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QUI - GALLERIA SAN CARLO MILANO

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Via Manzoni, 46 - 20121 Milano


Progetto grafico:<br />

Gian Carlo de Magistris<br />

La Fotolito Castelnovo Sotto (RE)<br />

Traduzioni:<br />

Caleidos Madrid<br />

Fotografie:<br />

Berlino (RUTHWALZ)<br />

Berlino 1976 (Grazia Eminente)<br />

A la Ruche - Parigi 1975 (Aurelio Amendola)<br />

Finito di Stampare<br />

nel mese di Ottobre 2006 da<br />

Arti Grafiche De Pietri<br />

Castelnovo di Sotto (RE)


Eduardo Arroyo<br />

“Fantomas all’inizio del XXI° secolo”<br />

Presentazione di<br />

Martina Corgnati<br />

con il patrocinio di<br />

Consolato Generale di Spagna<br />

e<br />

Instituto Cervantes di Milano


Berlino 1976 ( foto Grazia Eminente )


Fantomas e altre storie dipinte Martina Corgnati<br />

Nella nostra epoca non sono molti i personaggi veri e originali, creati da una penna<br />

o, più raramente, da una macchina da presa e cosiffatti da abitare per decenni<br />

l’immaginario collettivo. Fantomas è uno di questi. Inventato nel 1911 da Marcel Allain<br />

e Pierre Souvestre, ha prodotto poi moltissime repliche imperfette o parzialmente<br />

infedeli, a cominciare dal più hollywoodiano Diabolik. Ma il prototipo del genio del<br />

male è lui: ancora, in parte, figlio o nipote del romanzo gotico, questo elegante signore<br />

in frac e cilindro si aggira per una Parigi ambigua e sempre crepuscolare, non senza<br />

effetti notte specialmente spettacolari: come la sostituzione dell’acido solforico al<br />

profumo nei flaconi collocati sugli scaffali di un grande magazzino (tattica copiatagli<br />

recentemente dall’anonimo avvelenatore che contamina latte e bibite nei supermarket),<br />

oppure l’attacco al transatlantico condotto con squadre di ratti portatori di peste (ripresi<br />

dal Nosferatu di Murnau nel 1922). Fantomas non ha legge e non ha limiti: non esita<br />

a mettere a faccia in sù un condannato alla ghigliottina perché sia costretto a vedere<br />

la propria morte in diretta; a usare bus di linea per investire le casseforti delle banche;<br />

a provocare scontri fra treni; e a indulgere in qualche effetto tipicamente ottocentistadecadente<br />

come il gusto della carrozza guidata da un livido cadavere dagli occhi<br />

spalancati, oppure la presenza di una figlia, Hélène, conturbante eroina noir legata da<br />

un’ambigua quanto fatale attrazione al suo forse fratello Jérome, il giornalista nemico<br />

di Fantomas. Quella del nostro è una guerra senza quartiere alla società borghese della<br />

Parigi viziata d’anteguerra, ancora febbricitante di miti belle epoque. E, benché sofisticato<br />

e pieno di riferimenti e parentele colte, il suo è personaggio terribilmente popolare,<br />

capace di catturare la fantasia delle prime masse di lettori di romanzi d’appendice e<br />

di spettatori di filmacci che oggi sono diventati cult.<br />

Forse per questo Fantomas piaceva tanto alle avanguardie: Guillaume Apollinaire, che<br />

insieme a Max Jacob aveva fondato il club degli “amici di Fantomas” lo definiva uno<br />

dei lavori in assoluto più ricchi sul piano immaginativo; per Blaise Cendrars si trattava<br />

addirittura dell’Eneide moderna; Robert Desnos aveva scritto un Lamento di Fantomas<br />

in sestine poi messo in scena addirittura con la direzione di Antonin Artaud e musiche<br />

di Kurt Weill. Inoltre Gris già nel 1915 aveva incluso un romanzo di Fantomas fra gli<br />

oggetti di una natura morta cubista (Fantomas. Giornale e pipa). Ma più di tutti l’antieroe<br />

delle notti parigine aveva colpito la fantasia di René Magritte, che gli aveva dedicato<br />

diverse composizioni, dall’Assassino minaccioso del 1926 (citazione diretta di una scena<br />

del film Le mort qui tue) a L’uomo del mare aperto, rammentando questa volta un<br />

fotogramma di Juve contre Fantomas. Inoltre l’artista belga eseguì addirittura un ritratto<br />

del misterioso assassino, parzialmente trasparente contro una parete di mattoni (Il<br />

Barbaro, 1928). E si ricordò ancora di lui in molte altre occasioni, pittoriche e letterarie.<br />

È questo uno caso, forse uno dei primi, di prepotente infiltrazione della cultura bassa<br />

nella produzione delle elites, cosa ancora infrequente nell’età delle avanguardie ma<br />

accaduta poi massicciamente, tanto da caratterizzare l’intera produzione artistica Pop<br />

e divenuta ancora più tardi, io direi, inevitabile. E infatti non sorprende che questo<br />

processo interessi Eduardo Arroyo, pittore ed artista che dietro all’apparente facilità<br />

comunicativa, nasconde sofisticazioni raffinate e che, da sempre (intendo, dagli inizi<br />

degli anni Sessanta), arricchisce i suoi dipinti di una serie di riferimenti critici e simbolici,<br />

di aperture su diversi sfondi letterari o artistici, concentrando per esempio intere storie<br />

nei suoi quadri, pur senza perdere di vista la qualità specifica della pittura, essenzialmente<br />

non-narrativa.<br />

Arroyo è un fine letterato. La prima volta a Parigi c’era andato soprattutto per scrivere.<br />

L’arte visiva, la pittura sono venuti dopo e all’inizio quasi per necessità, espediente per<br />

sbarcare il lunario in certe fasi parigine specialmente bohemien. Poi la sfida si è affermata<br />

in dimensioni altre e secondo il codice comunicativo proprio delle arti visive, diverso<br />

e potente.<br />

L’affezione alle lettere, il fatto della scrittura ha fatto sì tuttavia che l’artista non rinunciasse<br />

mai a intendere l’arte come una forma di comunicazione e a interpretare il quadro,<br />

ogni quadro, come terminale di una rete complessa di riferimenti e di messaggi.<br />

7


Un’arte senza oggetto, art pour art, astrazione, esercizio calligrafico, compiacimento<br />

estetico o formale, per Arroyo non ha senso; d’altra parte una pittura che sia solo<br />

oggetto, che si esaurisca e si lasci leggere tutta nel suo contenuto, se fosse possibile<br />

(ma non lo è perchè non sarebbe pittura; piuttosto ologramma), sarebbe ben povera<br />

cosa. Le due dimensioni invece devono necessariamente intrecciarsi e intersecarsi in<br />

un circolo virtuoso che diventa in se stesso stile. Dunque eccoci alla cultura bassa, la<br />

cultura popolare, che nel tempo si è incarnata nei suoi quadri sotto forma di diversi<br />

personaggi (fra i più simpatici ricordo solo la star del flamenco Carmen Amaya che,<br />

secondo Arroyo, frigge le sardine utilizzando come griglia improvvisata la rete del letto<br />

del Waldorf Astoria di New York); e oggi di Fantomas, cui è stata dedicata buona parte<br />

della serie di dipinti, eseguita negli ultimi anni appositamente per questa mostra.<br />

L’efferato genio del male è ritratto qui in più versioni, segnalato dalla sua inconfondibile<br />

maschera nera: una maschera che minaccia, forse, l’entourage dell’alta moda (Fantomas<br />

chez Balenciaga), o che si staglia sulla faccia di un non meglio identificato monsieur<br />

d’Avignon (uhmm.. che sia lui ?), o sulla smorfia di un altro personaggio dal look<br />

borghese e un po’ grigio, dipinto da altra mano. In questi quadri ultimi Arroyo riprende<br />

infatti a giocare un vecchio gioco delle neo-avanguardie di stampo dadaista, gioco<br />

praticato con spasso e successo alla fine degli anni Cinquanta, fra gli altri, da Jorn, Baj,<br />

Spoerri... all’epoca si parlava di peinture detournée, oggi si può dire invece “appropriazioni”.<br />

Arroyo si è appropriato, allora, di alcune vecchie tele già dipinte, e le ha sigillate con<br />

una bella mascherina da Fantomas, una mascherina inevitabilmente retrò ma molto<br />

attuale, adatta al nostro mondo nomadico, trasformista, travestitista...<br />

Sì ma perchè Fantomas ? proprio lui ? secondo me le ragioni sono tante e diverse.<br />

Innanzitutto c’è da considerare l’antica francofilia dello spagnolo Eduardo Arroyo. A<br />

Parigi l’artista da giovane ha ambientato il proprio ritratto di espatriato, di emigrato, di<br />

ribelle, polemico, arrabbiato con il proprio paese, allora franchista. Ritratto addirittura<br />

da esiliato a un certo punto (non a caso fra i titoli dei suoi quadri si trova il malinconico<br />

ed efficace Riflessioni sopra l’esilio), caustico denigratore della retorica di tutti i poteri,<br />

come ha instancabilmente dimostrato in tele innumerevoli (ricordo solo Los cuatro<br />

dictatores del ’63).<br />

Per un giovane trasgressivo e intelligente della sua generazione, Parigi è stata forse<br />

inevitabile. Sullo sfondo del suo fiume e dei suoi boulevard l’artista ha ambientato il<br />

proprio romanzo di formazione, a metà strada fra Picasso e Cortázar; ha fatto i primi<br />

passi da pittore, è stato ampiamente riconosciuto e ha ottenuto quello che si può<br />

chiamare veramente e senza eufemismi successo. Di Parigi, della Francia e dei francesi<br />

Arroyo conosce le intimità come solo uno straniero può fare; le ombre, le atmosfere,<br />

i libri. Non a caso adesso in un grande dipinto ne ripercorre la storia per simboli e<br />

tappe salienti, con tanto di galli, ferrovie, santi decollati, vecchie bretoni (o provenzali)<br />

e lavori in corso.<br />

Fantomas è parigino, è un mito letterario e cinematografico tutto francese. Arroyo<br />

disprezza, o comunque non contempla, le imitazioni americane. L’originale è meglio;<br />

dice di lui, di una sua scoperta e appartenenza.<br />

C’è, poi, la trasgressione di Fantomas, la vivacità, l’insofferenza all’ipocrisia borghese<br />

di cui Arroyo, provocatore, diffamatore, fustigatore della pittura e dei costumi, ha fatto<br />

un proprio eccellente cavallo di battaglia, giovanile ma anche maturo. Il suo spirito<br />

dissacrante non ha mai rinunciato al piacere di agire come un agente corrosivo nei<br />

confronti di questa vecchia Europa reazionaria e perbenista. Non si perita di appiattire,<br />

di sfottere, di giocare senza ritegno col cliché, ma non gli piace attaccare frontalmente<br />

i politici e la politica, azione spesso velleitaria, quasi<br />

inevitabilmente retorica e per lo più inutile. Gli piace invece irritare il potere. Innervosirlo.<br />

E poi c’è Fantomas come scelta di Magritte, uno di quei padri fondamentali di cui<br />

Arroyo non ha voluto fare a meno (o che non ha potuto fare a meno di adottare;<br />

perchè anche i padri si adottano) e che la sua pittura contiene ma non come una<br />

scatola contiene degli oggetti, citazioni posticce e in fondo sostituibili, bensì come il<br />

8<br />

Trois Fantomas et un<br />

Monsieur d’Alignan, 2006<br />

Olio e ripolin su tela<br />

cm 117 x 89


corpo contiene l’informazione del codice genetico. La dimensione del paterno-ironico,<br />

per Arroyo, secondo me è generativa, ironica e autoironica; una volta, tanti anni fa, si<br />

era addirittura raffigurato in braccio a Velazquez, bambino un po’ deforme, dal volto<br />

adulto...<br />

Da Velazquez a Magritte, passando per Rembrandt (molti anni fa una grande e infedele<br />

replica della Ronda di notte comporta quattro mesi di lavoro), Goya, Picasso, Miró, Dalí<br />

(polemicamente), De Chirico, Picabia (appassionatamente). Da loro e da altri Arroyo<br />

ha attinto, imparato, condiviso, litigato, pasticciato (come pastiche). Non si è fermato<br />

di fronte a niente, dedito a un citazionismo d’assalto, irrefrenabile ma anche a una<br />

costante prassi di riscrittura, di scarti significativi, in una parola di invenzione.<br />

Attentissimo all’attualità dell’arte e ai fatti di cronaca Arroyo non ha però mai tradito<br />

se stesso e la propria figurazione che negli anni Sessanta si tendeva a chiamare “nuova”<br />

e a identificarla, pertanto, con una parente lontana del Nouveau Réalisme e coltivata<br />

molto dagli italiani più o meno “di Parigi”, come Adami, Baj, Rotella; e che oggi si<br />

potrebbe chiamare invece semplicemente “all’Arroyo”: fredda, disincantata e perciò più<br />

penetrante.<br />

Il lavoro dell’artista madrileno, oggi, non perde di vista il cotè comunicativo e persino<br />

illustrativo ma spesso punta all’enigma, all’istantaneità irriflessa, al silenzio della<br />

sospensione, nella concentrazione dell’immagine. Lo testimonia una figura intensamente<br />

amata e frequentata anni fa, quella, molto picassiana, dello spazzacamino; oppure oggi<br />

le immagini delle Doppie malinconie incastonate come ritratti di rockstar dagli occhiali<br />

molto pop sul corpo perplesso di un bovino marrone (residuato, forse, degli antichi<br />

tori da combattimento o meditazione sulla mucca pazza che imperversa sulle nostre<br />

tavole e preoccupa i nostri dietologi ?).<br />

Forse la malinconia è doppia anche per questo perchè il significato non è mai univoco;<br />

soprattutto in questa era postmoderna, in cui sembra bello, e possibile, dire tutto e il<br />

contrario di tutto, ricorrere a tutto, impadronirsi di tutto; ma in cui si è scoperto che<br />

Arroyo, fra altri, non molti, faceva di queste cose già da molto prima, magari senza<br />

pretese programmatiche rigide ma come, lo cito, esercizio di libertà, evitando sempre<br />

le cronache intime ed esprimendosi piuttosto per aneddoti, essendosi dotato di<br />

un’aneddotica capace di dire qualsiasi cosa, di veicolare qualunque contenuto.<br />

E continua infatti così, gravitando intorno a quel punto specifico e cruciale, dove il<br />

paradosso cambia di segno e diventa grave; dove il sarcasmo acquista all’improvviso<br />

un tono terribilmente serio, la provocazione il peso specifico della denuncia. E poi,<br />

ancora, tutt’al contrario, la minaccia si rischiara in inattesa battuta di spirito e la risata<br />

che segue si stempera di nuovo in sorriso lucido e.... un po’ malinconico. E il gioco<br />

ricomincia.<br />

10<br />

Fantomas (con corbata), 2005<br />

Olio e ripolin su tela<br />

cm 55 x 35,3


Fantômas et autres récits en peinture Martina Corgnati<br />

À notre époque, rares sont les personnages vrais et originaux issus de la plume d’un<br />

auteur ou, plus rarement, d’une caméra qui, des décennies durant, ont su inspirer<br />

l’imaginaire collectif. Fantômas en est un. Inventé en 1911 par Marcel Allain et Pierre<br />

Souvestre, il a donné lieu à de nombreuses répliques imparfaites ou partiellement<br />

fidèles, à commencer par le Diabolik hollywoodien. Mais le véritable prototype du<br />

génie du mal, c’est lui : encore en partie fils ou petit-fils du roman gothique, cet élégant<br />

personnage en frac et haut-de-forme évolue dans un Paris ambigu et invariablement<br />

crépusculaire. Les effets nocturnes ne manquent pas, et ils sont particuliérement<br />

spectaculaires, comme l’acide sulfurique se substituant au parfum des flacons alignés<br />

sur les rayons d’un grand magasin (tactique récemment imitée par l’empoisonneur<br />

anonyme qui contamine le lait et les boissons dans les supermarchés italiens), ou<br />

encore l’attaque d’un transatlantique menée par des rats porteurs de la peste (inspirés<br />

par le Nosferatu mis en scène par Murnau en 1922). Fantômas ne connaît pas de<br />

lois, pas plus qu’il n’a de limites : il n’hésite pas à faire lever la tête à un condamné<br />

à mort sur la guillottine afin qu’il soit forcé de voir sa propre mort en direct ; à emprunter<br />

des autobus de ligne pour enfoncer les coffres des banques ; à provoquer des collisions<br />

de trains ; et à se laisser aller à des effets typiquement XIX e décadent, comme le<br />

carrosse conduit par un cadavre livide aux yeux exorbités ou la présence d’une fille,<br />

Hélène, troublante héroïne gothique qui éprouve une attraction aussi ambiguë que<br />

fatale à l’égard de Jérôme, le journaliste ennemi de Fantômas qui est peut-être son<br />

frère. Notre héros mène une guerre impitoyable contre la société bourgeoise du Paris<br />

corrompu d’avant-guerre, encore agité par les mythes de la Belle Époque. Et, bien que<br />

sophistiqué et foisonnant de références et de parentés raffinées, c’est un personnage<br />

terriblement populaire, en mesure de frapper l’imagination des premières masses<br />

d’amateurs de romans-feuilletons et de mauvais films, devenus de nos jours des objets<br />

de culte.<br />

C’est peut-être pour cela que Fantômas plaisait tant aux avant-gardes : Guillaume<br />

Apollinaire, qui avait fondé avec Max Jacob le club des “amis de Fantômas”, y voyait<br />

un chef-d’œuvre d’imagination ; pour Blaise Cendrars, c’était même l’Èquivalent<br />

moderne de l’Énéide; Robert Desnos avait écrit en sixains la Grande Complainte de<br />

Fantômas, qui fut mise en scène par Antonin Artaud avec des musiques de Kurt Weill.<br />

En outre, dès 1915, Juan Gris avait placé un roman de Fantômas parmi les objets<br />

d’une nature morte cubiste (Fantômas. Journal et pipe). Mais cet antihéros des nuits<br />

parisiens frappa surtout l’imagination de René Magritte, qui lui consacra plusieurs<br />

compositions, de L’Assassin menacé de 1926 (citation directe d’une scène du film Le<br />

Mort qui tue) à L’Homme du large, qui rappelait quant à lui un photogramme de Juve<br />

contre Fantômas. L’artiste belge fit même un portrait du mystérieux assassin, partiellement<br />

transparent devant un mur de briques (Le Barbare, 1928). Il l’évoqua encore à d’autres<br />

occasions, tant en peinture qu’en littérature.<br />

C’est là un cas, peut-être le premier, d’irrésistible infiltration de la part de la culture de<br />

masse dans la production des élites, chose encore peu courante à l’époque des avantgardes<br />

mais qui se produira par la suite massivement, au point de caractériser toute<br />

la production artistique pop et de devenir ensuite, pourrait-t-on dire, incontournable.<br />

En effet, il n’est pas étonnant que ce processus ait intéressé Eduardo Arroyo, un peintre<br />

et un artiste qui, derrière une apparente facilité de communication, cache des<br />

sophistications raffinées et a toujours (c’est-à-dire à partir du début des années soixante)<br />

enrichi ses tableaux d’une série de références critiques et symboliques, d’ouvertures<br />

sur différentes toiles de fond littéraires ou artistiques, concentrant par exemple dans<br />

ses tableaux des récits entiers sans pour autant perdre de vue la qualité spécifique de<br />

la peinture, essentiellement non narrative.<br />

Arroyo est un fin lettré. La première fois, il s’est rendu à Paris uniquement pour écrire.<br />

L’art visuel, la peinture ne sont venus qu’après et, au début, presque par nécessité,<br />

comme un expédient lui permettant de joindre les deux bouts durant certaines de ses<br />

périodes parisiennes particulièrement bohèmes. Le défi a ensuite pris d’autres<br />

12<br />

Fantomas hermafroditas, 2006<br />

Olio su tela<br />

cm 26,5 x 21,5


dimensions, obéissant au code de communication propre aux arts visuels, différent<br />

et puissant.<br />

L’attachement aux lettres, le fait d’écrire ont fait que l’artiste n’a jamais renoncé à<br />

considérer l’art comme une forme de communication et à interpréter le tableau,<br />

chaque tableau, comme l’aboutissement d’un complexe réseau de références et de<br />

messages. Un art sans objet, un art pour l’art qui ne serait qu’abstraction, exercice<br />

calligraphique, plaisir esthétique ou formel, n’aurait pas de sens pour Arroyo ; par<br />

ailleurs, une peinture qui ne serait qu’objet, s’épuiserait et se laisserait lire tout entière<br />

dans son contenu, en admettant que ce soit possible (et cela ne l’est pas, car ce ne<br />

serait pas une peinture mais un hologramme), serait une bien pauvre chose. Car les<br />

deux dimensions doivent nécessairement s’entrelacer et se recouper en un cercle<br />

vertueux qui en soi devient un style. Et nous voici donc à la culture de masse, la culture<br />

populaire, qui au fil du temps s’est incarnée dans ses tableaux sous forme de différents<br />

personnages (parmi les plus sympathiques, rappelons l’étoile du flamenco Carmen<br />

Amaya qui, à en croire Arroyo, fait frire les sardines en utilisant comme gril improvisé<br />

le sommier du lit du Waldorf Astoria de New York) ; et aujourd’hui elle prend l’aspect<br />

de Fantômas, auquel l’artiste a consacré une bonne partie des tableaux exécutés au<br />

cours des dernières années en prévision de cette exposition. L’impitoyable génie du<br />

mal y est représenté sous plusieurs versions, toujours reconnaissable à son immanquable<br />

masque noir : un masque qui menace, peut-être, l’entourage de la haute couture<br />

(Fantômas chez Balenciaga), ou se profile sur le visage d’un certain monsieur d’Avignon<br />

(est-ce lui ?) ou sur la grimace d’un autre personnage à l’air bourgeois et quelque peu<br />

morne, dû à une autre main. Dans ces derniers tableaux, Arroyo reprend un effet un<br />

vieux jeu des néo-avant-gardes d’inspiration dadaïste, jeu pratiqué avec bonheur et<br />

succès, à la fin des années cinquante, par Jorn, Baj et Spoerri, entre autres. À l’époque<br />

on parlait de “peinture détournée”, aujourd’hui on pourrait utiliser le terme ”appropriations”.<br />

Arroyo, donc, s’est approprié certaines vieilles toiles déjà peintes et y a apposé un<br />

beau masque de Fantômas, un loup inévitablement rétro mais fort actuel, adapté à<br />

notre monde nomade, transformiste, éoniste...<br />

Mais pourquoi Fantômas, pourquoi précisément lui ? Les raisons en sont selon moi<br />

aussi nombreuses que diverses. Il faut tenir compte avant tout de la vieille francophilie<br />

de l’Espagnol Eduardo Arroyo. Dans sa jeunesse, c’est à Paris que l’artiste a campé<br />

son propre portrait d’expatrié, d’émigré, de rebelle, polémique et en colére contre son<br />

pays, alors franquiste. Et même, à un certain point, d’exilé (parmi les titres de ses<br />

tableaux figure en effet le mélancolique et efficace Réflexions sur l’exil), dénigrateur<br />

caustique de la rhétorique de tous les pouvoirs, comme il l’a inlassablement démontré<br />

dans d’innombrables toiles (que l’on songe à Los cuatro dictatores , de 1963).<br />

Pour un jeune homme transgressif et intelligent de sa génération, Paris était peut-être<br />

inévitable. C’est dans le décor de son fleuve et de ses boulevards que l’artiste a situé<br />

son roman de formation, à mi-chemin entre Picasso et Cortázar ; il y a fait ses premiers<br />

pas comme peintre, y a été largement reconnu et y a obtenu ce que l’on peut<br />

véritablement, sans aucun euphémisme, qualifier de succès. Arroyo connaît intimement,<br />

comme seul un étranger peut le faire, Paris, la France et les Français, leurs ombres,<br />

leurs atmosphères et leurs livres. Et ce n’est pas un hasard si, dans un grand tableau,<br />

il en a retracé l’histoire à travers des symboles et des épisodes saillants, avec force<br />

coqs, chemins de fer, saints décapités, vieilles Bretonnes (ou Provençales) et travaux<br />

en cours.<br />

Fantômas est parisien, c’est un mythe littéraire et cinématographique purement français.<br />

Arroyo méprise, ou tout au moins ne prend pas en considération, ses imitations<br />

américaines. L’original est mieux, et c’est de lui, de sa découverte et de son appartenance<br />

qu’il nous parle.<br />

Il y a en outre la trangression de Fantômas, sa vivacité, son intolérance à l’égard de<br />

l’hypocrisie bourgeoise dont Arroyo, provocateur, diffamateur, pourfendeur de sa<br />

peinture et de ses mœ urs, a fait un excellent cheval de bataille, dans sa jeunesse<br />

14<br />

Fantomas, 2005<br />

Olio e ripolin su tela<br />

cm 34,3 x 26,4


mais aussi dans sa maturité. Son esprit désacralisateur n’a jamais renoncé au plaisir<br />

d’agir comme un agent corrosif envers cette vieille Europe réactionnaire et conformiste.<br />

Il n’hésite pas à niveler, à railler, à jouer sans retenue avec les clichés, mais n’aime pas<br />

attaquer de front les politiques et la politique, acte souvent vélléitaire, pratiquement<br />

toujours rhétorique et, qui plus est, parfaitement inutile. Par contre, il se plaît à chatouiller<br />

le pouvoir, à l’irriter.<br />

Et puis, il y a Fantômas comme personnage choisi par Magritte, un de ces pères<br />

fondamentaux dont Arroyo n’a jamais voulu se passer (ou qu’il n’a pu s’empêcher<br />

d’adopter, car on peut aussi adopter un père) et que sa peinture contient, non pas<br />

comme une boîte contiendrait des objets, citations postiches et au fond interchangeables,<br />

mais comme le corps contient les informations de son propre code génétique.<br />

Selon moi, pour Arroyo, la dimension de l’élément paternel-ironique est générative,<br />

ironique et auto-ironique ; une fois, il y a des années de cela, il s’est même représenté<br />

dans les bras de Vélasquez sous l’aspect d’un enfant quelque peu difforme, au visage<br />

d’adulte...<br />

De Vélasquez à Magritte en passant par Rembrandt (voici des années, une grande<br />

toile reproduisant librement la Ronde de nuit lui a demandé quatre mois de travail),<br />

Goya, Picasso, Miró, Dalí (polémiquement), De Chirico et Picabia (passionnément).<br />

Ces artistes, et d’autres encore, ont fourni à Arroyo l’inspiration, il en a tiré un<br />

enseignement, s’est confronté à eux, les a pastichés. Il n’a reculé devant rien, s’adonnant<br />

à un irrésistible citationnisme-choc mais aussi à un usage constant de la réécriture, des<br />

écarts significatifs, en un mot de l’invention.<br />

Très attentif à l’actualité des arts et aux faits divers, Arroyo est pourtant toujours resté<br />

fidéle à lui-même et à sa propre figuration, que dans les années soixante on avait<br />

tendance à qualifier de “nouvelle”, l’identifiant à un lointain parent du Nouveau Réalisme,<br />

et que cultivaient beaucoup les Italiens plus ou moins “parisiens” tels qu’Adami, Baj<br />

ou Rotella ; et dont on pourrait, de nos jours, dire qu’elle est simplement la manière<br />

d’Arroyo : froide, désenchantée et donc plus pénétrante.<br />

Actuellement, le travail de cet artiste madriléne ne perd pas de vue le côté communicatif<br />

et même illustratif, tout en misant souvent sur l’énigme, l’instantanéité irréfléchie, le<br />

silence de la suspension dans la concentration de l’image. Preuve en est une figure<br />

autrefois intensément aimée et familière, et bien dans la lignée de Picasso, celle du<br />

ramoneur ; ou encore, aujourd’hui, les images des Doubles mélancolies enchâssées,<br />

tels des portraits de vedettes du rock aux lunettes de soleil pop, sur le corps perplexe<br />

d’un bovin marron (restant des anciens taureaux de combat ou méditation sur la vache<br />

folle qui bouleverse nos habitudes alimentaires et préoccupe nos diététiciens ?).<br />

Peut-être est-ce pour cette raison que la mélancolie est double, parce que la signification<br />

n’est jamais univoque, en particulier dans notre ère postmoderne où il semble beau,<br />

et possible, de dire tout et son contraire, de recourir à tout, de s’approprier de tout ;<br />

mais où on a découvert qu’Arroyo, comme un nombre restreint d’autres artistes, faisait<br />

déjà ces choses bien avant, sans prétentions programmatiques rigides peut-être mais<br />

comme, je le cite, un exercice de liberté, évitant toujours les chroniques intimes et<br />

s’exprimant plutôt par anecdotes parce que doué d’un art de l’anecdote capable de<br />

dire n’importe quoi, de véhiculer n’importe quel contenu.<br />

Et en fait il continue sur cette voie, autour de ce point spécifique et crucial où le sens<br />

du paradoxe change, devenant grave ; où le sarcasme acquiert à l’improviste un ton<br />

terriblement sérieux et où la provocation se charge du poids spécifique de la dénonciation.<br />

Puis, au contraire, la menace s’éclaire en une boutade spirituelle inattendue et le rire<br />

qui vient ensuite se fond à nouveau en un sourire lucide et.... un peu mélancolique.<br />

Et le jeu recommence.<br />

16<br />

La maison de Fantomas, 2006<br />

Olio su tela<br />

cm 45 x 46


Fantomas y otras historias dibujadas Martina Corgnati<br />

No son muchos los personajes auténticos y originales de nuestra época que, creados<br />

por una pluma o por una cámara de cine, hayan sido capaces de habitar durante<br />

decenios en el imaginario colectivo. Fantomas es uno de ellos. Creado en 1911 por<br />

Marcel Allain y Pierre Souvestre, Fantomas ha dado pie a multitud de réplicas imperfectas<br />

o no del todo fieles, comenzando por el hollywoodiense Diabolik. Pero el prototipo<br />

del genio del mal sigue siendo él: heredero, en parte, de la novela gótica, este elegante<br />

señor vestido de frac y chistera merodea por un Parìs ambiguo y siempre crepuscular<br />

realizando fechorías nocturnas espectaculares, como rellenar con ácido sulfúrico<br />

aromatizado los frascos de perfume colocados en las vitrinas de unos grandes almacenes<br />

(táctica copiada recientemente por el delincuente anónimo que envenena la leche y<br />

otras bebidas en los supermercados), o el ataque a un transatlántico mediante<br />

escuadrones de ratas infectadas con la peste (tema retomado en 1922 por el Nosferatu<br />

de Murnau). Fantomas no tiene ley y no tiene límites: no duda en tumbar boca arriba<br />

a un condenado a la guillotina para obligarle a mirar en directo su propia muerte; a<br />

utilizar autobuses de línea para reventar las cajas fuertes de los bancos, a provocar<br />

choques de trenes o a deleitarse ante algún efecto típicamente romántico-decadente,<br />

como el de la carroza conducida por un cadáver de rostro lívido y ojos desencajados,<br />

o el de Hèléne, la turbadora heroína noir ligada por una atracción ambigua y fatal al<br />

que tal vez sea su hermano Jérome, el periodista enemigo de Fantomas. La de nuestro<br />

héroe es una guerra sin cuartel contra la sociedad burguesa y corrompida del París de<br />

los años anteriores a la guerra, una sociedad todavía cautivada por los mitos de la belle<br />

époque. Y, aunque sofisticado y lleno de referencias y afinidades culturales, se trata<br />

de un personaje terriblemente popular, capaz de apoderarse de la fantasía de miles<br />

de lectores de folletines y espectadores de películas de pésima calidad que, sin<br />

embargo, con el paso del tiempo se han convertido en objetos de culto.<br />

Tal vez por eso Fantomas gustaba tanto a las vanguardias: Guillaume Apollinaire, quien<br />

junto con Max Jacob fundó el “club de amigos de Fantomas” la definía como una de<br />

las obras más ricas en el plano imaginativo; para Blaise Cendrars se trataba ni más ni<br />

menos que de la Eneida moderna; Robert Desnos escribió en sextinas el Lamento de<br />

Fantomas, obra representada más tarde nada menos que bajo la dirección de Antonin<br />

Artaud, con música de Kurt Weill. También Juan Gris, ya en 1915, incluyó una novela<br />

de Fantomas en una naturaleza muerta cubista (Fantomas, periódico y pipa). Pero a<br />

quien más impresionó nuestro antihéroe fue a René Magritte, quien le dedicó<br />

composiciones como El asesino amenazador, de 1926 (cita directa de una escena<br />

de la película Le mort qui tue) y El hombre del mar abierto, que hace referencia a un<br />

fotograma de Juve contre Fantomas. El artista belga llegó incluso a realizar un retrato<br />

del misterioso asesino, semitransparente sobre una pared de ladrillo (El Bárbaro,<br />

1928), y lo utilizó en muchos otros elementos pictóricos y literarios.<br />

Estamos ante un caso, tal vez uno de los primeros, de fuerte penetración de la cultura<br />

popular en la producción de las élites, cosa todavía poco frecuente en el período de<br />

las vanguardias pero que después sucedería a gran escala, hasta el punto de caracterizar<br />

el conjunto de la producción artÌstica Pop y convertirse, finalmente, en un elemento<br />

que podríamos calificar como inevitable. No es de sorprender, por tanto, que este<br />

proceso interese a Eduardo Arroyo, artista que tras su aparente facilidad comunicativa<br />

esconde una refinada sofisticación y que desde siempre (quiero decir, desde principios<br />

de los años sesenta) ha incorporado a sus pinturas una rica serie de referencias críticas<br />

y simbólicas. Abierto a muy diferentes tendencias literarias y artísticas, Arroyo introduce<br />

en sus cuadros historias completas, sin perder por ello de vista la calidad específica<br />

de la pintura, esencialmente no narrativa.<br />

Arroyo es un brillante escritor. Su primer viaje a París lo realizó sobre todo con la<br />

intención de dedicarse a escribir. El arte visual, la pintura, vinieron después, casi por<br />

necesidad, para sobrevivir durante su época de bohemia parisina. Después el desafío<br />

se consolidó en una nueva dimensión según el código comunicativo propio de las<br />

artes visuales, diferente y poderoso.<br />

18<br />

Fantomas transexual, 2006<br />

Olio su tela<br />

cm 45 x 46


Su afición por las letras y la escritura ha hecho que el artista no renuncie jamás a<br />

entender el arte como una forma de comunicación y a interpretar el cuadro, cada<br />

cuadro, como el culmen de una compleja red de referencias y mensajes. Un arte sin<br />

objeto -art pour art, abstracción, ejercicio caligráfico, complacencia estética o formalno<br />

tiene sentido para Arroyo; por otra parte, una pintura que sólo fuera objeto, que<br />

se agotara en sí misma y se dejara leer en todo su contenido, si eso fuera posible (que<br />

no lo es porque en tal caso no sería pintura, sino más bien holograma), sería bien<br />

poca cosa. Las dos dimensiones tienen necesariamente que entrelazarse e intersecarse<br />

en un círculo virtuoso que se convierte en estilo en sí mismo. Nos encontramos, pues,<br />

ante la cultura baja, la cultura popular que con el tiempo se ha encarnado en sus<br />

cuadros bajo la forma de diferentes personajes (entre los más divertidos me viene a<br />

la mente la estrella del flamenco Carmen Amaya que, en la versión de Arroyo, utiliza<br />

el jergón de su cama en el Waldorf Astoria de Nueva York como improvisada parrilla<br />

para asar sardinas). Y llegamos también a Fantomas, a quien dedica Arroyo una buena<br />

parte de las obras que ha realizado especialmente para esta exposición durante los<br />

últimos años. El cruel genio del mal aparece representado en varias versiones, pero<br />

siempre reconocible por su inconfundible máscara negra, una máscara que amenaza<br />

al mundo de la moda (Fantomas chez Balenciaga) o que se dibuja sobre el rostro<br />

de un no bien identificado monsieur d’Avignon (uhmm... no será él?), o sobre el gesto<br />

contrariado de un personaje de look burgués y algo grisáceo pintado por otra mano.<br />

En estos últimos cuadros Arroyo recupera un viejo juego de las neovanguardias de<br />

impronta dadaísta, un juego que a finales de los años cincuenta practicaron con gran<br />

éxito y diversión, entre otros, Jorn, Baj o Spoerri. Aunque entonces se le llamaba<br />

peinture detournée hoy podríamos denominarlo “apropiaciones”. Arroyo se ha apropiado<br />

de algunas viejas telas ya pintadas, las ha acabado con una bella máscara de Fantomas,<br />

una máscara inevitablemente retro pero muy actual, perfectamente adaptada a nuestro<br />

mundo nómada, transformista, travestista... Sí, pero por qué Fantomas? por qué<br />

precisamente él? A mi parecer las razones son muchas y muy variadas. En primer lugar<br />

hay que tener en cuenta la antigua francofilia del español Eduardo Arroyo. París fue<br />

el telón de fondo sobre el que el artista construyó su propio retrato de expatriado, de<br />

emigrado, de rebelde, polémico, indignado con su propio país, entonces franquista.<br />

En aquella época Arroyo se presentaba como exiliado (no por casualidad uno de sus<br />

cuadros lleva el nostálgico y explícito título de Reflexiones sobre el exilio) y cáustico<br />

flagelador de la retórica del poder, como ha demostrado incansablemente en innumerables<br />

telas (mencionemos sólo Los cuatro dictadores, del 63). Para un joven de su generación,<br />

transgresor e inteligente, París era inevitable. El artista utilizó el escenario de su río y<br />

sus bulevares para ambientar su propia novela de formación, a mitad de camino entre<br />

Picasso y Cortázar; allí dio sus primeros pasos como pintor, allí fue ampliamente<br />

reconocido y alcanzó, podemos decirlo sin ambages ni eufemismos, el éxito. De París,<br />

de Francia y de los franceses, Arroyo conoce sus intimidades como sólo puede<br />

conocerlas un extranjero: la atmósfera, las sombras, los libros... Y no por casualidad<br />

nos propone ahora en un gran cuadro un recorrido por la historia y sus etapas más<br />

significativas a través de sìmbolos como gallos, estaciones, santos degollados, viejas<br />

bretonas -o provenzales- y obras en construcción.<br />

Fantomas es parisino, es un mito literario y cinematográfico absolutamente francés.<br />

Arroyo desprecia, o al menos ignora, las imitaciones americanas. El original es mejor,<br />

dice de él, al tiempo que lo considera como un descubrimiento suyo, que le pertenece.<br />

Tenemos además la transgresión de Fantomas, su vitalidad, su intolerancia hacia la<br />

hipocresía burguesa de la que Arroyo, provocador, difamador, fustigador de la pintura<br />

y de las costumbres, hizo su propio caballo de batalla no sólo en su juventud sino<br />

también en la madurez. Su espíritu desacralizador no ha renunciado nunca al placer<br />

de conducirse como un agente corrosivo contra la vieja Europa reaccionaria y conformista.<br />

No vacila en aplastar, en mofarse, en jugar sin cesar con el cliché, pero no le gusta<br />

atacar frontalmente a los políticos y la política, acto a menudo veleidoso, inevitablemente<br />

retórico y casi siempre inútil.<br />

20<br />

Fantomas déguise en De Chirico, 2006<br />

Olio su tela<br />

cm 38,5 x 36


Lo que le gusta es irritar al poder, ponerle nervioso.<br />

Y también está Fantomas como elección de Magritte, uno de los padres a los que<br />

Arroyo no ha querido dejar de lado (o al que ha tenido por fuerza que adoptar, porque<br />

también a los padres se los adopta) y que está contenido en su pintura, pero no como<br />

una caja que contiene objetos, citas postizas y en el fondo sustituibles, sino más bien<br />

como el organismo contiene la información de su código genético. Para Arroyo la<br />

dimensión de lo paterno-irónico es, en mi opinión, generativa, irónica y autoirónica;<br />

una vez, hace ya bastantes años, llegó incluso a representarse a sí mismo en brazos<br />

de Velázquez como un niño algo deforme de rostro adulto... De Velázquez a Magritte,<br />

pasando por Rembrandt (hace ya muchos años realizó una grande e infiel copia de<br />

la Ronda de noche que le llevó cuatro meses de trabajo), Goya, Picasso, Miró, Dalí<br />

(polémicamente), De Chirico, Picabia (apasionadamente). De ellos y de otros, Arroyo<br />

ha bebido, aprendido y compartido, se ha peleado con ellos y los ha “pasticheado”.<br />

No se ha detenido ante nada, empujado por una irrefrenable necesidad de citar, pero<br />

volcado al mismo tiempo a un constante ejercicio de reescritura, de descartes<br />

significativos, en una palabra, de invención.<br />

Aunque siempre atento a las crónicas y a la actualidad del arte, Arroyo nunca se ha<br />

traicionado a sí mismo ni a esa figuración que en los años sesenta tendía a llamarse<br />

“nueva” y que se identificaba con su pariente lejano, el Nouveau Réalisme, una figuración<br />

intensamente cultivada por los italianos más o menos “de París”, como Adami, Baj o<br />

Rotella y que hoy podría llamarse simplemente “a lo Arroyo”: una figuración fría,<br />

desencantada y, por ello, más penetrante.<br />

El trabajo actual del artista madrileño no pierde de vista el lado comunicativo e incluso<br />

ilustrativo, pero a menudo prefiere el enigma, el instante sin reflejo, el silencio de la<br />

suspensión, la concentración de la imagen. Así lo atestigua una figura intensamente<br />

amada y recurrente desde hace años, el personaje tan picassiano del deshollinador;<br />

y también las imágenes de las Dobles nostalgias, representadas como estrellas de<br />

rock con gafas híper pop sobre un perplejo buey marrón (superviviente, tal vez, de los<br />

antiguos toros de combate, o meditación sobre esas vacas locas que invaden nuestras<br />

mesas y preocupan a nuestros nutricionistas?).<br />

Tal vez la nostalgia sea doble también por eso, porque el significado no es nunca<br />

unÌvoco, sobre todo en esta época postmoderna en la que parece bello, y posible,<br />

decirlo todo y lo contrario de todo, perseguirlo todo, apropiarse de todo; pero en la<br />

que se ha descubierto que Arroyo -entre otros, pero no tantos- ya hacìa esto mismo<br />

desde mucho antes, tal vez sin pretensiones programáticas rígidas pero, utilizando sus<br />

propias palabras, como un ejercicio de libertad, evitando siempre las anécdotas íntimas<br />

y expresándose más bien a través de historias, estando como está dotado de la<br />

capacidad de decir cualquier cosa, de vehicular cualquier contenido.<br />

Y continúa de hecho asì, gravitando alrededor de ese punto específico y crucial en el<br />

que la paradoja cambia de signo y adquiere gravedad, en el que el sarcasmo adopta<br />

de pronto un tono terriblemente serio y la provocación adquiere el peso específico de<br />

la denuncia. Y después, una vez más, todo lo contrario, la amenaza se disuelve en una<br />

broma inesperada y la risotada que le sigue se diluye en una sonrisa lúcida... y un poco<br />

nostálgica. Y el juego vuelve a empezar.<br />

22<br />

Fantomas chez Balenciaga, 2006<br />

Olio su tela<br />

cm 130 x 97


Berlino ( foto RUTHWALZ )<br />

24<br />

2000 - 2005 I<br />

2005 - Olio su tela<br />

cm 162 x 130


26<br />

2000 - 2005 II<br />

2005 - Olio su tela<br />

cm 162 x 130


28<br />

2000 - 2005 III<br />

2005 - Olio su tela<br />

cm 162 x 130


Messico 2001 - Arroyo con Isabel Azcárate<br />

30<br />

Doble melancolìa de Paul Gauguin<br />

tocando el Harmonium en la calle<br />

de la Grande Chaumière, 2005<br />

Olio su tela<br />

cm 146 x 114


32<br />

Melancolìa, 2005<br />

Olio su tela<br />

cm 81 x 100


34<br />

Melancolìa, 2005<br />

Olio su tela<br />

cm 81 x 100


36<br />

Histoire de France I,<br />

( souvenir de Dépaquit ), 2006<br />

Olio su tela<br />

cm 130 x 97


38<br />

Histoire de France II<br />

(souvenir de Dépaquit), 2006<br />

Olio su tela<br />

cm 130 x 97


40<br />

Federico el Sabio, 2006<br />

Olio su tela<br />

cm 55 x 46


42<br />

Pinocho, 2003<br />

Olio su tela<br />

cm 33 x 24


Robles de Laciana, 2005<br />

44<br />

Orson Welles, 2003<br />

Olio su tela<br />

cm 33 x 24


46<br />

La cocinera del Potemkin, 2005<br />

Olio su tela<br />

cm 33 x 24


48<br />

El negro del Narciso, 2005<br />

Olio su tela<br />

cm 33 x 24


50<br />

El musico del Titanic, 2005<br />

Olio su tela<br />

cm 33 x 24


52<br />

Yakuza, 2003<br />

Olio su tela<br />

cm 33 x 24


Milano 2001, Arroyo con il Dr. Bac di Barcelona<br />

54<br />

Venus Verticordia, 2003<br />

Olio su tela<br />

cm 33 x 24


56<br />

La dama de pique, 2002<br />

Olio su tela<br />

cm 33 x 24


58<br />

Perro dormido, 2002<br />

Olio su tela<br />

cm 24 x 33


60<br />

Elisabeth Sidal, 2001<br />

Olio su carta<br />

cm 90 x 55


62<br />

Elisabeth Sidal, 2001<br />

Olio su carta<br />

cm 90 x 55

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