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Segreti: i racconti finalisti - Comune di Trichiana

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corretto grappa ed ho chiesto se c’era un negozio <strong>di</strong> fiori. Sì c’era, ma solo d’estate per piante da mettere nei vasi sui<br />

balconi. Adesso, a <strong>di</strong>cembre, era chiuso.<br />

Volevo, Sabina, portarti qualcosa <strong>di</strong> allegro, non venire dopo quasi cinquant’anni a mani vuote.<br />

La signora del bar è stata gentile, senta è quasi Natale, qui alle feste si mettono sulle finestre dei rami <strong>di</strong> mugo, durano a<br />

lungo, se gra<strong>di</strong>sce le taglio qualche ramo, ho un grande mugo in giar<strong>di</strong>no. Dovevo avere col mio loden, il cappello con la<br />

falda ampia, il viso ben rasato, l’aspetto <strong>di</strong> una persona seria. Come sono, <strong>di</strong>osanto. Ho sorriso, non sapevo come<br />

ringraziarla.<br />

E’ tornata poco dopo con un mazzo <strong>di</strong> rami, li ha legati con un nastro verde, ecco tenga, mi ha detto.<br />

Ho preso il portafoglio, lasci ha detto, offro io, lei viene da lontano.<br />

- Sì, da U<strong>di</strong>ne, non è tanto lontano.<br />

- Ma l’accento si sente, non è bellunese. Ha parenti qui?<br />

- No, avevo. Ma è passato un mucchio <strong>di</strong> anni. Sono venuto a <strong>di</strong>re ad<strong>di</strong>o.<br />

- C’è sempre tempo per gli ad<strong>di</strong>i.<br />

- No, non ne ho più molto.<br />

- Adesso che ha trovato la strada vedrà che tornerà, magari in primavera, quando è tutto fiorito.<br />

Poi, perché evidentemente avrei dovuto mangiare, mi ha spiegato che in piazza c’era una pizzeria-ristorante, pulita e a<br />

prezzi onesti, <strong>di</strong>ca pure che l’ha mandato Caterina, sono miei cugini. E se per caso stasera fa tar<strong>di</strong>, qui vicino c’è una<br />

pensione molto or<strong>di</strong>nata e col riscaldamento acceso.<br />

- Ma perché me lo <strong>di</strong>ce? – ho chiesto interrompendola con un gesto della mano.<br />

Mi ha guardato con un piccolo sorriso.<br />

- Perché lei mi ricorda papà, che è mancato due fa. Mi piacerebbe aiutarlo.<br />

Le ho stretto la mano, questa inaspettata gentilezza mi rendeva più sereno, mi commoveva. Con i rami ver<strong>di</strong> sono andato<br />

al cimitero.<br />

Il cancello era per metà aperto e cigolava sotto la mia spinta, lapi<strong>di</strong> bagnate, fiori stinti <strong>di</strong> plastica, qualche crisantemo<br />

ancora vivo, quattro lumini elettrici accesi. Dove sei, Sabina?<br />

Non è <strong>di</strong>fficile in un cimitero piccolo, le tombe hanno un rigoroso or<strong>di</strong>ne cronologico. Dovevi essere morta nel 1957. A<br />

Prepòt i morti non sono molti. Sono partito da una fila che iniziava nel 1956. Cercavo Vezzano Sabina. Ho trovato via via,<br />

la pioggia si infittiva ed avevo i pie<strong>di</strong> umi<strong>di</strong>, anime buone, madri esemplari, padri affettuosi, angioletti volati troppo presto<br />

in cielo, un sergente medaglia <strong>di</strong> bronzo, tutti lì, buoni buoni, in silenzio, un figlio <strong>di</strong> puttana non c’era neanche per sbaglio<br />

a Prepòt, a dormire sulla collina.<br />

Era una piccola lastra <strong>di</strong> pietra grigia, malamente saldata ad uno zoccolo <strong>di</strong> cemento su un rialzo <strong>di</strong> terra coperto da erba<br />

secca. Vezzano Sabina 1932 – 1957. Nome e date erano appena leggibili perché i licheni avevano iniziato a corrodere la<br />

pietra. E la mezza parola provv. Al <strong>di</strong> là della pulizia annuale dovuta al comune, nessuno sembrava essere passato a<br />

salutarti da tanti anni. Ed erano quarantacinque ormai. Non avevo lacrime. Solo una grande tristezza. Mi sono accucciato<br />

sporcandomi scarpe e loden e con le mani nude ho strappato l’erba. Nel centro della piccola tomba, ora ripulita, ho<br />

piantato a fondo, ché il vento non li portasse via, i rami <strong>di</strong> mugo. Ho cercato <strong>di</strong> staccare dalla pietra incrostazioni <strong>di</strong><br />

licheni, ma non avevo nessuno strumento e le mie vecchie unghie si scheggiavano subito. Non ho potuto continuare. Poi<br />

con l’ombrello aperto e cercando <strong>di</strong> pulirmi le mani, mi sono seduto sulla tomba a fianco, <strong>di</strong> Esterina Valmoral, donna<br />

pacifica e silenziosa. Per cortesia le ho detto, mi scusi. Sopra <strong>di</strong> noi la cima del monte Serva coperto <strong>di</strong> neve.<br />

Cercavo qualcosa <strong>di</strong> <strong>di</strong>rti, ma non c’era nulla dentro <strong>di</strong> me. Un grande vuoto. Non mi ricordavo più, ora che ero qui,<br />

neanche i tuoi occhi, né il tuo sorriso quando mi abbracciavi, né i tuoi capelli neri a caschetto, né la morbida tenerezza del<br />

tuo petto. Vezzano Sabina provv. Questo è tutto. Nessuna traccia <strong>di</strong> tua figlia, oggi avrebbe cinquanta anni. Potresti<br />

essere nonna o bisnonna.<br />

Non saprò mai perché mi hai lasciato, non riuscirò mai a capire la straziante assur<strong>di</strong>tà della tua vita. Volevo te e la tua<br />

bambina.<br />

Venendo qui, oggi in treno, nel rilassante galleggiare del whisky, per un’ora ho immaginato che una traccia anche esile <strong>di</strong><br />

te l’avrei trovata, che un piccolo sorridente, folle colloquio l’avremmo potuto avere.<br />

Ma tu non ci sei.<br />

Non sono credente come sai, ma un’esile speranza che un al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> pace ci sia, mi solletica. Trovarti in un posto sereno,<br />

poterti dare la carezza e il bacio che ti aspettano da quasi mezzo secolo, stringerti la mano e guardare la neve che<br />

scende sul viale e poi cade con tonfi e turbini polverosi dai rami degli abeti troppo carichi. Ricor<strong>di</strong>? Era il tempo del nostro<br />

amore abusivo e nascosto.<br />

Tenerti tra le braccia e mormorarti ancora semplici e sempre nuove banalità, <strong>di</strong>rti soltanto con i gesti, con il respiro,<br />

quanto ti voglio bene.<br />

Dammi un segno anche piccolo. Dimmi che ti ritroverò.<br />

Non rispon<strong>di</strong>. Ti lascio e chiudo il cancello cigolante. Sono bagnato e ho freddo. Comincia a scurire.<br />

Chiederò a Sua Eccellenza, <strong>di</strong> cui in silenzio <strong>di</strong>ffido, che abbia pietà <strong>di</strong> noi. Siamo stanchi, Sabina, non abbiamo fatto del<br />

male a nessuno. Abbiamo vissuto come potevamo questa tortura che è la vita. Eccellenza, ci riservi un posticino in<br />

ventesima fila, un angolo e staremo là, Sabina mi sorriderà e mi darà un castissimo bacio sulla guancia. Cancelleremo<br />

sulla pietra la parola provv. E ci scriveremo Eterno.<br />

Prendo la bottiglia del whisky, ne ho comperato un’altra nel bar <strong>di</strong> prima. La signora gentile non c’è. Mi ha servito un<br />

ragazzetto scorbutico. Arriverò a U<strong>di</strong>ne ubriaco. E così sia.<br />

Il treno parte alle 16 e 54. Devo mangiare qualcosa ed asciugarmi i pie<strong>di</strong>. Sai cosa rischio, Sabina, principessa del<br />

silenzio, se resto con i pie<strong>di</strong> bagnati? Che mi prendo una polmonite. Definitiva, penso.<br />

Non posso ammalarmi. Devo tornare da Sparta, che adesso mi aspetta all’aperto e la notte mi fa compagnia. Nella<br />

pizzeria mangio pane, salame, formaggio con un bicchiere <strong>di</strong> vino e mi asciugo un po’ i pie<strong>di</strong> con la carta igienica.<br />

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