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la legislazione suntuaria. secoli xiii-xvi. emilia-romagna - Direzione ...

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XXIV Legis<strong>la</strong>zione <strong>suntuaria</strong><br />

traendo risorse alle necessità cittadine conseguenti al<strong>la</strong> delicata fase di «movimenti<br />

di guerre et precipue (…) grandissimi apparati et imminenti periculi<br />

del Turco». La grida può essere così sintetizzata: meno vesti e più armi da<br />

fuoco.<br />

A Faenza a metà del Cinquecento si dice che il lusso era «corruttore de’<br />

costumi e cagione fortissima d’impoverimento» mentre a Cesena nel 1575 si<br />

dichiara che <strong>la</strong> città è sommersa dalle spese inutili. Senza dubbio, si legge<br />

nel<strong>la</strong> provvigione piacentina del 1567, molti hanno contratto debiti di notevole<br />

entità fino a diventare poveri «in eorum maximum preiudicium et detrimentum<br />

ac etiam ipsorum et publici dedecus et damnum». Molti, riferisce<br />

un consigliere imolese che prese parte nel 1541 al dibattito sull’opportunità<br />

di intervenire nuovamente a disciplinamento dei lussi, a causa delle spese<br />

disordinate in vesti ed ornamenti «ad summam egestatem devenerunt et,<br />

ut in vulgo dicitur, sono andati in ciatte». La rovina era per tanti dietro l’angolo<br />

e poteva annidarsi anche nelle pieghe di un abito costoso.<br />

Per <strong>secoli</strong> si è legiferato su vesti, ornamenti, funerali, convivi e, ma solo<br />

limitatamente, su lessi e arrosti con risultati certamente ridotti se non deludenti<br />

come prova anche <strong>la</strong> reiterata riproposizione di queste norme. La legis<strong>la</strong>zione<br />

attesta anche questo, cioè il disincanto quando non <strong>la</strong> stanchezza<br />

di chi si oppone a un nemico sfuggente e potente: <strong>la</strong> vanità degli uomini e<br />

delle donne, il bisogno di affermazione sociale, <strong>la</strong> voglia di ostentare dei<br />

privilegiati, il gusto per il piacere tattile e visivo di una veste di seta lucida e<br />

morbida e, perché no, <strong>la</strong> forza del mercato. Si legge nel proemio al<strong>la</strong> riforma<br />

«intorno il vestire delli huomini et delle donne» fatta a Rimini nel 1573<br />

che l’esperienza prova come «né <strong>la</strong> consideratione del<strong>la</strong> perdita et danno<br />

spirituale, né del danno temporale» frenano «l’inordinata voluntà dell’uomo».<br />

Ciò nonostante viene emanato un provvedimento fra i più artico<strong>la</strong>ti<br />

che divide le donne in quattro categorie: maritate, vedove, non maritate e<br />

donzelle. Sono consapevoli del<strong>la</strong> scarsa adesione ai principi delle leggi anche<br />

i consiglieri imolesi che nel 1541 raccomandano di emanare un decreto<br />

solo se si ha <strong>la</strong> forza di farlo osservare, altrimenti «melius est non condere<br />

leges quam a conditis turpiter desistere». Nonostante stanchezza e disincanto<br />

gli imolesi continuarono a legiferare per impedire che chiunque potesse<br />

vestire «cum auro» in tempi in cui si servono «di vestiti bordati d’oro anche<br />

i guardiani di pecore e di capre». È un paradosso, si intende, come quando<br />

a Modena nel 1538 si sostiene <strong>la</strong> necessità di limitare le doti e cioè che «sino<br />

ali carcio<strong>la</strong>ri ardiscono de domandare quel<strong>la</strong> dota che già era honorevo<strong>la</strong><br />

ale prime casate di Modona, cioè scuti 200». È credibile invece che molti<br />

vestissero, come è detto sempre a Imo<strong>la</strong>, «supra eorum conditionem et facultatem»<br />

o comunque liberamente, senza conformarsi a prescrizioni a tal<br />

punto puntigliose da indicare, come in una grida emanata a Modena nel

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