MOISE et PHARAON - Il giornale dei Grandi Eventi

L’intervista
Parlano il maestro Muti
ed il regista Pier’Alli
A Pag. 2
La Storia dell’Opera
Un lavoro in francese
richiesto fin dal primo Mosè
A Pag. 6
Raffronti egizi
La vicenda analizzata
alla luce della storia
A Pag. 8 e 9
Rossini in Francia
L’ultimo Rossini:
la rivoluzione prima del silenzio
A Pag. 11
L’Esodo nella Bibbia
L’analisi della scrittura
nelle riflessioni di S.E.
Mons. Giovanni D’Ercole
A Pag. 13
anno XVI - numero 80 - 2 dicembre 2010
Moïse et Pharaon
ou Le Passage de la Mer Rouge
di Gioachino Rossini

2 Moïse et Pharaon Il
Parlano il direttore Riccardo Muti ed il regista Pier’Alli
«Questo Mosè è un’opera
grandiosa e coinvolgente»
Su questo Moïse c’è da
tempo molta attesa,
non solo perché mai
eseguito nella sua versione
originale a Roma, non anche
per la direzione del M°
Muti e la sua collaborazione
stabile con il Teatro prima
annunciata e poi sperata,
ma soprattutto perché è
il titolo d’apertura di una
stagione che si vuole porre
come punto di svolta, come
nuova era dello stabile
capitolino. Nuove direzioni
artistiche, nuova - quasi
- gestione amministrativa,
interesse espresso e dimostrato
dal Sindaco che non
ha voluto essere solo Presidente
nominale, ma si è
posto come mediatore di
tante tensioni e sirena ammaliatrice
per coinvolgere
Muti il più possibile. Dunque,
quest’opera dovrebbe
essere, almeno nelle intenzioni,
punto di svolta, lo
spartiacque per il rilancio.
Riccardo Muti, nella conferenza
stampa di questo
spettacolo, ha sollecitato
lui stesso la domanda clou
per chiarire voci, indiscrezioni,
interpretazioni. «Essere
direttore musicale del
teatro di Roma – ha detto
schiettamente - significa
passare qui parecchi mesi, ma
io non sono ancora disoccupato,
avendo doveri in molte
parti del mondo. Non posso,
dunque, accettare un titolo se
non mi è possibile garantire la
presenza. Ma visto che le mie
esperienze al Costanzi sono
state positive, collaborerò in
altre forme».
Ma torniamo a questo
spettacolo. Esso sarà un
Grand-opéra in tutto e per
tutto, coinvolgendo e valorizzando
ogni settore del
Teatro, dall’orchestra, al
coro, al corpo di ballo. Muti
ripropone il Moïse nella
versione integrale in lingua
francese che propose
alla Scala di Milano nel
2003 e poi lo scorso anno a
Salisburgo. «E’ un’opera
grandiosa – sottolinea - per
dimensioni, respiro, potenza
vocale e strumentale, moderna
nella scrittura contrappuntistica
e nell’intreccio delle
parti. Qui Rossini ha usato
tutte le possibili tecniche
compositive, sia nella scrittura
vocale che nella strumentazione.
Egli ha raggiunto quasi
quella perfezione che si ritroverà
poi nel Guglielmo
Tell due anni più tardi. Il
~ ~ La Copertina ~ ~
sandro Botticelli La punizione di Core, Datan e Abiran
(part.) Vaticano – Scene dell’Antico Testamento
- Parete Sud della Cappella Sistina.
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Moïse è una sorta d’immenso
oratorio che attribuisce
un’importanza fondamentale
al coro, anche se la scrittura
orchestrale registra pagine di
virtuosismo estremo, mentre i
recitativi non sono mai accademici,
ma veri pilastri scolpiti
con forza michelangiolesca.
L’opera termina con
quell’ormai famoso passaggio
del Mar Rosso, che alcuni
problemi scenografici diede
nella prima esecuzione. Qui,
dal punto di vista musicale,
dopo una tempesta in orchestra
che assomiglia ad un galoppo
infernale, le acque si ricompongono,
le onde si placano
in un momento di lirismo
spinto cui ho scelto di
dare uno stampo mendelssohniano
che guarda alla pacificazione».
La regia e le scene sono firmate
da Pier’Alli, che ha
usato certamente un’estetica
moderna, anche se però
è leggermente scivolato in
maniera un po’ abusata nel
solito richiamo a fatti del
XX secolo in un soggetto
storico di oltre 4 mila anni
più antico. Pier’Alli è alla
sua seconda collaborazione
con Muti dopo Il Mefistofele
nel 1995 alla Scala. Il
regista ha giocato molto –
come ha già fatto lo scorso
anno al Costanzi con
l’Iphigénie en Aulide – su
elementi scenografici semplici
per esaltare il gioco
delle videoproiezioni. «La
scena è quasi un contenitore
bianco, marmoreo, in cui a
tratti i filmati, i giochi di luce,
possono raccontare i momenti
essenziali, quali le Piaghe
d’Egitto, la distruzione del
tempio, la consegna delle Tavole,
il passaggio del Mar
Rosso. Non mancano elementi
egizi come obelischi, piramidi,
ma sono di specchi ed
inseriti in un grande Skyline
di una metropoli contemporanea.
Fui tra i primi nell’86 alla
Scala ad usare le proiezioni,
allora ancora in pellicola. Ora
con il computer si ottengono
effetti davvero spettacolari».
andrea Marini
Giornale dei Grandi eventi
stagione 2010-2011 al Teatro Costanzi
18 – 26 gennaio 2011 a VIew froM The BrIdge
di William Bolcom
Direttore Bruno Bartoletti
Interpreti John Del Carlo, Frank Galati, Amy Hutchison
4 – 18 febbraio 2011 L'eLIsIr d'aMore
di Gaetano Donizetti
Direttore Bruno Campanella
Interpreti Adriana Kucerovà, Saimir Pirgu, Fabio Maria Capitanucci
12 – 24 marzo 2011 naBuCCo
di Giuseppe Verdi
Direttore Riccardo Muti
Interpreti Leo Nucci, Antonio Poli, Dmitry Beloselskiy
12 – 19 aprile 2011 dIe enTführung aus deM seraIL
(Il ratto dal serraglio)
di W.A. Mozart
Direttore Gabriele Ferro
Interpreti Maria Grazia Schiavo, Olga Peretyatko, Charles Castronovo
24 – 31 maggio 2011 La BaTTagLIa dI Legnano
di Giuseppe Verdi
Direttore Pinchas Steinberg
Interpreti Dmitriy Beloselskiy, Luca Salsi, Tatiana Serjan
6 - 26 giugno 2011 BohèMe
di Giacomo Puccini
Direttore James Conlon
Interpreti Ramòn Vargas, Vito Priante, Hibla Gerzmava
stagione estiva alle Terme di Caracalla
~ ~ La Locandina ~ ~
Spettacolo Inaugurale della stagione 2010 - 2011
Teatro Costanzi, 2 - 12 dicembre 2010
Moïse et Pharaon
ou Le Passage de la Mer rouge
Opéra in quattro atti
Libretto di Luigi Balocchi e Étienne de Jouy
Musica di Gioachino Rossini
Direttore Riccardo Muti
Regia, scene, costumi e video Pier'Alli
Coreografia Shen Wei
Luci Guido Levi
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Personaggi / Interpreti
adrIana LeCouVreur
di Francesco Cilea
aIda
di Giuseppe Verdi
30 settembre – 8 ottobre 2011 eLekTra
di Richard Strauss
Direttore Fabio Luisi
Interpreti Felicity Palmer, Eva Johansson, Melanie Diener
Moïse (B) Ildar Abdrazakov
Pharaon (B) Nicola Alaimo
Aménophis (T) Eric Cutler
Éliézer (T) Juan Francisco Gatell
Osiride (Bs) Riccardo Zanellato
Aufide (T) Saverio Fiore
Sinaïde (S) Sonia Ganassi (2,5,7,9,11)/
Nino Surguladze (12)
Anaï (S) Anna Kasyan (2/7/9) /
Erika Grimaldi (5/11/12)
Marie (Ms) Barbara Di Castri
Une voix mistérieuse (B) Riccardo Zanellato
Étoile ospite Fang-Yi Sheu
ORCHESTRA, CORO E CORPO DI BALLO DEL TEATRO DELL’OPERA
Nuovo Allestimento
In lingua originale con sovratitoli in italiano

Il Giornale dei Grandi eventi
Questo Moïse et
Pharaon s’inserisce
in una continuazione
ideale con il
Mosè in Egitto di Rossini,
proposto dall’Opera di
Roma nel novembre del
2007 e che in realtà fu la
base su cui “il pesarese”
lavorò per realizzare
questa versione francese,
di nove anni più tarda,
che non è solo pura tra-
duzione, ma arricchita di
passaggi musicali significativi.
Riccardo Muti, direttore
di questo titolo d’apertura
della stagione
2010/2011 – la prima che
torna ad inaugurarsi a fine
anno – il Moïse l’ha già
portato nel 2003 alla Scala
e nel 2009 a Salisburgo,
ma è stata una sua scelta
per quest’occasione poi-
La scena in Egitto, è nel campo dei Madianiti nei
pressi di Menfi ed a Menfi.
aTTo I – Il popolo ebreo, da anni prigioniero in Egitto, prega Dio
per riacquistare la libertà. Mosè, loro capo, li induce a sperare perché
ha inviato il fratello Elisero dal Faraone per ammonirlo che se
concederà la libertà eviterà l’ira del Signore. Torna Elisero, accompagnato
dalla sorella Maria e dalla nipote Anaide, con la notizia che
il Faraone ha accettato di liberare gli ebrei e, come segno, ha liberato
la stessa Maria. Anaide rinuncerà all’amato Amenofi, figlio del Faraone,
per consacrarsi a Dio e l’apparizione dell’arcobaleno è interpretata
come segno propizio. Una voce dall’alto ordina a Mosè di ricevere
le 12 Tavole della Legge, che dovrà poi presentare al suo popolo.
Dopo la consacrazione Anaide rimane sola ed è raggiunta dall’amato
Amenofi, ma lei, ormai legata a Dio, dovrà partire col suo popolo.
Amenofi vuole fare di tutto per scongiurare la separazione e si allontana.
Dopo poco torna con l’ordine del Faraone di sospendere la
partenza. Interviene Mosè, ma il giovane da ordine di ucciderlo.
Mentre Mosè è circondato dagli egizi e difeso dai suoi, giunge il Faraone.
Per dimostrargli quanto è potente Dio, Mosè scuote una verga
provocando l’oscuramento del sole su tutte le terre d’Egitto.
aTTo II – Nella reggia tutti sono terrorizzati per l’improvviso
oscuramento. Il Faraone convoca Mosè che giunge con Elisero e gli
promette in cambio, nonostante la contrarietà di suo figlio Amenofi,
la libertà per il suo popolo se dissiperà le tenebre. Mosè invoca il Signore
e la luce torna a splendere. Il Faraone conferma la sua promessa
congedando tutti tranne Amenofi al quale annuncia la propria
decisione di farlo sposare con Elegyne, figlia del Re d’Assiria.
Il figlio del Faraone è deciso a non perdere Anaide e si confida con
la madre Sinaide, la quale cerca di convincerlo a rinunciare per il bene
di tutti. Mentre a distanza si ode il canto degli egizi che ringra-
Moïse et Pharaon
ché finora mai rappresentato
a Roma nella sua versione
integrale. Un’operazione
di riscoperta di un
titolo importante che, come
dice Muti, «sfiora ed
anticipa la perfezione del
Guglielmo Tell».
L’opera viene proposta
in un nuovo allestimento
del regista e scenografo
Pier’Alli, il quale
guarda ad un Egitto me-
La Trama
tafisico, giocando su
scenografie essenziali
che si trasformano nel
divenire grazie a videoproiezioni
spettacolari.
Le coreografie sono di
Shen Wei, fortemente voluto
dal neodirettore del
corpo di ballo Micha van
Hoecke, mentre il coro,
che appare molto più preciso,
è affidato ad un altro
neodirettore, Roberto
Le Repliche
3
Domenica 5 Dicembre, h. 16.30
Martedì 7 Dicembre, h. 19.00
Giovedì 9 Dicembre, h. 19.00
Sabato 11 Dicembre, h. 18.00
Domenica 12 Dicembre, h. 16.30
Gabbiani. Il cast è di primo
livello e tutti hanno
già lavorato con Muti.
Un debutto del Moïse per aprire la Stagione
ziano Iside per la ritrovata tranquillità, Amenofi
si avvia al tempio con sua madre.
aTTo III – Nel tempio di Iside gli egizi pregano guidati dal sacerdote
Osiride. Mosè con Elisero, Maria ed Anaide si presenta al
Faraone per ottenere il permesso alla partenza. Il Faraone conferma
l’impegno, ma lo invita ad onorare Iside. Mosè rifiuta sdegnosamente
e Osiride chiede che venga punito. In quel mentre giunge
l’ufficiale egizio Aufide, annunciando che l’Egitto è in preda a terribili
sciagure: il Nilo s’è tinto di rosso, si odono fragori di battaglia,
la terra trema, l’aria è piena di cavallette che distruggono i raccolti
e dal deserto soffia un vento di morte. Mentre Amenofi ed Osiride
cercano di convincere il Faraone a punire gli ebrei e Sinaide invoca
pietà, Mosè con un gesto fa spegnere le lampade dell’altare di Isde
e la statua della divinità cade a terra spezzandosi, mentre in alto appare
l’Arca dell’alleanza. Il Faraone ordina che gli ebrei siano incatenati
e portati fuori da Menfi, mentre Amenofi incarica Aufide di
vegliare su Anaide.
aTTo IV – Aufide ha condotto Anaide nei pressi del Mar Rosso
dove sono raggiunti da Amenofi. Il figlio del Faraone si dichiara
pronto a favorire la fuga degli ebrei ed a rinunciare al trono se Anaide
rimarrà con lui. La donna non sa decidere, mentre in lontananza
si odono cori degli ebrei. Amenofi la lascia libera e le chiede di scegliere
tra lui ed il suo popolo. Anaide dopo una tormentata riflessione
si unisce agli ebrei, mentre Amenofi s’allontana mimnacciando
vendetta. Mosè invita i suoi a sperare nella protezione divina. Al
termine della preghiera cadono le catene dalle mani degli ebrei, ma
nello stesso momento si ode il fragore dell’esercito egizio in avvicinamento.
Mosè si accosta al mare che improvvisamente si separa,
lasciando passare tutti gli ebrei. I soldati egizi si lanciano all’inseguimento,
ma le acque si richiudono sopra di loro. Il popolo di Mosè
cammina in lontanaza cantando un inno di ringraziamento, mentre
nel cielo appare Geova.

Il Giornale dei Grandi eventi
Nicola Alaimo
Il Faraone, indeciso nel
liberare gli ebrei erranti
nicola alaimo, giovane baritono palermitano, si sta affermando
sulla scena internazionale, ospite dei maggiori teatri del
mondo e diretto dai maestri più importanti, tra i quali citiamo:
Fournillier, Gelmetti, Levine, Muti, Metha, Wilson, Zedda. Di
particolare rilievo la sua collaborazione con Riccardo Muti, con il quale
ha interpretato: Moise et Pharaon (Pharaon)
al Teatro alla Scala con la regia di
Luca Ronconi ed a Salisburgo il Don Pasquale
(ruolo titolo) al Ravenna Festival,
Vienna, Mosca e San Pietroburgo, Il Matrimonio
Inaspettato (Tulipano) ai Festival
di Salisburgo e di Ravenna. Nelle passate
stagioni ha poi interpretato Il Trovatore
(Conte di Luna) al Ravenna Festival; Un
Ballo in Maschera (Renato) e di nuovo Il
Trovatore al Petruzzelli di Bari; L’Italiana
in Algeri (Taddeo) all’Opéra di Toulon; Il
Dissoluto Assolto (Don Giovanni) di Corghi
alla Scala; La Forza del Destino (Fra
Melitone) al Maggio Musicale Fiorentino; Simon Boccanegra (ruolo titolo)
al Massimo di Palermo; La Traviata (Giorgio Gernmont) all’Opera
di Roma nel dicembre 2009 con la regia di Franco Zeffirelli. Ha debuttato
con enorme successo di pubblico e critica al Rossini Opera Festival
come Dandini ne La Cenerentola e nei prossimi mesi sarà ospite
del Met, all’Opera Royal de Wallonie a Liegi, all’Opera di Chicago, all’Opéra
National de Paris.
Eric Cutler
Aménophis, figlio del Faraone
ed innamorato deluso
Il tenore americano eric Cutler è nato a Adel, nello Iowa e si è laureato
al Luther College. Ha vinto una borsa di studio dal Richard
Tucker Music Foundation nel 2000, seguita da un Career Grant
Tucker per il 2001. E’ alunno della Metropolitan Opera Lindemann
Young Artist Development Program, di
cui ha vinto il premio nel 1998. Il primo
disco da solista è del 2003, con musiche
di Barber, Schumann, Liszt e Hahn, ed
ha vinto il Disco del Mese di Opera
News. L’estate del 2006 lo ha visto debuttare
al Royal Opera, Covent Garden
come Ernesto nel don Pasquale.
Ha debuttato al Festival di Edimburgo
come Tamino diretto da Abbado e nella
Messa in do minore di Mozart ai
Proms con Sir Charles Mackerras. Nel
2006/7 è alla Paris Opéra in Lopas de
Les Troyens, seguito da I Puritani al Metropolitan Opera. Ha anche
debuttato con la Boston Symphony al Festival di Tanglewood in die
Zauberflöte in forma di concerto. Nella stagione 2008/9 è ritornato
alla Lyric Opera di Chicago come Nadir in Les Pêcheurs de perles.
Un altro debutto con il Duca in rigoletto per la Houston Grand
Opera. La stagione si è conclusa con il debutto al Festival di Salisburgo
in Amenophis in Moïse et Pharaon di Rossini, diretto da Muti.
La stagione 2009/10, lo ha visto tornare al Met in der rosenkavalier.
Nel 2010 ha debuttato con la Canadian Opera Company di Leicester
in Maria stuarda di Donizetti e Tamino in die Zauberflöte al
Théâtre du Capitole di Tolosa.
Pagina a cura di Francesco Piccolo – Foto di Corrado M. Falsini
Moïse et Pharaon
Ildar Abdrazakov
Mosè, guida di un popolo
5
Il basso Ildar abdrazakov è nato a Ufa, Federazione Russa, dove
ha studiato presso l’Istituto d’Arte. Ha vinto numerosi premi, tra
cui primi premi al concorso televisivo Grand Prix di Mosca “Irina
Arkhipova”, al Glinka International Competition nel 1997, al Rimsky-Korsakov
International Competition nel 1998 ed il “Maria Callas
International Television Competition” a Parma nel 2000. L’anno successivo
ha debuttato alla Scala e nel 2003/04 sempre alla Scala si è
messo in rilievo a livello mondiale con l’interpretazione del protagonista
di Moïse et Pharaon con il Maestro Muti. Da allora ha cantato in
tutti i maggiori teatri.. Si è esibito nelle Messe di Cherubini con Muti
a Firenze, nel Requiem di Verdi con la Washington National Symphony
Orchestra e con la Bayerische Rundfunk di Monaco diretta da Muti,
il Requiem di Verdi con Placido Domingo a Monaco e Londra. Nel
2008/09 è tornato al Met come Raimondo in Lucia di Lamermoor, oltre
a cantare in vari concerti tra cui il Requiem di Verdi con Pappano al
Covent Garden e con Muti a Chicago. Ha debuttato al Festival di Salisburgo
quale protagonista di una nuova produzione di Moïse et
Pharaon diretto sempre da Muti, tornando dopo al Met in una produzione
di Robert Lepage di Damnation de Faust e in una nuova produzione
di Attila (ruolo del titolo) ancora con Muti. Nella Stagione
2009/’10 Figaro a Washington, un recital alla Scala e concerti con la
Filarmonica di Vienna e con Muti a Salisburgo. Ha registrato arie inedite
di Rossini, diretto da Riccardo Chailly, e la Messa di Cherubini
con la Bayerische Rundfunk diretta da Muti con cui ha anche cantato
nel Requiem di Verdi con la Chicago Symphony Orchestra.
Anna Kasyan e Erika Grimaldi
Anaide, nipote di Mosè
ed amante del figlio del Faraone
Saranno i soprano anna kasyan (2, 7 e 9 dicembre) e erika grimaldi
(5, 11 e 12 dicembre).
anna kasyan è nata a Tbilisi, in Georgia, da una famiglia di musicisti.
Nel 2003 si è trasferita a Parigi dove ha frequentato l’Ecole Normale
de Musique “Alfred Cortot”. E’ stata finalista al prestigioso concorso
Victoire de la Musique Classique 2010 ed ha vinto numerosi premi internazionali.
Si è aggiudicata il secondo posto al concorso “Renata Tebaldi”
ed ha debuttato nel ruolo di Rosina ne Il Barbiere di Siviglia al festival
“Opéra en Plain Air” di Parigi. Nel 2007 il suo debutto come Norina
in Don Pasquale all’Opera di San Marino e nei mesi successivi è
stata Zerlina in Don Giovanni nei teatri di Montpellier (2008), Metz e
Rouen (2009). Attiva anche sul versante concertistico. Ha collaborato
pure con la Deutsche Radio Philharmonie, la Filarmonica di San Pietroburgo,
l’Orchestre di RTVE di Madrid e i Düsseldorfer Symphoniker.
Ha partecipato alla produzione de La Betulia Liberata (Amital) di
Mozart a Salisburgo diretta da Muti. Più recentemente ha interpretato
Euridice in Orfeo ed Euridice di Fux allo Styriarte Festival di Graz.
erika grimaldi è una delle giovani promesse del teatro lirico italiano.
Nata ad Asti nel 1980, si è diplomata in canto e pianoforte presso il
Conservatorio Verdi di Torino. Le prime affermazioni sono al Concorso
Internazionale di Crescentino (VC) nel 1998 ed al Lauri Volpi di Latina.
In ambito concertistico spicca, nel 2002, la partecipazione all’International
Opera Festival di Zurigo. Nel 2005 ha vinto il 1° premio al
Concorso Lirico Internazionale di Orvieto in seguito al quale ha cantato
ne Il Matrimonio segreto (Carolina). Vincitrice nel 2008 del Concorso
“Comunità Europea” del Lirico Sperimentale di Spoleto si è subito
dopo distinta come Mimì ne La Bohème al Regio di Torino. Nel 2009 ha
debuttando con successo il ruolo di Adina ne L’Elisir d’amore al Filarmonico
di Verona e Pamina ne Il flauto magico al Massimo di Palermo.
Nel 2010 è stata Mimì ne La Bohème al Petruzzelli di Bari, Adina ne L’elisir
d’amore ad Asti, Alessandria e Vercelli con i complessi del Regio
di Torino ed è stata ancora Mimì al Regio di Torino (produzione con
cui è stata in Cina lo scorso agosto) ed all’Opera di Hong Kong. Tra i
prossimi impegni Les Pêcheurs de perles al Filarmonico di Verona e la
Carmen (Micaela) al Regio di Torino.

6 Moïse et Pharaon Il
Storia dell’opera
Nove anni separano il Mosè napoletano dal Moïse parigino
La sera del 26 marzo 1827 – lo
stesso giorno in cui a Vienna
moriva Ludwig van Beethoven
- il nuovo Mosè trionfò sulle
scene della Salle Le Peletier all’Opéra
di Parigi. Nuovo, perché il
Moïse et Pharaon, ou Le passage de la
Mer Rouge riprende, a distanza di
nove anni esatti, il Mosè in Egitto
che Rossini aveva composto su libretto
di Andrea Leone Tottola per
il San Carlo di Napoli, dove andò
in scena il 5 marzo 1818. Un successo
travolgente, quello parigino, accolto
dalle grida frenetiche della
platea e salutato dalla stampa come
il «miracolo» che avrebbe ringiovanito
quel «vecchio e debole avanzo dell’antico
regime» che era il teatro
dell’opera francese. Sul palcoscenico,
il basso Nicola Prosper Lavasseur
(Mosè), il baritono Henri Bernard
Dabadie (Faraone), Louis-
Barthélemy-Pascal Bonel (Osiride),
il tenore Adolphe Nourrit (Amenofi),
il soprano Laure Cinti Damoreau
(Anaide), il tenore Alexis Dupont
(Elisero), il mezzo soprano
Rosalie Mori (Maria), il soprano
Louise-Zulme Dabadie (Sinaide).
Peccato soltanto che di quel trionfo
poco assaporò il compositore, tormentato
com’era dalla recente morte
della madre Anna Guidarini, uccisa
a 56 anni ed a mille chilometri
di distanza da un aneurisma:
il Rossini che si affacciò
sul proscenio a
salutare il pubblico
osannante, secondo le
testimonianze di interpreti
ed esecutori che erano
con lui, aveva gli occhi
molli di lacrime e il viso
contratto dalla sofferenza.
Ma per la storia dell’opera era,
comunque, un momento esaltante:
un passo decisivo era stato compiuto
verso una nuova e più matura
concezione della drammaturgia,
lasciando dietro alle spalle gli stereotipi
dell’opera settecentesca ed
entrando così nell’opera romantica.
una proposta
già a napoli
Ma diamo uno sguardo indietro,
agli anni cosiddetti “napoletani”: Il
Mosè in Egitto, “melodramma sacro”
in tre atti dalla tragedia di Francesco
Ulisse Ringhieri Osiride (1760)
fu composto dal pesarese in circa
un mese e mezzo e andò in scena
per il periodo quaresimale, che,
per convenzione, accettava solo
rappresentazioni di tema religioso.
Pittoresca la descrizione che
Stendhal, nella sua biografia di
Rossini, dà della “Prima”, in cui fra
l’altro cantava il soprano Isabella
Colbran, dal 1822 moglie del compositore:
al terzo atto, che prelude
il passaggio del Mar Rosso, si scatenò
un putiferio in sala perché il
pubblico della platea, a causa della
sua posizione, non riusciva a vedere
il mare se non in lontananza. Il
macchinista decise allora di sollevare
il livello del mare su un piano
più alto del palcoscenico, mostrando
però agli spettatori della galleria
e dei palchi, che osservavano la
scena dall’alto dei flutti, la schiena
dei tecnici incaricati di realizzare il
miracolo delle acque: il che scatenò
una tale ilarità, che fu necessario interrompere
l’esecuzione. Vero è
che nonostante l’inconveniente tecnico,
il Mosè entrò prepotentemente
nella disputa culturale napoletana,
intaccando le rigidità del
partito conservatore legato allo stile
“antico” e ostile alle «perniciose
innovazioni» di Rossini e dei suoi
imitatori. Così, nonostante i colpi
bassi - fra l’altro l’accusa di aver
copiato l’introduzione “delle tenebre”
da un compositore tedesco -
Rossini non si fece intimidire e
continuò a lavorare sull’opera:
conscio della debolezza nella scena
del miracolo, priva di un dignitoso
spessore drammaturgico ed emotivo,
decise di aggiungere quella
preghiera, il maestoso Dal tuo stellato
soglio, che tolse ogni dubbio e
che ne decretò il successo assoluto.
A Milano il Mosè fu rappresentato
per la prima volta alla Scala il 5
marzo 1825 ed è interessante
sapere che fu la prima di
opera di Rossini retribuita in
modo adeguato: 4200 lire,
contro le 600 lire del Tancredi
(1813) e i cento luigi dell’
Otello (1816).
Il trasferimento a Parigi
Ma per quale motivo Rossini
decise di dare nuova veste
ad un lavoro che già di per sé
aveva incontrato un deciso
successo e perché proprio a
Parigi? A pensare ad un rimaneggiamento
francese del
melodramma rossiniano fu
in realtà il giovane compositore
Ferdinand Hèrold, che
nel 1821 si trovava in Italia alla ricerca
di nuovi cantanti e nuove
opere per conto di Viotti, allora organizzatore
musicale dell’Opéra e
del Théâtre Italien; idea per altro
accolta con entusiasmo dallo stesso
Rossini, che accettò immediatamente.
Parigi era, infatti, a quei
tempi la capitale culturale d’Europa,
il posto ideale per iniziare un
nuovo e rinnovato percorso artistico,
avendo concluso ormai con Semiramide
(1823) la sua lunga epopea
nell’opera seria italiana. Nella
capitale francese si stabilì definitivamente
con la Colbran (dopo un
breve soggiorno a Londra) nel
1824, anno in cui assunse
anche la direzione del
Théâtre Italien, e lì si immerse
in un clima romantico
a tutti gli effetti; compose
la cantata scenica Il
viaggio a Reims per l’incoronazione
di Carlo X (1825), e
presentò al pubblico due lavori
napoletani profondamente rimaneggiati:
Maometto II , che divenne
Le Siège de Corinthe (1826) e appunto
il Mosè in Egitto, ribattezzato
Moïse et Pharaon. All’opera il compositore
lavorò per un paio di mesi
appena, sul libretto che Luigi Balocchi
– con cui già aveva collaborato
per Le Siège – ed Étienne de
Jouy avevano scritto riprendendo
l’originale del Tottola, traducendolo,
ampliandolo e modificandolo.
Libretto il quale poi riceverà da Calisto
Bassi la traduzione italiana
che soppianterà l’originale e che
ebbe la sua prima rappresentazione
a Roma presso il Tetra degli Accademici
Filarmonici Romani nel
dicembre dello stesso 1827. Per pri-
Giornale dei Grandi eventi
ma cosa nell’edizione francese gli
atti vennero portati a quattro, poi
furono cambiati i nomi dei personaggi,
tranne quelli dei due principali.
Dal punto di vista strettamente
musicale, solo alcuni dei pezzi
originali napoletani passarono nel
Moïse, o integralmente o con modifiche
e ampliamenti; poi furono introdotte
le danze, secondo le esigenze
dell’Opéra e della tradizione
francese. Splendido il finale ultimo,
dopo la maestosa preghiera,
che leva al mare un canto solenne
come all’elemento della natura divenuto
strumento della giustizia di
Dio: da qui alla sintonia dell’anima
con la natura del Guillaume Tell il
passo è breve: solo due anni – in
mezzo sta Le Comte Ory (1828) – separano,
infatti, il Moïse allo straordinario
trionfo dell’ultima sua opera
(1829), di fatto l’atto di nascita
del Grand Opera francese.
Il Nuovo Mosè , come si chiamò l’opera
dopo la rappresentazione parigina,
venne eseguito per la prima
volta a Milano il 21 giugno 1835 alla
Cannobiana, interpretato da Marini,
Vaschetti, Marcolani, Cervi,
Spiaggi, Ruggeri, Garcia e Gigli. Si
riprese il vecchio titolo solo in seguito,
ma la versione eseguita fu
sempre quella francese, cioè con
l’Introduzione, il Finale del terzo
atto, la scena e aria del quarto atto,
senza però le danze, che non apparvero
mai nei teatri italiani.
Il 3 aprile 1915, dopo oltre 40 anni
di assenza dalle scene romane, il
Mosè fu allestito al Teatro Quirino,
diretto da Pietro Mascagni e con
Nazzareno de Angelis, Giannina
Russ e Alessandro Dolci.
Barbara Catellani

Il Giornale dei Grandi eventi
Moïse et Pharaon
Analisi musicale
Mosè, un grande affresco corale
Nel Settecento i “rifacimenti”
d’opere erano
all’ordine del giorno. Il
compositore rielaborava senza
problemi un proprio lavoro per
adattarlo alle esigenze dei vari
cast che nei diversi teatri erano
chiamati a interpretarlo. Si ricucivano
le parti a misura dei nuovi
cantanti. E poi c’era anche il “pasticcio”,
un genere che prevedeva
che il compositore riciclasse musica
di opere precedenti in un titolo
“nuovo”.
I rifacimenti francesi di Rossini
sono tutt’altro. Non si tratta di
“pasticci”, né di adattamenti a
ugole differenti. Tanto in Le
Siège de Corinthe(rifacimento
del Maometto II), quanto in
Moïse et Pharaon (rifacimento
del Mosè in Egitto) si respira
un’aria totalmente diversa, a
testimonianza della inesauribile
ricchezza musicale e drammaturgica
del compositore che
trae spunto dalle vecchie partiture
ma le rielabora quasi interamente
creando, di fatto, opere
assolutamente originali.
Coro protagonista
Il Rossini francese è, se possibile,
più raffinato, più controllato
e più drammaturgo del Rossini
italiano.
Moïse et Pharaon costituisce un capitolo
fondamentale nel repertorio
non solo del Pesarese. Nel raccontare
il drammatico esodo del
popolo ebraico sotto la guida di
Mosè, Rossini eleva ad assoluto
protagonista il coro. Ne nasce un
imponente, suggestivo affresco
corale che diventerà un modello
per tante “avventure” operistiche
successive: pensiamo non solo al
Guglielmo Tell dello stesso Rossini,
ma anche al teatro verdiano risorgimentale
e persino al Boris
Godunov di Musorgskij. Il tema
della libertà, del riscatto sociale
di un popolo, dà voce alla coralità
la quale da sfondo più o meno colorato
si fa interprete privilegiata
e drammaturgicamente incisiva.
E anche Mosè, ieratica figura spirituale
e politica, è destinata a lasciare
un segno in tutti quei personaggi,
dalla voce scura, grave,
rossiniani come donizettiani e
verdiani, che avranno un ruolo di
guida nel teatro ottocentesco.
La funzione assunta dal coro,
porta naturalmente Rossini a ripensare
l’intero assetto architettonico
del lavoro.
differenze con
Mosè in Egitto
Dai tre atti del Mosè in Egitto si
passa ai quattro del Moïse et Pharaon:
della prima partitura sopravvivono,
totalmente modificati, solo
sette pezzi.
L’opera non si apre con la consue-
Rossini come Mosè in un vignetta di Carlo Incisa
ta Ouverture rossiniana tanto vivace
e coinvolgente, quanto distaccata
ed avulsa dal contesto
operistico in cui è calata. Il compositore
antepone un Preludio
(Andante e Allegro) che confluisce
direttamente nella prima scena
ed i cui temi ritorneranno nel
corso dell’opera.
Sul piano strutturale, la solennità
della vicenda, l’imponenza del
personaggio centrale, portano il
musicista a optare per un declamato,
un recitativo ampio, modellato
sulla parola. E’ un passo
importante verso la scomparsa
delle forme chiuse tradizionali.
Significativo è che di arie strutturate
secondo schemi usuali se ne
contino più o meno un paio. E significativo
è anche che la scrittura
vocale si modelli variamente
sui singoli personaggi in base al
loro ruolo ed al loro carattere.
Così Mosè si esprime quasi esclusivamente
attraverso un declamato
costruito su una sola nota,
con brevi incisi melodici. Solo
nella suggestiva Preghiera finale
(“Dal tuo stellato soglio”, già presente
nell’opera originaria italiana),
avviata solisticamente ma
poi ripresa dagli altri personaggi
e infine cantata dal popolo tutto,
il discorso si scioglie in una melodia
estesa articolata in due semifrasi,
una ascendente e l’altra discendente,
entrambe lunghe e
(con la sola eccezione dell’intervallo
di quarta iniziale) sviluppate
per gradi congiunti. E’ un mo-
mento di forte tensione emotiva
che prelude al finale.
Se Amenofi (figlio di Faraone) e
Sinaide (sua madre) sono vocalmente
tradizionali con un virtuosismo
che ha le proprie radici nel
teatro italiano dell’epoca, Anaide,
figlia di Mosè (amata da Amenofi)
è personaggio originale, di fattura
prebelliniana. E d’altra parte la
delicatezza con cui Rossini tratteggia
certi episodi, cura alcuni caratteri
e alcune sfumature rimanda
proprio a Bellini: si pensi alla
invocazione di Mosè (attorniato
da altri personaggi) nel secondo
atto, il cui tema sembra proprio
anticipare “Casta diva” da Norma.
Il primo atto (nel campo dei Madianiti)
si apre subito con un recitativo
con il coro che esalta la figura
di Mosè. Più avanti un altro coro
invoca l’aurora, in un continuo
mutare di immagini e di colori che
uno studioso attento come Roncaglia
ha paragonato al colorismo
pittorico di un Tintoretto.
7
Il secondo atto (gallerie nella Reggio
di Faraone) ha come fulcro la
“scena delle tenebre”, una delle
pagine rosiniane più belle, nella
quale voci e strumenti rendono
con superba efficacia drammatica
la paura dell’oscurità alla quale
Mosè si oppone con la già citata
invocazione alla luce.
L’atto III, secondo le consuetudini
del teatro francese, offre un momento
di danza. Nel teatro italiano
del tempo, i balletti erano
“esterni” all’opera, spesso venivano
proposti negli intervalli fra un
atto e l’altro (come accadeva al
San Carlo di Napoli dove Rossini
aveva lavorato a lungo). In Francia,
sin dai tempi di Lully e di
Moliere, il balletto era invece parte
integrante dell’opera stessa,
elemento drammaturgico di rilievo.
Rossini lascia, dunque, spazio
ad azioni coreografiche che preludono
al gran finale d’atto in cui
Mosè sfida gli dei egiziani nel nome
del suo Dio.
L’atto IV porta alla conclusione in
maniera piuttosto spedita. Dopo
la preghiera corale ha luogo la
traversata del Mar Rosso descritta
da un recitativo vibrante e incisivo
e da passi strumentali di sapore
onomatopeico.
L’edizione francese si chiude con
un Cantico in lode del Signore.
Questa pagina è stata successivamente
tagliata nell’edizione italiana.
Moïse et Pharaon, scritta in un paio
di mesi, debuttò all’Opéra di Parigi
il 26 marzo 1827. Rossini sapeva
di giocarsi molto della sua credibilità
internazionale. E colse un significativo
successo. Anche quei
musicisti francesi che fino ad allora
avevano guardato a lui con sufficienza,
ritenendolo solo capace
di qualche buffoneria (ma quanti
avrebbero pagato per poter essere
ricordati come autori del Barbiere
di Siviglia o di Cenerentola!), di
fronte ai preziosismi strumentali,
alla sapiente scrittura vocale, soprattutto
alla perfetta integrazione
fra la partitura musicale e l’azione
drammatica, cominciarono a mutare
opinione sulle sue effettive
capacità artistiche.
Due anni dopo, Guglielmo Tell
avrebbe definitivamente consacrato
Rossini come uno dei massimi
geni del teatro musicale di tutti
i tempi.
roberto Iovino

8 Moïse et Pharaon Il
Nell’Antico Testamento,
il nome
“Egitto” ricorre
per 550 volte, in una tessitura
che percorre la Bibbia
dal Pentateuco ai Profeti,
protagonista di narrazioni
- quale la storia di
Giuseppe e quella di Mosè
– che, oltre ad essere
fondamento dell’identità
d’Israele, sono luoghi di
un’ampia koinè culturale.
La Bibbia narra le vicende
della schiavitù degli
Ebrei in Egitto con dovizia
di particolari: dopo
che i familiari di Giuseppe
si erano stabiliti in
Egitto, il popolo d’Israele
vi si moltiplicò, vivendo
infine in schiavitù al servizio
della megalomania
faraonica, sino all’intervento
di Mosè il quale attraverso
il deserto condusse
il popolo alla libertà
ed alle soglie di
quella terra promessa che
lui non toccherà. Tutto il
racconto ha un tono storico,
nonostante gli interventi
divini, come le piaghe
d’Egitto, la colonna
di fuoco guida per il popolo,
l’aprirsi delle acque,
la caduta della manna.
Di queste vicende,
l’Egitto non ci ha lasciato
la benché minima documentazione
storica e,
dunque, nonostante le
numerose ipotesi che tentano
di collocare gli eventi
dell’Esodo nella prima
metà del II millennio
a.C., non è possibile stabilire
una datazione, né
delineare netti contorni
storici per quegli eventi.
Spesso capita di leggere
che il celebre Ramesse II
(XIII secolo a. C.) sarebbe
stato il faraone dell’Esodo
per il fatto che gli
Ebrei avrebbero lavorato
all’edificazione di Piramesse
(Esodo 1,11), nuova
capitale fatta costruire
da questo re nel Delta
orientale. Tuttavia, il
quadro politico della Palestina
riportato dal testo
biblico sembra ben diverso
da quello del tempo di
Ramesse II, scenario
dell’espansionismo egiziano.
D’altra parte, altri
studiosi hanno conteggiato
una data più alta
(XV secolo a. C.) sulla base
di citazioni delle vicende
dell’Esodo contenute
in I Re 6.1 e Giudici 11.26,
ipotesi che tuttavia si
scontra con l’inesistenza
di Piramesse in quel tem-
po. L’unico dato ci viene
fornito da una stele di
Merenptah, figlio di Ramesse
II, che ci ha lasciato
la prima menzione d’Israele,
citato tra altri nemici
abbattuti dal Faraone.
Recentemente, tuttavia,
è stato proposto di
leggere lo stesso nome,
scritto con diversa grafia
geroglifica, su un frammento
epigrafico al Museo
di Berlino, che sarebbe
databile ad un periodo
precedente il regno di
Ramesse II. Per affrontare
correttamente l’argomento,
bisogna precisare
che la narrazione biblica
dell’Esodo è costruita su
una raccolta di fonti – per
lo più di tradizione orale
- ben più recenti rispetto
ai fatti narrati, che rispecchiano
l’ambiente del
Tardo Bronzo (XVI-XII
secolo a.C. circa): questo
spiega gli evidenti anacronismi
del testo. D’altra
parte, le fonti ufficiali
egiziane rispondono ad
interessi ovviamente diversi,
quali la gloria del
faraone, mentre la Bibbia,
seppur ricca di dati storici,
non va comunque considerata
propriamente
come un libro di storia.
storia e Mnemostoria
L’egittologo tedesco Jan
Assmann, proprio a proposito
di Mosè, ha definito
la “mnemostoria”: essa
ricostruisce i significati
che il presente attribuisce
al passato, il filtro della
memoria collettiva, le
contaminazioni fantastiche
della tradizione ora-
Giornale dei Grandi eventi
La realtà storica dell’eso
La schiavitù del popolo d’Israele, in realtà
Tempio di Ramesse II ad Abu Simbel
Arrivo in Egitto di una carovana di nomadi dalla Palestina in una pittura dalla tomba di Knumhotep a Beni Hasan
le. Dunque, ci furono vicende
e personaggi storici,
che s’intravedono nella
narrazione biblica, solidi
nella loro verosimiglianza
al di là degli anacronismi
contenuti nel testo.
Tra Egitto e Palestina,
dalla notte dei tempi,
esisteva un flusso ininterrotto
di varia umanità,
idee, oggetti, usi, tecnologie
nonostante il confine
fosse rafforzato dagli Egiziani
per controllare l’arrivo
di genti orientali.
Una pittura nella tomba
di Khnumhotep a Beni
Hasan (XII dinastia, XIX
secolo a.C.), ci mostra un
gruppo di nomadi in
cammino provenienti
dalla Palestina. Il transito
tra i due paesi è documentato
anche da uno
dei più famosi testi letterari
egizi, “Il romanzo di
Sinuhe” (XX secolo a.C.).
L’epopea di Giuseppe,
dunque, rientra in un
quadro storico chiaro: il
fatto che i suoi fratelli si
recassero in Egitto ad acquistare
grano ricalca
abitudini conosciute. Tra
Medio e Nuovo Regno,
nel II Periodo Intermedio,
stranieri provenienti
dalla Palestina stabilirono
il proprio potere sull’Egitto
approfittando
della debolezza politica
del paese e passando alla
storia come Hyksos “governati
stranieri”. Un’analisi
della “mnemostoria”
ha indicato come la loro
cacciata da parte dei fondatori
del Nuovo Regno
egizio (XVI secolo a.C.)
possa essersi confusa con

Il Giornale dei Grandi eventi
Moïse et Pharaon
o e del racconto biblico
una sudditanza economica dal ricco Egitto
Stele copta nella quale la croce, tra due segni della vita egizi, porta il ricciolo dell’infanzia
la memoria dell’uscita di
Israele dall’Egitto, essendo
segnata anch’essa, secondo
un documento
egiziano, da una “piaga”:
un’insolita tempesta che
fu un flagello per la terra
del Nilo.
Le stesse piaghe bibliche
che investirono l’Egitto
per la promessa di Dio a
Mosè, potrebbero avere
una loro storicità come
eventi reali filtrati dalla
mnemostoria: diversi
studiosi hanno proposto
di identificare la causa
scatenante di alcune piaghe
in disastrosi eventi
vulcanici nel Mediterraneo,
quali l’esplosione di
Thera (Santorini) avvenuta
nella prima metà del
II millennio a.C., le cui
ceneri e pomici si ritrovano,
peraltro, in strati archeologici
del Delta egi-
ziano e che potrebbero
aver oscurato il cielo.
Eventi geofisici, come un
maremoto, potrebbero
essere, invece, all’origine
del ritirarsi delle acque
del Mar Rosso.
schiavitù e deserto
Al di là della conoscenza
reale dell’Egitto che traspare
dal testo dell’Esodo,
scorrendo le tante citazioni
bibliche della terra
dei faraoni, ci si rende
conto di come essa, più
che un luogo geografico è
un topos esistenziale: l’Egitto
è luogo di schiavitù
e di ricchezza insieme
(Esodo, 16,3; Numeri
11,15), ed è contrapposto
al deserto dove alla fame
si accompagnano l’esperienza
di Dio e la riconquistata
libertà. L’Egitto
era indubbiamente terra
di ricchezza: gli incredibili
monumenti faraonici
e la profusione di materiali
preziosi connessi
con la regalità impressionavano
gli stranieri, così
come l’abbondanza dei
raccolti dovuti alla piena
del Nilo, in confronto alla
precarietà alimentare dei
paesi vicini. Nell’Egitto
faraonico, tuttavia, non
esisteva la schiavitù quale
si trova nel mondo greco-romano.
Conosciamo i
villaggi di operai e artigiani
delle tombe regali:
manodopera fortemente
specializzata e ben trattata,
capace di utilizzare
tecnologie avanzate e ottimizzare
risorse, ma anche
di scioperare, come
documentato da un papiro
al Museo di Torino. La
terra dei faraoni, dunque,
è nella Bibbia il luogo di
una servitù dal sapore
moderno: schiavitù del
consumo e del condizionamento
delle immagini,
alla quale si oppone il deserto.
La visione di questo
come ambiente dove
si entra in contatto con il
divino è peraltro ben attestata
in Egitto: il deserto
era ritenuto dominio
di alcune divinità, esso
era ricco di miniere d’oro
e pietre preziose che venivano
considerate il corpo
stesso degli dei.
fanciulli divini
All’inizio del Vangelo di
Matteo (2,13-15), il Nuovo
Testamento propone
un ribaltamento di prospettiva:
l’Egitto è luogo
di salvezza per Gesù
bambino, profugo con
Maria e Giuseppe per
sfuggire ad Erode. Per i
sentieri assolati e polverosi
che avevano percorso
gli Ebrei in fuga, la famigliola
va in Egitto condotta
da un sogno angelico.
L’evangelista chiosa il
fatto con una citazione
che rimanda al profeta
Osea (11,1): «Dall’Egitto
ho chiamato mio figlio».
La mnemostoria ci può
proporre così un’ulteriore
chiave di lettura a sottolineare
tratti comuni tra
due culture nutrite vicendevolmente
per millenni.
La storia del fanciullo divino,
inerme potente e
salvifico è il cuore della
mitologia egizia: il piccolo
Horo, insidiato dallo
zio assassino di suo padre,
viene nascosto dalla
madre Iside tra i papireti
del fiume in attesa dell’età
adulta; l’isola fluviale
che lo ospita è un’isola
natante, una sorta di culla
che si sposta sul fiume
col suo carico fragile e
portentoso. Divenuto
adulto, Horo ristabilirà
l’armonia divenendo re e
costituendo un rapporto
felice tra paese e mondo
divino. Nella Bibbia, il
piccolo Mosè viene messo
in salvo in una cesta,
culla galleggiante che si
nasconde tra i canneti del
fiume; il suo nome, costruito
sulla radice ms
“nascere, partorire”, rimanda
al “figlio”, ancora
un fanciullo inerme e salvifico,
destinato ad essere
un intermediario con
Dio. Secoli dopo, i cristia-
9
ni d’Egitto aggiunsero un
ricciolo alla croce: il ricciolo
è quello che in Egitto
contraddistingue l’infanzia
e, dunque, il fanciullo
Horo, il figlio divino,
a indicare un nuovo
bambino, che fuggito in
Egitto in braccio alla
mamma, è destinato ad
essere una nuova guida.
Si ricalca così un percorso
antico, ritenuto ormai
una prefigurazione.
giuseppina Capriotti Vittozzi
Egittologa ISCIMA - CNR
Horo bambino in trono. Sul lato
del capo il ricciolo dell'infanzia

10 Moïse et Pharaon Il
Alungo la scena del passaggio
del Mar Rosso da
parte del popolo ebraico,
guidato da un Mosè muscolare
ed aitante quale Charlton
Heston, è rimasta nell’immaginario
collettivo come un esempio
dell’efficienza hollywoodiana,
della forza di una macchina
capace di produrre effetti speciali
che oggi possono far sorridere,
ma che allora lasciarono il
pubblico letteralmente stupefatto
(il film I dieci comandamenti risale
all’ormai lontano 1956). Peccato
che Rossini, alla prima del
Mosè in Egitto (Teatro San Carlo
di Napoli il 5 marzo 1818), non
potesse contare su tali prodigi
della tecnica e su un’organizzazione
altrettanto convincente.
Dobbiamo alla fertile penna di
Stendhal la cronaca di una serata
che, proprio a causa delle insormontabili
difficoltà tecniche
nel rendere in maniera credibile
il cruciale passaggio delle acque,
guastò gli esiti di un’esecuzione
altrimenti ottima: «Non ricordo
più come, nel terzo atto, il poeta
Tottola (il librettista, n.d.r.) aveva
introdotto il passaggio del Mar
Rosso senza pensare che questo
passaggio non era così facile ad eseguirsi
come la piaga delle tenebre.
Per via della sua disposizione, la
platea non può, in nessun teatro,
scorgere il mare se non in lontananza;
qui esso doveva necessariamente
trovarsi in secondo piano, poiché gli
ebrei devono passarlo. Il macchinista
del San Carlo, volendo risolvere
un problema insolubile, aveva fatto
cose incredibilmente ridicole. […]
Si rise molto; l’allegria era così
spontanea che non si poté né indi-
Giornale dei Grandi eventi
Il racconto biblico a confronto con la scienza
Le piaghe d’Egitto forse svelate da un antico papiro
Testamento
è l’unico
L’Antico
documento che
riporti le cronache egizie
sulle terribili piaghe che
colpirono il paese del Nilo.
Come è noto, il testo
biblico non cita il nome
del Faraone, né una precisa
collocazione spaziotemporale
di quegli
eventi. Le sciagure descritte
fanno parte di
quei fenomeni in cui la
natura appare, nella Torah,
uno strumento al
servizio del Creatore e,
dunque, ne viene fortemente
sottolineata l’origine
trascendente. Studiare
le piaghe d’Egitto,
quindi, può essere utile
dal punto di vista scientifico
riguardo alle loro
manifestazioni esteriori,
ma questo approccio
non può in alcun modo
confutare quanto ripor-
tato nella Bibbia, che si
occupa invece della causa
trascendente celata
dietro catastrofi che hanno
cambiato
la storia dell’umanità.
Negli ultimi
secoli si è
diffuso un
a p p r o c c i o
razionalista
alle sacre
scritture attraverso
il
quale scienziati
e storici
tentano di
individuare i processi
chimico- biologici che
determinarono tali “piaghe”,
come pure la loro
collocazione cronologica.
Secondo una teoria
molto discussa, queste
catastrofi bibliche abbattutesi
sull’Egitto sarebbero
da mettere in rela-
Il papiro di Ipuwer
Le difficoltà di un credibile “passaggio” ed il suo risultato esilarante
Nelle acque del Mar Rosso naufragò
la prima napoletana del Mosè
Teatro San Carlo di Napoli
zione con la terribile
esplosione del vulcano
di Thera, che provoco’ la
frantumazione e l’inabis-
samento di una parte
dell’isola greca. La dinamica
dell’eruzione di
Santorini, corrisponderebbe
alle manifestazioni
catastrofiche descritte,
come la ricaduta di ceneri
con conseguente acidificazione
di terra e acque,
le anomalie meteo-
rologiche dovute alle ceneri
rimaste sospese
nell’atmosfera e il pennacchio
della fase finale
dell’eruzione.
Essa liberòtonnellate
d’ossido
di ferro che
si riversarono
nelle acque
e giunsero
sino in
Egitto. Ciò
spiegherebbe
la moria
dei pesci.
Mentre il
rosso dell’acqua, il presunto
sangue, altro non
sarebbe stato che l’ossidazione
del ferro a contatto
con l’aria, processo
che produce macchie di
ruggine rossa. A Leida,
nei Paesi Bassi, è conservato
un documento
straordinario, chiamato
il Papiro di Ipuwer, esso
è un frammento di testo
di uno scriba egizio, risalente
circa al periodo del
Regno Menfita e contemporaneo
al periodo dell’eruzione.
Descrive una
serie di catastrofi naturali
e sconvolgimenti sociali,
tracciando un quadro
generale desolante
dell’intero Egitto, dove
strani e tragici avvenimenti
affliggono la popolazione:
«le donne sono
diventate sterili, quelli che
erano Egiziani sono diventati
stranieri e sono stati
cacciati via... Oro, argento,
malachite e cornalina ornano
il collo delle schiave,
l’uomo guarda il figlio come
un nemico; I campi non
danno più grano, il bestiame
muore di malattia od è
razziato, l’acqua del fiume
è sangue».
Liv. Mag.
sporsi né fischiare; e tutti tornarono
a parlare della magnifica introduzione».
Testimonianza sin troppo
generosa di particolari, forse
condita da un certo grado di fantasia,
comunque interessante
nell’evidenziare la frattura fra le
intenzioni del compositore e la
realtà dei fatti. Memore di questa
difficile esperienza, in occasione
della prima esecuzione del
rifacimento francese dell’opera,
il Moïse et Pharaon andata in scena
a Parigi il 26 marzo del 1827,
Rossini stesso sovrintende all’allestimento
con scrupolo meticoloso,
onde evitare le insidie di
un momento scenico di fatale
importanza. Se oggi il progresso
tecnico rende tali pericoli molto
più remoti, restano però tutte le
difficoltà legate alle peculiarità
di un lavoro pericolosamente in
bilico fra l’opera e l’oratorio, del
quale risulta particolarmente arduo
offrire una resa teatrale convincente.
r. C.

Il Giornale dei Grandi eventi
Moïse et Pharaon
Il “Pesarese” a Parigi
L’ultimo Rossini: la rivoluzione prima del silenzio
Lunga e tormentata è
la vicenda che porta
Rossini sulle scene
parigine, all’epoca fulcro
indiscusso della cultura
europea ed ambizioso
obiettivo per molti compositori.
Vicenda costellata
da continue esitazioni
dettate dalla volontà di
non commettere alcun errore
nell’approcciare una
realtà del tutto peculiare,
agitata da rivalità e gelosie
acerrime fra colleghi,
soggetta ai capricci di una
stampa a volte prevenuta
ed agli umori di un pubblico
particolarmente esigente,
oltre che alle ineludibili
pressioni del potere
politico. Anche per un uomo
di genio quale Rossini
indubbiamente è, la decisione
di rimettere in gioco
il proprio stile compositivo,
abbandonando in parte
schemi collaudati per
inoltrarsi sul periglioso
terreno del Grand-Opéra,
appare, dunque, degna di
una accurata riflessione.
Con strategica precisione
e suprema maestria, il Pesarese
pianifica le tappe
del proprio esordio in terra
di Francia, del quale in
realtà si ha sentore sin dal
1818, anno in cui Jean-Jacques
Grasset suggerisce
a l l ’ a m m i n i s t r a z i o n e
dell’Opéra proprio il nome
di Rossini per un
eventuale ingaggio, ipotesi
però allora naufragata.
La svolta avviene nel
1823, durante un soggiorno
breve ma fecondo del
compositore italiano a Parigi
che, oltre a destare
grande eco sugli organi di
stampa, vede nascere una
proposta destinata a concretizzarsi
l’anno seguente
mediante la firma di un
contratto vero e proprio.
due rifacimenti
di lavori napoletani
L’avvento di Carlo X, suo
grande ammiratore e protettore,
apre un momento
importante nella carriera
del musicista, purtroppo
Teatro dell’Opéra di Parigi
rapidamente compromesso
proprio a causa della
caduta del sovrano. Con Il
viaggio a Reims, Rossini
presenta il proprio biglietto
da visita, componendo
un lavoro dall’impianto
formale originalissimo,
la cui vacuità drammaturgica,
lungi dal costituire
un limite, assume un
valore assoluto. Il Pesarese
si presenta in pompa
magna, ingraziandosi il
potere mediante una cantata
celebrativa in grado
di trascendere i limiti del
lavoro di circostanza, offrendo
nel contempo al
pubblico un saggio del
proprio estro e della propria
versatilità. L’opera di
progressivo avvicinamento
alla mentalità ed al gusto
francesi prosegue con
due rifacimenti di lavori
napoletani, il Maometto II,
presentato con il nuovo
titolo di Le siège de Corinthe,
ed il Mosè in Egitto,
trasformato nel Moïse et
Pharaon.
Il lavoro svolto da Rossini
testimonia di una realtà in
rapido mutamento, meno
incline alle seduzioni del
virtuosismo canoro; anche
il tessuto orchestrale si arricchisce
in maniera insolita
rispetto al passato, rinunciando
alla propria
sudditanza nei confronti
della voce, rivendicando
un ruolo di maggior spes-
sore. Riguardo al Moïse, la
drammaturgia stringata
ed essenziale della versione
napoletana viene sostituita
da un andamento
più vario ed articolato, da
una tendenza verso la
spettacolarizzazione comunque
mai fine a sé stessa,
lontana da qualsiasi
gratuità dell’effetto. Alla
ricezione dell’opera, nelle
Gioachino Rossini
sue diverse declinazioni
drammaturgiche e musicali,
ha nuociuto a lungo il
pregiudizio riguardo al
suo presunto carattere
prevalentemente oratoriale,
sostanzialmente statico
e poco consono alle scene,
a volte accentuato dai pesanti
tagli ai quali è stata
sottoposta la partitura (in
particolare a scapito delle
parti soliste). Azione tragico
sacra la definisce lo
stesso Rossini in occasione
della revisione del 1819, la
quale segue di un anno la
prima, tormentata esecuzione
napoletana, compromessa
da un imbarazzante
allestimento della
scena finale (quella con il
passaggio del Mar Rosso).
In realtà la peculiarità formale
del Mosè in Egitto
fornisce al compositore
una maggiore libertà d’azione;
lungi dall’essere un
limite, si rivela invece un
valore aggiunto. Svincolata
dai vetusti schemi
dell’opera seria, l’ispirazione
rossiniana costruisce
un quadro di inaudita
11
potenza, ricco di spunti rivoluzionari
(penso ad
esempio all’inizio privo
della consueta Ouverture,
capace di porre lo spettatore
al centro dell’azione,
oppure alla continuità
drammatica dei grandi
pezzi d’insieme). Le suggestioni
più prossime
vanno forse ricercate, più
che nei lavori di Cherubini
e Spontini, negli oratori
del classicismo viennese,
primi fra tutti quelli di
Haydn, da lui studiato ed
ammirato. Quando Rossini
decide di rimaneggiare
la partitura napoletana
per il pubblico parigino,
lo fa con una consapevolezza
straordinaria. E’ come
se egli, analogamente
all’ultimo Verdi, sentisse
l’esigenza di rimettere in
discussione la propria
poetica in vista di una fase
completamente nuova. In
tal senso il Moïse rappresenta
un passo decisivo
verso il Guillaume Tell, primo
ed unico frutto perfettamente
compiuto di una
riforma che interessa
ugualmente l’architettura
ed il lessico operistico rossiniano.
In questi affreschi
dalle proporzioni
grandiose, la dimensione
collettiva trascende quella
individuale in un anelito
comunicativo di matrice
beethoveniana che
sembra rivolgersi all’intera
umanità. Non è un
caso che i protagonisti di
questi due lavori si esprimano
con una vocalità
più vicina al declamato
ed ignara di qualsiasi virtuosismo,
quasi priva di
arie nel senso tradizionale
del termine; in questa
rinuncia all’artificio si
trova il significato dell’ultimo
Rossini, e forse
la chiave interpretativa
del silenzio nel quale, dopo
questa svolta, egli decide
volontariamente di
chiudersi, ancora oggi
uno fra i misteri più enigmatici
dell’intera storia
della musica.
riccardo Cenci

12 Moïse et Pharaon Il
Fu il caso a condurre Rossini al
matrimonio. Isabella Angelica
Colbran, che dal 1806 al 1818
ebbe fama d’essere una buona cantante,
aveva una relazione sentimentale
con l’impresario Barbaja,
ma Rossini giocò d’anticipo, sposandola
il 15 marzo 1822. La sposa,
una castigliana dagli occhi ardenti,
forme giunoniche e chioma corvina,
portava in dote 40.000 scudi.
La vita che i coniugi condussero fino
al 1830 non fu tra le più tranquille,
perché da una parte i viaggi
trionfali del musicista in tutta Europa
con le relative avventure sentimentali,
dall’altra il carattere leggero
e capriccioso della Colbran resero
ben presto insopportabile la convivenza.
Verso la fine dell’ottobre
1823, Rossini si trovava a Parigi dove
i francesi diedero, in suo onore,
rappresentazioni straordinarie all’Opéra
Comique col Barbiere ed al
Teatro Italiano con l’Otello. La Duchessa
di Berry organizzò un grande
concerto ove Rossini ebbe modo
di farsi conoscere dal fior fiore del
mondo parigino come pianista e
cantante.
Nel 1824, dopo un soggiorno di oltre
due mesi, il Maestro lasciò Parigi
per Londra. Qui frequentò con assiduità
i salotti, producendosi, insieme
con la moglie Isabella ed al prezzo
di cinquanta sterline a sera, in
vari numeri musicali dove, di regola,
Rossini sosteneva la parte d’accompagnatore
al piano, senza disdegnare
di esibirsi lui stesso come
cantante, riscuotendo un grande
successo anche per merito della sua
voce simpatica e dello spirito vivacissimo.
All’improvvisa notizia della morte
di Lord George Byron, l’opinione
pubblica della City, per troppo tempo
immemore del suo grande figlio,
si commosse e Rossini volle rendere
un pubblico omaggio al poeta.
Compose così la Cantata per solo,
cori e orchestra: Il pianto delle Muse
per la morte di Lord Byron. Questa
venne eseguita al King’s Theater di
Londra e l’assolo fu cantato dal Rossini
in persona. Rimasto a Londra
pochi mesi, prima della sua partenza
il Duca di Wellington dette una
festa per far conoscere il Maestro –
che aveva intanto guadagnato 175
mila lire - al Re, mentre l’ambasciatore
di Francia a Londra, marchese
di Polignac, gli offrì, a nome del suo
Paese, la direzione del Teatro Italiano
di Parigi. Così, tornato a Parigi,
Rossini assunse la direzione di quel
teatro che resse circa due anni, durante
i quali vennero ripresi Tancredi,
Cenerentola, Il Barbiere; L’Italiana
in Algeri, Otello, La Gazza ladra, La
Donna del Lago, Zelmira, Semiramide,
in esecuzioni rimaste memorabili.
una nuova fiamma
Nel 1832, dovendosi trattenere a Parigi,
Rossini, dopo aver mandato la
moglie a trovare il vecchio padre in
Italia, fece la conoscenza d’una dilettante
di musica, Olimpia Pelissier,
bella e di modi cortesi. Il nuovo
legame indusse Rossini a dividersi
dalla intollerabile Colbran. Nel frattempo
si preparava a lasciare Parigi
per l’Italia, dove si trattenne per
qualche tempo a Bologna e, stranamente,
ritenne opportuno avvertire
la Colbran, dalla quale non era ancora
legalmente diviso, della sua
nuova relazione con la Pelissier. Isabella
gli fece sapere che non avrebbe
«fatto doglianze e molto le sarebbe
grato rivederlo e conoscere personalmente
quella che aveva saputo meritare
la sua affezione». Le richieste in tal
senso furono così insistenti che Rossini
si convinse ad accompagnare
Olimpia a Castenaso, dove risiedeva
la Colbran. Isabella ed Olimpia
ebbero così modo di conoscersi e fa-
miliarizzare per un
periodo abbastanza
lungo, diventando
addirittura grandi
amiche. Rossini, olimpico
come sempre, se
ne stette tranquillo tra
le due donne, ma le
cose si prolungarono
e si evolsero a tal
punto da mettere in
imbarazzo persino
lui, nonostante il suo
carattere smaliziato: il
Maestro, alla fine, seccato dall’anomala
situazione, decise di attuare le
pratiche di separazione, concluse le
quali, poté dedicarsi completamente
ad Olimpia. E lei si rivelò una
compagna irreprensibile, che gli
consentì di invecchiare serenamente
al proprio fianco. Morta la Colbran
nel 1845 la quale lo aveva voluto
al capezzale del suo letto di
morte per riconciliarsi con lui (al
mesto colloquio assistette anche la
Pellissier), Rossini il 21 agosto dell’anno
successivo sposò la Olimpia
a Bologna.
Il definitivo
trasferimento a Parigi
Qualche anno dopo la scomparsa
della prima moglie, un suo vecchio
amico, medico di fiducia, gli consigliò:
«Cigno di Pesaro, riprendete il vostro
volo, ossia la vostra carrozza. Più
io interrogo il vostro colon, la vostra
milza, lombi e fegato, più vedo che gli
organi funzionano male. Funzionano
male perché voi siete triste; voi siete triste
perché pranzate male; voi pranzate
male perché non componete più. Ciò che
vi dico non è un ritornello. Bisogna lasciare
Bologna, il cui cielo è troppo cocente,
e andare a Parigi, dove il cielo è
forse troppo freddo. Posate là il vostro
nido in un splendido palazzo, dedicatevi
alla buona tavola, ai buoni amici, alla
buona musica; la gaiezza ritornerà a
cantare in voi». Il 25 aprile 1855 i coniugi
Rossini decisero di seguire il
consiglio e salirono in carrozza alla
volta di Parigi, dove arrivarono a
piccole tappe il 5 maggio: il Maestro,
tra le varie fobie, era terrorizzato
dal treno.
I pranzi del sabato
A Parigi la salute in effetti migliorò
e Rossini affittò anche uno splendido
appartamento in Rue de la
Chaussée d’Antin, che ben presto
Giornale dei Grandi eventi
Curiosità private del maestro
Le due mogli di Rossini ed i loro salotti mondani
Isabella Colbran
La casa di Rossini a Parigi
diventò il salotto più alla moda della
capitale francese. Padrona di casa
elegante e premurosa verso gli ospiti,
Olimpia divenne l’anima delle
celebri “serate rossiniane” alle quali
convenivano personalità illustri,
quali Meyerbeer, Auber, Thomas,
David, Liszt, Thalberg, Rubinstein,
Bazzini, oltre ai più acclamati cantanti
dell’epoca ed ad uno stuolo di
letterati, pittori, uomini politici e
banchieri. Ogni sabato in casa Rossini
v’erano i famosi pranzi, divenuti
leggendari. Anche qui v’intervenivano
aristocratici, artisti di grido,
diplomatici ed anche il Legato
del Papa non sdegnava di parteciparvi.
Rossini, da fine gastronomo,
troneggiava tra i suoi ammiratori.
La Pellissier provvedeva alla mensa,
però da abile calcolatrice la donna
«economizzava il più possibile questo
ben di Dio, nascondendo in cantina
leccornie e bottiglie».
La idolatria delle donne per Rossini
giungeva al colmo a Parigi. Una
vezzosa giovane Lady gli chiese a
mani giunte: «Come vi dovrò chiamare?
Grande Maestro? Principe dei compositori?
Genio divino?» Rossini, che
era allora settuagenario, le rispose
con un nostalgico sorriso: «Preferirei
Olympe Pellisier
che mi chiamaste “mon petit loup”…».
Quando nel 1856 Rossini volle costruirsi
la villa di Passy, chiese al
Municipio di Parigi di vendergli il
terreno prescelto. Il Municipio si offrì
di cederglielo gratuitamente a vita,
pur di recuperarlo, poi, nello stato
in cui si trovasse. Ed egli rispose:
«Non sono tanto povero da accettare un
dono cosiffatto dalla città di Parigi, né
credo di poter diventare tanto ricco da
fare, poi, quando che fosse, alla città di
Parigi un dono di tanto maggior valore».
E comprò il terreno prescelto
presso il Bois de Boulogne per poterne
essere veramente il padrone.
L. Ma.

Il Giornale dei Grandi eventi
Moïse et Pharaon
Riflessioni sul Libro dell’Esodo alla base del libretto
Un cammino lungo e difficile,
paradigma e sintesi della vita
Moïse et Pharaon è
un’opera musicale
che ripropone
all’attenzione di questa
nostra epoca il dramma
del popolo di Israele schiavo
in Egitto, la sua lotta
per la liberazione, il duro
contrasto e la persecuzione
da parte del Faraone,
l’intervento risolutore di
Jahvé, il Dio che non abbandona
il popolo che si è
scelto, ma lo guida e lo accompagna
verso la Terra
promessa.
Parliamo del libro dell’Esodo,
il secondo libro della
Bibbia che fa parte di quella
primitiva raccolta di testi
sacri che va sotto il nome
di Pentateuco. Il libro
dell’Esodo si compone di
40 capitoli ed abbraccia secoli
di storia sacra, iniziando
a raccontare la sofferta
condizione di Israele in
Egitto, l’oppressione degli
ebrei, la nascita di Mose, la
sua fuga da Madian, la vocazione
a guidare il popolo
eletto verso la sua liberazione.
Di suggestivo interesse
la parte che narra
la dura resistenza da parte
del Faraone e le “10 piaghe
d’Egitto” che si concludono
con lo sterminio dei
primogeniti. Segue poi la
Pasqua, la partenza d’Israele
dall’Egitto, il passaggio
del Mar Rosso, la
disfatta degli Egiziani e il
lungo pellegrinaggio del
popolo nel deserto in cammino
verso la Terra promessa.
Una parte centrale del libro
dell’Esodo è sicuramente
costituita dalla narrazione
fondamentale dell’Alleanza
al Sinai con la
consegna a Mosé da parte
di Jahvé del Decalogo e la
descrizione minuziosa del
codice dell’Alleanza ricco
di prescrizioni che abbracciano
l’intero arco dell’esistenza
umana.
Ma Israele è infedele all’Alleanza.
Al suo tradimento
idolatrico, con il
vitello d’oro, Iddio risponde
con misericordiosa
benevolenza, rinnovando
l’Alleanza. Ed è
suggestiva è l’immagine
con cui si chiude questo
secondo libro della Bibbia:
la nube. «La nube -
scrive l’autore sacro - coprì
la tenda della riunione e
la gloria di Jahvé riempì la
dimora... quando la nube divina
saliva sopra la dimora,
i figli di Israele si spostavano
in tutte le loro tappe; e se la
nube non saliva non si spostavano
fino al giorno in cui
saliva». Questa nube è la
ineffabile presenza di Dio
che sempre guida ed accompagna
il cammino
dell’umanità, sia pure in
maniera misteriosa.
Questo in sintesi il raccontodell’Esodo,
anche se
l’opera musicale
si ferma
ad alcuni episodidrammatizzandoli
e adattandoli
alla sua trama.Certamentel’esodo,
come
uscita, libera-
zionedall’Egitto e salita
verso la Terra
promessa, é un’esperienza
che caratterizza il popolo
eletto. Si tratta di un
patrimonio religioso vasto
e ricco che costituisce
un “segno” di come Iddio
agisce nella storia e dialoga
con l’intera umanità.
L’esperienza dell’esodo
accomuna popoli e individui
nella faticosa marcia
dell’esistenza. Diviene
così paradigma della fatica
della vita, ma anche
della speranza che sempre
può rinvigorirla. Esodo
è cammino, pellegrinaggio,
sforzo di vivere e
di ricominciare costantemente
a costruire un percorso
verso il meglio, verso
un futuro aperto alla
consolazione, perchè alimentato
dalla certezza
che Dio ci accompagna.
Il deserto simbolo
di fatica e ricchezza
C’è, infatti, una visione di
fondo evidenziata con
chiarezza dal libro dell’Esodo:
Dio agisce all’interno
di una comunità mediante
suoi inviati ed il
cammino della liberazione
di un popolo si opera
in tempi e luoghi che
comprendono il deserto,
esperienza umana faticosa
ma anche ricca di possibilità.
Il deserto in effetti,
per sua natura, è luogo
e tempo di prova e di tentazione.
L’uomo e il popolo
si ritrovano soli da-
Mosè ne La Punizione di Core, Datrian e Abrian
(Part., Cappella Sistina)
vanti al rischio: il silenzio
e la solitudine, d’altronde,
possono favorire l’ascolto
e l’incontro con
Dio. Ma qui il popolo si
ribella a Dio e lo abbandona
volgendo l’animo
ad altri dei costruiti con
le sue stesse mani.
Il tema della ribellione è
duplice: può essere rifiuto
di Dio nel senso letterale,
ma può anche essere un
rovesciamento della tentazione,
nel senso che è
l’uomo a “tentare” Dio,
pretendendo da lui e prescindendo
dal suo volere.
Esodo, deserto, tentazione,
ribellione, solitudine,
Terra promessa. In queste
parole troviamo la sintesi
non solo del libro
dell’Esodo, bensì di
tutta la storia dell’umanità,
sempre tentata
tra l’ascolto e l’obbedienza
a Dio ed il rifiuto
di Dio per un autodeterminazione
come autonomia
piena da tutto.
Indubbiamente l’opera
Moïse et Pharaon non tocca
questi aspetti, ma offre
l’opportunità di riprenderli
tra le mani e riflettere
sul senso ed il valore di
quanto ogni giorno costruiamo
camminando
nel sentiero della vita sino
al confine della morte.
La morte stessa è esodo,
passaggio verso un mondo
sconosciuto. Arriviamo
qui alle domande di
fondo che ogni essere
pensante si pone
sul senso della
vita, su chi sono
e quale sia la
“mission” su
questa terra. I
tanti perchè si
riducono a un
unico, profondo,interrogativo
che tutti li
riassume.
La lettura del libro
dell’Esodo
con i suoi aspetti
problematici e
talora drammatici racconta
in definitiva la scelta di
Dio che chiama Mosè, salvato
dalle acque, per essere
il condottiero del suo
popolo verso la terra della
felicità, la Terra promessa.
Vi possiamo leggere la nostra
personale avventura e
quella delle nostre comunità.
Mi piacerebbe scendere
nel dettaglio e soffermarmi
a compiere una rilettura
sapienziale della
nostra storia, la storia di
questi nostri tempi tanto
incerti e segnati da molte
ombre ma anche tante luci.
Mi basta però evidenziare
un dato fondamentale.
La Terra promessa
non è un miraggio, ne
13
qualcosa di relativo. Dio
non tradisce la sua parola
e non abbandona mai
l’uomo al suo destino. E’
fedele e la sua fedeltà è
amore. Ma l’uomo capisce
questo mistero? Oppure
preferisce costruire con le
sue mani il suo futuro
considerandosi autonomo
e per questo talora antitetico
al progetto divino?
Ma senza Dio l’uomo
non capisce se stesso. Qui
si aprirebbe un vasto dibattito,
quanto mai utile,
che però non trovo possibile
sviluppare in poche
righe. Lo lascio però aperto
come provocazione e
invito. Del resto anche la
trama e i testi musicali di
questa opera suggeriscono
una riflessione più approfondita.
Concludo richiamando
un dato che dovrebbe
ispirare fiducia anche a
chi non crede. Il testo sacro,
l’Esodo, al termine ci
lascia con un certezza:
malgrado la ribellione e le
infedeltà dell’uomo, Dio
resta fermo nel suo amore
e l’ultima parola è sempre
la sua, come la storia dimostra.
Fortunatamente
per noi, al di là delle apparenze,
la sua è parola di
amore. E di amore vero
l’uomo vive.
«La nube coprì la tenda della
riunione e la gloria di Jahvé
riempì la dimora». Queste
le ultime parole dell’Esodo
ad assicurarci che Iddio
resta a nostra tutela e
salvezza anche quando
non ce ne rendiamo conto.
E’ questo il Dio che
adoriamo e che in Gesù
ha rivelato il suo vero
volto umano e divino,
volto di amore infinito.
x Mons. giovanni d’ercole
Vescovo ausiliare de L’Aquila

14 Moïse et Pharaon Il
Senza dubbio è
Mosè [Mošĕh] è il
più alto e la figura
più impressionante
dell’intero racconto biblico.
Ma i libri che ce
lo mostrano (Esodo,
Levitico, Numeri, Deuteronomio),
per quanto
ricolmi della sua dominante
presenza, non
pervengono all’unità e
compiutezza del ritratto,
né si attardano in
particolari rilievi, affidando,
invece, la descrizione
di Mosè unicamente
al linguaggio
del fatti. Ne risulta così
un ritratto attraverso la
complessa e travolgente
vicenda di popolo
predestinato, che, a
sprazzi luminosi lascia
intravedere il gesto
creatore: di volta in
volta animatore e condottiero,
taumaturgo e
mistico, legislatore e
poeta, uomo di contenuta
violenza e d’improvvise
esplosioni, la
cui solitaria grandezza
ha le risonanze di un
continuo rapporto con
Dio.
L’infanzia di Mosè, il
“salvato dalle acque”,
non priva d’anticipazioni
ammonitrici, è
trattata con semplicità
e finezza poetica. Il periodo
successivo di
permanenza e d’educazione
a Corte prepara
il contrasto interno del
rivoluzionario sociale e
la sagacia del futuro liberatore.
Al primo scoprirsi
di quei suoi tremendi
tumulti interiori,
egli diviene omicida
e antilegittimista e nella
fuga, lontano dalla
vita cittadina, cerca la
sicurezza e il riposo
ma vi trova Dio ed il
chiaro disegno della
propria missione.
In terra di Madian, pascolando
il gregge del
suocero Ietro, il Dio di
Abramo gli si fa incontro
nella visione del ro-
veto ardente e gli svela
il suo nome: Jahvè
(Yhwh = «Egli – è» o
«Egli -fa - essere»).
Forte di quel nome, che
è richiamo alle promesse
del passato e
certezza del loro adempimento
futuro, quindi
programma e difesa,
Mosè torna al suo popolo.
Non sa parlare: la
sua potenza non è vuota
esteriorità, ma si
sprigiona in gesti, in
comandi, in segni portentosi.
Le “dieci piaghe
d’Egitto” sono un linguaggio
minaccioso di
singolare forza argomentativa
dopo le quali
non si può non cedere
al sovrumano potere
di chi le ha fatte parlare.
E poi la stupenda
epopea del “passaggio
del Mar Rosso” che ha
ispirato un gran numero
di pittori ma anche
il cinema, e - culmine
supremo di una incomparabile
missione - la
teofania e l’Alleanza
del Sinai. In quello scenario
di primitiva
grandezza, si compone,
finalmente, il popolo
di Dio, cui Mosè ha
dato unità, indipendenza,
organizzazione,
legge e coscienza dei
propri destini. Ma il
tramonto di questo uomo
poderoso si colora
di tinte più umane. La
Bibbia sembra porre un
velo di rispettoso silen-
zio sui trentotto anni
nel deserto: forse
un’ombra di sfiducia
sfiorò per un istante la
sua anima? Certo
è che il condottiero
non
poté guidare il
suo popolo fino
alla Terra promessa.
Ma la
sua morte avvenne
come la
sua vita: la stessa
grandiosa e
scabra solitudine
di una missione
divina.
Dopo aver composto
quel suo
cantico, che è
poi energica visione
poetica della storia, salutate
le singole tribù,
Mosè salì sul monte
Giornale dei Grandi eventi
Il personaggio protagonista
Il solitario Mosè, guida di un intero popolo
Nato in una famiglia di musicisti
(il padre Giuseppe suonava il
corno e la tromba nella banda
cittadina, mentre la madre, Anna Guidarini,
era cantante), Gioachino (Pesaro,
29.II.1792 - Passy de Paris,
13.XI.1868) formatosi a Bologna alla
scuola di padre Stanislao
Mattei, costituì il
punto di arrivo dell’opera
settecentesca e il
punto di partenza
dell’Ottocento italiano.
Geniale uomo di teatro,
portò ad esaurimento
la grande stagione
dell’opera buffa e diede
un impulso decisivo al
teatro drammatico. Il
suo stile, difficilmente
etichettabile, rientra
nella sfera del “neoclassicismo”,
individuabile
nella ricerca di un bello
ideale. Ma la perfezione
formale è ravvivata da un “calcolato”
disordine: frasi asimmetriche, brusche
fermate, partenze inaspettate di
elementi motivici nuovi, approdi armonici
inconsueti, trascinante vitalità
ritmica. L’equilibrio si muta, insomma,
in provocatorio “squilibrio” con sorprendenti
effetti dinamici (si pensi alla
tecnica del “crescendo”). Il “bello” significava
anche particolare attenzione
per il virtuosismo vocale che con Rossi-
Nebo, per morirvi, in
vista della Terra promessa,
secondo il comando
del Signore.
«Ne sorse in Israele profeta
più grande di lui, che
vide Jahvè faccia a faccia».
Soltanto la scultura
di Michelangelo in
San Pietro in Vincoli a
Roma cui lo stesso artista
per la perfezione
gridò «perché non parli?»,
può essere adeguata
interpretazione
di questa figura biblica,
che, secondo il Bossuet,
«è d’uomo nato per il bene
del mondo e fu questa
la sua grandezza».
fr. Pic.
Il compositore
Gioachino Rossini,
musicista a cavallo tra serio e comico
ni smise di essere semplice ornamentazione
(lasciata all’arbitrio dei cantanti)
per divenire elemento espressivo fondamentale
(di pertinenza dell’autore
stesso ). Una sottolineatura merita inoltre
il trattamento dell’orchestra, di particolare
leggerezza e duttilità (le ouverture
costruite con taglio
originale sono autentici
gioielli). Sul piano strutturale,
Rossini proseguì
quel processo di drammatizzazione
delle forme
chiuse sempre più
collegate musicalmente
e narrativamente che si
sarebbe ritrovato poi in
Donizetti e in Verdi. La
produzione teatrale di
Rossini, avviata nel
1806 (Demetrio e Polibio),
si chiuse nel 1829 (Guillaume
Tell) e può essere
ripartita in due fasi:
quella italiana (conclusa
nel 1823 con Semiramide), durante la
quale il musicista si divise fra il teatro
comico e quello serio (da segnalare
l’attività al San Carlo di Napoli, fra il
1815 e il 1822: Elisabetta, Regina d’Inghilterra,
Otello, Armida, Mosè in Egitto,
Riccardo e Zoraide, Ermione, La donna del
lago, Maometto II e Zelmira) e quella
francese tra il 1824 ed il 1829 (Le Siège
de Corinthe, Moïse et Pharaon, Le Comte
d’Ory e Guillaume Tell).

Il Giornale dei Grandi eventi
Ancora oltre gli applausi
è stato un vero
tifo quasi da stadio
con una inedita ‘ola’ tra
le poltroncine di velluto rosso,
per il debutto americano
del tenore Vittorio Grigolo
ne La Bohéme, incoronato
nuova stella del Metropolitan,
dopo aver sedotto il Covent
Garden ed in televisione
con il memorabile Rigoletto
di Marco Bellocchio.
Il tenore aretino, poco più
che trentenne, il 16 ottobre
scorso ha calcato per la prima
volta nel ruolo di Rodolfo
il palcoscenico del teatro
newyorkese nella storica
Bohéme firmata Franco Zeffirelli.
E’ stato un trionfo asso-
Dal mondo della musica
luto, come non se ne vedevano
da anni. Grigolo ha
strappato i primi calorosi
applausi già dopo l’aria ‘Che
gelida manina’. Poi è stato un
crescendo, fino alla standing
ovation finale e all’ ‘ola’ da
stadio. Un debutto carico di
aspettative, non solo da parte
del pubblico, ansioso di
poter applaudire un nuovo
tenore di livello mondiale,
ma anche dello stesso Metropolitan
Opera, a cominciare
dal sovrintendente Peter
Gelb, spesso oggetto di
feroci critiche che, intervistato
dal New York Times, pur
non citando direttamente
Pavarotti, ha confessato di
essere alla ricerca di star che
possano di nuovo mandare
in delirio il pubblico.
Gelb nel scegliere il cantante
italiano, non si e’ fatto intimorire
dal percorso anomalo
di Grigolo, come la parentesi
pop-opera con il produttore
inglese Simon Cowell
(quello di X-Factor) e ha investito
su una voce quasi
sconosciuta fino ad un anno
e mezzo fa, regalandogli un
ingaggio fino al 2016.
«In Gelb ho trovato un alleato»,
spiega il tenore. «E’ una
persona che sa riconoscere le
voci e le rispetta». Il New
York Times non e’ stato da
meno, dedicando il giorno
successivo l’apertura della
sua sezione artistica a Grigolo
con una foto a piena pagina,
in una posa dallo
sguardo tenebroso.
I paragoni non si sprecano:
oltre a citare Pavarotti, di cui
in molti sperano Grigolo possa
prendere il testimone, Michael
White fa il paragone
con il Rolando Villanzon dei
momenti migliori, il tenore
messicano «emerso con tutto la
15
Applaudito in Bohéme il giovane tenore aretino, novello Pavarotti
Tifo da stadio per Grigolo a Met di New York
potenza dell’uragano Katrina,
ma che si è poi autodistrutto».
«Sono un venditore di sogni –
ha detto a caldo Grigolo - ma
questa sera il sogno me lo ha regalato
il pubblico e non mi
aspettavo la standing ovation finale».
E poi ha aggiunto: «come
cantava Liza Minnelli ‘New
York, New York; If you can
make it there, you can make it
anywhere’ (Se ce la fai a Ny,
puoi farcela dovunque)». La
Bohéme newyorkese ha visto
altri due debutti italiani al
Met, quelli del maestro bergamasco
Roberto Rizzi Brignoli
e del baritono di Sabaudia,
Fabio Capitanucci come
Marcello.
f. P.
Novità in libreria
Per approfondire Rossini, ma anche un romanzo su Mozart
In una così importante apertura di Stagione
con un’opera rossiniana, non potevamo non
iniziare questa breve carrellata sulle novità librarie
che da due volumi dedicati al pesarese per
magari meglio approfondire la sua figura dopo
questa rappresentazione.
Iniziamo con un libro
che analizza gli importanti
mutamenti di giudizio
su Rossini nati dall’ampia
ricerca musicologica
che ha caratterizzato
la seconda metà del
Novecento. Così Rossini,
l’uomo, la musica
(giovanni Carli Ballola
- 2009 - Bompiani – Pag.
391 - € 14,00) riesce a
riunire in un’opera organica,
agile ed aggiornata, ciò che è emerso in tante
pagine di studi, saggi e convegni. Vi si trovano
dati essenziali circa le vicende esistenziali ed artistiche
del compositore, inquadrandolo nella
cultura europea dell’epoca secondo le più recenti
acquisizioni documentarie, favorite dalla preziosa
edizione critica dell’epistolario e delle ancora
inedite lettere ai familiari. Vi si trova una riflessione
critica su tutta l’opera di Rossini.
Il secondo non è proprio una novità in quanto
uscito nel 2002, ma merita egualmente una segnalazione
per la sua utilità ed agilità. Si tratta
del Dizionario Rossiniano (eduardo rescigno –
2002 - Bur dizionari - pag. 806 - € 17,00) che esce
dalla agile e puntigliosa penna nonché da ricerche
approfondite di Eduardo Rescigno. E’ l’ennesimo
titolo di “Dizionario” dedicato dall’autore a
grandi operisti. Anche questa volta, attraverso
varie voci il volume indaga
sul vasto universo
rossiniano, elencando
tutte le opere –
comprese le più minute
– e tutti i personaggi
in qualche modo legati
al compositore, dagli
artisti delle prime rappresentazioni,
ad uomini
e donne che agirono
nel mondo teatrale
dell’epoca. Ogni voce è approfondita in modo
puntiglioso, ricercando anche particolari minuti.
Affrontare la lirica in un solo volume normalmente
non è una operazione facile, se non ci si
vuole ancorare ad una superficialità necessaria
ed ad un repertorio consolidato e banale. Ma a
quello che lo scrittore John Evelyn nel 1645 definiva
«uno dei più magnifici e costosi svaghi che il genio
dell’uomo possa inventarsi», ora Daniel Snowman
saggista e storico musicale inglese ne Il palco
d’oro (daniel snowman – 2010 – ellior edizioni
– Pag. 505 - € 35) ne ripercorre la storia dalla
fine del ‘500 ad oggi, coinvolgendo il lettore
con un turbinio di
aneddoti, leggendo la
storia di questo genere
musicale che - se ci si
riflette - è stato il primo
esempio di globalizzazione,
con i cantanti
di diverse nazione
in perenne movimento
tra i palcoscenici
del mondo. Ma l’autore
inquadra soprattutto
l’opera nel com-
plesso politico ed economico sia delle nazioni che
di questo stesso genere musicale, se si pensa all’importanza
e l’attenzione che ad esso riservarono
dinastie illuminate come gli Asburgo od i Borbone,
lo stesso Terzo Reich, ma anche il nostro
Risorgimento.
Infine un romanzo di ispirazione musicale, risultato
uno dei libri più amati in Germania nel 2009,
opera prima della 42enne Eva Baronsky e che ora
esce tradotto in Italia. Il signor Mozart si è svegliato
(eva Baronsky – 2010 – elliot edizioni –
Pag. 310 - € 17,50). A Vienna la sera del 5 dicembre
1791 Mozart è sul letto di morte circondato
dalla moglie Costanza, dal medico e da quello
spartito del Requiem ancora incompiuto. Allo
stremo delle forze, perde i sensi. Ma 215 anni dopo,
la mattina del 6 dicembre 2006 un uomo si
sveglia a Vienna in una camera che non riconosce.
Tutto intorno a lui gli appare strano: la luce
che non viene dalle
candele, la musica che
suona senza strumenti,
il calore senza fuoco.
Egli pensa che sia una
condizione sovrannaturale
per permettergli
di completare la sua
ultima opera. Ma si accorge
che quando dice
il suo nome tutti lo
prendono per pazzo.
Senza soldi comincia a
girovagare ed il suo talento musicale viene scoperto
da un violinista di strada che lo porta con
lui a suonare anche autori che lui non ha mai sentito
come Dvořàk e Strauss. Passa così un anno.
E’ la vigilia del 5 dicembre. Cosa accadrà?
L. d. d.