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Pagina 38 — Domenica 13 Febbraio 2005 - N. 43 PERSONAGGI<br />

Il Sole-24 Ore<br />

D OPPIO CENTENARIO / U N SECOLO FA NASCEVANO I DUE RIVALI DELLA CULTURA FRANCESE<br />

ARON, 1905-1983<br />

F ilosofo<br />

e sociologo francese che<br />

ha segnato la storia della cultura<br />

europea della seconda metà del<br />

Novecento, Raymond Aron nasce a Parigi<br />

il 14 marzo 1905. Nel 1924 entra<br />

all’École Normale Supérieure con la volontà<br />

di eccellere in quegli studi dove<br />

invece il padre aveva fallito. Qui conosce<br />

Paul Nizan e Jean-Paul Sartre. Con<br />

quest’ultimo instaura un rapporto di<br />

profonda amicizia ma di altrettanto profonda<br />

divergenza ideologica e politica.<br />

Il suo impegno negli studi lo porta, nel<br />

1928, a ottenere il primo posto nel concorso<br />

della docenza di filosofia (lo stesso<br />

nel quale Sartre viene respinto, ma<br />

che vincerà l’anno successivo).<br />

Due anni dopo, nel 1930, lascia Parigi<br />

per un lettorato a Colonia; quindi<br />

passa all’Università di Berlino dove rimane<br />

fino al 1933 e, insieme a Sartre,<br />

assiste all’avvento del Terzo Reich. Sarà<br />

proprio questa comune esperienza a<br />

segnare il distacco tra i due giovani<br />

pensatori per il modo e il coinvolgimento<br />

differenti con cui essi la vivono. Aron<br />

interpreterà il nazismo come una conseguenza<br />

non casuale né provvisoria<br />

della disgregazione della Repubblica di<br />

Weimar. Sartre, invece, si rivelerà troppo<br />

concentrato sui propri studi per analizzare<br />

la realtà che lo circonda. Tornato<br />

in Francia nel 1938, Aron ottiene il<br />

dottorato con una tesi sulla filosofia<br />

della storia. Dal 1940 al 1944 è in Inghilterra<br />

dove lavora come caporedattore<br />

nella rivista «La France libre» vicina a<br />

De Gaulle. Dopo la guerra, la carriera<br />

accademica lo vede docente nelle più<br />

prestigiose istituzioni francesi: dall’École<br />

nationale d’administration (1945), alla<br />

École pratique des hautes études<br />

(1960), alla Sorbona (fino al 1968) e<br />

con la cattedra di Sociologia della civiltà<br />

moderna al Collège de France nel<br />

1970. Gli impegni universitari non gli<br />

impediscono però di esercitare l’attività<br />

giornalistica: è editorialista a «Combat»<br />

nel 1947 e quindi a «Le Figaro» dal<br />

1947 al 1976. Lascerà il quotidiano l’anno<br />

dopo per il settimanale «L’Express»<br />

a cui lavorerà fino alla morte avvenuta<br />

nel 1983. (Giulia Guerri)<br />

LE OPERE<br />

Intellettuale poliedrico e di ampi interessi,<br />

Raymond Aron si distingue<br />

per la sua capacità di affiancare<br />

all’impegno giornalistico la ricerca<br />

scientifica. Ed è proprio questo costante<br />

confronto fra l’attualità e la storia a<br />

caratterizzare la sua particolare visione<br />

della realtà. Esordisce nel 1935 con<br />

il saggio Introduzione alla sociologia<br />

tedesca, seguito nel 1938 dalla sua tesi<br />

di dottorato Introduzione alla filosofia<br />

della storia, in cui discute di quali siano<br />

i compiti di questa disciplina in<br />

relazione alla vita dell’individuo.<br />

I libri che risalgono al periodo accademico<br />

della Sorbona, Diciotto lezioni<br />

sulla società industriale (1963), Le lotte<br />

di classe (1964), Democrazia e totalitarismo<br />

(1965) e Le tappe del pensiero<br />

sociologico (1965, traduzione italiana<br />

Mondadori, 1989) analizzano sul piano<br />

economico, sociale e politico, la realtà<br />

delle società industriali occidentali e<br />

sovietiche. È in questi testi che Aron<br />

prende una netta posizione contro l’interpretazione<br />

marxista della storia, facendone<br />

poi un motivo costante di tutto<br />

il suo impegno intellettuale.<br />

Con L’oppio degli intellettuali del<br />

1955 (traduzione italiana Ideazione,<br />

1998) Aron pronuncia un duro atto di<br />

accusa contro la propria generazione.<br />

Essa infatti, annebbiata da dogmi e<br />

dottrine, come sotto l’effetto dell’oppio,<br />

non è più in grado di interpretare la<br />

realtà del proprio tempo, ma si nutre<br />

esclusivamente di idee astratte. Nel<br />

1982 esce il libro di interviste, Lo spettatore<br />

impegnato, e postume, nel settembre<br />

del 1983 le Memorie. Cinquant’anni<br />

di riflessioni politiche (traduzione<br />

italiana Mondadori, 1984, a cura<br />

di Oreste Del Buono e con prefazione di<br />

Alberto Ronchey). Il Mulino ha pubblicato<br />

nel 2003 Il ventesimo secolo. Guerre<br />

e società industriale. (G.Gu.)<br />

Un liberale allergico al mito della società perfetta, ma che credeva nei miglioramenti graduali<br />

Aron, pessimista della libertà<br />

di Giuseppe Bedeschi<br />

La cultura di Aron, uno dei grandi intellettuali<br />

protagonisti del Novecento<br />

(1905-1983), è stata singolarmente<br />

composita e complessa: quanto di meno "nazionale"<br />

si possa immaginare, e quanto di più<br />

aperto alle correnti più vitali della cultura<br />

europea. Recatosi, giovanissimo, in Germania<br />

con una borsa di studio nei primi anni<br />

Trenta, egli fu "sedotto" (come scrisse nelle<br />

Memorie) dalla cultura tedesca («un colpo di<br />

fulmine sconvolgente»). Dalla lettura dei filosofi<br />

tedeschi contemporanei (Husserl e Heidegger)<br />

e dei sociologi (Max Weber e Simmel)<br />

ricavò la sensazio-<br />

ne di «una straordinaria<br />

ricchezza a confronto<br />

della quale gli autori<br />

francesi mi apparirono<br />

d’improvviso mediocri,<br />

quasi miseri». Ma al tempo<br />

stesso egli aveva assorbito<br />

profondamente<br />

la lezione dei "classici"<br />

del pensiero politico<br />

francese: Montesquieu e<br />

Tocqueville in primo<br />

luogo. E poi aveva fatto<br />

proprio l’insegnamento<br />

che scaturiva dalle opere<br />

degli elitisti italiani, Mosca<br />

e Pareto.<br />

Nonostante la stupefacente<br />

vastità e profondità<br />

dei suoi interessi (filosofici,<br />

storici, sociologici<br />

ed economici), non fu mai un accademico<br />

in senso stretto, ma fu piuttosto uno studioso<br />

e un giornalista militante. La storia, del resto,<br />

lo pose assai presto di fronte a una scelta<br />

drammatica: travolto l’esercito francese dalle<br />

armate hitleriane, Aron decise di seguire De<br />

Gaulle a Londra, dove divenne caporedattore<br />

della rivista «La France libre», vicina al<br />

generale (con quest’ultimo Aron ebbe, allora<br />

e dopo, un rapporto politico profondo,<br />

anche se tutt’altro che privo di tensioni e di<br />

dissensi, come egli raccolta in pagine bellissime<br />

delle Memorie). Ritornato in Francia<br />

dopo la guerra, Aron fu per molti anni il<br />

principale editorialista del «Figaro»: anche<br />

questo fu un periodo di appassionato impegno<br />

sia nell’analisi della politica francese,<br />

sia in quella delle relazioni internazionali<br />

(«nessuno — disse Kissinger — ha avuto su<br />

di me tanta influenza come Aron»), sia nella<br />

battaglia in difesa della democrazia occidentale<br />

contro il totalitarismo sovietico.<br />

Solo nel 1955 Aron decise di dedicarsi<br />

stabilmente all’insegnamento universitario<br />

(senza interrompere, per altro, il suo rapporto<br />

col giornalismo politico). Dai suoi primi<br />

corsi alla Sorbona nacquero tre libri famosi<br />

(18 lezioni sulla società industriale, La lotta<br />

di classe, Democrazia e totalitarismo),<br />

che, nonostante la loro forma esteriore quasi<br />

di "dispense" universitarie (si trattava<br />

infatti della trascrizione stenografica di lezioni<br />

tenute sulla base di semplici appunti),<br />

fecero il giro del mondo, tradotti nelle principali<br />

lingue europee.<br />

In effetti si trattava di lezioni appassionanti,<br />

nelle quali Aron — attingendo ai<br />

concetti-chiave di Tocqueville, di Weber e<br />

di Pareto, nonché degli economisti della<br />

crescita economica, Colin Clark e Jean Fourastié,<br />

e attraverso un confronto serrato con<br />

l’opera di Marx — dava un’analisi nuova e<br />

profonda delle società industriali, sia democratiche<br />

che sovietiche.<br />

Il concetto di "società industriale", ricavato<br />

da Saint-Simon e da Comte, era appunto<br />

al centro di quelle lezioni. La prima constatazione<br />

che si imponeva ad Aron a proposito<br />

delle società industriali occidentali era che<br />

per esse si era avverata la profezia di Tocqueville,<br />

non quella di Marx. In tali società,<br />

infatti, si era sempre più affermata la democrazia<br />

nel senso tocquevilliano della parola,<br />

in quanto in esse si era verificata la scomparsa<br />

progressiva delle differenze di status e la<br />

tendenza al livellamento delle condizioni<br />

Studiando Tocqueville,<br />

Weber e Pareto,<br />

e da un confronto serrato<br />

con Marx, sviluppò<br />

una delle analisi<br />

più acute e originali<br />

della moderna società<br />

industriale. Nella<br />

versione democratica<br />

e in quella sovietica<br />

sociali, sia attraverso un costante elevamento<br />

del tenore di vita della classe operaia, sia<br />

attraverso una continua crescita delle classi<br />

intermedie (dunque non si era verificata la<br />

drammatica polarizzazione fra imprenditori<br />

e operai profetizzata da Marx).<br />

Ciò non significava, però, che le società<br />

industriali democratiche fossero quiete e tranquille.<br />

Anzi, esse erano agitate, e non potevano<br />

non esserlo, perché erano caratterizzate da<br />

una legittima rivalità fra i diversi gruppi sociali<br />

per la ripartizione delle risorse collettive.<br />

Una rivalità che diventava tanto più aspra in<br />

quanto le democrazie industriali proclamavano<br />

l’eguaglianza delle persone, nei diritti civili<br />

e politici, ma continuavano<br />

ad avere fasce<br />

di disoccupazione, di<br />

povertà, di emarginazione,<br />

nonostante la tendenza<br />

del prodotto sociale<br />

a crescere. D’altro<br />

canto, l’eguaglianza rivendicata<br />

dalla società<br />

sovietica era puramente<br />

illusoria, poiché quella<br />

società era caratterizzata<br />

da grandi differenze<br />

nella distribuzione dei<br />

redditi, nel modo di vivere<br />

e nelle forme di<br />

prestigio (e ciò in ragione<br />

di una variegata stratificazione<br />

sociale: uomini<br />

di governo e dirigenti<br />

di partito, burocrati,<br />

manager industriali,<br />

tecnici, operai, contadini). Ed era inoltre un<br />

puro mito che in Unione Sovietica il proletariato<br />

fosse al potere, e che vi fosse stato<br />

abolito lo "sfruttamento": il potere era detenuto,<br />

in realtà, da un partito politico (unico),<br />

dai suoi dirigenti e dalla sua burocrazia,<br />

dunque da una classe dirigente (che<br />

sarà chiamata più tardi "nomenklatura"), la<br />

quale decideva in modo autoritario la politica<br />

economica e la distribuzione dei redditi.<br />

Sotto questo profilo la situazione degli operai<br />

non era mutata se non in peggio rispetto<br />

alla società capitalistica, non potendo essi<br />

far valere i propri interessi in regime di<br />

monopolio sindacale e politico.<br />

Anche le democrazie industriali occidentali<br />

erano oligarchiche (come tutte le società,<br />

del resto: su questo punto Aron seguiva Pareto<br />

e Mosca). La sovranità popolare non significava<br />

infatti che la massa dei cittadini prendesse<br />

essa stessa, direttamente, le decisioni<br />

relative alla finanza pubblica e alla politica<br />

estera. L’essenza della politica è che le decisioni<br />

vengono prese per e non dalla collettività.<br />

E tuttavia le democrazie industriali avevano<br />

realizzato un grande progresso anche sul<br />

piano politico, poiché nel Novecento le minoranze<br />

dirigenti erano infinitamente più aperte<br />

di quanto fossero nell’Ottocento: la diffusione<br />

sempre più ampia dell’istruzione, il suffragio<br />

universale, la libertà di organizzazione<br />

sindacale e politica, avevano reso possibile a<br />

un numero sempre più ampio di persone<br />

l’ascesa alle élite dirigenti (politiche, sindacali,<br />

imprenditoriali, intellettuali, religiose eccetera),<br />

le quali non formano mai un blocco<br />

unico e sono spesso in contrasto tra loro<br />

(sicché sbagliavano Pareto e Mosca quando<br />

parlavano di una classe dirigente).<br />

Nella dialettica delle élite dirigenti (come<br />

nel loro continuo ricambio) Aron vedeva la<br />

principale garanzia del progresso, e non cedette<br />

mai alle lusinghe di utopie incentrate<br />

su una "città felice". Egli espresse assai bene<br />

la propria ispirazione quando disse: «Io appartengo<br />

ai teorici della politica che ritengono<br />

che non ci si trova mai a dover scegliere<br />

tra il bene e il male, ma tra gradi diseguali di<br />

male o di bene; appartengo al numero dei<br />

cosiddetti pessimisti, d’altronde a torto, perché<br />

i pessimisti del mio tipo vogliono incessantemente<br />

migliorare la società, un frammento<br />

dopo l’altro. Essi semplicemente non<br />

conoscono nessuna soluzione globale (passano<br />

per ottimisti, in generale, coloro che credono<br />

a un regime impossibile)».<br />

di Giuseppe Scaraffia<br />

al livello di Hegel? Certo<br />

l’ascesa non sarebbe troppo ar-<br />

«Elevarsi<br />

dua né troppo dura. Oltre al fatto<br />

che forse bisognerebbe faticare. L’ambizione<br />

si riassume per me in due immagini.<br />

Una è quella di un giovanotto in pantaloni<br />

di flanella bianca, il collo della camicia<br />

aperto, che si insinua come<br />

un gatto nei gruppet-<br />

ti sulla spiaggia tra le<br />

fanciulle in fiore. L’altra<br />

è quella di uno scrittore<br />

che alza il bicchiere<br />

per rispondere a un<br />

brindisi di uomini in<br />

smoking in piedi intorno<br />

a una tavola». A parlare<br />

era uno studente<br />

dell’École Normale<br />

Supérieure, la culla dell’élite francese,<br />

Jean-Paul Sartre, soprannominato S.O., satiro<br />

ufficiale, per la sensualità e la cinica<br />

aggressività. Ad ascoltarlo c’era un suo<br />

coetaneo serio e riservato, Raymond Aron.<br />

Ai balli annuali dell’École, Sartre, brutto<br />

ma spiritoso seduceva più di Aron e a<br />

lezione si faceva sgridare dai professori per<br />

le chiacchierate con i vicini. Aron prendeva<br />

affettuosamente in giro la fertilità dell’ami-<br />

co: «Come, soltanto trecentocinquanta pagine<br />

in tre giorni?». Sartre e Aron erano un<br />

duo inscindibile, parte di un gruppo di eletti<br />

che aveva bizzarramente scelto come rituale<br />

di farsi circoncidere,<br />

col risultato di arrivare<br />

a lezione piegati in due<br />

dal dolore, riuscendo appena<br />

a camminare. «Così<br />

quando andremo dalle<br />

prostitute del quartiere,<br />

almeno eviteremo la<br />

blenorragia!.»<br />

Avevano condiviso le<br />

lunghe chiacchierate e<br />

l’alcol finché l’arrivo di<br />

Simone de Beauvoir non li aveva allontanati.<br />

Aron era socialista e la coppia anarchicheggiante,<br />

ma avevano continuato a frequentarsi.<br />

Durante la guerra, mentre Sartre<br />

si limitava a scrivere, Aron era passato a<br />

Londra. Eppure già nel 1941 Sartre trovava<br />

Aron inattuale. Quel trentenne, secondo lui,<br />

«era cinquantenne in tutto, ma non aveva<br />

solo cinquant’anni, bisognava sommare tutti<br />

i suoi cinquant’anni per ottenere l’età vera.<br />

Mi chiedo se questo non sia un difetto da<br />

intellettuale ebreo, e comunque spiega la<br />

mancanza di autenticità, che è essere lo<br />

stesso in ogni situazione».<br />

Nel 1945 Aron, tornato in Francia come<br />

consigliere di Malraux, era entrato nella<br />

redazione di «Les Temps Modernes» con<br />

Sartre. Erano insieme per l’ultima volta.<br />

L’esistenzialismo cominciava la sua irresistibile<br />

ascesa, anche se Sartre si lamentava:<br />

«Non è allegro essere trattato da vivo come<br />

un monumento». Sulla rivista aveva lanciato<br />

il suo programma: «Dato che lo scrittore<br />

non può evadere, deve abbracciare strettamente<br />

la sua epoca. È la sua sola possibilità:<br />

lei è fatta per lui e lui per lei».<br />

Aron invece ebbe il coraggio di non essere<br />

la fodera intellettuale del suo tempo.<br />

Scrisse che voleva «capire o conoscere la<br />

mia epoca con la massima onestà possibile,<br />

staccarmi dall’attualità senza però limitarmi<br />

a un ruolo di spettatore». Dopo aver visto il<br />

nazismo nel 1933, aveva capito che la posta<br />

del secolo era resistere alle dittature di destra<br />

e di sinistra. Con la guerra fredda le<br />

strade dei due amici si erano definitivamen-<br />

“ Sartre, uomo<br />

del monologo, lui<br />

che parlava tanto<br />

di dialettica. La sua<br />

dottrina della<br />

libertà «nuova<br />

a ogni istante»<br />

lo sollevava da ogni<br />

responsabilità<br />

per il suo passato<br />

”<br />

Raymond Aron, «Memorie», 1983<br />

L’Ungheria sotto il tallone di ferro<br />

di Raymond Aron<br />

Il comunista<br />

e il filo-americano:<br />

due sguardi opposti<br />

sul mondo<br />

e sulla politica francese<br />

IPaesi dell’Europa orientale si trovavano,<br />

all’inizio della sovietizzazione, in<br />

condizioni analoghe (esclusa la Cecoslovacchia).<br />

Tutti, in effetti, avevano delle<br />

economie prevalentemente agricole, l’industria<br />

insufficientemente sviluppata non<br />

riusciva ad assorbire l’eccedenza di manodopera<br />

che restava nelle campagne,<br />

mezzo disoccupata. (...) Quei Paesi, ridotti<br />

alla condizione di satelliti, avevano<br />

compiti analoghi da affrontare: assorbire<br />

il surplus della popolazione contadina<br />

nell’industria, dunque investire molto e<br />

consumare poco. I governi delle "democrazie<br />

popolari" vollero affrontare questi<br />

compiti con gli stessi procedimenti: pianificazione<br />

rigida, priorità assoluta dell’industria<br />

pesante, prezzi fissati dall’ufficio<br />

del piano, collettivizzazione dell’agricoltura<br />

la più rapida possibile. (...)<br />

A questo riguardo, l’Ungheria rappresentava,<br />

mi sembra, un caso estremo. La<br />

costruzione di una industria pesante in un<br />

Paese che non ha né carbone coke né<br />

ferro era dettata dal dogma e contraria al<br />

buon senso. Più il Paese è piccolo e più lo<br />

sforzo per riprodurre su scala microscopica<br />

la struttura dell’Unione Sovietica diventa<br />

assurdo. La collettivizzazione dell’agricoltura,<br />

pochi anni dopo una riforma<br />

agraria che aveva liquidato la grande<br />

proprietà terriera d’origine feudale, doveva<br />

suscitare una resistenza feroce.<br />

Questa politica, manifestamente contraria<br />

agli interessi e alle aspirazioni del<br />

popolo ungherese, fu condotta con una<br />

brutalità spietata dal Partito comunista. In<br />

origine, questo non era un semplice strumento<br />

delle autorità d’occupazione. Operai,<br />

liberali, intellettuali avevano, all’indomani<br />

della Seconda guerra mondiale, gli<br />

uni dato la loro fede al Partito, gli altri<br />

sognato di costruire, cooperando con esso,<br />

una Ungheria nuova, autenticamente democratica<br />

e socialista, nel senso che queste<br />

parole hanno in Occidente. Ma, nella<br />

Da «petits camarades»<br />

a nemici per la pelle<br />

misura in cui si aggravavano le condizioni<br />

materiali della vita e il terrore, il regime<br />

appariva come il camuffamento o la cinghia<br />

di trasmissione del dominio russo.<br />

Tutto si svolgeva come se ci si ingegnasse<br />

per esasperare la nazione: i piani<br />

economici condannavano gli operai a<br />

salari da fame, la collettivizzazione e le<br />

consegne forzate a basso prezzo erano<br />

odiose ai contadini, la soppressione di<br />

ogni libertà di espressione costringeva<br />

gli intellettuali nel dilemma del silenzio<br />

o dell’epurazione, la polizia segreta minacciava<br />

tutti gli ungheresi e non risparmiava<br />

nemmeno gli stalinisti più risoluti,<br />

l’insegnamento del russo era obbligatorio,<br />

le uniformi dell’esercito erano simili<br />

a quelle dell’occupante, la stella<br />

rossa ornava tutti gli emblemi. A questo<br />

popolo privato della ragione di vivere,<br />

una stampa schiava ripeteva ogni giorno<br />

che esso era felice e che doveva<br />

ringraziare i Russi della sua felicità.<br />

Da «Le origini della rivoluzione ungherese»<br />

(1957).<br />

te separate. Da allora il nome di Aron brilla<br />

per la sua assenza. Non c’è tra quelli che<br />

ballano nelle "caves" di Saint-Germain,<br />

manca nei festini di Sartre e in quelli della<br />

"gauche", manca nei convegni, ai raduni e<br />

alle manifestazioni. Lo accusavano di essere<br />

freddo, ma per opporsi ci vuole un carattere<br />

riservato. Chi è assetato di platee non<br />

riesce a resistere alle tentazioni della politica<br />

di massa.<br />

Mentre Sartre iniziava quel balletto di<br />

avvicinamenti e allontanamenti con i comunisti<br />

che sarebbe durato tutta una vita, Aron<br />

studiava «quel genio di Marx» per combatterlo<br />

e aderiva alle iniziative culturali finanziate<br />

dagli Stati Uniti nel tentativo di arginare<br />

la soffocante egemonia della "gauche".<br />

Aron eccelleva nel farsi attaccare da destra<br />

e da sinistra, come nel caso della sua battaglia<br />

per l’indipendenza dell’Algeria. Non<br />

nascondeva i suoi disaccordi con de Gaulle.<br />

«Ho litigato con tutti i capi di stato della IV<br />

e della V Repubblica, tranne Giscard», constatava<br />

soddisfatto.<br />

Il tempo non aveva ancora fatto giustizia<br />

dell’ideologia di Sartre quando il caso li<br />

aveva riuniti l’ultima volta. L’isolato e il<br />

conformista si erano incrociati all’Eliseo,<br />

nel 1979. Sartre era cieco, semiparalizzato e<br />

non aveva reagito al saluto affettuoso di<br />

Aron, che l’aveva chiamato, come quando<br />

erano studenti, «petit camarade».

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