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Segreti: i racconti finalisti - Comune di Trichiana

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Il santo del giorno giusto<br />

<strong>di</strong> Katia Tormen<br />

Sul comò, vicino alla foto incorniciata <strong>di</strong> sua suocera, c’era uno <strong>di</strong> quei calendari dove la data era composta da cubi <strong>di</strong><br />

legno sui quali c’erano i numeri e i nomi dei mesi. Era sempre stato compito suo cambiare la data, quin<strong>di</strong> prese il secondo<br />

cubo e lo rigirò fra le mani finché non trovò il 9, quin<strong>di</strong> lo inserì <strong>di</strong> nuovo al suo posto.<br />

Anna appoggiò il cordless sul como<strong>di</strong>no, nel caso avesse chiamato qualcuno, e si asciugò gli occhi col dorso della<br />

mano, sbavando il filo <strong>di</strong> rimmel che si era appena messa. Subito un'altra lacrima rincorse le precedenti lungo la guancia,<br />

stavolta la lasciò scorrere fino a sentirne il sapore salato sulle labbra e si sedette sul bordo del letto. Pensò che, dopo<br />

tutto, avrebbe fatto meglio a lasciare che Paola le desse una mano. Invece la sera prima le aveva sbattuto giù il telefono<br />

accusandola <strong>di</strong> voler solo ficcare il naso nelle sue cose. Ora le <strong>di</strong>spiaceva da morire, ma conosceva la sua amica e<br />

sapeva che avrebbe avuto il suo perdono e la sua comprensione alla luce del brutto periodo che stava attraversando.<br />

Tuttavia sapeva <strong>di</strong> averla ferita. Sebbene Paola fosse la sua più cara amica, certe volte era troppo invadente e non si<br />

rendeva conto che in alcuni momenti una persona aveva il bisogno e il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> restare da sola!<br />

E quello era proprio il suo caso. Riteneva giusto che lì ci fosse solo lei, con i suoi pensieri, i suoi ricor<strong>di</strong>, le sue paure.<br />

Poteva prendersi tutto il tempo che voleva, piangere, ridere e perfino sbattere la testa contro il muro se ne aveva voglia,<br />

senza doverne rendere conto ad altri. Però più passavano i minuti più si rendeva conto che quello che immaginava<br />

sarebbe stato galleggiare in un placido lago dolce amaro, era invece annegare in una pozzanghera piena solo <strong>di</strong> amaro e<br />

basta, <strong>di</strong> un liquido denso che a tratti sembrava soffocarla: non riusciva a concepire che non ci sarebbero più stati i baci<br />

<strong>di</strong> Franco, i suoi abbracci, le sue risate. Che non c’era più Franco.<br />

D’altronde rinviare non sarebbe servito a niente, solo a prolungare una presenza attraverso odori e profumi che<br />

suscitavano in lei una valanga <strong>di</strong> emozioni ogni volta che apriva quelle ante, stimoli olfattivi che la facevano sentire in<br />

colpa, magari mentre cercava un vestito da mettere per uscire, come se tramite le sue narici le venisse rimproverato il<br />

fatto <strong>di</strong> essere viva. Si rendeva conto che la sua era solamente un’impressione, non c’era nessuna colpa nel continuare a<br />

respirare, a ridere, a camminare, ma le succedeva troppo spesso <strong>di</strong> stare lì, come in trance, davanti all’arma<strong>di</strong>o, con la<br />

sensazione <strong>di</strong> sentire l’aroma della sabbia calda della spiaggia o dell’asfalto umido <strong>di</strong> pioggia primaverile nel naso, che le<br />

portavano alla mente momenti passati.<br />

Ormai erano trascorsi quasi due mesi, ma lei ancora non ci aveva fatto l’abitu<strong>di</strong>ne e forse non si sarebbe abituata mai.<br />

Spesso le pareva ancora <strong>di</strong> sentire il rumore che la sua macchina faceva schiacciando il ghiaino del vialetto quando<br />

rientrava a casa, <strong>di</strong> sentirlo brontolare in giar<strong>di</strong>no e più <strong>di</strong> una volta, entrando in bagno, si era sorpresa nel non trovarlo<br />

davanti allo specchio con la faccia piena <strong>di</strong> schiuma da barba. In alcuni momenti era ad<strong>di</strong>rittura arrivata al punto <strong>di</strong><br />

ritenere fortunate le persone che morivano <strong>di</strong> cancro o <strong>di</strong> qualche altra malattia con un decorso lento, perché almeno<br />

davano modo ai loro cari <strong>di</strong> abituarsi al fatto <strong>di</strong> non averli più vicini, perché avevano tutto il tempo per sistemare le loro<br />

cose, per salutare tutti, per farsene una ragione. Adesso si pentiva <strong>di</strong> aver anche solo osato pensare ad argomentazioni<br />

simili, in fondo una morte era pur sempre una morte e nessuno se ne fa mai una ragione, non ci si abitua mai. Infatti,<br />

benché tutti sappiano che un giorno dovranno lasciare questo mondo, nessuno si prepara mai per tempo. Anche chi sa <strong>di</strong><br />

non avere speranze tende sempre a pensare che ci sarà sempre un giorno in più, un dopo, un domani. Si viene al mondo<br />

senza date <strong>di</strong> scadenza stampigliate da qualche parte e probabilmente proprio questo genera l’illusione dell’immortalità o<br />

comunque fa credere che è sempre troppo presto per pensare alla propria fine.<br />

Aveva lasciato Franco, suo marito, davanti al televisore che trasmetteva l’ennesima partita. Lei, che guardava il calcio<br />

solo quando giocava la nazionale, gli aveva dato il consueto bacio della buonanotte, era salita <strong>di</strong> sopra e si era messa<br />

sotto le coperte con l’ultimo libro <strong>di</strong> Ken Follett. Le era sempre piaciuto leggere, fin da piccola. Leggere le consentiva <strong>di</strong><br />

creare mon<strong>di</strong> e visi che invece la televisione imponeva senza lasciare spazio alla fantasia, ma obbligando gli spettatori a<br />

punti <strong>di</strong> vista e interpretazioni altrui. Come il solito non era riuscita ad andare oltre le due pagine, ultimamente la vista le si<br />

stancava facilmente e comunque, da parecchio ormai, non riusciva più a trovare un libro che la coinvolgesse a tal punto<br />

da perderci il sonno. Si era svegliata verso le tre e allungando il braccio alla sua destra si era accorta <strong>di</strong> essere ancora<br />

sola nel letto. Nel silenzio della camera, aveva sentito il brusio del televisore ancora acceso da basso. Succedeva<br />

qualche volta che lui, stanco morto, si addormentasse in salotto, spesso senza nemmeno aver sentito il triplice fischio<br />

dell’arbitro o aver visto la fine della puntata se si era trattenuto per vedere un telefilm. Solitamente il sonno era così<br />

profondo che per svegliarlo non era sufficiente chiamarlo dalla cima delle scale, cosi Anna andava da lui e, invertendo i<br />

ruoli della bella addormentata, gli dava un bacio. Franco si svegliava apriva gli occhi a due fessure, le sorrideva e la<br />

attirava a se sul <strong>di</strong>vano dove finivano col trascorrere il resto della notte, solitamente dormendo poco ma affrontando la<br />

giornata che li attendeva con molta più energia. Col tempo Anna si era convinta che ci fosse qualcosa <strong>di</strong> preme<strong>di</strong>tato in<br />

tutto ciò, ma in fondo quella specie <strong>di</strong> gioco le piaceva, anche se non glielo aveva mai fatto capire.<br />

Ma quella notte <strong>di</strong> fine gennaio non era andata così. Lo aveva chiamato dal ballatoio e non ottenendo, come il solito,<br />

risposta, era scesa col sorriso sulle labbra, attenta a non far scricchiolare i gra<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> legno. Però quando gli era arrivata<br />

davanti la sua bocca si era <strong>di</strong>storta in una smorfia. C’era qualcosa <strong>di</strong> innaturale nel viso, nella posizione, nella stanza<br />

stessa: emorragia cerebrale. Così senza un segno, senza un avvertimento, un uomo pieno <strong>di</strong> forza e <strong>di</strong> voglia <strong>di</strong> vivere se<br />

ne era andato lasciando <strong>di</strong>etro <strong>di</strong> se progetti incompiuti, viaggi non fatti, parole non dette e amici in lacrime. E soprattutto<br />

suo figlio.<br />

Anna si riscosse dai suoi pensieri e si guardò intorno un po’ stranita, come per accertare dove si trovava. Quando riuscì<br />

a focalizzare la sua camera, controllò l’orologio e il lavoro che aveva fatto. Alcuni dei vestiti <strong>di</strong> Franco stavano adagiati sul<br />

letto, nell’arma<strong>di</strong>o non rimaneva quasi più niente. La maggior parte della roba era finita, ripiegata alla meglio, in tre grossi<br />

sacchi gialli che aveva messo in corridoio. Era quasi buffo vedere quante delle cose vecchie e non più usate da anni,<br />

venissero ugualmente e caparbiamente conservate, con la segreta convinzione <strong>di</strong> un loro riutilizzo dettato dalla moda o<br />

da un miracoloso <strong>di</strong>magrimento. Ma alla fine era solo rinviare un destino già segnato, fatto <strong>di</strong> contenitori della Caritas o <strong>di</strong><br />

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