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Segreti: i racconti finalisti - Comune di Trichiana

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Mi chiamo Marco, mia moglie Ludovica e i miei due figli, maschi, Filippo e Mattia. Figli miei per modo <strong>di</strong> <strong>di</strong>re…ma questa<br />

è una storia lunga e poi comunque io mi sento come il loro padre, anche se in un certo qual modo ho contribuito a<br />

renderli orfani, e questo mi basta. Sono venuti da me quando ero pronto, ed è successo tutto naturalmente, anche se il<br />

destino ha deciso <strong>di</strong> giocare in modo tortuoso e magari anche poco pulito con me e con loro. Più con me che non loro, in<br />

verità. Le vie del Signore, o chi per lui, sono davvero, a volte, infinite. Ho anche una figlia, più piccola, tutta mia. Ma<br />

questa è un’altra cosa. Magari è vera, chissà.<br />

Gli altri tre componenti della famiglia me li ha portati il mio grande segreto. Non solo il mio in questo caso. Ma “Soltanto<br />

chi ha il caos dentro <strong>di</strong> sé può generare una stella danzante” scriveva Nietzsche.<br />

Mi sono <strong>di</strong>plomato in cinque anni e quasi con il pieno dei voti. Questo perché non avevo entusiasmo per le materie che<br />

stu<strong>di</strong>avo. Il <strong>di</strong>stacco da quello che impari ti permette migliori risultati. Ho fatto ragioneria, come mio padre. Avrei voluto<br />

andare al liceo classico, al limite quello scientifico. Ma non è che con un padre come il mio si avesse molta libertà <strong>di</strong><br />

scelta. Diceva, e credo che tuttora ne sia pienamente convinto, che sono i numeri che mandano avanti il mondo e che ti<br />

permettono <strong>di</strong> guadagnarti da mangiare. Io non ne ero persuaso allora e oggi a maggior ragione. Almeno in parte.<br />

Ci sono per esempio le braccia. Anche quelle ti danno da mangiare. Ed è già una prima importante eccezione alla regola<br />

<strong>di</strong> vita <strong>di</strong> mio padre. Ce ne sono poi anche altre <strong>di</strong> eccezioni. E io infatti mi guadagno da vivere proprio con una <strong>di</strong> queste<br />

ultime.<br />

Il mio primo lavoro è stato, quasi come uno sbocco naturale, presso uno stu<strong>di</strong>o <strong>di</strong> commercialisti. Ho lavorato lì sei mesi.<br />

Giusto il tempo che mi montasse la rabbia a vedere come mi sfruttavano economicamente, <strong>di</strong> capire gli imbrogli che<br />

gestivano e maturare dentro me la decisione che o<strong>di</strong>avo i numeri con tutta l’anima. E me ne andai per la gioia <strong>di</strong> mio<br />

padre che si era giocato tutte le sue poche carte per trovarmelo quel posto.<br />

La fabbrica non è così male. Il lavoro manuale stanca ma è una cosa <strong>di</strong>versa rispetto alla stanchezza mentale. Mi spiego.<br />

Quando lavori tutto il giorno davanti a una calcolatrice, a fogli pieni <strong>di</strong> numeri e formule, succede che la sera ti senti<br />

stanco morto pur non avendo mosso un solo passo dalla scrivania dove sei stato seduto. Quando stai in pie<strong>di</strong> sei ore <strong>di</strong><br />

fila davanti a una catena <strong>di</strong> montaggio dove passano pezzi <strong>di</strong> cemento che devi scrostare con la forza delle mani e delle<br />

braccia, alla fine del turno hai le braccia indolenzite. Ma la stanchezza fisica è meglio, a mio modesto parere, <strong>di</strong> quella<br />

mentale. Quando finisci un turno in fabbrica ti senti quasi svuotato e la stanchezza ti avvolge in un torpore quasi<br />

piacevole che ti fa recuperare le forze. La stanchezza mentale è un’altra cosa. E poi i numeri ti continuano a rigirare nella<br />

testa per tutto il giorno.<br />

La molla <strong>di</strong> tutto fu il malcontento. Mio e degli altri operai. Ciò che mi fece mettere naso nelle vicende del potere politico,<br />

dell’economia e della storia delle idee. Sono sempre stato molto curioso. Fu così che tra un volantino e l’altro iniziai ad<br />

interessarmi <strong>di</strong> politica. Foglietti con slogan, promesse e denunce. Con inviti a conferenze e riunioni dove ti promettevano<br />

che ti avrebbero spiegato come stavano davvero le cose nel mondo. Proprio nel mondo che avevi sotto i pie<strong>di</strong>. Quelli<br />

erano anni <strong>di</strong> lotte sociali. E le fabbriche e le Università erano i centri dove fermentavano le idee. Andammo prima a<br />

qualche riunione, io e William intendo, poi <strong>di</strong>ventammo frequentatori assidui della sezione. Era in via Saragozza, non<br />

lontano dal centro, e ci veniva bene per scambiare quattro chiacchiere con persone nelle nostre stesse con<strong>di</strong>zioni. Quella<br />

<strong>di</strong> persone sfruttate e che si erano convinte, ancora oggi non so quanto a torto, <strong>di</strong> essere le vittime del sistema. Il fatto è<br />

che ci faceva morale sentire i problemi o i progetti <strong>di</strong> gente come noi che tirava avanti a campare. Senza reali prospettive<br />

<strong>di</strong> fare molta strada nel mondo. Ma che almeno ci provava. Magari anche solo a cambiare le cose per chi sarebbe venuto<br />

dopo. Fu così, durante quelle riunioni e poi sui testi da auto<strong>di</strong>datta, che mi riempii <strong>di</strong> buoni ideali e <strong>di</strong>e<strong>di</strong> un canale <strong>di</strong><br />

sfogo al mio malessere.<br />

Ho creduto così <strong>di</strong> trovare delle soluzioni possibili ai problemi del mondo che percepivo fin da ragazzo con una sensibilità<br />

che andava oltre quella normale dei miei coetanei. Ora so che la realtà è sempre <strong>di</strong>versa dai testi scritti e da quello che<br />

passa nelle teste <strong>di</strong> chi progetta le rivoluzioni. Ma un giovane ha bisogno anche solo <strong>di</strong> sperare che davvero le cose<br />

possano un giorno cambiare, e allora frenavo la parte realista del cervello che pretendeva <strong>di</strong> <strong>di</strong>re la sua in merito ai miei<br />

comportamenti e alle mie idee.<br />

Fu così che iniziai a scan<strong>di</strong>re la mia vita con i ritmi della fabbrica e della sezione. Non più amici ma compagni. In casa<br />

non ci stavo quasi mai, e quando c’ero o dormivo o leggevo. Non avevo mai avuto un gran <strong>di</strong>alogo con i miei. Ma in<br />

quegli anni stavo come in un albergo e non ci mangiavo neanche spesso. Davo la colpa all’ottusità dei miei. Al loro ceco<br />

vivere fregandosene del mondo che li circondava. Gli stessi sbagli che attribuivo alla massa delle persone che non si<br />

impegnavano nella lotta per una società più giusta. Gli ignavi <strong>di</strong> Dante. Quelli per cui se il mondo va in rovina e gli cade<br />

addosso badano solo a scansarsi nel momento giusto. Mia madre la giustificavo. Mio padre lo condannavo.<br />

Ma non ero il solo. Quella lotta generazionale c’era in tutte le famiglie. Io però avevo deciso <strong>di</strong> impegnarmi in prima linea<br />

in quello scontro. E non lo facevo solo per egoismo. L’impegno mi era nato dalla necessità <strong>di</strong> dare un contenuto e poi<br />

un’azione alla mia rabbia.<br />

Poi le cose degenerarono. Fino a tutto quel casino in stazione. Ma già prima c’erano stati gli attentati ai treni. Gli agguati<br />

da una parte e dall’altra. Dovevo capirlo che prima o poi chiunque era impegnato politicamente doveva dare il suo<br />

contributo. Io, anzi noi, lo capimmo proprio quella sera. Perché quando arrivammo c’erano altre persone mai viste alla<br />

sezione. Gente <strong>di</strong> Roma, <strong>di</strong>cevano. Persone importanti. Compagni che vivevano in clandestinità. Tutta un’altra pasta<br />

rispetto ai quattro operai e intellettuali arrabbiati della sezione Saragozza.<br />

Esposero a tutti noi le <strong>di</strong>rettive dei vertici dell’organizzazione comunista clandestina. Le brigate, tanto per intenderci. Noi<br />

restammo in silenzio. Non si era abituati a parlare <strong>di</strong> cose che andassero oltre la protesta, anche violenta, contro le forze<br />

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