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Anno 6 - Numero 3 Luglio - Settembre 2010 - Circolo culturale ...

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<strong>Anno</strong> 6 - <strong>Numero</strong> 3 Rivista di Cultura Storia e Tradizioni<br />

<strong>Luglio</strong> - <strong>Settembre</strong> <strong>2010</strong>


In copertina<br />

Gaspare e Gioconda<br />

con le figlie<br />

Costanza e Tecla (1931)<br />

Ogni uomo<br />

Ogni uomo<br />

ha una meta,<br />

ma complesso<br />

è l’arrivo.<br />

Nessuno sa il perchè<br />

e chi cercando,<br />

l’ha capito<br />

appare senza parole.<br />

Editoriale<br />

La storia della Guglielmone biscotti & panettoni<br />

Il panettone è (quasi) nato a Mortara<br />

L’Ordine Mortariense tra accoglienza e spiritualità<br />

I Diligenti e l’arte drammatica italiana<br />

Gli Strada, famiglia di nobiluomini<br />

I Borgia, una stirpe piena di veleni<br />

La turbolenta casata dei Visconti<br />

La Regina<br />

da “Riflessi”,<br />

Giancarlo Costa (marzo 2009)<br />

XV Concorso Nazionale di Fotografia “Città di Mortara”<br />

Sommario<br />

di Fausto Ciniselli<br />

di Sandro Passi<br />

di Luisa Castelli<br />

3<br />

4<br />

8<br />

9<br />

di Eufemia Marchis Magliano 11<br />

di Umberto De Agostino 15<br />

di Nadia Farinelli 18<br />

di Graziella Bazzan 21<br />

di Gianluca Ceriana 24<br />

27


Quando la cultura abita... in casa<br />

Storie di famiglia<br />

e famiglie<br />

nella storia<br />

di<br />

Marta Costa<br />

C’è un luogo “terreno” da cui, ogni<br />

giorno, parte e ritorna la parabola di<br />

ognuno di noi. Un luogo in cui si gettano<br />

le fondamenta della società, in<br />

cui si impara l’abbiccì del mondo e si<br />

formano i caratteri, le gioie e i dolori, gli interessi e<br />

le motivazioni. Questo luogo, così decisivo per le<br />

sorti dell’individuo, si chiama famiglia. Se l’uomo<br />

è l’atomo, il nucleo famigliare è la molecola. La<br />

base, il “quartier generale” della vita. Per questo Il<br />

Vaglio vuole dedicare al tema i servizi di questo numero.<br />

Affrontando il concetto di famiglia in senso<br />

esteso, e non solo nella sua connotazione biologica.<br />

Non a caso si parte con l’album di ricordi, curato<br />

da un diretto protagonista, di una storica realtà produttiva<br />

mortarese: la Guglielmone. Fausto Ciniselli,<br />

per molti anni chimico dell’azienda, ricostruisce<br />

l’epopea del biscottificio con appassionante verve,<br />

rispolverando dai cassetti della memoria aneddoti,<br />

tipi umani, episodi più gustosi di un panettone.<br />

Ne scaturisce un doppio ritratto di famiglia: da<br />

un lato quello dei lungimiranti titolari, perspicaci<br />

pionieri del marketing e delle strategie promozionali,<br />

dall’altro quello dell’affiatato team dei dipendenti,<br />

ciascuno con la propria tempra e le proprie<br />

specializzazioni. Di famiglie “allargate”, ma questa<br />

volta in chiave spirituale, si parla anche nel contributo<br />

redatto dall’insegnante Luisa Castelli con le<br />

classi 3ªA e 3ªE dell’Istituto Pollini. In primo piano<br />

è l’Ordine Mortariense, congregazione che rivestì<br />

un ruolo di assoluta rilevanza nella definizione<br />

degli assetti storici, politici ed economici del territorio<br />

lomellino (e non solo) nei secoli dell’età di<br />

mezzo. Splendori e declino dei religiosi accasati a<br />

Santa Croce rivivono in una concisa ma stimolante<br />

esposizione. Un’ellissi di quattrocento anni e oltre<br />

conduce poi ai teatri della seconda metà dell’Ottocento,<br />

quando i palcoscenici d’Italia e d’Europa<br />

vennero calcati dalla famiglia Diligenti (cognome<br />

d’arte assunto, per la prima volta, da Giuseppe<br />

Angelo Filippo Marazzi, discendente di un’antica<br />

dinastia di attori). Eufemia Marchis Magliano ne<br />

ripercorre con puntuale prosa i successi e le sventure,<br />

consegnando ai lettori uno scorcio della storia<br />

dell’arte drammatica italiana. La nobile casata degli<br />

Strada e il suo rapporto con Ferrera Erbognone è<br />

invece al centro del servizio firmato da Umberto De<br />

Agostino, mentre gli intrighi, gli scandali, le morti<br />

e i sospetti che gravitarono intorno alla famiglia<br />

Borgia (il cui patriarca, è bene ricordarlo, fu papa<br />

Alessandro VI) sono descritti dalla vivace penna di<br />

Nadia Farinelli. Fanno seguito le intricate vicissitudini<br />

degli Sforza, per centocinquant’anni in sella ai<br />

domini lombardi. Graziella Bazzan mette abilmente<br />

in luce debolezze e virtù degli uomini che ressero le<br />

sorti del ducato milanese fino al 1449.<br />

Chiude il cerchio un dettagliato racconto d’ambientazione<br />

altomedievale, arricchito da interessanti citazioni<br />

storico-linguistiche, in cui Gianluca Ceriana<br />

immagina contorni e atmosfere di un importante<br />

matrimonio. Quello, avvenuto a Lomello nel remoto<br />

novembre del 590, tra la regina dei Longobardi,<br />

Teodolinda, e l’allora duca di Torino Agilulfo. Per i<br />

libri di storia, quell’evento diede il via a un’epoca.<br />

Per i due sposi, fu l’inizio di una famiglia.<br />

luglio - settembre <strong>2010</strong><br />

3<br />

EDITORIALE


Cultura&&&<br />

Lavoro<br />

Le tre figure chiave<br />

dell’azienda:<br />

il fondatore, Pietro<br />

Guglielmone,<br />

il primo figlio<br />

Giovanni, valido<br />

amministratore<br />

della società,<br />

e il secondo,<br />

Erminio, direttore<br />

dello stabilimento<br />

4 IL VAGLIO<br />

La storia<br />

della Guglielmone<br />

biscotti & panettoni<br />

I RICORDI DI UN “VETERANO” DELL’AZIENDA<br />

La Guglielmone fu un’azienda tra le più<br />

gloriose della realtà industriale mortarese.<br />

Tre i nomi da ricordare, tre gli uomini<br />

che la crearono. Il fondatore, Pietro Guglielmone,<br />

che nel lontano 1883 iniziò<br />

aprendo in Piazza del Municipio, a Mortara, un bar<br />

pasticceria, che divenne in breve tempo luogo di incontro<br />

dell’élite mortarese. Il primo figlio, Giovanni,<br />

valido amministratore della società (già allora dirigeva<br />

un ufficio con cento impiegati in piazza Duomo a<br />

Milano!) nonchè sagace uomo di marketing ante litteram.<br />

Il secondo, Erminio, direttore dello stabilimento<br />

di Mortara, infaticabile lavoratore, dotato di lucida<br />

intelligenza, costantemente proteso alla ricerca di innovazioni<br />

per migliorare i prodotti.<br />

Risparmiamo gli sterili dettagli tecnici sull’organizzazione,<br />

sia del primo, sia del successivo, nuovo e più<br />

moderno stabilimento, preferendo invece rievocare<br />

alcuni episodi di “colore” afferenti la quotidiana vita<br />

di fabbrica, con i suoi protagonisti: uomini che per dedizione,<br />

generosità e quella giusta dose di disincanto<br />

e leggera ironia, hanno saputo affrontare – con spirito<br />

certo pionieristico – anche compiti gravosi, e risolvere<br />

impreviste situazioni di emergenza.<br />

Mi perdonerete se solo di alcuni ricorderò il nome, ma<br />

vi assicuro che di tutti ho scolpito il ricordo.<br />

Non di rado oggi restiamo a bocca aperta quando ci<br />

capita di assistere alle varie fasi di lavorazione, meccanizzata<br />

ed informatizzata, del ciclo di produzione di<br />

un prodotto. Uguale stupore proveremmo se potessimo<br />

osservare le stesse fasi, compiute però interamente<br />

dall’uomo, ripercorrendole in una sorta di cammino<br />

a ritroso nel passato. Tra i compiti più impegnativi cui<br />

di<br />

Fausto Ciniselli<br />

gli operatori della Guglielmone dovevano attendere,<br />

vi era senza dubbio la movimentazione dei panettoni,<br />

che, posti ancora crudi e non lievitati, su assi di<br />

supporto (in file da dieci), dovevano essere introdotti<br />

per promuoverne la lievitazione in apposite camere<br />

di lievitazione a 38/40 gradi di temperatura e 80% di<br />

umidità. E ancora: le assi introdotte dovevano essere<br />

poste in incasellature a più ripiani, che dal basso, arrivavano<br />

quasi al livello del soffitto. Manovre opposte,<br />

poi, si dovevano fare a panettoni lievitati.Tutto questo<br />

a torso nudo e a forza di braccia degli addetti alla descritta<br />

movimentazione.<br />

Altra incombenza decisamente impegnativa era quella<br />

dell’addetta al forno a cialde, la quale doveva stare<br />

in piedi, davanti a stampi roventi (riscaldati a fiamma<br />

diretta), per staccare da ogni stampo la relativa cialda<br />

cotta, e i singoli stampi si presentavano alla velocità<br />

di 12 al minuto, con il risultato che attorno all’operatrice<br />

l’aria era, di regola, vicina ai 40 gradi!<br />

Quanta fatica per qualche secondo di dolce felicità per<br />

l’ignaro consumatore!<br />

Parlando per l’appunto di ghiottonerie è impossibile<br />

non citare i mitici “cubini”, cioccolatini a forma di<br />

cubo, con in mezzo un dolce strato bianco di burro<br />

di cacao. I cubini venivano avvolti – uno ad uno – da<br />

una squadra di operatrici addette alla confezione,<br />

spesso intente, a testimonianza della bontà del prodotto,<br />

alla sua piacevole degustazione. Fu così deciso<br />

di effettuare un raffronto tra il numero di cubini<br />

entrati dalla fabbricazione e usciti dalla confezione,<br />

e chi scrive, suo malgrado, venne incaricato del relativo<br />

controllo. Dovendo dare notizia degli ammanchi<br />

rilevati direttamente ad Erminio Guglielmone, egli mi


ispose, riferendosi alle addette, col pragmatismo che<br />

lo contraddistingueva: «Meglio lasciarle mangiare<br />

perché, prima o poi, si stuferanno anche dei cubini!»<br />

Era evidentemente consapevole dalla volubilità dei<br />

gusti del consumatore, e della necessità di carpire la<br />

sua attenzione con prodotti sempre nuovi ed allettanti.<br />

La “nostra” Torta Paradiso era distribuita in astuccio<br />

recante una poesia scritta in dialetto lombardo da Gabriele<br />

D’Annunzio, a lode della squisitezza del prodotto,<br />

con versi autografi stampati sulla confezione.<br />

Non meno sorprendente e innovativo per l’epoca fu<br />

l’accostamento tra la voce di Natalino Otto e i prodotti<br />

Guglielmone alla Fiera Campionaria di Milano.<br />

Mi riferisco a un biscotto rotondo, chiamato “Marie”,<br />

che, già di per sé apprezzato per le sue intrinseche<br />

qualità, conobbe un ulteriore incremento delle vendite<br />

grazie a due geniali iniziative pubblicitarie della Guglielmone.<br />

Venne deciso di cambiare in “Oj Marì” la<br />

precedente (più anonima) denominazione di “Marie”,<br />

e di presentare il prodotto alla Fiera, sottolineandolo<br />

col commento musicale della voce registrata di un<br />

Natalino Otto, impegnato a cantare, con la sua ben<br />

nota vocalità “swing”, un’inedita versione della partenopea<br />

“Oj Marì”, con effetti dirompenti per l’epoca.<br />

Originale fu anche l’accostamento tra il panettone e la<br />

mitica impresa della scalata al K2 compiuta da Compagnoni<br />

e Lacedelli nel 1954. In quell’anno i prodotti<br />

della Guglielmone vennero esibiti in uno spazio espositivo<br />

messo a disposizione dal Comune di Mortara<br />

nelle scuole Elementari, sul quale campeggiava un<br />

imponente olio su tela (il cui valente autore credo fosse<br />

Gandini) con la sagoma della celebre vetta.<br />

Come è facile intuire da quanto esposto, in quegli anni<br />

si viveva un importante momento di transizione nel<br />

quale sempre più forti erano gli stimoli al passaggio<br />

dalla produzione in piccola scala alla produzione industriale,<br />

al fine di soddisfare le esigenze di un consumatore<br />

sempre più attento e consapevole del proprio<br />

ruolo. Nel campo della dolciaria tale cambiamento ha<br />

comportato sforzi non indifferenti: il lievito, atto a far<br />

fermentare la pasta dei panettoni, come tutti sanno,<br />

è un microrganismo dal carattere imprevedibile, essendo<br />

una cosa viva! Alle sue bizzarrie non è facile<br />

adeguarsi: ancora oggi per averne approfondita conoscenza<br />

occorrono anni di esperienza, ed il mestiere di<br />

“lievitista” si apprende sul campo, nutrendo il lievito<br />

periodicamente, dosando oculatamente – con metodo,<br />

magari empirico ma efficace - le dosi di farina ed acqua<br />

che gli occorrono più volte al giorno, esaminandolo<br />

e curandolo senza sosta come un bambino.<br />

È così che ho iniziato, lasciando in un angolo i testi di<br />

chimica studiati all’università, consapevole che solo<br />

la classica gavetta mi sarebbe stata d’aiuto, consentendomi<br />

di superare, quando mi venne affidata la gestione<br />

dal punto di vista qualitativo della produzione,<br />

la naturale diffidenza dei mortaresi che mi chiedevano:<br />

«A si ancùra bon da fa i paneton?». Quella frase<br />

- detta al plurale - lascia facilmente intendere che,<br />

non solo nell’immaginario collettivo, ma anche nella<br />

realtà, il panettone, e di riflesso tutti i prodotti della<br />

Guglielmone, non potevano che essere frutto di un<br />

lavoro di squadra. Per questo vorrei chiudere questa<br />

prima parte del mio racconto menzionando – non me<br />

ne vorranno i più – solo alcuni esempi di coloro che<br />

in questa squadra hanno vissuto, lasciando un segno<br />

indelebile della loro indiscutibile personalità.<br />

luglio - settembre <strong>2010</strong><br />

5<br />

A sinistra<br />

Erminio Guglielmone,<br />

a destra<br />

una foto di famiglia<br />

degli industriali mortaresi<br />

Uno dei punti<br />

di forza<br />

fu la scelta<br />

di investire<br />

in strategie<br />

di marketing<br />

ante litteram,<br />

come l’accostamento<br />

del panettone<br />

alla mitica<br />

scalata del K2


Sopra, una locandina<br />

pubblicitaria,<br />

a destra il locale<br />

di piazza del Municipio<br />

Nel 1966<br />

la Guglielmone<br />

venne ceduta<br />

alla multinazionale<br />

Parein -<br />

De Beukelaer,<br />

che tra il 1970<br />

e l’anno successivo<br />

costruì il nuovo<br />

stabilimento<br />

di Mortara<br />

Il Silvio.<br />

Una vera “istituzione” nella Guglielmone. Assunto in<br />

officina come meccanico, presto ne uscì e, per la sua<br />

innegabile versatilità, divenne in breve tempo un indispensabile<br />

“solving problems” per tutti i reparti.<br />

Di lui è bello ricordare due tra le numerose imprese<br />

che lo hanno visto protagonista:<br />

- l’aver effettuato una indifferibile riparazione alla parete<br />

interna di un forno, ancor caldo (oltre 40 gradi<br />

di temperatura), entrandovi ed uscendo solo a riparazione<br />

eseguita;<br />

- l’aver realizzato, per sopraggiunte esigenze di spazio,<br />

lo spostamento di un forno a tunnel elettrico.<br />

Forno che, per sua natura, è destinato a rimanere<br />

inamovibile una volta installato, e che venne invece<br />

spostato collegandolo con una fune, e con le immaginabili<br />

cautele del caso, ad un automezzo posto in<br />

zona limitrofa.<br />

L’Albertina.<br />

Benchè madre natura non l’avesse dotata di una statura<br />

imponente, accettava con slancio di adempiere ad<br />

incombenze che avrebbero messo a dura prova soggetti<br />

fisicamente ben più dotati.<br />

* * *<br />

L’epopea storica della Guglielmone è giunta al culmine,<br />

ma l’indiscutibile valenza evocativa del suo<br />

marchio è tale che ancora sarà protagonista per molti<br />

anni sulle tavole dei consumatori, anche dopo la sua<br />

acquisizione da parte della multinazionale Parein - De<br />

Beukelaer, con l’immutato entusiasmo ed il fattivo<br />

apporto umano dei suoi operatori.<br />

Ma di questo parleremo in seguito.<br />

* * *<br />

Nel 1966 la Guglielmone viene ceduta alla multina-<br />

6 IL VAGLIO<br />

zionale dolciaria belga Parein - De Beukelaer. Il presidente<br />

della società Edouard De Beukelaer visitando<br />

lo stabilimento, lo aveva giudicato idoneo alla fabbricazione<br />

di prodotti da vendersi in Italia.<br />

Vengo confermato quale direttore di produzione e<br />

ricevo la visita del nuovo amministratore delegato,<br />

Joseph Verbruggen, il quale, dinamico e perspicace,<br />

subito comprese i meccanismi che regolavano il mercato<br />

della dolciaria in Italia.<br />

Dati i risultati positivi, dovuti ad un tangibile incremento<br />

della produzione, la nuova amministrazione<br />

pensò di far conoscere in Italia un loro prodotto: il<br />

P.P.F., un biscotto farcito alla crema, gusto cioccolato<br />

e vaniglia, che già aveva riscontrato successo e larga<br />

diffusione in Francia, Germania e Austria.<br />

Ai fini della relativa produzione del prodotto, ci venne<br />

fornito il necessario “know how” come oggi si usa<br />

dire, consistente in una macchina “farcitrice” e due<br />

“impacchettatrici”. Non fummo però dotati del pur<br />

necessario tunnel frigorifero per la dovuta refrigerazione<br />

del prodotto, che dovemmo costruirci noi stessi<br />

facendo ancora una volta appello all’italico ingegno,<br />

ossia alle risorse interne. Nel dettaglio fu il Wilmo a<br />

costruirlo. Un tecnico, purtroppo precocemente deceduto,<br />

che ricordo per il suo ingegno e la sua straordinaria<br />

capacità a creare – dal nulla – manufatti di<br />

ogni genere. Egli riuscì a fabbricare in ogni sua parte<br />

(trasportatore a nastro, frigorifero e mobile esterno)<br />

un tunnel lungo ben venti metri, che l’amministrazione,<br />

anche per la sua eleganza, decise di trasportare nel<br />

nuovo stabilimento. Così attrezzati riuscimmo a vendere<br />

tonnellate di P.P.F. in Italia!<br />

L’amministratore Joseph Verbruggen lasciò l’incarico,<br />

non senza aver prima provveduto, con l’abituale<br />

oculatezza e lungimiranza che lo contraddistingueva,


all’acquisto del terreno sul quale edificare il nuovo<br />

stabilimento, da erigersi nella circonvallazione Sud<br />

di Mortara, oggi vero polmone industriale e commerciale<br />

della città. Lo stabilimento venne costruito<br />

tra il 1970 ed il 1971, sul modello di analoghe realtà<br />

produttive esistenti in Belgio nelle città di Beveren ed<br />

Herentals, ove si producevano prodotti ancor oggi noti<br />

alla collettività intera: uno su tutti il cracker “Tuc”.<br />

Con l’avvio della produzione nel nuovo stabilimento,<br />

la Generale Biscuit Italia – questa la denominazione<br />

attribuita alla azienda mortarese – col tempo aveva<br />

consolidato la sua posizione, tanto da essere prima<br />

nell’Europa Continentale e terza nel mondo per la<br />

produzione di biscotti, venduti anche negli Stati Uniti<br />

col marchio LU - Burry LU - Mother’s LU, e in Giappone<br />

col marchio Glico LU. La Generale Biscuit aveva<br />

aperto stabilimenti, oltre al nostro, anche in Francia,<br />

Belgio, Olanda, Austria e Spagna. Realtà tuttora<br />

operanti, a differenza, purtroppo, di quella mortarese,<br />

legata unitamente ad altre fabbriche cittadine, ad un<br />

tragico destino di chiusura.<br />

* * *<br />

Già si è detto della costante presenza nel tempo di<br />

collaboratori che, con il loro acume, unito ad un’innegabile<br />

professionalità, hanno contribuito, per quanto<br />

di loro competenza, alla realizzazione di programmi<br />

e progetti a beneficio di questa importante realtà produttiva.<br />

Per quanto attiene al nuovo stabilimento, non<br />

posso esimermi dal ricordarne almeno tre:<br />

Il Luciano.<br />

Termoidraulico dotato di intelligenza pronta e vivace,<br />

pari alla sua piacevole stravaganza. Ebbe il merito di<br />

aver risolto diverse situazioni di estrema emergenza:<br />

- riattivando il meccanismo di condizionamento tem-<br />

peratura/vapore nella cella di fermentazione dei panettoni;<br />

- determinando, con l’ausilio di un pirometro termoelettrico,<br />

la temperatura delle piastre del forno cosiddetto<br />

“a tanks” (cioè a serbatoi);<br />

- operandosi costantemente per la gestione della grande<br />

centrale elettrica annessa allo stabilimento.<br />

Il Giancarlo.<br />

Tecnico delle macchine impacchettatrici: a lui va il<br />

merito di aver organizzato un gruppo automatico per<br />

la confezione di astucci atti a contenere biscotti in<br />

assortimento, con l’invidiabile capacità di illustrami<br />

ogni progetto proposto, con disegni geometrici a mano<br />

libera così accurati, da sembrare eseguiti con riga<br />

e compasso.<br />

Il Tino.<br />

Vero deus ex machina dei lieviti, successivamente titolare<br />

apprezzato dai mortaresi della rinomata “Pasticceria<br />

Raffaghelli”. Fu anche grazie a lui che il marchio<br />

Guglielmone (come produttore di panettoni) continuò<br />

a prosperare con immutato gradimento presso i consumatori,<br />

anche stranieri, consapevoli della specificità<br />

di questo prodotto che ci è sempre stato invidiato.<br />

* * *<br />

Siamo così arrivati al 1984. In concomitanza con<br />

un’epoca grigia e tristemente profetica sul piano della<br />

futura crisi occupazionale, la storia della Guglielmone<br />

giunge al capolinea. L’azienda che aveva inondato<br />

per anni la città col fragrante aroma della vaniglina<br />

chiudendo i battenti, lascerà i cittadini, sgomenti, al<br />

cospetto di altri e certo meno edificanti olezzi.<br />

Sic transit gloria mundi!<br />

luglio - settembre <strong>2010</strong><br />

7<br />

Erminio Guglielmone<br />

tra i suoi operai<br />

con monsignor<br />

Luigi Dughera<br />

e il vescovo di Vigevano<br />

Nel 1984 l’azienda<br />

chiude i battenti.<br />

In concomitanza<br />

con un’epoca<br />

grigia e profetica<br />

sul piano<br />

della futura crisi<br />

occupazionale,<br />

la storia<br />

della Guglielmone<br />

giunge al capolinea


Cultura&&&<br />

Dolcezze<br />

8 IL VAGLIO<br />

Il panettone<br />

è (quasi) nato<br />

a Mortara<br />

SOLO MILANO NEI TEMPI DEL BOOM RIUSCIVA A SFORNARNE DI PIÙ<br />

La Guglielmone è stata un’azienda che ha<br />

dato lustro - e lavoro - a Mortara per decenni.<br />

Ha reso la città famosa in Italia e<br />

in Europa per la sua industria dolciaria,<br />

prima che la gastronomia mortarese fosse sinonimo<br />

di oca e dei suoi derivati (per quanto il salame d’oca<br />

esistesse già, ma la sua espansione avvenne solo<br />

molto tempo dopo). Mortara e Guglielmone volevano<br />

dire biscotti, pasticceria secca, torta paradiso (come<br />

quella che ancora oggi si trova da Vigoni a Pavia),<br />

ma specialmente il dolce principe delle tavole<br />

natalizie. L’ultimo “mastro panettonaio”, portabandiera<br />

vivente di quegli anni d’oro è il dottor Fausto<br />

Ciniselli, oggi over ottantenne, che ci racconta nelle<br />

pagine del Vaglio la sua vita nell’industria dolciaria.<br />

«Il Panettone era il segreto personale del signor Erminio<br />

– ricorda il chimico della Guglielmone – anche<br />

se i primi esemplari potrebbero essere datati fine<br />

Ottocento, il boom della nostra produzione è stato<br />

dagli anni Cinquanta ai Settanta. Siamo arrivati ad<br />

avere 400 unità lavorative tra fissi e stagionali, con<br />

turni operativi di ventiquattro ore, e a sfornare ventimila<br />

dolcissimi pezzi quotidiani. Solo la Motta di<br />

Milano, nei primi anni Settanta ci batteva, facendone<br />

il doppio». La storia dell’antica pasticceria di<br />

piazza del Municipio inizia nel 1883. Qui si poteva<br />

gustare ogni squisitezza e anche vivere la vita sociale<br />

del territorio. Arriviamo agli anni Venti del<br />

secolo scorso. Il locale veniva chiamato “L’Aragno<br />

della Lomellina”, perché – analogamente a quello<br />

romano – era il ritrovo di intellettuali e politici. Tra<br />

i suoi frequentatori Cesare Forni, uno dei fondatori<br />

del fascismo. A quei tempi Guglielmone esportava<br />

fino in Francia dove tra i clienti c’era un tale Gabriele<br />

D’Annunzio, autore della poesia che nomina<br />

anche Fausto Ciniselli nel suo articolo. Un momento<br />

importante del rilancio in quel periodo mica tanto<br />

bello (siamo in mezzo alle due guerre mondiali...)<br />

avvenne proprio durante il Secondo conflitto. Una<br />

di<br />

Sandro Passi<br />

Un’immagine pubblicitaria d’epoca<br />

e una cartolina commerciale della Guglielmone<br />

straordinaria trovata pubblicitaria per “sfruttare”<br />

il buio del coprifuoco. I fratelli Guglielmone fecero<br />

affiggere sulle case di Milano e di altre città<br />

lombarde i numeri civici degli edifici su targhette<br />

fosforescenti recanti oltre al numero anche il loro<br />

marchio. Un servizio pubblico gratuito e un potente<br />

bombardamento pubblicitario che non lasciò indifferenti.<br />

Proprio nel mondo della pubblicità e della<br />

comunicazione con l’immagine la maestria dei Guglielmone<br />

è sempre emersa. Furono tra i primi a fare<br />

la “reclame” in televisione e tutti i loro manifesti,<br />

gadget, le loro confezioni, oggi, a distanza di anni,<br />

sono considerati veri capolavori del genere.


L’Ordine Mortariense<br />

tra accoglienza<br />

e spiritualità<br />

DAL 1083 AL 1449<br />

di Luisa Castelli<br />

e le classi 3^A e 3^E dell’ Istituto Pollini<br />

L’alba del secondo millennio si apre con<br />

un rinnovamento religioso e specialmente<br />

l’inizio del secolo, viene assunto<br />

come sinonimo di una nuova epoca. Tra<br />

gli obiettivi fondamentali della Chiesa vi<br />

era la riforma del clero secolare che venne affrontata<br />

nel Sinodo Lateranense del 1059 da Papa Nicolò II.<br />

In seguito venne promulgato un regolamento che prescriveva<br />

ad alcune categorie di ecclesiastici di conformarsi<br />

al modello apostolico di vita comunitaria, invito<br />

che venne accolto positivamente anche dai successori<br />

di Nicolò II.<br />

Dopo la metà del secolo XI sorse il nuovo istituto religioso<br />

dei canonici regolari, un ordine ibrido di monaci<br />

- sacerdoti. Mortara vive pienamente lo spirito della<br />

riforma con la nascita, nel 1083, dei canonici regolari<br />

dell’Ordine Mortariense che vennero alla luce in un<br />

punto nodale della Lomellina. La via Francigena, infatti,<br />

vede in Mortara un punto di passaggio molto importante<br />

dalle Alpi verso Roma. Era questa la via dei<br />

romei e pellegrini che provenivano dalla Francia per<br />

andare a Roma e, viceversa, da Roma verso il santuario<br />

di Santiago di Compostela. Il fondatore dell’Ordine<br />

fu un ricco chierico mortarese, Adamo da Mortara che<br />

mise a disposizione un piccolo podere di sua proprietà<br />

di circa 500 pertiche pavesi, detto “braida o baida”<br />

di Santa Croce, situato ad ovest della città. Nel 1080<br />

ebbero inizio i lavori per la costruzione della chiesa<br />

e del monastero, che oggi non esistono più, tuttavia<br />

dalla testimonianza degli storici locali, il complesso<br />

è definito molto imponente sia per dimensioni sia per<br />

ricchezza. Dentro questo vasto perimetro sorsero in<br />

circa cinquant’anni nuovi edifici. Annessa al mona-<br />

Processione dei monaci Mortariensi, affresco conservato<br />

nella chiesa di San Rocco a Sant’Angelo Lomellina<br />

stero sorgeva una “statio” con l’“hospitium”, poiché<br />

la caratteristica fondamentale della spiritualità mortariense<br />

era appunto l’ospitalità, che secondo il concetto<br />

medievale comprendeva sia l’accoglienza riservata ai<br />

pellegrini e bisognosi ma anche assistenza agli ammalati.<br />

I canonici regolari di Mortara ricevevano l’ospite<br />

offrendogli ogni conforto, pronti anche a curarlo.<br />

luglio - settembre <strong>2010</strong><br />

Cultura&&&<br />

9<br />

Storia<br />

Il nuovo istituto<br />

religioso<br />

dei canonici<br />

regolari<br />

comparve<br />

dopo la metà<br />

del secolo XI.<br />

L’Ordine<br />

Mortariense<br />

vide la luce<br />

nel 1083


Il cortile originario<br />

di Palazzo Lateranense<br />

in una stampa ottocentesca<br />

I Canonici<br />

Mortariensi<br />

modellavano<br />

la loro giornata<br />

secondo<br />

uno schema<br />

di preghiera<br />

e di spiritualità<br />

che richiamava<br />

quello dei Padri<br />

antichi<br />

A sinistra,<br />

pittura ad encausto<br />

raffigurante<br />

Sant’Alberto Avogadro<br />

conservata nella chiesa<br />

di Santa Croce.<br />

A destra, una fotografia<br />

d’epoca dell’abbazia<br />

mortarese<br />

A tale scopo era riservato un apposito spazio, denominato<br />

“infirmarium”. Come possiamo dedurre<br />

dalle “Consuetudini” i Mortariensi modellavano la<br />

loro giornata secondo uno schema di preghiera e di<br />

spiritualità che richiamava quello dei Padri antichi.<br />

L’attività primaria era la liturgia della messa e delle<br />

ore canoniche con la preghiera (recitata o cantata) che<br />

suddivideva la giornata in tre parti alle quali si aggiungeva<br />

il notturno.<br />

Un’importante testimonianza (tra le poche rimaste)<br />

della spiritualità dell’Ordine è data da un affresco del<br />

1470 circa, che raffigura una processione di canonici<br />

oranti dietro la croce. L’affresco si trova nella chiesetta<br />

campestre di San Rocco annessa al cimitero in<br />

Sant’Angelo Lomellina.<br />

Anche Santa Croce non fu risparmiata dalle battaglie<br />

che coinvolsero Mortara tra il 1200 e il 1213: l’abbazia<br />

fu gravemente lesionata e le campagne annesse<br />

10 IL VAGLIO<br />

devastate. La chiesa e successivamente il monastero<br />

vennero abbandonati, e solo dopo alcuni secoli<br />

nel 1595 furono gettate le fondamenta di un nuovo<br />

complesso abbaziale, all’interno delle mura cittadine.<br />

Nella chiesa che ancora oggi esiste intitolata alla S.<br />

Croce, troviamo custodite opere d’arte provenienti da<br />

quella primitiva. Annesso si trova il complesso chiamato<br />

“ Palazzo Lateranense” per ricordare la sua antica<br />

funzione, ora sede dell’Istituto Pollini. Le vicende<br />

dei Canonici Mortariensi hanno suscitato da sempre<br />

l’interesse e la passione di molti storici e studiosi locali.<br />

Vicende che hanno ricevuto un impulso di attualità<br />

anche per merito di un convegno di studi tenutosi<br />

presso l’Abbazia di Santa Croce in concomitanza con<br />

i preparativi del Giubileo del 2000 sul percorso della<br />

via Francigena, che ancora oggi trova una tappa assai<br />

significativa nell’Abbazia di Sant’Albino, posta appena<br />

fuori dalla città in direzione di Pavia.


I Diligenti<br />

e l’arte drammatica<br />

UNA FAMIGLIA DI ATTORI SULLE SCENE NAZIONALI E STRANIERE<br />

Una serena giornata d’ottobre a Mortara,<br />

le finestre si aprono al dolce tepore autunnale,<br />

nelle vie e nelle piazze, crocchi<br />

di persone s’attardano per quattro<br />

chiacchiere. Fra l’altro si parla della<br />

compagnia drammatica giunta in città da qualche giorno<br />

nel bel teatro Vittorio Emanuele, della bella prima<br />

donna, dello spassoso brillante, dell’esito delle prime<br />

rappresentazioni. Gli attori sono bravi, presentano<br />

produzioni interessanti, ma il più bravo di tutti, quell’Angelo<br />

Diligenti già conosciuto ed apprezzato da<br />

tempo, non prende parte agli spettacoli. Lui, definito<br />

da Virgilio Talli “primo attore di grande potenza drammatica”<br />

(Virgilio Talli, La mia vita di teatro, p. 74), da<br />

Antona Traversi “valentissimo e infaticabile creatore<br />

di due generazioni”(Camillo Antona Traversi, Le dimenticate,<br />

p. 49), celebre per le sue strazianti “morti<br />

in scena”, do di petto dei migliori tragici, sta morendo<br />

nell’ospedale della città. Davanti alla figlia disperata,<br />

ai compagni d’arte impietriti dal dolore, recita la sua<br />

ultima scena, il suo tristissimo addio al teatro, agli artisti,<br />

alla figlia Lina, il più puro grande amore della sua<br />

vita. Il 21 ottobre 1895, Angelo Diligenti muore.<br />

Si chiamava, in realtà, Giuseppe Angelo Filippo Marazzi,<br />

figlio d’arte, discendente da avi in palcoscenico<br />

fin dal XVIII secolo. Costituivano una famiglia di attori<br />

della medesima compagnia: padre, fratelli, nipoti,<br />

zii, cugini... Fino alla metà del secolo XIX recitavano<br />

uniti, passando di città in città, “imperando più che<br />

onestamente” come scrisse Giacomo Brizzi, (L’arte<br />

Drammatica, 24 agosto 1895) in teatri di provincia,<br />

talvolta in saloni approntati alla meglio. Nella loro vita<br />

itinerante conducevano con sé i bambini che, ben pre-<br />

italiana<br />

di Eufemia Marchis Magliano<br />

sto, acquistavano confidenza col palcoscenico, parte<br />

della loro casa, dato che di case vere e proprie non ne<br />

avevano. Bambini che non andavano a scuola, ma imparavano<br />

correttamente l’italiano dalla consuetudine<br />

coi testi delle opere teatrali, si esprimevano senza inflessioni<br />

dialettali come i loro parenti usi a farsi comprendere<br />

nelle svariate tappe dei loro giri artistici.<br />

Giuseppe Angelo Filippo nasce a San Remo il 26 novembre<br />

1832 dal sanremasco Francesco, attore e capocomico,<br />

e dalla pisana Carolina Diligenti, attrice.<br />

In tenera età inizia a recitare nelle cosiddette “parti<br />

ingenue” nella compagnia Marazzi, diretta da Francesco,<br />

evidenziando particolari talenti artistici, tant’è<br />

che, alla morte del padre, nel 1849, dirige lui stesso la<br />

troupe e ne è primo attore. Fattosi notare favorevolmente<br />

nell’ambiente teatrale, è ingaggiato nella primaria<br />

compagnia drammatica di Luigi Robotti e Gaetano<br />

Vestri, col nome d’arte di Angelo Diligenti, per<br />

distinguersi dai numerosi Marazzi che, intanto, hanno<br />

scelto percorsi artistici diversi, eccetto lo zio Sebastiano,<br />

scritturato in seguito nella Robotti- Vestri con i<br />

due figli Vincenzo e Carolina (Lina). Tra i discendenti<br />

degli antichi Marazzi avranno un buon nome nel campo<br />

del teatro, Vittoria, sorella di Angelo, Vincenzo ed<br />

il figlio Vittorio, sua sorella Lina, moglie di Ermete<br />

Novelli, madre di Jambo (letterato e fondatore della<br />

compagnia di marionette “I fantoci lirici”), Gustavo,<br />

figlio di Lorenzo, altro zio di Angelo, padre di Emma<br />

Marazzi Dinolfo. Il Diligenti, primo amoroso, ottiene<br />

consensi da pubblico e stampa, grazie alle doti naturali<br />

e all’intelligente guida del Vestri, discepolo di Gustavo<br />

Modena, il geniale innovatore del teatro italiano.<br />

luglio - settembre <strong>2010</strong><br />

Cultura&&&<br />

11<br />

Teatro<br />

Angelo Diligenti,<br />

al secolo<br />

Giuseppe Angelo<br />

Filippo<br />

Marazzi,<br />

apparteneva<br />

a una dinastia<br />

di attori<br />

che calcava<br />

i palcoscenici<br />

già nel Settecento


Angelo Diligenti<br />

in costume di scena<br />

e in borghese<br />

Lina Diligenti segue<br />

il padre nei suoi<br />

trionfali tour<br />

internazionali.<br />

Nell’anno<br />

comico 1877-78<br />

viene scritturata<br />

prima come<br />

attrice giovane<br />

e poi come<br />

prima donna<br />

Trascorsi sei anni nella Vestri-Robotti, passa come<br />

primo attor giovane ad un’altra primaria compagnia,<br />

retta da Cesare Dondini, con Tommaso Salvini, primo<br />

attore e la bellissima Anna Pedretti, prima attrice.<br />

Anche Anna è figlia d’arte (i suoi avi, d’origine<br />

veneziana, furono noti fino dai tempi della gloriosa<br />

Commedia dell’Arte) e se pur giovanissima ha acquistato<br />

un gran nome d’interprete giustificato dalla forza<br />

emotiva che sa trasmettere agli spettatori.<br />

Il 26 marzo 1860 Anna ed Angelo si sposano e l’anno<br />

seguente, a Torino, nel teatro Carignano, subito dopo<br />

la recita della madre nel Coriolano di Shakespeare,<br />

nasce la loro figlia Leopolda Carola Augusta Vittoria.<br />

I due attori fanno parte della Dondini fino a che decidono<br />

di mettere su compagnia associandosi a due<br />

illustri artisti: Amilcare Bellotti e Gian Paolo Calloud.<br />

È la Compagnia Romana, un’accolta di attori validissimi,<br />

con Angelo ed Anna primi ruoli, considerata una<br />

delle migliori del tempo per abilità d’interpreti, scelta<br />

di repertorio, cura della scenografia. Anna magnetizza<br />

l’uditorio in Norma di D’Ormeville, Maria Stuarda<br />

di Schiller, Principessa Giorgio di Alexandre Dumas<br />

figlio; Angelo crea personificazioni eccezionali in tragedie,<br />

drammi, commedie. Ermete Novelli lo ricorda<br />

spargere tesori di comicità e, bello, spavaldo, unico,<br />

Pietro Cossa considera l’attore il suo Nerone ideale.<br />

Ma dopo dieci anni di recite nei più prestigiosi teatri<br />

della penisola italiana, la Romana è sciolta. Anna lascia<br />

il marito e ne ottiene la separazione a patto del-<br />

12 IL VAGLIO<br />

l’affidamento a lui della figlia. Angelo con la fanciulla<br />

ed un gruppo di comici parte per un tour in Turchia e<br />

in Egitto. Due anni di vita avventurosa, ricca di soddisfazioni:<br />

l’entusiasmo del pubblico, la gratificazione<br />

di due ordini cavallereschi, i successi della sua graziosa<br />

figliola, che col nome d’arte di Lina Diligenti è<br />

sulla buona strada per diventare una valida attrice.<br />

Mentre Anna Pedretti si unisce all’attore Francesco<br />

Artale da cui avrà altre tre figlie, Angelo e Lina sono<br />

ingaggiati da Giacinta Pezzana per un giro artistico di<br />

tre anni che comprende, oltre importanti piazze italiane,<br />

la Dalmazia, Berlino, Amsterdam, Atene, Smirne,<br />

Odessa, Bucarest, Il Cairo. Nell’anno comico 1877-<br />

78, Angelo nei più prestigiosi teatri europei e italiani,<br />

è l’applaudito antagonista del grande Tommaso Salvini:<br />

Jago in Otello, Laerte in Amleto, Alastore ne Il<br />

figlio delle selve, e Lina, scritturata come prima attrice<br />

giovane, nel 1878 assume il ruolo di prima donna.<br />

“Giovanissima, vien su come un fiore nel giardino<br />

dell’arte” scrive il critico Yorick nel suo Vent’anni al<br />

teatro, p.557. È una bella ragazza dal portamento elegante,<br />

dalla dizione perfetta; nel suo dna la passionalità<br />

della madre, la versatilità del padre, la padronanza<br />

in scena, un grande amore per il teatro. Nel 1879 le<br />

viene assegnato dal Giurì Drammatico Nazionale il<br />

premio d’incoraggiamento destinato alle migliori<br />

promesse del teatro italiano. Non vuole avere alcun<br />

contatto con la madre e le sorelle. Dal 1864 è amata<br />

come una figlia da Giacinta Pezzana, nel 1882 è con


lei ed il padre nell’America del sud. A Buenos Aires, i<br />

giornali esaltano la sua naturalezza in Teresa Raquin,<br />

grandissimo successo della Pezzana nelle vesti della<br />

vecchia Raquin. Al ritorno in Italia, Giacinta, Angelo,<br />

Lina e la sorella di Angelo, Vittoria costituiscono una<br />

vera famiglia e fanno parte della compagnia diretta<br />

da Angelo con Giacinta prima attrice in un gruppo di<br />

bravissimi attori con un repertorio ricco di novità. Il<br />

Diligenti è insignito della Croce di Cavaliere d’Italia<br />

per meriti artistici, ma la sua salute incomincia a<br />

declinare, la gestione della compagnia diventa difficoltosa,<br />

le spese gravose, il pubblico sovente scarso a<br />

causa di preferenze per la lirica, per le commedie osé,<br />

per le mossette di attrici procaci.<br />

Giacinta è in crisi: il suo uomo non è più quello di prima,<br />

si serve di lei per far figurare la figlia, il pubblico<br />

non l’ama più... Un signore catanese le offre una vita<br />

lontana dal teatro, è buono più di un angelo, l’ama con<br />

dolcezza... Lascia compagno e compagnia e si ritira<br />

dalle scene.<br />

I Diligenti proseguono il loro cammino artistico senza<br />

problemi fino al 1893. Il 16 febbraio 1890 Lina sposa<br />

l’attore Gennaro Marquez, il 27 dicembre dello stesso<br />

anno nasce il suo primo figlio, Alberto Angelo. Dopo<br />

un ennesimo tour in Egitto, muore il marito di Lina<br />

nel settembre 1892, lasciando a lei la cura della figlia<br />

Enrica nata da un precedente legame. Poi, ancora, la<br />

vita di sempre: viaggi continui, prove, spettacoli giornalieri<br />

in Italia con qualche puntata in Egitto e recite<br />

col Salvini che, come sempre, gratificano Angelo.<br />

Dall’agosto 1893 inizia un periodo difficile; il mancato<br />

matrimonio di Lina con un signore di Siena dopo la<br />

rinuncia di lei al teatro, lascia l’attrice in attesa di un<br />

figlio, senza mezzi finanziari, senza ingaggi. Angelo<br />

non può fare altro che formare una compagnia di cui<br />

è direttore ed attore, protagonista di quei personaggi<br />

che da sempre hanno attirato un folto pubblico. Non si<br />

risparmia, al di là di quanto lo consenta la sua cardiopatia,<br />

come Lina che partorirà il suo secondo figlio,<br />

Angelo Mario, il 28 dicembre 1893. A Cuneo, dopo la<br />

rappresentazione di Tosca del Sardou, accanto alla figlia<br />

ove entrambi “fanno alitare quel soffio d’arte vera<br />

e grande che è ormai retaggio di un numero esiguo di<br />

artisti”, ha un grave malore (La Sentinella delle Alpi,<br />

30 novembre 1893).<br />

Non rinuncia a partecipare agli spettacoli, ancora e<br />

ancora, fino all’ottobre 1895, allorché, dopo pochi<br />

giorni di malattia, il suo cuore cessa di battere. Lina<br />

perde l’unica persona che l’ha amata veramente, che<br />

è stata sempre accanto a lei. Trova la forza di andare<br />

avanti, assume la direzione della compagnia paterna e<br />

riprende subito a recitare.<br />

Dal canto suo Anna Pedretti prosegue la sua strada<br />

di attrice insieme a Francesco Artale che sposerà nel<br />

1896. Non le viene meno la fama acquistata, è sempre<br />

ammirata come una novella Ristori nelle tragedie, è<br />

lodatissima nelle commedie in veneziano di Goldoni<br />

e di Giacinto Gallina.<br />

luglio - settembre <strong>2010</strong><br />

13<br />

Due immagini<br />

di Lina Diligenti<br />

Dall’agosto 1893<br />

inizia un periodo<br />

difficile: il mancato<br />

matrimonio di Lina<br />

con un signore<br />

di Siena dopo<br />

la rinuncia di lei<br />

al teatro,<br />

lascia l’attrice<br />

in attesa di un figlio,<br />

senza ingaggi


La locandina<br />

della Compagnia Romana,<br />

a destra Anna Pedretti<br />

Il 26 marzo 1907<br />

sviene in scena.<br />

Non reciterà più.<br />

La madre,<br />

dopo essersi<br />

ritirata dal teatro,<br />

l’accoglie<br />

nella sua casa<br />

di Bologna,<br />

dove Lina muore<br />

l’8 giugno 1910<br />

Applausi, doni preziosi, dediche, fiori ma... denari<br />

pochi! Dal 1892 al 1900, ingaggiata con la famiglia<br />

nella popolare compagnia napoletana di Federico<br />

Stella che, al San Ferdinando di Napoli, fa accorrere<br />

folle di spettatori, gode di un periodo di serenità con<br />

successi artistici e di cassetta. Artale è a suo agio nel<br />

vernacolo napoletano, Anna sa toccare il cuore degli<br />

astanti, le tre sorelle Artale, nei loro primi passi sulle<br />

scene, rivelano buona attitudine per il teatro. Alla fine<br />

del 1897 anche per Lina inizia un periodo propizio.<br />

Invitata a Nizza in un popolare teatro in cui si recita in<br />

italiano, Jean Lorrain e Léon Sarty, giornalisti curiosi<br />

di novità, assistono alla sua interpretazione di Elisabetta<br />

d’Inghilterra di Giacometti. Ne sono entusiasti:<br />

quell’attrice italiana è “une grande tragedienne”! La<br />

fama si sparge, in breve, il modesto teatro accoglie<br />

l’élite della città e gli stranieri che svernano sulla Costa<br />

Azzurra. Ogni sera, davanti al locale si accoda una<br />

fila di landaus, i salotti più esclusivi di Nizza, Cannes,<br />

Montecarlo si contendono la presenza dell’attrice, la<br />

principessa Alice di Monaco la vuole nel teatro del<br />

Principato. Lei, “sourprenante de vérité” (l’Union<br />

artistique et literaire, 24 dicembre 1897), impersona<br />

Medea, Maria Stuarda, Messalina, Margherita Gautier,<br />

Pia de’ Tolomei e... “en travesti”, Amleto, Lorenzaccio,<br />

Oreste. “Ogni personaggio è una trasformazione<br />

morale e fisica. Tutto cambia in questa mirabile<br />

artista salvo il suo genio” scrive Tony D’Ulmès, (Le<br />

phare du Littoral, Nice, 29 marzo 1899). La si giudica<br />

addirittura migliore di Sarah Bernhardt! Non si hanno<br />

notizie di rapporti fra Lina e la madre che, ultrasessantenne,<br />

lasciata la compagnia napoletana,è tornata<br />

al teatro in italiano insieme alle figlie. Attrice madre,<br />

valida come sempre, “manda in visibilio il pubblico,<br />

unica a portare alta la bandiera della tragedia”.<br />

14 IL VAGLIO<br />

Annetta Artale, la più brava delle sorelle, dopo il matrimonio<br />

con l’attore Antonio Musella, è titolare e prima<br />

attrice della troupe diretta dal marito. È briosa, intelligente,<br />

dotata maggiormente per le commedie, sa<br />

affrontare con successo anche le parti drammatiche.<br />

Nel 1901, mentre Annetta ha fortuna sulle scene, Lina<br />

è sull’orlo di un declino inarrestabile. Il pubblico “bene”<br />

della Costa Azzurra accorre meno numeroso alle<br />

sue performances, i suoi attori, per i ridotti guadagni,<br />

l’accusano di inerzia per non volersi allontanare da<br />

Nizza e le intentano liti che la trascinano alla completa<br />

rovina. La sua salute cede: è troppo pesante per una<br />

donna sola combattere contro tutto e tutti. Riesce a<br />

recitare solo saltuariamente e con introiti insufficienti.<br />

Nel 1907 sembra risollevarsi un po’; prima attrice<br />

in una buona compagnia, riesce a dare il meglio di<br />

sé. Spronata dall’applauso degli spettatori, ogni sera<br />

interpreta un personaggio diverso, sempre “ pari alla<br />

sua fama […] artista intelligentissima, appassionata”<br />

(Il Cittadino di Savona, 28 – 29 febbraio 1907), passando<br />

da Madame Sans-gène ad Amleto, da Niente di<br />

dazio? a Elisabetta d’Inghilterra… Il 26 marzo 1907<br />

sviene in scena. Non reciterà più. La madre che, certamente,<br />

non ha mai dimenticato la sua primogenita,<br />

dopo essersi ritirata dal teatro, l’accoglie nella sua<br />

casa di Bologna dove Lina muore l’8 giugno 1910,<br />

lontana dai figli. L’uno Alberto Angelo, infermo, ricoverato<br />

in una casa di cura, l’altro Angelo Mario, senza<br />

notizie della madre da anni, ancora presso la famiglia<br />

della nutrice. Anna Pedretti morirà tre anni dopo, il 24<br />

febbraio 1913. Il timone dell’arte drammatica passerà<br />

ai nipoti Filippo, Francesco Giorgio e Gina Scelzo, figli<br />

di Lena Artale, tra i quali emergerà Filippo (1900-<br />

1980), valente attore di teatro e di cinema.


Gli Strada,<br />

famiglia<br />

di nobiluomini<br />

A FERRERA ERBOGNONE FRA AGRICOLTURA, POLITICA E RISORGIMENTO<br />

La famiglia Strada era un’antica famiglia<br />

patrizia ramificata in alcuni centri della<br />

Lomellina. Per più di un secolo un<br />

suo ramo ha egemonizzato la vita della<br />

comunità di Ferrera Erbognone sotto<br />

l’aspetto amministrativo, economico e sociale. Lo<br />

stemma araldico, in cui sono rappresentati un castello<br />

affiancato da due torri di rosso su argento e un cane<br />

levriere corrente al naturale collarinato di oro su<br />

azzurro, è riportato sul mausoleo di famiglia situato<br />

all’ingresso del cimitero comunale di Ferrera Erbognone.<br />

Ripercorrere, sia pure in modo sintetico, la<br />

storia della famiglia di nobiluomini significa incasellare<br />

una serie di tasselli comunque entusiasmanti in<br />

150 anni di storia, sia locale sia nazionale. Dall’inizio<br />

dell’Ottocento, quando la piccola aristocrazia terriera<br />

detiene saldamente tutte le leve del potere locale, fino<br />

alla metà del Novecento, quando la discendenza si<br />

estingue con il nobiluomo Ugo Strada per mancanza<br />

di eredi, Ferrera Erbognone è sinonimo di Strada e<br />

viceversa. E ciò sia nei momenti più fulgidi del Risorgimento<br />

nazionale sia nelle movimentate rivendicazioni<br />

sociali fra Otto e Novecento. Lo status sociale<br />

si riflette sulle abitazioni private della famiglia, che,<br />

sfogliando una ricerca universitaria dell’ingegnere<br />

locale Filippo Rampa, si sarebbe insediata in paese<br />

all’inizio dell’Ottocento proveniente da Garlasco. La<br />

residenza principale è costituita dal palazzo situato a<br />

lato dell’attuale corso della Repubblica, già via Maestra<br />

e poi via Umberto I, e dotato di una torretta con<br />

fregio dentellato in cotto. Secondo alcuni studiosi, in<br />

origine si trattava di una casaforte collocata non a caso<br />

all’inizio del paese verso Sannazzaro de’ Burgondi,<br />

a mo’ di difesa. Una residenza secondaria è l’attuale<br />

di Umberto De Agostino<br />

palazzo Strada di via Roma, già via Stazione. «L’epoca<br />

della sua costruzione, anche in relazione a notizie<br />

tramandate oralmente e ai raffronti stilemici con palazzi<br />

della stessa epoca, è l’arco di tempo che va dal<br />

1810 al 1820 – dice l’ingegner Rampa – In una mappa<br />

del 1759, conservata all’Archivio di Stato di Torino,<br />

l’edificio non esiste ancora, mentre è segnato in una<br />

mappa di inizio Novecento». Dal 1875 al 1898 vi abitò<br />

il medico condotto Carlo Spinelli.<br />

luglio - settembre <strong>2010</strong><br />

Cultura&&&<br />

15<br />

Enrico Strada<br />

Dinastie<br />

Ripercorrere,<br />

sia pure in modo<br />

sintetico, la storia<br />

della famiglia<br />

significa incasellare<br />

una serie di tasselli<br />

comunque<br />

entusiasmanti<br />

in 150 anni<br />

di storia, sia locale<br />

sia nazionale


Il Mausoleo Strada<br />

Il capostipite<br />

è don Ignazio.<br />

Lo storico<br />

Francesco Pezza<br />

cita il nobiluomo<br />

fra i partecipanti<br />

al Comizio agrario<br />

di Mortara<br />

promosso<br />

dal Cavour<br />

nel 1846<br />

Dal dicembre 2008 nell’area del palazzo, trasformato<br />

negli anni Sessanta in una foresteria per gli operai<br />

dell’Eni e poi ceduto al Comune, oggi trovano spazio<br />

anche la biblioteca comunale, con scaffalature rialzate<br />

a palco e postazioni Internet per gli studenti, il centro<br />

di documentazione dell’Ecomuseo del paesaggio<br />

lomellino e le sedi del gruppo ciclistico Gs Flores e<br />

della Pro loco. «Questo palazzo, ricco di affreschi variopinti<br />

e dotato di una suggestiva balconata che dà<br />

sul giardino, vuole costituire il biglietto da visita più<br />

prestigioso della nostra comunità», spiega oggi il sindaco<br />

Giovanni Fassina. All’interno, nelle stanze con<br />

caminetti decorati in stile liberty, sono appesi i dipinti<br />

donati dall’artista milanese Attilio Lunardi e le fotografie<br />

naturalistiche di Gaetano Bottacin, fotoamatore<br />

di Pieve Albignola che ha immortalato le campagne e<br />

le risaie attorno ai torrenti Erbognone e Agogna. All’esterno<br />

del palazzo ci sono l’antica ghiacciaia, un<br />

tempo utilizzata per la conservazione degli alimenti,<br />

e la nuova piazza intitolata a Giordano Bruno, sorta<br />

nell’area della corte rurale di proprietà degli Strada,<br />

abbattuta negli anni Ottanta. Il capostipite è don<br />

Ignazio Strada, che sposerà Luigia Trovati. Lo storico<br />

mortarese Francesco Pezza cita il nobiluomo, nato<br />

nella seconda metà del Settecento, fra i partecipanti<br />

al Comizio agrario di Mortara promosso da Camillo<br />

Benso di Cavour nel 1846 e animato da suggestioni<br />

risorgimentali. La riunione<br />

avrà un carattere più politico<br />

che agrario, perché vi possono<br />

partecipare i cittadini lombardi<br />

proprietari di terre nel limitrofo<br />

Regno di Sardegna, che<br />

allora arriva fino alla sponda<br />

destra del Ticino. Gli auguri<br />

e le promesse che si scambiano<br />

i partecipanti alla chiusura<br />

del congresso, il 9 settembre,<br />

sono il primo atto d’intesa<br />

fra gli italiani delle due sponde<br />

del Ticino. All’epoca don<br />

Ignazio Strada è consigliere<br />

della Divisione di Novara, realtà amministrativa che<br />

comprende Vercelli, Biella, la Lomellina, il Verbano e<br />

l’Ossola. Pezza lo definisce «appassionato partecipe a<br />

tutti gli studi dei problemi agricoli e fondatore di un<br />

premio a concorso per la migliore monografia sui doveri<br />

rispettivi dei proprietari, dei fittabili e dei coloni».<br />

Morirà nel 1854: la sua tomba è posta al centro del<br />

mausoleo di famiglia di Ferrera Erbognone. Quattro<br />

i figli di Ignazio sepolti a Ferrera Erbognone: Enrico,<br />

Angelo, Giuseppe e Paolo. Il primo è Enrico, nato<br />

a Ferrera Erbognone il 4 settembre 1820 e morto a<br />

Torino il 20 novembre 1888. È avviato giovanetto alla<br />

carriera delle armi: allievo dell’Accademia Militare di<br />

Torino, consegue la nomina a sottotenente nel 1839<br />

ed è assegnato al reggimento Savoia Cavalleria. Nella<br />

prima campagna d’Indipendenza, nel combattimento<br />

di Goito, il 30 maggio 1848, riceve la prima medaglia<br />

d’argento al valore; nel fatto d’armi di Govèrnolo, il<br />

16 IL VAGLIO<br />

18 luglio successivo, è promosso capitano sul campo<br />

per merito di guerra. Ottiene anche una menzione onorevole<br />

per lo zelo e la cura con cui organizza le Guide<br />

a cavallo. Alla Sforzesca e a Novara, il 21 e il 23 marzo<br />

1849, dà nuove prove di valore e di elevato spirito<br />

militare che saranno premiate con un’altra medaglia<br />

d’argento al valore. Nei successivi gradi di maggiore<br />

e di tenente colonnello comanda uno squadrone dei<br />

Lancieri Vittorio Emanuele. Nella seconda campagna<br />

d’Indipendenza è per un breve periodo di tempo a disposizione<br />

del Governo provvisorio dell’Emilia con<br />

lo stesso reggimento con cui parteciperà alla campagna<br />

nelle Marche e nell’Umbria; ottiene ancora una<br />

menzione onorevole per l’assedio e la resa di Pesaro,<br />

avvenuta il 3 ottobre 1860. Nel marzo 1865, con la<br />

promozione a colonnello, assume il comando dei Cavalleggeri<br />

di Alessandria e l’anno successivo partecipa<br />

con il reggimento alla terza guerra d’Indipendenza,<br />

inquadrato nella III brigata di cavalleria del III Corpo<br />

d’armata. È in questa occasione che Enrico Strada si<br />

adopera per salvare il principe Umberto di Savoia e i<br />

suoi soldati assaliti da colonne di ussari e di ulani. È<br />

il celebre episodio del quadrato di Villafranca. Il 24<br />

giugno, l’improvviso irrompere della cavalleria nemica<br />

sul fronte e sul fianco sinistro della brigata «Parma»<br />

della XVI divisione, determina uno sbandamento<br />

nei reparti piemontesi che prontamente si riprendono<br />

formando i quadrati. In quel momento il colonnello<br />

Strada, con prontezza e decisione, interviene nel<br />

combattimento, guida personalmente le numerose<br />

cariche degli squadroni dell’“Alessandria” e riesce di<br />

valido aiuto alla fanteria, che può contenere prima e<br />

infrangere poi gli assalti degli ulani del reggimento<br />

Conte di Trani, che sono così costretti a ripiegare alle<br />

Ganfardine, a nord di Villafranca. Le brillanti qualità<br />

di comandante e di cavaliere del colonnello Strada rifulgono<br />

in pieno in quel giorno e sono premiate con<br />

la medaglia d’oro al valore militare conferitagli con<br />

regio decreto 6 dicembre 1866 «per il valore spiegato<br />

caricando alla testa dei suoi squadroni in modo da<br />

destare la giusta ammirazione delle truppe ». Dopo<br />

breve tempo Enrico Strada assumerà il comando della<br />

I brigata di cavalleria con la promozione a maggiore<br />

generale. Nel 1871 sarà collocato in disponibilità e<br />

quindi nella riserva. Dopo la morte sarà cremato: nel<br />

mausoleo di famiglia riposano i suoi «atomi». «Probo<br />

in pace, valoroso in guerra» il suo epitaffio.<br />

Il secondogenito di don Ignazio è Angelo (1823-1901),<br />

che sposerà Irene dei marchesi Cesena (1828-1903).<br />

Entrerà in magistratura e sarà pretore prima nel Regno<br />

di Sardegna e poi, dopo il 1861, nel Regno d’Italia.<br />

Nel mausoleo riposano quattro suoi figli morti prematuramente:<br />

Camillo (29 febbraio 1852 – 11 giugno<br />

1862), Annita (10 gennaio 1862 – 11 febbraio 1862),<br />

Celestino (4 febbraio 1866 – 15 settembre 1869) ed<br />

Ezio (18 maggio 1867 – 7 ottobre 1869).<br />

Giuseppe (1826-1902), terzo figlio di Ignazio, sposerà<br />

Marianna Volpi (1836-1918), esponente di una<br />

facoltosa famiglia di proprietari terrieri di Lomello,<br />

da cui proviene Stefano, consigliere comunale a Fer-


era Erbognone e proprietario per anni della cascina<br />

Malandrana. Laureatosi in Fisica, medico chirurgo,<br />

Giuseppe Strada sarà uno dei protagonisti della vita<br />

amministrativa, sociale ed economica di Ferrera Erbognone<br />

nella seconda metà dell’Ottocento.<br />

Di gran lunga il maggior contribuente del paese, alla<br />

luce delle 3.368 lire versate per l’imposta fondiaria<br />

alla fine del XIX secolo, morirà a 75 anni «dopo<br />

breve malattia fra atroci sofferenze», come scriverà<br />

il settimanale “Eco della Lomellina” di Sannazzaro<br />

de’ Burgondi.<br />

Anche Paolo (1827-1859) seguirà la carriera militare<br />

facendosi onore nella prima e nella seconda guerra<br />

d’Indipendenza, per cui riceverà due decorazioni. Tenente<br />

colonnello dello Stato maggiore, sarà insignito<br />

anche della Legion d’onore di Francia e del cavalierato<br />

di Gran Croce dell’Ordine militare di Savoia.<br />

Infine, ci sono Clementina, andata in sposa a Giuseppe<br />

Pollini, benestante di Sannazzaro de’ Burgondi,<br />

e Alessandro, di cui nel mausoleo è riportata solo la<br />

data di morte: 3 settembre 1872. È da presumere che<br />

sia stato il quinto figlio maschio di don Ignazio.<br />

Giuseppe Strada e Marianna Volpi avranno cinque figli:<br />

la primogenita nata e morta il 20 gennaio 1858, il<br />

cavalier Felice (1861-1935), Elena (3 ottobre 1867<br />

-15 giugno 1868), l’avvocato Attilio (1870-1915) e il<br />

cavalier Ugo (1881-1962).<br />

Felice Strada gestirà diversi terreni agricoli in località<br />

Casoni Borroni, in Comune di Mezzana Bigli al confine<br />

con quello di Ferrera Erbognone. Sette saranno i<br />

figli nati dall’unione con Ilde Robbio (1874-1947): il<br />

nobiluomo Pietro (1901-1950), il ragionier Giuseppe<br />

(1902-1976), che sposerà Nella Viel (1909-1970),<br />

Maria, Fanny, Virginia, Ugolina e Berenice.<br />

Attilio Strada sposerà Emilia Cerri e rimarrà in paese,<br />

dove guiderà una parte del blocco liberal-costituzionale.<br />

Nel 1901 sarà eletto sindaco subentrando a Pietro<br />

Gusmani, fittabile della cascina Confaloniera e suo<br />

diretto avversario politico-amministrativo. L’avvocato<br />

Strada non avrà vita facile, tanto più che, in seguito<br />

alle elezioni comunali del 13 luglio 1902, dovrà combattere<br />

contro i radicali Giovanni Angeleri e Angelo<br />

Lavatelli, e il socialista Pietro Pampuri. È una piccola,<br />

ma agguerrita, avanguardia di quella formula politica<br />

nota come blocco popolare, che in quegli anni ottiene<br />

lusinghieri risultati in varie province italiane, Pavia<br />

compresa. La costante avanzata dei socialisti, alleati<br />

con i radicali, sfocerà nella conquista della maggioranza<br />

consiliare. Nel 1905 Giuseppe Zucca succede a<br />

Strada, che tornerà in consiglio comunale sui banchi<br />

della minoranza negli anni precedenti lo scoppio della<br />

Grande guerra. È d’obbligo, in questa sede, ricordare<br />

anche il celeberrimo sciopero del 24 maggio 1912, che<br />

vedrà il nobiluomo contrapposto alle mondariso locali<br />

guidate dalla pasionaria Maria Provera e dal sindacalista<br />

Eugenio Riba. Come riportato dal canto popolare<br />

“Le mondine contro la cavalleria”, l’ex sindaco Strada<br />

è noto in paese con il soprannome di Sultano. Il<br />

fratello Ugo sarà eletto vice sindaco dopo le elezioni<br />

amministrative parziali del 1910 in una giunta guidata<br />

dal sindaco Giuseppe Zucca e in cui per la prima<br />

volta entrano anche due socialisti in rappresentanza<br />

della lega di resistenza contadina. Nel 1912 farà parte<br />

dell’opposizione alla prima giunta “rossa” e nel 1914<br />

non sarà rieletto in consiglio comunale. Il siùr Ugo<br />

sarà l’ultimo rappresentante della nobile famiglia residente<br />

in paese, ma una leggenda popolare vuole che<br />

il suo fantasma aleggi ancora da quarant’anni nelle<br />

cantine del palazzo di via Roma.<br />

luglio - settembre <strong>2010</strong><br />

17<br />

Sopra Palazzo Strada,<br />

sotto lo stemma<br />

araldico<br />

della nobile famiglia<br />

Il siùr Ugo sarà<br />

l’ultimo<br />

rappresentante<br />

della famiglia<br />

residente in paese,<br />

ma una leggenda<br />

popolare vuole<br />

che il suo fantasma<br />

aleggi ancora nelle<br />

cantine del palazzo<br />

di via Roma


Cultura&&&<br />

Misteri<br />

Figlia illegittima<br />

di papa<br />

Alessandro VI,<br />

Lucrezia Borgia<br />

è passata<br />

alla storia<br />

per la sua bellezza<br />

e per gli intrighi<br />

di corte<br />

di cui fu più volte<br />

protagonista<br />

Roma, 6 giugno 1497: la diciassettenne<br />

Lucrezia Borgia arriva a cavallo davanti<br />

al convento delle domenicane. All’incredula<br />

badessa la fanciulla chiede di farsi<br />

monaca. Tutti conoscono Lucrezia: è la<br />

figlia di Rodrigo Borgia, vale a dire papa Alessandro<br />

VI. Sì, Lucrezia è proprio la figlia del papa: in pieno<br />

Rinascimento, rotto definitivamente ogni legame con<br />

il Medioevo, le passioni si scatenano ovunque, oltre<br />

ogni limite, senza la benché minima remora morale.<br />

Solo un anno prima la fanciulla ha sposato il bel conte<br />

Giovanni Sforza, con una grandiosa festa in Vaticano.<br />

I nobili presenti non possono dimenticare il pranzo<br />

di nozze, con i balli sfrenati e il consueto gioco dei<br />

confetti: il papa stesso lancia confetti nella scollatura<br />

delle signore (“in sinu multarum mulierum”) e i cavalieri<br />

devono recuperarli con le mani. Ma anche i<br />

poveri se lo ricordano: dopo il favoloso pranzo, tutto<br />

il cibo avanzato viene generosamente gettato dalle finestre<br />

per il popolo acclamante. Tuttavia l’idillio dura<br />

poco: lo sposino scappa, accusando la famiglia Borgia<br />

di corruzione e dissolutezza e viene a sua volta ricambiato<br />

con l’accusa di impotenza. Ecco perché Lucrezia<br />

vuole ritirarsi in convento: per erigere un alto muro tra<br />

lei e il mondo, ma questo muro ha una fenditura... Il<br />

fedele servo spagnolo Perotto, con il benestare della<br />

madre badessa, fa da tramite tra il papa e la ragazza: la<br />

incontra quotidianamente, diventa il suo confidente, si<br />

parlano per ore e quando Lucrezia si reca in Vaticano<br />

per la sentenza di divorzio, dichiarandosi “fanciulla<br />

intatta”, non può più nascondere la sua evidente gravidanza,<br />

con grande imbarazzo di tutta la corte papale.<br />

Perotto non la passa liscia: qualche giorno dopo i<br />

barcaroli ne ripescano il corpo dal Tevere.<br />

L’anno successivo nasce il figlio di Lucrezia e il papa<br />

18 IL VAGLIO<br />

I Borgia,<br />

una stirpe<br />

piena di veleni<br />

LUCREZIA, LA PRIMA, VERA “FEMME FATALE”<br />

di Nadia Farnelli<br />

legittima il bimbo come suo: addirittura qualcuno è<br />

pronto a giurare che il piccolo sia davvero il frutto<br />

di un rapporto incestuoso tra padre e figlia o forse tra<br />

fratello e sorella. Cesare Borgia, detto il Valentino, è<br />

il fratello più legato a Lucrezia. Si tratta di un tipo poco<br />

raccomandabile, che tiene gioco al papa, che si fa<br />

nominare cardinale e che spesso e volentieri fa fare a<br />

qualcuno la stessa fine di Perotto, compresi il fratello<br />

Giovanni e il secondo marito di Lucrezia. Già, perché<br />

il primo matrimonio viene finalmente dichiarato nullo,<br />

in quanto non consumato.<br />

In realtà è decaduto ogni interesse politico su di esso e<br />

il papa ha messo gli occhi su un altro giovane: Alfonso<br />

d’Aragona. L’intento è quello di imparentarsi con i<br />

reali di Napoli. Così nel 1498 la diciottenne Lucrezia<br />

sposa il suo coetaneo Alfonso, senza averlo mai visto<br />

prima. Ma le piace: lo trova bello e affascinante e presto<br />

la coppia regala a Sua Santità un secondo nipote,<br />

il piccolo Rodrigo. Ciò non basta tuttavia a placare le<br />

ire del papa, visto che il genero ha stretto un’alleanza<br />

non gradita con il re di Francia Luigi XII. Nessun problema:<br />

ci pensa Cesare, che in meno di mezz’ora fa<br />

strozzare il cognato, con la benedizione del Santo Padre.<br />

Per uno come lui, non è stato nemmeno necessario<br />

ricorrere all’uso del veleno, mezzo più raffinato e<br />

discreto, che ha soppiantato quasi del tutto le mani e il<br />

pugnale, soprattutto tra le classi elevate. Gli alchimisti<br />

dell’Italia rinascimentale hanno perfezionato i numerosi<br />

veleni ereditati da greci, arabi e romani e i Borgia<br />

ne apprendono ogni segreto. Tra i veleni vegetali<br />

conoscono i vapori dell’alloro (già sniffati in piccole<br />

dosi dalla sacerdotessa di Delfi prima di pronunciare<br />

l’oracolo) e il nepente, mitologico miscuglio di piante<br />

tra cui la mandragola (Giasone lo usa per addormentare<br />

il drago a guardia del Vello d’Oro e Ulisse per


sottrarsi agli incantesimi della maga Circe).<br />

Sorvolando sulla cicuta di Socrate e Seneca, non<br />

dimenticano di certo la potenza del fungo Amanita<br />

Phalloides, che già Agrippina aveva utilizzato per<br />

sbarazzarsi del marito, l’imperatore Claudio, ghiotto<br />

di porcini.<br />

A buon mercato possono anche ottenere infusi di fiori<br />

di pesco o di noccioli di mandorle, che diventano acido<br />

cianidrico nello stomaco.<br />

Certo i Borgia conoscono anche i veleni animali, come<br />

quello di vipera e di cobra: più pietoso il secondo,<br />

che fa morire per paralisi e senza dolore. Sanno con<br />

certezza che, contrariamente a quanto si crede, Cleopatra<br />

si fece mordere da un cobra e non da un aspide<br />

(Luciano Sterpellone).<br />

Qualche volta, però, queste sostanze, a dosi improvvisate,<br />

possono non dare il risultato voluto, provocando<br />

tutt’al più qualche terribile mal di pancia. Ecco che la<br />

ricerca degli alchimisti ha messo a punto un’arma segreta,<br />

sicura, da somministrare in dose professionale<br />

e ad effetto infallibile: il veleno minerale.<br />

E l’Italia dei Borgia si impadronisce dell’arsenico:<br />

sembra zucchero, è maneggevole, non altera i sapori,<br />

provoca sintomi apparentemente naturali, può anche<br />

essere assorbito attraverso la cute (basta metterlo sui<br />

vestiti o tra le lenzuola). Con un tocco più folcloristico<br />

che diabolico, i rinascimentali arricchiscono<br />

l’arsenico con del distillato di sangue di impiccato,<br />

di coda di ratto, di bava di rospo… e alcuni preparati<br />

hanno addirittura l’etichetta specifica, del tipo “elisir<br />

di vedovanza” e “liquore di successione”. C’è poi<br />

un intruglio letale preparato apposta per i Borgia: la<br />

cantarella. Il nome potrebbe derivare da cantarellus<br />

(piccola coppa) o da cantaride, una mosca spagnola<br />

che, ridotta in polvere, sarebbe afrodisiaca a minusco-<br />

le dosi, ma micidiale per i reni a dosi elevate.<br />

Conoscono anche un preparato ad azione ritardata,<br />

l’anidride arseniosa, che provoca una morte riferibile<br />

ad altre cause in tempi successivi all’assunzione. (Il<br />

Cabanis scrive: “Quando un uomo muore improvvisamente,<br />

vien da chiedersi se alcuni mesi addietro non<br />

abbia bevuto un bicchiere di vino in casa Borgia”).<br />

In casa Borgia si può incappare in un’oliva truccata,<br />

in mezza mela che è stata a contatto con l’unica faccia<br />

avvelenata di un coltello o, perché no, si può usare uno<br />

stuzzicadenti all’arsenico. È così che ci ha lasciato le<br />

penne il ricchissimo cardinale veneziano Michiel, del<br />

quale i Borgia erano eredi, mentre il suo collega di<br />

Bérulle s’è mangiata un’ostia avvelenata. Qualcosa di<br />

analogo dev’essere accaduto anche al cardinale Orsini,<br />

che un brutto giorno è stato ripescato dal Tevere.<br />

La fantasia in questo campo non ha limiti: le polveri<br />

velenose, magari contenute nel castone di un anello,<br />

possono essere cosparse al momento opportuno sulle<br />

camicie, sulle selle, tra le pagine di un libro… Bisogna<br />

stare attenti anche al fumo delle torce e dell’incenso<br />

in processione (esperienza personale di papa Clemente<br />

VII) e a non annusare fiori durante una cavalcata<br />

(non ha potuto raccontarlo papa Leone XI). Del resto<br />

Alessandro V non ha superato un clistere di veleno e il<br />

medico Battista da Vercelli è stato giustiziato per aver<br />

tentato di avvelenare papa Leone X, introducendo una<br />

sostanza tossica attraverso una fistola cutanea. È consuetudine<br />

rinascimentale che una guardia del corpo<br />

assaggi sempre una porzione di cibo (il “credito”) prima<br />

dei personaggi illustri, da cui l’espressione “dare<br />

credito”. A questo si aggiunga l’abitudine di masticare<br />

foglie di ruta prima di ingerire il cibo sospetto: ecco<br />

perché si dice “mangiare la foglia”.<br />

luglio - settembre <strong>2010</strong><br />

19<br />

A sinistra<br />

papa Alessandro VI,<br />

a destra ritratto<br />

di Lucrezia Borgia,<br />

opera di Bartolomeo<br />

Veneziano<br />

L’Italia dei Borgia<br />

si impadronisce<br />

dell’arsenico:<br />

sembra zucchero,<br />

è maneggevole,<br />

non altera i sapori,<br />

provoca sintomi<br />

apparentemente<br />

naturali, può essere<br />

assorbito<br />

attraverso la cute


Lucrezia non è<br />

la mantide<br />

religiosa<br />

che si vuol<br />

far credere.<br />

È pedina<br />

di giochi altrui.<br />

In fin di vita<br />

si dichiara<br />

“Christiana benché<br />

peccatrice”<br />

Comunque la bella Lucrezia non fa nulla di tutto questo<br />

e si accinge invece a sposare un altro Alfonso,<br />

questa volta d’Este, figlio del duca di Ferrara.<br />

Dapprima la famiglia di Alfonso manifesta delle perplessità.<br />

D’altronde anche lo sposo ha ben presente<br />

la storia dei precedenti mariti di Lucrezia. Alla fine<br />

però la dote della sposa li convince: per tutti quei ducati<br />

vale la pena di rischiare (“Casse e forzieri non<br />

si chiudevano tanto erano colmi”). E poi Lucrezia è<br />

sempre una bella donna, anche se non è più in perfetta<br />

salute: ha dolori ai fianchi, si stanca facilmente, non<br />

può più ballare come vorrebbe né fare lunghe cavalcate.<br />

È per lei che viene importata dall’Ungheria la<br />

carrozza con le molle, primo esempio di mezzo con<br />

gli ammortizzatori. La utilizza soprattutto durante la<br />

terza gravidanza, molto sofferta, con troppi medicivescovi<br />

al suo fianco, che le somministrano purghe e<br />

le praticano salassi. La bimba che nasce nel 1502 non<br />

sopravvive ed è un miracolo che invece la mamma<br />

riesca a superare la batosta.<br />

Giusto in tempo per trasferirsi a Ferrara ed essere lontana<br />

dal marasma che accompagna il decesso di Alessandro<br />

VI l’anno successivo, quando il papa muore<br />

per problemi cardiaci. Almeno così sembra. Ciò che<br />

è certo è che i servitori di corte non piangono, anzi:<br />

dopo il suo ultimo respiro, gli saccheggiano gli appartamenti,<br />

portandogli via addirittura la sedia pontificia.<br />

Anche Cesare sta male e manifesta gli stessi sintomi<br />

del padre. La giovane età e la robusta costituzione gli<br />

permettono di tirare avanti, ma non per molto. Con<br />

l’elezione di papa Pio III, il cui pontificato dura solo<br />

ventisei giorni, e poi di Giulio II, Cesare cade in<br />

disgrazia e se ne va in Spagna, dove muore in combattimento.<br />

Il dubbio è d’obbligo: padre e figlio non saranno stati<br />

avvelenati? Secondo Guicciardini il papa ed il figlio<br />

Cesare avrebbero progettato di far fuori ben nove cardinali<br />

in un sol colpo, invitandoli a cena, insieme a<br />

molti altri, nella residenza di campagna. Il fresco vinello<br />

avvelenato doveva essere versato ai soli prelati<br />

designati, ma i camerieri avrebbero fatto un po’ di confusione…<br />

Altri storici non accettano questa versione<br />

dei fatti ed ipotizzano che i due personaggi siano stati<br />

vittima della malaria e non del veleno. I contemporanei<br />

pensano all’avvelenamento per l’insolito comportamento<br />

del cadavere del defunto papa: non è stato<br />

possibile prolungarne la consueta esposizione in San<br />

Pietro a causa della rapida decomposizione . (Burcardo<br />

di Strasburgo scrive: “Non si era mai visto nulla<br />

di tanto nero, gonfio e orripilante e il peggio venne<br />

quando sei bifolchi, che intanto facevano barzellette<br />

sul papa, lo ficcarono nella bara troppo stretta a forza<br />

di pugni”). Però l’arsenico non accelera, ma rallenta<br />

il processo di decomposizione. Inoltre quasi tutti gli<br />

uomini della corte papale in quel periodo soffrono di<br />

febbri periodiche.<br />

Comunque sia, la morte del papa è per Lucrezia un<br />

evento molto doloroso: si veste a lutto e si chiude<br />

in una stanza. Mal sopporta i tentativi del marito di<br />

consolarla. Gradisce invece il conforto dell’umanista<br />

20 IL VAGLIO<br />

Alfonso I d’Este,<br />

ritratto di Dosso Dossi<br />

veneziano Pietro Bembo, che le è molto affezionato:<br />

il loro amore è platonico, forse perché hanno sempre<br />

qualcuno intorno o, più probabilmente, perché il poeta<br />

tiene alla propria pelle e non si fida né degli Estensi né<br />

dei Borgia. Del resto non vuol fare la fine del piccolo<br />

zoppo Strozzi, che ha favorito i loro incontri e non<br />

è durato a lungo. Comunque verso la fine del 1504<br />

Lucrezia è di nuovo incinta. A causa della peste, deve<br />

trasferirsi da Ferrara a Modena e poi a Reggio, dove<br />

finalmente nasce il piccolo erede estense, Rodrigo,<br />

che non è il ritratto della salute e vive solo per venticinque<br />

giorni. Il popolo male festeggia prima e poco<br />

piange dopo, perché è afflitto dalla peste e dalla fame.<br />

Lucrezia ci riprova l’anno seguente, ma tra feste notturne<br />

e ritiri in convento, abortisce. Nonostante tutto<br />

si dice che sia ancora una delle donne più attraenti e la<br />

pensa sicuramente così il marchese di Mantova: forse<br />

è proprio suo il figlio successivo di Lucrezia, al quale<br />

viene imposto il nome del nonno paterno Ercole. La<br />

culla dell’erede viene costruita dal famoso intagliatore<br />

Bernardino Veneziano, che confeziona un capolavoro:<br />

più che una culla sembra un piccolo monumento, con<br />

bassorilievi e colonnette, foglie e rametti d’oro, tendine<br />

di raso e drappi di seta colorata. È un peccato che<br />

venga poco utilizzata e allora ecco che nasce Ippolito<br />

(futuro cardinale), seguito da altri tre fratellini.<br />

Ma a un’ulteriore gravidanza, nel 1519, Lucrezia cede:<br />

dopo aver dato alla luce una bambina, che non<br />

sopravvive, è colta da cefalee lancinanti, ha febbre<br />

alta, perde d’improvviso la vista e l’udito. I medici<br />

le recidono i biondi capelli e le somministrano del rabarbaro.<br />

La letteratura e la lirica hanno alimentato l’idea che<br />

Lucrezia sia morta di morte violenta, ma non è così.<br />

Come non è la mantide religiosa che si vuol far credere.<br />

La nobildonna più chiacchierata del Rinascimento<br />

è figlia del suo tempo e pedina di giochi altrui.<br />

In fin di vita scrive una lettera, nella quale si dichiara<br />

“Christiana benché peccatrice”.<br />

La perfida Lucrezia, fondatrice del Monastero del<br />

Corpus Domini, sotto la ricca veste di broccato d’oro,<br />

indossa il cilicio.


La turbolenta<br />

casata dei Visconti<br />

DALL’ANNO MILLE ALLA NASCITA DEL “NOSTRO” LUDOVICO IL MORO<br />

I<br />

primi Visconti legati alla storia di Milano risalgono<br />

al 1037, quando Eriprando, condottiero<br />

della milizia milanese, difende la Patria dalle<br />

mire dell’imperatore Corrado. Il nome alla<br />

famiglia lo dà Ottone, nato nel 1111, ma sarà<br />

l’altro Ottone, prima prete e poi arcivescovo di Milano,<br />

nel 1262 a dare il la alle loro fortune. Con lui<br />

inizia la signoria viscontea che durerà 150 anni. Nel<br />

1287, dopo tante battaglie e mille controversie con la<br />

chiesa, lascia il potere al pronipote Matteo e muore nel<br />

1295 a 88 anni - un’età ragguardevole per il periodo<br />

in cui è vissuto- presso il monastero di Chiaravalle.<br />

Con Matteo detto “ il Grande”, nominato dall’imperatore<br />

Rodolfo d’Asburgo vicario imperiale il potere si<br />

consolida e il papa dell’epoca, Giovanni XXII impaurito<br />

da tanta espansione lo scomunica e indice nei suoi<br />

confronti una santa crociata. Dopo le tante battaglie,<br />

Matteo si ritrova stanco e a 70 anni lascia il potere al<br />

primogenito Galeazzo. Muore il 24 giugno 1322. Galeazzo<br />

I, sposato a Beatrice d’Este, vedova di Nino Visconti<br />

di Pisa, il 24 giugno del 1300 con la morte del<br />

padre, eredita la signoria di Milano, la scomunica paterna<br />

e la seconda crociata contro il suo casato perché<br />

il papa, persa la prima - comprata - non disarma. Per<br />

colpa del fratello Marco, sobillato dal cugino Lodrisio<br />

- figlio di Pietro Visconti e di Antiochia Crivelli e considerato<br />

il primo italiano capitano di una compagnia<br />

di ventura, quella di San Giorgio, nel 1339 - trascorre<br />

alcuni anni nelle prigioni che egli stesso ha fatto costruire<br />

nella fortezza di Monza. Muore all’età di 50<br />

anni nell’agosto del 1328 a Pisa, di ritorno da Roma<br />

dove ha raggiunto l’Imperatore.<br />

Signore di Milano è l’unico figlio maschio, il<br />

giovane Azzone, con cui ha condiviso la terribile<br />

esperienza dell’ingiusta carcerazione nei “Forni” di<br />

Monza. Sposo a Caterina,una Savoia del ramo dei<br />

Vaud, ottiene dall’imperatore la reintegrazione della<br />

Signoria di Milano e riesce a impadronirsi di buona<br />

di Graziella Bazzan<br />

parte della Lombardia. Alla sua corte vi sono letterati<br />

come il Petrarca e molti artisti noti o in cerca di notorietà.<br />

Azzone è ricordato per le opere d’architettura e<br />

per gli interventi urbanistici come strade, fognature e<br />

ponti che cambiano notevolmente il volto di Milano.<br />

È anche un valido legislatore: suoi i celebri Statuti, il<br />

primo ordinamento dei traffici commerciali e delle attività<br />

artigianali. Muore all’età di 37 anni nel 1339 per<br />

un attacco di gotta (malattia probabilmente inclusa nel<br />

dna dei Visconti, visto che molti di loro ne soffrono).<br />

Gli zii Giovanni e Luchino ereditano così non solo la<br />

città di Milano, ma un vero stato. Luchino, uomo colto<br />

ma spietato e crudele contro chiunque gli contrasta<br />

il passo, si crea la fama di scioperato. Trascorre la vita<br />

nei bagordi procreando figli illegittimi, si sposa tre<br />

volte, prima con una Saluzzo, poi una Spinola ed infine<br />

ad una Fieschi di nome Isabella che gli dà un figlio:<br />

Luchino Novello. Di morte violenta muore anche lui,<br />

avvelenato dalla moglie che pare si conceda qualche<br />

scappatella extraconiugale. Dopo la sua scomparsa<br />

ecco un Visconti in vena di conquiste, Giovanni. Per<br />

caso arcivescovo e per natura politico, è considerato<br />

l’artefice del consolidamento e del prossimo ampliamento<br />

dello stato visconteo. È un uomo seducente, affabile<br />

e di raffinata cultura, amante della buona tavola<br />

e delle belle donne, ne possiede una piccola collezione<br />

che tiene costantemente aggiornata come l’amata<br />

biblioteca. Anche a lui arriva una scomunica da papa<br />

Clemente VI per avergli sottratto, comprandola, la<br />

città di Bologna con la sua antica università.<br />

Ma gioca d’astuzia e il papa si spaventa all’idea che<br />

parta verso Roma con dodicimila cavalieri e seimila<br />

fanti; revoca così la scomunica e invia in cambio una<br />

solenne benedizione. Giovanni ringrazia e fa giungere<br />

al pontefice un obolo personale di 100.000 fiorini per<br />

la chiesa. Muore nell’autunno del 1354, a causa di una<br />

- pare - banale incisione alla fronte praticata dal medico<br />

di corte.<br />

luglio - settembre <strong>2010</strong><br />

Cultura&&&<br />

21<br />

Nobiltà<br />

A dare per primo<br />

lustro alla famiglia<br />

è, nel 1262,<br />

Ottone Visconti,<br />

prima prete,<br />

poi arcivescovo<br />

di Milano.<br />

Con lui inizia<br />

una signoria<br />

che durerà<br />

150 anni


Azzone<br />

e Galeazzo I<br />

Visconti<br />

Gian Galeazzo<br />

porta il titolo<br />

di “Conte di Virtù”,<br />

ma per raggiungere<br />

i suoi scopi<br />

usa astuzie e agisce<br />

con spudorata<br />

malafede,<br />

acquistandosi<br />

la fama di persona<br />

spregevole<br />

I suoi tre nipoti, Matteo II, Galeazzo II e Bernabò, sono<br />

ora i Signori di Milano estromettendo dalla divisione<br />

del territorio Luchinetto, figlio dello zio Luchino,<br />

e Leonardo, figlio dello zio arcivescovo. Il dominio<br />

su gran parte dell’Italia settentrionale fa gola<br />

ed ecco che i fratelli Galeazzo II e Bernabò, ostili e<br />

invidiosi della fortuna del fratello Matteo, lo avvelenano.<br />

Galeazzo II a 30 anni sposa per ragioni politiche<br />

Bianca di Savoia, fonda l’università di Pavia,<br />

su consiglio del Petrarca e nel 1351 diventa padre di<br />

Gian Galeazzo che tanto farà parlare di sé.<br />

Quando muore nell’anno del signore 1378, di inconsueta<br />

morte naturale, nel suo letto, nel castello di<br />

Pavia, tutti i possedimenti dei Visconti tornano nelle<br />

mani di un unico padrone e signore: Bernabò che regna<br />

da vero tiranno. Irascibile e prepotente è legato<br />

- nonostante le non poche infedeltà - alla moglie Regina<br />

della Scala. Tra i suoi hobby oltre alla guerra<br />

ci sono le sottane, la caccia e i suoi adorati cani: ne<br />

possiede circa 5.000, sono di ogni razza ma lui preferisce<br />

i mastini. Con la moltitudine dei suoi figli regna<br />

indisturbato fino a quando con un colpo di stato in<br />

piena regola, che libera Milano da un signore tiranno<br />

e crudele, Jacopo dal Verme con i suoi armati - pagati<br />

dal nipote Gian Galeazzo - cattura Bernabò e i<br />

suoi figli e li conduce disarmati nel castello di Trezzo<br />

dove, in ossequio alle tradizioni di famiglia, muore<br />

qualche mese dopo (sembra per veleno - guarda caso<br />

- unito ai fagioli, suo piatto preferito). La versione<br />

ufficiale della morte è infarto.<br />

Corre l’anno di grazia 1385 e ora il nuovo regnante<br />

è Gian Galeazzo. Con lui si entra, se così si può dire,<br />

nella parte più “moderna” della storia dei Visconti,<br />

ovvero nel cuore di quelle vicende che per la ferocia<br />

e la nefandezza che le distinguono, maggiormente<br />

colpiscono la nostra attenzione di posteri. Lui, nato<br />

il 15 ottobre del 1347 a Pavia, è il primo dei Visconti<br />

ad assumere il titolo di duca. Sposato alla cugina<br />

Caterina, figlia di Bernabò, porta il titolo di “Conte<br />

22 IL VAGLIO<br />

di Virtù” dal nome Vertusin Champagne, donatogli<br />

dai francesi ai tempi del suo primo matrimonio con<br />

Isabella di Valois, figlia di re Giovanni II. Per raggiungere<br />

i suoi scopi ne combina “più di Bertoldo in<br />

Francia”, usa astuzie, agisce con spudorata malafede<br />

acquistandosi la fama di persona spregevole. Si professa<br />

uomo di profonda fede, si interessa vivamente<br />

alla costruzione del Duomo, da lui fatta iniziare, e<br />

della Certosa di Pavia, ma nulla gli è più estraneo<br />

della legge morale. Dopo le città settentrionali punta<br />

alla conquista dell’Italia centrale: Perugia, Spoleto,<br />

Nocera Umbra e Assisi passano sotto il suo dominio<br />

e infastidisce non poco Firenze.<br />

Anche la Chiesa ha le sue buone ragioni per arginare<br />

l’invadenza del Visconti, ma è nell’impossibilità di<br />

combattere perchè dilaniata dalle lotte interne. Sono<br />

gli anni del grande scisma occidentale: i due papi,<br />

uno ad Avignone e uno in Italia, si contendono il potere,<br />

diminuendo così la coesione della Chiesa.<br />

Nel 1395, sette anni prima della sua morte, è eletto<br />

Duca e legittimo “sovrano” delle città dei suoi<br />

feudi nella zona alta dell’Italia. L’alto riconoscimento,<br />

acquistato per 200.000 fiorini d’oro, gli è<br />

conferito dall’imperatore Venceslao con una solenne<br />

cerimonia in Piazza Sant’Ambrogio, alla quale seguono<br />

festeggiamenti rimasti leggendari. Ha manie<br />

di grandezza, completa il palazzo di Pavia iniziato<br />

dal padre GaleazzoVisconti, la più splendida residenza<br />

principesca dell’epoca. In questo palazzo, tra<br />

intrighi e tradimenti continui, trasporta la sua celebre<br />

biblioteca e la grande collezione di reliquie verso la<br />

quale nutre particolare devozione. Individuo ambizioso<br />

e senza scrupoli, muore di peste nel castello<br />

di Marignano, dove si è rifugiato per evitare il contagio;<br />

è a Milano il suo sontuoso funerale e per volontà<br />

testamentaria lascia il suo cuore alla Basilica di<br />

San Michele a Pavia e il resto del corpo al convento<br />

di Sant’Antonio di Vienne. Ora giace nella Certosa<br />

di Pavia, da lui fatta erigere nel 1396.


Eredita il ducato il suo primogenito, Giovanni Maria<br />

di soli tredici anni che praticamente, data l’età, non<br />

è in grado di governare. A sostituirlo sono chiamati<br />

i condottieri Carlo Malatesta, Facino Cane e il maresciallo<br />

Boncicaut. In un caos di guerre civili che<br />

portano la desolazione in Lombardia, la sua diretta<br />

dominazione, quando ne fu in grado, è riservata alla<br />

sola città di Milano; sposa Antonia Malatesta nipote<br />

di Carlo Malatesta. A causa della dominazione<br />

scriteriata e tirannica - è detto il terribile - nel maggio<br />

del 1412, a soli 23 anni, è trucidato sulla soglia<br />

della chiesa di San Gottardo, dai popolani fomentati<br />

da Astorre Visconti e dal nipote Giovanni Carlo che<br />

vendicano così la morte di Bernabò. Il cadavere di<br />

Giovanni Maria è poi esposto agli oltraggi dei passanti.<br />

Non lascia eredi e colui che lo segue, dopo una parvenza<br />

di regno da parte di Astorre Visconti (figlio naturale<br />

di Bernabò e del nipote Giovanni Carlo), è Filippo<br />

Maria che, se per legge ha il diritto a regnare, in<br />

realtà non è nelle condizioni di farlo, poiché è privo<br />

di ogni mezzo, oltre che pieno di paura. Rendendosi<br />

conto della sua impotenza, si rode per l’umiliazione.<br />

L’ancora di salvezza gli è offerta sotto forma di consiglio<br />

amichevole: sposare Beatrice Tenda, di venti<br />

anni più di lui, discendente dei Lascaris e vedova<br />

dell’amatissimo condottiero Facino Cane, alla quale<br />

sono rimasti, intatti, tutti i beni e i privilegi del marito.<br />

È un ecclesiastico, l’arcivescovo Capra di Milano,<br />

che si incarica di convincere la vedova alle nuove<br />

nozze. Il matrimonio si celebra e la prima mossa verso<br />

il potere è naturalmente, da parte di Filippo Maria,<br />

l’eliminazione di Ettore e Giovanni Carlo, subito<br />

accusati di essere gli usurpatori del regno. Per lui è<br />

stata una scelta necessaria, ma ciò che fa in seguito è<br />

esclusivamente per suo diletto; il rancore che prova<br />

verso gli uccisori del fratello Giovanni Maria trova<br />

sfogo nella vendetta contro i nemici del fratello ucciso.<br />

I sentimenti nobili non sono nelle corde naturali<br />

del duca e ben presto la moglie -a cui deve tutto, un<br />

tutto che lo costringe ad esserle umilmente grato,<br />

provocandogli un grande fastidio - ha l’opportunità<br />

di rendersene personalmente conto. Filippo Maria<br />

non prova nei suoi confronti nessun sentimento e<br />

porta a corte la nobile Agnese del Maino, figlia di<br />

Ambrogio del Maino, conte palatino e questore ducale,<br />

facendone la sua amante.<br />

Tra le sue tante debolezze vi è quella della superstizione,<br />

è puerilmente fiducioso nell’influsso degli<br />

astri o meglio lo è nei riguardi degli astrologi del ducato,<br />

i quali, approfittando della sua dabbenaggine,<br />

lo manovrano a piacere convincendolo sulla tresca<br />

amorosa di Beatrice con il cavalier Michele Orombello.<br />

Il castello di Binasco, residenza estiva del duca<br />

Filippo Maria, lontano dalla popolazione milanese<br />

devota alla duchessa, è il palcoscenico del suo livore<br />

nei confronti della moglie che sfocia con la sua morte<br />

per decapitazione: è la mattina del 13 settembre<br />

del 1418.<br />

Il regno del duca è assai lungo, e vi è spazio per ogni<br />

stranezza, ogni nequizia, ogni ingiustizia. Il sedicenne<br />

Filippo sposa in seconde nozze e solo per ragioni<br />

di stato la principessa Maria di Savoia che non ama<br />

più di quanto abbia amato la prima moglie. La vera<br />

compagna della sua vita rimane Agnese del Maino.<br />

Qui la storia dei Visconti ci riguarda da vicino e diventa<br />

anche la “nostra storia”, perché l’amante di<br />

Filippo Maria è la nonna di Ludovico il Moro. La figlia,<br />

Bianca Maria, subito legittimata dall’Imperatore<br />

Sigismondo di Lussemburgo, sposa infatti a soli<br />

diciassette anni, il 25 ottobre del 1441, a Cremona,<br />

Francesco Sforza. Filippo Maria muore a poco più di<br />

cinquant’anni; è l’ultimo di una dinastia che lascia<br />

opere d’arte, costruzioni civiche notevolissime, conquista<br />

città e le perde, e che da il via alla leggenda di<br />

una Milano operosa e intraprendente. Ma che lascia<br />

il ricordo di barbarie e oscurità medievali difficilmente<br />

raggiunte da altri principi.<br />

luglio - settembre <strong>2010</strong><br />

23<br />

Due illustrazioni<br />

raffiguranti<br />

Gian Galeazzo<br />

e Filippo Maria Visconti<br />

L’ultimo Visconti,<br />

Filippo Maria,<br />

muore a poco più<br />

di cinquant’anni.<br />

È la fine<br />

di una dinastia<br />

che lascia sia<br />

splendori,<br />

sia tenebre<br />

e barbarie<br />

medievali


Cultura&&&<br />

Racconti<br />

24 IL VAGLIO<br />

La Regina<br />

di Gianluca Ceriana<br />

Oltre mezz’ora di strada mi separava da Laumellum, mezz’ora di cammino solitario, vigile e silenzioso. Laumellum<br />

era collegato al mio villaggio, Mutatio ad Medias, da un largo sentiero lungo poco più di tre miglia che<br />

attraversava più foreste, molto numerose nel nostro territorio. Ero in sella ad un buon cavallo anche se ormai<br />

vecchio e per noi era stata una fortuna trovarlo abbandonato nel bosco mentre eravamo impegnati a far legna,<br />

a non molti passi dalla nostra terra. Mio fratello lo aveva visto brucare vicino alla palude e bardato riccamente<br />

com’era, doveva essere sfuggito a qualche signore poco abile nel districarsi nei boschi o vittima di qualche brigante. Pochi nel<br />

contado possedevano un cavallo da monta, così – visto che nessuno era venuto a cercare un cavallo smarrito – lo avevamo<br />

fatto nostro, vestendolo di povere bardature e lasciando crescere incolte la criniera e la coda, un tempo curate e pettinate, per<br />

non rivelarne la nobile provenienza. Mi ero allontanato di non pochi passi dalla nostra casa, quando incontrai Arcangelo, che<br />

mi veniva incontro in direzione opposta. Era uscito poco prima del sorgere del sole per procurarci il pranzo.<br />

“Salve, fratello”, dissi, “buona caccia oggi vedo”.<br />

Dalla sua borsa al fianco sinistro pendevano difatti due grosse anitre, di certo catturate nella vicina risorgiva, mentre con il<br />

braccio destro sosteneva una piccola rete a strascico, la wada, piena di pesci.<br />

“Direi di sì, il torrente di Med ci dà sempre buone possibilità… se si conoscono tutti i punti buoni.<br />

Buon cammino!”, mi augurò proseguendo.<br />

Arcangelo chiamava sempre il nostro villaggio Med, “il fertile”, alla maniera celta. Mutatio era stato imposto dai Romani ai<br />

nostri avi ed era divenuto un punto di sosta e di ristoro sulle strade per la Gallia. Sconfitti i Romani dalle genti germaniche, i<br />

discendenti dei Celti erano tornati a chiamare luoghi e cose con il loro nome d’origine.<br />

Mentre proseguivo avevo addentato del pane, preso dalla sacca che pendeva dal fianco destro di Mor. Era il mio pranzo,<br />

poiché sarei tornato da Laumellum solo nel pomeriggio. Dovevo concludere per mio padre la vendita del nostro grano ad un<br />

signore locale, un buon uomo, un germano che da tempo viveva stabilmente nel villaggio.<br />

Perso com’ero nei miei pensieri sentii chiamare:<br />

“Ave, giovane!”<br />

Di fronte a me veniva a piedi un uomo in abiti modesti, un viandante forse, ma non vi era da fidarsi e difatti misi presto la<br />

mano sotto la maglia toccando il pugnale.<br />

“Vi prego giovane, chiedo solo un pezzo del pane che stai consumando. È vero che sono molto vicino a casa, come tu ben<br />

sai, ma ho paura di non potere aspettare oltre… e poi è da almeno cento passi che ho sentito il profumo del pane di tua<br />

madre, donna Maria.”<br />

Lasciai subito il pugnale non appena l’uomo fu bene in vista. Avevo ormai riconosciuto il vecchio Abramo di Sar-tir.<br />

“È un piacere per me incontrarti, Abramo, così come dividere il mio pranzo con un vecchio amico di mio padre. Sono però in<br />

cammino per Laumellum e non posso fermarmi a mangiare con te…Vi saluto perciò e buon cammino”, terminai allungandogli<br />

oltre metà pagnotta.<br />

“Desinerò da solo, con gli amici della foresta”, replicò lanciando subito qualche briciola all’indirizzo di un leprotto che aveva<br />

fatto timidamente capolino dietro un vicino cespuglio, “non ti preoccupare per me. Vi è festa a Levium quest’oggi e per una<br />

settimana. Buon divertimento!”, disse Abramo ridendo ed addentando finalmente il pane.<br />

“Perché festa, che vi succede?”, proseguii meravigliato.<br />

“Non è restando nella fattoria che conoscerai le cose…”, replicò. “Vai, raggiungi il villaggio e lo saprai”, disse ridendo nuovamente<br />

e proseguendo lesto alle mie spalle.<br />

“Bene allora, affrettiamo il passo Mor, sono davvero curioso”.<br />

Finalmente arrivai alla fine del bosco, nei terreni coltivati a panicus davanti a Laumellum. Il grosso borgo era ben fortificato<br />

fin dai tempi dei Romani e continuava ad essere protetto dalle mura longobarde.<br />

Entrai in città senza problemi e senza troppi controlli grazie al nome di Wielfried, il nobiluomo nostro cliente.<br />

Il villaggio era vivo come sempre e passai al solito, con Mor a passo lento, dinanzi alla possente roccaforte ed ai venditori<br />

ambulanti che mettevano in bella mostra i loro prodotti: il mercato era frequentato a quell’ora del mattino e le donne se ne<br />

tornavano con panieri e sacche ricolmi. Vi erano vessilli spiegati a festa sulle pareti del castello ed una animazione particolare<br />

tutt’intorno. Fermai un mercante di selvaggina. “Ditemi, buon’uomo, poiché sono forestiero, il motivo di quest’insolita animazione.<br />

Non ricordavo il villaggio così festoso dall’ultimo ottimo raccolto di qualche anno fa!”.<br />

“Come fate a non sapere giovane? È per lei, la Regina, che si sposerà fra qualche giorno”, disse il villano eccitatissimo.


“Sogno e partenza di Teodolinda”, dagli affreschi della Cappella di Teodolinda, Duomo di Monza<br />

Trasalii. “La Regina”, pensai, “Teodolinda!”. Avevo saputo da un paio di viaggiatori di passaggio a Med della tragica morte del<br />

re Autari e della volontà della regina di maritarsi di nuovo, ma non pensavo che tutto ciò sarebbe avvenuto così presto. Beh, la<br />

regina non meritava di restare sola! Stava governando bene ed era solo grazie a lei che il nostro popolo era da poco in ottimi<br />

rapporti con i Longobardi. E poi, maritandosi a Laumellum, mi dava la possibilità di vederla come mai mi era successo.<br />

Interessato, smontai da cavallo e proseguii a piedi accompagnando Mor per le briglie.<br />

Il villaggio brulicava di gente: mercanti frettolosi e vocianti, soldati paffuti e gioviali che entravano e uscivano dalle locande,<br />

giovani nobili a cavallo, donne della servitù impegnate nelle spese per il pranzo.<br />

Raggiunsi l’abitazione del nobile Wielfried. Il nostro colloquio fu, al solito, breve ma preciso e l’accordo subito raggiunto.<br />

Grande fu la mia sorpresa, lasciando il villaggio quando ormai il cielo si cingeva di rosso, nell’incontrare Adalberto.<br />

“Salve fratello, come mai qui?...”<br />

“Salve a te! Dovevo finire un lavoro di muratura al castello. Per la grande festa, sai”.<br />

Non sapevo stesse lavorando per i principi.<br />

“Neanche io, in verità”, disse captando il mio pensiero, era una sua straordinaria capacità. “Ne ho avuto notizia solo nel<br />

pomeriggio, dopo aver completato il pozzo di una casa. Anzi, domani potrai accompagnarmi, ne avrò per poco tempo ancora,<br />

così oltre ad aiutarmi, potremmo magari scoprire qualcosa d’interessante…”.<br />

“Bene!”, risposi, “Verrò senz’altro se non ci sarà molto da fare nel campo”.<br />

Il ritorno fu piacevole grazie alla compagnia di Adalberto; giungemmo alla nostra sala (termine germanico-longobardo per<br />

indicare l’abitazione) in tempo per aiutare nostro padre a porre al riparo per la notte gli attrezzi del lavoro. Nuvole minacciose<br />

già coprivano il cielo.<br />

Consumammo la cena, supfa e frittelle di borragine e cicoria, parlando tutti del grande evento, dopo avere mostrato a mio<br />

padre, a conferma della vendita del grano, un sacchetto di sonanti tremissi.<br />

Intanto, aveva già incominciato a piovere.<br />

Prima una pioggia leggerissima aveva inumidito appena il terreno e battuto sul tetto come avrebbero fatto decine di picchi,<br />

poi l’acqua sempre più fitta aveva reso la terra intorno alla casa un mare di fango, senza accennare a smettere. Ben presto,<br />

cullati dal rumore della pioggia e spente le candele di sego, ci addormentammo. Un cane, lontano, latrava.<br />

La mattina dopo, al nostro risveglio, pioveva ancora. Decisi quindi di seguire mio fratello al villaggio, allorché non sarebbe<br />

stato possibile lavorare nei campi quel giorno.<br />

Che aria differente aveva il villaggio da come l’avevamo visto entrambi ieri! Le strade erano quasi completamente deserte e<br />

solo qualche soldato girava scontento per il villaggio, di certo obbligato a stare di pattuglia sotto l’acqua battente mentre il suo<br />

comandante si scaldava e beveva accanto al fuoco. Il resto della popolazione se ne stava invece al riparo, chi nelle botteghe,<br />

chi in casa oppure nelle locande.<br />

Le guardie di turno all’entrata del castello riconobbero Adalberto e ci lasciarono entrare.<br />

Subito fummo nel grande cortile, dove mio fratello doveva terminare la copertura di un muretto di sostegno. la pioggia finalmente<br />

accennava a diminuire, così lasciammo i mantelli a cavallo del grande pozzo del giardino.<br />

“Peccato non potere vedere la grande sala e le altre stanze”, disse Adalberto raccogliendo i mattoni che gli porgevo,” ne<br />

vedremmo delle belle…”.<br />

La fine della pioggia aveva permesso al cortile di rianimarsi. Personale della servitù ora lo attraversava velocemente, la<br />

pattuglia di guardia stancamente, i nobili a passeggio lentamente. Poi, le vedemmo.<br />

luglio - settembre <strong>2010</strong><br />

25


26 IL VAGLIO<br />

Tre o quattro giovani donne a passeggio con un’anziana accompagnatrice. Scossi Adalberto, che si voltò interrompendo<br />

il lavoro. Si assomigliavano tutte fra di loro, nei loro abiti sfarzosi e colorati che davano rilievo al viso bianchissimo ed alle<br />

lunghe trecce bionde. Passeggiavano quietamente chiacchierando, precedute in ogni passo dall’anziana dama. Dapprima<br />

scansarono attentamente le pozzanghere sul selciato e sui sentieri divenuti fangosi, poi non poterono evitare di bagnarsi<br />

comunque, visto che un sordo rumore annunciò un altro temporale.<br />

Essendo prossime al pozzo al cadere delle prime gocce, l’anziana tutrice vide i nostri mantelli colà posati e li prese subito<br />

coprendo la testa delle giovani donne che corsero velocemente al riparo.<br />

Adalberto ed io lasciammo rapidamente il cortile a nostra volta e trovammo un’opportuna copertura sotto un colonnato.<br />

“Eccola di nuovo!”, dissi, “ e fra l’altro adesso siamo senza mantello… Però ne è valsa la pena visto a chi sono destinati”.<br />

“Sono d’accordo”, disse Adalberto, “non avevo mai visto al villaggio delle donne così belle e chiare di pelle, e si dice che<br />

Teodolinda sia tale e quale. Comunque”, aggiunse, “i nostri mantelli ce li riprenderemo fra poco. Vieni!”.<br />

Entrò nel castello ed io gli fui subito dietro. Anche all’interno vi era un continuo movimento di preparativi per la grande festa,<br />

così che le guardie faticarono a distinguerci dalla servitù e dalle genti del villaggio che partecipavano agli allestimenti.<br />

La nostra ricerca fu per fortuna breve: vedemmo le giovani appoggiate alla balaustra di una passerella che collegava due parti<br />

del castello. Di là rimiravano il giardino fradicio d’acqua respirandone la frescura. Due tenevano fra le mani i nostri mantelli<br />

umidi. Inutile aggiungere che la vecchia balia era nelle immediate vicinanze.<br />

“Giovani dame…”, dissi inchinandomi – lo stesso fece mio fratello – e rivolgendomi loro con le poche parole che sapevo di<br />

winnile, “ …a causa della pioggia che continua a cadere, dobbiamo chiedervi di restituirci i nostri mantelli”.<br />

“Quelli che tenete fra le mani…”, aggiunse Adalberto.<br />

Un sorriso colorò di rosa le bianche gote delle giovani, guardando i mantelli. “Potete darli loro”, disse la voce della tutrice alle<br />

nostre spalle. Si era espressa in volgare, la nostra lingua comune, perciò non osammo aggiungere altro né parlare fra noi per<br />

timore, certezza anzi, che potesse capire quello che stavamo dicendo. Le due giovani si avvicinarono tenendo gli occhi bassi<br />

e ci porsero i due mantelli: sotto le falde della stoffa sfiorai le mani della dama che mi si era avvicinata e così fece Adalberto,<br />

come poi seppi. Un nuovo inchino e ringraziando lasciammo rapidamente la passerella coperta senza voltarci per non sollevare<br />

le ire della custode. Ci fermammo alla locanda per ristorarci ed appena varcata la soglia, notammo un folto gruppo di<br />

persone attorno a un tavolo. Subito ci avvicinammo scorgendo seduto un vecchio coperto da uno spesso mantello. Tutti gli<br />

altri erano invece in piedi e solo pochi, nel locale, non facevano caso alla scena, seguitando a consumare il proprio pasto.<br />

“Vi dico che il sovrano sarà Agilulfo, così come ha voluto il destino!”, raccontava l’uomo, fra un boccone e l’altro di pane intinto<br />

nella densa zuppa di verdure. Presto fummo anche noi in mezzo al gruppo.<br />

“Io ero presente al matrimonio della Regina con Autari, vi dico, e lì il fato ha dato un segno. Era una giornata buia, il cielo<br />

offuscato dalle nubi e un temporale fu subito sulle nostre teste”, continuò bevendo una tazza di vino. “Tuoni e lampi come non<br />

se ne erano mai visti squarciarono il cielo ed una saetta colpì un grosso albero del giardino del re. Sussultai nel comprendere<br />

ciò che esso volesse dire, ma non potei fare a meno di riferirlo al duca Agilulfo, il quale allora faceva ricorso ai miei servigi:<br />

«Tra non molto la donna che sta per maritare il re sarà vostra moglie…», gli dissi”.<br />

Tutti quelli intorno al tavolo allibirono.<br />

“Il duca”, terminò il vecchio, “minacciò di decapitarmi per ciò che avevo detto: gli replicai che poteva farlo, certamente, era in<br />

suo potere disporre di me come voleva, ma aggiunsi che non poteva invece cambiare quello che sarebbe stato!”.<br />

Subito dopo, il vegliardo lasciò la locanda, appoggiando nelle mani dell’oste qualche moneta per pagare il pranzo.<br />

Uscimmo anche noi dopo aver consumato una coppa di vino caldo. Non eravamo sorpresi dai discorsi dell’uomo.<br />

“È… è come ci disse Abramo molto tempo fa, ricordi?”, dissi a mio fratello.<br />

“Sì, la storia dell’indovino al matrimonio del Re”, replicò Adalberto. “Quell’uomo non finirà mai di sorprendermi, anche se… ai<br />

carri volanti di cui parla non posso proprio credere!”.<br />

Tardammo un poco quella sera e in casa avevano già mangiato, ma la zuppa sempre calda nel paiolo sopra il fuoco ci confortò<br />

subito facendoci dimenticare la giornata fredda e piovosa, ma non l’avventura vissuta.<br />

Venne il gran giorno. L’aria fresca e pulita. Ci levammo presto per preparare il carro con cui raggiungere Levium e partimmo<br />

di buon’ora. Contrariamente agli altri giorni, il sentiero nel bosco era ben affollato di carri, pellegrini, altri viaggiatori di tutte le<br />

caste che si stavano recando al villaggio per l’importante avvenimento.<br />

Il villaggio inghirlandato era solenne e festoso, in ogni angolo vi erano capannelli di gente animata e felice. Ci facemmo largo<br />

fra la folla per assistere da vicino al corteo che fu magnifico e festoso, dominato dalla bellezza della regina e dal sorriso<br />

bonario del duca Agilulfo. Prima vennero i soldati a piedi. Li sentimmo, ancor prima di vederli apparire in fondo alla strada<br />

che veniva da Ticinum. Poi scudieri e paggi reali, infine i Gasindi, i “compagni”, la fedelissima cavalleria a protezione del re<br />

guidata dal mahrskalk che precedeva, anzi circondava nella sua imponenza, il sovrano e la regina.<br />

Il lungo corteo percorse il decumano fra due ali di folla accorsa per l’imperdibile occasione e terminò il suo cammino sul<br />

sagrato della chiesa ove il graf e il vescovo accolsero gli sposi.<br />

Prima di ritirarsi nel castello, Agilulfo e Teodolinda salutarono il popolo nella grande piazza gremita dai villici.<br />

Teodolinda era sempre di più la nostra regina e noi, vecchi Celti, ci sentivamo sempre più Longobardi.


15° Concorso Nazionale<br />

di Fotografia Città di Mortara<br />

GRUPPO FOTOAMATORI del CIRCOLO CULTURALE LOMELLINO GIANCARLO COSTA<br />

COMUNE DI MORTARA - Assessorato alla Cultura<br />

Comitato Organizzatore Sagra del Salame d’Oca di Mortara<br />

26 settembre <strong>2010</strong><br />

30 ottobre <strong>2010</strong><br />

Palazzo Cambieri, Biblioteca Civica<br />

23 - 26 settembre <strong>2010</strong><br />

Prima Sezione TEMA LIBERO Colore/Bianco&nero<br />

Seconda Sezione MOTORI che passione!<br />

Sezioni Speciali RITRATTO e la nostra LOMELLINA<br />

CALENDARIO PREMI<br />

Sezione Tema Libero Colore e B&N<br />

16 settembre <strong>2010</strong><br />

18 settembre <strong>2010</strong><br />

20 settembre <strong>2010</strong><br />

Termine consegna opere<br />

Riunione giuria<br />

Comunicazione risultati<br />

1°CLASSIFICATO<br />

2°CLASSIFICATO<br />

3°CLASSIFICATO<br />

Euro 250 + targa<br />

Euro 150 + targa<br />

Prodotti locali + targa<br />

23 settembre <strong>2010</strong> APERTURA MOSTRA<br />

Palazzo Cambieri - ore 21<br />

Sezione Motori che passione!<br />

PREMIAZIONE<br />

Palazzo Cambieri - ore 11<br />

Restituzione opere<br />

1°CLASSIFICATO<br />

2°CLASSIFICATO<br />

3°CLASSIFICATO<br />

Miglior ritratto<br />

La nostra Lomellina<br />

Euro 200 + targa<br />

Euro 150 + targa<br />

Premio speciale + targa<br />

GIURIA<br />

I componenti della giuria non sono menzionati nel bando. Saranno citati nel verbale della giuria<br />

che verrà esposto in mostra e verrà inviato a tutti i partecipanti.<br />

I vincitori ed i segnalati saranno avvisati telefonicamente<br />

Regolamento<br />

Sezioni Speciali<br />

Euro 150 + targa<br />

Euro 150 + targa<br />

1 Il concorso è articolato in:<br />

1ª sezione: Tema libero colore/b&n - 2ª sezione: Motori che passione! - sezioni speciale: Ritratto e la nostra<br />

Lomellina. La partecipazione è libera a tutti. Ogni autore può partecipare con non più di 4 opere per sezione:<br />

il formato massimo delle opere deve essere di cm 30x40. Se di formato inferiore devono essere montate su cartoncino<br />

30 x 40. Sul retro di ogni foto dovrà essere indicato in stampatello: nome e cognome, indirizzo, titolo<br />

dell’opera ed eventuale Club di appartenenza.<br />

2 L’imballo delle foto dovrà essere tale da consentire il riutilizzo per la resa. L’organizzazione, pur assicurando<br />

la massima cura nella manipolazione e nella conservazione delle opere pervenute, declina ogni responsabilità<br />

per eventuali smarrimenti, furti o danneggiamenti da qualsiasi causa essi siano stati generati. Ogni autore è<br />

responsabile di quanto forma oggetto della fotografia.<br />

3 La quota di partecipazione al concorso, a titolo di parziale rimborso spese è di: Euro 12,00 una sezione -<br />

euro 15,00 due sezioni - euro 18,00 tre sezioni, ridotta a euro 10,00 - euro 13,00 - euro 15,00 per i soci FIAF.<br />

Il contrassegno dell’avvenuto pagamento dovrà essere allegato alle foto, assieme alla scheda<br />

di partecipazione (o fotocopia della stessa), debitamente compilata, pena l’esclusione dal concorso.<br />

4 Le opere accuratamente imballate e con plico riutilizzabile per la restituzione, dovranno pervenire franco di<br />

spesa, o essere consegnate a mano a:<br />

<strong>Circolo</strong> Culturale Lomellino, C/o Agenzia COSTA, via XX <strong>Settembre</strong>, 27036 Mortara (PV), tel. 0384-91249<br />

Dal lunedì al venerdì dalle ore 9 alle ore 12 - dalle ore 15 alle ore 19. Sabato dalle ore 10 alle ore 12.<br />

5 Le opere saranno selezionate da una giuria composta da esperti il cui giudizio è insindacabile.<br />

Le opere ammesse e quelle premiate saranno esposte nelle sale di: PALAZZO CAMBIERI - Biblioteca Civica,<br />

dal 23 al 26 settembre <strong>2010</strong> (compreso) in occasione della 44ª SAGRA DEL SALAME D’OCA DI MORTARA<br />

Orari di apertura della mostra:<br />

Feriali: dalle ore 21 alle ore 23 - Festivi: dalle ore 10 alle ore 12.30 - dalle ore 14 alle ore<br />

19 - dalle ore 21 alle ore 23<br />

Per ulteriori informazioni rivolgersi a:<br />

Emilio Gallino, 0384.92251 emigal01@libero.it - Luigi Pagetti, 0384.91531 (ore serali) gigipagetti@alice.it<br />

luglio - settembre <strong>2010</strong><br />

TRIMESTRALE<br />

DEL CIRCOLO CULTURALE LOMELLINO<br />

GIANCARLO COSTA<br />

RIVISTA DI CULTURA, STORIA E TRADIZIONI<br />

<strong>Anno</strong> 6 - <strong>Numero</strong> 3<br />

<strong>Luglio</strong> - <strong>Settembre</strong> <strong>2010</strong><br />

Reg. Trib. di Vigevano<br />

n. 158/05 Reg. Vol. - n. 1/05 Reg. Periodici<br />

Direttore responsabile<br />

Marta Costa<br />

Elenco speciale<br />

Albo professionale dei Giornalisti di Milano<br />

Coordinamento<br />

Sandro Passi<br />

Hanno collaborato a questo numero<br />

Graziella Bazzan<br />

Luisa Castelli<br />

e le classi 3^A e 3^E dell’ Istituto Pollini<br />

Gianluca Ceriana<br />

Fausto Ciniselli<br />

Umberto De Agostino<br />

Nadia Farinelli<br />

Eufemia Marchis Magliano<br />

(La collaborazione è a titolo gratuito)<br />

In copertina<br />

Gaspare e Gioconda<br />

con le figlie Costanza e Tecla (1931)<br />

Editore<br />

<strong>Circolo</strong> Culturale Lomellino Giancarlo Costa<br />

via XX <strong>Settembre</strong>, 70 - 27036 Mortara (PV)<br />

Coordinamento editoriale<br />

Alberto Paglino<br />

Realizzazione grafica<br />

& Impaginazione<br />

Info: 0382.800765 - info@logosmedia.it<br />

Stampa<br />

La Terra Promessa<br />

Via E.Fermi, 24<br />

28100 Novara<br />

INFO: 0384.91249<br />

27


AGENZIA COSTA<br />

Studio di consulenza automobilistica<br />

Via XX <strong>Settembre</strong>, 70 - 27036 MORTARA<br />

Telefono e fax 0384.91249<br />

Delegazione ACI Garlasco<br />

Piazza Repubblica, 25/26<br />

Telefono 0382.810053<br />

Editoria•Public Relations•Graphic Design•Marketing•Agenzia Pubblicitaria•Organizzazione Eventi<br />

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Vicolo del Forno, 12 - Garlasco (Pavia) • T 0382.800765 • info@promopavese.it - www.logosmedia.it

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