Introduzione Molti libri narrano storie di re, dei loro regni e degli ...

Introduzione 

1 RE 

Molti libri narrano storie di re, dei loro regni e degli avvenimenti durante il loro dominio, 

in tributo all’onore che generalmente viene reso alle corone dei re. Le Sacre 

Scritture riportano la storia del regno di Dio in mezzo agli uomini, sotto le varie amministrazioni 

che si susseguirono. In tale regno però il Re è uno solo e anche il suo nome 

è uno soltanto. In particolare, le storie che ora abbiamo davanti, spiegano gli avvenimenti 

del regno di Giuda e d’Israele, ma con particolare riguardo al regno di Dio in 

mezzo a loro e, pur essendo una storia sacra, è molto piú istruttiva e non meno piacevole 

di qualunque altra storia successiva di re terreni. Infatti, benché ci furono dei re in 

Edom prima che ce ne fosse qualcuno in Israele (cfr. Ge 36:31) - dato che gli stranieri, 

in quella parte del paese, ebbero la precedenza -, tuttavia la storia dei re d’Israele vive, 

e vivrà fino alla fine del mondo nelle Sacre Scritture; mentre quella dei re di Edom è già 

da molto sepolta nell’oblio, poiché l’onore che proviene da Dio è duraturo, mentre l’onore 

del mondo è come un fungo, che spunta in una notte e perisce la notte seguente. La 

Bibbia inizia con la storia dei patriarchi, dei profeti e dei giudici, cioè quegli uomini che 

avevano un rapporto diretto col cielo, la cui testimonianza scritta rafforza la nostra fede, 

anche se però non si adatta molto facilmente alle nostre situazioni. In questa non troviamo 

molte tipologie e figure del Messia, tuttavia troviamo che c’era una grande attesa 

del Messia, poiché non solo i profeti, ma anche i re desideravano vedere i grandi misteri 

dell’Evangelo (cfr. Lu 10:24). I due libri di Samuele, in cui si narra dell’inizio della monarchia 

con Saul e del suo consolidamento con Davide, fanno da introduzione ai libri 

dei Re. Questi due libri ci parlano di Salomone, successore di Davide, della divisione 

del suo regno e della successione dei diversi re sia di Giuda che d’Israele, riassumendo 

la loro storia fino alla cattività. E come dal libro della Genesi possiamo cogliere eccellenti 

regole di conduzione per il buon governo della famiglia, da questi possiamo trarre 

regole di politica per amministrare gli affari pubblici. In questi libri c’è un particolare 

riguardo alla casa e alla stirpe di Davide, da cui provenne Cristo. Alcuni dei figli di 

Davide seguirono i suoi passi, altri no. Le caratteristiche dei re di Giuda possono essere 

definite brevemente cosí: Davide il fedele, Salomone il saggio, Roboamo il semplice, 

Abiiam il valoroso, Asa l’uomo integro, Giosafat il religioso, Ieoram il malvagio, 

Acazia il profano, Ioas l’apostata, Amasia l’avventato, Uzzia il potente, Iotam il pacifico, 

Acaz l’idolatra, Ezechia il riformatore, Manasse il pentito, Amon l’oscuro, Giosia 

il sensibile, Ioacaz, Ioachim, Ioachin e Sedechia, tutti malvagi e tali da attirarsi la rovina 

sui propri regni. Il numero degli integri e degli empi è quasi lo stesso, ma i regni degli 

integri in genere furono lunghi e quelli degli empi brevi. Ciò considerando, la condizione 

d’Israele durante questo periodo non apparirà del tutto malvagia come sembra esserlo 

stata all’inizio. In questo primo libro abbiamo: 

I. La morte di Davide (1 R 1, 2). 

II. Il regno glorioso di Salomone e l’edificazione, per sua volontà, del tempio (1 R 

3-10); ma anche il suo declino (1 R 11). 

III. La spartizione dei regni di Roboamo, il suo dominio e quello di Geroboamo (1 

R 12-14). 

IV. I regni di Abiiam e Asa su Giuda, e quelli di Baasa e Omri su Israele (1 R 15, 16). 

V. I miracoli compiuti da Elia (1 R 17-19). 

VI. Il successo di Acab contro Benadad, la sua malvagità e la sua caduta (1 R 20- 

22). In tutta questa storia notiamo che i re, benché a noi appaiano come dèi, per Dio 

non sono altro che uomini mortali tenuti a rendere conto dinanzi a lui.

1 Re 8 2 

... 

CAPITOLO 8 

L’edificazione e l’arredamento del tempio furono 

un’opera gloriosa, ma la sua consacrazione 

lo fu ancor di piú. Proprio come la preghiera e l’adorazione 

(attività dei santi) superano la fusione 

del metallo e l’incisione delle pietre (attività degli 

artigiani). Il tempio era designato a mantenere la 

comunicazione tra Dio e il suo popolo; e qui abbiamo 

la descrizione della solennità del loro 

primo incontro avvenuto in quel luogo. 

I. Furono convocati insieme i rappresentanti di 

tutto Israele (vv. 1, 2) per celebrare per quattordici 

giorni una festa in onore di Dio (v. 65). 

II. I sacerdoti portarono l’arca nel luogo santissimo 

e la sistemarono lí (vv. 3-9). 

III. Dio prese possesso del luogo per mezzo di 

una nuvola (vv. 10, 11). 

IV. Salomone, pieno di gratitudine verso Dio, 

informò il popolo riguardo il motivo di quella riunione 

(vv. 12-21). 

V. Con una lunga preghiera affidò alla benevola 

approvazione di Dio tutte le preghiere che sarebbero 

state fatte all’interno o verso quel luogo 

(vv. 22-53). 

VI. Congedò l’assemblea con una benedizione 

e un’esortazione (vv. 54-61). 

VII. Offrí abbondanti sacrifici, con cui lui e il 

suo popolo banchettarono. Poi ognuno se ne tornò 

soddisfatto alla propria tenda (vv. 62-66). Quelli 

furono i giorni d’oro d’Israele, figura dei giorni 

del Figlio dell’uomo. 

8:1-11 

Il tempio senza l’arca, benché abbellito 

con sfarzo, era come un corpo senz’anima, 

o come un candelabro senza candela, 

o anche (per dirlo in modo piú appropriato) 

una casa senza abitanti. Tutte le 

spese e le fatiche impiegate in una grandiosa 

struttura sono sprecate se Dio non le 

accetta, e se non si compiace di riconoscerla 

come luogo in cui vuole che il suo 

nome sia ricordato, non diventerà altro 

che un mucchio di rovine. Quando dunque 

fu compiuta tutta l’opera (1 R 7:51), 

mancava solo un’unica cosa necessaria: 

portarvi dentro l’arca (v. 1). Questo 

quindi è il finale che corona l’opera, che 

dalla descrizione qui riportata, risulta 

fatto con grande solennità. Vediamo infatti 

che: 

I. Salomone presiede la cerimonia, 

proprio come aveva fatto Davide quando 

fu portata l’arca a Gerusalemme. Nessuno 

dei due si ritenne indegno di seguire 

l’arca, tanto meno di guidare il popolo in 

sua presenza. Salomone si fregia del titolo 

di predicatore (Ec 1:1, ND) e d’insegnante 

del popolo (Ec 12:11). Convoca 

una grande assemblea dove si pone al 

centro di tutti, perché si radunarono tutti 

presso di lui (v. 2) il settimo mese, durante 

la festa, cioè la Festa dei 

Tabernacoli, che ricorreva il quindici di 

quel mese (cfr. Le 23:34). Davide, che era 

un uomo retto, portò l’arca in un luogo 

conveniente, vicino a lui; Salomone, che 

eccelleva in ogni cosa, la porta in un 

luogo grandioso. Bisogna servire Dio 

conformemente al dono ricevuto; e i figli 

devono continuare a servire Dio partendo 

dal punto in cui sono arrivati i genitori 

prima di morire. 

II. Tutto Israele assiste alla cerimonia. 

Erano presenti i giudici, i capi delle tribú 

e delle famiglie, tutti gli alti funzionari civili 

e militari e i capi delle tribú. Un convegno 

del genere si poteva ben definire 

un’assemblea di tutti gli uomini d’Israele. 

In quell’occasione si radunarono: 

1. Per onorare Salomone e per ringraziarlo, 

a nome di tutta la nazione, per l’enorme 

favore che aveva fatto edificando 

quella grand’opera. 

2. Per onorare l’arca, per rendere 

omaggio e testimoniare la loro gran gioia 

e soddisfazione per il fatto che era stata 

posta in quel luogo. Esibire lo splendore 

esteriore dell’arca, anche se troppo spesso 

si è dimostrato una forte tentazione per i 

falsi seguaci, tuttavia può rivelarsi un 

vantaggio per tutti quelli che vogliono il 

suo bene, i quali, seppur con tremore, 

possono gioirne. Le grazie ricevute in 

pubblico, richiedono anche un ringraziamento 

pubblico. Tutti quelli che si presentarono 

davanti al Signore, non lo fecero 

a mani vuote, perché sacrificarono 

innumerevoli pecore e buoi (v. 5). Il popolo, 

all’epoca di Salomone, era molto 

ricco, agiato e contento, perciò era il caso 

che in quell’occasione consacrasse a Dio

e alla sua gloria non solo la propria contentezza, 

ma anche parte dei beni personali. 

III. I sacerdoti compiono il loro compito 

nella cerimonia. Nel deserto i Leviti 

dovevano trasportare l’arca, perché allora 

non c’erano abbastanza sacerdoti 

che potessero farlo; qui però (essendo 

l’ultima volta che l’arca sarebbe stata 

trasportata) lo fecero gli stessi sacerdoti, 

come venne comandato loro quando circondarono 

Gerico. In questo capitolo ci 

vengono date alcune informazioni specifiche 

sull’arca. 

1. Cosa c’era nell’arca: Non v’era altro 

se non le due tavole di pietra (v. 9), un tesoro 

incomparabilmente superiore a tutti 

gli oggetti che avevano consacrato 

Davide e Salomone a Dio. Il vasetto con 

la manna e la verga d’Aaronne erano accanto 

all’arca, ma non dentro. 

2. Cosa portarono su con l’arca: La 

tenda di convegno (v. 4). È probabile che 

si trattasse sia di quella che Mosè aveva 

eretto nel deserto, e che si trovava a 

Gabaon, sia di quella che Davide aveva 

innalzato a Sion, ed è possibile pure che 

le avessero portate nel tempio, dove arrendevano 

simbolicamente tutta la loro 

santità, incorporandola a quella del tempio, 

che da quel momento in poi sarebbe 

stato il luogo dove bisognava cercare Dio. 

Allo stesso modo, tutte le cose sante della 

Chiesa sulla terra - cose che rappresentano 

la sua gioia e la sua gloria - saranno 

assorbite nella perfezione della santità di 

lassú. 

3. Dove fu collocata, il luogo destinatole 

affinché riposasse dopo le sue tante 

peregrinazioni: Nel santuario della casa 

(v. 6), dove aspettavano che Dio parlasse 

loro. Proprio in quel luogo santissimo, 

reso tale dalla presenza dell’arca, sotto le 

ali dei cherubini che Salomone vi aveva 

posto (1 R 6:27) per indicare la protezione 

speciale degli angeli, sotto cui si decidevano 

i precetti di Dio e le assemblee 

del suo popolo. Le stanghe dell’arca 

erano lunghe e spuntavano da sotto le ali 

dei cherubini, e servivano a guidare il 

3 

1 Re 8 

sommo sacerdote verso il propiziatorio 

che si trovava sull’arca, quando questi entrava 

nel santuario una volta l’anno per 

aspergervi del sangue. Perciò continuavano 

a essere utili, anche se non servivano 

piú per trasportare l’arca. 

IV. Dio riconosce benevolmente l’opera 

compiuta e dichiara di averla accettata 

(vv. 10, 11). I sacerdoti poterono entrare 

nel luogo santissimo solo finché Dio 

non vi manifestò la sua gloria. Ma dal 

momento in cui lo fece, nessuno si sarebbe 

potuto avvicinare all’arca senza rischiare 

la vita, tranne il sommo sacerdote, 

che lo faceva nel giorno dell’espiazione. 

Perciò solo quando i sacerdoti uscirono 

dal santuario, la Shekinah s’impossessò 

del luogo, mediante una nuvola, che non 

solo riempí il luogo santissimo, ma anche 

tutto il tempio, al punto che i sacerdoti 

che stavano bruciando l’incenso all’altare 

d’oro, non riuscirono a rimanervi. Con 

questa chiara manifestazione della sua 

gloria, Dio: 

1. Conferí onore all’arca, riconoscendola 

un segno della sua presenza. A causa 

dei frequenti spostamenti, della malvagità 

dei luoghi in cui era stata posta recentemente 

e del fatto che era stata esposta per 

tanto tempo alla vista di tutto il popolo, la 

sua gloria era diminuita e si era offuscata. 

Dio però ora voleva mostrare che gli era 

ancora molto cara e voleva che fosse considerata 

con la stessa venerazione di 

quando Mosè la portò nel tabernacolo per 

la prima volta. 

2. Dichiarò di aver accettato l’edificazione 

e l’arredamento del tempio come un 

buon servizio reso al suo nome e al suo 

regno in mezzo agli uomini. 

3. Suscitò un santo timore santo in 

mezzo a quella grande assemblea. Quello 

che videro fu una conferma alla fede in 

tutto quello che avevano letto nei libri di 

Mosè riguardo la gloria con cui Dio si era 

manifestato ai loro padri. Inoltre fu utile 

anche perché da quel momento in poi potessero 

servire il Dio d’Israele piú da vicino, 

e fossero fortificati contro le tentazioni 

dell’idolatria.

1 Re 8 4 

4. Si dimostrò pronto ad ascoltare la 

preghiera che Salomone stava per rivolgergli. 

E oltre a questo stabilí quella casa 

come luogo della sua dimora. Ma vediamo 

che la gloria di Dio apparve sotto 

forma di nuvola, una nuvola scura, a rappresentare: 

(a) L’oscurità di quella dispensazione 

in confronto alla luce dell’Evangelo, per 

mezzo della quale vediamo, come in uno 

specchio (1 Co 13:12), la gloria del 

Signore. 

(b) L’oscurità della nostra condizione 

attuale rispetto a quando vedremo Dio, 

che sarà la nostra felicità nel cielo, dove 

la gloria divina sarà completamente svelata. 

Ora possiamo dire solo quello che 

non è, ma allora lo vedremo come egli è. 

8:12-21 

Qui vediamo che Salomone: 

I. Incoraggia i sacerdoti, usciti dal 

tempio dove stavano svolgendo il loro 

compito, stupiti per la nuvola nera che li 

aveva adombrati. I discepoli di Cristo temettero 

quando entrarono nella nuvola 

(Lu 9:34), e allo stesso modo anche i sacerdoti 

temettero quando si trovarono avvolti 

in quella nuvola nera. Per placare la 

loro paura Salomone: 

1. Ricorda loro ciò che non potevano 

non sapere, cioè che quello era un segno 

della presenza di Dio. L’Eterno ha dichiarato 

che abiterebbe nell’oscurità (v. 

12). Non era assolutamente un segno 

della sua disapprovazione, bensí del suo 

favore perché Dio aveva detto: Io apparirò 

nella nuvola (Le 16:2). Vediamo che 

per accettare le dispensazioni dell’Antico 

Testamento, niente ha piú efficacia del 

fatto di considerare quello che Dio ha 

detto, e confrontarlo con la sua Parola e le 

sue opere, come leggiamo in Levitico 

10:3: Questo è quello di cui l’Eterno ha 

parlato. Dio è luce (cfr. 1Gv 1:5) e dimora 

nella luce (cfr. 1 Ti 6:16), ma con gli 

uomini deve dimorare nell’oscurità, facendone 

la sua tenda, perché non potrebbero 

sopportare lo splendore accecante 

della sua gloria. In verità tu sei un Dio 

che ti nascondi (Is 45:15). In questo modo 

la nostra fede viene esercitata e il santo timore 

aumenta. 

2. Dice loro che Dio stesso provava 

piacere nel dimorare lí. In pratica, dato 

che Dio era sceso in quel luogo, per 

mezzo di quella nuvola, per impossessarsene, 

Salomone dichiara solennemente il 

suo dominio (v. 13). È come se Dio 

avesse detto: Sí, vengo tosto. E Salomone 

avesse risposto: «Amen! Vieni, Signore 

(Ap 22:20). La casa ti appartiene, è completamente 

tua. Io ho costruito per te (v. 

13, ND) e l’ho arredata per te. È tua per 

sempre, è un luogo ove dimorerai in perpetuo. 

Questa casa non sarà mai trasferita 

né trasformata per farne un uso diverso; 

l’arca non sarà mai piú spostata da lí, non 

sarà mai piú smossa». Fu una gioia per 

Salomone il fatto che Dio prese possesso 

del tempio, e desiderava pure che Dio 

continuasse a possederlo in perpetuo. 

Perciò non era conveniente che i sacerdoti 

avessero paura di ciò di cui invece 

Salomone gioiva! 

II. Istruisce il popolo e fornisce un 

chiaro resoconto riguardo a quella casa di 

cui avevano visto Dio prenderne possesso. 

Parlò brevemente ai sacerdoti, per 

soddisfare la loro curiosità, ebbe una parola 

per i saggi, ma voltò la faccia in direzione 

di tutta la raunanza (v. 14) che 

stava nel cortile esterno, rivolgendosi prevalentemente 

a loro. 

1. Li benedisse. Nel vedere la nuvola 

nera che entrava nel tempio, cominciarono 

a raccomandarsi a Dio, sbalorditi e 

impauriti che quella nuvola nera potesse 

essere come buio pesto per loro. 

Possiamo presupporre che quello spettacolo 

stupefacente, mai visto prima d’allora, 

servisse a spingere tutti alla preghiera 

e a sgombrare le menti da ogni 

pensiero futile. Salomone intervenne 

nella loro preghiera, benedicendoli tutti, 

come uno che aveva autorità; augurò loro 

la pace e la benedizione nel nome di Dio, 

proprio come aveva fatto l’angelo con 

Gedeone quando questi, in un’occasione 

simile, si era impaurito: Sta’ in pace, non

temere, non morrai (Gc 6:22, 23)! 

Salomone li benedisse, nel senso che li 

tranquillizzò e li alleggerí da quella costernazione 

che li aveva sopraffatti. Per 

ricevere quella benedizione s’alzarono 

tutti in piedi, in segno di rispetto e prontezza 

ad ascoltare e accettare. Quando 

viene pronunciata una benedizione, è proprio 

questa la giusta posizione da assumere. 

2. Li informò riguardo alla casa che 

aveva costruito e che ora stava consacrando 

a Dio. 

(a) Cominciò il suo resoconto testimoniando 

con riconoscenza che la mano benigna 

del suo Dio era stata su di lui fino a 

quel momento: Benedetto sia l’Eterno, 

l’Iddio d’Israele (v. 15). Dobbiamo lodare 

Dio per tutte le cose belle che riceviamo. 

In questo modo spinse la raunanza 

a elevare il cuore a Dio per ringraziarlo. 

E questo, molto probabilmente, sarebbe 

servito anche per sedare l’agitazione 

d’animo in cui si trovavano. Disse 

loro: «Venite, non permettiamo che le 

manifestazioni della presenza di Dio ci allontanino 

da lui, ma piuttosto facciamo in 

modo che ci avvicinino a lui; benediciamo 

l’Eterno, l’Iddio d’Israele!». Allo 

stesso modo anche Giobbe, quando si 

trovò in una triste condizione, benedisse il 

nome del’Eterno (Gb 1:21). Salomone 

benedisse Dio per: [1] La promessa che 

aveva fatto a suo padre Davide. Il quale di 

sua propria bocca parlò a Davide (v. 15); 

[2] La realizzazione della promessa, che 

ora aveva adempiuto con la sua mano 

(Diodati). Se risaliamo le acque del 

fiume, dirigendoci verso la sorgente dell’alleanza, 

e confrontiamo l’opera di Dio 

con le sue promesse, allora comprenderemo 

meglio la misericordia di Dio, e saremo 

piú riconoscenti sia verso di noi che 

verso il nostro Dio. 

(b) Poi Salomone consacrò la casa a 

Dio, consegnandogliela per mezzo di un 

atto solenne. I conferimenti e le concessioni 

di solito cominciano con una relazione 

di quanto è stato fatto in precedenza 

ed è servito ad arrivare a quanto si pos- 

5 

1 Re 8 

siede in quel determinato momento. 

Perciò vediamo qui il resoconto di 

Salomone circa le cause particolari e le 

considerazioni che lo spinsero a costruire 

il tempio: [1] La necessità di un luogo del 

genere. Era necessario che facesse questa 

premessa perché, nella dispensazione in 

cui si trovavano, doveva esserci un solo 

luogo in cui aspettare che Dio testimoniasse 

del suo nome. Quindi, se avessero 

scelto un altro luogo, sarebbe stata un’usurpazione. 

Ma Salomone dimostra, prendendo 

spunto da quello che aveva detto 

Dio stesso, che non ce n’era un altro: Io 

non scelsi alcuna città… per edificarvi 

una casa, ove il mio nome dimorasse (v. 

16). Perciò questa era l’occasione per 

farlo. [2] Il proposito di Davide di edificare 

il tempio. Dio prima scelse la persona 

che avrebbe regnato sul suo popolo - 

scelsi Davide (v. 16) - e poi gli mise in 

cuore di costruire una casa al nome 

dell’Eterno (v. 17). Non era stato un progetto 

di Salomone, per esaltare sé stesso, 

ma suo padre, che era stato un uomo integro 

e perciò gradito a Dio, ne aveva fatto 

il primo progetto, benché non visse abbastanza 

per potervi porre la prima pietra. 

[3] La promessa di Dio a suo riguardo. 

Dio approvò il proposito di suo padre: 

Hai fatto bene ad aver questo in cuore (v. 

18). Si noti che le sincere intenzioni di 

fare il bene saranno approvate e accettate 

con favore da Dio, anche se talvolta la 

Provvidenza c’impedisce di metterle in 

atto. La prontezza dell’animo da parte 

dell’uomo è ben accetta agli occhi di Dio 

(2 Co 8:12). Dio accettò la buona volontà 

di Davide, tuttavia non gli permise di 

compiere quell’opera, ma ne riservò l’onore 

al figlio: Il tuo figliuolo… costruirà 

la casa al mio nome (v. 19). Perciò quello 

che Salomone aveva realizzato non era 

stato una sua idea e non l’aveva fatto per 

sua gloria personale, ma tutto il lavoro era 

un progetto del padre, e lui lo aveva realizzato 

sotto la guida di Dio. [4] Quello 

che aveva fatto personalmente e le intenzioni 

che lo avevano guidato. Ho costruita 

la casa, non al mio nome, ma al

1 Re 8 6 

nome dell’Eterno, dell’Iddio d’Israele (v. 

20), e vi ho assegnato un posto all’arca 

(v. 21). In questo modo ogni diritto, titolo, 

interesse, rivendicazione o pretesa, che 

avrebbero potuto avere lui o i suoi per 

quella casa, o per gli accessori, lui li cedeva 

e li consegnava a Dio per sempre. 

Tutto era per il suo nome e per la sua arca. 

Cosí facendo disse: L’Eterno ha adempita 

la parola che avea pronunziata. Si osservi 

che qualunque sia il bene che possiamo 

fare, dobbiamo sempre considerarlo come 

adempimento della promessa di Dio verso 

di noi, piuttosto che adempimento della 

nostra promessa verso di lui. Piú facciamo 

per Dio, piú gli siamo debitori, poiché 

la nostra capacità proviene da lui e 

non da noi stessi. 

8:22-53 

Dopo aver consacrato il tempio a Dio - 

che dimostrò di averlo accettato prendendone 

possesso -, Salomone rivolge una 

preghiera a Dio con tutta umiltà e riverenza, 

in cui fa una dichiarazione particolare 

riguardo l’uso a cui destinare quella 

proprietà, desiderando l’approvazione di 

Dio. Richiede che quel tempio sia considerato 

non solo una casa per sacrifici 

(anche se in tutta la sua preghiera non 

viene fatto alcun cenno, dato che si dava 

già per scontato), ma anche una casa d’orazione 

per tutte le genti (Mr 11:17), e 

come tale era figura della Chiesa (cfr. Is 

56:7; Mt 21:13). Per questo motivo 

Salomone inaugurò quella casa non solo 

con un sacrificio straordinario, ma anche 

con una preghiera straordinaria. 

I. La persona che fece quella preghiera 

era importante. Salomone non incaricò un 

sacerdote o un profeta per quel servizio, 

ma lo fece lui stesso in presenza di tutta 

la raunanza d’Israele (v. 22). 

1. Fu una cosa molto buona, un segno 

che Salomone aveva tratto beneficio dalla 

sana educazione che i genitori gli avevano 

impartito. A quanto pare, durante il 

suo ammaestramento, aveva imparato a 

pregare bene e sapeva rivolgersi a Dio in 

maniera appropriata, pro re nata, cioè 

d’impulso, senza formule prescritte. Nella 

moltitudine dei suoi scritti assennati, proverbi 

e canzoni, non mise mai da parte la 

preghiera. Era vittorioso grazie alla preghiera 

(cfr. 1 R 3:11ss) e possiamo presupporre 

che vi dedicasse molto tempo, al 

punto di eccellere - come vediamo in quest’occasione 

- nel dono della preghiera. 

2. Fu una cosa molta buona la sua disposizione 

a pregare, non vergognandosi 

di realizzare quel servizio davanti a una 

congregazione cosí numerosa. Non ritenne 

affatto un discredito fungere da sacerdote 

ed essere la voce di tutta l’assemblea 

di Dio. Ci sarà forse qualcuno che si 

creda troppo importante per farlo per la 

propria famiglia? Salomone, in tutta la 

sua gloria e sul trono d’avorio, non apparve 

mai tanto grande come adesso che 

pregò. Perciò i grandi uomini dovrebbero 

essere in grado di sostenere la dignità del 

culto, rendendo onore a Dio con la loro 

grandezza. Qui Salomone era figura di 

Cristo, il grande intercessore per tutti 

quelli su cui regna. 

II. La posizione in cui pregò fu di 

grande riverenza, manifestando umiltà, 

serietà e fervore. Si pose davanti all’altare 

dell’Eterno, aspettando che la sua 

preghiera fosse esaudita in virtú di quel 

sacrificio che sarebbe stato offerto nella 

pienezza dei tempi, simboleggiato dai sacrifici 

offerti su quell’altare. Quando si 

mise a pregare: 

1. S’inginocchiò, come si deduce dalla 

seconda parte del versetto 54, dove leggiamo 

che s’alzò di davanti all’altare 

dell’Eterno dove stava inginocchiato (cfr. 

anche 2 Cr 6:13). La posizione piú appropriata 

per la preghiera è stare in ginocchio 

(cfr. Ef 3:14). Anche il piú grande fra gli 

uomini non deve ritenere una cosa indegna 

inginocchiarsi davanti all’Eterno che 

ci ha fatti (Sl 95:6). Il dott. Herbert dice: 

«Inginocchiarsi non ha mai fatto sciupare 

le calze di seta!». 

2. Teneva le mani stese verso il cielo e 

- come risulta dal versetto 54 - continuò a 

tenerle alzate fino alla fine della preghiera. 

In questo modo esprimeva di ane-

lare a Dio e che le sue speranze dipendevano 

da lui in quanto Padre del cielo. 

Teneva le mani stese, come per offrire la 

sua preghiera spandendo il suo cuore 

verso il cielo, e anche per poter ricevere, 

con entrambe le mani, la grazia per cui 

aveva pregato. Non si dovrebbero disprezzare, 

né deridere questo tipo di 

espressioni esteriori di fermezza e fervore 

nella preghiera. 

III. La preghiera fu molto lunga, forse 

anche piú lunga di quello che leggiamo in 

questo libro. Quando ci presentiamo al 

trono della grazia, riceviamo piena libertà 

di parlare, allora perché non la usiamo? 

Cristo non condanna le preghiere lunghe, 

ma quelle fatte per pretesa. In questa preghiera 

esemplare Salomone, come dovremmo 

fare anche noi quando preghiamo: 

1. Dà gloria a Dio. Comincia col miglior 

gesto di adorazione. Si rivolge a Dio 

come l’Eterno, il Dio d’Israele, un Dio in 

alleanza con quel popolo. 

(a) Poi lo loda perché è il migliore fra 

gli esseri. Afferma: «Non v’è Dio che sia 

simile a te, nessuna delle potenze nel 

cielo o sulla terra può essere paragonata a 

te». E lo considera il migliore fra i signori 

verso il suo popolo: «Tu mantieni il patto 

e la misericordia verso i tuoi servi; non 

solo la parola nel mantenere il patto, ma 

anche nel mantenere la misericordia. E fai 

per loro anche quello che non hai promesso 

espressamente, purché camminino 

in tua presenza con tutto il cuor loro, 

siano zelanti per te e mantengano lo 

sguardo rivolto a te». 

(b) Lo ringrazia per quello che ha 

fatto, in particolare per la sua famiglia: 

«Tu hai mantenuta la promessa da te fatta 

al tuo servo Davide (v. 24), come hai fatto 

anche con gli altri tuoi servi». La promessa 

rappresentava per Salomone una 

grande grazia, incoraggiamento e gioia, e 

ora si adempiva: Oggi hai compiuto… Le 

esperienze tangibili che confermano la 

veridicità delle promesse di Dio, ci spingono 

a lodarlo con forza. 

2. Invoca la grazia e il favore di Dio. 

7 

1 Re 8 

(a) Affinché Dio compia per lui e per i 

suoi quello che ha promesso (vv. 25, 26). 

Osserviamo bene come comincia: riconosce 

con gratitudine che la promessa in 

parte si era realizzata, e fin qui Dio era 

stato fedele alla sua parola. Perciò dice: 

«Tu hai mantenuta la promessa da te fatta 

al tuo servo Davide, e cosí suo figlio ha 

occupato il trono e ha costruito il tempio 

stabilito; ora dunque, mantieni al tuo 

servo Davide la promessa che gli facesti, 

e che ancora deve adempiersi». Quando 

facciamo delle esperienze con Dio in cui 

lui mantiene le sue promesse, dovremmo 

sentirci incoraggiati a confidare in esse e 

supplicare Dio per ottenerle. Chi si 

aspetta altre grazie, deve essere grato per 

quelle già ricevute. In 1 Samuele 7:12 

leggiamo: Fin qui l’Eterno ci ha soccorsi 

(cfr. anche 2 Co 1:10). Salomone replica 

la promessa: Non ti mancherà mai qualcuno 

che segga nel mio cospetto sul trono 

d’Israele, e non omette la condizione, 

purché i tuoi figlioli veglino sulla loro 

condotta (v. 25). Infatti non possiamo 

aspettarci che Dio mantenga la promessa 

se noi prima non rispettiamo la condizione 

annessa. Poi Salomone chiede 

umilmente: Or dunque, o Dio d’Israele, 

s’avveri la parola che dicesti (v. 26). Le 

promesse di Dio - come ci è capitato 

spesso di osservare - devono essere sia la 

guida dei nostri desideri, sia il terreno 

delle nostre speranze e delle attese in preghiera. 

Davide aveva pregato: O Eterno… 

fa’ come hai detto (2 S 7:25). Vediamo 

dunque che i figli devono imparare dai 

loro genitori a pregare e a supplicare in 

preghiera. 

(b) Affinché Dio onori quel tempio di 

cui ha preso possesso, che i suoi occhi 

possano essere notte e giorno aperti su 

quella casa (v. 29), e che lo riconosca con 

benevolenza. A questo proposito 

Salomone fa alcune cose. [1] Prima di 

tutto: esprime un’umile ammirazione per 

la benevola compiacenza di Dio. E dice: 

«Ma è egli proprio vero che Dio abiti 

sulla terra (v. 27)? Possiamo immaginare 

che un Essere infinitamente elevato, santo

1 Re 8 8 

e beato si abbassi tanto per ricordarci 

semplicemente che dimora sulla terra - 

una terra corrotta e piena di peccato, maledetta 

e destinata al fuoco - e che benedica 

gli esseri vili della terra con la sua 

presenza? Signore, come mai?». In secondo 

luogo: riconosce umilmente l’incapacità 

di quella casa, pur molto spaziosa, 

che gli aveva costruito, a contenere Dio. 

«I cieli de’ cieli non ti posson contenere, 

perché nessun luogo può contenere colui 

che è presente in ogni luogo. Persino questa 

casa è piccolissima, è troppo misera 

per essere la residenza di colui che è infinito 

in esistenza e gloria». Si noti che 

quando abbiamo fatto per Dio tutto 

quanto è in nostro potere, dobbiamo riconoscere 

l’infinita distanza e la sproporzione 

che c’è fra noi e lui, tra il nostro servizio 

e la sua perfezione. [2] Dopo aver 

fatto questa premessa, passa a una preghiera 

piú generale. Prima di tutto chiede 

a Dio di concedergli di ascoltare e rispondere 

alla preghiera che lui stava elevando 

(v. 28). Fu una preghiera umile (la preghiera 

del tuo servo), fervente (una preghiera 

che è piuttosto un grido), una preghiera 

fatta in fede: davanti a te (v. 28, 

ND), come Signore e mio Dio. «Signore, 

ascoltala, abbi riguardo, non perché è la 

preghiera del re d’Israele (non è la posizione 

sociale né il titolo onorifico che raccomandano 

l’uomo a Dio), ma in quanto 

preghiera del tuo servo». In secondo 

luogo chiede a Dio di avere la compiacenza 

anche di ascoltare e rispondere a 

ogni preghiera, che da quel momento in 

poi sarebbe stata elevata in quella casa o 

diretta verso di essa, che lui aveva adesso 

costruito e di cui Dio aveva detto: Quivi 

sarà il mio nome (v. 29). Gli chiede di 

ascoltare sia le sue preghiere (Ascolta la 

supplicazione del tuo servo), sia quelle di 

tutto il popolo d’Israele come quelle d’ogni 

singolo Israelita (v. 30): «Ascoltali dal 

luogo della tua vera dimora che si trova 

nei cieli, di cui questo tempio non è altro 

che un simbolo; e ascolta e perdona il 

peccato che li separa da Dio, anche l’iniquità 

quando avranno profanato ciò ch’è 

sacro (Le 19:8)». Con queste affermazioni 

Salomone: 

(c) Crede che il popolo di Dio sia sempre 

un popolo di preghiera; lui stesso decide 

d’essere fedele verso questo dovere. 

(d) Ordina loro che, nelle preghiere, 

abbiano sempre lo sguardo rivolto verso il 

luogo in cui Dio si era compiaciuto di manifestare 

la sua gloria come non aveva 

fatto in nessun altro luogo sulla terra. 

Solo i sacerdoti potevano entrare all’interno 

del santuario; ma quando il popolo 

avrebbe adorato nei cortili del tempio, 

avrebbe dovuto farlo con lo sguardo rivolto 

verso di esso. Ma non considerandolo 

un oggetto di culto (altrimenti sarebbe 

stata idolatria), ma come mezzo stabilito 

del loro culto, per aiutare la debolezza 

della loro fede e per simboleggiare 

la mediazione di Cristo Gesú, che è il 

vero tempio, verso cui dobbiamo avere lo 

sguardo in ogni cosa che facciamo che riguarda 

Dio. Chi si trovava lontano 

avrebbe guardato in direzione di 

Gerusalemme, per amore del tempio, 

anche quando era in rovine (cfr. Da 6:10). 

(e) Prega Dio di ascoltare le preghiere 

e perdonare i peccati di tutti quelli che 

avrebbero pregato rivolti verso quel 

luogo. Non che pensasse che tutte le preghiere 

offerte a Dio da chi non sapeva 

dell’esistenza di quel tempio, né lo teneva 

in considerazione, fossero per questo motivo 

rigettate. Desiderava tuttavia che i 

segni tangibili della presenza di Dio, con 

i quali quella casa veniva benedetta, potessero 

dare sempre un notevole incoraggiamento 

e conforto ai fedeli che pregavano. 

[3] In particolare presenta diversi 

casi in cui presume che si debba pregare 

Dio in quella casa di preghiera o rivolti 

verso di essa. Prima di tutto: se si fossero 

appellati a Dio con giuramento per determinare 

il diritto controverso tra due persone, 

e avessero pronunciato il giuramento 

davanti a quell’altare, Salomone 

prega che Dio, in un modo o in un altro, 

avrebbe fatto scoprire la verità e si sarebbe 

potuto giudicare con giustizia tra le 

parti contendenti (vv. 31, 32). Pregò che

nei casi difficili il suo trono di grazia potesse 

essere anche un trono di giudizio, da 

dove Dio avrebbe reso giustizia alla persona 

oltraggiata che con fiducia vi si era 

appellata, mentre avrebbe punito il colpevole 

che vi si era appellato con arroganza. 

Secondo: se il popolo d’Israele avesse gemuto 

sotto qualche calamità nazionale, o 

qualche Israelita fosse stato afflitto da una 

disdetta personale, Salomone desiderava 

che Dio avrebbe ascoltato e risposto alle 

loro preghiere fatte in quella casa o rivolti 

verso d’essa. 

(f) In caso di calamità pubbliche, 

guerra (v. 33), mancanza di pioggia (v. 

35), carestia o peste (v. 37), e termina con 

un et cetera, cioè qualsivoglia, qualunque 

piaga o malattia, perché non c’è calamità 

che capiti ad altri popoli che non possa 

capitare anche al popolo di Dio. Ora suppone 

che: 

(g) Il peccato e nient’altro, sarebbe 

stato la causa del castigo. «Se il tuo popolo 

verrà sconfitto dal nemico, se non ci 

sarà pioggia, sarà a motivo dei loro peccati 

contro di te». Il peccato è la causa 

d’ogni male. 

(h) Il castigo li avrebbe spinti a invocare 

Dio e l’avrebbero supplicato stando 

in quella casa o in direzione d’essa. Chi 

l’avrebbe disdegnato in un primo momento, 

dopo l’avrebbe cercato con insistenza. 

In Osea 5:15 il Signore dice: 

Quando saranno nell’angoscia, ricorreranno 

a me con tutto il cuore. 

(i) Il loro castigo sarebbe stato revocato 

grazie alla semplice preghiera. Non 

può, e non vuole chiedere che la loro preghiera 

sia ascoltata, a meno che non si 

convertano dai loro peccati (v. 35) e tornino 

di nuovo a Dio (v. 33); in altre parole, 

a meno che non si ravvedano veramente. 

Non c’è altra condizione per essere 

salvati in questo mondo e guadagnarsi 

quello a venire; però, se lo fanno, 

saranno degni di ricevere misericordia. 

Salomone prega Dio di: [1] Ascoltarli dal 

cielo, dal suo tempio di lassú, verso cui 

loro devono guardare attraverso questo 

tempio terreno. [2] Perdonare il loro pec- 

9 

1 Re 8 

cato; perché soltanto allora i castighi saranno 

rimossi per grazia, quando il peccato 

verrà perdonato. [3] Mostrargli la 

buona strada per cui debbono camminare 

(2 Cr 6:27), per mezzo del suo Spirito, 

della Parola e tramite i profeti. E cosí 

forse potranno trarre vantaggio dalle loro 

angosce - poiché è beato l’uomo che tu 

correggi, o Eterno, e ammaestri (Sl 

94:12) - ed essere pronti per la liberazione, 

che arriva amorevolmente quando 

ci dedichiamo di nuovo alle vie di Dio e 

ai nostri doveri. [4] Rimuovere quindi il 

castigo e rimediare al problema, qualunque 

fosse. Gli chiede non solo di accettare 

la preghiera, ma anche di concedere la 

grazia richiesta. 

1. In caso di afflizioni personali (vv. 

38-40). «Se un uomo qualunque in Israele 

ha una richiesta da farti, possa trovarti in 

questo luogo e possa trovare grazia presso 

di te». Non scende nei particolari, dato 

che sono davvero numerose e varie le afflizioni 

che l’umanità soffre. 

2. Salomone si aspetta che chi geme e 

sente il proprio peso in modo tangibile, riveli 

il proprio caso a Dio invece di tenerselo 

dentro senza renderlo noto a nessuno: 

Ciascuno avrà riconosciuta la piaga del 

proprio cuore, quello che lo fa soffrire, e 

stenderà le sue mani, cioè presenterà il suo 

caso, come Ezechia stese la lettera, in preghiera, 

verso questa casa. 

Indipendentemente dal fatto se si tratti di 

un dolore fisico o mentale, lo farà presente 

a Dio. I pesi inconfessati sono particolarmente 

significativi. Il peccato è la piaga 

del nostro cuore; le corruzioni interiori 

sono le nostre infermità spirituali. Ogni 

Israelita si sforza davvero di conoscerle 

per poterle opprimere e aver cura che non 

insorgano. Salomone si lamenta di questo 

tipo di infermità, è questo il peso sotto cui 

geme: Misero me uomo (Ro 7:24)! Sono 

queste che lo spingono a inginocchiarsi, 

che lo portano al santuario. Piangendo 

stenderà le sue mani in preghiera. 

3. Espone tutti i casi che sarebbero 

stati portati nel tempio e raccomandati a 

Dio, e in particolare: [1] Alla sua onni-

1 Re 2:1-7 10 

Invio di due spie a Gerico 

scienza. «Tu solo conosci il cuore di tutti 

i figliuoli degli uomini, non solo le piaghe 

dei loro cuori, i loro tanti bisogni e pesi 

(Dio li conosce ma vuole che glieli confessiamo), 

ma anche l’intento del cuore, 

la sincerità o l’ipocrisia. Tu sai quando 

una preghiera viene dal cuore e quando 

proviene soltanto dalle labbra». Neanche 

i cuori dei re sono imperscrutabili per 

Dio. [2] Alla sua giustizia. «Rendi a ciascuno 

secondo le sue vie; e l’uomo, per 

l’intervento della tua grazia e non per 

mezzo della legge - altrimenti saremmo 

tutti distrutti -, non verrà meno nel seguire 

la tua via». [3] Alla sua misericordia. 

Esaudisci… e perdona… e agisci (v. 39), 

ch’essi ti temano tutto il tempo che vivranno 

(v. 40). Quando Dio usa misericordia 

verso di noi, ascoltando le nostre 

preghiere e perdonando i nostri peccati, di 

conseguenza noi dovremmo impegnarci a 

temerlo per il resto della nostra vita. 

Leggiamo infatti: Si volgeranno tremanti 

all’Eterno e alla sua bontà (Os 3:5, ND). 

Presso te v’è perdono affinché tu sia temuto 

(Sl 130:4). 

4. Dopo cita il caso in cui ci sia uno 

straniero, uno che non appartenga al popolo 

d’Israele, un proselito che venga al 

tempio per pregare il Dio d’Israele, convinto 

della stoltezza e della malvagità che 

c’è nell’adorare gli dèi del suo paese. 

(a) Immagina che avrebbero potuto essercene 

molti come lui (vv. 41, 42), che la 

fama delle grandi opere che Dio aveva 

fatto per Israele, mediante le quali si era 

dimostrato superiore a ogni altro dio, 

anzi, aveva dimostrato di essere l’unico 

Dio, avrebbe raggiunto le nazioni lontane. 

Perciò dice: «Chi vive lontano udrà parlare… 

della tua mano potente e del tuo 

braccio disteso; e questo porterà tutte le 

persone zelanti e assennate a pregare rivolte 

verso questa casa, per ottenere il favore 

di un Dio che possa concedere loro 

una grande grazia». 

(b) Chiese a Dio di accettare e di rispondere 

alla preghiera del proselito: 

Concedi a questo straniero tutto quello 

che ti domanderà (v. 43). I segni del fa- 

vore di Dio verso i peccatori di fra i 

Gentili (Ga 2:15) risalgono a cosí tanto 

nel passato! E cosí come esisteva un’unica 

legge per il nativo del paese e per lo 

straniero (Es 12:49), allo steso modo esiste 

un solo Evangelo per entrambi. 

(c) Cosí facendo mirava alla gloria di 

Dio e alla divulgazione della sua conoscenza 

in mezzo ai popoli: «Possa lo straniero, 

soprattutto, essere esaudito nelle 

sue preghiere, affinché possa portare via 

con sé al suo paese una buona testimonianza 

circa il Dio d’Israele, affinché tutti 

i popoli della terra conoscano il tuo nome 

per temerti (e se ti conoscono nel modo 

giusto, allora ti temeranno) come fa il tuo 

popolo d’Israele». Salomone non pensava 

assolutamente di essere il detentore della 

conoscenza e del culto a Dio. Non desiderava 

che fossero confinati soltanto a 

Israele (cosa che invece era il desiderio invidioso 

degli Ebrei ai giorni di Cristo e 

degli apostoli), perciò pregava che tutti i 

popoli temessero Dio come faceva Israele. 

Possa chiunque ricevere l’adozione, e essere 

reso figlio di Dio! Padre, glorifica il 

tuo nome in questo modo (Gv 12:28). 

(d) Poi Salomone raccomanda alla grazia 

divina il caso di un esercito che va in 

battaglia. Si suppone che l’esercito sia accampato 

già a una certa distanza, in qualche 

luogo lontano, mandato per ordine divino 

contro il suo nemico (v. 44, ND). 

«Quando l’esercito è pronto ad attaccare, 

e considera i pericoli e gli esiti incerti 

della battaglia, innalza delle preghiere a 

Dio per ricevere protezione e successo, 

avendo lo sguardo rivolto alla città e alla 

casa. Perciò, Signore, esaudisci le sue 

preghiere, incoraggia il suo cuore, rafforza 

le sue mani, coprigli il capo, sostieni 

la sua causa e concedigli la vittoria». 

I soldati che si trovano sul campo di 

battaglia non devono accontentarsi del 

fatto che chi resta a casa prega per loro, 

ma anche loro devono pregare, e qui sono 

incoraggiati a sperare di ricevere una risposta 

benevola. La preghiera va sempre 

di pari passo con il combattimento. 

(e) Il caso in cui sfortunatamente si di-

Invio di due spie a Gerico 11 

1 Re 2:1-7 

venti prigionieri è l’ultimo qui a essere 

menzionato come oggetto speciale della 

compassione divina. 

(f) Salomone immagina che gl’Israeliti 

peccheranno. Li conosce, conosce sé 

stesso e conosce anche fin troppo bene la 

natura umana per credere che questa 

eventualità sia troppo lontana. Poiché non 

v’è uomo che non pecchi (v. 46), che non 

commetta qualcosa di cosí grave da meritare 

le riprensioni piú severe di Dio. 

Perché se Dio abbandonasse l’uomo a sé 

stesso, questi certamente cadrebbe nel 

peccato piú vile. 

(g) Immagina una cosa molto probabile 

da aspettarsi, cioè che se Israele si ribellerà, 

Dio si muoverà a sdegno contro 

di loro e li abbandonerà in balía del nemico, 

per essere portati prigionieri in un 

paese straniero. 

(h) Poi suppone che rifletteranno, considereranno 

le loro vie (perché le afflizioni 

inducono gli uomini alla riflessione), 

e una volta portati a considerare, si 

pentiranno e pregheranno, confesseranno 

i loro peccati e si umilieranno, dicendo: 

Abbiam peccato, abbiamo operato iniquamente 

(v. 47). E quando saranno nel 

paese dei loro nemici (v. 48), torneranno 

a Dio, che avevano dimenticato nella propria 

terra. 

(i) Immagina che nelle loro preghiere 

gli Israeliti guarderanno verso la loro 

terra, la terra santa, Gerusalemme, la città 

santa, e verso il tempio, la casa santa, e gli 

indica che faranno cosí, per amore di Dio 

che gli dato loro quella terra, ha scelto 

quella città e alla cui gloria quella casa è 

stata edificata. 

(l) Prega allora che Dio esaudisca le 

loro preghiere, li perdoni e faccia loro ragione, 

e inclini i loro nemici ad aver compassione 

di loro (vv. 49, 50). Ogni cuore 

è nella mano di Dio, che quando vuole, 

può far scorrere in senso contrario anche 

il fiume piú potente, e far nutrire compassione 

verso il suo popolo anche da parte 

di chi ne sia stato il piú crudele persecutore. 

Qui vediamo l’esaudimento di questa 

preghiera: Fece loro anche trovar 

compassione presso tutti quelli che li avevano 

menati in cattività (Sl 106:46). 

(m) Implora pietà in nome della loro 

relazione con Dio e della premura che Dio 

ha per loro: «Essi sono il tuo popolo, che 

tu hai ammesso nel tuo patto e sotto la tua 

cura e la tua guida, la tua eredità, da cui, 

piú che da qualunque altra nazione, proviene 

e si leva il tributo di lode a te (cfr. v. 

51). Li hai appartati da tutti i popoli affinché 

fossero tuoi, grazie ai notevoli favori 

che gli hai concesso» (v. 53). Infine, 

dopo questi particolari, conclude con una 

richiesta piú generale a Dio, di ascoltare la 

preghiera di tutte le persone del suo popolo 

in tutto quello che avrebbero chiesto 

(v. 52). Ora che siamo nel tempo della grazia, 

non possiamo lontanamente immaginare 

alcun luogo che possa aggiungere accettabilità 

alle preghiere, come era allora 

per il tempio. Il tempio era sono un’ombra: 

ora la realtà e la sostanza sono in 

Cristo; qualunque cosa chiederemo nel 

suo nome, ci sarà data. 

8:54-61 

Salomone, come fa anche nel suo sermone 

in Ecclesiaste, dove alla fine di 

tutto il discorso ci dà una conclusione sull’intera 

questione, allo stesso modo qui, 

dopo questa lunga preghiera, invoca la 

benedizione sul popolo. La pronunciò 

stando in piedi, per poter essere meglio 

udito e per poter benedire come uno che 

aveva autorità. Nessun altro discorso fu 

mai pronunciato in modo piú retto e pertinente. 

Probabilmente mai come allora ci 

fu una congregazione che venne congedata 

con qualcosa che l’avesse colpita e 

impressionata cosí profondamente. 

I. Salomone loda Dio per le grandi 

cose che ha compiuto per Israele (v. 56). 

Stava in piedi per benedire tutta la raunanza 

(v. 55), ma cominciò col benedire 

Dio, perché è importante ringraziare lui 

per ogni cosa. Vogliamo vedere Dio operare 

del bene per noi e i nostri cari? 

Sfruttiamo ogni occasione che si presenta 

per parlare bene di Lui e dell’opera sua. 

Salomone benedice Dio, dicendo che ha

1 Re 2:1-7 12 

Invio di due spie a Gerico 

dato a Israele non benessere, salute, gloria 

e potenza, ma riposo, come se quella 

fosse la benedizione piú preziosa di tutte. 

Chi ha ricevuto riposo, non sottovaluti 

tale benedizione, anche se ne desidera 

altre. Salomone confronta le benedizioni 

che Dio ha dato loro con le promesse 

fatte, affinché Dio riceva l’onore per la 

fedeltà alla sua parola data. 

1. Menziona le promesse da lui fatte 

per mezzo del suo servo Mosè, cosí come 

prima aveva rammentato quelle fatte a 

Davide (vv. 15, 24). Per mezzo di Mosè, 

Dio aveva elargito insieme ai precetti 

anche delle promesse. Passò del tempo 

prima che Dio desse a Israele il riposo 

promesso, ma alla fine, dopo molte prove, 

glielo concesse. Verrà il giorno in cui 

l’Israele spirituale di Dio si riposerà dalle 

sue fatiche. 

2. È come se Salomone avesse scritto 

un’attestazione in cui dichiarava di aver ricevuto 

i benefici promessi: Non una delle 

buone promesse da lui fatte è rimasta inadempiuta. 

E lo fa a nome di tutta Israele, 

alla gloria eterna della fedeltà divina, e 

l’incoraggiamento perpetuo di tutti quelli 

che si fondano sulle promesse divine. 

II. Nella benedizione per la congregazione 

Salomone include anche sé stesso, 

esprimendo il suo acceso desiderio e la 

speranza di ricevere queste quattro cose 

in particolare: 

1. La presenza di Dio nel loro mezzo, 

che costituisce l’assoluta felicità per una 

Chiesa, una nazione e ogni singolo individuo. 

Questa solenne congregazione presto 

si sarebbe sparsa per il paese, ed era 

molto probabile che non si sarebbero piú 

riuniti tutti insieme in questo mondo, perciò 

Salomone li congeda con questa benedizione: 

«L’Eterno sia con noi, e questo 

ci sarà molto di conforto quando saremo 

lontani gli uni dagli altri. L’Eterno, il nostro 

Dio, sia con noi, come fu coi nostri 

padri (v. 57); non ci lasci. E questo valga 

sia oggi per noi, e per sempre per la nostra 

progenie, cosí come è stato per quelli che 

ci hanno preceduti». 

2. Il potere della grazia divina su di 

loro. «Sia con noi e continui a esserlo, 

non perché debba allargare i nostri confini 

o far aumentare il nostro benessere, 

ma affinché inchini i nostri cuori verso di 

lui, affinché camminiamo in tutte le sue 

vie e osserviamo i suoi comandamenti (v. 

58)». Le benedizioni spirituali sono le migliori 

benedizioni che dovremmo bramare 

di ricevere. I nostri cuori sono per natura 

avversi al dovere, e inclini a farci deviare 

da Dio. È la sua grazia che li fa disporre 

verso di lui, la grazia che si riceve con la 

preghiera. 

3. Una risposta alla preghiera che 

aveva appena fatto. «Le parole di questa 

mia supplicazione all’Eterno siano giorno 

e notte presenti all’Eterno, all’Iddio nostro 

(v. 59. Possa ogni preghiera qui presentata 

ottenere una risposta favorevole, e 

possa esserci una risposta continua a questa 

richiesta». Quello che Salomone 

chiede in questa preghiera, adesso ci è 

concesso grazie all’intercessione di 

Cristo; e la supplica di Salomone ne era 

solo una figura. Le parole di quell’intercessione 

potente ed efficace sono giorno e 

notte presenti all’Eterno, poiché il nostro 

sommo Avvocato se ne occupa continuamente. 

Possiamo dipendere da colui che 

sostiene la nostra causa - contro l’avversario 

che ci accusa giorno e notte (Ap 12:10) 

- e la causa comune del suo popolo Israele 

(v. 59, ND), continuamente, in ogni occasione, 

secondo il bisogno, colui che pronuncia 

per noi la parola giorno per giorno, 

da cui riceveremo la grazia adeguata, appropriata 

e conveniente, secondo il bisogno 

di ogni giorno (ND). 

4. Vedere il nome di Dio glorificato con 

la diffusione del suo regno in mezzo agli 

uomini. «Possa Israele essere benedetta e 

favorita in questo modo, ma non per far diventare 

tutti i popoli suoi tributari 

(Salomone immagina il suo regno tanto 

grande come lo desidera), ma affinché tutti 

i popoli della terra riconoscano che 

l’Eterno è Dio (v. 60) e che lui solo è Dio, 

e vengano ad adorarlo». Qui finiscono le 

preghiere di Salomone, proprio come finiscono 

pure le preghiere di suo padre

Invio di due spie a Gerico 13 

1 Re 2:8-21 

Davide, figliolo d’Isai: E tutta la terra sia 

ripiena della sua gloria (Sl 72:19, 20). Non 

possiamo chiudere le nostre preghiere con 

una sintesi migliore di questa: Padre, glorifica 

il tuo nome (Gv 12:28). 

III. Salomone incarica solennemente il 

suo popolo a perseverare nel compimento 

del proprio dovere verso Dio. Dopo aver 

parlato a Dio in loro favore, adesso parla 

al popolo da parte di Dio, perché solo chi 

è reso addolcito con la predicazione può 

aspettarsi risultati migliori con la preghiera. 

Al momento di separarsi, la sua 

esortazione è: «Sia dunque il cuor vostro 

dato interamente all’Eterno, al nostro 

Dio (v. 61). Sia la vostra ubbidienza completa, 

non ridotta, integra, senza simulazioni, 

costante, senza cadute». Questa è il 

compimento dell’Evangelo. 

8:62-66 

Abbiamo letto in precedenza che 

Giuda e Israele mangiavano e bevevano, 

ed erano molto contenti all’ombra delle 

loro viti e dei loro fichi (cfr. 1 R 4:25). 

Qui li vediamo contenti come allora, nei 

cortili di Dio: adesso riconoscono che 

sono vere le parole di Salomone riguardo 

alle vie della Sapienza, e cioè che son vie 

dilettevoli (Pr 3:17). 

I. Erano grandemente gioiosi e contenti 

mentre assistevano ai servizi nella 

casa di Dio, infatti lí Salomone: 

1. Offrí un gran sacrificio (ventiduemila 

buoi e centoventimila pecore), abbastanza 

da esaurire le risorse di bestiame 

dell’intera nazione, se questa non fosse 

stata una terra davvero fertile e copiosa. I 

pagani si ritenevano molto generosi 

quando offrivano sacrifici a centinaia (li 

chiamavano ecatombi), ma Salomone li 

superò: ne offrí a migliaia. Quando Mosè 

dedicò il suo altare, gli animali per il sacrificio 

di ringraziamento furono in tutto 

180 fra: giovenchi, e montoni, capri e 

agnelli (Nu 7:88). Allora il popolo era povero, 

ma ora che il loro benessere era aumentato, 

ci si aspettava molto di piú da 

loro. Dove Dio semina in abbondanza, 

deve pure raccogliere in abbondanza. 

Tutti quei sacrifici non furono offerti in 

un solo giorno, ma durante i vari giorni 

della festa. Trenta buoi al giorno venivano 

serviti sulla tavola di Salomone, ma all’altare 

di Dio ne andavano a migliaia. 

Sono poche le persone inclini a spendere 

piú per la propria anima che per il proprio 

corpo. È probabile che Salomone offrisse 

al popolo la carne dei sacrifici di ringraziamento, 

che apparteneva a chi offriva il 

sacrificio. Cristo cibava quanti lo seguivano. 

L’altare di bronzo non era abbastanza 

grande da contenere tutti quei sacrifici. 

Pertanto per l’occasione furono 

costretti a offrirne molti nella parte di 

mezzo del cortile (v. 64). Secondo alcuni 

si fecero su altari di terra o di pietra costruiti 

per l’occasione e abbattuti alla fine 

della cerimonia solenne; secondo altri invece 

semplicemente a terra. Chi vuole essere 

generoso nel servire Dio, non deve 

essere frenato dalla mancanza di spazio o 

di occasioni per farlo. 

2. Tenne una festa, la Festa dei 

Tabernacoli, a quanto pare, dopo la festa 

della Dedicazione. Le due feste durarono in 

tutto quattordici giorni (v. 65), eppure nessuno 

disse: Ah, che fatica (Ml 1:13)! 

II. Si portarono a casa quella gioia e contentezza. 

Dopo essere stati congedati, benedissero 

il re (v. 66), lo applaudirono, lo ammirarono 

e lo ringraziarono da parte della 

congregazione, e poi se n’andarono alle loro 

tende allegri e col cuore contento, tutti sereni 

e soddisfatti. La bontà di Dio era il motivo 

della loro gioia, e anche per noi dovrebbe 

essere sempre cosí. Si rallegrarono 

per la benedizione di Dio sia sulla famiglia 

reale che sul regno. Allo stesso modo noi dovremmo 

andare a casa rallegrandoci per i decreti 

santi, e dovremmo andare per la nostra 

strada rallegrandoci della bontà di Dio verso 

il Signor Gesú (di cui Davide, suo servo, ne 

era figura, nell’avanzamento e nell’instaurazione 

del suo trono, in conformità al patto di 

redenzione) e verso tutti i credenti, la sua 

Israele spirituale, per la loro santificazione e 

consolazione, secondo il patto di grazia. Se 

su questa terra non ci rallegriamo del continuo, 

la colpa è solo nostra.

2 Re 22 14 

... 

CAPITOLO 22 

Questo capitolo dà inizio alla storia del regno 

del buon re Giosia. Lo splendore della sua bontà 

fu messo in evidenza dalla malvagità che lo aveva 

preceduto, che ebbe l’onore di riformare, e da una 

devastazione subito seguente, che non ebbe l’onore 

di prevenire. Dopo la descrizione del suo carattere 

(vv. 1, 2), abbiamo un’esposizione della 

considerazione riguardo a: 

I. La casa di Dio, alla quale provvide con delle 

riparazioni (vv. 3-7). 

II. Il libro di Dio, alla cui lettura fu incline (vv. 

8-11). 

III. I messaggeri di Dio, che consultò a proposito 

del libro (vv. 12-14). Dio rispose per mezzo 

dei messaggeri, minacciando la distruzione di 

Gerusalemme (vv. 15-17) ma promettendogli il 

suo favore (vv. 18-20), per il quale iniziò la gloriosa 

opera di riforma riportata nel capitolo seguente. 

2 RÈ 


Questo secondo libro dei Re (che la versione dei Settanta, iniziando la numerazione 

dai due libri di Samuele, definiva quarto libro dei Re) è una prosecuzione del precedente. 

Inoltre, a parere di alcuni, sarebbe stato piú opportuno che fosse principiato a 

partire dal cinquantunesimo versetto del capitolo precedente, quando ha inizio il regno 

di Acazia. Il primo libro dei Re ha un celebre inizio, ossia con il regno di Israele, ancora 

entità unica, all’apice della sua gloria. Ma tutto questo ha un esito infelice, vale a 

dire la rovina dei due regni, prima Israele e poi Giuda, cosí a lungo divisi: infatti, un 

regno diviso contro se stesso va inevitabilmente verso la distruzione. Nondimeno, 

come le opere potenti di Elia diedero lustro al primo libro dei Re, nella sua fase conclusiva, 

cosí pure questo secondo libro, nella sua parte iniziale, trova in Eliseo il suo 

momento di gloria. Entrambi questi profeti predominarono sugli stessi loro sovrani: 

per questo, dovunque essi andassero, la storia qui raccontata ha in loro il suo valore e 

la sua importanza. In essa ritroviamo: 

I. Elia che fa cadere il fuoco dal cielo e sale in cielo (2 R 1, 2). 

II. Eliseo che opera molti miracoli, sia per il re, sia per il popolo, tanto per gli 

Israeliti quanto per gli stranieri (2 R 3-7). 

III. Azael e Ieu unti re di Israele, il primo a correzione di Israele stesso, il secondo 

al fine di distruggere la casa di Acab ed eliminare il culto di Baal (2 R 8-10). 

IV. Il regno di un gran numero di re, appartenenti sia a Giuda sia a Israele (2 R 11- 

16). 

V. Il periodo di prigionia delle dieci tribú (2 R 17). 

VI. Il buono e glorioso regno di Ezechia (2 R 18-20). 

VII. Il malvagio regno di Manasse e quello, buono, di Giosia (2 R 21-23). 

VIII. La distruzione di Gerusalemme da parte del re di Babilonia (2 R 24, 25). 

Questa storia, in diversi suoi punti, è una conferma dell’osservazione compiuta dal re 

Salomone: La giustizia esalta una nazione, ma il peccato è la vergogna di qualsiasi 

popolo. 

22:1-10 

È scritto che Giosia: 

I. Era molto giovane quando iniziò a 

regnare: aveva solo otto anni (v. 1). 

Salomone scrisse: Guai a te, o paese il cui 

re è un fanciullo! O terra sei felice, però, 

quando il tuo re è un fanciullo come questo! 

L’Inghilterra nel passato fu governata 

da un re giovane quanto lui: Edoardo IV. 

Giosia, essendo giovane, non fu influenzato 

dall’esempio di suo padre e di suo 

nonno, ma riconobbe presto i loro errori e 

Dio gli diede la grazia di cogliere l’avvertimento 

insito nella loro fine (cfr. Ez 

18:14ss.) 

II. Fece ciò ch’è giusto agli occhi

dell’Eterno (v. 2). Il padre morí nei suoi 

peccati e il figlio fu un vaso eletto, a dimostrazione 

della sovranità della grazia 

divina. Si veda il trionfo di quella grazia: 

Giosia nacque da un padre malvagio, non 

ricevette alcuna buona educazione né 

alcun buon esempio, molti a lui vicini gli 

consigliarono senza dubbio di seguire le 

orme del padre e pochi gli diedero giusti 

consigli. Eppure la grazia di Dio fece di 

lui un santo, tagliato dall’ulivo per sua 

natura selvatico, e innestato nell’ulivo 

domestico (Ro 11:24). Niente è troppo 

difficile per quel tipo di grazia. Camminò 

lungo una strada buona e non deviò a destra 

né a sinistra (come fecero alcuni dei 

suoi predecessori che iniziarono bene). Ci 

sono errori su entrambi i lati, ma Dio lo 

mantenne nella strada giusta, non cadde 

né nella superstizione né nella profanità. 

III. Si preoccupò di riparare il Tempio. 

La riparazione fu eseguita nel diciottesimo 

anno del suo regno (v. 3, cfr. 2 Cr 

34:8). Aveva iniziato a cercare Dio da 

molto tempo prima (2 Cr 34:3), ma è probabile 

che l’opera di riforma fu lenta e incontrò 

molta opposizione, tanto da non 

permettergli di fare quanto desiderava e si 

riproponeva, finché il suo potere non fu 

consolidato. La considerazione del tempo 

inevitabilmente perduto quando siamo 

giovani dovrebbe stimolarci, una volta 

giunti all’età matura, a servire Dio con 

maggior vigore. Poiché abbiamo iniziato 

tardi, dobbiamo lavorare duro. Giosia 

mandò Safan, il segretario di stato, da 

Chilchia, il sommo sacerdote, per prendere 

nota del denaro raccolto per le riparazioni 

dai custodi della porta d’ingresso 

(v. 4). Sembra che per raccogliere i fondi 

usassero ancora lo stesso modo istituito 

da Ioas (2 R 12:9). Quando il popolo offriva 

un po’ per volta, il carico non risultava 

pesante e, dato che il contributo era 

volontario, non vi erano lamentele. 

Ordinò che il denaro cosí raccolto fosse 

impiegato per la riparazione del Tempio 

(vv. 5, 6). Sembrerebbe che gli operai si 

comportarono tanto bene (come ai giorni 

di Ioas) che non si fece loro rendere conto 

15 

2 Re 22 

(v. 7). Aver guadagnato una tale reputazione 

di onestà va certamente a lode degli 

operai, ma non so se questo vada anche a 

lode di chi li impiegava. Si dice che un 

uomo dovrebbe contare il denaro dopo 

suo padre e quindi non sarebbe stato inopportuno 

far loro rendere conto in modo da 

rendere visibile la loro onestà anche ad 

altri. 

IV. Durante la riparazione del Tempio 

il libro della legge fu trovato e portato al 

re (vv. 8-10). Alcuni pensano che questo 

libro fosse autografo, vale a dire il manoscritto 

originale, dei cinque libri di Mosè. 

Altri pensano fosse una copia antica e autentica. 

Piú probabilmente si trattava 

della copia conservata nel luogo santissimo 

per ordine di Mosè (De 31:24ss.). 

1. Sembra che questo libro della legge 

fosse stato perduto. Forse, fu messo da 

parte distrattamente e dimenticato in un 

angolo (come alcuni fanno con le loro 

Bibbie) da chi non ne conosceva il valore. 

Oppure, fu nascosto con malizia da qualche 

re idolatra o dai loro agenti, trattenuti 

dal bruciarlo e distruggerlo dalla 

Provvidenza di Dio o dalla propria coscienza. 

Lo seppellirono sperando che 

non avrebbe piú visto la luce. Oppure, 

come pensano altri, fu conservato con 

cura da chi lo aveva a cuore per evitare 

che cadesse nelle mani di chi lo avrebbe 

distrutto. Qualunque sia stato lo strumento 

della sua preservazione, dovremmo 

riconoscere in questo fatto la 

mano di Dio. Se questa era la sola copia 

autentica del Pentateuco esistente in quel 

periodo, che rischiò di essere distrutta, c’è 

da chiedersi se i cuori di tutte le persone 

rette non abbiano tremato per quel sacro 

tesoro, come fece Eli per l’arca, e possiamo 

essere certi di avere motivo di ringraziare 

Dio sulle ginocchia per la sua 

Provvidenza grazie alla quale Chilchia 

trovò il libro quando non lo cercava (Is 

65:1). Se le sacre Scritture non provenissero 

da Dio, non sarebbero state preservate 

fino ai nostri giorni. La cura di Dio 

per la Bibbia è una chiara indicazione di 

quanto sia importante per lui.

2 Re 22 16 

2. Sia che fosse l’unica copia autentica 

esistente sia che non lo fosse, sembra che 

quanto era contenuto nel libro risultasse 

nuovo al re e allo stesso sommo sacerdote 

poiché, dopo la sua lettura, il re si stracciò 

le vesti. Abbiamo ragione di pensare che 

né l’ordine di scrivere una copia della 

legge per il re, né l’ordine di leggerlo 

pubblicamente ogni sette anni (De 17:18; 

31:10, 11) fossero stati osservati per 

lungo tempo. Quando i mezzi istituzionali 

per il mantenimento della religione sono 

trascurati la religione stessa decade rapidamente. 

Eppure, d’altra parte, se il libro 

della legge fu perduto, è difficile determinare 

secondo quale regola Giosia procedette 

nel fare ciò ch’è bene agli occhi 

dell’Eterno e come i sacerdoti e il popolo 

mantennero i riti della loro fede. Si è inclini 

a pensare che il popolo conservasse 

dei riassunti della legge, come i nostri 

compendi degli statuti, forniti dai sacerdoti 

con una sorta di rituale per risparmiare 

a se stessi la fatica di scrivere e al 

popolo quella di leggere l’intero libro, 

guidandolo nell’adempimento della religione 

ma tralasciando quel che pensarono 

potesse essere considerato non indispensabile, 

come le promesse e le minacce (Le 

26; De 28ss.). È possibile rilevare che 

queste porzioni della legge ebbero un effetto 

del tutto rilevante sulla vita di Giosia 

(v. 13), come se per lui fossero nuove. 

Nessun riassunto, estratto o antologia 

della Bibbia, per quanto possa avere una 

qualche utilità, può essere efficace per 

trasmettere e conservare la conoscenza di 

Dio e della sua volontà quanto la Bibbia 

stessa. Considerando la scarsa considerazione 

in cui era tenuto il libro della legge, 

la corruzione del popolo non desta meraviglia. 

Dove manca questa visione il popolo 

perisce. Chi cercò di condurre il popolo 

alla dissoluzione usò, senza dubbio, 

tutto il suo ingegno per strappare quel 

libro dalle sue mani. La chiesa di Roma 

non potrebbe mantenere l’uso delle immagini 

se non proibisse l’uso della 

Scrittura. 

3. Il ritrovamento del libro della legge 

nel tempo opportuno fu un esempio del 

grande favore mostrato da Dio e un segno 

positivo per Giosia e la sua gente, affinché 

esso potesse essere la guida e lo stimolo 

quella riforma benedetta iniziata da 

Giosia. Dio dimostra di avere in serbo misericordia 

per il suo popolo quando glorifica 

la sua legge nel suo mezzo e gli fornisce 

gli strumenti per accrescere la conoscenza 

della Scrittura. La traduzione della 

Scrittura nelle lingue volgari fu la gloria, 

la forza e la gioia della Riforma dal papato. 

Si può osservare come gli uomini di 

Gerusalemme trovarono il libro della 

legge quando si dedicarono a un’opera 

buona, vale a dire la riparazione del 

Tempio. Chi fa il proprio dovere secondo 

la propria conoscenza, aumenterà il proprio 

sapere. A chi ha sarà dato. Il libro 

della legge fu una ricompensa abbondante 

per tutta la loro fatica e per la spesa nella 

riparazione del Tempio. 

4. Chilchia, il sacerdote, fu estremamente 

contento per la scoperta: «Oh», 

disse a Safan, «gioisci con me, poiché ho 

trovato il libro della legge! Eureka! 

Eureka! Ho trovato, ho trovato quel 

gioiello inestimabile. Ecco, portalo al re. 

Questo è il gioiello piú prezioso della sua 

corona. Leggilo in sua presenza. Egli 

cammina per la via di Davide suo padre 

e, se è come lui, amerà il libro della legge 

e lo accoglierà in qualità di delizia e consigliere». 

22:11-20 

Non è riportato altro della riparazione 

del Tempio. Senza dubbio quella buona 

opera continuò, ma in questo momento 

l’attenzione è occupata dal ritrovamento 

del libro della legge, e con buona ragione. 

Il libro non fu conservato nello studio del 

re come un pezzo d’antiquariato, una rarità 

da ammirare, ma fu letto in sua presenza. 

Chi studia la propria Bibbia e passa 

del tempo con essa quotidianamente, si 

ciba di quel pane, cammina alla sua luce e 

le dà l’onore che le spetta. Gli uomini 

onorati e gli uomini d’affari devono con-

siderare la conoscenza della parola di Dio 

l’onore piú elevato e il migliore affare. In 

questi versetti abbiamo: 

I. L’effetto che la lettura della legge 

sortí nella vita di Giosia. Il re si stracciò 

le vesti, come se si vergognasse dei peccati 

del suo popolo e temesse la collera di 

Dio. Da tempo riteneva che le condizioni 

del suo regno fossero malvagie, a motivo 

dell’idolatria e dell’empietà rilevate tra il 

popolo, ma leggendo il libro della legge si 

rese conto di non averle mai ritenute tanto 

cattive quanto erano in realtà. Lo stracciarsi 

le vesti simboleggiava lo spezzarsi 

del cuore, il disonore reso a Dio e la conseguente 

rovina che vide pronta ad abbattersi 

sul suo popolo. 

II. Il modo in cui si rivolse a Dio in seguito 

alla consapevolezza delle condizioni 

del popolo: Andate a consultare 

l’Eterno per me (v .13). 

1. È possibile supporre che desiderasse 

conoscere due fatti: 

(a) «Consultate l’Eterno e chiedetegli 

cosa dobbiamo fare, quale azione dobbiamo 

intraprendere per allontanare la 

collera di Dio e prevenire il giudizio che 

abbiamo meritato con i nostri peccati». La 

convinzione di peccato e dell’incombenza 

della collera dovrebbero spingerci a questa 

richiesta: Cosa dobbiamo fare per essere 

salvati? Con quali mezzi potremo andare 

alla presenza dell’Eterno? Se questo 

è ciò che desiderate chiedere, fatelo in 

fretta, prima che sia troppo tardi. 

(b) «Cosa possiamo aspettarci e a cosa 

dobbiamo provvedere». Giosia riconobbe: 

«I nostri padri non hanno ubbidito 

alle parole di questo libro. Se questa è la 

regola della giustizia, di certo siamo profondamente 

nel torto». Venuto il comandamento, 

il peccato prese vita e si rivelò 

come tale. Davanti allo specchio della 

legge, Giosia vide i peccati del suo popolo 

piú numerosi e piú gravi di quanto 

gli erano apparsi in precedenza, e molto 

piú peccaminosi. Da questo concluse che 

«certamente è grande l’ira dell’Eterno 

che s’è accesa contro di noi. Se questa è 

la parola di Dio, e senza dubbio lo è, e se 

17 

2 Re 22 

egli si atterrà alla sua parola, e senza dubbio 

lo farà, siamo tutti condannati. Adesso 

ho scoperto quanto sono severe le minacce 

della legge e terribili le maledizioni 

del patto. Non le avevo mai ritenute gravi 

fino a questo punto. È tempo di guardarci 

intorno e capire se esse sono già in moto 

contro di noi». Si noti come chi teme realmente 

il peso della collera di Dio non può 

non essere sollecito nell’ottenere il suo 

favore e desideroso di conoscere come 

potersi riconciliare con lui. I magistrati 

dovrebbero consultare l’Eterno per il loro 

popolo e studiare il modo in cui prevenire 

i giudizi di Dio che vedono incombere su 

di esso. 

2. Giosia inviò la domanda: 

(a) Per mezzo di alcuni degli uomini 

piú importanti del suo regno, nominati 

piú volte (vv. 12, 14). Onorò l’oracolo inviando 

uomini di alto rango per consultarlo. 

(b) A Ulda la profetessa (v. 14). Lo spirito 

di profezia, quel tesoro inestimabile, 

era talvolta messo non in vasi di terra ma 

nei vasi piú deboli affinché l’eccellenza 

della potenza potesse essere di Dio. 

Miriam aveva aiutato a condurre Israele 

fuori dall’Egitto (Mi 6:4), Debora lo giudicò 

e in questo periodo Ulda lo istruí 

nelle vie di Dio. Essere una moglie non 

pregiudicava il suo ministero di profetessa, 

il matrimonio sia tenuto in onore da 

tutti. Avere dei profeti, quando le 

Scritture erano rare, rappresentava una 

benedizione per Gerusalemme, poiché 

quando piú tardi la profezia cessò vi era 

un numero maggiore di Bibbie in circolazione. 

Dio non si lascia mai senza testimonianza 

poiché non vuole lasciare alcuna 

attenuante ai peccatori. Geremia e 

Sofonia profetizzarono in quel periodo, 

eppure i messaggeri del re scelsero Ulda 

quale loro oracolo, probabilmente perché 

suo marito aveva una posizione a corte 

(era il custode del guardaroba) e quindi la 

conoscevano da piú tempo e avevano 

maggiori garanzie sul suo mandato che su 

quello di qualsiasi altro. È probabile che 

l’avessero consultata in altre occasioni e

2 Re 22 18 

avessero constatato che le sue parole 

erano vere e provenivano da Dio. Era vicina, 

poiché abitava a Gerusalemme, in 

un luogo chiamato Misne, il secondo 

gruppo di costruzioni dal palazzo reale. 

Tra gli Israeliti si dice che profetizzasse 

tra le donne, le nobili della corte, essendo 

una di loro ed è probabile che avesse i 

suoi appartamenti in quel luogo. Felice la 

corte che ha una profetessa tra i suoi confini 

e sa come apprezzarla! 

III. La risposta ricevuta da Giosia in 

seguito alla sua richiesta. Ulda non usò un 

linguaggio da cortigiana: «Vi prego di 

portare a Sua Maestà i miei umili servizi 

e sappia che questo è il messaggio che ho 

per lui da parte del Dio di Israele». Usò 

invece il linguaggio di una profetessa, 

ossia parlando da parte di Dio, davanti al 

quale tutti si trovano sullo stesso livello: 

Dite all’uomo che vi ha mandati da me (v. 

15). Perfino i re, sebbene ci appaiano 

come dèi, sono uomini davanti a Dio ed 

egli li tratterà come tali poiché non ha riguardo 

a qualità di persone. 

1. Gli fece sapere quali giudizi Dio 

avesse in serbo per Giuda e 

Gerusalemme: la mia ira s’è accesa contro 

questo luogo (vv. 16, 17). Cos’è lo 

stesso inferno se non il fuoco dell’ira di 

Dio acceso contro i peccatori? Si osservi: 

(a) Il grado e la durata dell’ira. È accesa 

in modo che non si estinguerà. Il decreto 

è stato emanato ed è troppo tardi, 

ormai, per prevenirlo. L’iniquità di 

Gerusalemme non sarà scontata con sacrifici 

od offerte. L’inferno è un fuoco inestinguibile. 

(b) Il riferimento a: [1] I loro peccati: 

«Hanno peccato con premeditazione e di 

proposito per provocarmi a ira. Loro 

stessi hanno acceso il fuoco. Mi hanno 

voluto provocare e alla fine sono pervenuti 

al loro scopo». [2] Le minacce di 

Dio: «Il male che porto è commisurato 

alle parole del libro che il re di Giuda ha 

letto. La Scrittura si adempie in esso. Chi 

non vuole essere legato dai precetti sarà 

legato dalla punizione». I peccatori impenitenti 

scopriranno che Dio non è meno 

terribile di quanto la sua Parola lo rappresenta. 

2. Ulda fa sapere al re quale misericordia 

Dio ha in serbo per lui: 

(a) Ha preso nota della sua grande 

preoccupazione e della sua cura per la 

gloria di Dio e il benessere del suo regno: 

il tuo cuore è stato toccato (v. 19). Si noti 

il modo in cui Dio differenzierà chi si distingue. 

Il cuore della maggior parte del 

popolo era indurito e superbo, come 

quello dei re malvagi suoi predecessori, 

ma il cuore di Giosia era tenero. Si fece 

toccare dalla parola di Dio, tremò davanti 

a essa e le si arrese. Fu grandemente addolorato 

dal disonore fatto a Dio dai peccati 

dei suoi padri e del suo popolo. 

Temeva i giudizi di Dio che vedeva sopraggiungere 

su Gerusalemme, e deplorava 

severamente il fatto che si fosse 

giunti a quel punto. Questa è la tenerezza 

del cuore e in questo modo si umiliò davanti 

a Dio, esprimendo questi sentimenti 

pii stracciandosi le vesti e piangendo davanti 

a lui, probabilmente nella sua 

stanza. Colui che vede nel segreto, però, 

era davanti a lui e lo ascoltò, tenendo in 

gran considerazione ogni lacrima. Si noti 

come chi teme la collera di Dio abbia le 

minori probabilità di provarla. 

Sembrerebbe che le parole desolerò il 

paese (Le 26:32) ebbero un grande effetto 

su Giosia, infatti quando sentí della desolazione 

e della maledizione, vale a dire 

che Dio avrebbe abbandonato gli Israeliti 

e li avrebbe destinati al male (poiché fino 

a quando l’Eterno non giunse a questo 

essi non erano né desolati né maledetti), 

allora si strappò le vesti: la minaccia 

toccò il suo cuore. 

(b) Dio garantisce un rinvio della calamità 

fino alla morte di Giosia: io ti riunirò 

coi tuoi padri (v. 20). I santi in quel 

periodo avevano senza dubbio una confortante 

prospettiva di felicità oltre la 

morte, altrimenti l’essere riunito ai suoi 

padri non sarebbe stato tanto spesso l’oggetto 

di una promessa. Giosia non poté 

prevenire il giudizio stesso, ma Dio gli 

promise che non sarebbe vissuto tanto da

vederlo. Non sarebbe stata una grande ricompensa 

per la sua notevole pietà se non 

ci fosse stato un altro mondo in cui poter 

essere abbondantemente ricompensato 

(Eb 11:16), in particolar modo se si considera 

che morí nel bel mezzo della sua 

vita, prima di arrivare ai quarant’anni. 

Quando il giusto è sottratto al male che 

viene, entra nella pace (Is 57:1, 2). 

Questa è la promessa fatta a Giosia: te 

n’andrai in pace nel tuo sepolcro. Non si 

riferisce al modo in cui sarebbe morto 

19 

2 Re 22 

(poiché fu ucciso in battaglia), ma al 

tempo dell’avvenimento. Accadde poco 

prima della deportazione a Babilonia, la 

grande afflizione a confronto con la quale 

tutto il resto era niente, in modo che si potesse 

veramente dire che morí in pace, 

non vivendo abbastanza da sperimentare 

quel dolore. Morí nell’amore e nel favore 

di Dio, il quale assicura una pace che non 

può essere alterata né interrotta da nessuna 

circostanza di morte o di sopravvivenza 

sul campo di battaglia.

1 Cronache 15 20 

1 CRONACHE 


Nelle cose ordinarie, la ripetizione è ritenuta inutile e noiosa. Nelle cose sacre, al 

contrario, deve esserci insegnamento dopo insegnamento, linea dopo linea (Is 28:13 

Diodati). A me, dice l’apostolo, certo non è grave lo scrivervi le medesime cose, e per 

voi è sicuro (Fl 3:1). Questi libri delle Cronache sono in larga parte ripetizioni, cosí 

come il secondo e il terzo dei quattro Evangeli. Tuttavia, né lí né qui v’è alcuna inutile 

ridondanza. Forse qualcuno può pensare che di tutti quelli che costituiscono le Sacre 

Scritture, avremmo potuto fare a meno di questi due libri delle Cronache. Forse effettivamente 

se ne potrebbe fare a meno, ma a proprio danno: infatti, in essi si trovano molte 

cose estremamente utili che non vediamo da nessun’altra parte. Per quanto invece riguarda 

le cose che abbiamo già letto altrove, possiamo fare le seguenti considerazioni. 

1. Esse furono di grande utilità a coloro che vissero nel tempo in cui questi libri furono 

composti per la prima volta, prima che il canone dell’Antico Testamento fosse 

completato e tutte le sue parti venissero riunite insieme. Infatti, in questo modo si ricordavano 

gli eventi che erano stati narrati piú diffusamente negli altri libri. Come in 

materia di legge, cosí in materia divina, sunti, estratti e citazioni sono cose utili. Tutto 

ciò, onde essere certi che ciò ch’è stato già detto non sia stato detto inutilmente. 

2. È tuttora un bene che ogni parola sia confermata dalla bocca di due o di tre testimoni 

(2 Co 13:1), di modo che, essendo cosí ribadita, possa essere meglio ricordata. Si 

suppone che lo scrittore di questi libri sia stato Esdra, lo scriba versato nella legge di 

Mosè data dall’Eterno (Ed 7:6). È privo di fondamento il racconto riferito da uno scrittore 

apocrifo (2 Ed 14:21 ss. ) secondo il quale, poiché la Legge era andata tutta bruciata, 

Esdra fosse stato divinamente ispirato a riscriverla tutta daccapo, e che lo avrebbe 

fatto usando come fonte i libri delle Cronache, dove troviamo, se non la ripetizione dell’intero 

racconto biblico, i nomi dei suoi protagonisti. In ebraico, questi libri sono chiamati 

parole dei giorni, giornali, annali. Infatti, essi raccolsero, per direzione divina, il 

contenuto di documenti pubblici e autentici. Anche se la redazione avvenne dopo la cattività, 

in alcuni casi vengono mantenute le stesse espressioni degli originali che erano 

stati scritti prima della cattività medesima. Cosí avviene, per esempio, in 2 Cronache 

5:9, dove troviamo la frase “son rimaste quivi fino al dí d’oggi”, cosa che deve essere 

stata detta prima della distruzione del Tempio. La versione dei Settanta li chiama 

Paraleipomenon? che vuol dire cose che erano state tralasciate, taciute dagli storici precedenti. 

In effetti essi contengono alcune informazioni di questo genere. Sono la retroguardia, 

gli spigolatori di questo sacro campo, che raccolgono tutto ciò che era stato trascurato, 

affinché nulla vada perduto. In questo primo libro abbiamo: 

I. Una raccolta di genealogie sacre, da Adamo fino a Davide. Nessuna di esse fa parte 

di quelle che l’apostolo definisce genealogie senza fine (1 Ti 1:4). Infatti esse trovano 

utilità e fine in Cristo (1 Cronache, capitoli da 1 a 9). Qui sono inseriti anche alcuni 

brevi cenni storici che prima non abbiamo visto. 

II. Un nuovo resoconto di come il regno passò da Saul a Davide e dei trionfi del 

regno di Davide, con ampie aggiunte (1 Cronache, capitoli da 10 a 21). 

III. Un resoconto originale delle disposizioni date da Davide agli affari del culto e 

dei preparativi fatti per la costruzione del Tempio (1 Cronache, capitoli da 22 a 29). 

Queste sono parole dei giorni, dei giorni piú antichi e migliori della congregazione 

dell’Antico Testamento. I periodi di governo dei vari re e dei vari regni, cosí come le 

vite delle persone comuni, vengono indicati in termini di giorni. Infatti, talvolta in poco 

tempo possono avvenire grandi cambiamenti, e tuttavia, tutto il tempo è nulla in confronto 

all’eternità.

... 

CAPITOLO 15 

Il trasporto dell’arca nella città di Davide era 

stato un fatto molto lodevole ma soltanto deciso e 

tentato, non portato a compimento (1 Cr 13:4). A 

metà strada, era stata lasciata in casa di Obed- 

Edom. Adesso, questo capitolo ci fornisce un resoconto 

della conclusione di quella bella iniziativa. 

I. Come le cose furono fatte in maniera piú 

corretta rispetto alla prima volta. 

1. Fu predisposto un luogo (v. 1). 

2. I sacerdoti furono designati al trasporto (vv. 

2-15). 

3. Ai Leviti furono assegnati i compiti relativi 

al loro servizio (vv. 16-24). 

II. Come l’impresa fu portata a termine con 

miglior riscontro che in precedenza (v. 25). 

1. I Leviti non fecero alcun errore nel loro lavoro 

(v. 26). 

2. Davide e il popolo non subirono impedimenti 

alla loro gioia (vv. 27, 28). Per quanto riguarda 

il disprezzo manifestato da Mical ai danni 

di Davide, fu cosa da nulla (v. 29). 

15:1-24 

Vengono fatti i preparativi per il trasporto 

dell’arca dalla casa di Obed-Edom 

alla città di Davide. Qui si afferma che nel 

tentativo precedente, sebbene si trattasse 

di una cosa buona e avessero cercato Dio, 

non s’erano condotti secondo le regole 

stabilite (v. 13). «Non abbiamo agito con 

attenzione, ecco perché la cosa è finita 

cosí male». Non è abbastanza se facciamo 

ciò ch’è giusto: è pure necessario che lo 

facciamo bene; non è sufficiente che cerchiamo 

Dio nelle istituzioni che sono 

state stabilite: dobbiamo farlo come lui 

vuole, nell’ordine dovuto. Notiamo, 

anche, che quando patiamo per aver agito 

disordinatamente, da questo dobbiamo 

imparare a stare piú attenti: solo cosí 

avremo reagito correttamente allo scopo 

del castigo. Vediamo come fu messa a 

posto la faccenda. 

1. Questa volta Davide preparò un 

luogo adatto ad accogliere l’arca, prima di 

farla arrivare. Quindi, fece le cose con ordine. 

Non avendo tempo di costruire un 

edificio vero e proprio, drizzò una tenda 

per essa (v. 1) probabilmente secondo il 

21 

1 Cronache 15 

modello che era stato mostrato a Mosè sul 

monte, o quanto piú simile a esso, fatto 

con teli e assi. Osserviamo: Davide, 

quando si costruí delle abitazioni nella 

sua città, preparò anche un luogo per 

l’arca. Notiamo: qualunque cosa edifichiamo 

per noi stessi, dobbiamo essere 

certi di fare spazio all’arca di Dio, alla 

chiesa, in casa nostra. 

2. Questa volta, Davide ordinò che i 

Leviti o i sacerdoti portassero l’arca a 

spalla. Adesso fu piú attento a quello che 

non poteva non sapere già la prima volta, 

e cioè, che nessuno deve portare l’arca di 

Dio tranne i Leviti (v. 2). Negli spostamenti 

ordinari, l’incarico di trasportarla 

era assegnato ai figliuoli di Cheat. Per tale 

ragione, costoro non erano dotati di alcun 

carro, perché il loro compito era di portare 

gli oggetti sacri sulle spalle (Nu 7:9). 

Invece nelle occasioni straordinarie, 

come quando avevano passato il 

Giordano o circondato Gerico, a trasportarla 

erano stati i sacerdoti. Questa regola 

era data espressamente, ma Davide l’aveva 

dimenticata, e aveva messo l’arca 

sopra un carro. Notiamo: anche quelli che 

conoscono bene la Parola di Dio, non 

sempre ce l’hanno cosí presente come si 

vorrebbe, al momento in cui bisogna applicarla. 

Gli uomini saggi e buoni possono 

essere colpevoli di qualche svista; 

però, non appena se ne rendono conto, si 

correggono. Davide non cercò di giustificarsi 

per l’errore commesso, né cercò di 

far ricadere la colpa su altri, ma si dichiarò 

colpevole, con gli altri, di non aver 

cercato Dio nella maniera dovuta. Questa 

volta, non solo si preoccupò di convocare 

i Leviti all’evento solenne, come del resto 

fece con tutto Israele (v. 3) e come aveva 

già fatto nella precedente occasione (1 Cr 

13:2), ma si preoccupò di radunare i figliuoli 

d’Aaronne ed i Leviti (v. 4), e specialmente 

i primi (v. 11). A costoro diede 

un solenne incarico: voi siete i capi delle 

case patriarcali dei Leviti; quindi siete 

voi a dover trasportare l’arca dell’Eterno 

(v. 12). Ci si aspetta che coloro che sono 

promossi in dignità vadano davanti agli


altri nel dovere. «Voi siete i capi, e quindi 

da voi ci si aspetta di piú di quello che ci 

si aspetta da altri, sia nel vostro mettervi 

all’opera che nel saper incoraggiare gli 

altri. La prima volta non l’avete fatto; non 

avete fatto il vostro dovere, e non vi siete 

preoccupati di istruire noi, e per questo, 

abbiamo subito un danno: l’Eterno, il nostro 

Dio, fece una breccia fra noi; tutti noi 

siamo stati colpiti a motivo della vostra 

negligenza. Sono le vostre mani quelle 

che han fatto ciò (cfr. Ml 1:9), quindi santificatevi, 

e ponete mente a quello che dovete 

fare». Quando coloro che hanno sofferto 

per aver agito male imparano a fare 

meglio, la correzione è giunta a buon fine. 

3. I Leviti e i sacerdoti si santificarono 

(v. 14) e furono pronti a portare l’arca 

sulle loro spalle, secondo la legge (v. 15). 

Notiamo: molti che nel compiere il loro 

dovere sono trascurati, se fossero correttamente 

istruiti si correggerebbero e farebbero 

meglio. La breccia di Uzza rese 

tutti i sacerdoti ben piú attenti nel santificarsi, 

e cioè, nel purificarsi da tutte le 

contaminazioni cerimoniali, e a disporsi 

adeguatamente al solenne servizio da rendere 

a Dio, in modo da infondere riverenza 

in tutto il popolo. Alcuni diventano 

esempi affinché altri divengano esemplari 

e molto diligenti. 

4. Furono designati degli ufficiali che 

fossero pronti a dare il benvenuto all’arca, 

con ogni possibile manifestazione di gioia 

(v. 16). Davide ordinò al capo dei Leviti 

di indicare le persone piú adatte a questo 

servizio. Eman, Asaf ed Etan furono indicati 

per primi (v. 17). Essi iniziarono i 

suoni con cembali (v. 19), altri con salteri 

(v. 20), altri ancora con arpe e con cetre 

all’ottava, strumenti che suonavano 

un’ottava piú in alto o piú in basso degli 

altri, secondo le regole della melodia (v. 

21). Alcuni dei sacerdoti suonavano la 

tromba (v. 24), com’era d’uso quando si 

levava l’arca (Nu 10:8) e in occasione 

delle feste (Sl 81:3). Uno era incaricato 

del canto (v. 22), perché era capace, sapeva 

cantare bene e anche istruire gli altri. 

Notiamo: ciascuno, il dono che ha rice- 

vuto, dovrebbe farlo valere al servizio 

degli altri (1 P 4:10). Coloro che sono eccellenti 

in qualche capacità, non solo dovrebbero 

essi stessi usarla a beneficio di 

tutti, ma dovrebbero anche insegnare al 

prossimo, non temendo di mettere qualcun 

altro alla loro stessa portata. Fino a 

quel momento, questo modo di lodare 

Dio con gli strumenti musicali non era 

stato usato. Davide, essendo profeta, lo 

istituí per direzione divina e lo aggiunse 

alle altre regole carnali di quella dispensazione, 

come l’apostolo le definisce (Eb 

9:10). Il Nuovo Testamento continua ad 

avere il canto dei salmi, ma non ha stabilito 

la musica di chiesa. Alcuni furono designati 

per essere portinai (v. 18), altri, 

per essere portinai dell’arca (vv. 23, 24). 

Uno di questi fu proprio Obed-Edom, che 

sicuramente lo ritenne un posto d’onore e 

lo accettò come una ricompensa dell’ospitalità 

che aveva reso all’arca. Aveva 

avuto per tre mesi l’arca con sé, e quindi, 

ne era stato un po’ come il padrone di 

casa. Adesso, non potendo piú esserlo, 

tale era l’affetto che aveva per essa che fu 

ben lieto di diventarne il portinaio. 

15:25-29 

Una volta che tutto quanto era stato sistemato 

in vista del trasporto e dell’accoglienza 

dell’arca nella città di Davide, qui 

abbiamo il racconto della solenne celebrazione 

connessa alla rimozione d’essa 

dalla casa di Obed-Edom. 

I. Dio aiutò i leviti che la trasportavano. 

L’arca non era un gran peso, e 

quindi coloro che la trasportavano non 

avevano bisogno di un aiuto straordinario. 

Però, 

1. È bene riconoscere l’assistenza della 

divina Provvidenza anche in quelle cose 

che rientrano nella sfera delle capacità naturali. 

Se Dio non ci aiutasse non potremmo 

fare neppure un passo. 

2. In tutte le attività relative alla nostra 

fede dovremmo dipendere in maniera particolare 

dall’aiuto del Cielo (cfr. At 

26:22). Tutta la nostra capacità a compiere 

i doveri divini dipende da Dio.

3. I Leviti, ricordando la breccia di 

Uzza, erano probabilmente molto timorosi 

nel momento in cui si caricarono addosso 

l’arca. Ma Dio li aiutò, e cioè, li incoraggiò, 

mettendo a tacere le loro paure 

e rinvigorendo la loro fede. 

4. Dio li aiutò a fare il tutto con decoro 

e correttamente, senza alcun errore. Se riusciamo 

a svolgere i nostri doveri religiosi 

in modo tale da evitare brecce, e la 

vita ci viene risparmiata, dobbiamo essere 

riconoscenti a Dio che ci ha aiutato. 

Infatti, da noi stessi potremmo renderci 

colpevoli di qualche sbaglio fatale. I ministri 

di Dio che portano le cose sacre del 

Signore hanno un particolare bisogno dell’aiuto 

divino nel loro ministero, affinché 

Dio sia glorificato per loro mezzo e la 

chiesa ne sia edificata. Se Dio aiuta i 

Leviti, il popolo ne riceve il beneficio. 

II. Avendo sperimentato i segni della 

presenza di Dio con loro, gli offrirono sacrifici 

di lode (v. 26). Anche in questo egli 

li aiutò. Offrirono giovenchi e montoni, 

probabilmente per espiare l’errore precedente, 

di modo che esso non fosse piú ricordato 

contro di loro, oltre che in segno 

23 

1 Cronache 15 

di riconoscenza per l’aiuto che adesso stavano 

ricevendo. 

III. Furono manifestate grandi espressioni 

di gioia: si suonò musica sacra, 

Davide danzò, i cantori cantarono, il popolo 

comune diede in grida di gioia (vv. 

27, 28). Questo lo abbiamo già letto in 2 

Samuele 6:14, 15. Da questo impariamo 

che: 

1. Serviamo un signore buono, che è 

felice di vedere che i propri servi cantano 

mentre lavorano. 

2. I tempi di riforma nazionale sono, o 

dovrebbero essere, tempi di pubblica 

gioia. Sono indegni dell’arca coloro che 

non sono felici d’averla. 

3. Non c’è alcun motivo di scandalo se 

gli uomini in piú alto grado si dimostrano 

zelanti negli atti di devozione. In effetti, 

Mical disprezzò Davide (v. 15-29), ma il 

suo disprezzo sicuramente non rese lui 

spregevole. Non solo lui stesso non se ne 

curò, ma nessuno che fosse giusto e pio 

pensò male della sua persona. E perché 

dovremmo desiderare la stima di qualcuno 

che non è saggio e pio?


2 CRONACHE 


Questo libro inizia con il regno di Salomone e la costruzione del Tempio, e continua 

la storia dei re di Giuda fino alla cattività, concludendo poi con la caduta di quell’illustre 

monarchia e con la distruzione del Tempio. La monarchia della casa di 

Davide, essendo precedente nel tempo, era anche superiore per merito e dignità rispetto 

a tutte le famose quattro dinastie che sognava Nabucodonosor. La monarchia babilonese 

ebbe inizio con lo stesso Nabucodonosor, La testa d’oro sei tu (Da 2:38), e durò 

solamente settant’anni. La monarchia persiana, con diverse famiglie, durò per centotrent’anni; 

quella greca, nelle sue svariate diramazioni, circa trecento; e quella romana 

durò altri trecento anni. Tuttavia, considerando Davide un eroe piú grande di qualsiasi 

fondatore di queste monarchie, e Salomone un principe piú grandioso di tutti quelli che 

regnarono in quelle monarchie, la successione fu mantenuta con una discendenza diretta 

nel corso dell’intera monarchia, la quale ebbe una durata che va dai quattrocento 

ai cinquecento anni e, dopo una lunga eclissi, risplendette nuovamente nel regno del 

Messia per dare incremento all’impero e una pace senza fine al trono di Davide (Is 

9:6). Questa storia della monarchia ebraica, essendo piú autentica, è anche piú interessante 

e piú istruttiva della storia di qualsiasi altra monarchia. Nel primo e nel secondo 

libro dei Re si narrava la storia della casa di Davide insieme a quella dei re d’Israele, 

di cui in questi libri si parla di piú che dei re di Giuda. Qui, però, è narrata interamente. 

Sono molte le cose che in questo libro vengono ripetute, ma molti dei passaggi storici 

sono narrati piú dettagliatamente, in particolar modo quelli relativi alle questioni religiose. 

Si tratta infatti di una storia della chiesa, scritta per istruirci e per far sapere alle 

nazioni e alle famiglie che possono aspettarsi di prosperare solamente quando e se percorrono 

la via del dovere verso Dio. I re buoni, infatti, prosperarono sempre, mentre 

quelli malvagi soffrirono. In questo libro si legge la storia del regno pacifico di 

Salomone (vv. 1-9:31), di quello imperfetto di Roboamo (vv. 10:1-12:16); del breve ma 

intenso regno di Abiia (vv. 13:1-22), del lungo e felice regno di Asa (vv. 14:1-16:14), 

del regno pio e prospero di Giosafat (vv. 17:1-20:37); dei regni malvagi e di cattiva 

fama di Ieoram e Acazia (vv. 21:1-22:12), e dei regni instabili di Ioas e Amasia (vv. 

24:1-25:28); del lungo e prospero regno di Uzzia (vv. 26:1-23), del regno regolare di 

Iotam (vv. 27:1-9) e di quello profano e malvagio di Acaz (vv. 28:1-27); del misericordioso 

e glorioso regno di Ezechia (vv. 29:1-32:33), dei regni malvagi di Manasse e 

Amon (vv. 33:1-25); del regno riformatore di Giosia (vv. 34:1-35:27) e dei regni disastrosi 

del suoi figli (vv. 36:1-23). Mettendo insieme tutte queste cose, la verità di Dio 

risulterà evidente: Io onoro quelli che m’onorano, e quelli che mi sprezzano saranno 

avviliti (1 S 2:30). Il dott. Whiston, nella sua cronologia, afferma che i libri storici 

scritti dopo la cattività (vale a dire i due libri delle Cronache, Esdra e Neemia) contengono 

piú errori nei nomi e nei numeri di tutti i libri dell’Antico Testamento, a causa 

della noncuranza dei trascrittori. In ogni modo, anche se le cose stanno cosí, i fatti sono 

narrati con una precisione tale che possiamo essere certi che il solido fondamento di 

Dio rimane fermo (2 T 2:19) ugualmente.

... 

CAPITOLO 34 

Prima di assistere alla rovina di Giuda e di 

Gerusalemme dobbiamo ancora assistere ad alcuni 

anni gloriosi in cui sul trono sedeva Giosia. 

Con i suoi pii tentativi, Dio li mise alla prova ancora 

una volta. Se in questo avessero riconosciuto 

il loro giorno, il giorno in cui venivano visitati, e 

le cose che riguardavano la loro pace, e se le avessero 

sfruttate, avrebbero potuto evitare la rovina. 

Dopo questo regno, però, tutte queste cose furono 

nascoste ai loro occhi e i regni successivi portarono 

su di loro una desolazione totale. In questo 

capitolo abbiamo: 

I. Un resoconto generico del carattere di 

Giosia (vv. 1, 2). 

II. Il suo zelo nello sradicare l’idolatria (vv. 3- 

7). 

III. Il suo interesse nel restauro del Tempio 

(vv. 8-13). 

IV. Il ritrovamento del libro della legge e il 

buon uso che se ne fece (vv. 14-28). 

V. La lettura in pubblico della Legge al popolo 

e il rinnovamento del patto con Dio (vv. 29-33). 

Gran parte di queste cose sono già state riportate 

nel capitolo 22 del secondo libro dei Re. 

34:1-7 

Riguardo a Giosia, leggiamo che: 

1. Salí al trono molto giovane, quando 

aveva soltanto otto anni (anche se era un 

bambino non fu privato del suo diritto), e 

regnò per trentun anni (v. 1), un periodo 

notevole. Temo, però, che all’inizio del 

suo regno le cose fossero andate principalmente 

come nel regno di suo padre 

perché, essendo un bambino, sicuramente 

aveva lasciato la guida del regno ad altri. 

Cosí la riforma cominciò soltanto quando 

Giosia governava già da dodici anni, e 

quindi era molto piú grande (v. 3). Giosia, 

infatti, diversamente da Ezechia, non poteva 

dedicarcisi immediatamente. 

2. Regnò molto bene (v. 2), si rese gradito 

a Dio, camminò nella via di Davide, 

senza scostarsene né a destra né a sinistra 

(v. 2), poiché da entrambi i lati ci 

sono degli errori. 

3. Da giovane, a circa sedici anni, cominciò 

a cercare Dio (v. 3). Ci sono motivi 

per pensare che Giosia non avesse 

avuto un’educazione buona come quella 

25 

2 Cronache 34 

di Manasse (è già molto se quelli che lo 

circondavano non tentarono di corromperlo 

e di traviarlo); tuttavia, cercò Dio 

già da giovane. È dovere e interesse dei 

giovani, e in particolare è l’onore dei giovani 

di buona famiglia, non appena raggiungono 

l’età della ragione, cominciare 

a cercare Dio. Quelli che lo cercano presto, 

infatti, lo trovano. 

4. Nel dodicesimo anno del suo regno, 

quando probabilmente prese completamente 

nelle sue mani l’amministrazione 

del governo, Giosia cominciò a purificare 

Giuda e Gerusalemme dagli alti luoghi 

(v. 3) e dall’idolatria. Distrusse gli idoli, 

le statue, gli altari e tutti gli utensili usati 

per l’idolatria (vv. 3, 4). Non solo li mise 

da parte come aveva fatto Manasse, ma li 

fece a pezzi e li ridusse in polvere. Qui si 

dice che questa distruzione dell’idolatria 

ebbe luogo nel suo dodicesimo anno; nel 

libro dei Re (2 R 23:23), però, si dice che 

avvenne nel suo diciottesimo anno. 

Probabilmente l’opera fu cominciata nel 

dodicesimo anno; Giosia cominciò a eliminare 

l’idolatria, ma la sua opera buona 

incontrò opposizioni e cosí non fu portata 

a termine finché non ritrovarono il libro 

della Legge sei anni dopo. Tuttavia, qui 

l’opera intera è menzionata brevemente, 

mentre nel libro dei Re è descritta in 

modo piú ampio e dettagliato. Lo zelo di 

Giosia lo indusse a fare tutto questo, non 

solo a Giuda e a Gerusalemme, ma anche 

nelle città d’Israele in cui esercitava una 

qualche influenza. 

34:8-13 

Qui: 

1. Il re ordinò il restauro del Tempio (v. 

8). Una volta purificata la casa dalle sue 

corruzioni, Giosia cominciò a prepararla 

per le funzioni che vi si dovevano svolgere. 

Occorre fare la stessa cosa nel tempio 

spirituale del cuore, purificarlo dalle 

contaminazioni del peccato e poi rinnovarlo, 

in modo da trasformarci nell’immagine 

di Dio. Giosia, per questo, chiamò 

Dio l’Eterno, il suo Dio (v. 8). Quelli che 

amano Dio veramente, amano il sog-


giorno della sua casa (Sl 26:8). 

2. Ci si preoccupò effettivamente di 

questo. I Leviti andarono in giro per il 

paese raccogliendo denaro per questo e 

affidandolo ai tre fiduciari menzionati (v. 

8). Loro lo portarono al Sommo 

Sacerdote Chilchia (v. 9), e in seguito il 

denaro fu affidato ai direttori preposti ai 

lavori della casa dell’Eterno (v. 10), sia 

ai sovrintendenti che agli operai, i quali si 

impegnarono a compiere l’opera nella sua 

totalità, come si dice, o completamente 

(vv. 10, 11). Viene osservato che gli operai 

erano industriosi e onesti: facevano il 

loro lavoro con fedeltà (v. 12). Gli operai, 

se non sono attenti e diligenti, non sono 

totalmente fedeli, poiché in loro è riposta 

la fiducia che lo siano. Viene inoltre indicato 

che anche i sovrintendenti erano industriosi; 

infatti si dice che tutti coloro 

che furono assunti per ispezionare questi 

lavori erano abili a sonare strumenti musicali 

(v. 12). Non che le loro capacità 

musicali potessero servire a qualcosa nell’architettura, 

ma questo dimostrava che 

erano uomini intelligenti e operosi, e in 

particolare che il loro genio aveva una 

propensione per la matematica, cosa che 

li qualificava molto per questo incarico. 

Gli uomini intelligenti, quando usano la 

loro intelligenza per fare il bene, aiutare i 

loro amici e, quando ne hanno l’occasione, 

per servire la comunità, sono anche 

uomini saggi. Si osservi il modo in cui, in 

quest’opera, Dio dispensò i propri doni in 

modi diversi. C’erano, infatti, dei portatori 

di pesi (v. 13), fatti per il lavoro manuale 

e adatti al lavoro; c’erano degli altri 

(resi meliori luto di materiali piú pregiati) 

che avevano delle capacità musicali, e 

loro dirigevano tutti gli operai (v. 13), oppure 

erano segretari o commissari. I primi 

erano il braccio, mentre loro erano la 

mente. Avevano bisogno gli uni degli 

altri, e l’opera necessitava di entrambi. 

Chi dirige i lavori non deve disprezzare i 

portatori di pesi, mentre gli operai non devono 

lamentarsi di coloro che hanno il 

compito di dirigere i lavori. Ognuno, infatti, 

deve stimare e servire l’altro con 

amore, e lasciare che Dio abbia la gloria e 

che la chiesa goda dei benefici dei doni 

diversi e delle inclinazioni di entrambi. 

34:14-28 

L’intero paragrafo è già stato riportato 

nel libro dei Re (2 R 22:8-20), e non c’è 

nulla da aggiungere a ciò che è stato detto 

in precedenza. Tuttavia, 

1. Possiamo cogliere l’occasione per 

benedire Dio perché disponiamo di numerose 

Bibbie, che sono, o possono essere, 

nelle mani di tutti, perché il libro della 

Legge e l’Evangelo non sono andati perduti 

e non scarseggiano, e perché, in questo 

senso, la parola del Signore non è un 

bene prezioso. Le Bibbie sono gioielli 

ma, grazie a Dio, non sono rarità. La fonte 

dell’acqua della vita non è una sorgente 

turata, né una fontana chiusa, ma i suoi 

fiumi, in tutti i luoghi, rallegrano la città 

di Dio (Sl 46:4). Usus communis aquarum 

– Queste acque sono destinate alla 

comunità. Se le grandi cose della legge di 

Dio, essendo rese pubbliche in questo 

modo, dovessero essere considerate sconosciute, 

dovremmo rendere conto di 

molte cose! 

2. Possiamo imparare, ogni volta che 

leggiamo o ascoltiamo la Parola di Dio, a 

lasciare che colpisca il nostro cuore e lo 

pervada di un santo timore della maledizione 

di Dio che si rivela contro l’empietà 

e l’ingiustizia degli uomini, come successe 

al cuore tenero di Giosia. Quando 

ascoltò le parole della Legge, il re si 

stracciò i vestiti (v. 19) e Dio se ne compiacque 

molto (v. 27). Se ciò che contengono 

le Scritture per noi fosse qualcosa di 

nuovo, come lo era per Giosia, sicuramente 

farebbero un’impressione piú profonda 

su di noi di quella che fanno di solito. 

Tuttavia, non sono meno importanti, 

perciò non dobbiamo considerarle di 

meno solo perché le conosciamo bene. 

Stracciatevi il cuore, quindi, e non le vesti 

(Gl 2:13). 

3. Ci viene indicato di rivolgerci al 

Signore quando siamo condannati dal 

peccato e temiamo la maledizione divina.

Giosia, infatti, fece questo (v. 21). È nostro 

interesse domandare (come fecero i 

primi convertiti): Fratelli, che dobbiam 

fare? (At 2:37); e piú in particolare (come 

fece il carceriere): Che debbo io fare per 

esser salvato? (At 16:30). Se volete interrogare 

cosí, interrogate pure (Is 21:12), e 

sia benedetto Dio per gli oracoli viventi a 

cui possiamo rivolgere questi quesiti. 

4. Siamo avvertiti della rovina che il 

peccato porta sulle nazioni e sui regni. 

Quelli che abbandonano Dio si fanno del 

male da soli (vv. 24, 25), e accendono un 

fuoco che non si estinguerà (v. 25). Cosí 

sarà il fuoco della maledizione di Dio 

quando punirà quelli che persistono nelle 

vie malvagie con ostinazione e impenitenza. 

5. Siamo incoraggiati a umiliarci davanti 

a Dio e a cercarlo, come fece 

Giosia. Anche se cosí facendo non riuscissimo 

a fare allontanare la maledizione 

di Dio dalla nostra terra, comunque 

libereremo le nostre anime (vv. 27, 28). 

Inoltre qui alle persone pie viene insegnato 

a essere talmente lontani dal temere 

la morte, da darle piuttosto il benvenuto 

quando li toglie via per sottrarli ai mali 

che vengono (Is 57:1). Vediamo, infatti, 

come sono alterate le proprietà della 

morte rendendola il fulcro di una promessa: 

Sarai raccolto in pace nel tuo sepolcro 

(v. 28); e quando starà arrivando 

un diluvio, vivrai nell’arca, come Noè. 

34:29-33 

Qui leggiamo il resoconto degli ulteriori 

miglioramenti che fece Giosia nella 

riforma del suo regno dopo aver ascoltato 

la legge e dopo aver ricevuto il messaggio 

di Dio, mandatogli mediante una profetessa. 

Fortunato il popolo che ebbe un re 

del genere, poiché qui leggiamo che: 

1. Erano ben istruiti. Giosia non cercava 

di costringerli a fare il loro dovere 

prima di averli istruiti. Radunò tutto il popolo, 

grandi e piccoli, giovani e vecchi, 

ricchi e poveri, importanti e gente comune. 

Chi ha orecchi da udire oda le parole 

del libro del patto (v. 30), perché 

27 

2 Cronache 34 

queste parole riguardano tutti. Per onorare 

la funzione e per attirare maggiormente 

l’attenzione, nonostante fossero 

presenti sacerdoti e Leviti, il re in persona 

lesse davanti al popolo (v. 30), e senza 

dubbio lesse in modo da dimostrare di esserne 

lui stesso colpito: questo era un 

modo per colpire anche gli ascoltatori. 

2. Erano decisi. Dopo aver letto gli articoli 

del patto tra Dio e Israele, affinché 

potessero stipulare intelligentemente un 

patto con Dio, sia il re che il popolo, con 

grande solennità, sottoscrissero subito 

l’accordo. Il re si impegnò a osservare i 

comandamenti di Dio con tutto il cuore e 

tutta l’anima, secondo ciò che c’era 

scritto in quel libro (v. 31), ed esortò il 

popolo a approvare il patto promettendo 

solennemente di fare, mantenere e attenersi 

a tutto ciò che questo stabiliva; e il 

popolo ubbidí. Non potevano fare altrimenti. 

Giosia fece aderire al patto tutti i 

presenti (v. 32) e impose loro di servire 

all’Eterno, al loro Dio (v. 33) e a impegnarsi 

a farlo. Giosia fece tutto ciò che 

poteva per convincerli a servire. Era questa, 

infatti, l’unica cosa che gli interessava; 

Giosia, in tutto ciò che fece, cercava 

solamente di farli impegnare a fare il loro 

dovere davanti a Dio. 

3. Avevano delle buone inclinazioni, 

erano onesti e anche di bell’aspetto. 

Durante tutto il tempo della vita di Giosia 

essi non cessarono di seguire l’Eterno (v. 

33). Giosia, infatti, con grandi sforzi, impedí 

loro di ricadere nell’idolatria. Tutto il 

tempo della vita di Giosia fu un tempo di 

controlli, e questo indica che il popolo 

persiste a sviarsi da me (Os 11:7), è 

molto incline all’idolatria. Molti di loro 

desideravano soltanto che Giosia si togliesse 

di mezzo per poter ristabilire i loro 

alti luoghi e le loro statue. Di conseguenza 

leggiamo che al tempo del re 

Giosia (Gr 3:6) Dio diede la colpa a 

Giuda perché non era tornata a lui con 

tutto il suo cuore, ma con finzione (Gr 

3:10), anzi era andata a prostituirsi (Gr 

3:8), giustificando cosí la infedele Israele 

(Gr 3:11). Nel ventitreesimo anno di que-


sto regno, quattro o cinque anni dopo queste 

cose, continuavano a provocare Dio 

ad ira con tutte le opere delle loro mani 

(v. 25; cfr. Gr 25:3-7); inoltre occorre notare 

che fin dall’inizio della riforma di 

Giosia, cioè dal suo dodicesimo o tredicesimo 

anno di regno, l’iniquità della casa 

di Giuda, che la portò alla rovina e che il 

profeta avrebbe sopportato sdraiato sul 

suo fianco destro (Ez 4:6), era già presente. 

Infatti da quel momento alla distruzione 

di Gerusalemme passarono solo 

quarant’anni. Giosia fu sincero in ciò che 

faceva, ma la maggior parte della gente si 

opponeva e desiderava fortemente ritornare 

agli idoli. La riforma, quindi, seb- 

bene fosse stata ben organizzata e ben attuata 

dal principe, non ebbe grandi effetti 

sul popolo, il quale era riluttante a separarsi 

dagli idoli perché aveva il cuore ancora 

legato a loro. Dio vide queste cose, 

perciò da quel momento, quando si sarebbe 

potuto pensare che le fondamenta 

per una sicurezza e una pace perenni fossero 

state gettate, fu decretata la loro distruzione. 

Niente accelera la rovina di un 

popolo, né lo rende piú adatti a subirla, 

dell’impedire i tentativi speranzosi di riforma 

e del ritornare a Dio con ipocrisia. 

Non v’ingannate; non si può beffarsi di 

Dio (Gl 6:7).

... 

CAPITOLO 9 

Ora che Esdra ne era a capo, si può tranquillamente 

supporre che gli affari della comunità andassero 

molto bene. Se si considerano i fattori 

esterni, il governo era stato benevolo verso il popolo 

e non ci si lamentava di persecuzioni e oppressioni; 

per quanto riguarda i nemici degli Ebrei, 

o il loro cuore aveva cambiato inclinazione, o perlomeno 

avevano le mani legate. I loro vicini erano 

civili, e non si parlava di guerre, né di minacce di 

guerra; non c’era nessuno che li spaventasse e, 

considerando che erano pochi, poveri, e soggetti a 

un principe straniero, tutto andava a gonfie vele. 

Guardando ai fattori interni, non si sentiva parlare 

di Baal, o di Astarte, né di Moloc; non c’erano immagini 

scolpite, né idoli, né vitelli d’oro, e neppure 

alti luoghi (non solo non c’erano altari idolatri, ma 

neanche altari separati), ma il Tempio era doverosamente 

rispettato e i servizi vi si svolgevano accuratamente. 

Non andava tutto bene, però. Persino 

negli anni piú puri della chiesa ci sono state delle 

corruzioni, e non sarà mai senza ruga o cosa alcuna 

simile, finché non sarà una chiesa gloriosa e 

irreprensibile (Ef 5:27). Qui abbiamo: 

29 

ESDRA 

Esdra 

Iintroduzione 

In questo libro, la congregazione ebraica appare piuttosto diversa da come sembrava. 

La sua condizione, infatti, sembra migliore e piú confortevole di quella recente 

a Babilonia, ma è sempre di gran lunga inferiore alla sua condizione precedente. Le 

ossa secche qui rivivono, ma sotto forma di servo (Fl 2:7). Il giogo della cattività è eliminato, 

ma sui loro colli feriti ne rimangono i segni. Di re non si sente piú parlare; la 

corona gli è caduta dal capo (La 5:16). Israele gode della benedizione dei profeti, i 

quali ne guidano la restaurazione, ma dopo qualche tempo le profezie cessano, fino all’apparire 

del grande profeta e del suo precursore. La storia di questo libro narra il 

compimento della profezia di Geremia relativa al ritorno degli Ebrei da Babilonia al 

termine dei settant’anni, ma è anche un simbolo del compimento delle profezie 

dell’Apocalisse relative alla liberazione della chiesa dell’Evangelo dalla Babilonia del 

Nuovo Testamento. Esdra conservò il ricordo della grande rivoluzione, trasmettendolo 

alla chiesa mediante questo libro. Il suo nome significa aiutante, ed è questo infatti che 

fu per quel popolo. Nel capitolo 7 leggiamo un resoconto dettagliato riguardo a lui, e 

in cui lui stesso entra in azione. Il libro ci fornisce un resoconto: 

I. Del ritorno degli Ebrei dalla cattività (vv. 1, 2). 

II. Della costruzione del Tempio, nonostante le opposizioni che incontrò (vv. 3-6). 

III. Dell’arrivo di Esdra a Gerusalemme (vv. 7, 8). 

IV. Dell’opera buona che compí, obbligando quelli che avevano sposato donne straniere 

a ripudiarle (vv. 9, 19). Sebbene in questo nuovo inizio la nazione ebraica fosse 

esigua, alla fine aumentò considerevolmente. 

I. Una lamentela presentata a Esdra per i numerosi 

matrimoni con donne straniere (vv. 1, 2). 

II. La grande difficoltà in cui Esdra, e quelli 

che furono influenzati dal suo esempio, incontrarono 

in seguito a queste informazioni (vv. 3, 4). 

III. La solenne confessione del proprio peccato 

che Esdra fece davanti a Dio, con santo dolore e 

vergogna (v. 5-15). 

9:1-14 

Esdra, come Barnaba quando arrivò a 

Gerusalemme e vide la grazia di Dio mostrata 

ai suoi fratelli, senza dubbio si rallegrò, 

e li esortò tutti ad attenersi al 

Signore con fermo proponimento di cuore 

(At 11:23). Non vide nulla che non andava 

bene (molte corruzioni si celano anche 

agli occhi dei governatori piú vigili), ma la 

sua gioia fu offuscata quando fu informato 

che molte persone, e alcuni governanti, 

avevano sposato donne pagane, imparentandosi 

con gli stranieri. Si osservi: 

I. Qual era il peccato di cui erano colpevoli: 

Hanno mescolato la stirpe santa

Esdra 9 30 

coi popoli di questi paesi (v. 2), unendosi 

a loro, sia nel commercio, sia nelle relazioni, 

imparentandosi con loro e persino 

prendendo delle loro figliuole per sé e per 

i propri figliuoli (v. 2). Si spera che non 

adorassero i loro dèi, e che la cattività li 

avesse guariti dall’idolatria. In realtà si 

dice che si conformano alle abominazioni 

(v. 1) dei popoli vicini, ma qui questo 

(come afferma il dott. Patrick) indica soltanto 

il conformarsi ai pagani mediante 

matrimoni promiscui con donne degli altri 

paesi, cosa che gradualmente li avrebbe 

portati all’idolatria. In questo modo: 

1. Disubbidirono all’ordine esplicito di 

Dio che vietava ogni rapporto con i pagani, 

e in particolare i matrimoni (De 7:3). 

2. Profanarono il conseguimento della 

loro peculiarità e si misero sullo stesso 

piano di coloro sopra i quali Dio, mediante 

il segno singolare del proprio favore, 

sia in quel momento, sia in passato, 

li aveva innalzati. 

3. Non confidarono nel fatto che il potere 

di Dio li avrebbe protetti e fatti progredire, 

e si lasciarono governare da una 

politica carnale, nella speranza di rafforzarsi 

e guadagnare un’influenza sui loro 

vicini mediante queste alleanze. Alla radice 

di tutti gli spiacevoli mutamenti che 

facciamo per cavarcela, c’è una sfiducia 

concreta nella totale efficienza di Dio. 

4. Esposero se stessi e ancora di piú i 

loro figli al rischio di idolatria, che era 

proprio il peccato, introdotto nello stesso 

identico modo che aveva causato la rovina 

della loro congregazione e della loro nazione. 

II. Chi erano le persone colpevoli di 

questo peccato: non solo alcuni Ebrei 

sconsiderati che non erano in grado di fare 

di meglio, ma molti sacerdoti e Leviti (v. 

1), il cui compito era quello di insegnare la 

legge agli altri, e quindi, essendo superiori 

rispetto agli Israeliti comuni per loro fu un 

crimine piú grave. Per i figli di quella 

tribú, era vietato sposarsi con una donna di 

qualsiasi altra tribú, cosa che succedeva 

raramente, tranne che con donne della 

stirpe reale. Per loro, però, unirsi ai 

Cananei e agli Ittei - e non si sa a chi altri 

ancora - fu una offesa tale che, se avessero 

avuto un po’ di accortezza, magari non per 

il dovere, ma per l’onore, nessuno li 

avrebbe mai considerati capaci di esserne 

colpevoli. Questa non fu la cosa peggiore, 

però: I capi e i magistrati, che con il loro 

potere avrebbero dovuto evitare o correggere 

questo grave misfatto, sono stati i 

primi a commettere questa infedeltà (v. 2). 

Quando i principi peccano saranno ulteriormente 

accusati a causa dell’influenza 

che il loro esempio esercita sugli altri. 

Molti seguiranno le loro lascivie (2 P 2:2), 

ma povero è il popolo traviato e indotto 

nell’errore dai suoi capi. 

III. La notizia che fu riportata a Esdra 

a questo riguardo. Fu informato dalle persone 

piú adatte a lamentarsi, cioè dai principi 

che avevano mantenuto la loro integrità 

e dignità. Se loro stessi non fossero 

stati liberi da ogni biasimo, non avrebbero 

potuto accusare gli altri. La persona a cui 

riportarono la notizia aveva il potere di risolvere 

la questione e, essendo uno scriba 

versato nella legge di Mosè data 

dall’Eterno (Ed 7:6), poteva discutere con 

loro. Inoltre, essendo un commissario del 

re, poteva incutere loro rispetto. È probabile 

che questi principi avessero cercato 

spesso di correggere questo sbaglio, ma 

senza successo. Adesso, però, si rivolsero 

a Esdra, sperando che con la sua saggezza, 

autorità e influenza ci sarebbe riuscito lui. 

Quelli che non sono in grado di fermare 

gli abusi pubblici da soli, possono ugualmente 

compiere un’opera buona informando 

coloro che sono in grado di farlo. 

IV. L’impressione che la notizia fece su 

Esdra: Mi stracciai le vesti, mi strappai i 

capelli della testa, e mi misi a sedere, costernato 

(v. 3). In questo modo, espresse il 

senso profondo che aveva: 

1. Del disonore reso a Dio. Gli doleva 

il cuore pensare che un popolo che portava 

il suo nome potesse violare la sua legge in 

modo cosí grossolano, e potesse trarre 

cosí poco beneficio dalla sua correzione, 

rispondendo in modo talmente negativo ai 

suoi favori.

2. Del male che in questo modo il popolo 

aveva fatto a se stesso, e del pericolo 

che correva; l’ira di Dio, infatti, sarebbe 

ricaduta su di loro. Si noti che: 

(a) I peccati degli altri dovrebbero addolorarci, 

e il danno che viene fatto all’onore 

di Dio e alle anime degli uomini è ciò 

che dovrebbe starci a cuore. 

(b) Il dolore per il peccato deve essere 

un grande dolore. Per Esdra fu come per 

un figliuolo unico, o un primogenito (Gr 

6:26). 

(c) I vergognosi peccati dei maestri 

sono quelli che dovrebbero sconcertarci di 

piú. Possiamo stupirci di vedere gli uomini 

contraddirsi, screditarsi, pregiudicarsi 

e rovinarsi da soli; è strano, infatti, 

che gli uomini agiscano cosí sconsideratamente 

e senza coerenza! Gli uomini retti 

se ne stupiscono. 

V. L’influenza che il dolore di Esdra 

per la notizia ebbe sugli altri. Si può supporre 

che Esdra salí alla casa dell’Eterno 

per umiliarsi, perché nel suo dolore guardava 

a Dio, e quello era il luogo adatto per 

esprimere il suo disappunto. Tutti lo vennero 

subito a sapere, e tutte le persone devote 

e serie della zona si unirono a lui. A 

quanto pare lo fecero spontaneamente perché 

non si legge che fossero stati mandati 

a chiamare (v. 4). Si noti che: 

1. Tremare alle parole dell’Iddio 

d’Israele (v. 4) è una caratteristica delle 

persone buone, le quali tremano davanti 

all’autorità dei suoi precetti e alla severità 

e giustizia delle sue minacce; ed è su 

quelli che fanno cosí che Dio poserà lo 

sguardo (Is 66:2). 

2. Coloro che tremano alle parole 

dell’Iddio d’Israele (v. 4), non possono far 

altro che tremare a causa dei peccati degli 

uomini, mediante i quali la legge di Dio è 

violata e si incorre nella sua ira e nella sua 

maledizione. 

3. Il pio zelo di una persona contro il 

peccato può anche influenzarne molte 

altre, come afferma l’apostolo in un’altra 

occasione (2 Co 9:2). È possibile, infatti, 

che molte persone che non hanno considerazione, 

talento e coraggio sufficienti per 

31 

Esdra 9 

compiere un’opera buona seguano questo 

esempio. 

4. Tutte le persone buone devono riconoscere 

quelli che si schierano a favore di 

Dio e agiscono per la sua causa contro 

l’immoralità e la profanità, e devono stare 

al loro fianco facendo il possibile per rafforzarli. 

9:5-15 

Quali fossero state le meditazioni del 

cuore di Esdra durante le ore in cui sedeva 

costernato possiamo immaginarlo dalle 

parole che pronunciò quando alla fine 

parlò rivolgendo al Cielo le parole piú 

commoventi mai pronunciate. Si osservi: 

I. Il momento in cui fece questo appello: 

al momento dell’oblazione della 

sera (v. 5). In quel momento probabilmente, 

le persone devote erano solite entrare 

nei cortili del Tempio per onorare la 

solennità dell’oblazione e per presentare 

le loro preghiere a Dio. Esdra decise di 

pronunciare questa confessione davanti a 

loro, per renderli debitamente consapevoli 

dei peccati del loro popolo: di questi o non 

si erano accorti, oppure li avevano presi 

alla leggera. La preghiera può fungere 

anche da predica. Il sacrificio, specialmente 

quello della sera, era un simbolo 

della grande propiziazione, dell’Agnello 

di Dio che alla fine de’ secoli doveva annullare 

il peccato col suo sacrificio (Eb 

9:26); a lui probabilmente Esdra, quando 

rivolse a Dio il suo appello penitente, 

guardava con fede. Come era consuetudine, 

confessò ponendo la mano sul capo 

dell’olocausto attraverso il quale si ottiene 

la riconciliazione (Ro 5:11). Sicuramente 

Esdra conosceva bene il messaggio che, al 

momento dell’oblazione della sera, l’angelo 

Gabriele aveva riportato a Daniele 

qualche anno prima, e che sapeva che si riferiva 

al Messia, il Principe (Da 9:21, 24). 

Forse Esdra scelse quel momento proprio 

pensando a quell’episodio. 

II. La sua preparazione per questo appello. 

1. Mi alzai dalla mia umiliazione (v. 5). 

Si liberò del peso del suo dolore, come era

Esdra 9 32 

necessario fare per innalzare il proprio 

cuore a Dio. Si riprese dalla sua costernazione, 

in qualche modo calmò il tumulto 

del suo turbamento e il suo spirito si dispose 

alla comunione con Dio. 

2. Caddi in ginocchio (v. 5). Si mise 

nella posizione di penitenza e di umiliazione, 

implorando misericordia e rappresentando 

il popolo per il quale in quel momento 

faceva da intercessore. 

3. Stesi le mani (v. 5). Dimostrò coinvolgimento 

in ciò che stava per dire, offrendolo 

a Dio, aspettando e tendendo le 

braccia con fervide speranze di ricevere la 

sua risposta misericordiosa. Facendo questo, 

Esdra guardava a Dio, considerandolo 

l’Eterno, e considerando il suo Dio un Dio 

potente ma anche misericordioso. 

III. L’appello in sé. Non è opportuno 

considerarla una preghiera, poiché non si 

tratta di una richiesta. Tuttavia, se si considera 

la preghiera nella sua totalità, si sa 

che consiste nell’offrire sentimenti pii e 

devoti a Dio, e i sentimenti espressi da 

Esdra furono estremamente pii e devoti. Il 

suo appello è una confessione penitente di 

peccato: non quello di una coscienza appesantita 

dalla propria colpa e timorosa 

per il proprio pericolo, ma il peccato del 

suo popolo. Fu dunque un appello dettato 

da un interesse benevolo per l’onore di 

Dio e il benessere di Israele. Questo è un 

vero esempio di autentico ravvedimento. 

In questo appello occorre osservare: 

1. La confessione che fece Esdra del 

peccato e delle sue aggravanti, sulle quali 

insistette per suscitare nel proprio cuore e 

in quello di coloro che si erano uniti a lui 

un santo dolore, vergogna e paura nel considerarlo, 

affinché tutti potessero esserne 

profondamente umiliati. Inoltre occorre 

osservare che, sebbene lui non fosse assolutamente 

colpevole di questo peccato, si 

annoverò ugualmente tra i peccatori perché 

apparteneva alla stessa comunità: le 

nostre iniquità e la nostra colpa (v. 6). 

Forse, in quel momento considerò una sua 

colpa il fatto di essere rimasto cosí a lungo 

con i suoi fratelli a Babilonia, senza lasciare 

quella terra appena possibile. 

Quando lamenta la malvagità dei corrotti è 

possibile che, riflettendo doverosamente 

su noi stessi e lasciando che i nostri cuori 

ci parlino sinceramente, si trovi qualcosa 

della stessa natura, seppur in un grado minore, 

di cui ci si è resi colpevoli. In ogni 

modo Esdra pronunciò quella che era, o 

avrebbe dovuto essere, una lamentela generale. 

(a) Riconobbe che i loro peccati erano 

molto gravi: Le nostre iniquità si son moltiplicate 

fino al disopra del nostro capo (v. 

6). «Siamo pronti a morirci, come in 

acque profonde»; talmente erano prevalenti, 

talmente potenti e con conseguenze 

cosí fatali. «La nostra iniquità ha raggiunto 

un livello cosí alto che arriva fino 

al cielo, è cosí tanto impudente da sfidare 

il cielo, e talmente provocatoria che, come 

il peccato di Sodomia, grida vendetta al 

cielo». Tuttavia, il conforto di coloro che 

si ravvedono sinceramente è che, anche se 

i loro peccati arrivano al cielo, la benignità 

di Dio va fino al cielo (Sl 36:5). Dove il 

peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata 

(Ro 5:20). 

(b) Avevano persistito a lungo nel peccato: 

Dal tempo dei nostri padri fino al dí 

d’oggi siamo stati grandemente colpevoli 

(v. 7). Esdra considerava l’esempio di 

quelli che li avevano preceduti una notevole 

aggravante del loro peccato: 

«Avremmo dovuto imparare a non inciampare 

sulla medesima pietra. La corruzione 

è peggiorata cosí tanto che si è profondamente 

radicata e comincia a implorare una 

prescrizione, ma in questo modo abbiamo 

motivo di temere che la misura dell’iniquità 

sia pressoché colma». 

(c) Le punizioni gravi e dolorose con 

cui Dio li aveva colpiti a causa dei loro 

peccati li aggravarono molto: A motivo 

delle nostre iniquità, noi siamo stati dati 

in balia della spada e dell’esilio (v. 7). 

«Tuttavia, non ci siamo ancora ravveduti, 

né corretti: seppur pestati in un mortaio, la 

nostra follia non ci ha lasciati (Pr 27:22), 

siamo stati corretti, ma non recuperati». 

(d) Similmente, anche gli ultimi atti di 

misericordia mostrati da Dio aggravarono

molto i loro peccati. Su questo, infatti, 

Esdra insistette considerevolmente (vv. 8, 

9). Si osservi: [1] Il momento della misericordia: 

per un breve istante (v. 8), cioè, 

«È da poco che abbiamo ricevuto la libertà, 

ma probabilmente non durerà a 

lungo». Il fatto che solo poco tempo prima 

fossero stati nella fornace e che non sapessero 

che presto ci sarebbero potuti tornare 

di nuovo, aggravò moltissimo il loro 

peccato. D’altronde potevano forse sentirsi 

al sicuro? [2] La fonte di misericordia: 

l’Eterno ci ha fatto grazia (v. 8). Gli 

strumenti del loro ampliamento erano stati 

i re di Persia. Esdra, però, lo ascrive a Dio 

e alla sua grazia gratuita, senza riconoscere 

alcun merito proprio. [3] Gli atti di 

misericordia, grazie ai quali «Dio non ci 

abbandonò in mezzo al nostro servaggio 

(v. 8), ma persino a Babilonia avevamo 

dei segni della presenza di Dio». Inoltre 

per grazia di Dio furono un residuo 

d’Israele, alcune persone scelte fra molti, 

scampate con fatica dalle mani dei nemici 

grazie al favore dei re di Persia; e, soprattutto, 

sempre per grazia, Dio concesse un 

asilo nel suo santo luogo (v. 8), cioè 

(come è spiegato nel versetto 9), diede 

loro la possibilità di ricostruire la sua casa. 

Inoltre la loro religione fu stabilita e il servizio 

del Tempio assunse un andamento 

regolare. Occorre riconoscere che avere 

opportunità fisse di adorare Dio è un 

grande conforto e un grande vantaggio. 

Beati quelli che abitano nella casa di Dio, 

come Anna, che non lasciò mai il Tempio. 

Questo è il mio luogo di riposo in eterno, 

dice l’anima clemente (Sl 132:14). [4] Gli 

effetti di tutto questo. I loro occhi furono 

illuminati e i loro cuori ravvivati; in altre 

parole per loro fu un bene, e fu giustamente 

cosí, visto che erano schiavi: per 

loro fu una vita d’infra i morti (Ro 11:15). 

Sebbene fosse soltanto un po’ di respiro 

(v. 8), considerando che non se lo meritavano 

e che il giorno delle piccole cose era 

una garanzia di cose piú grandi, fu un 

grande favore. «Ora - disse Esdra - come 

siamo ingrati a offendere un Dio che con 

noi è stato cosí buono! Com’è disonesto 

33 

Esdra 9 

unirsi nel peccato alle nazioni da cui, grazie 

a una meravigliosa misericordia, 

siamo stati liberati! Com’è sciocco esporci 

al disappunto di Dio quando siamo messi 

alla prova dai vantaggi del suo favore e la 

sua continuazione dipende dalla nostra 

buona condotta!». 

(e) Il fatto che si contrapponesse a un 

comando esplicito fu un’ulteriore aggravante 

del peccato: Abbiamo abbandonati i 

tuoi comandamenti (v. 10). Era risaputo 

che non sposarsi con dei membri di famiglie 

di incirconcisi era un’antica legge 

della casa di Giacobbe (Ge 34:14). Inoltre, 

però, Dio lo aveva severamente proibito. 

Esdra, infatti, cita il comandamento (vv. 

11, 12). Quando lo confrontiamo con la 

legge che viene violata, il peccato si rivela 

tale, e appare estremamente grave. 

L’ordine non poteva essere piú esplicito: 

Non date le vostre figliuole ai loro figliuoli, 

e non prendete le loro figliuole per 

i vostri figliuoli (v. 12). Il motivo addotto 

era che, se si fossero mescolati a quelle 

nazioni, si sarebbero contaminati. Era una 

terra impura, e loro erano un popolo santo; 

ma se fossero rimasti separati da loro, per 

loro sarebbe stato un onore e una sicurezza, 

e la loro prosperità si sarebbe perpetuata. 

Violare un comandamento cosí 

esplicito, basato su delle motivazioni del 

genere e che era una legge fondamentale 

della loro costituzione fu un gesto estremamente 

provocatorio nei confronti del 

Dio del Cielo. 

(f) Con le punizioni che erano già state 

loro inflitte a causa dei loro peccati, Dio li 

aveva puniti meno severamente di quanto 

le loro iniquità avrebbero meritato (v. 13). 

Esdra, quindi, li considerava ancora in debito 

per l’antico conto: «Cosa?! Vogliamo 

accumulare delle nuove colpe? Dio è stato 

cosí benevolo da correggerci, e noi non 

vorremo mica abusare del suo favore e trasformare 

la sua grazia in dissolutezza?». 

Dio, nella sua grazia e misericordia, riguardo 

alla cattività di Sion aveva detto: 

Ella ha ricevuto dalla mano dell’Eterno il 

doppio per tutti i suoi peccati (Is 40:2); 

Esdra, però, con un senso di pentimento

Esdra 9 34 

per l’estrema malvagità del loro peccato, 

riconobbe che, sebbene la punizione fosse 

stata molto grande, era inferiore a ciò che 

si sarebbero meritati. 

2. I sentimenti di devozione che mossero 

Esdra a fare questa confessione. 

Parlando del peccato: 

(a) Espresse molta vergogna. 

Cominciò dicendo: O mio Dio, io son confuso; 

e mi vergogno, o mio Dio, d’alzare a 

te la mia faccia (v. 6). Si noti che: [1] Il 

peccato è una cosa vergognosa. Non appena 

i nostri primi genitori ebbero mangiato 

il frutto proibito, infatti, si vergognarono. 

[2] La santa vergogna, nel ravvedimento 

vero e sincero, è un ingrediente necessario 

come il santo dolore. [3] I peccati 

degli altri dovrebbero farci vergognare, e 

dovremmo arrossire per coloro che non arrossiscono 

da soli. Possiamo tranquillamente 

vergognarci di avere qualsiasi rapporto 

con quelli che sono ingrati a Dio e 

che non si comportano in modo saggio, e 

questo significa giustificazione (2 Co 

7:11). [4] I peccatori che si ravvedono non 

vedono mai un motivo di arrossire e vergognarsi, 

come nel momento in cui occorre 

alzare la faccia a Dio. Quando si fa 

qualcosa di sbagliato, la sensazione naturale 

di aver danneggiato il nostro orgoglio 

ci fa vergognare di guardare in faccia gli 

uomini. L’interesse misericordioso per 

l’onore di Dio, però, ci farà vergognare 

ancora di piú di guardare in faccia lui. Il 

pubblicano, quando andò al Tempio a pregare, 

abbassò il capo piú che poteva, dimostrando 

vergogna (Lu 18:13). Guardare 

a Dio come nostro Dio ci aiuta moltissimo 

a pentirci. Esdra cominciò dicendo, O mio 

Dio (v. 6), ripetendolo poi di nuovo nella 

stessa frase. Considerare come nostro Dio 

il Dio con cui siamo in relazione mediante 

un patto, ci aiuta a abbassarci e a struggerci 

a causa del peccato, perché peccando 

violiamo sia i suoi precetti per noi, 

sia le nostre promesse a lui. Inoltre, questo 

ci incoraggia anche a sperare nel perdono 

in seguito al ravvedimento: «È il mio Dio, 

nonostante questo; e qualsiasi violazione 

del patto non mi esclude dal patto». 

(b) Esdra parlò con grande stupore: 

Che diremo noi dopo questo? (v. 10). «Io 

non so cosa dire: se Dio non ci aiuta, 

siamo rovinati». Le rivelazioni della colpa 

suscitano stupore: piú si pensa al peccato, 

piú sembra terribile. La difficoltà della situazione, 

inoltre, suscita stupore. Come 

faremo a rimediare? In che modo potremo 

riappacificarci con Dio? [1] Quelli che si 

pentono veramente non sanno cosa dire. 

Possiamo forse dire a Dio che non abbiamo 

peccato, o che Non ne farai ricerca? 

(Sl 10:13). Facendolo, inganniamo 

noi stessi, e la verità non è in noi (1 Gv 

1:8). Possiamo forse chiedere a Dio di 

aver pazienza con noi, dicendo che rimedieremo 

con le migliaia de’ montoni, o il 

primogenito per la mia trasgressione? 

(Mi 6:7). Dio non si lascerà ingannare, 

perché sa che siamo insolventi. Possiamo 

forse dire: Lasciatemi stare! M’avvenga 

quello che può! (Gb 13:13)? Cosí facendo 

peggioreremmo soltanto la situazione. [2] 

Coloro che si ravvedono sinceramente 

pensano a quello che dicono e, come fece 

Esdra, dovrebbero implorare Dio affinché 

li istruisca. «Cosa possiamo dire?». Dite: 

«Ho peccato; mi sono comportato da 

sciocco; Dio sii misericordioso verso di 

me, che sono un peccatore; o cose simili» 

(cfr. Os 14:2). 

(c) Espresse un grande timore. «Dopo 

tutte le punizioni che ci sono state inflitte 

affinché smettessimo di peccare, e dopo 

tutte le volte che siamo stati liberati affinché 

ci impegnassimo verso Dio e nel nostro 

dovere, se ricominceremo di nuovo a 

violare i tuoi comandamenti e ad imparentarci 

coi popoli che commettono queste 

abominazioni, comportandoci come loro, 

cos’altro possiamo aspettarci, se non che 

l’ira di Dio si infiammi contro di noi sino 

a consumarci (v. 14), e che non venga risparmiato 

neppure un residuo e che nessuno 

scampi alla distruzione?». Per un popolo 

non esiste un presagio di rovina piú 

sicuro e piú triste dell’abbandonarsi al 

peccato, commettendo sempre gli stessi 

misfatti anche dopo grandi punizioni e 

grandi liberazioni. Quelli che non si la-

sciano persuadere né dalle punizioni, né 

dalle liberazioni, infatti, è giusto che siano 

rigettati, come argento di rifiuto perché 

invano si cerca di raffinare (Gr 6:29, 30). 

(d) Esdra dimostrò grande sicurezza 

nella giustizia di Dio, e decise di affidarcisi 

lasciando la questione nelle mani di 

colui il cui giudizio è conforme alla verità 

(Ro 2:2): «Tu sei giusto (v. 15), saggio, 

corretto e buono. Tu non ci farai né un 

torto, né sarai duro con noi, perciò eccoci 

dinanzi a te (v. 15), siamo ai tuoi piedi, e 

attendiamo il tuo giudizio. Noi non potremmo 

sussistere nel tuo cospetto (v. 15), 

insistendo sulla nostra giustizia senza 

avere delle prove a nostro favore che ci 

scagionino, perciò cadiamo ai tuoi piedi, 

nel nostro peccato, e ci rimettiamo alla tua 

misericordia. Facci tutto quello che a te 

piace (Gc 10:15). Non abbiamo nulla da 

dire, non c’è niente da fare, tranne che 

chiedere mercé al mio giudice (Gb 9:15)». 

Cosí il buon Esdra presentò il proprio dolore 

a Dio e lo lasciò nelle sue mani. 

CAPITOLO 10 

In questo capitolo si pone rimedio all’ingiustizia 

di cui ci si lamentava e ci si doleva nel capitolo 

precedente. Si osservi: 

I. Il modo in cui i cuori degli uomini furono 

preparati per essere corretti mediante una profonda 

umiliazione a causa dei loro peccati (v. 1). 

II. La proposta di Scecania a Esdra (vv. 2-4). 

III. Il modo in cui fu messa in pratica la proposta. 

1. I grandi uomini dovettero giurare di attenercisi 

(v. 5). 

2. Esdra fu il primo a metterla in atto (v. 6). 

3. Fu indetta un’assemblea generale (vv. 7-9). 

4. In conformità alle esortazioni di Esdra, tutti 

aderirono alla riforma (vv. 10-14). 

5. Furono nominati dei commissari affinché, de 

die in diem – giorno dopo giorno, si informassero 

su chi aveva sposato donne straniere e lo obbligassero 

a ripudiarle. Cosí avvenne (vv. 15-17), e furono 

trovate molte persone colpevoli di questo 

peccato (vv. 18-44). 

10:1-5 

Qui si riferisce: 

I. La buona impressione che l’umiliazione 

e la confessione di peccato di Esdra 

35 

Esdra 10 

fecero sul popolo. Non appena in città si 

sentí dire che il loro nuovo governatore, 

del quale si erano rallegrati, era cosí tanto 

addolorato a causa loro e del loro peccato, 

si radunò intorno a lui una grandissima 

moltitudine di gente d’Israele per vedere 

cosa stava succedendo e piangere insieme 

a lui (v. 1). Forse piangere per i peccati 

delle altre persone può far piangere per sé 

quelli che altrimenti continuerebbero in 

modo insensibile e senza rimorsi. Si osservi 

l’influenza benefica che i buoni 

esempi delle persone importanti possono 

avere sui loro inferiori. Quando Esdra, che 

era uno scriba, uno studioso, un uomo autorevole 

al servizio del re, si addolorò cosí 

profondamente per la corruzione della comunità, 

loro si resero conto di essere veramente 

molto deplorevoli, altrimenti lui 

non si sarebbe dispiaciuto cosí tanto per 

loro. Questo, inoltre, fece piangere tutti: 

vedere Esdra cosí affranto, uomini, donne 

e fanciulli; e il popolo piangeva dirottamente 

(v. 1). 

II. La mossa positiva che fece Scecania 

in quest’occasione. Il luogo era Bochim, il 

posto di chi piange. Tuttavia, a quanto 

sembra, tra loro c’era un profondo silenzio, 

come tra gli amici di Giobbe quando 

nessuno di loro gli disse verbo, perché vedevano 

che il suo dolore era molto grande 

(Gb 2:13); finché Scecania - uno dei compagni 

di Esdra a Babilonia (Ed 8:3, 5) - 

non si alzò e pronunciò un discorso rivolto 

a Esdra in cui: 

1. Riconobbe la colpa del popolo riassumendo 

in una frase l’intera confessione 

di Esdra e confermando che aveva ragione: 

Noi siamo stati infedeli al nostro 

Dio, sposando donne straniere (v. 2). «La 

cosa è troppo ovvia per essere negata e 

troppo malvagia per essere giustificata». 

Non sembra che lo stesso Scecania fosse 

colpevole di questo peccato (se nel suo occhio 

ci fosse stato il bruscolo, non sarebbe 

stato in grado di trarlo dall’occhio di suo 

fratello), ma suo padre, e alcuni di quelli 

che appartenevano alla sua casa, lo erano 

(v. 26), perciò si annoverò tra i trasgressori. 

Scecania, inoltre, non cercò neppure

Esdra 10 36 

La conquista di Gerico 

di giustificare o trovare delle attenuanti 

per il peccato, anche se alcuni suoi parenti 

erano colpevoli; anzi, nella causa del suo 

Dio dice di suo padre e di sua madre: «Io 

non li ho visti», come fece Levi (De 33:9). 

Forse la straniera che aveva sposato suo 

padre, era stata con lui una matrigna ingiusta 

e aveva fatto del male alla famiglia, 

perciò Scecania presumeva che le altre 

avessero fatto la stessa cosa, e questo lo 

rese ulteriormente sollecito a schierarsi 

contro questa corruzione. Se fosse stato 

cosí, questa non fu l’unica volta che dei risentimenti 

privati venivano usati dalla 

Provvidenza divina per servire il bene 

della comunità. 

2. Incoraggiò se stesso e gli altri a sperare 

che, anche se la situazione era difficile, 

si poteva rimediare: Nondimeno rimane 

ancora, a questo riguardo, una speranza 

a Israele (v. 2); d’altronde dove poteva 

esserci speranza se non in Israele? 

Coloro che non appartengono a questa 

confederazione, infatti, sono considerati 

senza speranza (Ef 2:12). La situazione è 

triste, ma non disperata; la malattia è 

grave, ma non inguaribile. C’è speranza 

che il popolo sia riformato, la colpa riparata, 

e il contagio fermato; e cosí le punizioni 

che il peccato si merita potranno essere 

evitate e tutto andrà bene. Rimane ancora 

una speranza (v. 2): una volta che la 

malattia è stata scoperta, è già mezza curata. 

Ora che è stato dato l’allarme, il popolo 

comincia a rendersi conto del male e 

a dolersene; sembra che su di loro sia stato 

mandato uno spirito di ravvedimento e per 

questo tutti si umiliano davanti a Dio; rimane 

ancora una speranza che Dio ci perdoni 

e abbia misericordia di noi. La valle 

d’Acor (che significa “difficoltà”) è la 

porta di speranza (Os 2:15); il peccato che 

ci preoccupa veramente, infatti, non ci 

condurrà alla rovina. Rimane ancora una 

speranza perché Israele ora è amministrata 

da un governatore prudente, pio e zelante 

come Esdra. Si noti che: 

(a) Nei momenti di tristezza occorre 

osservare ciò che è a nostro vantaggio e 

ciò che ci ostacola. 

(b) Persino quando ci si sente enormemente 

colpevoli davanti a Dio, ci sono 

buone speranze di ottenere misericordia. 

(c) Quando il peccato è svelato e ci si 

addolora per esso, e quando si fanno dei 

passi avanti verso una riforma, persino i 

peccatori debbono essere incoraggiati. 

(d) Persino i grandi santi devono accettare 

con gratitudine i consigli opportuni e 

il conforto di coloro che sono molto inferiori 

a loro, come fece Esdra con Scecania. 

3. Consigliò di prendere subito dei 

provvedimenti affinché si divorziasse 

dalle mogli straniere. La situazione è 

chiara: gli errori commessi, per quanto 

possibile, debbono essere rimediati. Il sincero 

ravvedimento è proprio questo. 

Facciamo un patto col nostro Dio impegnandoci 

a rimandare tutte queste donne 

e i figliuoli nati da esse (v. 3). Esdra, sebbene 

sapesse che questo era l’unico modo 

per porre rimedio al misfatto, forse non lo 

considerò realizzabile e si disperò per aver 

lasciato che il popolo lo commettesse, e 

questo, come si legge nel capitolo precedente, 

lo gettò in confusione. Scecania, 

però, avendo piú rapporti di lui con il popolo, 

gli assicurò che, se si fossero adoperati 

con saggezza, la cosa sarebbe stata fattibile. 

Anche per noi oggi è certo che il 

peccato debba essere eliminato, e che occorra 

divorziare da esso con la determinazione 

di non volerci avere piú niente a che 

fare, anche se ci è caro come una moglie 

che riposa sul nostro seno, o come un occhio 

destro o un braccio destro, altrimenti 

non possono esserci né perdono, né pace. 

Ciò che è stato ottenuto ingiustamente non 

può essere mantenuto giustamente, ma 

deve essere restituito. Tuttavia, nel caso in 

cui ci si metta con gl’infedeli sotto un 

giogo che non è per noi (2 Co 6:14), il 

consiglio di Scecania, che in quell’occasione 

fu cosí buono, non potrebbe essere 

seguito. I matrimoni di questo tipo, infatti, 

sebbene siano peccaminosi e non debbano 

avere luogo, non sono nulli. Quod fieri 

non debuit, factum valet – Ciò che non 

avrebbe dovuto essere fatto, una volta 

fatto, deve durare. La nostra regola

dell’Evangelo è la seguente: Se un fratello 

ha una moglie non credente ed ella è contenta 

di abitar con lui, non la lasci (1 Co 

7:12, 13). 

4. Gli spiegò bene come effettuare questa 

riforma, non solo dimostrando che doveva 

essere compiuta, ma anche il modo 

in cui doveva essere fatto. 

(a) «Che Esdra e tutti i presenti si mettano 

d’accordo, stabilendo che questa riforma 

va fatta (votate immediatamente e 

lasciate che la legge passi nemine contradicente 

– all’unanimità), affinché si possa 

dire che è stata attuata come consigliano il 

mio signore, cioè il presidente dell’assemblea, 

e quelli che tremano dinanzi ai comandamenti 

del nostro Dio (v. 3), cioè 

tutti quelli che si radunarono intorno a 

Esdra (Ed 9:4) all’unanimità. Dichiarate 

che questa è l’intenzione di tutte le persone 

assennate e serie tra di noi, e questo 

eserciterà sicuramente una grande influenza 

sugli Israeliti». 

(b) «Proclamate al popolo il comandamento 

di Dio a questo riguardo che Esdra 

ha recitato nella sua preghiera, e fategli 

vedere che si fa quel che vuole la legge (v. 

3). Questa è una garanzia che ci vincola a 

ciò che facciamo. Non si tratta di qualcosa 

che abbiamo aggiunto alla legge divina, 

ma è l’esecuzione necessaria di questa 

legge». 

(c) «Ora che siamo tutti d’accordo, impegniamoci 

a farlo con una promessa solenne 

e un patto: altrimenti, quando le impressioni 

attuali svaniranno, la cosa rimarrà 

incompiuta. Stipuliamo un patto in 

base al quale, non solo se noi abbiamo 

delle mogli straniere ci impegniamo a divorziare, 

ma anche se non ne abbiamo, faremo 

tutto il possibile per obbligare gli 

altri a farlo». 

(d) «Che lo stesso Esdra, il quale è autorizzato 

dal mandato del re a informarsi 

per vedere se in Giuda e Beniamino la 

legge di Dio è osservata doverosamente 

(Ed 7:14), diriga questa riforma, e impegniamoci 

tutti a sostenerlo: Lèvati! Fatti 

animo, ed agisci (v. 4). In questo caso, 

piangere è bene, ma riformare è meglio». 

37 

Esdra 10 

Si osservi ciò che Dio disse a Giosuè in 

una situazione simile (Gs 7:10, 11). 

III. L’accordo positivo che raggiunsero 

in seguito a questo buon consiglio (v. 5). 

Non solo concordarono che doveva essere 

fatto, ma si impegnarono con un giuramento 

a comportarsi di conseguenza. Patti 

chiari, amicizia lunga. 

10:6-14 

Abbiamo qui un resoconto dei procedimenti 

adottati in seguito alle decisioni 

prese riguardo alle mogli straniere. Non si 

perse tempo, batterono il ferro finché era 

caldo, e iniziarono immediatamente la riforma. 

1. Esdra andò nella camera del consiglio 

dove probabilmente i sacerdoti erano 

soliti riunirsi per parlare degli affari pubblici; 

e prima di entrare (è questa l’interpretazione 

del dott. Patrick), finché non 

vide che si stava facendo qualcosa e che 

era probabile che per rimediare all’ingiustizia 

qualcosa si facesse, non mangiò 

pane né bevve acqua (v. 6), ma continuò a 

piangere. Il dolore per il peccato dovrebbe 

essere un dolore duraturo, e occorre assicurarsi 

di lasciarlo continuare finché il 

peccato non è stato eliminato. 

2. Ordinò a tutti i reduci dalla cattività 

di raggiungerlo entro tre giorni (vv. 7, 8) a 

Gerusalemme. Inoltre, essendo stato autorizzato 

dal re a eseguire i suoi ordini anche 

applicando delle pene (Ed 7:26), Esdra 

proclamò che chiunque si fosse rifiutato di 

ubbidire avrebbe perso tutti i suoi beni e 

sarebbe stato bandito. Chi non avesse 

preso parte a questo incontro religioso 

avrebbe perso tutti i suoi averi, i quali sarebbero 

stati destinati al servizio della 

fede, e lui stesso, per la sua disubbidienza, 

sarebbe stato escluso per sempre dagli 

onori e dai privilegi della fede, cioè sarebbe 

stato scomunicato. 

3. Entro i giorni stabiliti, la maggior 

parte del popolo si incontrò a 

Gerusalemme presentandosi sulla piazza 

della casa di Dio (v. 9). Quelli che non 

erano zelanti dell’opera a cui erano stati 

chiamati, e che magari la disprezzavano,

Esdra 10 38 

pur essendo colpevoli dimostrarono 

ugualmente grande rispetto per l’autorità 

di Esdra, e temevano talmente tanto la 

sanzione che non osarono non presentarsi. 

4. Dio gli diede un segno del proprio 

disappunto mandando una gran pioggia 

(vv. 9, 13), e forse per questo molti non si 

presentarono, e per quelli che si incontrarono 

all’aperto fu un grave disagio. 

Quando piansero, pianse anche il cielo, dimostrando 

che, sebbene Dio fosse in collera 

con loro a causa del loro peccato, era 

ugualmente compiaciuto del loro ravvedimento 

e, come si dice in Giudici 10:16, si 

accorò per l’afflizione d’Israele. Inoltre, 

si trattava anche di un segno dei buoni 

frutti che aveva dato il loro ravvedimento, 

la pioggia, infatti, rende fertile la terra. 

5. Fu Esdra a ordinare questa grande riunione. 

In seguito spiegò il motivo per cui 

li aveva radunati in quel momento, cioè 

perché aveva notato che da quando erano 

tornati dalla cattività avevano accresciuta 

la colpa d’Israele, sposando donne straniere 

(v. 10), aggiungendo ai loro peccati 

precedenti questa nuova trasgressione, che 

sicuramente sarebbe stata un mezzo per 

reintrodurre l’idolatria, che era proprio il 

peccato a causa del quale avevano sofferto, 

ed Esdra sperava che durante la cattività 

se ne fossero purificati. Li radunò affinché 

rendessero omaggio all’Eterno (v. 

11), dopodiché avrebbero potuto dichiararsi 

pronti e disposti a compiacerlo nel 

modo in cui sarebbe stato reso loro noto 

(tutti questi si pentiranno di ciò che avevano 

fatto per incorrere nella sua disapprovazione). 

In particolare affinché potessero 

allontanarsi dagli idolatri, specialmente 

dalle mogli idolatre. Dando questa 

spiegazione, probabilmente Esdra ampliò 

la confessione fatta nel capitolo 9 e forse 

ne pronunciò un’altra, alla fine della quale 

volle che il popolo dicesse Amen. 

6. Il popolo non solo si sottomise alla 

giurisdizione di Esdra in generale, ma assentí 

anche alla sua indagine e alla sua determinazione 

in questa faccenda: Sí, dobbiam 

fare come tu hai detto! (v. 12). 

«Mescolandoci con i pagani abbiamo pec- 

cato e per questo siamo in pericolo, non 

solo di farci corrompere da loro perché 

siamo fragili, ma di perderci tra loro perché 

siamo pochi. Siamo quindi convinti 

dell’impellente necessità di separarci nuovamente 

da loro». Quando le persone sono 

convinte c’è speranza che non solo ritengano 

che allontanarsi dal peccato sia bene, 

ma che sia assolutamente indispensabile: 

dobbiamo farlo, altrimenti siamo rovinati. 

7. Si stabilí che il provvedimento non 

doveva essere applicato in un’assemblea 

popolare, né che si dovesse risolvere la 

questione all’istante, ma che sarebbe stato 

nominato un consiglio di delegati a cui rivolgere 

le lamentele e affinché le valutasse. 

Non potevano farlo in quel momento 

perché non erano ancora state stabilite 

delle disposizioni, e perché il popolo 

non poteva rimanere sotto la pioggia. I 

colpevoli erano molti, ed era necessario 

trovarli e interrogarli. Sicuramente si sarebbero 

verificati dei casi difficili, che non 

potevano essere giudicati senza dibattiti e 

deliberazioni (v. 13); «Perciò si congedi la 

folla, e rimangano i capi per ricevere istruzioni. 

Occorre procedere città per città, e 

condannare i trasgressori davanti ai giudici 

e agli anziani delle loro città, ai quali 

bisogna affidare il compito di mettere in 

pratica gli ordini. Cosí, è vero che le cose 

si fanno meglio con calma, ma se non ci 

sbrighiamo le faremo a metà (v. 14). Se 

mediante questo provvedimento ci riformiamo 

completamente, l’ardente ira del 

nostro Dio (v. 14) sarà rimossa; altrimenti, 

però, sappiamo benissimo che è pronta a 

ricadere su di noi a causa di questa trasgressione». 

Esdra era disposto a lasciare 

che il proprio zelo fosse guidato dalla prudenza 

del popolo, perciò diede queste disposizioni. 

Non si vergognava di ammettere 

che l’idea era venuta da loro, piú di 

quanto non si vergognasse di essere d’accordo 

con loro. 

10:15-44 

Avendo stabilito il modo in cui procedere 

in questa faccenda, e avendo congedato 

la congregazione affinché ognuno

potesse collaborare a facilitare le cose 

nella propria città, qui si riferisce: 

1. Chi erano le persone che si impegnarono 

a gestire la cosa e a presentare regolarmente 

le cause ai commissari: Ionatan e 

Iazia (v. 15), due uomini attivi. Se fossero 

sacerdoti o persone comuni, non ci è dato 

saperlo; probabilmente erano gli uomini 

che avevano avanzato la proposta (vv. 13, 

14) e quindi erano i piú adatti a metterla in 

pratica. Furono loro affiancati due onesti 

Leviti affinché li aiutassero. Il dott. 

Lightfoot, però, interpreta la cosa diversamente: 

solo (o nonostante) Ionatan e Iazia 

si opposero (come si legge nell’originale - 

v. 15), appoggiati dai due Leviti, o alla 

cosa in sé, o alla strategia elaborata. 

Sarebbe stato strano, infatti, che un’opera 

del genere fosse stata portata avanti senza 

incontrare opposizioni. 

2. Chi erano i commissari che conducevano 

l’opera. Esdra era il presidente, e con 

lui c’erano alcuni capi famiglia (v. 16), 

che spiccavano per la loro sapienza e il 

loro zelo per quest’opera. Erano fortunati 

a essere capeggiati da un uomo come 

Esdra; senza le sue istruzioni, infatti, non 

avrebbero potuto compiere bene l’opera, 

ma anche Esdra non avrebbe potuto portarla 

a termine senza il loro aiuto. 

3. Per quanto tempo vi si dedicarono. 

Cominciarono a tener adunanza il primo 

giorno del decimo mese (v. 16), cioè solo 

dieci giorni dopo che era stata fatta la proposta 

(v. 9), e terminarono in tre mesi (v. 

17). Si impegnarono molto, altrimenti non 

avrebbero potuto risolvere cosí tante cause 

in cosí poco tempo. Si può supporre, infatti, 

che tutti coloro che erano imputati 

fossero giustamente interrogati riguardo ai 

motivi per cui non si erano separati e, giudicando 

in base ad altri casi, se le mogli 

erano seguaci della religione ebraica non 

occorreva separarsi; il caso, perciò, richiedeva 

grande attenzione. 

4. Chi erano le persone colpevoli di 

questo crimine. Qui sono registrati i loro 

nomi, per la loro vergogna perpetua. Molti 

sacerdoti de’ figliuoli di Jeshua (v. 18), il 

Sommo Sacerdote, furono riconosciuti 

39 

Esdra 10 

colpevoli, nonostante la legge prevedesse 

in modo particolare che, per preservare 

l’onore dei loro matrimoni, essendo santi, 

non dovevano sposare donne profane (Le 

21:7). Coloro che avrebbero dovuto insegnare 

la legge agli altri, furono i primi a 

violarla, e con il loro esempio incoraggiarono 

gli altri a fare lo stesso. Tuttavia, 

avendo perso la loro innocenza, fecero 

bene a ritrattare e dare l’esempio ravvedendosi. 

Infatti promisero, dando la mano 

(v. 19) di separarsi dalle mogli straniere 

(alcuni ritengono che si impegnarono a 

farlo con le mani sollevate), e si comportarono 

nel modo stabilito per ottenere il 

perdono, presentando il montone previsto 

dalla legge come sacrifizio di riparazione 

(Le 6:6). Riconobbero cosí la propria 

colpa e la loro mancanza, implorando 

umilmente perdono. Gli uomini menzionati 

che avevano sposato donne straniere 

sono circa 113, e alcuni di loro avevano 

avuto dei figli da queste (v. 44); questo indica 

che quelli che avevano avuto figli da 

loro non erano molti, poiché Dio non 

aveva benedetto il matrimonio rendendolo 

fruttuoso. Se i figli fossero stati ripudiati 

insieme alle madri, come propose 

Scecania, non ci è dato saperlo. A quanto 

pare, però, non successe, ma è probabile 

che le mogli ripudiate fossero mantenute, 

a seconda del loro rango. Ci si aspetterebbe 

che a quel punto questo peccato 

fosse stato corretto completamente, ma si 

verificò di nuovo (Ne 13. 23; Ml 2:11), 

poiché in queste corruzioni si incorre facilmente 

e inconsapevolmente, ma non è 

facile purificarsene. I migliori riformatori 

possono soltanto compiere le loro opere, 

ma quando il Redentore in persona verrà 

da Sion; Egli allontanerà da Giacobbe 

l’empietà (Ro 11:26, 27).

Neemia 40 

... 

CAPITOLO 8 

Esdra lasciò Babilonia tredici anni prima che 

arrivasse Neemia. Qui, però, si legge di un’opera 

buona che fece e che avrebbe potuto compiere 

prima, ma che non fu compiuta finché non arrivò 

NEEMIA 


Questo libro continua la storia dei reduci dalla cattività, i poveri Ebrei, che da 

Babilonia erano da poco tornati nella loro terra. In quel periodo non solo la monarchia 

persiana rifiorí con gran fasto e potenza, ma anche la Grecia e Roma cominciarono a 

diventare molto grandi e importanti. Esistono ancora resoconti autentici della storia di 

questi stati grandi e potenti; tuttavia, la storia sacra e ispirata prende atto soltanto dello 

stato ebreo, senza menzionare le altre nazioni se non perché ebbero dei contatti con 

l’Israele di Dio, poiché la parte dell’Eterno è il suo popolo (De 32:9). Il suo popolo, 

infatti, è il suo tesoro speciale e paragonato a esso il resto del mondo non ha nessun 

valore. A mio avviso Esdra lo Scriba e Neemia il governatore, anche se non salirono 

mai al trono né comandarono un esercito, o conquistarono un paese, o furono celebri 

filosofi o oratori, essendo entrambi uomini pii e devoti e mostrandosi molto servizievoli 

verso la chiesa di Dio e l’interesse della religione, in realtà erano uomini piú 

grandi e onorabili non solo di qualsiasi console o dittatore romano, ma di Senofonte, 

Demostene e dello stesso Platone, i quali vissero nel medesimo periodo e che erano i 

fiori all’occhiello della Grecia. L’azione di Neemia, volta alla continuazione dell’instaurazione 

d’Israele, è descritta dettagliatamente in questo libro di annotazioni o memorie, 

nel quale lo stesso Neemia non solo riporta le sue opere relative alla gestione 

delle questioni pubbliche, ma anche quelle del proprio cuore, inserendo nella storia 

molte riflessioni e giaculatorie devote che rivelano la profonda serietà del suo pensiero 

e sono tipiche dei suoi scritti. Neemia fu governatore della Giudea sotto Artaserse re di 

Persia (che secondo il dott. Lightfoot è lo stesso Artaserse da cui Esdra ricevette il proprio 

mandato) per dodici anni, dai venti ai trentadue (Ne 1:1; 13:6). In questo libro si 

parla: 

I. Dell’interesse di Neemia per Gerusalemme e del mandato che ottenne dal re per 

recarcisi (Ne 1, 2). 

II. Del fatto che Neemia costruí le mura di Gerusalemme nonostante le opposizioni 

(Ne 3, 4). 

III. Del suo rimedio alle lamentele del popolo (Ne 5). 

IV. Del compimento della costruzione delle mura (Ne 6). 

V. Del censimento fatto da Neemia (Ne 7) 

VI. Delle solennità religiose, come la lettura della legge, il digiuno, la preghiera e 

il rinnovamento del patto, a cui Neemia chiamò il popolo (Ne 8-10). 

VII. Della cura con cui Neemia riforní la città santa e ristabilí la tribú santa (Ne 11, 

12). 

VIII. Del suo zelo nel correggere i diversi abusi (Ne 13). 

Alcuni chiamano questo libro il secondo libro di Esdra, non perché fu lui a scriverlo, 

ma perché è la continuazione della storia narrata nel capitolo precedente, a cui si ricollega 

(Ne 1:1). Si tratta dell’ultimo libro storico dell’Antico Testamento, proprio 

come il libro di Malachia fu l’ultimo libro profetico. 

Neemia, il quale, sebbene non fosse uno studioso 

o un teologo come Esdra, né uno Scriba della 

legge del suo Dio, era però un uomo con uno spirito 

piú vivace e attivo. Il suo zelo indusse Esdra a 

imparare e a operare, e a quel punto, come si legge 

qui, si fecero grandi cose: 

I. La lettura solenne in pubblico e la spiegazione 

della legge (vv. 1-8).

II. La gioia che fu ordinato di esprimere al popolo 

in quell’occasione (vv. 9-12). 

III. La solenne celebrazione della festa delle 

capanne in conformità alla legge (vv. 13-18). 

8:1-8 

Si legge qui il resoconto di una solenne 

assemblea religiosa e dell’opera buona 

che fu compiuta durante l’assemblea, per 

l’onore di Dio e l’edificazione della 

chiesa. 

I. Accadde il primo giorno del settimo 

mese (v. 2). Era il giorno del suon delle 

trombe, che viene definito giorno di riposo 

solenne e nel quale dovevano tenere 

una santa convocazione (Le 23:24; Nu 

29:1). Questo non era tutto, però: fu proprio 

in quel giorno che fu edificato l’altare 

e che si cominciarono a offrire olocausti 

dopo il ritorno dalla cattività, un 

gesto di misericordia recente in memoria 

di molte persone che vissero in quel 

tempo. È probabile che da quel momento 

avessero celebrato la festa con solennità 

superiore alla norma, per commemorare 

con gratitudine quel momento. I favori divini 

freschi nelle nostre menti e di cui 

siamo testimoni in prima persona, dovrebbero 

essere, e di solito sono, quelli 

che colpiscono di piú. 

II. Si trovavano sulla piazza ch’è davanti 

alla porta delle Acque (v. 1), una 

piazza ampia in grado di contenere la 

grande moltitudine che il cortile del tempio 

non avrebbe potuto ospitare. 

Probabilmente, infatti, il cortile del tempio 

non era cosí grande come quello costruito 

ai tempi di Salomone. I sacrifici 

erano offerti solo sulla porta del tempio, 

ma le preghiere, le lodi e le predicazioni 

erano, e sono, servizi religiosi che si possono 

svolgere tranquillamente in qualsiasi 

luogo. Quando questa congregazione si 

incontrò nella piazza della città Dio era 

sicuramente con loro. 

III. Le persone che si radunarono 

erano tutto il popolo, il quale non era obbligato 

a venire, ma si riuní spontaneamente 

e di comune accordo, come un 

uomo solo: non vennero soltanto gli uo- 

41 

Neemia 8 

mini, ma anche le donne e i bambini, tutte 

le persone in grado di comprendere ciò 

che ascoltavano. I capi famiglia dovrebbero 

portare con sé le loro famiglie all’adorazione 

pubblica di Dio. Le donne e i 

bambini hanno delle anime da salvare e 

quindi è bene che conoscano la parola di 

Dio e si dedichino ai mezzi della conoscenza 

e della grazia. I bambini, appena 

raggiungono l’età della ragione, debbono 

essere educati agli esercizi spirituali. 

IV. Il capo dell’assemblea era il sacerdote 

Esdra, il quale presiedeva il servizio. 

Non c’era nessuno piú adatto a illustrare e 

predicare di lui, che era uno Scriba cosí 

versato nella legge di Dio. 

1. La sua chiamata a questo servizio fu 

molto chiara. Dato che esercitava l’ufficio 

del sacerdozio e era uno Scriba qualificato, 

il popolo gli domandò che portasse 

il libro della legge (v. 1) e che glielo leggesse. 

Dio gli aveva dato abilità e autorità, 

e il popolo, invitandolo, gli forní 

l’opportunità. La conoscenza è l’elemosina 

spirituale, e chi può dovrebbe darla a 

chiunque ne abbia bisogno, a chiunque la 

chieda. 

2. La sua postazione era molto conveniente. 

Stava in piedi su un pulpito o su 

una tribuna di legno, costruita per la parola 

(come si legge nell’originale), fatta 

apposta (v. 4) per predicare la parola affinché 

le sue parole fossero pronunciate 

con piú grazia e potessero essere udite 

meglio, e cosicché gli sguardi degli ascoltatori 

fossero rivolti a lui, attirando cosí la 

loro attenzione (cfr. Lu 4:20). 

3. Aveva diversi aiutanti. Alcuni stavano 

accanto a lui (v. 4), sei alla sua destra 

e sette alla sua sinistra: o il pulpito era 

costruito in modo che stessero tutti in fila, 

come in una galleria (ma allora difficilmente 

sarebbe stato chiamato tribuna), 

oppure c’erano dei banchi di un grado piú 

bassi. Alcuni ritengono che Esdra li facesse 

leggere quando lui era stanco; perlomeno 

il fatto che li avesse scelti come 

assistenti gli conferiva onore agli occhi 

del popolo, cosicché potessero svolgere 

lo stesso servizio in un’altra occasione.

Neemia 8 42 

Altri di quelli che sono menzionati (v. 7) 

sembrano essere stati impiegati nello 

stesso momento in altri luoghi vicini affinché 

leggessero e spiegassero la legge a 

quelli che non potevano venire a ascoltare 

Esdra. Anche in questo caso c’erano tredici 

sacerdoti, le cui labbra dovevano essere 

guardiane della conoscenza (Ml 2:7). 

Per un popolo disporre di ministri capaci 

di insegnare è una grande benedizione. 

Esdra fu fortunato a avere degli assistenti 

simili, e loro furono fortunati a avere una 

guida come Esdra. 

V. Gli esercizi religiosi svolti durante 

l’assemblea non furono rituali, ma morali: 

si pregò e si predicò. Esdra, in 

quando presidente dell’assemblea, era: 

1. La bocca del popolo davanti a Dio, 

e loro si unirono a lui con affezione (v. 6). 

Esdra benedisse Dio in quanto grande 

Dio, gli rese onore lodando la sua perfezione 

e implorando il suo favore. Il popolo, 

invece, in segno del loro accordo 

con lui sia nella preghiera, che nelle lodi, 

disse: Amen, Amen, alzando le mani (v. 

6), dimostrando che i loro desideri erano 

volti a Dio e che le loro aspettative si basavano 

su di lui. Inoltre, si prostrarono (v. 

6) in segno di reverenza e di sottomissione 

a lui. È cosí che bisogna adorare 

Dio e rivolgersi a lui quando si sta per 

leggere e ascoltare la sua parola, dimostrando 

di considerare che nella sua parola 

Dio è molto grande e molto buono. 

2. La bocca di Dio per il popolo, il 

quale lo ascoltava attentamente. Era questo 

il punto centrale della solennità; si osservi 

che: 

(a) Esdra portò la legge davanti alla 

raunanza (v. 2). Si era preoccupato di 

procurarsi le copie della legge migliori e 

piú corrette. Inoltre, per il bene della 

chiesa, mise a disposizione ciò che aveva 

usato soltanto lui, come fa un buon padrone 

di casa con il suo tesoro. Si osservi 

che: [1] Il libro della legge non deve essere 

confinato negli studi degli Scribi, ma 

deve essere presentato alla congregazione 

e letto nella loro lingua. [2] I ministri, 

quando salgono al pulpito, dovrebbero 

portare con sé le loro Bibbie, come fece 

Esdra, da cui attingere la conoscenza, e 

parlare e comportarsi secondo le Scritture 

(cfr. 2 Cr 17:9). 

(b) Aprí il libro con grande reverenza 

e solennità in presenza di tutto il popolo 

(v. 5). Lo presentò con la consapevolezza 

della grande misericordia di Dio verso di 

loro per averglielo dato, e lo aprí con la 

consapevolezza della sua misericordia 

verso di loro nel dargli il permesso di leggerlo 

affinché non fosse una sorgente 

chiusa o una fonte sigillata (Ca 4:12). Si 

legge che prendere il libro e aprirne i suggelli 

era celebrato con gioia e lodi (Ap 

5:9). Occorre imparare a dedicarsi ai servizi 

della religione con intervalli e pause 

solenni, senza fretta. Quando si prende in 

mano il libro di Dio e lo si apre, si deve 

pensare a ciò che si sta facendo, e cosí 

anche quando ci si inginocchia per pregare; 

inoltre, ciò che si fa, và fatto ponderatamente 

(Ec 5:1). 

(c) Esdra e altri leggevano il libro della 

legge dalla mattina presto fino a mezzogiorno 

(v. 3), e leggevano distintamente 

(v. 8). La lettura delle Scritture durante le 

assemblee religiose è un decreto di Dio, 

mediante il quale lui è onorato e la sua 

chiesa è edificata. Inoltre, nelle occasioni 

speciali, occorre essere disposti a dedicarci 

insieme per molte ore alla lettura e 

alla spiegazione della parola di Dio; le 

persone menzionate qui, infatti, lo facevano 

per sei ore. Quelli che leggono e 

predicano la parola di Dio devono imparare 

anche a esprimersi con chiarezza, dimostrando 

di capire quello che dicono, di 

essere coerenti, e di desiderare che le persone 

a cui si rivolgono capiscano, ricordino 

e mettano in pratica ciò che ascoltano. 

È pericoloso per l’uomo prendere 

leggermente un impegno sacro (Pr 

20:25). 

(d) Ciò che leggevano e spiegavano dimostrava 

il significato e lo scopo di 

quello che facevano, e in che modo doveva 

essere applicato. Spiegavano il significato 

con altre parole per far capire al 

popolo quel che s’andava leggendo (v. 8).

Si noti che: [1] È necessario che quelli 

che ascoltano la parola la comprendano, 

altrimenti per loro risulterebbero solo parole 

vuote (Mt 24:15). [2] Coloro che 

hanno il compito di insegnare, quindi, devono 

spiegare la parola e interpretarla. 

Intendi tu le cose che leggi? (At 8:30), e 

Avete inteso tutte queste cose? (Mt 13:51) 

sono domande appropriate da rivolgere 

agli ascoltatori. Tuttavia, Come potrei intenderle, 

se alcuno non mi guida? (At 

8:31), è una domanda legittima che gli 

ascoltatori possono rivolgere a chi li 

istruisce. Leggere è bene, e predicare 

anche, ma l’interpretazione unisce la lettura 

e la predicazione, rendendo cosí la 

lettura piú intelligibile e la predicazione 

piú convincente. 

(e) Il popolo, quando la parola gli fu 

letta e spiegata, si comportò in modo 

molto adeguato. [1] Con grande reverenza. 

Quando Esdra aprí il libro tutto il 

popolo s’alzò in piedi (v. 5), mostrando 

rispetto sia per Esdra, che per la parola 

che si accingeva a leggere. Ai servitori, 

quando il padrone si rivolge a loro, conviene 

alzarsi in piedi per rendergli onore e 

per dimostrarsi pronti a eseguire gli ordini. 

[2] Con grande fermezza e compostezza: 

Il popolo stava in piedi al suo 

posto (v. 7). Alcuni ministri stavano leggendo 

e illustrando a poca distanza l’uno 

dall’altro, e ogni cittadino stava al suo 

posto; non andavano a ascoltare prima 

uno e poi un altro per fare dei commenti, 

ma stavano al loro posto per non disturbarsi 

a vicenda e per stare attenti. [3] Con 

grande attenzione e concentrazione: Tutto 

il popolo teneva tese le orecchie a sentire 

il libro della legge (v. 3); erano immobili. 

Ascoltavano con attenzione, badando a 

ogni parola. La parola di Dio richiede attenzione 

e la merita. Se per noncuranza si 

ascolta senza badare a tutto, c’è il rischio 

che per dimenticanza, dopo aver ascoltato, 

non si ricordi piú nulla. 

8:9-12 

Qui si può osservare che: 

I. Il popolo fu colpito dalle parole 

43 

Neemia 8 

della legge che furono lette. La legge 

opera morte e parla di terrore, mostra agli 

uomini i loro peccati, la loro miseria e il 

pericolo che corrono a causa del peccato, 

e proclama una maledizione contro tutti 

quelli che non fanno pienamente il loro 

dovere. Di conseguenza, dopo averla 

ascoltata tutto il popolo piangeva (v. 9), e 

questo indicava che i loro cuori erano teneri 

come quello di Giosia quando udí le 

parole della legge. Piansero pensando a 

quanto avevano offeso Dio, e si dichiarano 

colpevoli di aver violato spesso la 

legge. Quando qualcuno pianse, piansero 

tutti perché tutti si resero conto di essere 

colpevoli davanti a Dio. 

II. Furono guariti e consolati dalle parole 

di pace annunciategli. Fu un bene che 

fossero cosí tanto colpiti dalla parola di 

Dio e che quest’ultima avesse fatto effetto, 

ma non dovevano piangere troppo, 

specialmente in quel momento, perché 

per Dio quel giorno era santo. Era una 

delle feste solenni in cui era loro dovere 

rallegrarsi. Persino il dolore per il peccato 

non deve offuscare la nostra gioia in Dio, 

ma piuttosto deve condurci e prepararci a 

essa. 

1. I capi dell’assemblea cercarono di 

calmarli e incoraggiarli. A questo punto, e 

non prima, in questo capitolo si introduce 

Neemia, il quale si accorse del pianto del 

popolo. Esdra fu contento di vederli cosí 

colpiti dalla parola, ma Neemia gli fece 

notare, e Esdra concordò, che non era opportuno. 

Era un giorno santo [di riposo 

solenne (Le 23:24)], e quindi doveva essere 

celebrato con gioia e lodi, non come 

un giorno per umiliare le anime vostre (Le 

23:32). 

(a) Vietarono al popolo di fare cordoglio 

e di piangere: non v’attristate (v. 10); 

Tacete, non v’attristate (v. 11). Ogni cosa 

è bella al suo tempo; cosí come non bisogna 

essere lieti quando Dio ci chiama a 

fare cordiglio, allo stesso modo quando 

Dio ci dà l’opportunità di rallegrarci non 

ci si deve spaventare e affliggere. Persino 

il dolore per il peccato non deve diventare 

cosí grande da offuscare la nostra gioia in

Neemia 8 44 

Dio e la nostra allegria nel servirlo. 

(b) Gli ordinarono di dimostrare la 

loro gioia e di mettere il manto della lode 

in luogo d’uno spirito abbattuto (Is 61:3). 

Gli diedero il permesso, in segno di gioia, 

di festeggiare loro stessi, di mangiare e 

bere meglio degli altri giorni: Mangiate 

vivande grasse e bevete vini dolci (v. 10). 

Tuttavia, occorreva farlo: [1] Con carità 

verso i poveri: «Mandate delle porzioni a 

quelli che nulla hanno di preparato per 

loro (v. 10) affinché la vostra abbondanza 

soddisfi i loro bisogni e loro possano rallegrarsi 

con voi e la loro stirpe vi benedica». 

A coloro che festeggiano, Cristo 

disse di invitare i loro vicini poveri (Lu 

14. 13). Tuttavia, è un dovere soprattutto 

durante le feste religiose, come durante i 

digiuni religiosi, che l’anima tua supplisca 

ai bisogni dell’affamato (Is 58:7, 10). 

La generosità di Dio dovrebbe renderci 

generosi. Molti mangeranno vivande 

grasse e berranno vini dolci, persino in 

eccesso, ma non concederanno mai delle 

porzioni, e neppure delle briciole, ai poveri, 

tuttavia possono leggere il loro destino 

nella parabola dell’uomo ricco (Lu 

16:19ss). Queste persone, però, non 

sanno, o non considerano il motivo per 

cui Dio gli ha dato delle ricchezze. Si osservi 

che non bisogna dare soltanto a chi 

domanda, ma occorre anche donare a chi 

non lo chiede. L’uomo nobile forma nobili 

disegni (Is 32:8), e cerca oggetti di carità. 

[2] Con pietà e devozione: Il gaudio 

dell’Eterno è la vostra forza (v. 10). Non 

deve essere una gioia carnale, ma santa e 

spirituale, il gaudio dell’Eterno, la gioia 

nella bontà di Dio, sotto la guida e il governo 

della grazia di Dio, una gioia che 

nasce dal nostro interesse nell’amore e 

nel favore di Dio e dai segni del suo favore. 

«È questa la gioia che sarà la nostra 

forza, perciò incoraggiala e sarà la tua 

forza, Primo per compiere gli altri doveri 

della festa perché piú si è allegri negli 

esercizi religiosi, piú ne si viene arricchiti. 

Secondo, per tutto ciò che occorre 

fare in conformità alla legge di Dio appena 

ascoltata, poiché la santa gioia 

spiana la strada all’obbedienza. Terzo, per 

resistere ai nemici che tramano contro di 

te. La gioia dell’Eterno è l’arma che permette 

di resistere agli assalti dei nostri nemici 

spirituali e di rendere sgraditi al nostro 

palato i piaceri con cui il tentatore ci 

adesca. 

2. L’assemblea acconsentí agli ordini 

che gli furono impartiti. Smisero di piangere 

e si misero a far gran festa (v. 12). Si 

noti che si dovrebbe sempre avere un controllo 

tale di ogni passione da riuscire, in 

qualsiasi modo si presenti, a frenarla subito 

e contenerla quando siamo persuasi 

che o è irragionevole, o inopportuna. Chi 

padroneggia se stesso cosí val piú del 

prode guerriero (Pr 16:32). Si osservi 

che: 

(a) Dopo aver pianto si rallegrarono. Il 

santo cordoglio spiana la strada alla santa 

festa. Quelli che seminano con lagrime, 

mieteranno con canti di gioia (Sl 126:5), 

e quelli che tremano davanti alla condanna 

della parola trionferanno nelle sue 

consolazioni. 

(b) Il motivo della loro gioia era molto 

fondato. Non fecero festa perché avevano 

vivande grasse e vini dolci e perché erano 

in buona compagnia, ma perché aveano 

intese le parole ch’erano state loro spiegate 

(v. 12). Si noti che: [1] Disporre delle 

sacre Scritture e di qualcuno che ci aiuti a 

comprenderle è una grande benedizione 

di cui abbiamo numerosi motivi di rallegrarci. 

Le Bibbie e i ministri sono la gioia 

dell’Israele di Dio. [2] Meglio si comprende 

la parola di Dio, piú se ne trae 

conforto. Le tenebre delle difficoltà, infatti, 

derivano dalle tenebre dell’ignoranza 

e dell’errore. Quando le parole gli 

furono annunciate per la prima volta piansero, 

ma quando le compresero se ne rallegrarono 

perché si resero conto delle 

preziose promesse fatte a coloro che si 

ravvedono e si riformano, e che quindi 

per Israele c’erano delle speranze. 

8:13-18 

Qui abbiamo: 

I. La rinnovata dedizione del popolo

per la parola. Avevano passato quasi una 

giornata intera pregando e ascoltando, ma 

non erano per niente stanchi di quella 

nuova luna e del sabato, perciò il giorno 

seguente, anche se non era festa, i capi si 

riunirono di nuovo per ascoltare la predicazione 

di Esdra (v. 13), che consideravano 

molto piú gradevole e vantaggiosa 

di qualsiasi altro piacere o profitto mondano. 

Si noti che piú si viene in contatto 

con la parola di Dio, se la si intende giustamente 

e se ne è colpiti, piú si desidera 

indagarla e conoscerla meglio, dicendo: 

Oh come son dolci le tue parole al mio 

palato! (Sl 119:103). Quelli che comprendono 

bene le Scritture desiderano di capirle 

sempre meglio. A quel punto gli 

stessi sacerdoti e Leviti andarono da 

Esdra, il predicatore eccellente, con i capi 

famiglia di tutto il popolo per esaminare 

le parole della legge (v. 13), o per essere 

istruiti riguardo alla legge. Vennero per 

essere istruiti e per essere in grado di insegnare 

agli altri. Si osservi che: 

1. Sebbene il primo giorno Esdra, con 

la sua umiltà, li avesse posti alla sua destra 

e alla sua sinistra per insegnare insieme 

a lui (vv. 4, 7), il secondo giorno, 

dopo che il giudizio li aveva resi piú consapevoli 

delle loro lacune e della sua eccellenza, 

furono loro, con umiltà, a mettersi 

ai piedi di Esdra affinché li istruisse. 

2. Coloro che desiderano insegnare 

agli altri, a loro volta devono essere 

istruiti. I sacerdoti e i Leviti prima debbono 

essere istruiti, o poi possono insegnare. 

II. La prontezza del popolo nell’obbedire 

alla parola in un’occasione in particolare, 

appena si resero conto del loro dovere 

a questo riguardo. È probabile che 

quando, il secondo giorno del settimo 

mese, si rivolsero a Esdra per essere 

istruiti nella legge, lui, secondo la sapienza 

di cui Dio lo aveva dotato (Ed 

7:25), gli lesse le leggi relative alle feste 

di quel mese e anche quelle della festa 

delle capanne (Le 23:34; De 16:13). I ministri 

non dovrebbero predicare soltanto 

ciò che è vero e buono, ma anche ciò che 

45 

Neemia 8 

è opportuno, comandando che ogni 

giorno si compia l’opera di quel giorno. 

Qui abbiamo: 

1. Il ripristino dell’ordinanza divina 

della festa delle capanne (vv. 14, 15). 

Trovarono scritto nella legge (v. 14) un 

comandamento che riguardava questa 

festa. Quelli che investigano le Scritture 

con diligenza vi troveranno scritte le cose 

che avevano dimenticato o che non avevano 

considerato debitamente. La festa 

delle capanne era una commemorazione 

del loro soggiorno nel deserto nelle tende, 

era un simbolo della nostra condizione 

temporanea in questo mondo e un emblema 

della santa gioia della chiesa 

dell’Evangelo. Questa festa predice la 

conversione delle nazioni alla fede di 

Cristo: saliranno a celebrare la festa 

delle capanne (Za 14:16), perché qui non 

c’è una città permanente. Questa festa doveva 

essere proclamata in tutte le loro 

città. La gente doveva raccogliere rami 

(quelli di Gerusalemme li prendevano sul 

monte degli Ulivi), e costruire delle capanne 

o dei ripari in cui abitare (tempo 

permettendo) e rallegrarsi durante la 

festa. 

2. La religiosa obbedienza a questo comando. 

La parola è letta e ascoltata in 

modo accettabile e vantaggioso soltanto 

quando ci si comporta secondo ciò che 

dice, e quando leggendola il nostro dovere 

si ristabilisce dopo essere stato trascurato. 

(a) Celebrarono la festa. Dimorarono 

nelle capanne (v. 17) che i sacerdoti e i 

Leviti avevano costruito nei cortili del 

tempio. Quelli che possedevano la propria 

casa costruirono le capanne sul tetto, 

o nel cortile di casa, e quelli che non avevano 

questa possibilità le costruirono in 

strada. Di solito questa festa veniva celebrata 

(2 Cr 5:3; Ed 3:4) ma, dai tempi di 

Giosuè quando gli Ebrei si erano appena 

stabiliti, non era mai stata celebrata con 

tanta solennità come adesso che si ristabilivano 

nuovamente nella terra di Canaan. 

L’uomo che non riesce a lasciare la propria 

casa per un istante per ubbidire a

Neemia 8 46 

un’ordinanza o alla provvidenza di Dio, la 

ama troppo. 

(b) Pensarono al significato della celebrazione, 

altrimenti la cerimonia, per 

quanto significativa, non avrebbe avuto 

senso. [1] La celebrarono con gioia, con 

grandissima allegrezza (v. 17), rallegrandosi 

in Dio e nella sua bontà verso di loro. 

Tutte le loro feste sacre, e questa in particolare, 

dovevano essere celebrate con 

gioia perché questo rendeva molto onore 

a Dio e incoraggiava loro a servirlo. [2] 

Tutti i giorni della festa ascoltarono la lettura 

e la spiegazione della parola (v. 18). 

Sfruttarono, cosí, il loro tempo libero per 

compiere quest’opera buona. Il modo migliore 

per passare le ore libere è studiando 

le Scritture e indagandole. Dio aveva de- 

cretato che durante la festa delle capanne 

la legge doveva essere letta una volta in 

sette anni; se questo fosse l’anno di remissione 

in cui si doveva svolgere questo 

servizio non ci è dato saperlo (De 31:10, 

11). Tuttavia, tutti i giorni della festa li 

passarono svolgendo quest’opera buona, 

e l’ottavo giorno ci fu un’assemblea solenne, 

come aveva ordinato Dio, in cui il 

ventiduesimo giorno del mese posero fine 

alla solennità. Non si separarono, però, 

perché il ventiquattresimo giorno doveva 

essere trascorso digiunando e pregando. 

La santa gioia non deve renderci inadatti 

al dolore religioso piú di quanto il dolore 

religioso non ci renda inadatti alla santa 

gioia.

47 

ESTER 

Ester 


Nei due libri che seguono leggiamo di come la provvidenza di Dio ha accompagnato 

i Giudei che dalla cattività ritornavano nella loro terra, e quali cose grandi e benevoli 

ha fatto per loro. C’erano, però, molti di loro che rimasero indietro, perché non avevano 

abbastanza zelo per Dio e per la terra santa, che li aiutasse a superare le difficoltà 

di un tale spostamento. Si potrebbe pensare che questi fossero stati esclusi dalla speciale 

protezione della Provvidenza, perché indegni di portare il nome di israeliti; ma il 

nostro Dio non si comporta con noi in base alla nostre debolezze e pazzie. In questo 

libro vediamo che Dio si prese cura anche di quei Giudei che furono dispersi nelle province 

pagane, cosí come di quelli che furono riuniti in Giudea e che, nonostante sembrassero 

destinati alla distruzione, come pecore per le quali era stato designato il macello, 

furono preservati in modo grandioso. Chi ha compilato questa storia, non è certo. 

Mardocheo, per quelle che erano le sue conoscenze, come avrebbe potuto fare chiunque, 

fu in grado di riferire diversi brani di questa - quorum pars magna fuit - poiché 

egli ne produsse una gran parte. Ci è detto che il resoconto che scrisse, fu redatto in 

modo tale che potesse essere adatto ad informare la sua gente sui motivi per osservare 

la festa di Purim (Mardocheo scrisse queste cose, e le mandò accluse in lettere a tutti 

i Giudei, Et 9:20), perciò abbiamo motivo di credere che egli fosse il redattore dell’intero 

libro. Si tratta del resoconto di una trama ordita contro i Giudei per stroncarli tutti, 

e che fu sventata in modo grandioso da una concomitanza di eventi provvidenziali. 

L’esposizione piú concisa dei fatti si ricava leggendo attentamente il libro tutto in una 

volta, poiché sono gli eventi finali che danno una spiegazione a quelli che li hanno preceduti, 

chiarendo quale senso questi avessero nel disegno della provvidenza. Il nome 

di Dio in questo libro non appare; ma l’aggiunta apocrifa ad esso (che non è in ebraico, 

né fu mai ricevuta dai Giudei nel canone), consistente in sei capitoli e comincia cosí: 

Allora Mardocheo disse, Dio ha fatto queste cose. Sebbene nel libro il nome di Dio non 

è presente, lo è la sua mano nel dirigere tanti piccoli eventi affinché portino alla liberazione 

del suo popolo. I particolari non sono soltanto sorprendenti ed avvincenti, ma 

anche edificanti ed incoraggianti per quanto riguarda la fede e la speranza del popolo 

di Dio nei momenti piú pericolosi e difficili. Oggi non possiamo aspettarci miracoli 

simili a quelli operati a favore di Israele, quando fu guidato fuori dall’Egitto, ma possiamo 

attenderci che cosí come, in questo caso, Dio vanificò le macchinazioni di 

Haman, allo steso modo egli proteggerà ancora il suo popolo. Qui ci viene detto: 

I. Come Ester divenne regina e Mardocheo uomo importante a corte, poiché entrambi 

sarebbero diventati strumenti per la futura liberazione (Et 1, 2). 

II. A causa di quale provocazione, e per mezzo di quali espedienti, Haman l’amalekita 

ottenne un ordine per la distruzione di tutti i Giudei (Et 3). 

III. La grande angoscia che colse i Giudei e, in particolar modo, i loro patrioti (Et 

4). IV. Il fallimento del piano di Haman per attentare alla vita di Mardocheo (Et 5-7). 

V. Il fallimento della sua macchinazione contro i Giudei (Et 8). 

VI. La cura che fu presa per perpetuare il ricordo di questi eventi (Et 9, 10). L’intera 

storia conferma l’osservazione del Salmista: L’empio macchina contro il giusto e digrigna 

i denti contro lui. Il Signore si ride di lui, perché vede che il suo giorno viene 

(Sl 37:12, 13).

Ester 4 48 

... 

CAPITOLO 4 

Abbiamo lasciato l’Isacco di Dio legato sull’altare 

e pronto per essere sacrificato e i nemici 

trionfanti mentre aspettano che ciò avvenga; ma a 

questo punto le cose cominciano a muoversi verso 

una liberazione e cominciano dalla parte giusta. 

I. Gli amici dei Giudei avvertono il pericolo e 

lo deplorano (vv. 1-4). 

II. Le vicende si concertano tra Mardocheo ed 

Ester affinché si impedisca il massacro. 

1. Ester indaga sul caso e ne riceve un dettagliato 

resoconto (vv. 5-7). 

2. Mardocheo la spinge ad intercedere con il re 

per una revoca dell’editto (vv. 8, 9). 

III. Ester fa notare il pericolo di presentarsi al 

re senza essere stata chiamata (vv. 10-12). 

IV. Mardocheo insiste affinché lei corra il rischio 

(vv. 13, 14). 

V. Ester, dopo un digiuno religioso di tre 

giorni, promette di farlo (vv. 15-17), e lo farà con 

successo. 

4:1-4 

Qui abbiamo una descrizione dell’afflizione 

generale che c’era fra gli ebrei in 

seguito alla pubblicazione dell’editto sanguinario 

di Aman contro di loro. Per la 

chiesa era un momento di grande tristezza. 

1. Mardocheo pianse amaramente, si 

strappò i vestiti e indossò un sacco (vv. 1, 

2). Cosí egli non solo diede sfogo alle sue 

pene, ma le proclamò affinché tutti sapessero 

che non si vergognava di riconoscersi 

come un amico degli ebrei, un loro 

compagno di sofferenza, loro fratello e 

compagno di tribolazioni, per quanto 

ignobili e odiosi loro venissero rappresentati 

ora dalla fazione di Aman. Pertanto, 

con nobiltà, fu esposta pubblicamente 

quella che egli considerava una giusta 

causa e causa di Dio, perfino quando 

sembrava essere una causa persa e disperata. 

Mardocheo avvertiva il pericolo piú 

di ogni altro, poiché sapeva che il rancore 

di Aman era rivolto principalmente contro 

di lui e che era per causa sua che il resto 

dei Giudei era stato colpito. Pertanto, 

benché non fosse pentito di ciò che alcuni 

avrebbero chiamato la sua ostinazione, 

dal momento che persisteva (Et 5:9), tut- 

tavia lo tormentava l’idea che il suo popolo 

dovesse soffrire a causa dei suoi 

scrupoli, il che, forse, portò alcuni di loro 

a criticarlo come troppo meticoloso. Ma, 

potendo fare appello a Dio perché ciò che 

aveva fatto lo aveva fatto per un principio 

di coscienza, poteva ora con tranquillità 

affidare la sua causa e quella della sua 

gente a colui che giudica con giustizia. 

Dio proteggerà coloro i quali sono esposti 

al pericolo a causa della sensibilità della 

loro coscienza. L’attenzione qui va posta 

ad una legge per la quale nessuno potrebbe 

varcare i cancelli del re vestito con 

un sacco, benché spesso, come accade qui 

ora, il potere arbitrario dei re costringe 

molti all’afflizione, e malgrado ciò nessuno 

deve avvicinarsi al re con un vestito 

di cordoglio, poiché egli non è disposto 

ad ascoltare lamenti di tal genere. Niente 

che non sia gaio e piacevole deve apparire 

a corte e tutto ciò che è melanconico deve 

essere bandito di là. Tutti nei palazzi del 

re indossano morbide vesti (Mt 11:8), non 

tele di sacco. Il tenersi lontano dalle insegne 

del dispiacere, a meno che essi non 

avrebbero potuto tenersi lontano anche 

dalle cause del dolore - proibire al sacco 

di entrare, a meno che essi non avrebbero 

potuto proibire all’infermità, apprensioni, 

e morte di entrare - era una beffa. In ogni 

caso, ciò obbligò Mardocheo a prendere 

le distanze e ad arrivare solo davanti al 

cancello, senza prendervi posto. 

2. Tutti i Giudei, in ogni provincia, 

presero a cuore quanto stava avvenendo 

(v. 3). Negarono a se stessi il piacere delle 

loro tavole (giacché digiunarono e mescolarono 

le lacrime con la carne e le bevande) 

e la comodità dei loro letti di 

notte, per giacere in sacchi e cenere. 

Quelli che per mancanza di fiducia in Dio 

e per attaccamento alla propria terra erano 

rimasti nella terra della loro prigionia 

quando Ciro diede loro la libertà di andarsene, 

ora forse si pentivano della loro 

follia e desideravano, quando era ormai 

troppo tardi, aver ottemperato alla chiamata 

di Dio. 

3. La regina Ester, venuta a cono-

scenza delle difficoltà in cui si trovava 

Mardocheo, era estremamente addolorata 

(v. 4). L’afflizione di Mardocheo era 

la sua, per quanto rispetto tuttora serbava 

per lui, e il pericolo dei Giudei era la sua 

angoscia; perciò, benché fosse una regina, 

non dimenticava il rapporto che la legava 

a loro. Neanche quelli di rango piú elevato 

devono pensare che non sia degno di 

loro affliggersi per il dolore di Giuseppe, 

anche se essi stessi fossero unti con gli oli 

piú pregiati (Am 6:6). Ester spedí un 

cambio di indumenti a Mardocheo, l’ olio 

della gioia per il cordoglio e gli indumenti 

di lode per lo spirito dell’afflizione; 

ma poiché Mardocheo voleva renderla 

sensibile alla grandezza della sua pena, e 

di conseguenza a ciò che l’aveva causata, 

egli non li accettò e si comportò come 

una persona che rifiuta di essere confortata. 

4:5-17 

Le leggi della Persia isolavano le 

mogli cosí rigorosamente, specialmente 

le mogli del re, per cui non era possibile 

per Mardocheo avere un colloquio con 

Ester riguardo a questo affare cosi importante. 

I loro messaggi, però, erano portati 

da Atac, il quale era stato designato dal re 

per occuparsi di lei, e sembrava che fosse 

qualcuno di cui lei potesse fidarsi. 

I. Ester lo inviò da Mardocheo per sapere 

in modo completo e dettagliato quale 

fosse la questione per la quale lui si stava 

ora lamentando (v. 5) e per qual motivo 

non voleva togliersi il sacco. Chiedere notizie 

cosí che noi possiamo sapere come 

meglio indirizzare le nostre gioie e i nostri 

dolori, le nostre preghiere e le nostre 

lodi, ben si addice a tutti coloro che 

amano Sion. Se dobbiamo piangere con 

chi piange, dobbiamo sapere per quale 

motivo essi piangono. 

II. Mardocheo le inviò un resoconto 

fedele dell’intero problema, con l’incarico 

per lei di intercedere presso il re in 

codesta questione: Mardocheo gli narrò 

tutto quello che gli era avvenuto (v. 7), 

quale risentimento Aman aveva nei suoi 

49 

Ester 4 

confronti per non essersi inchinato davanti 

a lui, e con quali abilità egli aveva 

ottenuto questo editto. Le mandò inoltre 

una copia originale dell’editto, per farle 

capire in quale pericolo imminente lei e il 

suo popolo si trovavano. Se lei avesse 

avuto rispetto per lui e benevolenza verso 

il popolo Giudaico, avrebbe dovuto presentarsi 

al re in loro favore per rettificare 

l’informazione sbagliata con la quale il re 

era stato ingannato e riportare la questione 

nella giusta luce, non dubitando 

che, alla fine, lui avrebbe annullato il decreto. 

III. Ester gli fece giungere la sua motivazione, 

ossia che non avrebbe potuto, 

senza pericolo per la sua vita, rivolgersi al 

re e che pertanto lui la metteva in gran 

difficoltà spingendola a fare ciò. 

Volentieri avrebbe voluto aspettare, volentieri 

si sarebbe piegata per fare un piacere 

ai Giudei, ma se lei doveva correre il 

rischio di essere messa a morte come una 

malfattrice, avrebbe ben detto, ti prego di 

scusarmi, chiedendogli di pensare a qualche 

altro mediatore. 

1. La legge era chiara e nota a tutti: 

chiunque andasse dal re non essendo stato 

da lui chiamato, sarebbe stato messo a 

morte, a meno che egli non volesse stendere 

verso di lui lo scettro d’oro, ed era 

assai improbabile che lei lo avrebbe trovato 

cosí di buon umore (v. 11). Questa 

legge era stata fatta non tanto per prudenza, 

con lo scopo di proteggere maggiormente 

la persona del re, quanto per 

orgoglio, affinché, essendo visto raramente 

e con grande difficoltà, lui potesse 

essere adorato come un piccolo dio. 

Quanto era stolta quella legge, giacché: 

(a) Rendeva infelici gli stessi re, confinandoli 

nelle loro dimore solitarie per 

paura di essere visti. Ciò rendeva il palazzo 

reale poco migliore di una prigione 

reale e gli stessi re non potevano che diventare 

depressi e forse melanconici, 

quindi, un terrore per gli altri e un peso 

per se stessi. Molti rovinano la propria 

vita a causa della loro boria e della loro 

natura malvagia.

Ester 4 50 

(b) Era una legge cattiva per i sudditi, 

poiché, quale beneficio potevano trarre da 

un re al quale non avevano mai la libertà 

di ricorrere per la riparazione dei torti e al 

quale appellarsi quando i giudici inferiori 

si comportavano ingiustamente? Non è 

certo cosí alla corte del Re dei re; noi possiamo 

andare coraggiosamente in qualsiasi 

momento allo sgabello del suo trono 

di grazia e possiamo essere sicuri di ottenere 

una risposta di pace alla preghiera di 

fede. Noi siamo benvenuti, non solo nel 

cortile interno, ma anche nel luogo santissimo, 

per mezzo del sangue di Gesú. 

(c) Era particolarmente disagevole per 

le loro mogli (non c’era una clausola nella 

legge che facesse un’eccezione per loro), 

le quali erano ossa delle loro ossa e carne 

della loro carne (Ge 2:23). 

Probabilmente, però, la legge era malignamente 

destinata piú ad esse che a 

chiunque altro, poiché i re potevano piú 

liberamente godersi le loro concubine, ed 

Ester questo lo sapeva. Quanto miserabile 

era quel regno nel quale i principi formulavano 

le loro leggi per servire la propria 

lussuria. 

2. Al momento il suo caso era veramente 

scoraggiante. Cosí volle la provvidenza 

che, proprio in questo frangente, lei 

fosse sotto una nube e che le attenzioni 

del re verso di lei si fossero affievolite, 

poiché erano trenta giorni che non era 

stata chiamata per andare dal re (v. 11). 

Questo affinché la sua fede e il suo coraggio 

potessero essere messi maggiormente 

alla prova e che la benevolenza di Dio, 

nel favore che lei ora avrebbe nondimeno 

trovato nel re, potesse brillare piú luminosamente. 

È probabile che Aman si adoperasse 

usando le donne, cosí come il vino, 

per distrarre il re dal pensare a quello che 

aveva fatto, motivo per cui Ester veniva 

trascurata, e che senza dubbio facesse ciò 

che poteva per distogliere il re da lei, sapendo 

che lei gli sarebbe stata avversa. 

IV. Mardocheo continuava a insistere 

sostenendo che a costo di qualunque rischio, 

lei doveva rivolgersi al re per questa 

importante faccenda (vv. 13, 14). 

Nessuna scusa sarebbe servita, anzi, doveva 

mostrarsi una sostenitrice di questa 

causa; perciò le richiamò alla mente che: 

1. Era la sua stessa causa, per cui il decreto 

di distruggere tutti i Giudei non 

avrebbe fatto eccezione per lei: Non metterti 

in mente che tu sola scamperai fra 

tutti i Giudei perché sei nella casa del re 

(v. 13), «né che il palazzo sarà la tua protezione 

e che la corona salverà la tua 

testa; no, tu sei una Giudea e se le altre 

teste saranno tagliate, anche la tua sarà tagliata». 

Certamente il suo buon senso le 

avrebbe suggerito di esporsi ad un’eventuale 

morte decisa da suo marito, piuttosto 

che a una morte certa per mano del 

suo nemico. 

2. Era una causa che, in un modo o nell’altro, 

sarebbe stata certamente portata 

avanti e nella quale lei, pertanto, avrebbe 

sicuramente potuto avventurarsi: «Se oggi 

tu taci, soccorso e liberazione sorgeranno 

per i Giudei da qualche altra parte (v. 

14)». Questo era il linguaggio di una fede 

solida che non vacillava davanti alla promessa 

quando il pericolo era piú minaccioso, 

ma contro la speranza confidava 

nella speranza. I mezzi possono fallire, 

ma non il patto fatto con Dio. 

3. Se per viltà e miscredenza lei avesse 

abbandonato ora i suoi amici, avrebbe 

avuto ragione di temere che un giudizio 

dal cielo sarebbe stato la sua rovina e 

quella della sua famiglia: Tu e la casa di 

tuo padre perirete (v. 14), «quando il 

resto della famiglia dei Giudei sarà protetta». 

Chi con mutamenti peccaminosi 

salverà la sua vita non trovando nel suo 

cuore la fiducia in Dio per salvarla facendo 

il suo dovere, la perderà seguendo 

la via del peccato. 

4. La Divina Provvidenza, nel condurla 

a diventare regina, aveva considerato 

questo: Chi sa se non sei diventata 

regina appunto per un tempo come questo? 

(v. 14). Pertanto: 

(a) «Tu sei tenuta per gratitudine a fare 

questo servizio a Dio e alla sua chiesa, altrimenti 

non consegui il fine del tuo innalzamento».

(b) «Non devi temere il fallimento dell’impresa, 

poiché se Dio ti ha designata 

per questo, lui ti sosterrà e ti porterà al 

successo». Ora: [1] emergeva, da questo 

episodio, che lei era salita al trono affinché 

fosse un mezzo per la liberazione dei 

Giudei, cosí che la congettura di 

Mardocheo era esatta. Perché il Signore 

amava il suo popolo, aveva fatto di Ester 

una regina. Vi è un ammonimento e un disegno 

saggio in tutto ciò che Dio permette; 

ed esso ci è sconosciuto fino a che 

non si è compiuto, ma sarà la prova, alla 

fine, che tutto ciò che egli permette è indirizzato 

e incentrato sul bene della 

chiesa. [2] Tale probabilità era un buon 

motivo perché lei si sbrigasse e facesse 

del suo meglio per il suo popolo. Ognuno 

di noi dovrebbe considerare per quale fine 

Dio ci ha posti nel luogo in cui siamo, 

meditare per rispondere a quel fine, e 

quando si presenta qualche particolare 

opportunità di servire Dio e la nostra generazione, 

dobbiamo fare attenzione a 

non farcela sfuggire, poiché ci è affidato 

il compito di migliorarla. Mardocheo suggeriva 

queste cose ad Ester e alcuni degli 

scrittori Giudei, che sono prolifici in inventiva, 

aggiungono un’altra cosa che gli 

era avvenuta (v. 7), e che lui desiderava le 

fosse detto: «tornando a casa, la notte precedente, 

in grande afflizione per la notizia 

del complotto di Aman, incontrò tre bambini 

Giudei che tornavano da scuola, a cui 

chiese cosa avessero imparato in quel 

giorno. Uno di loro gli disse che la sua lezione 

era stata: Non avrai da temere improvvisi 

spaventi (Pr 3:25, 26). Il secondo 

gli disse che la sua era stata: Fate pure dei 

piani, e saranno sventati! (Is 8:10). Il 

terzo gli disse che la sua era stata: Io vi ho 

fatti e io vi sosterrò; si, vi porterò e vi salverò 

(Is 46:4). Oh la bontà di Dio» disse 

Mardocheo «che dalla bocca degli infanti 

e poppanti ci ordina di essere forti!». 

V. In conseguenza di ciò Ester decise, 

qualunque cosa potesse costarle, di rivolgersi 

al re, ma non prima che lei e i suoi 

amici si fossero rivolti a Dio. Ella volle 

ottenere innanzitutto, con digiuni e pre- 

51 

Ester 4 

ghiere, il favore di Dio, e in seguito 

avrebbe sperato di trovare il favore del re 

(vv. 15, 16). Lei qui parla: 

1. Con la pietà e la devozione che si 

addice a un Israelita. Lei qui ha confidato 

in Dio, nelle cui mani sono i cuori dei re 

e da cui lei dipendeva per far propendere 

il cuore del re verso di lei. Avrebbe rischiato 

la vita, ma avendo affidato la sua 

anima a Dio e essendosi posta sotto la sua 

protezione, si sarebbe sentita al sicuro e 

tranquilla. Credeva che la benevolenza di 

Dio si ottenesse con la preghiera, che il 

popolo di Dio fosse un popolo di preghiera 

e Lui un Dio attento alle preghiere. 

Sapeva che in casi straordinari la brava 

gente usava aggiungere il digiuno alla 

preghiera, e che molti di loro vi aderivano. 

Lei pertanto: 

(a) Chiese che Mardocheo guidasse i 

Giudei che erano a Susa nel santificare il 

digiuno, convocassero una solenne assemblea 

e pregassero per lei, incontrandosi 

nelle rispettive sinagoghe (v 15, 16). 

Nel solenne digiuno di tre giorni, dovevano 

astenersi da ogni pasto, da ogni cibo 

piacevole, e per quanto fosse possibile, da 

ogni cibo, come segno della loro umiliazione 

per il peccato e in quanto immeritevoli 

della misericordia di Dio. Coloro che 

si lamentano per la grande fatica e l’abnegazione 

necessaria per perseguire i favori 

divini, non sanno come valutarli. 

(b) Promise che lei avrebbe santificato 

quel digiuno nei suoi appartamenti del palazzo 

con le sue ancelle, poiché non 

avrebbe potuto partecipare alle loro assemblee. 

Le sue domestiche erano sia 

ebree che proseliti tali da unirsi a lei nel 

digiuno e nella preghiera. Una padrona 

che prega con le sue domestiche è un 

buon esempio, ed è degno di essere imitato. 

Osserviamo inoltre, che coloro i 

quali sono costretti all’isolamento, possono 

unire le loro preghiere a quelle delle 

assemblee solenni del popolo di Dio; coloro 

che sono assenti nel corpo, possono 

essere presenti nello spirito. Coloro che 

desiderano e ottengono che altri preghino 

per loro, non devono pensare che questo li

Ester 4 52 

dispensi dal pregare per se stessi. 

2. Con il coraggio e la determinazione 

che si addice ad una regina: «Quando noi 

avremo cercato Dio in questa faccenda, io 

entrerò dal re per intercedere per il mio 

popolo, quantunque ciò sia contro la 

legge, ma è secondo la legge di Dio; pertanto, 

comunque vada, io rischierò, non 

darò valore alla mia vita, cosí che io possa 

servire Dio e la sua chiesa e, s’io debbo 

perire, ch’io perisca! Non potrei perdere 

la mia vita per una causa migliore. Meglio 

fare il mio dovere e morire per il mio popolo, 

piuttosto che sottrarmi al mio dovere 

e perire con loro». Lei ragiona come 

i lebbrosi: Se resto qui, morirò lo stesso (2 

R 7:4). «Se rischio potrei vivere ed essere 

la vita del mio popolo, se invece il peggio 

porterà al peggio», come diciamo noi, 

«non mi resterà che morire». Nessun rischio, 

nessuna vittoria. Non disse ciò con 

disperazione o con tormento, ma con la 

santa decisione di fare il proprio dovere e 

confidare in Dio per l’ esito; sia benvenuta 

la Sua santa volontà. Nella parte apocrifa 

di questo libro (Ester 13 e 14), abbiamo 

la preghiera di Mardocheo e di 

Ester per questa circostanza, ed entrambe 

sono molto particolari e pertinenti. Nel 

proseguimento della storia vedremo che 

Dio non ha detto a questo seme di 

Giacobbe, Cercami invano.

Introduzione Molti libri narrano storie di re, dei loro regni e degli ...

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