza di emergenza delle Nazioni Unite<br />

(UNEF) a Suez per “mantenere i confini<br />

in pace mentre si cercava un accordo politico”.<br />

Le nazioni Unite accettarono entusiasticamente<br />

e la forza venne inviata, migliorando<br />

enormemente le condizioni dell’area.<br />

Lester Pearson venne premiato con il Nobel<br />

per la pace nel 1957 per i suoi sforzi. La forza<br />

di emergenza dell’ONU fu una creazione<br />

di Pearson, ed egli è considerato il padre<br />

del moderno concetto di “peacekeeping”.<br />

A dimostrazione dei rischi cui possa essere<br />

soggetta la navigazione in queste acque, non<br />

va dimenticato che nel 1971 la petroliera liberiana<br />

Coral Sea, noleggiata da Israele per<br />

trasportare petrolio da Eilat, fu colpita da<br />

due missili e che nel 1972 un cacciatorpediniere<br />

francese fu bombardato dall’isola yemenita<br />

di Perim (posta al centro dello Stretto).<br />

Ancora, nel 2000 l’USS Cole durante<br />

una sosta operativa nel porto di Aden, subì<br />

un attacco terroristico riportando 17 vitti-<br />

me tra il suo equipaggio.<br />

Nell’ottobre 2002, infine,<br />

il Limburg, una VLCC<br />

(Very Large Crude Carrier)<br />

francese, noleggiata<br />

dalla compagnia Malese<br />

Petronas, subì anch’essa<br />

un attentato esplosivo in<br />

vicinanza della costa dello<br />

Yemen.<br />

Dai dati sopra riportati si<br />

evince come queste acque<br />

si prestino a celare insidie<br />

e pericoli per la libertà<br />

dei traffici via mare.<br />

E’ evidente come in mare<br />

le vie di comunicazione<br />

non possano andar distrutte<br />

nè interrotte, cosa<br />

che invece accade sulla<br />

terraferma. Voler interrompere<br />

una linea di comunicazione<br />

marittima<br />

significa distruggere il<br />

vettore, la piattaforma.<br />

Un escalation dell’instabilità dell’area, un<br />

deterioramento delle condizioni di sicurezza,<br />

ed un innalzamento della minaccia<br />

terroristica (es. verificarsi in successione<br />

di attentati diretti contro unità mercantili)<br />

porterebbero sicuramente a considerare il<br />

passaggio dello stretto in parola non praticabile.<br />

La chiusura di un tale chokepoint<br />

impedirebbe alle petroliere provenienti<br />

dal Golfo Persico di raggiungere l’accesso<br />

al Mediterraneo attraverso Suez. Se si<br />

dovesse verificare ciò, allora le petroliere<br />

e i porta containers sarebbero costretti a<br />

dover circumnavigare il continente Africano<br />

e raggiungere con lunghi tempi di trasferimento,<br />

superiori costi di trasporto ed<br />

aumento notevole nei consumi di bunker, i<br />

porti dell’occidente industrializzato (ovvero<br />

quelli del Mediterraneo, del Nord Europa e<br />

del Continente Nord Americano). E’ infatti<br />

in queste aree che si concentrano i più importanti<br />

poli di raffinazione petrolifera al<br />

mondo.<br />

Nell’analisi strategica del caso paese è stata<br />

dimostrata la dimensione globale della<br />

crisi somala. Nel presente allegato si intende<br />

approfondire l’analisi delle presumibili<br />

conseguenze che scaturirebbero dalla chiusura<br />

dello stretto di Bab el Mandeb, ferma<br />

restando la consapevolezza dell’estrema volatilità<br />

dei prezzi del mercato del petrolio<br />

e l’evoluzione frenetica della strategia dei<br />

trasporti di fronte al verificarsi di sconvolgimenti<br />

internazionali.<br />

<br />

23


2<br />

IL MERCATO DEL PETROLIO<br />

VIA MARE 6<br />

Allo scopo di penetrare a fondo la questione<br />

di Bab el Mandeb, sono presentate<br />

alcune informazioni in merito agli snodi<br />

del traffico del petrolio via mare. Più di 45<br />

milioni bbls/d viaggiano quotidianamente<br />

attraverso le “rotte dei chokepoints”, che<br />

Le rotte deL greggio (crude oiL)<br />

collegano i principali poli commerciali del<br />

globo. L’interruzione di tali passaggi ha sicuramente<br />

degli effetti di tipo macroeconomico.<br />

La principale richiesta di petrolio si regi-<br />

i Flussi del pretrolio 7<br />

6. Cfr http://www.silverbearcafe.com/private/chokepoints.html.<br />

7. Cfr Rapporto confitarma 2007.<br />

stra nel mondo Occidentale industrializzato,<br />

mentre la sua produzione avviene in larga<br />

parte in Medio Oriente, Russia, Africa<br />

Occidentale e Sud America.<br />

Il trasporto di petrolio avviene essenzialmente<br />

attraverso 2 metodi: il primo è costituito<br />

dalle navi cisterna, le petroliere; il<br />

secondo dagli oleodotti. Più dei tre quinti<br />

viaggia sul mare, i restanti due quinti attra-<br />

verso le pipeline terresti.<br />

Grazie alle grandi petroliere il trasporto di<br />

petrolio intercontinentale è divenuto possibile<br />

ed ha assunto dimensioni globali: questi<br />

vettori sono a basso costo, efficienti ed


estremamente flessibili.<br />

Le pipeline, invece, sono impiegate<br />

per il trasporto intracontinentale,<br />

in quanto sono in ordine di<br />

grandezza meno costose di quanto<br />

necessiterebbe la costruzione<br />

di una ferrovia o di una autostrada<br />

e i relativi servizi di trasporto.<br />

Inoltre la vulnerabilità politica di<br />

una pipeline è nulla se considerata<br />

all’interno dei confini di uno<br />

stato o attraversante i confini di<br />

stati che condividono una politica<br />

economica ed energetica di cooperazione<br />

(es. Russia-Ucraina;<br />

USA-Canada).<br />

Volendo stilare una graduatoria<br />

dei principali stretti per volume<br />

di crude oil in transito attraverso<br />

le proprie acque, Bab el Mandeb<br />

occupa la quarta posizione, dopo<br />

Hormuz, Malacca e Suez.<br />

E’ fondamentale osservare che<br />

parlare di prezzi per il trasporto<br />

di petrolio via mare significa sostanzialmente<br />

riferirsi al nolo di<br />

una determinata petroliera lungo<br />

una tratta stabilita. Il costo del<br />

suddetto nolo deriva dal prodotto<br />

tra il prezzo di riferimento base<br />

della tratta d’interesse e una percentuale<br />

denominata Worldscale 8<br />

WS. Worldscale Rates Worldscale<br />

è una tabella che riporta le<br />

percentuali di nolo nominali che<br />

devono essere impiegate quale riferimento<br />

universale per la definizione<br />

univoca dei costi su tutti i<br />

mercati. E’ corretto affermare che<br />

l’industria del trasporto marittimo<br />

di petrolio usa le percentuali<br />

Worldscale (WS) per la definizione<br />

dei costi del servizio che offre.<br />

Per fare un esempio, dire che il nolo di una<br />

petroliera da 100000 DWT (DWT sta per<br />

dead weight tonnage, con cui si indica la<br />

sua capacità di carico) costa 20 $/t (venti<br />

dollari per ogni tonnellata di petrolio trasportato<br />

su una determinata tratta) Worldscale<br />

100, significa dire che il costo del nolo<br />

di riferimento coincide con il costo del nolo<br />

del mercato. Analogamente, con un Worldscale<br />

150, il prezzo del nolo sul mercato è<br />

una tabella comparativa del volume di traFFico di<br />

petrolio attraverso i principali choke point lungo<br />

le rotte marittime internazionali, allo scopo di<br />

individuare il collocamento dello stretto nel panorama<br />

macroeconomico.<br />

1,5 volte superiore a quello del nolo di riferimento.<br />

Nei primi 15 giorni di febbraio<br />

<strong>2008</strong> le rate WS per le rotte sopraindicate<br />

si aggirano tra i 105 ed i 107 WS, quindi<br />

molto vicine a quella base.<br />

Esistono attualmente 2 organizzazioni che<br />

8. Worldscale rates, cfr. www.worldscale.co.uk.<br />

9. World oil transit chokepoints, http://www.eia.doe.gov/emeu/cabs/World_Oil_Transit_Chokepoints/Bab_el-Mandab.html.<br />

<br />

2


2<br />

stabiliscono i Worlscale Rates:<br />

- la Worldscale Association Limited di<br />

Londra;<br />

- la Worldscale Assosiation Incorporation<br />

di New York City.<br />

Entrambe le associazioni sono no-profit e<br />

riuniscono i più influenti broker delle principali<br />

agenzie di nolo marittimo per il commercio<br />

di petrolio.<br />

Tale digressione è funzionale all’analisi<br />

svolta nel paragrafo successivo, in cui saranno<br />

presentati dei calcoli comparativi per<br />

la determinazione dell’incidenza economica<br />

sul mercato del petrolio conseguentemente<br />

alla chiusura di Bab el Mandeb.<br />

Classificazione e costi di costruzione delle<br />

petroliere<br />

In accordo ai dati forniti dall’Itertanko 10<br />

dalla Thenamaris 11 , e dai cantieri coreani<br />

Samsung 12 , la sottonotata tabella riporta la<br />

classificazione ufficiale delle petroliere ed i<br />

relativi costi ipotizzando 2 tempi di consegna<br />

(ad oggi e nel 2011):<br />

LA CHIUSURA DELLO STRETTO<br />

DI BAB EL MANDEB<br />

Lo studio proposto intende sviluppare<br />

l’analisi dell’impatto sul traffico di petrolio<br />

e di contenitori via mare derivante dalla<br />

chiusura di Bab el Mandeb. Sarà prima<br />

sviluppata un’analisi sugli effetti a breve<br />

termine, funzionale alla spiegazione delle<br />

dinamiche che porterebbero ad una brusca<br />

impennata delle quotazioni di greggio; successivamente<br />

verrà sviluppata una riflessione<br />

su come verrebbero influenzate le scelte<br />

strategiche nel settore dei trasporti marittimi<br />

dal by-pass forzato di un chockepoint:<br />

praticamente cosa accadrebbe alla base del<br />

potere marittimo commerciale sul mare,<br />

ovvero il settore della cantieristica navale,<br />

dei porti, dei nuovi centri di estrazione sul<br />

mare e del transhipment.<br />

Sono stati presi in esame tre poli commerciali<br />

per altrettanti bacini di riferimento,<br />

sedi delle principali installazioni di lavorazione<br />

di greggio: quello di Melilli (Augusta)<br />

I dati raccolti risultano funzionali al ragionamento che è sviluppato nel paragrafo successivo e sono aggiornati<br />

al febbraio <strong>2008</strong>.<br />

10. INTERTANKO è l’International Association of Independent Tanker Owners. Cfr http://www.INTERTANKO - Intertanko.htm.<br />

11. THENAMARIS è una delle principali agenzie di shipping management al mondo. Cfr http://www.thenamaris. com.<br />

12. I cantieri coreani Samsung, Daewoo, Hiunday sono i maggiori cantieri navali del mondo e pongono la Corea del Sud quale leading<br />

nation del settore.


per il Mediterraneo, quello di Rhotterdam<br />

per il Mar del Nord e Halifax (Canada) per<br />

la costa orientale dell’America del Nord.<br />

Petrolio: analisi nel breve termine<br />

Le raffinerie di petrolio stipulano contratti<br />

per la fornitura annua di un determinato<br />

quantitativo di greggio.<br />

L’impraticabilità dello stretto ridisegnerebbe<br />

le rotte delle petroliere che, anziché<br />

tagliare per Mar Rosso e Suez, sarebbero<br />

costrette a circumnavigare l’Africa per raggiungere<br />

i tre bacini di riferimento indicati.<br />

Tale situazione determinerebbe un aumento<br />

esorbitante degli oneri finanziari per continuare<br />

a ricevere gli stessi quantitativi di<br />

petrolio, infatti bisogna tener conto delle<br />

sottonotate dinamiche:<br />

- il nolo di una medesima petroliera su di<br />

una tratta più lunga, alternativa a quella<br />

per Bab el Mandeb e Suez, risulta ben<br />

più caro, alla luce delle 3000 nm aggiuntive<br />

nel trasferimento;<br />

- il dover contare su di una tratta più lunga<br />

determina l’impossibilità del mantenimento<br />

costante della frequenza nell’approvvigionamento<br />

di petrolio, rispetto<br />

agli standard consentiti dal percorso via<br />

Suez;<br />

- a fronte della diminuzione della suddetta<br />

frequenza, sarà necessario disporre<br />

quindi di una flotta maggiore per poter<br />

contrastare gli effetti di un minor afflusso<br />

di greggio;<br />

- essendo Suez uno stretto che fino al 2010<br />

impedirà il transito a superpetroliere che<br />

eccedono i 50 piedi di pescaggio, diverrebbe<br />

preferenziale il nolo di superpetroliere,<br />

che normalmente percorrono la<br />

tratta via Capo di Buonasperanza (CSB),<br />

facendo sparire dalla circolazione le piccole<br />

petroliere da 100000 DWT;<br />

- si rivaluterebbe l’opportunità della costruzione<br />

di superpetroliere, sconvolgendo<br />

il settore della cantieristica navale.<br />

I fenomeni sopra descritti giocano un ruolo<br />

essenziale nell’aumento esponenziale del<br />

costo di tutti i prodotti di raffinazione e di<br />

tutti i derivati del comparto energia che impiegano<br />

fonti non rinnovabili. In definitiva<br />

si sperimenterebbero gli effetti di una crisi<br />

economica che anticipa quelli caratteristici<br />

di una crisi energetica.<br />

Alla luce delle considerazioni sopra esposte,<br />

sono già state messe in atto delle misure<br />

cautelative in grado di arginare le<br />

conseguenze derivanti dal blocco di uno<br />

chokepoint. Due, infatti, sono gli oleodotti<br />

in grado di operare il by-pass di Bab el<br />

Mandeb e di Suez: questi sono rispettivamente<br />

l’oleodotto saudita che da Jubail<br />

(Golfo Persico) a Yanbu (Mar Rosso) attraversa<br />

da est ad ovest l’Arabia Saudita, con<br />

una capacità pari a 4.8 milioni di bbls/d, e<br />

l’oleodotto del Sumed Complex.<br />

Sebbene tale capacità di erogazione di petrolio<br />

sia già sfruttata, è necessario osservare<br />

come dei 3.3. milioni di bbls/d 2.1<br />

siano diretti verso nord e il restante 1.2 è<br />

destinato verso sud. Questo specifico flusso<br />

verrebbe quindi comunque tagliato dalla<br />

chiusura dello stretto. Inoltre in ogni caso<br />

il flusso di contenitori e cargo verrebbe interrotto<br />

e come si potrà osservare nel sottoparagrafo<br />

3c sarà proprio la prevalenza di<br />

questo flusso ad accendere le tensioni.<br />

Alla luce di quanto sopra ragionato, la sicurezza<br />

nell’area rimane la preoccupazione<br />

principale degli Stati i cui interessi economici<br />

vitali dipendono dalla libertà di navigazione<br />

attraverso le acque dello stretto.<br />

Di seguito uno studio comparativo dell’incidenza<br />

della crisi sui costi 13 :<br />

I costi $/tonnellata sopraindicati sono riferiti<br />

ad una percentuale base di nolo di 100<br />

WS (Worldscale). Immaginando il riflesso<br />

degli attacchi terroristici nei confronti del<br />

traffico mercantile nell’area mediorientale,<br />

questa percentuale può aumentare repentinamente<br />

superando 200WS, quindi il costo<br />

potrebbe anche raddoppiare o addirittura<br />

lievitare.<br />

Dalla tabella si evincono i seguenti dati:<br />

- il Mediterraneo risulterebbe il bacino<br />

maggiormente danneggiato dalla chiusura<br />

di Bab el Mandeb, infatti presso il<br />

terminale di Santa Panagia (SR) si registrerebbero<br />

ritardi di fornitura del 188%<br />

ed incremento del costo del nolo per singola<br />

tonnellata di greggio trasportata del<br />

126%;<br />

13. Riferimento fornito dalla Dott.ssa Tagliacozzo Gioia, responsabile dell’ufficio Supply & Trading dell’Api di Roma. I costi del nolo<br />

di portata comprendono l’utilizzo della nave, il costo del bunker, i costi di approdo nei porti di caricazione e discarica. Il passaggio<br />

via Suez prevede il pagamento di un pedaggio forfettario che si aggira intorno ai 420.000 USD a nave, senza distinzione del porto<br />

di destinazione.<br />

<br />

2


2<br />

- per il Nord Europa ritardi del 95% e aumenti<br />

dei prezzi del 55%.;<br />

- il Nord America (costa orientale) tra i<br />

3 bacini di riferimento risulterebbe il<br />

meno colpito, realizzando in negativo<br />

ritardi per il 50% e aumenti dei costi del<br />

40%;<br />

- per Mediterraneo e Nord Europa l’opzione<br />

dell’estrazione di petrolio dal fondo<br />

marino, considerata in certe zone<br />

economicamente non vantaggiosa a<br />

causa di esosi costi di estrazione, verrebbe<br />

sicuramente rivalutata.<br />

Dall’analisi sviluppata il dato preoccupante<br />

è senza dubbio quello riferito al Mediterraneo.<br />

Tra le nazioni di questa regione l’Italia<br />

ricopre sicuramente la posizione meno<br />

vantaggiosa. Una prima precauzione in tal<br />

senso è già stata adottata.<br />

Come emergerà dai dati statistici resi disponibili<br />

dalla Capitaneria di Porto sezione<br />

distaccata di Comparare Siracusa presso il<br />

pontile di Santa Panagia, l’Italia ha compiuto<br />

la scelta strategica di rifornirsi principalmente<br />

di greggio dal Mar Nero.<br />

14. DWT sta per deadweight tonnage (capacità di carico), ovvero il massimo peso in tonnellate che una petroliera può caricare relativamente<br />

alla sua marca estiva (E) (Plimsoll line) dato dalla somma del carico, dell’equipaggio, del bunker, e dei pesi morti come<br />

ad esempio pitture,cavi, attrezzature varie.<br />

15. CBS sta per Capo di Buonasperanza.


Petrolio: analisi di medio termine<br />

Lo scenario della chiusura di un chockepoint<br />

internazionale pone la questione se sia opportuno<br />

rivalutare la ripresa della costruzione<br />

di superpetroliere da più di 500000 DWT<br />

o a puntare ad altri bacini d’estrazione (Mar<br />

Nero). La risposta alla domanda coincide<br />

con questa seconda opzione alla luce delle<br />

seguenti riflessioni:<br />

- è cambiata la strategia dei trasporti, in<br />

quanto l’utenza viene raggiunta capillarmente<br />

attraverso l’integrazione di porti,<br />

autostrade, ferrovie, oleodotti. La globalizzazione<br />

economica e finanziaria punta<br />

ad una competitività esasperata che mira<br />

a spazzare via i colli di bottiglia nella distribuzione<br />

di benessere e ricchezza. Essa<br />

non può fermarsi di fronte alla chiusura<br />

di un chokepoint; Infatti la realizzazione<br />

dell’oleodotto (da 4,8 milioni di bbls/d),<br />

che attraversa da est ad ovest la penisola<br />

arabica da Jubail sul Golfo Persico a Yanbu<br />

sul Mar Rosso, permetterebbe di alleviare<br />

gli effetti di un embargo petrolifero<br />

(che si realizzerebbe automaticamente<br />

con la chiusura di Bab el Mandeb);<br />

- secondo l’opzione del percorso alternativo<br />

che prevede il doppiaggio del CBS,<br />

essendo più lungo di 3000 nm, non po-<br />

tendo raddoppiare le flotte mercantili<br />

nel giro di pochi anni, potrebbe sembrare<br />

auspicabile disporre di petroliere che,<br />

con sempre maggiori capacità di trasporto,<br />

possano abbattere il lievitamento<br />

del costo dei noli;<br />

- secondo questo ragionamento le petroliere<br />

di medio taglio diverrebbero obsolete<br />

e si assisterebbe alla crisi di una delle<br />

più importanti capacità strategiche della<br />

sovranità nazionale sul mare, il settore<br />

della cantieristica navale. Vittime di questo<br />

sconcertante scenario diverrebbero<br />

quelle nazioni il cui PIL dipende sensibilmente<br />

dal fatturato della cantieristica<br />

navale di piccola-media stazza. Infatti,<br />

per quanto riguarda il ritorno in auge<br />

delle superpetroliere, non tutti i cantieri<br />

sarebbero in grado di impegnarsi nella<br />

costruzione di superpetroliere attraverso<br />

un opera di reverse engeneering.<br />

Concludendo, per quanto attiene l’aspetto<br />

dell’interruzione della fornitura di greggio<br />

dal Medio Oriente a causa della chiusura di<br />

Bab el Mandeb, questo problema verrebbe<br />

aggirato con il ricorso simultaneo all’oleodotto<br />

e ad un aumento di domanda per<br />

la fornitura di crude oil presso i centri di<br />

estrazione del Mar Nero e secondariamente<br />

<br />

2


30<br />

del Golfo di Guinea.<br />

Contenitori: l’incidenza sul porto italiano<br />

di Gioia Tauro<br />

Nello scenario di riferimento sopradescritto,<br />

ciò che renderebbe davvero incandescente<br />

il mercato globale sarebbe il rallentamento<br />

subito dai flussi di contenitori. La<br />

Cina incontrerebbe un freno alla sua espansione<br />

economica, una brusca interruzione<br />

alla sua invasione trasversale dei mercati<br />

(dall’high-tech all’abbigliamento). Secondariamente<br />

a Dubai non potrebbero più<br />

essere recapitate le lussuose esportazioni<br />

del mondo occidentale. L’idea di una nuova<br />

Transiberiana, offerta dalla Russia a Cina<br />

e Giappone, diverrebbe sempre più appetibile<br />

e sconvolgerebbe le linee di flusso che<br />

vedrebbero l’Italia tagliata definitivamente<br />

fuori dai giochi. Quanto sopra rende evidente<br />

la portata delle ripercussioni nel breve<br />

e medio termine che si registrerebbero<br />

sulla componente commerciale del potere<br />

marittimo globale e in particolare su quello<br />

nazionale. Di seguito è riportata la scheda<br />

riassuntiva degli effetti che la chiusura di<br />

Bab el Mandeb comporterebbe sul porto di<br />

Gioia Tauro, baricentro strategico della ricettività<br />

e dello smistamento di contenitori<br />

nel Mediterraneo.


Segue la determinazione dei costi per il trasporto di contenitori 16 :<br />

Da cui si evincono le conseguenze dovute<br />

alla chiusura dell’asse Mandeb-Suez:<br />

- premesso che, a differenza del mercato<br />

del greggio, non esistono tratte alternative<br />

a quella per Bab el Mandeb-Suez per<br />

il trasporto di contenitori tra Mediterraneo<br />

ed Oriente, il nuovo riferimento per<br />

il calcolo del costo del nolo di un contenitore<br />

diverrebbe la tratta su Rotterdam<br />

via CBS, in quanto la distanza e i tempi<br />

che separano Gioia Tauro dall’Oceano<br />

Indiano/Hormuz triplica;<br />

- il volume totale di traffico registrato a<br />

Gioia Tauro (487035 containers, 42,6%<br />

del totale flusso extramed oriente-Gioia)<br />

verrebbe dimezzato, quale conseguenza<br />

del dirottamento dei flussi verso il Nord<br />

Europa o il progetto della nuova transiberiana<br />

offerto dalla Russia a Cina e<br />

Giappone;<br />

- per i contenitori, la transiberiana o Rotterdam<br />

diverrebbero l’equivalente dell’oleodotto<br />

saudita e del Sumed-complex<br />

nei confronti di Bab el Mandeb e Suez,<br />

taglierebbero definitivamente fuori l’Italia<br />

dal mercato del transhipment extramed.<br />

Sempre più urgente l’affermazione di una<br />

volontà politica che disponga la presenza<br />

della flotta in Oceano Indiano per scongiurare<br />

lo scenario prospettato e tutelare gli<br />

interessi nazionali sul mare.<br />

16. Dati forniti dalla MAERK S.p.A. tramite l’agenzia marittima affiliata presso l’Api di Falconara Marittima.<br />

<br />

31


32<br />

A NEw SUN ON THE HORIZON?<br />

THE DAwN OF JAPAN’S<br />

ExPEDITIONARy CAPABILITy<br />

Doctor Alessio PATALANO<br />

LAUghTON NAVAL hISTOry SChOLAr<br />

DEpArTMENT Of WAr STUDIES<br />

KINg’S COLLEgE LONDON<br />

IntroductIon<br />

Thursday 23 August 2007 represented a date<br />

of historical significance for Japan’s post-war<br />

defence policy. In a stirring ceremony held<br />

at the Yokohama shipyards of the IHI Marine<br />

United, the launching of Japan’s long-awaited<br />

first flat-top helicopter-carrying destroyer, JDS<br />

Hyuga (DDH-181), marked the country’s return<br />

in the exclusive club of the world’s top class navies.<br />

1<br />

Far from being an isolated episode, the<br />

procurement of this new class of warships is at<br />

the centre of a major transformation of Japan’s<br />

defence policy, which in turn is symptomatic of<br />

the country’s re-emergence as a more confident<br />

political actor in international security and<br />

military affairs. 2 Indeed, as the largest unit<br />

to join the fleet of the Japan Maritime Self-<br />

Defence Force (JMSDF) since its establishment<br />

in 1954, this new platform together with its<br />

sister-ship planned to enter service in 2011,<br />

have been regarded as one of the most evident<br />

signs of Japan’s Post-Cold War ambitions<br />

to move away from its ‘defensive defence’,<br />

acquiring power projection capabilities. 3 In<br />

some cases, analysts argued that the post-9/11<br />

stepping up of Japan’s military empowerment,<br />

encompassing new capabilities and a widened<br />

spectrum of operations, was indicative of a<br />

rather sinister phenomenon named ‘Heisei<br />

militarization’ (from the name of the current<br />

Emperor and reminiscent of the ‘Showa militarization’<br />

of the 1930s). 4 Japan’s more muscular<br />

military endeavour would be part of a plan<br />

to build-up hard power to address increased<br />

regional security concerns and to expand the<br />

strategic partnership with the United States.<br />

Militarization ‘would not be a reversion to the<br />

old stereotype of Japan as addicted to militarism,<br />

but rather the common and dangerous behaviour<br />

of a normal medium-sized state in a militarized<br />

world’. 5 In this respect, some observers consider<br />

the Japanese military phenomenon as part of a<br />

broader and potentially de-stabilising process<br />

of naval arms race in Asia, headed by China<br />

and India. 6<br />

These assessments detailed to a considerable<br />

degree the various internal and external factors<br />

informing Japan’s domestic political debate<br />

on defence issues, but reserved only limited<br />

attention to the military and strategic rationale<br />

underpinning the acquisition of those enhanced<br />

capabilities. The tendency has been to treat<br />

the introduction of new naval combat systems<br />

as empirical evidence of the renewed political<br />

assertiveness of the past decade and a half<br />

rather than as tools of a national strategy. Thus,<br />

considerations on the size and the assets of the<br />

JMSDF’s fleet contributed to fulfil predictions<br />

on Japan’s pursuit of power projection, leaving


or how far and to what extent they will allow<br />

Japan to project military power ashore.<br />

Is Japan building-up its military apparatus and<br />

heading towards a path of maritime power<br />

projection? Is a new sun rising on the horizon?<br />

This paper re-assesses the nature and the purpose<br />

of Japan’s national naval strategy. It argues that<br />

the current pre-eminent focus on procurement<br />

programmes to exercise and maintain sea control,<br />

including Ballistic Missile Defence (BMD),<br />

Aegis and helicopter-carrying destroyers or<br />

tank landing ships, led analysts to overemphasise<br />

Japan’s ‘dangerous behaviour’ as a medium<br />

power. By examining the different criteria and<br />

required military capabilities connected to key<br />

notions like maritime power projection and<br />

expeditionary warfare, the paper postulates that<br />

Japan’s contemporary naval power is not radically<br />

changing in its nature. It maintains that in<br />

light of Japan’s growing international commitments<br />

and concrete regional concerns, the current<br />

evolution of the archipelago’s naval force<br />

is primarily aiming at the procurement of basic<br />

expeditionary capabilities whilst retaining an<br />

effective force against regional forms of power<br />

projection. The structural transformation of the<br />

JMSDF is not part of a menacing plan; rather,<br />

it embodies the service’s attempt to balance a<br />

fleet that some experts considered until recently<br />

well-suited for anti-submarine warfare (ASW)<br />

but incapable of international undertakings because<br />

of the lack of assets in the areas of air<br />

defence, strategic lift and amphibious warfare. 7<br />

A new sun is rising on the horizon, but is one<br />

seeking to maintain an adequate military structure<br />

to protect critical maritime interests and to<br />

contribute to international stability rather than<br />

undermining it.<br />

dIfferencIng MarItIMe<br />

Power ProjectIon<br />

froM exPedItIonary<br />

warfare<br />

Maritime power projection is one of<br />

the crucial ways in which navies can<br />

exploit the command of the sea, employing<br />

‘sea-borne military forces directly<br />

to influence events on land’. 8 For<br />

Sir Julian Corbett, the ability to project<br />

military power ashore was indeed one<br />

of the distinctive attributes of naval forces;<br />

it played to their strengths in that<br />

by freely accessing the sea, a nation<br />

was empowered of the strategic flexibility<br />

to decide when, where and in what<br />

measure it wished to commit its armed<br />

force to military action. 9 Sir Basil<br />

Liddell Hart emphasised that for the<br />

British Empire ‘sea-borne expeditions against<br />

the enemy’s vulnerable extremities’ represented<br />

a key ingredient to its success. The navy was<br />

used to ‘safeguard ourselves where we are the<br />

weakest’, whilst exerting ‘our strength where<br />

the enemy was the weakest’. 10 Emphasis on the<br />

core idea of navies as versatile tools capable of<br />

widening a government’s options in responding<br />

to a crisis or a conflict can be found in today’s<br />

operational lexicons, highlighting that power<br />

projection enables the navy to ‘deliver flexible,<br />

scalable, and sustainable offensive capabilities<br />

at a time and place of our choosing’. 11<br />

Maritime power projection serves offensive<br />

strategies implying the political will to employ<br />

the versatility of naval power to secure a set of<br />

primary military objectives against conventional<br />

forces. It encompasses a wide spectrum of<br />

military actions, ranging from invasion,<br />

territorial conquest, naval bombardment or raids,<br />

and their application depends on the extent to<br />

which these actions are vital to the achievement<br />

of victory at the tactical, operational or strategic<br />

levels of a conflict. For instance, between 1942<br />

and 1945, the nature of the theatre of operations<br />

in East Asia made the maritime campaigns in<br />

the Central and Southwest Pacific conducted by<br />

the United States and its allies essential to the<br />

strategy of defeat of Japan, and represent to date<br />

‘a model for conducting joint operations in a<br />

large theatre against a powerful and determined<br />

enemy’. 12 Similarly, in the 1982 Falklands<br />

campaign, victory was primarily assured by the<br />

Royal Navy’s capacity to acquire sufficient sea<br />

and air control to subsequently land and sustain<br />

ground forces. 13 In cases like the Gallipoli<br />

campaign of 1915 led by a joint British Empire<br />

and French forces, or the Allied landings<br />

in the Mediterranean theatre (1942-1944)<br />

<br />

LCAC durAnte operAzione di sbArCo<br />

33


3<br />

and in Normandy (1944), sea-borne assaults<br />

contributed in no small measure to the success in<br />

the conflict creating new fronts, supporting main<br />

operations on land and favouring the enemy’s<br />

forces displacement. 14 Amphibious operations,<br />

attacks on sea lanes of communication (SLOCs)<br />

by means of commercial blockade or guerre<br />

de course, and throughout the Cold War, seabased<br />

strategic missile attacks ashore have<br />

been regarded as the principal means to deliver<br />

maritime power projection in conventional<br />

wars.<br />

Expeditionary warfare is different from<br />

maritime power projection. It concerns<br />

operational campaigns generally set outside the<br />

context of conventional conflicts in which naval<br />

forces primarily provide the lifting capability<br />

and air and naval tactical support to deliver<br />

ground and air forces ashore. 15 Expeditionary<br />

operations are a derivation of the colonial<br />

campaigns of past centuries, which were waged<br />

to suppress ‘insurrections and lawlessness,<br />

or for the settlement of conquered or annexed<br />

territory, (…) to wipe out an insult, to avenge<br />

wrong, or to overthrow a dangerous enemy’. 16<br />

In that context, the global reach of naval forces<br />

was used to deploy the army in ‘protracted<br />

and hazardous operations in all quarters of<br />

the world’ in which the armed services had to<br />

conform their methods of fighting ‘to those of<br />

adversaries infinitely inferior in intelligence and<br />

armament’. 17 Modern expeditionary operations<br />

feature an element of continuity with the ‘small<br />

wars’ of colonial memory in that they are<br />

campaigns of choice, usually conducted against<br />

irregular forces and aiming primarily at the<br />

prevention of disorders, the maintenance, or reestablishment<br />

of security in distressed areas. 18<br />

In the aftermath of the Cold War, increased<br />

social and political tensions on a global scale,<br />

coupled with the more interconnected nature of<br />

security brought this form of interventions back<br />

into fashion, with some of the most notable<br />

examples including Somalia (1991-1992), Haiti<br />

(1994), Albania (1997), East Timor (1999).<br />

In line with the new trends, major navies of<br />

industrialised countries endeavoured to include<br />

in their doctrinal grammar formulas to perform<br />

expeditionary warfare to various degrees. 19<br />

Indeed, for the United States, the ability to<br />

intervene in both high and low intensity warfare<br />

scenarios worldwide made maritime power<br />

projection and expeditionary capabilities<br />

attributes equally vital to national strategy,<br />

eventually leading to the adoption of the hybrid<br />

formula ‘expeditionary power projection’. 20<br />

On the basis of this brief conceptual sketch out,<br />

it is possible to conclude that the application<br />

of these notions to Japan’s case presents some<br />

fundamental difficulties. Maritime power<br />

projection implies a political willingness to<br />

procure and use naval forces for coercive<br />

military operations overseas, a course of<br />

action currently forbidden by the Japanese<br />

constitution. By contrast, expeditionary warfare<br />

is the result of a nation’s political choice to<br />

commit to international stability emphasising,<br />

from a military point of view, the procurement<br />

of assets capable of performing various degrees<br />

of logistical and tactical support to air and land<br />

operations. Sustainability and scale of a country’s<br />

expeditionary capability are key in determining<br />

its operational flexibility, which can range from<br />

amphibious incursions of special forces to the<br />

deployment of military or medical personnel<br />

for disaster relief or humanitarian assistance. In<br />

order to better understand to what extent each<br />

of these notions can be applied to Japan, the<br />

next two sections will review from an historical<br />

perspective the development of the JMSDF’s<br />

power projection and lifting capabilities in the<br />

Cold War and beyond.<br />

jaPan’s cold-war naval Power:<br />

asw and suPPort to ground<br />

forces<br />

At the time of its establishment in 1954, the<br />

Japanese navy was only a pale shadow of<br />

the awesome force which had projected the<br />

country’s military power in the most remote<br />

corners of Asia in the 1930s and early 1940s.<br />

Drafts of the force planning produced from<br />

1955 to 1956, attributed to naval defence very<br />

modest tonnage allocations, ranging from<br />

81,000 to <strong>143</strong>,000 tons. 21 Financial constraints<br />

due to Japan’s fragile economy as well as<br />

political considerations dictated a secondary<br />

attention to the naval build-up. In the mid-<br />

1950s government’s priority list, the relative<br />

expansion of the ground forces was in fact<br />

one of higher importance for two reasons.<br />

Domestically, it showed to the Japanese people<br />

the government’s commitment in accelerating<br />

the withdrawal of US troops stationed in Japan<br />

from the days of the Occupation (which had<br />

ended in 1952). Diplomatically, it represented<br />

a tangible sign of Japan’s commitment to the<br />

newly established security partnership with the<br />

United States with no real strategic role beyond<br />

the country’s borders. 22<br />

In 1956, these considerations informed the final<br />

decision to attribute the JMSDF a relatively<br />

modest force goal in the first Defence Build-up<br />

Plan, 23 set at about 124,000 tons and 180 aircraft<br />

of various types to be achieved during the period<br />

1958-1960. 24 The plan endorsed a minimalist<br />

approach to naval matters, with the JMSDF’s<br />

primary mission consisting of a strict ‘defence<br />

from direct aggression of the mainland’, with<br />

the Soviet Union as primary national threat. 25<br />

Naval operations included the prevention of


enemy’s forces from landing ashore, ASW and<br />

short-range lifting capabilities in support of the<br />

Japan Ground Self-Defence Force (JGSDF) both<br />

to prevent foreign invasions and to offer relief<br />

to the civilian population in natural disasters. 26<br />

Emphasis was given to the strengthening of the<br />

navy’s ASW capabilities, especially in its air<br />

component, with the procurement of helicopters<br />

and fixed-wing aircraft, including 8 S-55A,<br />

42 P2V-7 and 60 S2F-1. It is in the context<br />

of expansion of its ASW role that in 1959,<br />

the JMSDF started studying the feasibility of<br />

procuring a domestic-built 6,000-7,000-ton<br />

helicopter carrier (CVH). 27 The plan was not<br />

adopted in the 1959 revision of the build-up<br />

programme, but a firm intention to pursue such<br />

a platform led about a year later the Maritime<br />

Staff Office to inquire with MAAG-J on a joint<br />

project for an 11,000-ton CVH, equipped with<br />

HSS-2 anti-submarine helicopters to be build<br />

with an American grant aid. 28 The JMSDF’s<br />

laborious efforts notwithstanding, the CVH was<br />

seen as beyond the scope of Japanese financial<br />

CerImonIa Varo PortaelICotterI Hyuga, 23 agosto 2007<br />

possibilities, and outside strict Japanese and<br />

American naval circles it failed to gain support<br />

from civilian authorities.<br />

In the following second and third build-up<br />

plans, pertaining to the periods 1962-1966 and<br />

1967-1971 respectively, the strengthening of the<br />

JMSDF gained higher priority. In particular, by<br />

the time the JMSDF had to argue a case for the<br />

third build-up, its leaders had digested the skills<br />

of budget politics and unlike previous occasions,<br />

they managed to secure all their primary<br />

objectives by proposing less ambitious plans.<br />

The CVH proposal was no longer reiterated;<br />

instead, the plan called for a more financially<br />

feasible and politically acceptable helicopter<br />

carrying destroyer (DDH). The navy’s duties in<br />

home waters expanded to include the defence<br />

of straits and of the surrounding waters. 29 More<br />

crucially, for the first time the JMSDF’s primary<br />

roles included the ‘protection of sea lanes of<br />

communications (SLOCs)’. 30 As a result of<br />

the new missions, the navy’s inventory was<br />

strengthened with fourteen destroyers, including<br />

the first surface-to-air missile (SAM) units, and<br />

<br />

3


3<br />

the first DDH, JDS Haruna (DD 141), fifty-six<br />

various surface units for a total of 48,000 tons,<br />

60 aircraft and 33 ASW helicopters. At the same<br />

time, funds were approved to implement training<br />

and education, restructuring and upgrade of<br />

facilities and bases, and improvements in<br />

communication technologies. 31<br />

The reversion of the Ryukyu Islands in 1972<br />

with the resulting widening of the maritime<br />

area to protect, the existence of a robust Soviet<br />

naval threat, and Japan’s growing dependence<br />

on imports of raw materials, reinforced the<br />

position of the navy in national defence. As<br />

the tenth JMSDF’s Chief of Maritime Staff,<br />

Admiral Samejima Hirokazu, put it, Japan<br />

lacked of primary resources and relied on<br />

imports for its own survival and as the 1973<br />

oil crisis had reminded to civilian and military<br />

authorities alike, transport at sea was vital to the<br />

archipelago’s security and to that extent, naval<br />

defence was a core part of national military<br />

capability. 32<br />

It was on the backdrop of the significance of the<br />

missions and of its expanding surface fleet that<br />

the JMSDF started devoting greater attention<br />

to its lifting capability. In particular, logistical<br />

support to land operations in Hokkaido – one<br />

of the likely areas considered for a potential<br />

Soviet invasion – coupled with the expansion of<br />

Japan’s defensive maritime perimeter, including<br />

now a considerable number of off-shore islands,<br />

KunIsaKI durante mIssIone tsunamI IndonesIa 2004<br />

demanded more adequate platforms to cover the<br />

distances within the archipelago. 33 In the context<br />

of the third and especially of the fourth build-up<br />

plans, funds were secured for the procurement<br />

of the first domestic-built tank landing ship, the<br />

1,550-ton Atsumi (LST-4101) and her two sister<br />

ships, Motobu (LST-4102) and Nemuro (LST-<br />

4103), commissioned in 1972, 1973 and 1977,<br />

respectively. 34 These units were built along<br />

with another class of three larger landing ships<br />

featuring 2,000-ton displacement, Miura (LST-<br />

4151), Ojika (LST-4152) and Satsuma (LST-<br />

4153), the last one entering service in 1977. 35<br />

With the two small 590-ton utility landing crafts<br />

of the Yura (LCU-4171) class joining the fleet<br />

in 1981, the JMSDF’s completed the core of an<br />

amphibious capability designed primarily for<br />

the purpose of defence from eventual Soviet<br />

attempts of power projection in wartime whilst<br />

critically assisting the Japanese population<br />

in case of natural disasters during peacetime.<br />

In 1976, Japanese priorities for naval defence<br />

as they had emerged early in the 1970s were<br />

formalised in the National Defence Programme<br />

Outline (NDPO) 36 and in the 1978 Guidelines for<br />

US-Japan Defence Cooperation. 37 Throughout<br />

the same period and for the rest of the Cold<br />

War, the expansion of Soviet naval power in<br />

the region led the JMSDF to reaffirm sea lanes<br />

defence as the cornerstone of its strategy, with the<br />

service focusing on a qualitative improvement<br />

of its ASW capabilities<br />

and on the extension of<br />

its range of operations up<br />

to 1,000 nautical miles. 38<br />

By contrast, the lifting<br />

capabilities the JMSDF<br />

had acquired to support<br />

efforts against territorial<br />

invasion was considered<br />

perfectly adequate to<br />

the task and remained<br />

unaltered till the end of<br />

the Cold War. In 1981, a<br />

budget request for a third<br />

unit of the Yura class was<br />

denied and reportedly no<br />

other keel for a landing<br />

unit was laid down until<br />

early in the 1990s.<br />

In the 1980s, the JMSDF’s<br />

fleet was no longer in the<br />

precarious condition of<br />

the previous decades. Its<br />

build-up now aimed at<br />

strengthening a fleet that<br />

could secure vital sea lanes<br />

and confront attempts of<br />

Soviet maritime power<br />

projection against Japan<br />

from the sea as well as on land. It is with this


framework in mind that in those years research<br />

studies were conducted for the design of a<br />

16,000-ton light helicopter carrier capable of<br />

8 to 14 HSS-2 helicopters. 39 It is also in this<br />

period, that options were examined for a 7,000-<br />

8,000-ton landing ship based on the model of<br />

the Italian San Marco class. 40<br />

natIonal strategy beyond<br />

the cold war: achIevIng<br />

exPedItIonary flexIbIlIty<br />

The sudden end of the bipolar confrontation and<br />

the implosion of the Soviet Union left Japanese<br />

political circles – as much as those in other nations<br />

of the Western bloc – rather disoriented on the<br />

courses of action to guarantee security. 41 The<br />

failure to provide some form of military support<br />

in the first Gulf War prompted many to question<br />

the merits of Japan’s mercantilist foreign policy.<br />

Tokyo – they argued – had to address some of its<br />

constitutional constraints in order to be able to<br />

participate with a degree of military commitment<br />

in operations under international mandate,<br />

‘normalising’ its behaviour as a state actor.<br />

In February 1994, Prime Minister Hosokawa<br />

Morihiro (1993-1994) took the initiative and<br />

commissioned a report with the intent of<br />

reassessing the country’s defence capability.<br />

Once released, the recommendations of the socalled<br />

Higuchi committee constituted the basis<br />

for the drafting of the new NDPO, 42 which was<br />

eventually adopted in November 1995. 43 Both<br />

documents recognised in cooperative patterns<br />

of security the likely leitmotifs of future<br />

international relations and suggested a defence<br />

agenda aiming at engaging in a more ‘active<br />

and constructive security policy’. 44 Attention<br />

to international stability was certainly the main<br />

intellectual novelty of the document but it was<br />

not the only priority Japanese strategic planners<br />

sought to address. In Northeast Asia, the power<br />

vacuum created by the disappearance of one<br />

of the superpowers had made the situation<br />

more volatile, with unresolved and potentially<br />

escalating tensions in the Korean Peninsula and<br />

across the Taiwanese strait. Equally testing for<br />

regional stability were the actions of state actors<br />

such as China seemingly profiting from the post-<br />

Cold War transition to achieve greater influence,<br />

engaging to that end in a comprehensive scheme<br />

of economic and military modernisation. 45<br />

The NDPO was drafted seeking to balance<br />

the requirements for a higher international<br />

military profile and those necessary to deal with<br />

closer regional sources of military (and naval)<br />

apprehension. 46 The Japanese armed forces had<br />

to become as a result, ‘streamlined, effective<br />

and flexible’. 47 For the JMSDF the new pos-<br />

ture demanded the enhancement of the service<br />

ability to offer agile and accurate responses,<br />

rebalancing the various components of the<br />

fleet to perform not only ASW duties but to use<br />

seapower to support the nation’s renewed commitment<br />

to the international community. 48 On<br />

the other hand, the document reaffirmed the basic<br />

requirements of the national naval strategy<br />

drawing a line of continuity with the previous<br />

NDPO in that ‘the defence of adjacent seas and<br />

the securing the safety of maritime traffic are<br />

essential in order to secure the foundations of<br />

national survival’; this constituted a ‘matter of<br />

life or death’ whether in peacetime or in cases<br />

of emergency. 49<br />

The inherent flexibility of naval platforms in<br />

pursuing both the international and national<br />

objectives of Japan’s transforming defence<br />

ensured the role of the JMSDF in national defence,<br />

and though it did not prevent a downsizing of<br />

the fleet’s inventory, it did pave the way for<br />

platforms with a strong expeditionary appeal.<br />

In the Pacific, the naval core of Japan’s most<br />

apparent Cold War threat had started depleting<br />

rapidly and whilst China’s expanding ‘scope of<br />

activities in the high seas’ was to be observed<br />

with a keen eye, its force modernisation was<br />

‘expected to gradually proceed at a moderate<br />

rate’. 50 Such considerations were coupled with<br />

other more crucial domestic factors, namely a<br />

period of severe economic recession which had<br />

affected the country since the beginning of the<br />

decade. Compared to the force level established<br />

by the 1976 NDPO, the new document called<br />

for a reduction of approximately 16% of the<br />

surface fleet (from approx. 60 to approx. 50<br />

major vessels) and of almost 23% of the air<br />

component (from approx. 220 to approx.<br />

170 aircraft). 51 The principal addition to the<br />

navy’s evolving inventory was introduced in<br />

1993, when following the first deployments<br />

overseas for UN-led peace support operations,<br />

the JMSDF dusted off the mid-1980s studies<br />

for a larger amphibious unit and used them as<br />

basic design to procure its first landing ship,<br />

Osumi (LST-4001). With its 8,900 tons of<br />

displacement, helicopter flight deck, internal<br />

landing platform dock (LDP) equipped with<br />

landing crafts air cushion (LCAC), the Osumi<br />

soon became an iconic symbol of the JMSDF’s<br />

contribution to Japan’s ambitions as an active<br />

player in international stability. The limited<br />

presence of point-defence systems for selfprotection<br />

emphasised its original vocation as a<br />

delivery platform, but made it also dependant<br />

on the protection of other escort units in the<br />

case of overseas dispatches. In 1998 and 1999,<br />

other two units of the same class were procured<br />

to fulfil the requirements of the new national<br />

official policy.<br />

<br />

3


3<br />

In 2004, the pace of the structural transformation<br />

initiated in the mid-1990s was further incremented<br />

in the revised version of the NDPO. The new<br />

document, which was approved in December as<br />

NDPG, 52 sought to address Japan’s responses<br />

to the systemic changes brought about by the<br />

9/11 attacks to the United States, North Korea’s<br />

political brinkmanship and nuclear policies, and<br />

China’s double-digit investments in military<br />

modernisation. Compared to its predecessor,<br />

the NDPG emphasised more the existence<br />

of conventional sources of military concern<br />

in the region. Nonetheless, it maintained an<br />

overall balanced approach calling for a military<br />

capable of protecting the country’s territory,<br />

whilst enhancing the nation’s international<br />

status and responsibilities. As a result, the<br />

Japanese military needed to continue its path<br />

from a ‘deterrent effect-oriented’ to a ‘response<br />

capability-oriented’ posture, in order to become<br />

a fully ‘multi-functional flexible defence force’<br />

(MFFDF). 53 The JSDF were to complete the<br />

recalibration of their capabilities to maximise<br />

the prevention or the emergence of threats to the<br />

nation and in case of emergencies, to determine<br />

‘where and how’ to employ of the country’s<br />

military might ‘to maximum effect’. 54 In March<br />

2006, the upgrading of the Joint Staff Office<br />

(JSO) as the coordinating body for operations<br />

like BMD, defence of off-shore islands and<br />

disaster relief, set a new milestone in that<br />

direction. 55<br />

For the JMSDF, the new national doctrine<br />

rewarded the ongoing transformation from a<br />

Cold war ‘sea denial’ force to one engaged at<br />

various degrees in defence against maritime<br />

power projection exploiting sea control (to<br />

defend Japan’s maritime space), expeditionary<br />

capabilities (to contribute to international<br />

security) and ‘good order at sea’ (to contribute<br />

to the safety of maritime activities). 56 In<br />

his official instructions, CMS Admiral Furusho<br />

Koichi (2003-2005) formalised the navy’s<br />

evolving characteristics introducing the concept<br />

of ‘flexibility’ 57 as one of the core tenets of the<br />

navy’s own doctrine. Each task had not to be<br />

blindly carried out along pre-established lines<br />

or plans as was the case during the Cold War;<br />

rather, from the commanders deployed at sea<br />

to the strategic planners in Tokyo, all service<br />

members had to learn to diversify their responses<br />

to meet ‘the unexpected’. 58 The fleet also was to<br />

be reorganised, with the basic tactical formation<br />

shifting from the ASW flotilla (7 DDs + 1<br />

DDH) to the Escort Division (3 DDs + 1 DDH,<br />

or 1 DDG). Compared to the 1995 NDPO, the<br />

relative slowdown of the force downsizing<br />

penned by the NDPG, equal to about 9% of<br />

its surface fleet (from approx. 50 to 47 units)<br />

and a little less than 12% of the air arm (from<br />

approx. 170 to approx. 150 aircraft), partly<br />

gauged such a diversification and widening of<br />

the navy’s commitments. 59 The JMSDF had to<br />

ready itself to deal with conventional threat<br />

(e.g. limited missile attack, illegal occupation<br />

of parts of the country, violation of territorial<br />

air and maritime space) as well as more multinational<br />

commitments.<br />

The increase of naval activities in Japan’s<br />

surrounding maritime milieu made the JMSDF<br />

of the new century as strategically important as<br />

ever in the past. Already in 2001, CMS Admiral<br />

Ishikawa Toru (2001-2003) had eloquently<br />

pointed out that ‘for the JMSDF, the dawn of the<br />

21 st century paved the way to an “era of [hard]<br />

work”. 60 In one step, learning the lessons of the<br />

77-year long history of the IJN, the JMSDF has<br />

passed from a period of “infancy” 61 to one of<br />

“maturity”’. 62 The 2004 NDPG had indirectly<br />

taken note of the Admiral’s words expanding<br />

the undertaking of the JMSDF. In accordance<br />

with the tradition developed in the Cold War, the<br />

leaders of the force responded to the challenge<br />

by opting for a balanced force which could use<br />

the versatility of its assets to maintain at the<br />

same time an effective defensive system against<br />

the ambitions of regional competitors and the<br />

necessary lifting capability to comply to the<br />

expeditionary nature of the nation’s growing<br />

international commitment.<br />

conclusIons<br />

At a more close scrutiny, the history of Japan’s<br />

post-war defence and naval policy strongly<br />

suggests that it is misleading to categorise<br />

the recent transformation of the archipelago’s<br />

military posture as one eyeing power projection<br />

capabilities. Since the second half of the 1970s,<br />

the JMSDF has constantly endeavoured to<br />

improve the quality of the platforms of its<br />

fleet and the basic rationale underpinning its<br />

procurement policies was one dominated by<br />

issues of sea lanes defence (up to a 1,000 nautical<br />

miles form Japanese shores in the 1980s) and of<br />

sea control within the national maritime space.<br />

More recently, the modernisation process and<br />

naval activities of the People’s Liberation<br />

Army Navy (PLAN) and North Korea’s missile<br />

capabilities made of the potential applications in<br />

fleet air defence and BMD of the latest Kongo<br />

(DDG-173) and Atago (DDG-177) class of<br />

Aegis-equipped destroyers a clear example of<br />

the JMSDF’s state-of-the-art defensive means<br />

to maintain sea control in the waters of the<br />

western Pacific. Against this backdrop, with the<br />

new Hyuga class of helicopter carriers, which<br />

can carry a combination of up to 10 SH-60K<br />

Helicopters and MCH-101 for ASW and Search<br />

and Rescue and is equipped with one 16-cell<br />

Mk41 vertical launch system – VLS -, 2 Phalanx<br />

multi-barrel CIWS and Aegis-type air defence


system, the JMSDF has effectively moved<br />

towards a more flexible force with an improved<br />

ability to perform both ASW and expeditionary<br />

operations (to defend off-shore islands as well<br />

as provide humanitarian assistance). Yet, taken<br />

altogether, these platforms are unlikely to<br />

empower the country with sustainable offensive<br />

capabilities, as it is implicit in maritime power<br />

projection.<br />

From a political point of view, over the past<br />

few years the boundaries of Japan’s defence<br />

have been stretched and widened to the point<br />

that in 2006, former Prime Minister Abe argued<br />

that in the case of imminent missile threats to<br />

the archipelago, it was admissible the use of<br />

pre-emptive strikes on foreign hostile missile<br />

bases. 63 These considerations notwithstanding,<br />

the archipelago’s constitutional law has not<br />

changed and still it ‘does not permit armed<br />

troops to be dispatched to the land, sea, or<br />

airspace of other countries with the aim of<br />

using force’. The normative status quo, whilst<br />

in evolution, is representative of a constraint in<br />

the use of military power which is not merely<br />

political, but also social and psychological on a<br />

wider national level. Similarly, the pursuit of an<br />

‘exclusively defence-oriented’ military posture<br />

continues to represent one of the bedrocks of<br />

the country’s defence policy-making process. 64<br />

These fundamental facets of Japan’s defence<br />

posture are unlikely to undergo radical changes<br />

in the future and it is far from automatic to<br />

assume that partial revisions (most notably, the<br />

inclusion of the right to participate to forms<br />

of collective self-defence) will automatically<br />

translate into more offensive military strategies.<br />

The pathway of Japan’s post-war naval strategy<br />

and policies lead to the conclusion that what<br />

Japan is maturing is an amphibious capability<br />

to match the responsibilities as one of the<br />

largest world economies. The awakening to the<br />

problems of world’s stability played a significant<br />

role in the navy’s decision to procure platforms<br />

to operate at greater distances and to maintain<br />

the command of the sea in the areas like the Sea<br />

of Japan and the East China Sea. The Osumi and<br />

Hyuga class of ships are the iconic symbols of<br />

the JMSDF’s capacity to procure assets capable<br />

of empowering Tokyo’s policy-planners with the<br />

strategic flexibility to commit to expeditionary<br />

missions. Whether and to what extent Japan’s<br />

governments will decide to engage in this sort of<br />

mission is a different story, one that will require<br />

more time to write.<br />

KunisAKi e CLAsse Musyu in nAvigAzione<br />

Missione indonesiA<br />

<br />

3

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