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438 Legislazione suntuaria Quanto ai temi affrontati nei testi legislativi, si tratta di controllo del lusso principalmente nelle vesti, nei conviti e nelle cerimonie funebri. Già se ne sono occupati gli storici eruditi del Settecento, da Ludovico Antonio Muratori a Ireneo Affò. Il primo, pubblicando la cronaca piacentina di Giovanni Mussi, e ripubblicando poi il lungo brano che il Mussi dedicava, intorno al 1388, ai costumi piacentini 1 . Il secondo, citando le norme del 1258, ma rendendosi conto della loro scarsa applicabilità: «…e sopraggiunto il novell’anno [1258] (…) i nostri Anziani (…) molte cose ordinarono al vantaggio universale, tra cui trovo (…) la moderazione del lusso nelle donne, solite portar lunghissime code alle vesti, che si vollero tolte (…) con gravi pene ai sarti, che le avessero tagliate più lunghe. A questo lusso però esser dovette freno migliore la gravissima carestia, onde il paese fu travagliato (…) la quale disavventura seguita venne da grave mortalità cominciata la settimana di Passione del 1249» 2 . Il giudizio scettico nei confronti delle norme suntuarie è peraltro condiviso dagli storici locali dell’Otto e Novecento, come Luciano Scarabelli, Angelo Ronchini, Giovanni Drei. In realtà, a quanto risulta dalla ricerca compiuta, che ha portato ad esaminare una massa ragguardevole di fonti, la legislazione suntuaria si riduce a ben poco, soprattutto al confronto con altre realtà, come quella bolognese. Per di più è assai sgranata nel tempo. La decimazione delle fonti, per cause diverse, non è però la solala principale ragione della scarsa presenza di normativa specifica nelle due città. Sembra infatti che la limitazione delle spese, a difesa dei patrimoni cittadini, non fosse tra le preoccupazioni principali dei governi comunali. Esse sono inoltre totalmente assenti dagli statuti dei comuni del territorio sia di Parma sia di Piacenza. Il confronto con Milano si impone, data la incombente vicinanza fisica e politica della metropoli. Già nel 1920 il Drei 3 lo sottolineava, facendo riferimento alle leggi suntuarie di Milano, accuratamente studiate da Ettore Verga tra Otto e Novecento 4 . La quasi totale assenza di normativa suntuaria dalla legislazione del- 1 IOHANNES DE MUSSIS, Placentinae Urbis (…) descriptio, in L.A. MURATORI, R. I. S. 1 , XVI, col. 561 segg.; L.A. MURATORI, Antiquitates Italicae Medii Aevi, II, Dissertatio vigesimatertia. De moribus Italicorum post arreptam a barbaris Italiae dominationem, Milano 1739, coll. 295-346. 2 I. AFFÒ, Storia della città di Parma, Parma 1792-1795, voll. 4; III, pp. 248-249. 3 G. DREI, Le leggi suntuarie a Parma, in Miscellanea di studi storici in onore di Giovanni Sforza, Lucca 1920, pp. 1-19. 4 E. VERGA, Le leggi suntuarie milanesi. Gli statuti del 1396 e del 1498, in «Archivio Storico Lombardo», s. III, v. IX, a. XXV (1898), pp. 5-79; Le leggi suntuarie e la decadenza dell’industria in Milano, ibid., s. III, v. XIII, a. XXVII (1900), pp. 51-116.

Parma e Piacenza 439 la capitale lombarda viene collegata a quelle che oggi chiameremmo necessità del mercato. A Milano però si tendeva a seguire un principio ugualitario, mentre a Parma sono sempre presenti le eccezioni alla regola: per esempio, non sono soggette a limitazioni le mogli, figlie, nipoti di marchesi, conti, capitanei, cavalieri (milites), avvocati “de fingaida” (mantello prezioso loro riservato) 5 . Centro di produzione, Milano aveva bisogno che il commercio dei beni di lusso prosperasse – atteggiamento che già alla metà del Seicento (tuttavia, epoca tarda per il terminus ad quem di questa ricerca) viene lucidamente teorizzato, come rileva dettagliatamente il Verga. Qualcosa di analogo si verifica per Parma, quando nel 1648 si confermano privilegi all’arte della seta, oro e argento, perché l’arte della seta «mantiene doi terzi della città» 6 . E c’è anche chi, come lo Scarabelli, giustifica il lusso non solo sotto il profilo economico, ma anche dal punto di vista etico, e tanto peggio per chi ne pagasse lo scotto: «Il ricco ed elegante abbigliarsi per dar risalto alla bellezza è un altro indizio di costume gentile, e sebbene molti per fare più che non era loro permesso dalle domestiche finanze, rovinavan la casa non guastavano la città; avvegnaché il denaro manteneva artigiani assai in vita comoda e in virtù; e se calava qualche ambizioso sorgeva alcuno onesto operaio, e collo sfascio di una famiglia, tre o quattro si toglievano dalla miseria» 7 . Del resto in epoca signorile il lusso è quasi una necessità politica: lo splendore della corte – e delle classi agiate cittadine – è assunto come testimonianza di buon governo e di potere. A Parma e a Piacenza la presenza della corte farnesiana pesa di certo sulla questione suntuaria. Nel saggio già citato il Drei vi fa più volte riferimento, per esempio quando si sofferma sulle eccessive spese per le monacazioni: annota infatti come i Farnese non insistessero sull’applicazione delle norme riduttive, in quanto «inclini a favorire i monasteri, per sentimento religioso, e per opportunismo politico» 8 . Ancora il Drei, commentando la Prammatica del 1559 (qui alle pp. 459- 465), sottolinea: 5 Statuta Communis Parmae, a cura di A. RONCHINI, Parma 1856-1860, voll. 4; IV, p. 310, nota 1. 6 AS PR, “Statuti dell’arte della seta, oro ed argento”, copia fotografica da originale di proprietà privata. 7 L. SCARABELLI, Istoria civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, stampato in Italia nel 1846 (ma pubblicato nel 1858), voll. 2; II, pp. 141-142. 8 Si veda a tale proposito il saggio di L. ARCANGELI, Ragioni politiche della disciplina monastica. Il caso di Parma tra ’400 e ’500, in Donna, disciplina, creanza cristiana, a cura di G. ZARRI, Roma 1996, pp. 165-187.

Parma e Piacenza 439<br />

<strong>la</strong> capitale lombarda viene collegata a quelle che oggi chiameremmo necessità del<br />

mercato. A Mi<strong>la</strong>no però si tendeva a seguire un principio ugualitario, mentre a<br />

Parma sono sempre presenti le eccezioni al<strong>la</strong> rego<strong>la</strong>: per esempio, non sono soggette<br />

a limitazioni le mogli, figlie, nipoti di marchesi, conti, capitanei, cavalieri<br />

(milites), avvocati “de fingaida” (mantello prezioso loro riservato) 5 .<br />

Centro di produzione, Mi<strong>la</strong>no aveva bisogno che il commercio dei beni<br />

di lusso prosperasse – atteggiamento che già al<strong>la</strong> metà del Seicento (tuttavia,<br />

epoca tarda per il terminus ad quem di questa ricerca) viene lucidamente teorizzato,<br />

come rileva dettagliatamente il Verga. Qualcosa di analogo si verifica<br />

per Parma, quando nel 1648 si confermano privilegi all’arte del<strong>la</strong> seta, oro e<br />

argento, perché l’arte del<strong>la</strong> seta «mantiene doi terzi del<strong>la</strong> città» 6 . E c’è anche<br />

chi, come lo Scarabelli, giustifica il lusso non solo sotto il profilo economico,<br />

ma anche dal punto di vista etico, e tanto peggio per chi ne pagasse lo<br />

scotto:<br />

«Il ricco ed elegante abbigliarsi per dar risalto al<strong>la</strong> bellezza è un altro indizio di<br />

costume gentile, e sebbene molti per fare più che non era loro permesso dalle<br />

domestiche finanze, rovinavan <strong>la</strong> casa non guastavano <strong>la</strong> città; avvegnaché il denaro<br />

manteneva artigiani assai in vita comoda e in virtù; e se ca<strong>la</strong>va qualche ambizioso<br />

sorgeva alcuno onesto operaio, e collo sfascio di una famiglia, tre o quattro<br />

si toglievano dal<strong>la</strong> miseria» 7 .<br />

Del resto in epoca signorile il lusso è quasi una necessità politica: lo<br />

splendore del<strong>la</strong> corte – e delle c<strong>la</strong>ssi agiate cittadine – è assunto come testimonianza<br />

di buon governo e di potere. A Parma e a Piacenza <strong>la</strong> presenza<br />

del<strong>la</strong> corte farnesiana pesa di certo sul<strong>la</strong> questione <strong>suntuaria</strong>. Nel saggio già<br />

citato il Drei vi fa più volte riferimento, per esempio quando si sofferma sulle<br />

eccessive spese per le monacazioni: annota infatti come i Farnese non insistessero<br />

sull’applicazione delle norme riduttive, in quanto «inclini a favorire<br />

i monasteri, per sentimento religioso, e per opportunismo politico» 8 .<br />

Ancora il Drei, commentando <strong>la</strong> Prammatica del 1559 (qui alle pp. 459-<br />

465), sottolinea:<br />

5 Statuta Communis Parmae, a cura di A. RONCHINI, Parma 1856-1860, voll. 4; IV, p.<br />

310, nota 1.<br />

6 AS PR, “Statuti dell’arte del<strong>la</strong> seta, oro ed argento”, copia fotografica da originale di<br />

proprietà privata.<br />

7 L. SCARABELLI, Istoria civile dei ducati di Parma, Piacenza e Guastal<strong>la</strong>, stampato in Italia<br />

nel 1846 (ma pubblicato nel 1858), voll. 2; II, pp. 141-142.<br />

8 Si veda a tale proposito il saggio di L. ARCANGELI, Ragioni politiche del<strong>la</strong> disciplina monastica.<br />

Il caso di Parma tra ’400 e ’500, in Donna, disciplina, creanza cristiana, a cura di G.<br />

ZARRI, Roma 1996, pp. 165-187.

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