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INSULA - Biblioteca Algueresa

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<strong>INSULA</strong><br />

Quaderno di cultura sarda<br />

Num. 6, dicembre 2009<br />

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♦A♦d♦T♦<br />

Arxiu de Tradicions<br />

<strong>INSULA</strong><br />

Quaderno di cultura sarda<br />

Num. 6, dicembre 2009<br />

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4<br />

<strong>INSULA</strong>, Quaderno di cultura sarda. Num. 6, dicembre 2009<br />

Insula@cat è un Centro di Ricerca afferente all’Arxiu de Tradicions de l’Alguer<br />

Direttore editoriale e curatore: Joan Armangué i Herrero<br />

Comitato redazionale: Simona Pau, Luca Scala, Walter Tomasi<br />

Hanno collaborato a questo numero: Joan Armangué, della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere<br />

dell’Università degli Studi di Cagliari; Teresa Cabré, dell’Universitat Autònoma de<br />

Barcelona – Spagna; Marcello A. Farinelli e Maria del Mar Vanrell, dell’Universitat Pompeu<br />

Fabra – Barcellona, Spagna; Simona Ledda, collaboratrice esterna del CNR – Roma; Pilar Prieto,<br />

ICREA e Universitat Pompeu Fabra – Barcellona, Spagna; Roberto Rattu, dell’Arxiu de<br />

Tradicions; Aldo Sari, dell’Università degli Studi di Sassari; e Antonio Trudu, della Facoltà di<br />

Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Cagliari.<br />

In copertina<br />

Scultura di Gigi Porceddu<br />

Foto di Mauro Porceddu<br />

Prima edizione: Cagliari, dicembre 2009<br />

ISBN: 978-88-96778-07-4<br />

© Grafica del Parteolla<br />

Via dei Pisani, 5 (I-09041-Dolianova)<br />

Tel. 0039 070 741234<br />

grafpart@tiscali.it<br />

© Arxiu de Tradicions<br />

Reg. impresa: 221.861<br />

Via Carbonazzi, 17 (I-09123-Cagliari)<br />

Tel. 0039 070 6848000<br />

arxiudetradicions.alguer@gmail.com<br />

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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />

Simona Ledda<br />

Collaboratrice esterna del CNR – Roma<br />

Fig. 1. Demetra seduta con spiga<br />

e Persefone con fiaccola.<br />

5<br />

A Lorenzo<br />

La Sardegna negli anni che vanno dal IV al II sec. a.C. (periodo caratterizzato<br />

dalla presenza della cultura e tradizione punica) 1 è in gran parte segnato dalla<br />

presenza di piccole aree sacre, distribuite nell’entroterra dei centri maggiori in<br />

misura tale da divenire proprie della morfologia del territorio. 2 Tali aree sacre<br />

1 Sebbene la Sardegna fosse conosciuta ai Greci probabilmente sin da sempre – cioè dai tempi<br />

preellenici –, noi siamo nella fortunata situazione di conoscere in quale epoca ben delimitata su<br />

di essa si appuntavano anche precisi interessi ellenici. La conquista cartaginese dell’isola, cui<br />

aveva aperto la strada la battaglia navale di Alalia del 540 a.C. circa, rese vano ogni intresse<br />

greco per l’isola.<br />

2 F. BARRECA, La civiltà fenicio-punica in Sardegna, Sassari, 1986.<br />

<strong>INSULA</strong>, num. 6 (dicembre 2009) 5-24<br />

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6<br />

Simona Ledda<br />

furono dedicate alla divinità agraria e delle messi, Demetra, il cui nome (Dêmêtêr)<br />

significa, per un verso, ‘madre terra’ e, per altro verso, può farsi risalire al termine<br />

cretese per indicare i cereali – cui comunque essa si collega in quanto dea<br />

della fertilità. Inoltre, essa appartiene, nella sua qualità di figlia di Crono e Rea,<br />

al primordiale complesso olimpico (sebbene, come Dioniso, sia stata trascurata<br />

dalla poesia omerica e dall’epica) e risulta venerata in tutto il mondo greco ed<br />

ellenistico. Secondo alcuni, 3 infine, la sua figura sarebbe da ricondurre alla<br />

potnia, 4 signora universale, padrona della vita e della morte, dea unificante della<br />

natura, al vertice del pantheon miceneo.<br />

Il suo culto venne introdotto a Cartagine, secondo Diodoro, 5 dopo il sacco<br />

di Siracusa e la distruzione del santuario di Demetra (e Kore), nel 396 a.C., da<br />

parte di Imilcone. 6 Secondo la leggenda, la dea, adirata per le stragi operate in<br />

Sicilia dalle armate puniche, ed in particolare per la distruzione del suo tempio<br />

a Siracusa, inviò un’epidemia che ne decimò l’esercito. Successivamente i<br />

Cartaginesi, per placare l’ira divina, decisero di assimilare completamente<br />

Demetra nel loro pantheon divino costruendo, sia a Cartagine che nelle sue<br />

colonie (di conseguenza anche in Sardegna), templi a lei dedicati e organizzandone<br />

il culto e i rituali, officiati con sacerdoti greci residenti in loco.<br />

Il nuovo culto in terra nord-africana sarebbe documentato da alcune epigrafi<br />

in cui si attestano il sacerdozio relativo a Kore ed una dedica a Demetra e Kore. 7<br />

Il nome di Kore è stato individuato nella grafia KRW’ in un’iscrizione funeraria<br />

di Cartagine – dove la defunta ha il titolo di KHNT SKRW’, «sacerdotessa di<br />

Kore (?)» (CIS I 5987, 1).<br />

Particolarmente significativa è inoltre l’iscrizione KAI 83 (= CIS I 177),<br />

una dedica in cui le due dee sono indicate con gli epiteti, rispettivamente, di<br />

Madre (‘m’) e di b’lt hhdrt, che si traduce come ‘Signora degli Inferi o Signora<br />

del mégaron’, in riferimento alla cavità sotterranea utilizzata nel culto delle due<br />

dee. Il termine ‘LT (elat), è stato quasi unanimemente interpretato come il nome<br />

comune che significa ‘dea’.<br />

3 B. C. DIETRICH, The origins of Greek religion, Berlin, 1973, pp. 128 ss. Sulla questione sinteticamente<br />

I. Chirassi Colombo, La religione greca, Laterza, Roma-Bari, 1942, pp. 9 ss.<br />

4 Il termine potnia contiene un’idea di potenza (cf. lat. potis ‘potente’): appellativo della Grande<br />

Madre mediterranea, signora del mondo.<br />

5 Diod. Sic. XIV, 77, 4-5.<br />

6 P. XELLA, Sull’introduzione del culto di Demetra e Kore a Cartagine, «SMSR», 40, 1969, pp.<br />

215-228.<br />

7 Iscrizioni CIS I 5987 da Cartagine; KAI 70 da Avignone. La prima riga dell’iscrizione recita:<br />

«qbr hnb’l hkhnt s Krw’».<br />

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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />

Il pur scarno materiale epigrafico non consente di affermare che il culto di<br />

Demetra e Kore avesse conservato dei caratteri chiaramente estranei alla religione<br />

punica e non si trovano tracce di questo culto né in altre iscrizioni, né<br />

nell’onomastica. Tale assenza è spiegabile alla luce del sopracitato racconto<br />

diodoreo sul carattere greco del culto tributato a Cartagine alle due divinità e<br />

sull’origine greca del loro sacerdozio. 8<br />

L’aspetto rituale di Demetra è congiunto per lo più alle antiche cerimonie agrarie<br />

in cui viene rappresento il legame con l’agricoltura e la fertilità dei campi: questo<br />

fu in realtà l’elemento fondamentale che ne favorì completamente l’assimilazione in<br />

ambito punico, anche a seguito di un verosimile incoraggiamento pubblico nei confronti<br />

di un tale culto che, con il suo carattere agrario, si addice bene alla politica di<br />

sfruttamento agricolo della Sardegna e del Nord Africa inaugurata dallo stato<br />

Cartaginese. 9 Demetra avrebbe così acquisito la natura di una «divinità benevola»,<br />

l’agricoltura, che rivela all’uomo la ricchezza e gli strumenti per ottenerla.<br />

Il culto<br />

Un analogo culto indigeno caratterizzato da cerimonie agrarie, o ciclo stagionale,<br />

esisteva probabilmente in Sardegna già in epoche precedenti alla dominazione<br />

punica. In esso le divinità agrarie e pastorali riproponevano il tema ciclico<br />

della semina-fioritura-maturazione-raccolto. Tale culto era analogamente basa-<br />

8 Nonostante questo, come già evidenziato da M. G. Amadasi Guzzo, è possibile che la dea Persefone<br />

– eventualmente chiamata in qualche caso col nome di Kore – potesse venir chiamata in<br />

terra punica con il nome di Elat, ‘dea’, e che a lei fosse dedicato il tempio di Sulci (attuale<br />

Sant’Antioco, nell’isola omonima); come si evince da una nuova rilettura dell’iscrizione bilingue<br />

latino-neopunica CIS I, 149 (= ICO Sard. Np. 5 = KAI 173), dove è nominato un «santuario»<br />

della «signora ‘LT», che indica la costruzione che ha motivato l’erezione di una statua in onore<br />

di Himilkot, figlio di Idnibal.<br />

9 Cfr. P. BARTOLONI – S. F. BONDÌ – S. MOSCATI, La penetrazione fenicio-punica in Sardegna<br />

trent’anni dopo, Roma, 1997, pp.73-92. Sulle modalità di occupazione del territorio rurale si<br />

vedano i recenti contributi: S. FINOCCHI, Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora e del<br />

suo territorio in epoca fenicia e punica, «RivStFen», 30, 2002, pp. 147-186; M. BOTTO – S.<br />

MELIS – S. FINOCCHI – M. RENDELLI, Nora: sfruttamento del territorio e organizzazione del paesaggio<br />

in età fenicia e punica, in C. GÓMEZ BELLARD (ed.), Ecohistoria del paisaje agrario,<br />

Universitat de València, 2003; A. STIGLITZ, Città e campagna nella Sardegna punica, ivi, pp.<br />

111-128; in merito anche M. MADAU, Cultura punica fra città e campagna nella provincia di<br />

Sassari, in «Atti del VII Convegno di Studi sull’Africa Romana» (Sassari, 15-17 dicembre 1989),<br />

Gallizzi, Sassari, 1990, pp. 513-518; G. TORE – A. STIGLITZ, Ricerche archeologiche nel Sinis e<br />

nell’alto Oristanese, in «Atti del IV Convegno di studio sull’Africa romana» (Sassari, 12-14<br />

dicembre 1986), Sassari, 1987, pp. 633-658.<br />

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8<br />

Simona Ledda<br />

to sull’esistenza di un essere sovrumano femminile, datore di fecondità e fertilità,<br />

una sorta di Terra Madre, conosciuta come Dea Madre presso le società neolitiche<br />

sarde. A tal proposito, numerosi sono stati i ritrovamenti di statuine della<br />

Dea Madre in contesti abitati, funerari e di culto.<br />

Come già detto, secondo Diodoro Siculo (Lib. III.62), il nome stesso di<br />

Demetra è da ricollegare a quello di Dea Madre o Terra Madre. Del resto, gli<br />

elementi di nascita, vita, morte, rigenerazione e nuova nascita, legati al ciclo<br />

della natura e presenti nel culto della Dea Madre, sono rintracciabili anche nei<br />

rituali legati alla dea greco-punica Demetra, dea del grano e dell’agricoltura,<br />

costante nutrice della gioventù e della terra verde, artefice del ciclo delle stagioni,<br />

della vita e della morte.<br />

Proprio questa continuità dei culti, pur nella loro varietà di forme, costituisce<br />

un elemento distintivo e caratterizzante della Sardegna antica. Infatti, il culto<br />

della dea greco-punica rispondeva alle esigenze di gruppi che trovavano nell’economia<br />

agraria, la loro forma di sussistenza e la loro dimensione sociale<br />

all’interno dello stato territoriale cartaginese. Se, però, il culto della Dea Madre<br />

in Sardegna era strettamente connesso con i misteri legati alla vita, alla morte e<br />

alla rinascita in epoca cartaginese, nel culto greco-punico di Demetra l’aspetto<br />

religioso era soprattutto legato a quello agrario, elemento che interessava maggiormente<br />

rispetto alla dimensione misterica e salvifica. Forse perché, in un’epoca<br />

in cui le risorse agricole del territorio cartaginese diventavano di importanza<br />

vitale, si mirava probabilmente a conseguire il potente aiuto di Demetra e Kore<br />

per un’abbondanza dei raccolti. 10<br />

Risulta comunque arduo precisare nei dettagli la problematica dei rapporti<br />

tra culture e religioni incontrate in loco, senza dubbio contrassegnati da fenomeni<br />

di reciproca interazione e di sincretismo.<br />

È indubbio che il culto di Demetra 11 in Sardegna sia l’insieme dei fenomeni e<br />

delle concezioni costituite dall’incontro e dalla fusione di forme religiose differenti<br />

e affini. Tale affermazione è accreditata dalla presenza nell’isola di santuari<br />

dedicati a Demetra, edificati come continuazione di culti più antichi. Una prima<br />

ipotesi di lettura potrebbe partire dalla diversificazione dei santuari, spaziale e<br />

culturale. A questa distinzione sembra corrispondere una diversa caratterizzazione<br />

topografica dei siti: in zone pianeggianti, prossime all’abitato, oppure in aree<br />

collinari e montuose, isolate e sfavorevoli all’insediamento umano.<br />

10 P. XELLA – S. RIBICHINI, La religione fenica e punica in Italia, Libreria dello Stato, Roma, 1994.<br />

11 Il caso di Demetra, divinità adottata dai cartaginese dopo che avevano distrutto il santuario della<br />

dea presso Siracusa, è uno dei casi più illuminanti circa il fenomeno dell’ellenizzazione della<br />

religione punica; vedi S. MOSCATI, Chi furono i Fenici, Torino, 1992.<br />

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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />

Spazio sacro designato e ritualità: ove si praticava il culto<br />

Determinare dove si svolgeva il culto è solo apparentemente facile, poiché è<br />

necessario individuare una gerarchia concettuale che consenta di collocare le<br />

informazioni archeologiche all’interno di un sistema coerente dove i caratteri<br />

cultuali – dalle strutture del luogo di culto al sistema dei doni votivi – restituiscano<br />

il fenomeno religioso nella sua globalità. 12 Indubbiamente, a questo punto,<br />

bisogna porsi questa domanda: dove si svolgeva l’attività religiosa connessa<br />

al culto di Demetra in Sardegna? Che cosa è lo Spazio Sacro?<br />

Il sacro è una realtà polimorfa che, pur mutando a seconda delle culture, dei<br />

tempi e dei luoghi, presenta caratteristiche comuni presso le diverse civiltà e<br />

religioni. In generale la parola «sacro» indica un insieme di cose separato dall’ordinario<br />

perché riservato a un essere superiore: un dio o una dea. È possibile<br />

esprimere questo concetto di base in modo più generale sostenendo che uno<br />

spazio può essere considerato sacro nella misura in cui in esso si stabiliscano<br />

dei rapporti tra l’uomo e la divinità.<br />

Gli elementi attraverso i quali il sacro si manifesta sono il simbolo, il mito<br />

e il rito: 13<br />

a) il simbolo rappresenta il linguaggio del sacro, perché è la forma attraverso<br />

la quale si rende visibile;<br />

b) il mito è un racconto sacro mediante il quale l’uomo cerca di spiegare<br />

l’origine della vita e la sua presenza nel mondo;<br />

c) il rito è costituito da quell’insieme di parole e gesti del corpo che conferiscono<br />

un valore sacrale a persone (sacerdoti e indovini), oggetti (animali sacrificati<br />

o elementi naturali come l’acqua, il fuoco, il pane e il vino) e luoghi<br />

(templi, santuari, cattedrali e cappelle votive). Ciò che partecipa al rituale di<br />

consacrazione riceve dal soprannaturale forza, efficacia e durata e, soprattutto,<br />

una dimensione di realtà.<br />

L’ubicazione dello spazio sacro in relazione agli altri elementi del paesaggio,<br />

urbano ed extraurbano, è estremamente importante perché da essa si possono<br />

dedurre informazioni circa le corrispondenze del sacro all’interno della civiltà.<br />

Sull’isola insistono testimonianze di santuari urbani, extraurbani (edifici<br />

appositamente costruiti) ed extraurbani a carattere rurale (ambienti naturali<br />

riadattati). Per il culto potevano essere anche utilizzate strutture preesistenti<br />

12 I. OGGIANO, Dal terreno al divino. Archeologia del culto nella Palestina del primo Millennio,<br />

Carocci, Roma, 2005.<br />

13 R. JULIEN, L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità, Jaca Book, Milano, 2007, p. 673.<br />

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indigene ed opportunamente modificate come, ad esempio, il tempio di Demetra<br />

costruito sopra il Nuraghe Lugherras.<br />

L’esame della documentazione archeologica rivela contesti cultuali<br />

extraurbani, di piccole dimensioni. I santuari, quindi, erano presenti nei campi<br />

seminati a coltura cerealicola, obiettivo primario della politica economica<br />

cartaginese in Sardegna, e la loro posizione avrebbe assicurato il potente aiuto<br />

di Demetra e Kore per raccolti abbondanti e sicuri.<br />

Un esempio di tempio extraurbano dedicato a Demetra è quello ritrovato in<br />

località Strumpu Bagoi (III sec. a.C.), Terreseo di Narcao 14 (fig. 2), probabilmente<br />

pertinente ad un insediamento punico locale (e forse, è un’ipotesi, a quello<br />

di Paniloriga, in territorio del Comune di Santadi, unico insediamento feniciopunico<br />

al momento conosciuto nelle vicinanze).<br />

Fig. 2. Tempio di Demetra a Terreseo di Narcao.<br />

Simona Ledda<br />

Nel sito, già frequentato in epoca nuragica, il culto sembra sia stato attivato<br />

in funzione di una sorgente, quindi è presente un elemento sacro naturale, la<br />

sorgente, ed un elemento appositamente costruito, l’edificio di culto, che genererebbe<br />

un tertium genus, frutto della commistione tra lo schema del santuario<br />

extraurbano e quello del santuario extraurbano rurale.<br />

14 In questo lavoro mi preme segnalare anche lo stato di totale abbandono di questi santuari, come<br />

appunto quello di Terreseo di Narcano, in cui la folta vegetazione non ha dato la possibilità di<br />

effettuare una documentazione fotografica accettabile. Il sito attualmente non è fruibile ai visitatori<br />

e versa in uno stato di totale abbandono.<br />

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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />

Una prima osservazione del santuario di Terreseo di Narcano rivela la presenza<br />

di un elemento, la fonte d’acqua (di età nuragica e successivamente consacrata<br />

a Demetra), che, inteso quale punto di accesso agli inferi, ricollega il<br />

culto demetriaco direttamente all’episodio mitico del rapimento di Persefone. 15<br />

Anzi, secondo F. Barreca, il santuario sorse in età nuragica, come luogo di culto<br />

dell’acqua sorgiva e in esso fu venerata la dea madre della natura feconda, poi<br />

interpretata in età punica come Demetra.<br />

Altre fonti sacre in Sardegna hanno avuto lo stesso processo di continuità<br />

dei culti. Esempi ne sono i siti di Santa Cristina 16 presso Paulilatino (fig. 3), ove<br />

il pozzo sacro ripete lo schema planimetrico comune a questi edifici templari di<br />

età nuragica (atrio o vestibolo, scala discendente nella camera sotterranea, che<br />

custodisce la vena sorgiva), e Cuccuru S’Arriu 17 presso Cabras, dove il culto<br />

greco-punico di Demetra è subentrato a quello nuragico dei templi a pozzo sulle<br />

sorgenti sacre. Come afferma lo stesso Barreca «sarebbe difficilmente un caso,<br />

infatti, la coincidenza della sorgente con l’edificio su essa costruito». 18 Inoltre,<br />

è opportuno far presente che i culti relativi alle divinità salutifere effettuati presso<br />

le fonti e presso i chasmata 19 erano tipici della cultura fenicia, al punto che<br />

15 Il più importante mito legato a Demetra, che costituisce anche il cuore dei riti dei Misteri<br />

Eleusini, è la sua relazione con Persefone, sua figlia nonché incarnazione della dea stessa da<br />

giovane. Nel pantheon classico greco, Persefone ricoprì il ruolo di moglie di Ade, il dio degli<br />

Inferi. Diventò la dea del mondo sotterraneo quando, mentre stava giocando sulle sponde del<br />

Lago di Pergusa, in Sicilia, con alcune ninfe (secondo un’altra versione con Leucippe), che poi<br />

Demetra punì per non essersi opposte a ciò che accadeva trasformandole in sirene, Ade la rapì<br />

dalla terra e la portò con sé nel suo regno. La vita sulla terra si fermò e la disperata dea della terra<br />

Demetra cominciò ad andare in cerca della figlia perduta, riposandosi soltanto quando si sedette<br />

brevemente sulla pietra Agelasta. Alla fine Zeus, non potendo più permettere che la terra<br />

stesse morendo, costrinse Ade a lasciar tornare Persefone e mandò Hermes a riprenderla. Prima<br />

di lasciarla andare, Ade la spinse con un trucco a mangiare quattro semi di melagrana magici,<br />

che l’avrebbero da allora costretta a tornare nel mondo sotterraneo per quattro mesi all’anno. Da<br />

quando Demetra e Persefone furono di nuovo insieme, la terra rifiorì e le piante crebbero rigogliose,<br />

ma per quattro mesi all’anno, quando Persefone è costretta a tornare nel mondo delle<br />

ombre, la terra ridiventa spoglia e infeconda. Questi quattro mesi sono chiaramente quelli invernali,<br />

durante i quali in Grecia la maggior parte della vegetazione ingiallisce e muore. È,<br />

infatti, fin troppo chiara la relazione tra l’uscita di Kore/Persefone dal sottosuolo e i germogli di<br />

grano che in primavera escono dalla terra, e il rientro negli Inferi, che corrisponde invece con il<br />

periodo della semina in cui le sementi del grano vengono piantate sotto terra, consacrando<br />

l’inizio della stagione invernale.<br />

16 A. MORAVETTI, Il Santuario nuragico di Santa Cristina, Sassari, 2003.<br />

17 AA.VV., Cabras-Cuccuru S’Arriu, «RivStFen», 10, 1982, pp. 103-127.<br />

18 S. MOSCATI, Il tramonto di Cartagine, Torino, 1993, pp. 80-81.<br />

19 Luoghi voraginosi identificati con i bothroi o altari tondi.<br />

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12<br />

ogni tempio aveva una sua via di comunicazione con gli Inferi (questo spiegherebbe<br />

la presenza di pozzi sacri e piscine nei santuari fenici), attraverso la quale<br />

potevano essere inviate le offerte alle divinità ctonie.<br />

Fig. 3. Veduta d’insieme. Pozzo Santa Cristina di Paulilatino.<br />

Simona Ledda<br />

La credenza comune che i fiumi o le sorgenti fossero dotati di virtù curative<br />

è probabilmente data dal fatto che essi sgorgano dal sottosuolo. Per tale loro<br />

origine venivano considerati, come già accennato altrove, direttamente connessi<br />

alla dimensione caotica al di là dei confini del cosmo, sfera d’azione dei<br />

defunti e delle divinità ctonie.<br />

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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />

Il fatto che il santuario demetriaco di Terreseo di Narcao sia stato costruito<br />

sul luogo di un’antica sorgente sacra nuragica indica che la continuità del culto<br />

è duplice:<br />

– Dea Madre / Demetra, fertilità, guarigione, morte, rinascita;<br />

– Sorgente/ acqua scaturita dal sottosuolo, veicolo di virtù terapeutiche<br />

riconducibile a una dimensione extra-terrena, al di fuori delle leggi del mondo<br />

dei vivi.<br />

Da questo accenno si può dedurre che la virtù delle sorgenti, forse richiamata<br />

dalla dimensione extraurbana dei culti sardi connessi ad esse, sembra trovare riscontro<br />

e confronti anche in una più ampia tradizione semitica, per la quale è<br />

attestata l’immersione nell’acqua di fiumi o di sorgenti come mezzo di guarigione.<br />

Utilizzando le cosiddette fonti indirette, quali ad esempio la Bibbia ebraica,<br />

apprendiamo che nel secondo Libro dei Re (5, 1-14) è riportato l’episodio in cui<br />

le virtù curative delle acque del fiume Giordano vengono usate per la guarigione<br />

di Naaman, capo dell’esercito del re di Aram (da qui, nella tradizione cristiana,<br />

questo episodio simboleggia l’efficacia della fede e delle acque battesimali).<br />

Il santuario demetriaco di Terreseo di Narcao, in questo senso, appare significativo:<br />

infatti, nonostante la modestia dell’area sacra, l’architettura (e la ritualità)<br />

del luogo sembra mantenere alcuni parametri di più antica origine insulare, ma<br />

il suo aspetto complessivo si lega anche ad un apparato di manifestazioni religiose<br />

appartenenti, o ispirate, al mondo semitico. Non parliamo di<br />

differenziazione delle esperienze cultuali, ma piuttosto della convergenza di<br />

elementi di origine diversa in grado di comunicare e di interagire. Ciò che più<br />

impressiona è la persistenza dell’area sacra fino all’epoca imperiale romana.<br />

La mia personale conclusione circa la valenza magico-sacrale dell’acqua<br />

presso le genti preistoriche rientra nel più vasto e problematico mondo della più<br />

antica religiosità dell’uomo. Una delle manifestazioni più affascinanti della<br />

religiosità e dell’architettura degli antichi sardi fu senz’altro quella legata al<br />

mondo sotterraneo delle acque, in un isola dove l’approvvigionamento idrico<br />

ha sempre rappresentato un problema. L’acqua era oggetto di culto per il suo<br />

carattere ctonio di divinità sotterranea presso la quale le popolazioni nuragiche<br />

eseguivano suggestivi riti di purificazione e curavano le malattie, ma era anche<br />

connessa con il grande tema della fecondità agraria, oltre che umana e animale,<br />

della purificazione e della rigenerazione. Ed è proprio la fecondità agraria che<br />

lega il culto nuragico delle acque, e quindi della Dea Madre, al culto punicogreco<br />

della dea delle messi Demetra.<br />

Il confronto con la Sicilia è d’obbligo: a Gela, infatti, esistevano riti simili.<br />

Le acque del fiume Gelas, detto «selvaggio» da Virgilio (Eneide, 3.703) ma<br />

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14<br />

anche «puro-sacro» da Diodoro Siculo (<strong>Biblioteca</strong> Storica, 8.23.1), permettevano<br />

le cerimonie lustrali e i riti di purificazione, in cui le divinità propense<br />

a tali culti erano le due dee, madre e figlia, Demetra e Persefone/Kore. È<br />

indubbio, quindi, che nel santuario rurale di Terreseo di Narcano, ma anche<br />

negli altri tempietti dedicati al culto demetriaco in Sardegna, l’associazione<br />

di dee complementari come Demetra e Persefone/Kore, che simbolizzano<br />

da una parte la natura selvaggia, dall’altra la natura domesticata, permette il<br />

sincretismo tra divinità greche tradizionali e divinità indigene, non identificate<br />

nelle fonti scritte.<br />

La documentazione archeologica<br />

Simona Ledda<br />

In merito alle vie e ai vettori di diffusione del culto in Sardegna, anche la<br />

documentazione archeologica sembra impostarsi sulla direzione di un culto<br />

agrario e popolare.<br />

Il culto caratterizza tutto il periodo tra il IV e il II secolo a.C. ed è attestato da<br />

diverse testimonianze archeologiche. Interessante nel III sec. a.C. è la comparsa<br />

in Sardegna della moneta, 20 categoria artigianale precedentemente estranea all’isola<br />

(fig. 4). Il contesto numismatico è una testimonianza del consolidamento<br />

da parte punica del culto dedicato alle dee Demetra e Kore. Infatti, sul diritto di<br />

alcune monete ritroviamo una testa di Kore e sul rovescio un cavallino rampante.<br />

Tale simbologia, voluta dai Cartaginesi su modelli da loro stessi forniti, incontrò<br />

grande favore da parte dei Protosardi anche nelle zone montane più interne,<br />

come dimostrano i tesoretti di monete puniche rinvenuti nella Barbagia e che<br />

certo documentano o che fra i Protosardi e i Cartaginesi esistessero dei rapporti<br />

di tipo commerciale, oppure che alcuni tesoretti fossero frutto di razzie ai danni<br />

di Cartaginesi. Ma è altrettanto possibile che si tratti di denaro pagato ai<br />

Protosardi da Punici confinanti in cambio di merci acquistate regolarmente,<br />

come cera, miele, formaggi, pelli, bestiame e forse anche rame della zona mineraria<br />

di Gadoni-Funtana Raminosa.<br />

Per quanto riguarda la coroplastica, l’orientamento popolare delle produzioni<br />

fittili e la natura rurale e contadina delle aree sacre sono rimandabili alla<br />

devozione e religiosità dei diretti fruitori, ovvero le comunità contadine insulari<br />

che, in gran parte, provenivano dal Nord-Africa (troviamo ampiamente attestate<br />

20 E. ACQUARO, Sulla lettura di un tipo monetale punico, «Rivista Italiana di Numismatica e scienze<br />

affini», 1971; ID., Le Monete, in AA,VV., I Fenici, Milano, 1988, pp. 524-35.<br />

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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />

un po’ ovunque in Sardegna figurine in terracotta di Demetra: Sulcis, Nora,<br />

Tharros, Monte Sirai, Santa Margherita di Pula, Terreseu di Narcao, Sinis di<br />

Cabras, Nuraghe Lugherras e Santa Cristina di Paulilatino, Villanovaforru, ecc.) 21<br />

Fig. 4. Moneta punica con testa di Kore.<br />

In questo articolo saranno considerati alcuni esemplari coroplastici in cui si<br />

vedrà l’intervento dell’influenza greca, che giunge in Sardegna via Sicilia. Il<br />

conseguente sfruttamento agricolo e le nuove forme di religione, legate ai culti<br />

agrari, probabilmente hanno trovato nelle terrecotte la forma immediata di espressione<br />

artigianale ispirandosi all’ambiente cartaginese di provenienza e a quello<br />

siceliota di origine. Gran parte della produzione fittile sarda e nord-africana<br />

sembra concordare con la notizia diodorea relativa all’episodio del 396 a.C. di<br />

cui ho già parlato: la fioritura delle terrecotte andrebbe quindi a legarsi a una<br />

riforma o a un’innovazione religiosa.<br />

Gli esempi più significativi dell’affermata influenza ellenica nell’isola provengono<br />

dalle terrecotte di Tharros (fig. 5) e dai thymiateria 22 (bruciaprofumi o<br />

incenso, fig. 6) del nuraghe Lugherras.<br />

I primi thymiateria noti nel mondo antico si datano nella prima metà del VII<br />

sec. a.C., mentre i primi esemplari raffigurati compaiono attorno alla metà del<br />

VI a.C. Numerosi sono gli ambiti in cui i Greci li introdussero, da quello strettamente<br />

sacrale a quello privato (l’incensamento avveniva principalmente nei simposi<br />

e nei banchetti).<br />

21 F. BARRECA, La civiltà fenicio-punica in Sardegna cit.<br />

22 L’importanza degli incensieri nel culto Eleusino è resa evidente dalla Lex Eleusinia del 138 d.C.<br />

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I thymiateria sono stati trovati in notevole quantità nel santuario tardo-punico<br />

del Nuraghe Lugherras, vasto complesso archeologico che sorge nel territorio<br />

di Paulilatino.<br />

Fig. 5. Statuetta femminile con peplo<br />

e kalathos, da Tharros. Terracotta.<br />

Cagliari, Museo Nazionale (foto tratta da<br />

S. MOSCATI, Fenici e Cartaginesi in Sardegna).<br />

Simona Ledda<br />

Fig. 6. Bruciaprofumo in terracotta<br />

del santuario tardo-punico sovrapposto<br />

al Nuraghe Lugherras (foto tratta da<br />

S. MOSCATI, Fenici e Cartaginesi in Sardegna).<br />

Punto di avvio fondamentale nello studio del tale sito, considerate le caratteristiche<br />

della documentazione in possesso, ritengo debba essere una ricostruzione<br />

della storia degli scavi seppur sintetica e dei più importanti risultati da<br />

essi conseguiti.<br />

La paternità relativa alle prime indagini ufficiali archeologiche del nuraghe 23<br />

va ad Antonio Taramelli, che iniziò lo studio sistematico dell’edificio nel 1906,<br />

epoca in cui la metodologia archeologica non si avvaleva dei criteri stratigrafici.<br />

Purtroppo, la mancanza di precise e dettagliate notizie sulle condizioni del ri-<br />

23 A. TARAMELLI, Scavi e scoperte, 1903-1910, Carlo Delifino Editore, Sassari, 1982, pp. 485-525.<br />

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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />

trovamento di parecchi oggetti fittili e metallici presenti nel nuraghe, tra i quali<br />

i predetti thymiateria, ha creato sicuramente difficoltà agli studiosi ai fini del<br />

conseguimento di puntuali e validi risultati.<br />

In tale sito si svolse per lunghi secoli la vita associata, politica e religiosa di<br />

una comunità nuragica fino a quando, con la conquista cartaginese dell’isola<br />

risalente alla metà del VI secolo a.C. 24 e la successiva penetrazione all’interno<br />

avviata a partire dalla fine del VI e inizi del V sec. a.C., si determinò probabilmente<br />

la dispersione degli abitanti primitivi della zona del nuraghe Lugherras<br />

ed il suo conseguente abbandono. Ciò nonostante, sia i Punici che, in seguito, i<br />

Romani, conservarono il carattere sacro 25 del luogo e il legame con il culto di<br />

divinità agresti, scelta questa probabilmente connessa alla consapevolezza dell’importanza<br />

del ruolo agricolo che la Sardegna ebbe per entrambe le potenze<br />

dominatrici.<br />

Il complesso fu quindi trasformato in un santuario rupestre a cielo aperto,<br />

dove il sacello era costituito dal piano superiore dell’edificio principale proprio<br />

come già avvenuto in epoca anteriore; un caso, questo, di riutilizzo in età punica<br />

e poi romana di strutture architettoniche religiose preesistenti, secondo una prassi<br />

già nota in Sardegna. Va osservato che la conquista romana della Sardegna (238<br />

a.C.) non esclude una continuità di frequentazione punica del luogo sacro almeno<br />

fino alla fine del III sec. a.C. Infatti, nel nuraghe Lugherras furono rinvenute<br />

monete sardo-puniche coniate a partire dalla metà del III a.C., associate a monete<br />

romane repubblicane dello stesso periodo, oltre alla notevole quantità di<br />

bruciaprofumi o thymiateria a testa femminile, originariamente usati per bruciare<br />

aromi durante le celebrazioni rituali. Questi ultimi sono riconoscibili dalla<br />

presenza di kernophoroi, cioè un oggetto fittile che raffigura un vaso sacro portato<br />

sopra la testa da un personaggio (fig. 4).<br />

Il significato cultuale della statuetta recante sulla testa un vaso sacro si comprende<br />

allorché si considerano le processioni in cui le donne, nel mondo greco,<br />

portavano in testa un recipiente di terracotta, detto kernos, contenente primizie<br />

più qualche cosa che ardeva, come chicchi d’incenso, in onore di Demetra e<br />

Persefone. Un rito simile doveva svolgersi a Cartagine (e quindi anche nelle<br />

colonie di Sardegna) e questi vasi, offerti come doni votivi individuali, rappresenterebbero<br />

proprio le donne portanti il kernos.<br />

24 S. MOSCATI, I Cartaginese in Italia, Milano, 1977, pp. 134-36.<br />

25 Già Taramelli, che indagò il nuraghe, si rese conto che le pietre di una zona dell’edifico, erano<br />

ben lavorate e messe in opera con particolare cura. Il che aveva indotto il Taramelli a supporre<br />

che questo ambiente avesse una valenza importante così da essere utilizzato, già in epoca nuragica,<br />

come sacrario, forse dedicato ad una divinità della Terra.<br />

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Simona Ledda<br />

I thymiateria del santuario di Lugherras sono tutti eseguiti a stampo: ogni<br />

singolo pezzo veniva ricavato da un modello originario, l’archetipo composto<br />

da due sezioni: una in negativo per il lato anteriore con volto femminile, l’altra<br />

per il retro, per la convessità della testa. Il ritrovamento di matrici nella zona<br />

rende verosimile l’ipotesi di una produzione locale, ma di livello modesto, 26 il<br />

che probabilmente si ricollega sia al carattere locale dell’artigianato, sia alle<br />

modeste esigenze dell’ambiente di committenza, più attento alla funzione votiva<br />

dell’oggetto che alla sua fisionomia artistica.<br />

Dei 731 manufatti restituiti dal nuraghe Lugherras, poco più di una decina<br />

presentano tracce di combustione e i forellini di areazione, fondamentali per la<br />

funzione dell’oggetto, non sono presenti su tutti i reperti. Nel corso del tempo, il<br />

rituale di ardere aromi può essersi progressivamente attenuato fino a scomparire<br />

nella fase tarda di utilizzo del tempietto. Quindi, come dimostra la classificazione<br />

tipologica operata da P. Regoli, risulta evidente che in Sardegna il modello<br />

cartaginese viene interamente modificato e interpretato secondo esigenze locali, a<br />

testimonianza di una capacità innovativa e autonoma delle botteghe sarde.<br />

Quanto al significato religioso dei thymiateria di Lugherras ovviamente è<br />

da collegare al culto demetriaco e, del resto, lo stesso sacello punico di Lugherras<br />

sorge sui resti di un antico nuraghe già dedicato al culto di divinità agresti come<br />

per il tempio di Terreseo di Narcao. Tale culto, su questo sfondo socio-economico,<br />

verrebbe ad inserirsi in modo calzante.<br />

Infine, è opportuno un accenno ad un’ulteriore documentazione archeologica<br />

che ci viene dalla morfologia dei rituali che caratterizzano tutti i luoghi di culto<br />

dedicati a Demetra in Sardegna. Un indizio interessante ci viene dal tempio di<br />

Terreseo di Narcao dove, frontalmente al tempio, erano allineati cinque grossi<br />

altari (fig. 7) di dimensioni uguali, più un sesto, più piccolo, presso i quali furono<br />

ritrovati abbondanti quantità di cenere, piccoli frammenti ossei e denti di<br />

animale compatibili con i sacrifici animali tipici dei riti dell’epoca. All’interno<br />

di un vano (fig. 8) è stato rilevato, sotto le macerie del crollo del tetto, un altare<br />

di pietre circondato da ex voto fittili e coperto da ceneri e ossa combuste di<br />

suini (fig. 9).<br />

Nello stesso vano, al di sotto dell’altare, era custodito un deposito contenuto<br />

in una sorta di cassetta quadrangolare e costituito da una statuetta femminile<br />

stante, circondata da urnette con resti di sacrificio, bruciaprofumi e una lucerna.<br />

La disposizione dei materiali sembra ricordare situazioni analoghe ritrovate<br />

in Sicilia, nella fattispecie quelle di Bitalemi (Gela) e di S’Anna di Agrigento. I<br />

26 Si veda P. REGOLI, I bruciaprofumi a testa femminile dal Nuraghe Lugherras, Roma, 1991.<br />

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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />

Fig. 7. Terreseo di Narcao, tempio di Demetra. In primo piano i cinque altari.<br />

Fig. 8. Il vano in cui è stato rinvenuto il deposito sacro.<br />

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Simona Ledda<br />

due luoghi di culto, oltre ad essere accomunati dalla posizione di isolamento<br />

rispetto alla città, si trovano vicino a foci di fiumi ed hanno restituito attestazioni<br />

di sacrifici di porcellini e della sepoltura dei pasti rituali.<br />

La particolare dislocazione degli ex voto e dei resti di suini di Narcano<br />

potrebbe dipendere dall’espressione del carattere ctonio. 27<br />

L’offerta di sacrifici ed ex voto erano poste in piccoli ambienti nascosti alla<br />

vista, secondo modalità affini a quelle siceliote (a Sant’Anna gli oggetti erano<br />

raccolti dentro cerchi di pietra, mentre a Bitalemi erano collocati direttamente<br />

nella sabbia a diverse profondità e fermati con frammenti di ceramica).<br />

Ma ciò che caratterizza specificatamente il culto di Demetra è il sacrificio di<br />

maiali. Il maiale nel mondo semitico è notoriamente un tabù alimentare, ma tale<br />

impurità non implica che esso non potesse essere considerato una vittima ido-<br />

Fig. 9. Altare di pietre circondato da ex voto fittili e coperto da ceneri e ossa combuste.<br />

27 G. GARBATI, Sul culto di Demetra nella Sardegna punica, in Mutuare, interpretare, tradurre:<br />

storie e culture a confronto, Roma, 2003, pp. 127-143.<br />

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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />

nea per sacrifici. In Mesopotamia, ad esempio, i maiali venivano offerti al dio<br />

Nergal; sacrifici di maiali sono documentanti anche in Palestina, a Tell el-Farah,<br />

presso Nablus; l’Antico Testamento, in Is 65,4 e 66,3.17, menziona il sacrifico<br />

dei maiali come offerta alle divinità infere (e quindi non pura).<br />

Sembra utile aggiungere, a proposito dei sacrifici, alcune considerazioni sul<br />

significato della figura femminile fittile, ex voto che viene solitamente rappresentata<br />

con fiaccola e porcellino (fig. 8). Entrambi gli attributi rimandano al<br />

culto di Demetra e Persefone/Kore. Le figurine sono stanti, in posizione frontale;<br />

indossano il chitone e il capo viene solitamente ricoperto dal polos; 28 il viso<br />

si presenta solitamente ben modellato e i capelli bipartiti.<br />

Fig. 10. Statuetta femminile con fiaccola<br />

e porcellino.<br />

28 Al tal proposito si noti che il polos non sempre è stato considerato elemento probante per un’identificazione<br />

delle figure con divinità, sia perché il copricapo non sempre ricorre su esemplari di<br />

statuette con porcellino, sia perché esso poteva essere relativo anche ad altre figure, come eroi,<br />

sacerdoti, devoti.<br />

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Simona Ledda<br />

Il porcellino in particolare rappresenta l’offerta più ricorrente nei riti<br />

eleusini, durante i quali le donne, in Grecia, usavano gettare porcellini vivi<br />

nei megara e compiere sacrifici. Clemente Alessandrino 29 illustra l’eziologia<br />

del rito facendo riferimento ad un preciso episodio del mito, allorché Persefone/Kore,<br />

rapita da Ade, sprofonda nel suolo insieme con le scrofe del pastore<br />

Eubuleo. L’importanza che l’offerta del porcellino rivestiva nelle cerimonie<br />

sacre è documentata altresì dal frequente ritrovamento nei luoghi di culto connessi<br />

a Demetra e Kore, di statuine recanti il porcellino, di rilievi che raffigurano<br />

l’animale portato al sacrificio oppure, ancora, di riproduzioni fittili di<br />

piccoli porcellini; più in particolare, per quanto concerne il santuario di<br />

Terreseo di Narcao, l’attestazione dell’esistenza dei riti sacrificali è documentata<br />

dal ritrovamento in loco di resti ossei di suini.<br />

Un valore simbolico altrettanto significativo per l’identificazione delle<br />

nostre statuette riveste l’attributo della fiaccola strettamente connessa, dal<br />

punto di vista iconografico, con le raffigurazioni demetriache. Si pensa che<br />

la fiaccola fosse elemento pertinente alla figura di Demetra, poiché la dea,<br />

secondo il mito, errava recando con sé torce accese durante la disperata<br />

ricerca di Persefone rapita. 30 Altrettanto documentata è l’importanza che la<br />

fiaccola rivestiva nelle cerimonie eleusine quale strumento di culto tenuto<br />

da sacerdoti, in particolar modo dal daduco e dai fedeli durante le processioni<br />

e riti notturni.<br />

La discussione in merito all’identificazione delle figure con fiaccola e porcellino<br />

è ancora aperta. Studi recenti propendono per l’ipotesi che si tratti di<br />

raffigurazioni di offerenti, considerando la fiaccola e il porcellino non esclusivi<br />

della divinità. Altri studiosi, invece, ritengono che le statuette rappresentino<br />

l’immagine stessa della divinità e considerano elementi indiscutibili di appartenenza<br />

la foggia dell’abbigliamento e la presenza degli attributi, soprattutto la<br />

fiaccola associata a Persefone. In realtà tali attributi, nell’ambito delle<br />

raffigurazioni demetriache, appaiono elementi connessi tanto con le due dee<br />

quanto con le sacerdotesse e le fedeli che assumevano spesso le connotazioni<br />

delle divinità. Gli attributi della fiaccola e del porcellino rappresenterebbero<br />

dunque elementi funzionali per il culto dove la fiaccola è tenuta accesa durante<br />

le processioni, mentre il porcellino è portato al sacrificio.<br />

29 Tito Flavio Clemente, meglio conosciuto come Clemente Alessandrino (150 ca.) è stato un<br />

teologo, filosofo, apologeta e scrittore cristiano greco antico del ii secolo d.C.<br />

30 Tale è la versione dell’Inno Omerico a Demetra, dove è descritto l’incontro della dea con Hekate,<br />

anch’essa portatrice di torce.<br />

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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />

Infine, si propone una sintetica analisi circa il significato cultuale dei<br />

thymiateria, che da sempre hanno suscitato l’attenzione degli studiosi e che<br />

appartenevano principalmente all’apparato cultuale inerente il sacrificio. 31 Una<br />

volta compresi nell’apparato del tempio, essi acquisivano una valenza di sacra<br />

inviolabilità, tanto che il solo spostarli era considerato un atto sacrilego e l’offerta<br />

di incenso faceva parte integrante dei riti svolti in onore della divinità.<br />

Diversi interrogativi sono sorti, innanzi tutto, riguardo la morfologia stessa<br />

dei manufatti, figure femminili rese fino all’altezza del busto, e in secondo luogo<br />

riguardo all’analisi dei contesti di ritrovamento di tali tipologie di terrecotte,<br />

rinvenute non solo in aree sacre, ma anche in necropoli (Sulci-Sant’Antioco) e<br />

quartieri abitativi punici (Villanovaforru, Monte Sirai, Cabras, Pani Loriga di<br />

Santadi). Per i reperti rinvenuti in contesti funerari sembra evidente che l’aspetto<br />

ctonio della divinità alla quale erano collegati fosse privilegiato rispetto a<br />

quello agrario. Per quel che concerne, invece, i ritrovamenti in aree di abitazione<br />

è verosimile ritenere che gli esemplari fossero destinati ad un uso personale<br />

dei fedeli per un culto domestico.<br />

In generale è da dire che una cura particolare riceveva sul manufatto la<br />

lavorazione della testa rispetto al resto, come a voler riferire ad essa la valenza<br />

simbolica primaria dell’oggetto. La testa, rigidamente frontale, presenta caratteri<br />

di ieraticità, trasmessi attraverso l’espressione serena ma, nel contempo,<br />

austera del volto ed evidenziati dall’acconciatura accurata e dagli ornamenti,<br />

quando presenti, che abbelliscono i capelli, le orecchie, il collo. Tale raffigurazione<br />

contrasta con la semplicità del busto, forse perché destinato ad essere<br />

sospeso o, più frequentemente, poggiato contro una parete o su un ripiano. La<br />

natura ctonia delle due dee, il loro legame con la terra, intesa come grembo<br />

materno, espressione di nascita, luce e fertilità, e con il regno ultraterreno, simbolo<br />

di oscurità e di morte, spiegherebbe la doppia destinazione, funeraria e<br />

sacrale, ma pur sempre votiva, dei busti.<br />

In conclusione, si riportano le parole di un illustre studioso, Antonio Taramelli,<br />

sulla scoperta del santuario demetriaco del nuraghe Lugherras:<br />

Le rovine del sacello di Astarte-Venere si accumularono sulle rovine del vetusto<br />

castello nuragico e sulle morte sedi, trasformate in una collina pietrosa, si stese il<br />

manto delle nere elci che a poco a poco inselvatichirono il luogo. La natura riprese i<br />

suoi diritti sul’opera dell’uomo, ma ancora oggi la fonte mormorante che sgorga<br />

accanto al nuraghe e si sparge in polle di acqua richiama le greggi pascenti<br />

31 Nei sacrifici, forse, avevano anche la funzione di lenire il forte odore sprigionato dalle carni<br />

bruciate con il profumo dell’incenso.<br />

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Simona Ledda<br />

sull’altopiano, ancora oggi nelle primavere fresche, le colombe silvestri fanno echeggiare<br />

il loro lungo mestissimo canto per la selva profumata e salubre e richiama a<br />

sorridente immagine della dea che ebbe sacre le colombe ed i frutti dei campi ed a cui<br />

nel povero sacello campestre si recarono per lunghe generazioni voti e si arsero incensi<br />

e si levarono preghiere invocanti messi abbondanti, fecondi gli armenti, tranquilla<br />

e prospera la vita. (Antonio TARAMELLI, Il Nuraghe Lugherras).<br />

Nella preparazione e nello svolgimento dell’articolo ho potuto usufruire dell’appoggio<br />

essenziale di amici e parenti. Il mio più vivo ringraziamento va anzitutto<br />

al prof. Joan Armangué i Herrero, che ha patrocinato e favorito la mia<br />

iniziativa; un sentito ringraziamento all’avvocato Paolo Aureli per i consigli e il<br />

prezioso sostegno morale.<br />

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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />

E IL POLITTICO DELL’ANNUNCIAZIONE DI JOAN MATES<br />

Aldo Sari<br />

Università di Sassari<br />

Sono note le vicende che portarono alla conquista catalana della Sardegna. Il 13<br />

giugno 1323 segna l’inizio del nuovo corso storico dell’Isola, preparato nell’ultimo<br />

decennio del XIII secolo dalla sua infeudazione a Giacomo II d’Aragona. 1<br />

Quel giorno di tarda primavera, infatti, le truppe catalane sbarcavano nel porto<br />

di Palma di Sulcis (in territorio di San Giovanni Suergiu) e il 28 successivo<br />

ponevano l’assedio a Villa di Chiesa (Iglesias). 2 Quasi un anno dopo, il 19 giugno<br />

del 1324, Cagliari pisana era costretta a firmare un trattato di pace con il re<br />

aragonese. 3 Il 9 giugno 1326 i Catalani prendevano definitivo possesso del Castello<br />

di Cagliari. 4<br />

Nel primo quarto del Trecento, grazie alla presenza di Pisa, Genova e della<br />

Chiesa, la Sardegna era pienamente inserita nel clima di rinnovamento economico-culturale<br />

che, come nel resto della Penisola italiana e dell’Europa, appariva<br />

il preludio dell’età moderna.<br />

Alla presa di possesso del Castello da parte catalana la vitalità della cultura<br />

artistica isolana era testimoniata a Cagliari, oltre che dall’architettura militare<br />

(il cui ardimento costruttivo e la perizia tecnica suscitarono l’ammirazione dei<br />

nuovi invasori, che ancora nel XVI secolo, durante i lavori di ampliamento e<br />

rifacimento delle mura, preferirono conservare le belle torri del Capula), da<br />

alcuni edifici religiosi sorti nel corso del XIII secolo: il S. Francesco, edificato<br />

dai minoriti nel quartiere di Stampace, e la fabbrica del Duomo che, costruito in<br />

forme romaniche nel primo Duecento, era ampliato, tra lo scorcio del XIII e il<br />

primo quarto del XIV secolo, secondo stilemi ormai gotici.<br />

La chiesa francescana, fondata nel 1274 (di essa, rovinata nel 1875 e incorporata<br />

in edifici posteriori, non sono visibili oggi che alcuni frammenti della<br />

1 F. C. CASULA, La Sardegna aragonese, 1: La Corona d’Aragona, Sassari, 1990, p. 61 ss.<br />

2 Ivi, p. 14 ss.<br />

3 Ivi, p. 174 ss.<br />

4 R. CONDE Y DELGADO DE MOLINA, La Sardegna aragonese, in Storia dei Sardi e della Sardegna,<br />

2. Il Medioevo, dai giudicati agli aragonesi, a cura di M. Guidetti, Milano 1987, p. 262; F. C.<br />

CASULA, La Sardegna aragonese cit., p. 206 ss.<br />

25<br />

<strong>INSULA</strong>, num. 6 (dicembre 2009) 25-52<br />

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26<br />

Aldo Sari<br />

tribuna e un portale laterale che, recuperato dalle macerie fu, sempre a Cagliari,<br />

ricomposto nel prospetto del Santuario di Bonaria), era, secondo una<br />

tipologia di origine cistercense fatta propria dai francescani, a croce commissa,<br />

con navata unica conclusa da transetto, su cui si aprivano il presbiterio quadrato<br />

fiancheggiato da due cappelle. I tre ambienti, a differenza dell’aula e del<br />

transetto coperti in legname, erano voltati a crociera costolonata. Come si<br />

intuisce dalla struttura rimasta, le costolature erano impostate su colonnine<br />

pensili angolari, che nella tribuna sorgevano da peducci raffiguranti il<br />

tetramorfo. L’edificio – che si poneva fra il tipo con transetto pronunciato su<br />

cui si aprono numerose cappelle, attestato nei S. Francesco di Pistoia, Pisa e<br />

Siena, e quello senza transetto con tre cappelle al termine dell’aula, riscontrabile<br />

nelle chiese sempre francescane di Lucca, Cortona e Prato e in quelle<br />

domenicane di Cortona e Arezzo – anticipava una disposizione di pianta e di<br />

alzato diffusa in toscana nel XIV secolo. 5 I suoi resti, ormai soprattutto scultorii,<br />

consentono di riconoscere l’educazione culturale, se non la provenienza delle<br />

maestranze. Di gusto toscano sono la dicromia, la modulazione chiaroscurale<br />

e il motivo delle mensole a foglie d’acanto tra caulicoli bifidi del portale secondario<br />

oggi a Bonaria. 6 L’ornato ancora romanico di queste ultime sembrerebbe<br />

confermare che l’edificazione della chiesa avvenisse subito dopo l’acquisto<br />

del terreno, fra l’ottavo e il nono decennio del Duecento. Lungo<br />

l’archivolto sottili nervature segnano la superficie dei tori con effetto di spigoli<br />

secondo uno schema di origine francese che si diffuse dall’Anjou, attraverso<br />

la Borgogna, in tutta Europa dopo il sesto decennio del XIII secolo.<br />

Gli stessi maestri del cantiere di S. Francesco di Stampace erano intervenuti<br />

nelle opere di ampliamento della cattedrale di S. Maria di Castello, come provano<br />

la contiguità di alcune forme del braccio settentrionale del transetto con<br />

quelle del portale della chiesa francescana, attualmente collocato nella facciata<br />

del Santuario di Bonaria, ma, soprattutto, l’affinità della cappella nord della<br />

tribuna con quelle che si affacciavano sul transetto nel S. Francesco di Stampace.<br />

Come nella chiesa francescana, anche nella cappella del Duomo, di pianta quadrata<br />

e voltata a crociera costolonata, con identità di partito e d’ornato, le costole<br />

sono impostate agli angoli su capitelli di colonne pensili sostenute da peducci<br />

scolpiti con i simboli degli evangelisti. 7<br />

5 R. DELOGU, L’architettura del Medioevo in Sardegna, Roma 1953, p. 213.<br />

6 Ivi, pp. 213-214.<br />

7 Ivi, pp. 219-221.<br />

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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />

Durante l’assedio di Cagliari i Catalani s’erano accampati a poca distanza<br />

dalla città, sulla collina di Bonaria, nella costa orientale, dove rapidamente avevano<br />

eretto un centro fortificato in grado di controllare il porto e le immediate<br />

vicinanze. 8 Il Castell de Bonaire, di cui i documenti tramandano le due porte di<br />

accesso, una detta dell’Ammiraglio e l’altra di Quart, 9 aveva all’interno delle<br />

mura anche una chiesa, dedicata alla SS. Trinità, incominciata nel 1324. Al suo<br />

disegno finale, così come al progetto dell’altra intitolata a S. Vittoria dei Catalani,<br />

nell’appendice di Lapola, contribuiva probabilmente quel Guillem «magister<br />

operis ecclesiae Tarracone», architetto della cattedrale di Tarragona, che nel<br />

giugno del 1326 chiedeva di potersi trasferire a Bonaria. 10<br />

La chiesa – chiamata dal 1330 ecclesia Santae Mariae de Bonayre – non fu il<br />

solo edificio religioso che i Catalani edificarono in Sardegna in quegli anni – le<br />

fonti ricordano la cappella di Sant’Eulalia nel castello di Salvaterra, a guardia<br />

della porta orientale d’Iglesias, e l’edicola commemorativa di Lucocisterna –, ma<br />

è la sola che si sia conservata nel suo impianto originario, agevolmente identificabile<br />

sotto le manomissioni successive. Esemplata sulla barcellonese chiesa palatina di<br />

S. Àgata, costruita qualche decennio prima da Bertran Riquer, aveva pianta ad<br />

aula conclusa da abside poligonale e copertura lignea su archi diaframma.<br />

Al momento della conquista della Sardegna, l’architettura gotica catalana si<br />

distingueva già per i suoi caratteri costitutivi: il predominio dell’orizzontalità delle<br />

strutture sulla verticalità, in opposizione a quello che era l’elemento precipuo<br />

della contemporanea architettura nordeuropea; la sobrietà ornamentale e, soprattutto,<br />

la concezione unitaria dello spazio interno, suo dato saliente e qualificatore.<br />

Un apporto fondamentale all’elaborazione dello spazio ampio e ininterrotto<br />

le era venuto dagli ordini mendicanti. I domenicani e soprattutto i francescani,<br />

come era accaduto in Italia, avevano conformato anche in Catalogna fin dall’origine<br />

i loro edifici a quelli cistercensi, consentanei nella loro severa bellezza<br />

agli ideali di povertà e semplicità che essi praticavano. Poiché le loro costituzioni<br />

indicavano per le chiese dell’Ordine strutture semplici e funzionali, vie-<br />

8 Cfr. Crònica de Ramon Muntaner, in Les quatres grans cròniques, a cura di Ferran Soldevila,<br />

Barcellona 1971, p. 915 ss.<br />

9 F. SEGNI PULVIRENTI, L’architettura religiosa gotico-catalana: i primi esempi, in F. SEGNI<br />

PULVIRENTI – A. SARI, Architettura tardogotica e d’influsso rinascimentale, Nuoro 1994, p. 14.<br />

10 S. CAPDEVILA, La Seu de Tarragona. Notes històriques sobre la construcció, el tresor, els artistes,<br />

els capitulars, Barcellona 1935, p. 36 e n. 7; vedi A. FRANCO MATA, Influenza catalana nella<br />

scultura monumentale del Trecento in Sardegna, in «Arte Cristiana. Rivista internazionale di<br />

Storia dell’Arte e di Arti liturgiche», Nuova Serie, LXXV, fasc. 721, luglio-agosto 1987, p. 240,<br />

n. 3; F. SEGNI PULVIRENTI, L’architettura religiosa cit. p. 15.<br />

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28<br />

Aldo Sari<br />

tando le volte in pietra, che erano consentite soltanto nel presbiterio, modellarono<br />

le loro prime chiese più che sugli edifici di culto cistercensi sulle soluzioni<br />

architettoniche che quell’Ordine aveva adottato nei dormitori e refettori dei propri<br />

monasteri, i cui spazi, ampi e unitari, avevano copertura lignea a doppio spiovente<br />

su archi diaframma trasversali a sesto acuto. E di quegli ambienti conservarono<br />

sempre, anche quando disattesero le norme delle costituzioni dell’Ordine,<br />

la visualizzazione chiara e immediata dello spazio interno.<br />

L’influsso dell’architettura cistercense su quella degli Ordini mendicanti si<br />

ravvisava nel primo impianto della chiesa di S. Francesco a Barcellona, fondata<br />

nel 1229 e scomparsa nel secolo XIX, a navata unica con cappelle laterali e<br />

abside quadrangolare, che presentava copertura in legname su archi diaframma<br />

a sesto acuto, secondo lo schema dei dormitori cistercensi.<br />

Al primitivo S. Francesco di Barcellona si attenevano le chiese minorite di<br />

S. Francesco di Montblanc, il cui convento era fondato prima del 1238, e di<br />

Palma di Maiorca, iniziata dopo il 1279, quando il convento era ceduto alle<br />

suore di S. Margherita. Ad aula coperta con soffitto in legname su archi diaframma<br />

a sesto acuto e cappelle laterali tra i contrafforti, quest’ultima aveva<br />

però abside poligonale con volta a nervature. 11 Questo schema diveniva peculiare<br />

dell’architettura catalana durante il XIII e il XIV secolo, ma già intorno alla<br />

metà del Duecento l’inosservanza delle costituzioni aveva portato ad un tipo di<br />

chiesa che si sviluppò parallelo al precedente e che adottò la volta a crociera,<br />

configurandosi ormai come pienamente gotico.<br />

I domenicani nel 1219 avevano aperto una sede a Barcellona accanto al<br />

ghetto ebraico, ma nel 1223 si erano trasferiti in alcune case cedute dalla municipalità<br />

presso la chiesetta di S. Caterina nel quartiere di Sant Pere, dove nel<br />

1243 avevano cominciato la fabbrica del convento. Nel 1252 la chiesa era già<br />

innalzata fino alla base delle arcate, e dieci anni dopo erano ormai ultimate<br />

l’abside e le prime tre campate. I lavori continuarono fino al 1275, quando con<br />

il lascito testamentario di Ponç d’Alast si potè voltare la settima e ultima campata.<br />

Il convento e la chiesa di S. Caterina subirono nel 1835 un incendio e due<br />

anni dopo furono abbattuti. La chiesa, il cui impianto ci è noto grazie ai disegni<br />

eseguiti da Josep Casademunt i Torrents nel 1837, si modellava probabilmente<br />

su quella del S. Francesco della stessa Barcellona, ristrutturata intorno al 1247. 12<br />

Anche S. Caterina fu costruita ad aula con cappelle laterali aperte tra i contrafforti<br />

11 N. DE DALMASES – A. JOSÉ I PITARCH, L’època del Cister, s. XIII. Història de l’Art Català, II,<br />

Barcellona 1985, pp. 119-121.<br />

12 Ivi, pp. 122-124.<br />

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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />

esterni ed abside poligonale. Le sette campate, tante quanti i lati del poligono<br />

absidale, furono voltate a crociera, come le cappelle e il presbiterio.<br />

L’elemento unificante fra il primo tipo costruttivo, esemplificabile nel S.<br />

Francesco di Montblanc, più elementare, con copertura in legname su archi<br />

diaframma, e il secondo, cioè la S. Caterina di Barcellona, con volte a crociera<br />

sull’aula, era l’unità dello spazio interno.<br />

La definizione di spazi interni unici ritorna in tutte le edificazioni religiose<br />

del XIV e XV secolo dei paesi dipendenti politicamente e culturalmente dalla<br />

Catalogna, cioè le isole Baleari, il territorio valenzano, Napoli, la Sicilia e, con<br />

qualche variazione, la Sardegna. 13<br />

Nel 1323, quando Alfonso d’Aragona sbarcava in Sardegna, i due tipi di<br />

chiesa, che possono considerarsi varianti di uno stesso modello, 14 erano ormai<br />

definiti. Planimetricamente identici – ad aula con cappelle laterali, ricavate tra i<br />

contrafforti esterni addossati alle pilastrate di scarico degli archi diaframma<br />

interni, e abside poligonale –, si differenziavano solo per la copertura che in uno<br />

era in legname a due spioventi, sostenuti da archi trasversali a sesto acuto, e<br />

nell’altro a volte a crociera nervata tra archi diaframma che delimitano le campate.<br />

Con la pianta avevano in comune, inoltre, l’uso delle volte nell’abside e<br />

nelle cappelle e il presbiterio della stessa ampiezza e altezza della navata.<br />

Il sentimento unitario dello spazio interno è tale che non viene meno neppure<br />

negli edifici a tre navate, che utilizzano pilastri sottili e molto distanziati fra<br />

loro a separare navi di altezza pressoché uguale con effetto di un’unica grande<br />

sala, ancor più marcato che nelle Hallenkirchen tedesche, dove i pilastri hanno<br />

una distanza meno accentuata. 15 L’interno della Cattedrale di Barcellona, con<br />

soltanto cinque coppie di pilastri che separano le tre navate, e la S. Maria del<br />

Mar, sempre a Barcellona, cominciata nel 1329 dopo la cacciata definitiva dei<br />

pisani dal Castello di Cagliari, con quattro coppie di altissimi pilastri poligonali,<br />

sono gli esempi più significativi della concezione spaziale unitaria catalana negli<br />

edifici a più navate.<br />

Ma la spazialità ininterrotta, sottolineata dal presbiterio della stessa sezione<br />

trasversale dell’aula, non era compiutamente attuata nella chiesa di Bonaria, in<br />

cui, a differenza del modello barcellonese di S. Àgata – dove la navata conti-<br />

13 N. DE DALMASES – A. JOSÉ I PITARCH, L’art gòtic, s. XIV-XV. Història de l’Art Català, III, Barcellona<br />

1984, pp. 13-21.<br />

14 A. FLORENSA, Il gotico catalano in Sardegna, in «Bollettino del Centro di Studi per la Storia dell’Architettura»,<br />

Contributi alla storia dell’architettura in Sardegna, n. 17, Roma 1961, p. 85.<br />

15 Ivi, p. 86.<br />

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30 Aldo Sari<br />

nuava senza alcuna interruzione nel vano absidale –, l’aula era conclusa da una<br />

parete rettilinea in cui si apriva un presbiterio molto più basso e stretto dell’aula<br />

stessa. Una soluzione che non trovava riscontri in Catalogna, tranne forse nella<br />

chiesa di S. Maria la Real a Perpignano, l’antica parrocchiale dei re di Maiorca,<br />

e nella Cappella reale della Cattedrale di Palma di Maiorca, costruita tra il 1313<br />

e il 1327 sul medesimo schema di quella rossiglionese.<br />

Poiché sul presbiterio si eleva la torre campanaria, Renata Serra spiega le<br />

ridotte dimensioni del vano presbiteriale con l’esigenza di assicurare stabilità<br />

alla struttura. 16 Se la singolarità della collocazione del campanile – nelle chiese<br />

continentali catalane le torri campanarie sorgono quasi sempre su cappelle laterali<br />

– giustifica per la chiesa di Bonaria l’adozione di un’abside poco più ampia<br />

di una cappella, non si riesce a dare una spiegazione soddisfacente alla persistenza<br />

di tale caratteristica in tutte le successive architetture religiose di gusto gotico<br />

catalano edificate in Sardegna – ad eccezione del S. Francesco di Alghero –,<br />

nelle quali il campanile fiancheggia la facciata o poggia su una cappella laterale,<br />

ma mai sul presbiterio.<br />

Una ragione della peculiare tipologia delle chiese sorte nell’Isola in età<br />

catalana, potrebbe forse trovarsi nell’influsso determinante delle locali architetture<br />

degli Ordini mendicanti, quali, a Cagliari, il S. Francesco di Stampace e il<br />

S. Domenico e, a Sassari, la S. Maria di Betlem. Anche per il Santuario di Bonaria<br />

potrebbe non essere estraneo l’impianto della primitiva chiesa di Valverde<br />

ad Iglesias, da poco conclusa al momento dello sbarco catalano. Proprio dall’esempio<br />

delle chiese francescane e domenicane isolane deriva il presbiterio<br />

quadrato invece che poligonale – presente però ad Alghero e in poche chiese del<br />

Meilogu –; mentre il campanile, almeno nel meridione dell’Isola, sarà posto sul<br />

lato sinistro della facciata secondo il modello della Cattedrale tardoromanica di<br />

Cagliari. 17 Nel settentrione le torri campanarie, forse sullo schema di quelle,<br />

sempre tardoromaniche, del S. Pietro di Silki e del Duomo di Sassari, si eleveranno<br />

sulle cappelle laterali, lungo i fianchi dell’edificio. Fanno eccezione, anche<br />

in questo caso, quelle di Alghero, che nel S. Francesco e nella Cattedrale<br />

sorgono rispettivamente su una cappelletta retrostante e speculare al presbiterio<br />

e sulla cappella radiale centrale. 18<br />

16 R. SERRA, L’architettura sardo-catalana, in I Catalani in Sardegna, a cura di J. Carbonell e F.<br />

Manconi, Cinisello Balsamo 1984, p. 125.<br />

17 Ivi, p. 135.<br />

18 A. SARI, L’architettura ad Alghero dal XV al XVII secolo, in «<strong>Biblioteca</strong> Francescana Sarda», IV,<br />

1990, pp. 8 e 13-15.<br />

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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />

Lo iato tra la spazialità dell’aula e quella del presbiterio del Santuario di<br />

Bonaria appariva certo assai più evidente prima che la copertura lignea su<br />

archi trasversali fosse sostituita dalla secentesca bassa volta a botte spezzata<br />

segnata da sottarchi. Il soffitto in legname era del resto pressoché esclusivo<br />

negli edifici sardo-catalani del XIV-XV secolo. Avevano coperto in legname,<br />

ad esempio, sempre a Cagliari anche la chiesa di S. Giacomo, parrocchiale<br />

del quartiere di Villanova, documentata dal 1346, e quella di S. Eulalia,<br />

parrocchiale della Marina e attestata dal 1371, i cui interni, rimaneggiati in<br />

epoca posteriore, presentano oggi complesse volte a crociera. A Sassari i<br />

lavori di rifacimento della chiesa francescana di S. Maria di Betlem, eseguiti<br />

fra il 1440 e il 1465, risparmiarono la copertura in legname, evidentemente<br />

conforme anche al gusto dei dominatori. 19 In effetti le coperture a volta<br />

nell’aula degli edifici ecclesiastici di impronta gotico-catalana risultano quasi<br />

tutte posteriori al regno di Ferdinando II.<br />

Queste particolarità, che distinguono le architetture sorte in Sardegna nel<br />

XIV-XV secolo rispetto ai modelli d’oltremare, testimoniano, nella sintesi di<br />

tradizione italiana e novità catalana, la nascita di una modalità isolana originale,<br />

pur con una preponderante connotazione catalana. Quasi una sorta di<br />

resistenza all’acculturazione imposta da un nuovo ceto egemonico, ma che<br />

non andrà mai oltre alcune soluzioni strutturali e l’interpretazione in chiave<br />

neoromanica della plastica architettonica.<br />

Fa eccezione Alghero che nel 1354, trent’anni dopo la conquista catalana<br />

della Sardegna, era diventata villa regia. 20 Consapevole del suo ruolo strategicamente<br />

indispensabile per il dominio dell’Isola, Pietro il Cerimonioso come<br />

primo provvedimento, scacciati gli abitanti, l’aveva ripopolata, all’interno delle<br />

poderose mura, 21 con catalani e aragonesi, ai quali dava «totes les posessions,<br />

ço és, cases e terres e vinyes del dit lloc e de son terme», 22 trasformando la<br />

fortezza sardo-genovese in una preziosa testa di ponte catalana. E schiettamente<br />

catalana, di conseguenza, fu la sua architettura, dove l’emulazione dei<br />

raggiungimenti estetici della madrepatria si evidenzia, oltre che nell’osser-<br />

19 A. SARI, Storia di una chiesa francescana. Santa Maria di Betlem a Sassari, in «Nuova Comunità»,<br />

VIII, gennaio 1989, p. 21.<br />

20 Les quatres grans cròniques cit., p. 1121; G. MELONI, L’Italia medioevale nella Cronaca di<br />

Pietro IV d’Aragona, Cagliari 1980, p.151, n. 2; R. CONDE, La Sardegna aragonese cit., p.<br />

270.<br />

21 Sul circuito murario della villa e sulla sua storia vedi G. Sari, La piazsa fortificata di Alghero,<br />

Alghero 1988.<br />

22 Les quatres grans cròniques cit., p. 1122.<br />

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32 Aldo Sari<br />

vanza dell’unità spaziale 23 (mai rispettata compiutamente altrove nell’Isola),<br />

nei partiti ornamentali.<br />

In realtà la conquista catalana non significò per la Sardegna una rottura definitiva<br />

e immediata con la cultura artistica del Continente italiano, sino ad allora<br />

suo referente principale. Questa, infatti, convisse con l’ideologia dei nuovi<br />

dominatori, pur in un ruolo ormai marginale, almeno fino agli inizi del XV secolo,<br />

come testimoniano, per non citare che alcune opere d’arte figurativa, il<br />

polittico commissionato verso il 1340, un quindicennio circa dopo l’impresa<br />

aragonese, dal convento di San Domenico di Cagliari al pisano Maestro della<br />

Carità, 24 stretto collaboratore di Francesco Traini (il pannello superstite, raffigurante<br />

S. Domenico, si trova nella Casa parrocchiale di Ploaghe), o il dossale,<br />

di cui faceva parte la Madonna del Bosco, eseguito a Genova, alla fine del<br />

Trecento, da un pittore dell’ambito di Nicolò da Voltri per la chiesa di S. Nicola<br />

di Sassari. 25 A uno scultore napoletano della cerchia del Camaino appartiene,<br />

poi, la statua di calcare del Redentore nella cripta di Santa Restituta a Cagliari; 26<br />

mentre Nino Pisano è l’autore del San Basilio marmoreo per i conventuali di<br />

Oristano. Intagliati da artisti toscani alla fine del XIV secolo sono pure l’Arcangelo<br />

Gabriele della parrocchiale di Sagama e l’Annunciata del Duomo di<br />

Oristano. L’Arcangelo ligneo fu eseguito allo scorcio del Trecento, se dobbiamo<br />

dar credito alla lettura fatta da Francisco Vico dell’iscrizione che correva<br />

attorno alla base (riapparsa in parte dopo l’ultimo restauro), tracciata «con letras<br />

23 Nella chiesa di S. Francesco, per esempio, ispirata in pianta e in alzato a moduli gotico-catalani,<br />

il presbiterio, ampio e luminoso, era di altezza uguale all’aula – a differenza di ciò che si riscontra<br />

nelle chiese sarde di matrice catalana, in cui la navata termina in un muro dove s’apre<br />

un’abside più bassa e stretta. La diretta adesione a principi costruttivi catalani era confermata<br />

poi, nella stessa chiesa, dalla corrispondenza fra il numero dei lati del presbiterio pentagonale<br />

(ottenuto in pianta dalla giustapposizione di un quadrato con un semiesagono) e quello delle<br />

campate dell’aula (A. SARI, L’architettura ad Alghero dal XV al XVII secolo cit., pp. 179-183).<br />

Tale corrispondenza, propria della tradizione planimetrica catalana, non trovava confronti nell’Isola,<br />

se si esclude il Santuario di Bonaria – edificato da maestranze catalane tra il 1324 e il<br />

1326, nel periodo cioè che va dall’assedio di Cagliari alla presa definitiva del Castello da parte<br />

delle truppe aragonesi –, il quale, precedentemente la sistemazione dell’attuale prospetto e il<br />

prolungamento della navata (1895), aveva anch’esso un numero di campate identico a quello<br />

dei lati del poligono absidale (R. SERRA, Il Santuario di Bonaria in Cagliari e gli inizi del<br />

gotico catalano in Sardegna, in «Studi Sardi», XIV-XV, 1958, p. 348).<br />

24 A. CALECA, Pittura in Sardegna: problemi mediterranei, in Cultura quattro-cinquecentesca in<br />

Sardegna. Retabli restaurati e documenti, Catalogo della mostra, Cagliari 1985, p. 32.<br />

25 R. SERRA, Retabli pittorici in Sardegna nel Quattrocento e nel Cinquecento, Roma 1980, p. 10;<br />

EAD., Pittura e scultura dall’età romanica alla fine del ‘500, Nuoro 1990, p. 46 e scheda n. 17<br />

a cura di R. Coroneo.<br />

26 Ivi, p. 56 e scheda n. 20 a cura di R. Coroneo.<br />

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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />

de oro goticas, que dize assí: “Questo Angelo Gabrielle fece fare discreto viro<br />

donno Simone de Sassari 1390”». 27 È attribuito al Maestro dell’Annunciazione<br />

di Montefoscoli da Gert Kreytenberg, che riferisce l’Annunciata di Oristano,<br />

già assegnata a Nino Pisano da Raffaello Delogu, al Maestro della Madonna di<br />

Cerreto. 28<br />

Tuttavia i catalani, consapevoli della funzione non secondaria della cultura<br />

d’immagine nel processo di colonizzazione di un popolo, diffondevano, dai<br />

primi momenti successivi alla presa di possesso dell’Isola, l’estetica gotica in<br />

quella loro particolare accezione che improntava ben presto tutto il paese sino<br />

allo scorcio del XVI secolo.<br />

Se, nel 1324, quando ancora assediavano Cagliari, fondavano, come si è<br />

detto, sul colle di Bonaria, con schemi peculiari della loro architettura e sul<br />

modello della Sant’Àgata di Barcellona, una chiesa destinata, secondo un primo<br />

progetto, a divenire la parrocchiale di una nuova città da contrapporre al<br />

Castrum pisano, nel 1326, subito dopo il definitivo ingresso nel Castello, sottolineavano<br />

la propria vittoria anche culturale con l’apertura della cappella gotica<br />

nel braccio meridionale del transetto del Duomo, dove la matrice della nuova<br />

concezione dello spazio era rimarcata dalle quatres barres, che ostentatamente,<br />

con la nuova arma di Cagliari, si disponevano nei capitelli dell’arco di accesso<br />

e nella chiave di volta.<br />

Nessuna traccia resta, sempre a Cagliari, delle primitive strutture del San<br />

Giacomo e della Sant’Eulalia. Si può supporre che, se non furono utilizzate<br />

fabbriche precedenti, non si discostassero dalle caratteristiche di spazio e di<br />

ornato delle contemporanee architetture di Catalogna.<br />

Alla metà dello stesso XIV secolo si introduceva in Sardegna il retaule che,<br />

nato in antitesi alla pittura murale e ai dossali orizzontali e poco visibili dell’epoca<br />

romanica, si era diffuso verso la fine del primo ventennio di quel secolo<br />

in Catalogna, distinguendone originalmente la produzione artistica per tutta l’età<br />

gotica. Nel retaule (‘retablo’, come si dirà più comunemente dal castigliano),<br />

che deriva la propria denominazione da retrotabula altaris, cioè ‘tavola dietro<br />

l’altare’ (rerataula), si concentrava la decorazione pittorica della cappella.<br />

Già prefigurato nei paliotti dipinti del XII secolo, che nel successivo, per<br />

ragioni liturgiche (la collocazione differente del sacerdote, che celebra dando le<br />

spalle ai fedeli, e l’obbligo di elevare l’Ostia), avevano trovato collocazione<br />

27 F. VICO, Historia general de la Isla y reyno de Sardeña, Barcellona 1639, VI, cap. V, c. 57v.<br />

28 G. KREYTENBERG, Andrea Pisano und toskanische Skulptur des 14.Jahrhunderts, Monaco 1984,<br />

p. 140, nn. 18-19.<br />

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dietro l’altare, sulla mensa, addossati alla parete di fondo della cappella, trasformandosi<br />

in dossali e pale d’altare, il retablo sembra derivare più direttamente<br />

dalle tavole istoriate che i francescani diffondevano nel XIII-XIV secolo in<br />

Europa, il cui schema, esemplato nella pala duecentesca (1235 c.) di Bonaventura<br />

Berlinghieri conservata nella chiesa di S. Francesco di Pescia, prevedeva al<br />

centro un’immagine del Santo fondatore dell’Ordine affiancata da una serie<br />

sovrapposta di scomparti con storie della sua vita.<br />

Non doveva differire da questa tipologia la «tabulam ad altare depictam et auro<br />

stellata» del convento francescano di Reading, in Inghilterra. 29 Ad un dipinto collocato<br />

dietro l’altare, e quindi quasi certamente ad un polittico, allude il termine<br />

retrotabularium registrato nel 1294 nella raccolta di leggi di Giacomo II di Maiorca.<br />

Come ha sottolineato Caterina Limentani Virdis: «Se pure le antiche denominazioni<br />

non sembrano registrarne affatto l’importanza, appare evidente che<br />

la caratteristica saliente del polittico è la sua struttura multipla, la sua natura di<br />

organismo complesso capace di saldare in un insieme armonioso un numero<br />

variabile di tavole, secondo un programma iconografico e decorativo sottomesso<br />

alla gerarchia dei soggetti e dunque all’intenzione del committente». 30<br />

La schema del retablo – con un’organizzazione degli spazi dei singoli scomparti<br />

non solo pittorica, ma volta quasi sempre a prolungare la spazialità reale (o<br />

in maniera indeterminata col fondo oro o definita con sfondi paesaggistici), e<br />

con la suddivisione mediante montanti a pinnacolo, tra cui s’impostano, a chiusura<br />

delle storie laterali, archi gigliati – è allusivo all’architettura, divenendo<br />

complemento e conclusione di quella della chiesa e del presbiterio.<br />

Come conferma la terminologia utilizzata nei documenti catalani del XV-XVI<br />

secolo per designare i singoli elementi del retablo, era sempre stata chiara la<br />

consapevolezza che esso fosse una macchina architettonica e che in quanto tale<br />

svolgesse un ruolo strutturale nello spazio presbiteriale. Altrettanto chiara doveva<br />

esserne la valenza simbolica: un’opera d’architettura, anzi, meglio, di urbanistica,<br />

dove si realizzava, grazie al Santo patrono e al suo operato, il Regno<br />

di Dio sulla terra, ma allusiva anche ad una dimensione ultraterrena, la città di<br />

Dio, cui dovrebbero aspirare tutti i fedeli.<br />

Il retablo presenta due parti fondamentali: una inferiore con andamento orizzontale<br />

chiamata predella o bancal, e l’altra di maggiore estensione verticale<br />

che vi si appoggia superiormente. Il termine bancal ha fra gli altri il significato<br />

29 Notizia citata in C. LIMENTANI VIRDIS – M. PIETROGIOVANNA, Polittici, San Giovanni Lupatoto<br />

2001, p. 12.<br />

30 Ivi, p. 15.<br />

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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />

di appezzamento di terreno e perciò anche di terreno compreso tra le mura e<br />

l’incasato della città medievale. La parte superiore ha al centro la tavola con<br />

l’effigie del santo cui è dedicato il polittico, che è detta compartiment, quindi<br />

‘compartimento’, spazio in cui è diviso il territorio di questa immaginaria città<br />

celeste, ma che riflette quella terrestre in cui vivono i fedeli e nella quale come<br />

in un edificio religioso sta il santo titolare. Nella zona soprastante è un pannello<br />

quasi sempre con la Crocifissione, detto cimal che può tradursi con ‘sommità’,<br />

luogo alto e perciò luogo dove sorge il castello cittadino. Lateralmente sono i<br />

departiments, cioè tavole di minori dimensioni organizzate in verticale in cui si<br />

svolgono le storie e i miracoli del titolare: tavole che nei documenti catalani<br />

sono chiamate cases, ‘case’, e l’insieme delle serie verticali forma i carrers,<br />

cioè le strade. I carrers sono uniti tra loro da montanti, mentre le cases sono<br />

separate da archeggiature e fregi. Infine, una fascia inclinata, i polvaroli, è detta<br />

guardapols, cioè ‘tetti della tavola’, perciò tetti della città.<br />

Per ovviare al rischio della frammentazione compositiva e all’attenuazione<br />

della tensione emotiva dell’osservatore, sempre presenti in opere di così vaste<br />

dimensioni suddivise in pannelli di soggetti differenti, pur se sottoposti ad un<br />

unico tema, i pittori ricorrono a ferrei principi compositivi e strutturali che vanno<br />

dall’uso della prospettiva, che, per quanto possibile, unifichi lo spazio delle<br />

varie tavole nell’unico punto di fuga centrale; alla sezione aurea; agli indicatori<br />

di percorso e perciò di lettura progressiva delle tavole, 31 principi costruttivi che<br />

riducono l’effetto di disorganicità, quando non l’annullano del tutto, ripristinando<br />

l’unità spaziale ed emotiva.<br />

Ad uno dei primi retabli importati nell’Isola è legata forse la Madonna Nera<br />

del Duomo di Cagliari, ascrivibile, per via formale, alla metà del Trecento. L’intaglio,<br />

che sembra modellarsi su altro celebre della cattedrale di Palma di<br />

Maiorca, assai probabilmente faceva parte, come suppose lo storico Giovanni<br />

Spano, di un retablo che ornava l’altare maggiore. 32<br />

Allo scorcio dello stesso secolo un artista catalano scolpiva per il Duomo di<br />

Oristano il retablo marmoreo del Rimedio, di cui avanzano alcuni elementi laterali<br />

e la statua della Vergine col Bambino. Ad un polittico pure scultorio dovevano appartenere<br />

nella stessa chiesa oristanese i rilievi eseguiti qualche decennio prima sul<br />

verso di due plutei marmorei romanici da un maestro della cerchia di Jaume Cascalls. 33<br />

31 Sugli indicatori di percorso vedi gli studi di R. Concas in corso di stampa.<br />

32 G. SPANO, Guida del Duomo di Cagliari, Cagliari 1856, p. 32.<br />

33 J. AINAUD DE LASARTE, Les relacions econòmiques de Barcelona amb Sardenya i la seva projecció<br />

artística, in «VI Congreso de Historia de la Corona de Aragón», Madrid 1959, p. 638.<br />

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I frammenti sono comunemente considerati come pertinenti ad un unico retablo,<br />

cui si potrebbe pensare abbiano lavorato due scultori diversi; in realtà sia nei<br />

frammenti riferibili al polittico della Madonna del Rimedio sia nei rilievi scolpiti<br />

sul retro dei plutei romanici è raffigurata fra le altre la scena dell’Annunciazione,<br />

ora, poiché è impensabile che in un retablo sia rappresentato due volte lo stesso<br />

episodio, non resta che considerare l’eventualità di due polittici diversi, come<br />

indicano pure le differenze stilistiche riscontrabili nei diversi frammenti. Opinione<br />

questa già espressa da Raffaello Delogu nel lontano 1952 e ripresa da Angela<br />

Mata nel 1987, la quale ultima ritiene che le due lastre scolpite nel verso dei plutei<br />

romanici fossero non una predella, ma gli elementi laterali di un retablo del tipo<br />

catalano a sviluppo orizzontale, con al centro la statua della Madonna col Bambino,<br />

e che i frammenti con l’Annunciazione e l’Incoronazione della Vergine appartenessero<br />

ad un secondo retablo marmoreo di mano differente. 34 In realtà ragioni<br />

formali sembrerebbero accostare questi ultimi alla Madonna del Rimedio, piuttosto<br />

che i rilievi attribuiti all’ambito di Jaume Cascalls.<br />

A questo proposito sarebbe interessante interrogarsi anche dove i due plutei<br />

siano stati rilavorati: in Sardegna, ad Oristano, o in Catalogna? Se in Catalogna,<br />

come probabile, cadrebbe l’attribuzione ad un maestro isolano dei rilievi romanici<br />

e la tesi della loro presenza ab antiquo nella cattedrale oristanese.<br />

All’attività scultoria catalana di quegli anni risale, infine, la piccola Madonna<br />

seduta con il Bambino sulle ginocchia del Santuario di Bonaria a Cagliari.<br />

Poco dopo la metà dello stesso secolo XIV, precisamente il 16 luglio 1364,<br />

Llorenç Saragossa – «lo millor pintor» di Barcellona, a detta di Pietro il Cerimonioso<br />

35 – firmava il contratto per l’esecuzione di un retablo, dedicato ai santi Gabriele<br />

e Antonio, per una cappella della Cattedrale di Cagliari, che doveva essere<br />

già ultimato il 30 dicembre del medesimo anno. 36 Dell’opera non resta traccia,<br />

anche se non è escluso che la sua presenza possa aver influito in qualche modo<br />

sugli artefici isolani. Per la stessa cappella l’anno seguente, 1365, erano spediti da<br />

Barcellona due candelabri in ferro battuto, che come ipotizza Ainaud de Lasarte<br />

dovevano essere simili ad altri esemplari catalani esistenti ancora a Cipro. 37<br />

34 A. FRANCO MATA, Influenza catalana cit., p. 231 ss.<br />

35 A. RUBIÓ I LLUCH, Documents per la història de la cultura catalana mig-eval, II, Barellona<br />

1921, doc. CLXXIV; J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana, Barcellona<br />

1986, p. 60.<br />

36 J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà. Su vida, su tiempo, sus seguidores y sus<br />

obras, in «Anales y Boletín de los Museos de Arte de Barcelona», VIII (Apéndice documental),<br />

1950, docc. 13-15; J. AINAUD DE LASARTE, Les relacions econòmiques cit., p. 640.<br />

37 Ivi, pp. 639-640.<br />

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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />

Ma artisti catalani, giunti sin dalle prime spedizioni militari di conquista,<br />

svolgevano a quell’epoca ormai attività stabile a Cagliari, partecipando<br />

così fattivamente al programma di catalanizzazione anche culturale<br />

della Corona.<br />

Nel 1355 Pietro il Cerimonioso, nel quadro della politica di ripopolamento<br />

della villa di Alghero, concedeva, per esempio, il trasferimento ad Alghero al<br />

pittore catalano Pere Blanch, che risiedeva allora a Cagliari, dove teneva certamente<br />

bottega. 38 Nel 1395 anche un altro pittore catalano, Ramonet de Caldes,<br />

viveva nel Castello di Cagliari. 39<br />

Intanto continuavano le importazioni dirette dalla Catalogna. Il 4 marzo<br />

1404, a Barcellona, Pere Serra si impegnava a dipingere per 30 lire un piccolo<br />

retablo per Arnau ça Bruguera, cittadino algherese, che saldava il pagamento<br />

il 25 settembre successivo. 40 Qualche anno prima, il 10 aprile del 1399, anche<br />

Leonardo De Doni, membro di una famiglia di commercianti d’origine pisana<br />

stabilitasi a Cagliari, il quale svolgeva un ruolo preponderante nell’esportazione<br />

del corallo da Alghero a Barcellona, aveva commissionato un retablo al<br />

Serra. 41 Lo stesso Leonardo De Doni, come attesta un documento del 17 maggio<br />

1403, era in rapporto con Joan Mates, collaboratore di Pere Serra. Sempre<br />

Leonardo si faceva forse mediatore tra Mates e un familiare, Guido, residente<br />

a Cagliari, per la realizzazione del retablo dell’Annunciazione, che era collocato<br />

nella cappella di patronato della famiglia De Doni nella chiesa di S. Francesco<br />

di Stampace a Cagliari.<br />

Nei frammenti rimasti – lo scomparto mediano con l’Annunciazione, la sovrastante<br />

Crocifissione, lo scomparto laterale alto di sinistra con la Caccia di S.<br />

Giuliano, la predella con i cinque scomparti, raffiguranti da sinistra: S. Antonio<br />

Abate, S. Giovanni Battista, Cristo come Uomo dei dolori, S. Margherita e S.<br />

Caterina d’Alessandria (tutti conservati nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari) –<br />

lo stile cortese del Mates, che appare lontano dagli italianismi di Pere e dal<br />

patetismo di Lluis Borrassà, si rivela nella eleganza del segno, che fluisce in<br />

accordo con la soavità della gamma cromatica.<br />

38 J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., doc. 401; J. AINAUD DE LASARTE, Les<br />

relacions econòmiques cit., p. 640.<br />

39 J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., doc. 96; J. AINAUD DE LASARTE, La pintura<br />

sardo-catalana, in I Catalani in Sardegna cit., p. 111.<br />

40 J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., doc. 68; J. AINAUD DE LASARTE, Les relacions<br />

econòmiques cit., p. 640.<br />

41 J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., doc. 43.<br />

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Così nel 1861 il canonico Giovanni Spano descriveva nella sua Guida della<br />

città e dintorni di Cagliari, al paragrafo dedicato alla chiesa stampacina, il<br />

polittico ancora intatto:<br />

Nelle tre cappelle che stanno sotto la Tribuna o il Coro, è dove più splende il<br />

bello antico, né meglio potria desiderarsi dai più illustri giotteschi fino al Masaccio.<br />

Non è possibile poter descrivere minutamente le tavole che stanno in queste tre cappelle<br />

abbandonate ed interdette. Peccato che questi preziosi tesori siano ivi non curati,<br />

pieni di polvere, ed albergo dei ragni! Di più, coll’umidità che vi è continuamente,<br />

un giorno verranno a perdersi, e perciò converrebbe di toglierli, ed assegnare ad essi<br />

più decente luogo. Nella stessa condizione erano quelle quattro tavole della Chiesa di<br />

S. Francesco d’Oristano, che abbiamo osservato in casa Decandia. Qual altro pregio<br />

non avrebbero se a queste toccasse la medesima sorte!<br />

La prima cappella a destra attigua a quella della Visitazione che abbiamo lasciato,<br />

è dedicata alla Annunziata che sta nello spartimento di mezzo, ingombrato da una<br />

nicchia: a sinistra vi sta un personaggio, il conte Rogerio, in abiti da Principe con<br />

sproni ai piedi, un cane sotto, con un falchetto in mano ed il cappuccio per lo stesso<br />

falco. A destra un Santo Monaco in abiti ruvidi, che è S. Brunone l’institutore dell’Ordine<br />

Certosino, il quale vivendo in una spelonca di un eremo in Calabria, venne<br />

scoperto dai cani del conte di Calabria, Rogerio, che verso quel sito attendeva alla<br />

caccia. In mezzo vi è l’Annunciazione slanciandosi una mano dall’alto sulla Vergine.<br />

Ai lati di sopra in piccola dimensione vi sta S. Giorgio a cavallo a sinistra, ed a destra<br />

un gruppo d’angeli con Gesù bambino scherzando. Nel finimento avvi ripetuta la<br />

Crocifissione, come nell’altro altare, con diversi gruppi e figure. Nell’imbasamento<br />

finalmente altri cinque spartimenti a metà di figure di Santi e di Sante. Queste sono<br />

ornate di diademi e di fregi dorati con pietre e gemme che sembrano fatte da poco. I<br />

volti delle Sante sono delicatissimi, che potrebbero confondersi coi ritratti dei migliori<br />

che si conoscono del Giunta Pisano. Si vedono con una tale espressione, che si<br />

potrebbero contare i peli ad uno ad uno nello sfilamento della barba e dei capelli.<br />

Nel pavimento di questa cappella si osserva un marmo in cui è presentato in<br />

basso rilievo un personaggio giacente in abito lungo colle mani incrociate, ed attorno<br />

l’iscrizione in caratteri gotici: Hic jacet corpus nobilis viri Domini Guido De Dono<br />

(Dedoni) mercatoris de Castro Calleris qui obiit anno Dom. 1410 indictione III die<br />

12 Mensis Decembris cujus animam [sic] requiescat in pace. 42 Al lato del cuscino vi<br />

sono due stemmi di famiglia, uguali a quello che si vede sopra l’arcata della cappella,<br />

che forse era patronato della famiglia Dedoni, una delle più antiche di Cagliari. 43<br />

Circa un cinquantennio più tardi, il retablo, smembrato e custodito nel<br />

Museo Nazionale di Cagliari, dopo l’iniqua legge sulla soppressione degli<br />

42 Questa la lettura corretta: «HIC IACET CO/RPUS NOBILIS VIRI DOMINI GUIDO DE DONO<br />

MERCATORIS DE CASTRO CALLE(R)IS/QUI OBIIT ANNO D(OMI)NI MCCCCX IN/<br />

DICTIO(N)E III DIE XII MENSIS D(E)CE(M)BRIS CUIUS ANIMAM REQ(U)IESCAT IN<br />

PACE AME(N)».<br />

43 G. SPANO, Guida della città e dintorni di Cagliari, Cagliari 1861, pp. 172-173.<br />

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ordini religiosi che aveva disperso gran parte del patrimonio artistico della<br />

chiesa e del convento di S. Francesco di Stampace, era studiato da Carlo Aru,<br />

che esponeva le sue deduzioni nel X Congresso di Storia dell’Arte, tenuto a<br />

Roma nel 1912, pubblicandole poco dopo, in attesa degli Atti, nell’ «Anuari<br />

de l’Institut d’Estudis Catalans». 44<br />

L’Aru, però, divideva le tavole che in origine avevano costituito il retablo<br />

dell’Annunciazione in due gruppi che assegnava a due polittici differenti, attribuendo<br />

il primo, risultante di due dipinti (un Santo Cavaliere e una Crocifissione),<br />

a un pittore catalano della seconda metà del Trecento con influssi toscani, e<br />

il secondo, comprendente cinque elementi di una predella raffiguranti rispettivamente<br />

Cristo al sepolcro e quattro santi, ad un artista della scuola di Lluís<br />

Borrassà attivo nei primi anni del XV secolo. Negli Atti, apparsi soltanto nel<br />

1922, lo studioso, che manteneva la divisione in due gruppi e le attribuzioni di<br />

dieci anni prima, indicava nella cappella dell’Annunziata del S. Francesco di<br />

Stampace la collocazione originaria del retablo di cui avrebbero fatto parte le<br />

cinque tavole della predella. 45<br />

Nel 1927 lo stesso Aru, nel saggio intitolato Lineamenti storici della pittura<br />

sarda, 46 compiva «un altro passo verso la migliore conoscenza delle relazioni<br />

intercorrenti tra queste sette tavole». 47 Egli, infatti, riuniva, sulla testimonianza<br />

della Guida del Canonico Spano, i due gruppi, che erano considerati così elementi<br />

del medesimo polittico descritto dallo Spano nella cappella<br />

dell’Annunziata, e ne confermava l’esecuzione ad un seguace del Borrassà.<br />

Ancora dieci anni dopo, nel 1936, la sua attribuzione era accolta nel catalogo<br />

del Museo Nazionale e della Pinacoteca di Cagliari, in cui Raffaello<br />

Delogu scriveva:<br />

Si nota in seguito un gruppo notevolissimo di opere fra le quali primeggiano,<br />

per il vivissimo goticismo, i due frammenti raffiguranti un S. Cavaliere e la Crocifissione,<br />

parti di una stessa ancona della chiesa di S. Francesco, dove sono di facile<br />

riscontro influenze coloristiche senesi. Alla stessa ancona apparteneva la sottostante<br />

predella con le figure del Cristo, di S. Antonio Abate, di S. Giovanni Evangelista,<br />

44 C. ARU, Storia della pittura in Sardegna nel secolo XV, in «Anuari de l’Institut d’Estudis Catalans»,<br />

IV (1911-12), Barcellona 1913. Dieci anni dopo il saggio era pubblicato finalmente: C. ARU, La<br />

pittura sarda nei secoli XV e XVI, in «Atti del X Congresso Internazionale di Storia dell’Arte»<br />

(1912), Roma 1922.<br />

45 Ivi, p. 263 ss.<br />

46 C. ARU, Lineamenti storici della pittura sarda, in «Fontana Viva», II, fasc. 2, 1927, p. 11.<br />

47 R. DELOGU, Chiosa al ‘Maestro di Peñafel’, in «Annali della Facoltà di Lettere, Filosofia e<br />

Magistero della Università di Cagliari», XIV, 1946, pp. 3-4.<br />

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S. Caterina d’Alessandria e di un’altra Santa; la squisita e delicatissima opera fu<br />

dipinta da un seguace di Louis Borrassà, attivo nei primi anni del secolo XV. Notevole<br />

il fiabesco e lirico contrasto tra la delicata figurina dell’ultima Santa a destra<br />

e il grottesco leone. L’opera costituisce la documentazione del primo apporto pittorico<br />

spagnolo alla terra sarda. 48<br />

Nel 1938, Chandler Rathfon Post identificava il Santo a cavallo con S. Giuliano<br />

Ospedaliere, 49 raffigurato, secondo una diffusa iconografia derivata dalla<br />

Legenda aurea, nell’atto di ascoltare attonito, durante una battuta di caccia, la<br />

profezia del cervo che aveva scovato dalla macchia, secondo la quale egli avrebbe<br />

ucciso i genitori di sua propria mano. 50<br />

In quello stesso anno il Delogu rinveniva nei magazzini del Museo Nazionale<br />

di Cagliari un’Annunciazione, che «per linguaggio e tecnica, oltre che per<br />

l’aderenza alla descrizione dello Spano», 51 dichiarava la sua appartenenza a<br />

quel medesimo polittico cui erano stati assegnati i sette frammenti attribuiti alla<br />

scuola del Borrassà.<br />

Si ricomponeva così l’ancona descritta nel XIX secolo dal Canonico Spano,<br />

della quale «rimangono, quindi: tutta la predella, lo scomparto centrale con l’Annunciazione,<br />

la soprastante Crocifissione e lo scomparto superiore di sinistra<br />

con la figura di S. Giuliano. Mancano, distrutti o probabilmente emigrati, tre<br />

scomparti, oltre ai polvaroles, raffiguranti, stando alla descrizione dello Spano,<br />

“il Conte Ruggero in abiti da principe”, S. Bruno da Colonia ed “un gruppo<br />

d’angeli con Gesù Bambino”». 52<br />

In realtà il conte Ruggero è da identificare con lo stesso S. Giuliano<br />

Ospedaliere e S. Bruno di Colonia con S. Giuliano di Padova Confessore,<br />

mentre la tavola con Gesù Bambino tra gli angeli raffigurava il divin Pargolo<br />

che gioca con i tre santi Innocenti, le cui reliquie appartennero a S. Giuliano<br />

Confessore. Le storie più popolari della legenda dei due santi, che in un retablo<br />

tradizionale sarebbero state confinate nei departiments, cioè nelle cases, oc-<br />

48 R. DELOGU, La Pinacoteca di Cagliari, in A. TARAMELLI – R. DELOGU, Il R. Museo Nazionale e<br />

la Pinacoteca di Cagliari, Roma 1936, p. 39.<br />

49 CH. R. POST, History of Spanish painting, Harward 1938, VII, parte 2, p. 747.<br />

50<br />

IACOPO DA VARAZZE, Legenda aurea, a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Torino 1995, pp. 176-<br />

177.<br />

51 R. DELOGU, Chiosa cit., p. 5. La tavola, le cui vaste cadute di colore avevano in gran parte<br />

compromessa la lettura delle due figure, era stata restaurata nel 1935, «sotto la direzione dell’Arch.<br />

Angelo Vicario, dal sig. Guido Fiscali mediante consolidamento del supporto, stuccatura delle<br />

lacune e nuova loro campitura con tinte neutre» (ivi, p. 5, nota 7).<br />

52 Ivi, p. 6.<br />

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cupavano il posto di solito riservato all’arcangelo Gabriele e all’Annunciata,<br />

in questo caso titolari del polittico e della cappella e perciò collocati nel<br />

compartiment, cioè la tavola principale.<br />

La presenza dei due S. Giuliano sembrerebbe un omaggio al capostipite<br />

della famiglia Dedoni, del quale erano i santi eponimi. 53<br />

L’attribuzione proposta dall’Aru era stata accolta in Sardegna, come abbiamo<br />

visto, dal Delogu, ma anche alcuni tra i più noti studiosi stranieri di pittura<br />

catalana avevano condiviso il suo riferimento a un seguace del Borrassà. 54<br />

Sempre nel 1938 il Post riuniva sotto la personalità di un anonimo Maestro<br />

di Peñafel – così denominato dalla sede originaria di due ancone rispettivamente<br />

dedicate a S. Michele e a Santa Lucia – i sette frammenti cagliaritani, tolta<br />

l’Annunciazione di cui sembrava non essere a conoscenza. 55<br />

Nell’importante Chiosa al ‘Maestro di Peñafel’, del 1946, Raffaello<br />

Delogu descrive in maniera incomparabile quella che è la qualità formale<br />

del Maestro di Peñafel, identificato qualche anno dopo da Joan Ainaud de<br />

Lasarte in Joan Mates: 56<br />

Per il «Maestro di Peñafel» la forma è colore e nel colore si risolve tutta la<br />

fenomenica del dipinto. In quale accezione debba poi, per lui, porsi l’astratto termine<br />

di «colore», potrà intendersi ricostruendone la stesura; quella tecnica, cioè, nella<br />

quale si concreta, e che è, la forma stessa; campite con tinte piatte fondamentali le<br />

diverse zone cromatiche, mettiamo, della figura, il pittore ne rialza con una serie di<br />

linee – pennellate approssimativamente parallele od incrociate – come in un affresco<br />

– le parti in maggiore aggetto fino a sciogliere in una pasta chiarissima – che ricorda<br />

molto approssimativamente il leonardesco «lustro» – le quote più rilevate. Altrettanto,<br />

in senso contrario, avviene per le zone rientranti o in ombra. Così la forma […] si<br />

fa tumida, morbida e lievitante; i piani si sfaldano; i contorni si smagliano o addirittura<br />

spariscono. E ciò, s’intenda, non più per virtù di luce, e cioè tonalmente, ma per<br />

53 Il nome del fondatore della casata, Giuliano, mi è stato segnalato dalla professoressa Maria<br />

Grazia Scano Naitza, che ha in corso di stampa un saggio sulla famiglia Dedoni e sul suo ruolo<br />

anche culturale nella Cagliari del xv secolo.<br />

54 Vedi G. GODDARD KING, Sardinian painting, Filadelfia 1923, p. 66 (la quale tuttavia seguiva i<br />

risultati dello studio che Carlo Aru aveva presentato nell’«Anuari de l’Institut d’Estudis Catalans»<br />

del 1913, non riconoscendo l’appartenenza dei frammenti ad un medesimo polittico); G. RICHERT,<br />

Mittelalterliche malerei in Spaniel, Berlino 1925, p. 55; A.L. MAYER, Historia de la pintura<br />

española, Madrid 1928, p. 312.<br />

55 A questo proposto scrive R. DELOGU, Chiosa cit., p. 7, nota 15: «Del rinvenimento e del restauro<br />

di questa “Annunciazione”, oltre che del suo collegamento con gli altri scomparti dell’ancona,<br />

diedi diretta comunicazione al Prof. Post nel 1938. Ignoro se Egli abbia poi pubblicato la riproduzione<br />

nell’occasione inviatagli e riferito sulle notizie trasmessegli».<br />

56 J. AINAUD DE LASARTE, Tablas ineditas de Joan Mates, in «Anales y Boletín de los Museos de<br />

Arte de Barcelona», IV, 1948, p. 341 ss.<br />

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un più semplice modo di essere, in sé, del colore. Così avviene nelle ancone di S.<br />

Lucia e di S. Michele, nell’altra dei due S. Giovanni, nella predella della collezione<br />

Latecoére e così anche nella cagliaritana ancona dell’Annunziata. Nelle quali opere,<br />

in pieno accordo e concomitanza con la cennata sensibilità coloristica, è minore,<br />

o strettamente legato alle esigenze iconografiche, il gusto del «racconto» e le<br />

diverse scene sono sentite come occasioni per il prezioso accordo dei colori nella<br />

bellezza dei pigmenti. 57<br />

Joan Mates era nato a Vilafranca del Penedès da un sellaio. In un atto del<br />

12 luglio 1391 figura come pittore residente a Barcellona. In questa notizia e<br />

in un’altra del 17 novembre del successivo 1392 appare in rapporto con il<br />

pittore Pere Serra, uno dei quattro figli d’un sarto barcellonese, Berenguer,<br />

che dominarono durante la seconda metà del Trecento il panorama artistico<br />

della capitale catalana. Essi condivisero la medesima bottega e furono tra i<br />

più prolifici produttori del tempo di retabli, commissionati loro da tutti i territori<br />

della Corona catalano-aragonese. 58<br />

Il maggiore dei fratelli Serra, Francesc, può considerarsi con Ramon<br />

Destorrents, dopo la morte di Ferrer e Arnau Bassa per peste nera nel 1348,<br />

l’iniziatore della scuola pittorica barcellonese. Sebbene i documenti ci consentano<br />

di seguirne l’attività dal 1350 fino alla morte, nel 1362, tramandandoci<br />

preziose informazioni su stipulazioni di contratti e ricevute di pagamento,<br />

non si è potuta identificare nessun’opera di sua mano. È quasi certo tuttavia<br />

che egli sia il cosiddetto Maestro di Sixena, la cui pittura risulta formalmente<br />

vicina a quella di Jaume e Pere Serra. 59<br />

La prima notizia di Jaume è del 1358, quando firma il contratto per il<br />

retablo di S. Michele per la cattedrale di Girona, avvallato dal fratello maggiore<br />

Francesc. Jaume, che a quella data doveva essere un pittore già affermato,<br />

collaborava certamente con il fratello, come sembra confermare l’impegno,<br />

sottoscritto il 30 giugno 1360, a dipingere e dorare il tabernacolo dell’altare<br />

maggiore della chiesa del monastero di S. Pere de les Puelles, il cui retablo<br />

era commissionato a Francesc, e il fatto che due anni dopo, nel 1362, egli si<br />

incaricava di completare, insieme con l’altro fratello, Pere, il più giovane dei<br />

57 R. DELOGU, Chiosa cit., p. 10. Le ancone citate sono quelle attribuite dal Post al gruppo del<br />

Maestro di Peñafel e restituite nel 1948 a Joan Mates da Ainaud De Lasarte.<br />

58 Vedi J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana cit., pp. 52 ss; per Joan Mates si<br />

rimanda all’importante monografia di R. ALCOY – M.M. MIRET, Joan Mates, pintor del Gòtic<br />

Internacional, Barcellona 1998.<br />

59 J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana cit., pp. 52-53.<br />

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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />

tre, la pittura del retablo che Francesc, morendo prematuramente, aveva lasciato<br />

incompiuta. Jaume sostituiva il fratello anche nella direzione della bottega,<br />

nella quale ben presto brillava il genio di Pere.<br />

Formatosi presso il fratello maggiore, la personalità artistica di Jaume è<br />

attestata dal retablo commissionatogli nel 1361 da fra Martino de Alpartir per la<br />

sua sepoltura nel convento del Santo Sepolcro di Saragozza (oggi al Museo di<br />

Belle Arti). L’opera, realizzata prima della sua collaborazione con Pere, che in<br />

questo momento si stava ancora formando nella bottega di Ramon Destorrents,<br />

l’altro protagonista della scuola pittorica barcellonese della seconda parte del<br />

XIV secolo, dimostra la dipendenza di Jaume da Destorrents e dall’autore del<br />

retablo di Sixena, che è stato riconosciuto in Francesc Serra. Si notano, rispetto<br />

a quelli, una minore complessità compositiva e un cromatismo poco variato,<br />

anche se più delicato. Il 19 aprile 1389 faceva testamento e di lui non si hanno<br />

più notizie fino al 1395, quando risulta già defunto. 60<br />

Di Pere, il minore dei tre, possediamo un’abbondante documentazione, che<br />

dall’inizio del suo apprendistato nella bottega di Ramon Destorrents, previsto<br />

della durata di quattro anni nel contratto stipulato il 14 aprile 1357, giunge fino<br />

alla sua morte, avvenuta fra il 1405 e il 1408. Come scrive Josep Gudiol i Ricart:<br />

«Il fatto che la sua formazione avvenisse nella bottega di Ramon Destorrents e<br />

non in quella dei suoi fratelli dimostra la stretta relazione esistente fra i pittori<br />

barcellonesi di quell’epoca». 61 Nel 1362, anno della conclusione del suo tirocinio,<br />

morivano il maestro Destorrents e il fratello Francesc, e Pere entrava a far<br />

parte dell’impresa familiare, impegnandosi con Jaume a condurre a termine il<br />

retablo per la chiesa di S. Pere de les Puelles, che Francesc non aveva fatto in<br />

tempo a finire.<br />

La collaborazione con Jaume durò oltre venticinque anni e, alla morte di<br />

questi, Pere assumeva il comando della bottega, mantenendo un’elevata produttività<br />

grazie all’aiuto di collaboratori – quali Joan Mates, che, alla sua morte, il<br />

20 aprile 1409 si sarebbe incaricato di completare il retablo di S. Tommaso e S.<br />

Antonio commissionato al maestro per una cappella del chiostro della Cattedrale<br />

di Barcellona e rimasto incompiuto; Mateu Ortoneda e Pere Vall – e discepoli,<br />

come il fratello Joan, il perpignanese Jalbert Gaucelm e Tomàs Vàquer. 62<br />

60 Ivi, pp. 53-55.<br />

61 Ivi, p. 55: «El fet que la seva formació es produís al taller de Ramon Destorrents i no en el dels<br />

seus germans demostra l’estreta relació que hi devia haver entre els pintors barcelonins d’aquella<br />

època».<br />

62 Ibid.<br />

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La bottega di Pere, malgrado la presenza nella capitale di Lluís Borrassà e<br />

Joan Mates, che avevano fatto proprie le novità formali del Quattrocento europeo,<br />

risultava fino alla prima decade del XV secolo ancora la più efficiente. Uno<br />

degli ultimi contratti firmati da Pere Serra fu quello stipulato il 4 marzo 1404<br />

con l’algherese Arnau ça Bruguera.<br />

Lo stile di Pere Serra rivela la sua formazione nelle botteghe del Destorrents<br />

e del fratello Jaume, ma vi si distacca per la sensibilità narrativa, che si manterrà<br />

in tutta la sua produzione, e la ricchezza compositiva. «Le sottili armonie<br />

cromatiche, l’eleganza delle figure e l’abilità nel disporle in suggestivi paesaggi,<br />

tanto rurali come urbani, sono alcune altre caratteristiche che differenziano<br />

con chiarezza l’arte di Pere Serra». 63 Negli ultimi anni della sua attività, forse<br />

sotto l’influsso di Joan Mates, egli si avvicina timidamente al gusto internazionale,<br />

imprimendo maggiore movimento alle figure, attraverso la gestualità e il<br />

fluttuare delle vesti, e più accentuati contrasti cromatici. 64<br />

Joan Mates è documentato a Barcellona come pittore dal 1391, ma in realtà<br />

fino al 1406 non si hanno notizie della sua attività come artista indipendente, se si<br />

esclude l’impegno stilato il 31 luglio 1400 con la confraternita di S. Eligio e S.<br />

Matteo di concludere il retablo per la cappella della chiesa del Carmelo di Manresa,<br />

che era stato commissionato al pittore fiammingo Jaume Lors, residente allora a<br />

Barcellona, il quale però, appena ingessate le tavole, era tornato in patria. 65 Più<br />

numerosi sono invece i riferimenti, in quegli anni, ai suoi rapporti con i pittori<br />

barcellonesi Mateu Ortoneda, Guillem Ferrer, Guerau Gener e, soprattutto, Pere<br />

Serra, di cui fu valido collaboratore – come si è detto, dopo la morte di Pere fu lui<br />

a portare a termine il lavoro lasciato incompiuto dal maestro. 66<br />

Dal 1406 la documentazione relativa all’attività pittorica di Mates diviene<br />

più frequente e regolare. Dopo la commissione di un retablo per la cappella di<br />

S. Anna e S. Michele della Cattedrale di Barcellona, gli atti d’archivio registrano<br />

numerosi altri incarichi assolti dal pittore nella Capitale del regno e nei territori<br />

della Corona.<br />

Per poter onorare le rilevanti richieste, che hanno spinto a considerarlo l’erede<br />

di Pere Serra nell’ambito pittorico catalano, 67 Mates dovette servirsi di uno stuolo<br />

63 Ivi, p. 57: «Les subtils harmonies cromàtiques, l’elegància de les figures i l’habilitat a disposarles<br />

en els suggestius paisatges, tant rurals com urbans, són unes altres característiques que<br />

diferencien amb claredat l’art de Pere Serra».<br />

64 N. DE DALMASES – A. JOSÉ I PITARCH, L’art gòtic cit., p. 168.<br />

65 J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana cit., p. 88.<br />

66 Ibid.<br />

67 Ibid.<br />

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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />

di aiuti e collaboratori, il principale dei quali fu il figliastro Francesc Oliva.<br />

Questi, che figurava come pittore dal 1408, moriva però prima del 1431. Quasi<br />

certamente faceva parte della bottega del Mates anche il figlio Bernat, documentato<br />

fra il 1425 e il 1462, della cui attività pittorica non si ha altra notizia<br />

che quella relativa ad un retablo eseguito per il castello di Vacarisses nel 1436. 68<br />

Nel 1426 iniziava l’apprendistato nella bottega del Mates il quattordicenne<br />

Francesc Mates, figlio di un sarto barcellonese forse legato al pittore da vincoli<br />

di parentela. Collaboratore stabile sembra sia stato l’imatger Colino, che il Mates<br />

ricorda nel suo testamento, redatto il 29 agosto 1431. Doveva essere l’ebanista<br />

che eseguiva la preparazione e l’intaglio dei retabli del pittore. 69<br />

Come attestano le opere documentate – il retablo dei santi Ambrogio e<br />

Martino nella Cattedrale di Barcellona, quello di S. Sebastiano per la cappella<br />

del refettorio della Pia Almoina di Barcellona e il retablo maggiore della chiesa<br />

parrocchiale di Vilarodona – e le altre che gli si possono attribuire attraverso<br />

l’analisi formale – come, per esempio, il retablo dei santi Lucia e Michele del<br />

Santuario di Peñafel e quelli di S. Giacomo di Vallespinosa, dei santi Giovanni<br />

Battista e Evangelista, dell’Annunciazione del S. Francesco di Cagliari –, Joan<br />

Mates è un artista di grande talento:<br />

Dotato di una personalità propria e creatore di una tipologia di facile identificazione,<br />

non conserva, almeno nelle opere che sono arrivate sino a noi, la più piccola traccia<br />

dello stile di chi probabilmente fu il suo maestro, Pere Serra. Tanto meno accusa l’influenza<br />

di Lluis Borrassà, il pittore barcellonese di più rilievo durante gli anni in cui<br />

Joan Mates svolse la sua attività. Mates rappresenta tuttavia una modalità distinta nella<br />

cosiddetta pittura «internazionale», più prossima alle correnti stilistiche che si svilupparono<br />

nella regione che comprende il nord della Francia e i paesi Bassi e che ebbero<br />

una grande risonanza nelle terre valenzane. Si tratta di un’arte che concede un’attenzione<br />

particolare al gesto dei personaggi, sempre eleganti e distinti, e che evita i violenti<br />

scorci borrassaniani. Il disegno, corretto e d’una grande sensibilità, si manifesta in<br />

maniera speciale nei soavi ritmi suggeriti dalle pieghe delle vesti. 70<br />

68 Ibid.<br />

69 Ibid.<br />

70 Ivi, p. 90: «Dotat d’una personalitat pròpia i creador d’una tipologia de fàcil identificació, no<br />

conserva, si més no en les obres que ens n’han arribat, la més petita traça de l’estil del qui<br />

possiblement fou el seu mestre, Pere Serra. Tampoc no acusa la influència de Lluís Borrassà, el<br />

pintor barceloní de més pes específic durant els anys que Joan Mates desplegà la seva activitat.<br />

Mates representa tanmateix una modalitat distinta dins la denominada pintura “internacional”,<br />

més d’acord amb els corrents estilístics que es desenrotllaren a la regió que comprèn el nord de<br />

França e els Països Baixos i que tingueren un gran ressò per terres valencianes. Es tracta d’un<br />

art que concedeix una atenció particular al gest dels personatges, sempre elegants i distingits, i<br />

que evita els violents escorços borrassanians. El dibuix, correcte i d’una gran sensibilitat, es<br />

manifesta d’una manera especial en els suaus ritmes suggerits pels plecs de la indumentària».<br />

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Aldo Sari<br />

Protagonista della sua pittura è quasi esclusivamente la figura umana, il cui<br />

elegante atteggiarsi conferisce un’aura profana anche agli episodi religiosi, secondo<br />

modalità proprie dell’arte cortese nordeuropea. S. Giuliano del polittico<br />

di Cagliari; S. Sebastiano del retablo della Pia Almoina; S. Giovanni Battista e<br />

S. Giovanni Evangelista del retablo dei Santi Giovanni; S. Martino del retablo<br />

di S. Martino e S. Ambrogio nella cattedrale di Barcellona; S. Michele Arcangelo<br />

del retablo di S. Maria di Peñafel; S. Lucia del retablo omonimo già nel<br />

medesimo monastero di Peñafel; S. Margherita del retablo di Valldonzella paiono<br />

più paggi e dame di una corte terrena che abitatori del paradiso cristiano. 71<br />

Per Rosa Alcoy e Maria Montserrat Miret il retablo dell’Annunciazione di<br />

Cagliari sarebbe tra le prime opere eseguite dal Mates, anteriore perfino al retablo<br />

di S. Jaume di Vallespinosa, databile intorno al 1406-1410. Le forme «arrotondate<br />

e piene» di S. Antonio, S. Giovanni Battista, S. Margherita o S. Caterina<br />

infatti non hanno ancora perduto l’impronta medievale, e anche il Cristo in pietà,<br />

malgrado il comprensibile espressionismo, non può ancora dirsi inserito del<br />

tutto nel clima internazionale. La tavola del Calvario mostra rispetto ad altre<br />

sue pitture dello stesso tema una maggiore freschezza e la caccia di S. Giuliano<br />

prende come modello immediato la tavola dipinta nella bottega di Pere Serra<br />

per il retablo dei santi Giuliano e Lucia del convento del S. Sepolcro di Saragozza.<br />

Malgrado la sua parziale sfortunata distruzione, il retablo di Cagliari è una delle<br />

costruzioni figurative più singolari dipinte nella bottega di Joan Mates […] Le impertinenti<br />

lacune che profanano la pittura di Mates non devono essere d’ostacolo per<br />

vedere in questa opera alcuni dei frammenti pittorici più teneri del primo Gotico<br />

Internazionale catalano. Non ci deve sedurre lo stato rovinoso della superficie pittorica,<br />

ma ciò che si percepisce al di là di questo come una delle pagine in cui si forgia<br />

la pienezza artistica del maestro di Vilafranca già prima del 1410. Le linee si modulano,<br />

i meandri si fanno più presenti, per creare un’arte sofisticata che non dimentica<br />

la lezione dell’italianismo. 72<br />

Nella tavola con l’Annunciazione sono già presenti le peculiarità formali della<br />

pittura di Mates: l’architettura relegata nello sfondo, ma che sopravanza lateral-<br />

71 N. DE DALMASES – A. JOSÉ I PITARCH, L’art gòtic cit., p. 220.<br />

72 R. ALCOY – M. M. MIRET, Joan Mates cit., p. 47: «Malgrat la seva desafortunada destrucció<br />

parcial, el retaule de Càller és una de les construccions figuratives més singulars que pintà el taller<br />

de Joan Mates […] Les impertinents llacunes que profanen la pintura de Mates no han de ser<br />

obstacle per veure en aquesta obra alguns dels fragments pictòrics més tendres del primer Gòtic<br />

Internacional català. No ens han de seduir l’estat ruinós de la superfície pictòrica sinó el que es<br />

percep més enllà d’aquest com una de les pàgines en què es forja la plenitud artística del mestre<br />

vilafranquí ja abans del 1410. Les línies es modulen, els meandres es fan més presents, per a crear<br />

un art sofisticat que no oblida la lliçó de l’italianisme».<br />

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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />

mente; i personaggi ravvicinati; il dialogo sottolineato dal gioco eloquente delle<br />

mani, cui si unisce qui, sonora come uno squillo di tromba, la mano benedicente<br />

dall’alto di Dio Padre; l’eleganza del ritmo compositivo, con gli ampi mantelli<br />

che si svolgono sinuosi e, consentanei con l’intimità dell’episodio, quasi si saldano<br />

tra loro in una sorta di fusione mistica; il raffinato accordo cromatico e non<br />

ultimo il punteggiato che orla le aureole e le vesti, rialzandone il colore.<br />

Joan Mates il 21 settembre 1415 era testimone di un contratto stipulato da<br />

Berenguer Carròs, conte di Quirra, con Ramon des Feu, decoratore di Barcellona,<br />

per la pittura di uno scudo, 73 mentre lo stesso conte affidava a Pere Alexandre<br />

quella delle bandiere e dei pennoni di una galea. 74<br />

Ad artista di area catalana risale poi il Crocifisso detto di Nicodemo custodito<br />

nel S. Francesco di Oristano. Databile ai primordi del secolo, la scultura<br />

ripropone, attraverso il Devot Christ (1307) della Cattedrale di Perpignano,<br />

il tipo renano del crocifisso gotico doloroso, in cui pietà e orrore si fondono<br />

nella violenza della rappresentazione. Il torace espanso, il ventre incavato, il<br />

capo abbandonato sul petto, l’audace flessione delle gambe e il conseguente<br />

esasperato sporgere delle ginocchia, i piedi lacerati dal lungo chiodo saranno<br />

poi ripresi, dal XVI al XVII secolo, in tutta una serie di Crocifissi scultorii e<br />

pittorici isolani. 75<br />

Un altro tema legato alla Passione di Cristo, diffuso in Sardegna in età<br />

catalana, è il Compianto scultorio. Tra i gruppi più notevoli e meglio conservati<br />

sono quello in terracotta di San Giacomo a Cagliari; l’altro della Cattedrale<br />

della stessa città, in cui alle statue lignee è accostata una Vergine in terracotta<br />

appartenente ad altro gruppo poco più tardo; e, infine, il Compianto di Santa<br />

Maria di Betlem a Sassari. Esemplati su modelli catalani, sono tutti ascrivibili<br />

alla seconda metà del Quattrocento.<br />

Nel primo quarto del XV secolo, un pittore tarragonese, assai prossimo al<br />

Maestro di La Secuita, dipingeva il retablo per la chiesa di San Martino di<br />

Oristano, in cui, come mostrano i due frammenti custoditi nell’Antiquarium<br />

cittadino, le esperienze italiane appaiono ormai calate nel gusto internazionale.<br />

Probabilmente ad Álvaro Pirez, un artista iberico che aveva allora bottega a<br />

Pisa, si affidava, infine, intorno al 1420, l’esecuzione del polittico per la cappel-<br />

73 J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., VII, 1949, reg. 212; J. AINAUD DE LASARTE,<br />

Les relacions econòmiques cit., p. 641.<br />

74 J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., VII, 1949, reg. 10; J. AINAUD DE LASARTE,<br />

Les relacions econòmiques cit., p. 641.<br />

75 A. SARI, Il Cristo di Nicodemo nel S. Francesco di Oristano e la diffusione del Crocifisso<br />

gotico doloroso in Sardegna, in «<strong>Biblioteca</strong> Francescana Sarda», I, n. 2, 1987.<br />

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la della Madonna dei Martiri, nel chiostro di San Domenico a Cagliari, di cui<br />

resta la tavola con la Vergine e il Bambino (ora nella Pinacoteca Nazionale di<br />

Cagliari), di evidente influsso senese. 76<br />

Per quanto le opere citate, mancando i riscontri d’archivio, possano essere<br />

solo attribuite, le fonti documentarie, nondimeno, confermano, anche per il XV<br />

secolo, le numerose commissioni ad artisti catalani e la presenza di alcuni di<br />

essi in Sardegna. Presenza che, seppure momentanea, deve aver contribuito a<br />

indirizzare in senso sempre più ispanico l’arte nell’Isola. Ricordiamo Pere Closa,<br />

pittore barcellonese, che il 26 giugno 1433 affidava la sua bottega di Barcellona<br />

al collega Pere Deuna per il periodo della sua permanenza in Sardegna. 77<br />

Qualche anno prima, nel 1429, Pere Alexandre, il pintor cortiner di cui si è<br />

detto precedentemente, aveva affrancato il suo schiavo sardo, Antoni Despasa,<br />

che negli anni 1437-49 avrebbe esercitato liberamente il mestiere di pittore a<br />

Barcellona. 78<br />

Bernat Martorell, attivo nella capitale catalana dal 1427 alla morte, il 17<br />

ottobre 1452 riceveva da Miquel Salou la somma di 40 lire come acconto per<br />

l’esecuzione di un retablo destinato in Sardegna. 79 Ma egli moriva il 23 dicembre<br />

senza avere, presumibilmente, condotto a termine l’incarico. L’8 marzo 1455<br />

il pittore valenzano Miquel Nadal, che aveva rilevato la sua bottega, riscuoteva<br />

un acconto di 10 lire delle 30 richieste per un retablo da inviare in Sardegna. 80<br />

Non sappiamo se si trattasse della stessa commissione o di un nuovo ordine.<br />

Certo è che, se mai fu eseguita, non esiste più nell’Isola un’opera che si possa<br />

accostare allo stile del Martorell o di Miquel Nadal.<br />

Il 22 febbraio 1455, a Cagliari, i pittori Rafael Tomàs, di Barcellona, e Joan<br />

Figuera, originario di Cervera, si impegnavano con il guardiano dei Minori<br />

Conventuali, Miquel Gros, e con il mercante Francesc Oliver, a realizzare per la<br />

chiesa di Stampace, entro un anno dal contratto, un retablo con le storie di San<br />

Bernardino da Siena. 81<br />

76 R. SERRA, Pittura e scultura cit., pp. 96 e scheda n. 39 a cura di R. Coroneo.<br />

77 J. AINAUD DE LASARTE, La pittura sardo-catalana cit., p. 118.<br />

78 J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., VII, 1949, regg. 10, 174; J. AINAUD DE<br />

LASARTE, Les relacions econòmiques cit., pp. 640-641.<br />

79 J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana cit., p.124.<br />

80 J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana cit., p. 130.<br />

81 C. ARU, Raffaele Thomas e Giovanni Figura, pittori catalani, in «L’Arte», XXIII, 1920, p. 136<br />

ss; C. ARU, La pittura sarda nel Rinascimento, II. I documenti d’archivio, in «Archivio Storico<br />

Sardo», XVI, 1926, pp. 194-195; C. MALTESE, Arte in Sardegna dal V al XVIII, Roma 1962, pp.<br />

203-204; R. SERRA, Retabli pittorici in Sardegna cit., pp. 39-42, scheda 3; R. SERRA, Pittura e<br />

scultura cit., pp. 97-101 e scheda n. 41 di R. Coroneo.<br />

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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />

Al polittico, conservatosi pressoché intatto – ancora nella seconda metà dell’Ottocento<br />

Giovanni Spano lo descrive completo di polvarolo, 82 del quale ora<br />

restano solo nove pannelli con figure di profeti, esposti con il retablo nella Pinacoteca<br />

Nazionale di Cagliari –, intervenne, però, anche un terzo pittore, cui si<br />

devono il guardapols e le due tavole centrali più alte con la Crocifissione e il<br />

Compianto, ad esclusione della figura di Cristo. 83 Al Tomàs, stilisticamente legato<br />

a Lluís Dalmau e al fiamminghismo iberico, spettano il comparto principale con il<br />

Santo sorretto dagli angeli e le sei scene laterali, mentre al Figuera la predella.<br />

Joan Figuera – che, a differenza del Tomàs, partito nel 1456 per Napoli,<br />

rimase a Cagliari sino alla morte avvenuta fra il 1477 e il 1479 84 – fu l’esecutore,<br />

intorno al 1459, anche della pala con i santi Pietro Martire e Marco Evangelista<br />

per la cappella dei Calzettai in San Domenico a Cagliari, in cui appare<br />

ancora evidente la sua dipendenza dai modi di Rafael Tomàs.<br />

Nel retablo per il S. Lucifero, sempre a Cagliari, che può considerarsi la sua<br />

opera più matura e del quale purtroppo rimane la sola predella con sette scomparti<br />

nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari, egli mostra, invece, uno stile più<br />

originalmente personale, in cui prevalgono i contrasti cromatici e le luci riflesse<br />

di ascendenza huguettiana.<br />

A Sassari aveva bottega, alla fine del secolo, un altro pittore catalano, Joan<br />

Barceló, 85 nativo di Tortosa, ma nel 1485 residente a Barcellona. Di lui, che,<br />

sposatosi a Sassari nel 1510, risulta attivo in Sardegna fino al 1516, non resta<br />

che l’ancona firmata per la cappella della Visitazione nel San Francesco di<br />

Stampace, ora nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari. Precedentemente, nel<br />

1488, aveva eseguito un retablo, oggi perduto, per l’altare maggiore della rinnovata<br />

chiesa dei Conventuali di Alghero, 86 e nel 1508 aveva firmato un contratto<br />

per il polittico presbiteriale della Santa Maria del Pi di Barcellona, 87 che<br />

quasi certamente non fu mai realizzato.<br />

L’opera cagliaritana, che nel 1861 era già priva di predella e polvaroli, 88 ci<br />

consente di inserire entro un ambito culturale ancora manifestamente valenzanofiammingo<br />

la produzione del Barceló. È, infatti, strettamente collegabile al<br />

82 G. SPANO, Guida della città cit., pp. 173-174.<br />

83 C. MALTESE, Arte in Sardegna cit., p. 203.<br />

84 G. OLLA REPETTO, Contributi alla storia della pittura sarda nel Rinascimento, in «Commentari»,<br />

XV, 1964, p. 123.<br />

85 C. ARU, La pittura sarda cit., pp. 164-165.<br />

86 C. ARU, Un documento definitivo per l’identificazione di G. Barcelo, in «Annali della Facoltà di<br />

Filosofia e Lettere della R. Università di Cagliari», III, 1931, p. 169 ss.<br />

87 CH. R. POST, A History of Spanish Painting cit., p. 467, n. 13.<br />

88 G. SPANO, Guida della città cit., p. 171 ss.<br />

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fiamminghismo di Joan Rexach, di cui fu probabilmente allievo. All’insegnamento<br />

del maestro valenzano appartengono la Crocifissione – che tuttavia ha<br />

come prototipo quella del retablo della Santa Croce, dipinto da Miquel Alcanyís<br />

tra il 1403 e il 1409 per la cappella di Nicolàs Pujades in San Domenico a<br />

Valencia – e, anche iconograficamente, la Pentecoste e la Sant’Apollonia. Quest’ultima,<br />

poi, mutua dalla Sant’Orsola del retablo di Cubells, compiuto dal<br />

Rexach nel 1458, oltre alla fisionomia e all’attitudine un po’ rigida pure il<br />

frangersi delle vesti.<br />

Della sua bottega faceva parte quasi certamente Nicolau de Liper, pittore di<br />

Sassari, il cui figlio quattordicenne, Francesco, nel 1518, alla morte del padre,<br />

entrava come apprendista a Barcellona dal pittore napoletano Nicolau de<br />

Credensa. 89<br />

Accanto a retabli interamente pittorici continuavano a prodursi quelli che<br />

accoglievano in luogo della tavola centrale la statua del titolare. Ad una struttura<br />

siffatta dovevano appartenere la bella effigie lignea della Vergine col Bambino<br />

del Santuario di Valverde, presso Alghero, opera di un maestro catalano di<br />

educazione nordica databile alla seconda metà del XV secolo, 90 e la Madonna<br />

del Fico in San Pietro di Silki a Sassari. Eseguita pure in Catalogna, ma ai<br />

primissimi del Quattrocento, è la Madonna seduta col Bambino sulle ginocchia<br />

in Santa Maria di Betlem a Sassari. Degli ultimi del secolo è, invece, la grande<br />

statua della Vergine di Bonaria, nell’omonimo Santuario cagliaritano, intagliata<br />

probabilmente a Napoli, o in Sicilia, come farebbe pensare la qualità del legno<br />

utilizzato, il carrubo, da un maestro di cultura ispanica. 91<br />

89 J. AINAUD DE LASARTE, Les relacions econòmiques cit., p. 643.<br />

90 A. SARI, L’arte, in F. MANUNTA – A. SARI, Il Santuario di Valverde tra arte, storia e leggenda,<br />

Alghero 1994, pp. 43-44; vedi pure M. G. SCANO NAITZA, Percorsi della scultura lignea in<br />

estofado de oro dal tardo Quattrocento alla fine del Seicento in Sardegna, in Estofado de oro.<br />

La statuaria lignea nella Sardegna spagnola, Catalogo della mostra, Cagliari 2001, pp. 25-26;<br />

e, nello stesso Catalogo, la scheda 54 a cura di M. Porcu Gaias.<br />

91 C. MALTESE, Arte in Sardegna cit., p. 207, scheda n. 72 a cura di R. Serra; R. SERRA, Per il<br />

‘Maestro della Madonna di Bonaria’, in «Studi Sardi», XXI, 1968-1970, pp. 52-72; EAD.,<br />

Pittura e scultura cit., pp. 68-77, e scheda n. 29 a cura di R. Coroneo.<br />

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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />

1. Joan Mates, Retablo dell’Annunciazione (prima del 1410), Cagliari,<br />

Pinacoteca Nazionale.<br />

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52<br />

2. Joan Mates, Retablo dell’Annunciazione (prima del 1410), Santa Margherita,<br />

part. della predella, Cagliari, Pinacoteca Nazionale<br />

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Aldo Sari


JOAN ROÍS DE CORELLA<br />

E GLI INCUNABOLI DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI CAGLIARI *<br />

Joan Armangué i Herrero<br />

Università di Cagliari<br />

Ci sono pervenuti pochi dati relativi alla presenza dell’opera del valenzano Joan<br />

Roís de Corella in Sardegna. La sua figura, oltretutto, non ha goduto nell’Isola di<br />

quell’interesse che ha permesso di seguire le tracce della poesia di Ausiàs March<br />

e della sua possibile influenza sull’opera dell’algherese Antonio Lo Frasso. 1 Allo<br />

stato attuale degli studi, le uniche testimonianze della presenza di Corella in Sardegna<br />

si limitano agli incunaboli conservati nella <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari<br />

(BUC): il Segon, Terç e Quart del Cartoixà e la Història de la passió, di<br />

Bernat Fenollar, che include testi di Pere Martínez, Joan Escrivà e Joan Roís de<br />

Corella.<br />

Nel presente articolo ci proponiamo di inquadrare questi libri nel contesto<br />

degli incunaboli catalani conservati nella BUC, 2 tralasciando approfondimenti<br />

tecnici di carattere bibliografico, sufficientemente conosciuti. 3<br />

* La prima versione di questo articolo, ora riassunto, fu presentata in catalano in occasione della<br />

«VII Trobada Internacional de Departaments de Català» (XXVI Premis Octubre, Valenza, 21-25<br />

ottobre 1997), dedicata alla Bibliografia i recepció de Joan Roís de Corella a Europa, e successivamente<br />

pubblicata in Estudis sobre Joan Roís de Corella, ed. Vicent Martines, Editorial<br />

Marfil, Alcoi, 1999, pp. 71-82: «Els incunables de la <strong>Biblioteca</strong> Universitària de Càller: Joan<br />

Roís de Corella». Traduzione dal catalano a cura di Luca Scala.<br />

1 Cfr., per esempio, Carla PILUDU, «‘Fortuna’ e ‘fortunale’: il sonetto catalano di Antonio Lo Frasso<br />

nel romanzo pastorale ‘Los diez libros de fortuna d’Amor’», in La Sardegna e la presenza<br />

catalana nel Mediterraneo. Atti del VI Congresso dell’Associazione Italiana di Studi Catalani<br />

(Cagliari, 11-15 ottobre 1995), ed. Paolo Maninchedda, vol. I, CUEC, Cagliari, 1998, pp. 473-<br />

486. Rimandiamo a questo studio per la bibliografia relativa ai rapporti tra i due poeti.<br />

2 Siccome vogliamo fondamentalmente studiare un aspetto della penetrazione della lingua e della<br />

letteratura catalane in Sardegna, ci riferiremo soltanto marginalmente ai testi scritti in latino.<br />

3 Si veda soprattutto la descrizione più completa del fondo di cui ci occupiamo: Franco CONI,<br />

Elenco descrittivo degli incunaboli della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari e di altre biblioteche<br />

sarde, Cagliari, 1954. In questo breve studio sono descritte, oltre alla BUC, la <strong>Biblioteca</strong><br />

Comunale di Alghero (con quattro incunaboli, due provenienti da Firenze e due da Venezia) e<br />

quella dei padri Cappuccini di Cagliari, con quattro incunaboli, tre veneziani e uno di origine<br />

valenzana: Jaime PÉREZ, Commentarium in Psalmos, Valenza, [Alfonso Fernandez de Cordoba y<br />

Gabriel Luis de Arinyo], 1484.<br />

53<br />

<strong>INSULA</strong>, num. 6 (dicembre 2009) 53-65<br />

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54<br />

Joan Armangué i Herrero<br />

Risalgono all’Ottocento i primi studi di carattere bibliografico che citano titoli<br />

catalani tra i fondi custoditi presso la BUC. A Pietro Martini, direttore della biblioteca,<br />

dobbiamo il Catalogo della biblioteca sarda del cav. Ludovico Baille<br />

(1844), 4 naturalmente molto incompleto per quanto riguarda il nostro interesse,<br />

dato che descrive soltanto il fondo donato da quel console spagnolo. Ancor più<br />

incompleti sono la Storia letteraria di Sardegna (1843-1844), di Giovanni Siotto<br />

Pintor, 5 e l’Illustrazione di Sardegna (1877), di L. Falqui-Massida, 6 cosicché dovremo<br />

aspettare l’arrivo nel capoluogo sardo del diplomatico catalano Eduard<br />

Toda i Güell per ottenere un’analisi sistematica degli incunaboli della BUC.<br />

In effetti, la sua Bibliografía española de Cerdeña include un’Appendice con il<br />

«Catálogo de incunables y libros raros españoles de la <strong>Biblioteca</strong> Universitaria de<br />

Cáller». 7 Prima di esporre i risultati della sua ricerca, però, il diplomatico catalano<br />

fa una deprimente descrizione dello stato della biblioteca alla fine del secolo XIX:<br />

No impera en aquel establecimiento todo el orden que sería necesario. No se crea que<br />

la casa sea muy grande ni que tenga gran servicio á que atender. Consta sólo de tres salas,<br />

una llamada grande y dos pequeñas, y cuenta con un Director, un Subdirector y tres ó<br />

cuatro empleados más. Todo este personal está entretenido por una docena de concurrentes,<br />

que parecen muy poco penetrados del objeto á que aquel sitio se consagra: mas este inconveniente<br />

sería pequeño si á lo menos los veinticinco mil volúmenes que allí pueden existir<br />

se encontraran con facilidad cuando se reclaman. (p. 30)<br />

Il «Catálogo de incunables» di Toda – che, seppur incompleto, seguiremo<br />

per questioni di metodo – censisce un totale di quindici titoli, dodici dei quali<br />

provengono dai Paesi Catalani. Di questi dodici, quattro sono in lingua latina:<br />

un’edizione barcellonese e tre di Montserrat. Gli otto incunaboli scritti in lingua<br />

catalana che Toda cita sono, dunque, i seguenti: 8<br />

– Furs e ordinacions fetes per los gloriosos Reys de Arago als Regnicoles de reyne<br />

de Valencia. Valencia, Lambert Palmart, 1482.<br />

4 Pietro MARTINI, Catalogo della biblioteca sarda del cav. Ludovico Baille, Cagliari, 1844. Occorre<br />

inoltre tener conto, dello stesso autore: Sulla <strong>Biblioteca</strong> della Regia Università di Cagliari,<br />

Cagliari, 1845; e Catalogo dei libri rari e preziosi della <strong>Biblioteca</strong> della Università di Cagliari,<br />

Cagliari, 1863, che contiene le interessanti «Memorie sulle vicende tipografiche in Sardegna»<br />

(pp. 127-144).<br />

5 Giovanni SIOTTO PINTOR, Storia letteraria di Sardegna, 4 voll., Cagliari, 1843-1844 [rist.<br />

anastatica: Bologna, 1966].<br />

6 L. FALQUI-MASSIDA, Illustrazione di Sardegna, Napoli, 1877.<br />

7 Eduardo TODA, Bibliografía española de Cerdeña, Tipografía de los Huérfanos, Madrid, 1890<br />

[rist. anastatica: Studio Editoriale Insubria, Milano, 1979], pp. 58-62<br />

8 Trascriviamo fedelmente i titoli proposti da Toda («Incunables españoles», ivi, pp. 58-59), in<br />

modo selettivo e senza tener conto delle note relative alle dimensioni dei libri.<br />

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JOAN ROÍS DE CORELLA E GLI INCUNABOLI DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI CAGLIARI<br />

– Istoria de la passio de nostro senyor Deu Jesu Crist ab algunes altres<br />

piadoses contemplacions segunt lo evangelista San Johan. Parlant per aquell<br />

Pere Martinez e per tots los altres Mossen Bernat Fenollar. Valencia, Jacobo<br />

Devilla, 1493.<br />

– Lo llibre del Consolat. En Barcelona, per Pere Possa, 1494.<br />

– Lo sagramental arromançat ab ses alleguacions en latí. Lleyda, per Henrich Botell,<br />

1495.<br />

– Aegidius Romanus: Lo llibre del regiment dels princeps. Barcelona, per Johan<br />

Lusckner, 1498.<br />

– Ludolfo de Sajonia: Liber de vita Christi, traduccion catalana de Roig de Corella.<br />

Existen de esta obra:<br />

Lo segon del Cartoxa. Valencia, 1500.<br />

Lo tercio del Cartoxa (sin data ni lugar de imprenta).<br />

Lo quarto del Cartoxa. Valencia, 1495.<br />

Il nostro diplomatico spiega nel seguente modo la presenza di incunaboli<br />

nella capitale sarda:<br />

Merced á España, pudo la Isla sarda disfrutar largamente los beneficios que de<br />

la imprenta reportara el continente europeo desde el primer siglo de su invención.<br />

Un ilustre español, Nicolás de Ágreda, llamó al primer impresor á Cáller antes que<br />

feneciera el sigle XV, y desde entonces hasta la hora de la evacuación española no<br />

cesaron las prensas de producir libros para aquel pueblo, ya colocado en el lugar de<br />

las provincias más libres y civilizadas de un gran reino. (p. 9)<br />

In effetti, in un altro punto della sua Bibliografía (n. 111), Eduard Toda dà<br />

conto della seguente edizione cagliaritana:<br />

1. Carta de logu. Caller, por Salvador de Bolonia, 1493. 9<br />

Si tratterebbe di:<br />

Un vol. en 4º con 100 págs. de texto y cuatro de índices. En el único<br />

ejemplar que se conoce de este libro falta la portada [...]. El Director de la<br />

<strong>Biblioteca</strong> de Cáller, Pietro Martini, no llegó a ver este ejemplar, y negó su<br />

existencia, 10 á pesar de señalarla José Cossu en una descripción de Cáller que<br />

9 BUC, inc. 230.<br />

10 In effetti, Pietro Martini volle considerare Nicolau Canyelles, stampatore e vescovo di Bosa<br />

morto nel 1585, come l’iniziatore della tipografia in Sardegna, seguendo la tradizione iniziata<br />

da Francisco Vico, nel secolo xvii, e continuata nel xix da Faustino C. Baille, autore delle<br />

Vicende tipografiche di Sardegna, esposte in dodici qualità di caratteri esistenti nella Reale<br />

Stamperia di Cagliari, Cagliari, 1801; e da Giovanni Spano, al quale dobbiamo la prima biografia<br />

del tipografo del Cinquecento: Notizie documentate intorno a Nicolò Canelles della<br />

città di Iglesias, primo introduttore dell’arte tipografica in Sardegna, Cagliari, 1866.<br />

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56<br />

publicó en 1780 [...]. 11 Es el primer libro que se supone hecho en Cerdeña por<br />

Salvador de Bolonia á últimos del siglo XV [...]. El ejemplar de este libro que<br />

guardaban los Jesuítas fué sustraído de su Convento en 1773, viajó por Italia, volvió<br />

á Cerdeña á principios de este siglo [XIX], traído por los hermanos Simon, 12 y se<br />

encuentra ahora en la biblioteca del barón Guillot del Alguer.<br />

Invece, secondo Eduard Toda,<br />

Joan Armangué i Herrero<br />

la introducción de la imprenta en Cerdeña efectuóse en el siglo XV, y fué debida á la<br />

iniciativa de un español residente en Cáller, Nicolás de Agreda. El nombre del primer<br />

impresor que trabajó en la Isla es Salvador de Bolonia. La data de la primera impresión<br />

conocida, 1493. (p. 273)<br />

L’ipotesi di Toda relativa all’origine sarda dell’incunabolo della Carta de<br />

logu, priva di qualsivoglia sostegno documentale, restò valida per circa tutta la<br />

prima metà del Novecento: 13 sia la Bibliografia sarda di Raffaele Ciasca 14 ed il<br />

Gesamtkatalog der Wiegendrucke 15 che il Manual del librero hispano-americano,<br />

16 di Antonio Palau, la ritennero verosimile. Venne confutata soltanto nel<br />

1948, quando il personale della <strong>Biblioteca</strong> Nazionale Centrale di Roma, nell’Indice<br />

Generale degli Incunaboli delle biblioteche d’Italia (IGI), 17 attribuì<br />

l’incunabolo a Gabriel Lluís d’Arinyo, che l’avrebbe stampato a Valenza nel<br />

1485. Franco Coni, poco dopo, propose come definitiva l’attribuzione allo<br />

stampatore Pere Miquel, che avrebbe portato a termine l’edizione a Barcellona<br />

attorno all’anno 1492. 18<br />

Marina Romero, nel primo volume del Catalogo degli antichi fondi spagnoli<br />

della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari, 19 riporta le due ultime versio-<br />

11 Cfr. Giuseppe COSSU, Della città di Cagliari, notizie compendiose sacre e profane, Cagliari,<br />

1780, p. 3. L’erudito sardo, però, non afferma, come scrive Toda, «haber visto esta Carta de<br />

Logu en la <strong>Biblioteca</strong> de los PP. Jesuitas», ma semplicemente che vi era custodita.<br />

12 Cfr. Gianfrancesco SIMON, Lettera al cav. Don Tommaso de Quesada [...] sugl’illustri coltivatori<br />

della Giurisprudenza in Sardegna fino alla metà del sec. XVIII, Cagliari, 1801.<br />

13 Riassumiamo di seguito i dati proposti da Luigi BALSAMO, La stampa in Sardegna nei secoli XV<br />

e XVI, con appendice di documenti e annali, Firenze, 1968, pp. 34-35.<br />

14 Raffaele CIASCA, Bibliografia sarda, 5 voll., Roma 1931-1934, n. 3.251.<br />

15 Gesamtkatalog der Wiegendrucke, Leipzig, 1925-1940, n. 9.285.<br />

16 Antonio PALAU Y DULCET, Manual del librero hispano-americano, 28 voll., Barcellona, 1948-<br />

1977, n. 45.681.<br />

17 Indice Generale degli Incunaboli delle biblioteche d’Italia, Roma, 1943, n. 3.671.<br />

18 Franco CONI, Elenco descrittivo degli incunaboli della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari e<br />

di altre biblioteche sarde, Cagliari, 1954, n. 82.<br />

19 Marina ROMERO, «Gli incunaboli e le stampe cinquecentesche», in Ornella GABRIELLI – Marina<br />

ROMERO, Catalogo degli antichi fondi spagnoli della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari,<br />

Pisa, 1982, n. 12, s.v. «Eleonora d’Arborea».<br />

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JOAN ROÍS DE CORELLA E GLI INCUNABOLI DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI CAGLIARI<br />

ni, cosicché, con un gran margine d’incertezza, la Carta de logu passa a dipendere<br />

definitivamente da un editore che opera nei Paesi Catalani.<br />

Così come segnala Luigi Balsamo, niente ci permette di identificare questo<br />

esemplare unico, al quale mancano i fogli 1-26, con quello che descrisse Giuseppe<br />

Cossu nel 1780. Gianfrancesco Simon lo portò dall’Italia continentale<br />

alla fine del Settecento e nel corso degli anni passò tra i beni dell’erede della<br />

«<strong>Biblioteca</strong> Simoniana», il barone Guillot, dal quale l’acquistò, nel 1936, la<br />

<strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari. 20<br />

L’attribuzione che aveva fatto il Toda della Carta de logu a un pressoché<br />

sconosciuto Salvatore di Bologna, però, non era del tutto gratuita. Egli stesso<br />

aveva riscattato dall’oblio un riferimento di Marià Aguiló all’insolito tipografo,<br />

che avrebbe stampato anche a Cagliari, l’1 ottobre 1493, la versione catalana<br />

dello Speculum Ecclesiae di Hugo de Saint Cher, 21 l’unica copia della quale è<br />

conservata presso la <strong>Biblioteca</strong> Provinciale di Palma di Maiorca. 22 Nella sua<br />

nota, Marià Aguiló contraddiceva la versione di Pietro Martini, 23 secondo il<br />

quale l’iniziatore della tipografia in Sardegna sarebbe stato Nicolau Canyelles,<br />

responsabile della prima edizione cagliaritana, dell’anno 1566. E concludeva:<br />

El presente libro, impreso á instancias del aragonés maese Nicolás de Agreda,<br />

adelanta de setenta y tres años el supuesto origen de la estampa en Cerdeña, y señala<br />

á la ciudad de Cáller un lugar entre las que gozaron del trascendental invento en el<br />

mismo siglo XV. Siendo de esperar que las prolijas investigaciones de la bibliografía<br />

logren descubrir alguna otra obra de Salvador de Bolonya, pues no es de presumir<br />

(aunque este tipógrafo no llegase á arraigar en dicha isla) que por un solo opúsculo<br />

estableciese en ella su oficina.<br />

Pur se «las prolijas investigaciones de la bibliografía» a tutt’oggi non hanno<br />

potuto individuare alcun tipo di documento, né storico né bibliografico, che<br />

faccia riferimento né al presunto stampatore né all’aragonese che l’avrebbe<br />

incaricato dell’edizione dell’opuscolo, alla fine del secolo XIX Eduard Toda rac-<br />

20 L. BALSAMO, La stampa in Sardegna cit., p. 35, n. 1.<br />

21 Per lo studio di questo libro, si veda Curt WITTLIN, «La traducció catalana del ‘Speculum ecclesiae’<br />

d’Hug de Saint-Cher, impresa a Càller l’any 1493», in P. MANINCHEDDA (ed.), La Sardegna e la<br />

presenza catalana nel Mediterraneo cit., I, pp. 447-461; si veda anche una descrizione dell’incunabolo<br />

in L. BALSAMO, La stampa in Sardegna cit., n. I, e in Konrad HAEBLER, Bibliografía ibérica del siglo<br />

XV. Enumeración de todos los libros, impresos en España y Portugal hasta el año 1500, con notas<br />

críticas, La Haya-Leipzig, 1903-1917, n. 134.<br />

22 Marià AGUILÓ I FUSTER, Catálogo de obras en lengua catalana impresas desde 1474 hasta<br />

1860, Madrid, 1923, n. 125 [rist. anastatica: Barcelona-Sueca, 1977].<br />

23 Pietro MARTINI, Catalogo dei libri rari e preziosi della <strong>Biblioteca</strong> della Università di Cagliari<br />

cit., pp. 127-144.<br />

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58<br />

Joan Armangué i Herrero<br />

colse l’appello dell’Aguiló e nella sua Bibliografía española de Cerdeña attribuì<br />

a Salvatore di Bologna non soltanto lo Speculum Ecclesiae (n. 524) ma<br />

anche, come abbiamo visto, la Carta de logu (n. 111). Secondo il nostro diplomatico,<br />

infatti,<br />

era Salvador de Bolonia uno de aquellos impresores ambulantes que en el primer<br />

siglo del arte tipográfico recorrían las ciudades con sus cajas y sus prensas. Deteníanse<br />

donde hallaban trabajo y marchaban á otra parte cuando lo habían agotado. Así se<br />

explica la desaparición de este impresor de Cáller y el hecho de que á ciencia cierta<br />

sólo conozcamos dos libros por él publicados. Sin embargo, es de presumir que<br />

estampara otros, ya que en una ciudad religiosa como Cáller no debió dejarse de<br />

aprovechar su permanencia para dotar al pueblo de obras de oración y de enseñanza<br />

cristiana: y si éstas no han sido halladas hasta ahora, débese á que quizás fenecieron<br />

por causa de su particular carácter, que las hacía objeto de diario uso en manos de los<br />

devotos. (p. 273)<br />

È stato messo in dubbio sia questo vantaggio che la città di Cagliari avrebbe<br />

ricavato dalla presenza di un tipografo ambulante, a causa della precaria situazione<br />

economica del Regno, sia la reale esistenza di editore e tipografo, al quale<br />

i pericoli della traversata del mare avrebbero assolutamente sconsigliato, così<br />

come scrive Balsamo, di far rotta verso l’isola. Non è questo, però, il luogo per<br />

occuparci di tale questione, per la quale rimandiamo agli studi specializzati. 24<br />

Sin dal primo momento dello stabilirsi a Cagliari di una colonia catalana, a<br />

partire dall’anno 1327, i conquistatori sentirono la necessità, logicamente, di<br />

accompagnare le nuove leggi che introducevano nell’isola con i testi legali che<br />

dovevano giustificarle. Non deve sorprendere, quindi, di trovare a Cagliari testi<br />

fondamentali del diritto catalano, che in alcuni casi erano già circolati in forma<br />

manoscritta, come i seguenti incunaboli:<br />

2. Consolat de mar. Barcelona: Pere Posa, 1494. 25<br />

3. Usatges de Barcelona. Barcelona: Pere Miquel e Diego Gumiel, 1495. 26<br />

4. Furs del Regne de València. Valenza: Lambert Palmart, ed. Gabriel Lluís d’Arinyo,<br />

1482. 27<br />

24 C. WITTLIN, «La traducció catalana del ‘Speculum ecclesiae’ d’Hug de Saint-Cher» cit.; L. BAL-<br />

SAMO, La Stampa in Sardegna cit.; ID., I primordi dell’arte tipografica a Cagliari, «La<br />

Bibliofilia», LXIV (1964), pp. 1-31.<br />

25 BUC, inc. 84 (ex libris di Montserrat Rosselló); Aguiló, 1.325; Coni, 73; Haebler, 164; IGI,<br />

3.179; Palau, 59.522; Romero, 11.<br />

26 BUC, inc. 199 (ex libris di Montserrat Rosselló); Coni, 209; Haebler, 652; IGI, 1.248; Romero, 35.<br />

27 BUC, inc. 71 (ex libris di Montserrat Rosselló); Coni, 92; Haebler, 282bis; IGI, 10.047; Romero, 15.<br />

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JOAN ROÍS DE CORELLA E GLI INCUNABOLI DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI CAGLIARI<br />

In effetti, alla metà del Trecento troviamo commercianti catalani residenti in<br />

modo permanente in tre dei quattro Giudicati sardi. L’intensità di questo rapporto<br />

economico portò alla creazione, a Cagliari, del Consolato catalano d’oltremare,<br />

del quale abbiamo notizie dal 1301. Anche se pochi anni dopo, nel<br />

1313, come conseguenza delle tensioni con Pisa, i Catalani furono espulsi dalla<br />

città, li ritroviamo nuovamente insediati il 10 dicembre 1321, quando Giacomo<br />

il Giusto dettò una serie di norme molto esplicite relative al consolato. 28 Nel<br />

1340, con la capitale già occupata, un solo console si era stabilito nel Regno di<br />

Sardegna; a partire da questo momento, però, così come riporta Antoni de<br />

Capmany, l’istituto consolare si diffuse rapidamente, di modo che in poco tempo<br />

furono costituiti già quattro consolati nell’isola. 29 Per forza di cose, quindi, i<br />

primi codici manoscritti relativi al Consolat de mar dovettero cominciare a circolare<br />

nel Trecento: la prima testimonianza di questo fenomeno, però, è il ms.<br />

80 della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari, che risale al secolo XV. 30<br />

Risale al secolo precedente, invece, il codice degli Usatges de Barcelona<br />

conservato nella BUC (ms. 6). Il vescovo di Bosa e grande umanista del Cinquecento,<br />

Giovanni Francesco Fara, ne aveva posseduto una copia, ma naturalmente<br />

non possiamo assicurare che si tratti della stessa che la BUC custodisce<br />

attualmente. Ad ogni modo, è interessante tener conto che, nel catalogo della<br />

sua biblioteca, constano, nella sezione intitolata «In iure municipali», questi<br />

singolari «Usatici Barchinonie manuscripti, latine». 31 Eduard Toda non include<br />

nel suo «Catálogo» l’incunabolo degli Usatici conservato nella BUC, che si<br />

deve attribuire ai tipografi barcellonesi Pere Miquel e Diego Gumiel, con data<br />

20 febbraio 1495. Di quest’edizione si conoscono soltanto quattro copie in Italia:<br />

quella di cui ora ci occupiamo e quelle custodite nelle Biblioteche Nazionali<br />

di Napoli, Casanatense di Roma e Lucchesiana di Agrigento.<br />

28 Luisa D’ARIENZO, Una nota sui consolati catalani in Sardegna nel secolo XIV, in «Annali della<br />

Facoltà di Scienze Politiche», III (1977-78), pp. 66-68.<br />

29 Antonio DE CAPMANY, Libro del Consulado del Mar. Edición del texto original catalán y traducción<br />

castellana, a cura di Josep Maria Font i Rius, Barcelona, 1965.<br />

30 Si veda una descrizione di questo manoscritto in Stefania BUSIA, ‘Llibre del Consolat de Mar’.<br />

Descrizione del ms. 80 della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari, in «Revista de l’Alguer», VI,<br />

n. 6 (1996), pp. 23-37. Si tratta di un riassunto, privo dell’edizione critica, della tesi di laurea<br />

dell’autrice, discussa in data 10 dicembre 1995 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università<br />

di Cagliari, sotto la direzione della prof.ssa Luisa D’Arienzo.<br />

31 Enzo CADONI – Raimondo TURTAS, Umanisti Sassaresi del ‘500: le biblioteche di Giovanni<br />

Francesco Fara e Alessio Fontana, Sassari, 1988, n. 723. Per quanto riguarda la biblioteca del<br />

vescovo di Bosa, cfr. anche Salvatore FRASCA, Joannis Francisci Farae Bibliotheca, Quartu<br />

Sant’Elena, 1989.<br />

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60<br />

Infine, faremo riferimento solo brevemente ai Furs de València, dei quali si<br />

conserva nella BUC l’incunabolo dovuto a Lambert Palmart, stampato a Valenza<br />

nel 1482, su incarico di Gabriel Lluís d’Arinyo. Si tratta dell’unica copia conservata<br />

in Italia, alla quale si riferisce Palau (n. 95.613) nel descrivere questa<br />

«espléndida edición» dei Furs.<br />

Occorre tener conto che tutti i testi finora descritti – i due codici manoscritti<br />

ed i tre incunaboli – riportano l’ex libris di Montserrat Rosselló. 32 Ci paiono<br />

poco verosimili le due teorie esposte da Giuseppina Cossu, secondo la quale<br />

o anche,<br />

Joan Armangué i Herrero<br />

si può sostenere che questi preziosi codici siano stati introdotti in Sardegna dal Rossellò<br />

direttamente dalla Spagna;<br />

che questi codici si trovassero già nell’Isola e fossero appartenuti alla sua famiglia<br />

che probabilmente aveva portato con sé questa biblioteca o parte della stessa, durante<br />

quell’imponente movimento migratorio da e verso la Sardegna.<br />

Infatti, la stessa autrice stabilisce un’eccezione a quest’ipotesi, ricordando<br />

la presenza degli Usatges de Barcelona nella biblioteca di Giovanni Francesco<br />

Fara; ed abbiamo già visto che il Consolat de mar, dal XIV secolo, doveva essere<br />

un testo fondamentale tra i funzionari consolari stabiliti nelle colonie catalane<br />

della Sardegna.<br />

Grazie a una serie di testi pubblicati da J. Madurell e J. Rubió nella loro raccolta<br />

di Documentos para la historia de la imprenta y librería en Barcelona, possiamo<br />

ricostruire, in modo sufficientemente approssimato, alcuni aspetti relativi al commercio<br />

di libri catalani a Cagliari, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento.<br />

Il notaio Galceran Ram, catalano residente nella capitale del Regno, firmò<br />

nel maggio del 1492 una «comandam librorum de stampa» indirizzata allo<br />

stampatore barcellonese Pere Posa, 33 lo stesso che due anni più tardi, come abbiamo<br />

visto, doveva pubblicare la copia del Consolat de mar conservata nella BUC.<br />

32 Montserrat Rosselló, proprietario di una buona parte degli incunaboli che in questa sede prendiamo<br />

in considerazione, nacque a Cagliari alla metà del Cinquecento. La sua conoscenza del<br />

catalano doveva essere perfetta, giacché, oltre ad essere questa la lingua della classe alta della<br />

città, alla quale apparteneva, egli stesso era figlio di un maiorchino immigrato. Fu nominato<br />

giudice della Reale Udienza nel 1593, e poco dopo Visitatore generale dell’isola. Esiste un’ottima<br />

descrizione della sua biblioteca, che contiene la trascrizione dell’inventario: Enzo CADONI –<br />

Maria Teresa LANERI, Umanisti e cultura classica nella Sardegna del ‘500. 3: L’inventario dei<br />

beni e dei libri di Monserrat Rosselló, Sassari, 1994, pp. 11-146.<br />

33 J. MADURELL – J. RUBIÓ, Documentos para la historia de la imprenta y librería en Barcelona,<br />

Barcelona, 1955, p. 202.<br />

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JOAN ROÍS DE CORELLA E GLI INCUNABOLI DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI CAGLIARI<br />

Sappiamo, inoltre, che nel 1504 risiedeva in Sardegna il libraio Galceran<br />

Sala e che nel 1511 vi morì il tedesco Heinrich Esquirol, 34 libraio di Barcellona<br />

che si era trasferito nell’isola per portare a termine la vendita di una partita di<br />

libri che l’anno prima gli aveva affidato il lionese Jean Clein: proprio lo stesso<br />

tipografo responsabile nel 1499 dell’edizione dei Sermones di san Vincenzo<br />

Ferrer, raccolti da Simon Bertherius, una copia dei quali era appartenuta al nobile<br />

cagliaritano Ignasi Aimerich, così come possiamo leggere nell’ex libris<br />

dell’incunabolo ancor’oggi conservato nella BUC. 35<br />

Bisogna tener conto che, secondo Madurell, Esquirol poteva aver fatto parte<br />

del personale di Joan Luschner che operava a Montserrat. Di questo stampatore<br />

si conservano nella BUC i seguenti incunaboli:<br />

5. BENEDICTUS [S.]: Regula. Montserrat, 1499. 36<br />

6. BONAVENTURA [S.]: De instructione novitiorum. De quattuor virtutibus<br />

cardinalibus. Montserrat, 1499. 37<br />

7. Aegidius COLUMNA: Epistola de frare Egidi roma al Rey de França sobre lo libre<br />

del regimen de princeps. Barcelona: Frank Ferber, 1498. 38<br />

8. Franciscus GARCIA DE CISNEROS, Exercitatorium vitae spiritualis. Directorium<br />

horarum canonicarum. Montserrat [c. 1500]. 39<br />

Tutti e quattro gli incunaboli recano l’ex libris di Montserrat Rosselló. Apparteneva<br />

pure alla biblioteca di questo umanista cagliaritano:<br />

9. Climent SÁNCHEZ DE VERCIAL: Lo sagramental arromançat ab ses alleguacions en<br />

latí. Lleida: Heinrich Botel, 1495. 40<br />

Recano invece quello del collegio gesuitico di Cagliari gli altri due unici<br />

incunaboli provenienti dalla Catalogna conservati nella BUC:<br />

34 Ivi, p. 387.<br />

35 BUC, inc. 175. Coni, 212; IGI, 10.285; Romero, 37.<br />

36 BUC, inc. 182 (ex libris di Montserrat Rosselló). Coni, 33; Gesamtkatalog, 3.830; Haebler, 46;<br />

IGI, 1.455; Palau, 256.322; Romero, 7.<br />

37 BUC, inc. 181 (ex libris di Montserrat Rosselló). Coni, 50; Gesamtkatalog, 4.736; Haebler, 62;<br />

IGI, 1.892; Palau, 290.245; Romero, 9. Secondo Palau, «consta se tiraron 800 ejemplares y<br />

existe en varias <strong>Biblioteca</strong>s públicas».<br />

38 BUC, inc. 51 (ex libris di Montserrat Rosselló). Aguiló, 1.884; Coni, 72; Gesamtkatalog, 7.221;<br />

Haebler, 157; IGI, 3.096; Palau, 276.511; Romero, 10. Secondo Palau, si tratta della ristampa di<br />

Barcelona dell’anno 1480.<br />

39 BUC, inc. 183-184 (ex libris di Montserrat Rosselló). Coni, 68; Haebler, 151; IGI, 3.003; Palau,<br />

98.633, 99.636; Romero, 17.<br />

40 BUC, inc. 54 (ex libris di Montserrat Rosselló). Coni, 183; Haebler, 600; IGI, 10.148; Romero, 29.<br />

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Joan Armangué i Herrero<br />

10. ALBERTUS MAGNUS [S.]: Philosophia pauperum [Lleida: Heinrich Botel, c. 1485]. 41<br />

11. SAMUEL DE FEZ [SAMUEL MAROCCANUS]: Epistola ad rabbi Isaac contra Judaeorum<br />

errores, trad. Alphonsus Boni Hominis. PONTIUS PILATUS, Epistola Tiberio<br />

[Barcelona: Paul Hurus e Joan de Salisburgo, c. 1475. 42<br />

La pochezza dei dati relativi alla presenza di librai catalani in Sardegna, che<br />

tuttavia gettano un po’ di luce sul commercio di libri con la Catalogna, diventa<br />

un vuoto documentale completo se consideriamo il caso valenzano. Nessuna<br />

notizia, in effetti, fa chiarezza sulla presenza nella BUC dei seguenti incunaboli<br />

valenzani:<br />

12. AESOPUS: Fabulae, trad. Laurentius Valla. Lope de la Roca, 1495. 43<br />

13. BERNARDUS [S.] CLAREVALLENSIS: Epistola de gubernatione rei familiaris. Nikolaus<br />

Spindeler [c. 1495]. 44<br />

14. PHALARIS: Epistolae. Nikolaus Spindeler, 1496. 45<br />

15. BERNAT FENOLLAR: Historia de la passió. [Peter Hagenbach e Leonard Hutz], ed.<br />

Jaume de Vila, 1493. 46<br />

Per quanto riguarda i libri di Esopo e di san Bernardo di Chiaravalle, bisogna<br />

considerare che Palau si riferisce unicamente alle copie conservate nella<br />

BUC allorché descrive le rispettive edizioni (n. 81.831 e n. 290.148). Giova<br />

ricordare, ancora, che nell’inventario della biblioteca del nobile algherese<br />

Bartolomeo Simon, 47 padre di quel Gianfrancesco che alla fine del XVIII secolo<br />

portò dall’Italia continentale una copia della Carta de logu, vi figura un «Isopo,<br />

41 BUC, inc. 113. Coni, 3; Gesamtkatalog, 710; Haebler, 9; IGI, 219; Palau, 5.204; Romero, 2.<br />

Secondo Palau, «Ernst examinó ejemplares en las <strong>Biblioteca</strong>s Nacional de Madrid, Provincial<br />

de Huesca, y Catedral de Zaragoza».<br />

42 BUC, inc. 200.Coni, 181; IGI, 8.576; Palau, 289.196; Romero, 27. Secondo Palau, nel 1890<br />

Miquel Roura aveva descritto una copia di questo incunabolo, «como perteneciente a la <strong>Biblioteca</strong><br />

de Mahón». Franco Coni afferma che si tratta di «uno dei primi libri stampati in Ispagna,<br />

forse il primo stampato a Barcellona».<br />

43 BUC, inc. 131. Coni, 2; Gesamtkatalog, 325; Haebler, 5; IGI, 79; Romero, 1.<br />

44 BUC, inc. 132 (ex libris di Montserrat Rosselló). Coni, 33; Gesamtkatalog, 3.830; Haebler, 46;<br />

IGI, 1.455; Romero, 7.<br />

45 BUC, inc. 130 (ex di libris Montserrat Rosselló). Coni, 157; Haebler, 548; IGI, 7.703;<br />

Romero, 24.<br />

46 BUC, inc. 143 (ex libris di Montserrat Rosselló). Aguiló 893; Coni, 87; Haebler, 259; IGI,<br />

3.819; Romero, 14.<br />

47 Per quanto riguarda i dati di carattere strettamente biografico, rimandiamo il lettore a Pasquale<br />

TOLA, Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, ossia storia della vita pubblica<br />

e privata di tutti i sardi che di distinsero per opere, azioni, talenti, virtù e delitti, 3 voll., Torino,<br />

1837-1838 [rist. anastatica: Bologna, 1966], s.v.; e Beppe SECHI COPELLO, Conchiglie sotto un<br />

ramo di corallo. Galleria di ritratti algheresi, Alghero, 1987, s.v.<br />

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JOAN ROÍS DE CORELLA E GLI INCUNABOLI DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI CAGLIARI<br />

in spagnuolo: Favole». 48 L’espressione «in spagnuolo» può corrispondere sia al<br />

catalano che al castigliano, dal momento che il compilatore dell’inventario la<br />

utilizza anche nel caso del Prior, ossia il Llibre dels secrets de Agricultura,<br />

casa Rustica y Pastoril, di fra Miquel Agustí, evidentemente redatto in catalano.<br />

Per quanto riguarda la Història de la passió (Lo Passi en cobles), Palau si<br />

riferisce unicamente alle copie delle biblioteche Universitaria di Barcellona, di<br />

Valenza e Colombina di Siviglia (n. 87.667), senza ricordare quella della BUC.<br />

È così che troviamo il primo riferimento relativo alla presenza dell’opera di<br />

Roís de Corella in Sardegna. Effettivamente, Lo Passi en cobles include una<br />

Oracio a la sacratissima verge maria tenint son fill deu Jesus en la falda deuallat<br />

dela creu, ordenada per lo molt Reuerent mestre Mossen Corella; orazione che<br />

venne anche riprodotta alla fine dell’ultimo libro del Cartoixà.<br />

Oltre ai tre volumi di questa opera custoditi nella BUC, dobbiamo tener conto<br />

che nella biblioteca del patrizio algherese Bartolomeo Simon, alla quale ci siamo<br />

già riferiti, figurava una «Vita di Sant’Anna, in spagnuolo», attualmente irreperibile.<br />

Così come segnalato più sopra, il copista dell’inventario non distingueva tra<br />

catalano e castigliano quando considerava redatti «in spagnuolo» i libri che registrava,<br />

di modo che in questo caso poteva riferirsi sia al libro di Juan de Robles,<br />

La vida y excelencias y miraglos de Santa Anna, 49 che a quello di Joan Roís de<br />

Corella, Historia de la gloriosa sancta Anna, dovuto allo stampatore valenzano<br />

Lambert Palmart, che dovremmo datare tra gli anni 1480-1485. 50<br />

Conviene ricordare che per la stesura di questa Vida (1461-1471) Roís de<br />

Corella aveva seguito la Legenda aurea di Iacopo da Varazze, dove la Madonna<br />

diventa sorellastra di Maria di Cleofa e, contemporaneamente, di Maria Salomè: 51<br />

48 L’edizione più antica delle Faules di Esopo che cita Palau è Esta es la vida del ysopet con sus<br />

fabulas hystoriadas, Çaragoça, Iohan hurus alaman de costancia, 1489 (n. 81.877). La versione<br />

catalana più antica è: Llibre del savi e clarissim fabulador Ysop, Barcelona, Joan Carles Amorós,<br />

1550) (n. 81.970; Aguiló, 2.154). Cfr. l’inventario dei libri di Bartolomeo Simon in Joan ARMANGUÉ,<br />

Llengua i cultura a l’Alguer durant el segle XVIII: Bartomeu Simon, Barcelona, 1996, Appendice 6.<br />

49 Juan DE ROBLES, La vida y excelencias y miraglos de Santa Anna y dela gloriosa nuestra señora<br />

Santa Maria hasta la edad de quatroze años, Sevilla, Jacobo Croberger, 1511. Palau, 271.161.<br />

50 Palau, 362.931; Aguiló, 1.071.<br />

51 Conosciamo, oltre a quello di Maria Maddalena, alcuni dei nomi delle donne galilee che «che<br />

guardavano da lontano», donne «che avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo» (Mt 27,<br />

55-56): «Giovanna, moglie di Cusa, sovrintendente di Erode, Susanna e molte altre», fra cui<br />

«Maria di Giacomo», secondo il vangelo di Luca (Lc 8, 3; 24, 10); e secondo Matteo e Marco<br />

«Maria madre di Giacomo e di Giuseppe e la madre dei figli di Zebedeo» (Mt 27, 56), ossia<br />

«Maria di Cleofa» la prima (Gn 19, 25), «Salomè» la seconda (Mc 15, 40). In mezzo a questa<br />

complessità di figure femminili, gli unici nomi comuni ai quattro vangeli appartengono a Maria<br />

Maddalena e Maria di Cleofa, le quali, talvolta con «Maria Salomè», formano il gruppo conosciuto<br />

dalla tradizione come «le tre Marie».<br />

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Joan Armangué i Herrero<br />

si chiarisce così la triade delle Marie e il grado di parentela che univa Gesù ad<br />

alcuni apostoli, fra cui Giovanni Evangelista – marito della Maddalena! 52 Anche<br />

il certosino Ludolfo di Sassonia nella sua famosa Vita Christi, tradotta in<br />

catalano da Roís de Corella, segue questa antica tradizione, per cui nel capitolo<br />

XXV del primo libro, la Maddalena era infatti la sposa delle nozze di Cana, e<br />

san Giovanni Evangelista lo sposo.<br />

L’Indice Generale degli Incunaboli delle biblioteche d’Italia descrive nel<br />

seguente modo i tre incunaboli di Roís de Corella della BUC:<br />

16. LUDOLPHUS DE SAXONIA: Vita Christi, trad. Joan Roís de Corella. València [Christoph<br />

Kofmann], 1500 [= Segon del Cartoixà]. 53<br />

17. LUDOLPHUS DE SAXONIA: Vita Christi, trad. Joan Roís de Corella. València, Lope de<br />

la Roca, 1495 [= Terç del Cartoixà]. 54<br />

18. LUDOLPHUS DE SAXONIA: Vita Christi, trad. Joan Roís de Corella [= Quart del<br />

Cartoixà, 1495]. 55<br />

È probabile che alcune delle descrizioni di questi incunaboli non siano state<br />

compilate in seguito alla diretta osservazione degli originali. Coni, per esempio,<br />

attribuisce la traduzione di queste Meditationes vitae Christi a «Jean Roiz».<br />

D’altra parte, Ornella Gabbrielli e Marina Romero fanno sapere al lettore del<br />

loro catalogo che «per la descrizione degli incunaboli, attualmente non<br />

consultabili per i lavori di restauro in corso nella <strong>Biblioteca</strong>, si è ricorso alle<br />

indicazioni dell’Indice Generale degli Incunaboli delle biblioteche d’Italia». 56<br />

Le descrizioni esistenti, d’altra parte, non tengono conto di certe note manoscritte<br />

che possono costituire un buon documento sugli usi linguistici dei primi<br />

possessori degli incunaboli. Il Terç del Cartoixà, per esempio, è pieno di avvisi<br />

come il seguente: «Lo present evangeli se diu lo segon dia de coresma». In<br />

queste note troviamo spesso gravi incertezze ortografiche, con una possibile<br />

influenza sia castigliana («domigna») che italiana («della»).<br />

52 Cfr. la versione italiana del capitolo relativo a santa Maria Maddalena (§ XCVI) in Iacopo DA<br />

VARAZZE, Legenda aurea, Einaudi, Torino, 1995, pp. 516-526.<br />

53 BUC, inc. 58 (ex libris di Montserrat Rosselló). Aguiló, 883; Coni, 123; Haebler, 375; IGI,<br />

5.881; Romero, 23.<br />

54 BUC, inc. 59 (ex libris di Montserrat Rosselló). Aguiló, 884; Coni, 121; Haebler, 375; IGI,<br />

5.880; Romero, 21.<br />

55 BUC inc. 60 (ex libris di Montserrat Rosselló). Aguiló, 880, 881, 885; Coni, 122; Haebler, 377;<br />

IGI, 5.880; Romero, 22.<br />

56 O. GABRIELLI – M. ROMERO, Catalogo degli antichi fondi spagnoli della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria<br />

di Cagliari, Pisa, 1982, p. 16.<br />

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JOAN ROÍS DE CORELLA E GLI INCUNABOLI DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI CAGLIARI<br />

Tornando a Montserrat Rosselló, antico proprietario di questi inconaboli,<br />

bisogna tener conto che, sfortunatamente, nella copia dell’inventario della sua<br />

biblioteca, 57 ordinato alfabeticamente, manca un quaderno (quello che conteneva<br />

una parte delle lettere «L» e «M»), e non vi constano le traduzioni di Joan<br />

Roís de Corella, probabilemente classificate sotto il nome dell’autore della Vita<br />

Christi, Ludolfo di Sassonia.<br />

57 Cfr. E. CADONI – M. T. LANERI, Umanisti e cultura classica nella Sardegna del ‘500. 3: L’inventario<br />

dei beni e dei libri di Monserrat Rosselló cit.<br />

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IL FASCISMO AD ALGHERO.<br />

ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />

Marcello A. Farinelli<br />

Universitat Pompeu Fabra – Barcellona<br />

Per molto tempo la storia del fascismo è stata interpretata secondo la prospettiva<br />

del contrasto politico generale tra destra e sinistra, tra forze rivoluzionarie o<br />

progressiste e forze reazionarie o conservatrici. 1 Interessarsi alla storia di Alghero<br />

durante il regime fascista risulta, da questa prospettiva, poco interessante, ed in<br />

effetti l’opinione diffusa è che, sempre da questo punto di vista, ad Alghero non<br />

sia successo praticamente niente. Se invece consideriamo l’importanza del fascismo<br />

per quanto riguarda l’identità degli italiani, tra i quali gli algheresi, ecco che<br />

si scopre come durante quegli anni qualcosa, in effetti, sia successo, e questo<br />

qualcosa era legato alla maniera di identificarsi totalitaria proposta dal fascismo. 2<br />

Fino ad ora, però, sembra che questo aspetto, tanto nella macrostoria del<br />

fascismo italiano, come nella microstoria di Alghero, sia stato poco considerato,<br />

e per rimanere nel nostro ambito, quello della microstoria, possiamo citare<br />

due autori che hanno individuato in questo un periodo importante, anche se non<br />

si riferiscono esplicitamente al concetto di identità.<br />

Rafael Caria, sia in alcune sue opere, sia durante le occasioni nelle quali ho<br />

avuto il privilegio di parlargli, sembra riconoscere nel regime fascista un momento<br />

nel quale si iniziò ad affermare una certa colpevolizzazione/autocolpevolizzazione<br />

di chi parlava il catalano di Alghero, un primo passo verso un<br />

cambio nelle abitudini linguistiche della popolazione. 3 Sulla stessa lunghezza<br />

d’onda rimane Eduard Blasco i Ferrer, che sottolinea come fu durante il fascismo<br />

che si cominciò ad imporre, nelle classi popolari, l’italiano, allo stesso<br />

tempo in cui cresceva il numero dei nuovi arrivati che, in prevalenza sardi,<br />

emiliani e veneti, incrinavano la compattezza linguistica del territorio. 4<br />

1 Per una rassegna critica delle interpretazioni classiche del fascismo, cfr.: R. DE FELICE, Le interpretazioni<br />

del fascismo, Bari, Laterza, 1974 (1969).<br />

2 Sull’importanza dei legami tra fascismo, nazionalismo ed identità, cfr.: E. GENTILE, Le origini<br />

dell’ideologia fascista, Bologna, Il Mulino, 1996 (1975); La Grande Italia, Bari-Roma, Laterza,<br />

2006, pp. 155-241.<br />

3 R. CARIA (ed.), L’Alguer. Un popolo catalano d’Italia, Sassari, Gallizzi, 1981, pp. 28-30.<br />

4 E. BLASCO I FERRER, Il catalano di Alghero nei secoli XIX e XX, in A. MATTONE – P. SANNA (eds.),<br />

Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo, Sassari, Gallizzi, 1994, pp. 691-699 (si veda p. 692).<br />

67<br />

<strong>INSULA</strong>, num. 6 (dicembre 2009) 67-92<br />

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68<br />

I due autori citati si riferiscono alla lingua, ed alle abitudini linguistiche<br />

della popolazione, nel tentativo di spiegare come questa abbia potuto passare<br />

dalla catalanofonia prevalente degli anni venti all’italianofonia dei nostri tempi;<br />

il nostro interesse risiede nell’identità, per la quale la lingua risulta essere molto<br />

importante, anche se è solo uno dei fattori che la costituiscono. Il nostro concetto<br />

di identità, è bene specificarlo, non è quello di una realtà fissa e predeterminata,<br />

ma piuttosto quello di una costruzione, in buona parte culturale, che è soggetta<br />

a mutazioni nel tempo, che può essere accettata o meno da un individuo e che<br />

può essere, in qualche modo, manipolata. Questa costruzione è come una lente<br />

attraverso la quale guardare il mondo, e si trova alla base di diverse visioni della<br />

realtà e di diversi movimenti politici, in particolar modo quelli ispirati, genericamente,<br />

al nazionalismo; tra questi possiamo includere tanto il catalanismo,<br />

ossia il movimento politico e culturale nato in Catalogna durante il XIX secolo in<br />

difesa della specificità di quelle terre rispetto al resto della Spagna, quanto quello<br />

fondato da Benito Mussolini quasi un secolo più tardi. Malgrado le differenze<br />

enormi, entrambi ponevano l’identità al centro del proprio discorso politico.<br />

In base a questa premessa intendiamo interpretare il fenomeno fascista ad<br />

Alghero, ed in particolare cercheremo, in questo articolo, di vedere se la dittatura<br />

delle camicie nere ha cercato d’influire o no sull’identificazione degli algheresi,<br />

e se ha condotto o meno una repressione, sia della lingua che di quanti difendevano<br />

la catalanità di questo territorio. Una risposta che ci porta, inevitabilmente,<br />

a considerare quale posizione tennero i catalanisti algheresi (o algheresisti<br />

secondo alcuni), ovvero quel ridotto gruppo di persone che, seguendo l’esempio<br />

dei catalanisti continentali, si dedicava, sin dalla fine del XIX secolo, alla<br />

valorizzazione ed al recupero della lingua locale (algherese o catalano di<br />

Alghero), e quindi, più o meno coscientemente, contribuiva a formare l’identità<br />

catalana di questa cittadina periferica.<br />

La politica del regime rispetto alle minoranze linguistiche<br />

Marcello A. Farinelli<br />

Uno dei propositi del fascismo era la realizzazione piena degli ideali del Risorgimento,<br />

e quindi il movimento si propose fin dalle sue origini di portare a<br />

termine sia il processo di unificazione dei territori considerati italiani, sia quello<br />

di diffusione dell’identità nazionale; in effetti la nascita del Regno d’Italia (1861)<br />

fu interpretata da alcune correnti politiche come un tradimento degli ideali risorgimentali,<br />

poiché non solo una parte dei territori rivendicati come nazionali<br />

si trovava in mani straniere (in particolare Venezia, annessa nel 1866, l’Istria e<br />

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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />

la Dalmazia, parzialmente annesse dopo la Grande Guerra, e infine Nizza, la Savoia<br />

e la Corsica, che facevano parte, come oggi, della Repubblica Francese), ma<br />

soprattutto non si verificò quella rivoluzione nazionale della quale parlavano soprattutto<br />

mazziniani e repubblicani, e che avrebbe dovuto coinvolgere le masse<br />

nel processo di unificazione con la conseguenza fondamentale di popolarizzare<br />

un’identità omogenea per tutto il Paese. Il risultato di questa mancata partecipazione<br />

delle masse fu che, quando il fascismo prese il potere, gli italiani, nonostante<br />

si trovassero uniti da circa sessant’anni, in buona parte faticavano ancora a<br />

sentirsi come cittadini di un’unica nazione; la lingua italiana, per esempio, era<br />

effettivamente diffusa soltanto tra le classi dirigenti e tra le popolazioni delle grandi<br />

città, mentre la maggior parte della popolazione parlava una serie di idiomi diversi<br />

dall’italiano (ufficialmente considerati dialetti), ma soprattutto, a parte la Prima<br />

Guerra Mondiale terminata pochi anni prima, non esisteva un avvenimento storico<br />

intorno al quale gravitasse l’orgoglio nazionale; l’Italia più che una nazione<br />

con minoranze era una nazione con una identità minoritaria, quella italiana, dentro<br />

un mare di identità di dimensioni, origini e consistenza molto diverse tra loro,<br />

che ancora la nuova nazione doveva integrare ed assorbire.<br />

Il fascismo, dunque, a partire da questa interpretazione del Risorgimento<br />

come atto mancato si propose di completare l’opera, e come aveva indicato<br />

Massimo D’Azeglio immediatamente dopo l’unificazione, Mussolini si propose<br />

letteralmente di «fare gli italiani»; per questo motivo, una volta al potere, il<br />

Duce mise in marcia una politica d’italianizzazione che era indirizzata in modo<br />

particolare alle nuove generazioni e perciò faceva affidamento soprattutto sull’educazione,<br />

sia scolastica che extra scolastica, e della quale, quindi, erano<br />

strumenti privilegiati non solo la riforma della scuola, ma anche le organizzazioni<br />

giovanili del Partito Nazionale Fascista (PNF) e l’intensa propaganda presente<br />

in tutti i campi della cultura. Secondo questo punto di vista il fascismo fu<br />

un periodo caratterizzato da una imponente espansione dell’identità italiana, in<br />

alcuni casi definitiva, che riguarda tutto il territorio nazionale, nel tentativo di<br />

portare a compimento la costruzione della nazione italiana.<br />

Quest’opera d’italianizzazione fu rivolta soprattutto a quei gruppi considerati<br />

estranei alla nazione, e quindi alle minoranze etniche, per usare la terminologia<br />

dell’epoca. Questo status era ufficialmente riconosciuto soltanto a quelle<br />

popolazioni che vivevano nelle nuove province annesse grazie alla vittoria nella<br />

Prima Guerra Mondiale, dove era forte la presenza di comunità d’etnia tedesca,<br />

serbo-croata e slovena, e che erano concentrate rispettivamente nell’attuale<br />

regione del Trentino-Alto Adige/Sud Tirolo, nei dintorni della città di Trieste e<br />

nella penisola dell’Istria.<br />

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Marcello A. Farinelli<br />

A queste comunità s’aggiungevano altre che non si considerava differissero<br />

etnicamente dagli italiani, ma piuttosto per fattori linguistici, come per esempio<br />

le popolazioni della Valle d’Aosta, che ancora oggi parlano il francoprovenzale<br />

o arpitano, o le diverse comunità sparse per il sud della penisola dove tuttora<br />

resiste una varietà del greco (griko o grecanico) e dell’albanese (arbëreshë). A<br />

parte queste realtà, tutte le altre minoranze non riconosciute dallo Stato italiano<br />

non sembrano aver ottenuto un’attenzione particolare, almeno secondo quanto<br />

afferma Gabriella Klein, l’unica ad essersi occupata dell’argomento in maniera<br />

professionale. 5 Malgrado la Klein parli soprattutto dell’etnia tedesca, ed in minor<br />

misura di quella serbo-croata e slovena, la sua analisi risulta essere un ottimo<br />

punto di partenza per il nostro discorso, grazie alla quale ricaviamo un’idea<br />

dell’atteggiamento del fascismo verso le minoranze, molto utile per verificare<br />

l’applicazione o meno di queste iniziative al nostro caso.<br />

È possibile riassumere la politica fascista con questa citazione di un quotidiano<br />

sud-tirolese del 1928, che rispetto alla comunità tedesca diceva: «I tedeschi<br />

in Alto Adige non rappresentano una minoranza nazionale, ma una reliquia<br />

storica». 6 La politica d’italianizzazione di queste minoranze da poco entrate a<br />

far parte della nazione fu, in effetti, dura, e tra il 1923 ed il 1929 s’impose<br />

l’italiano come lingua ufficiale e d’uso pubblico in tutti i campi, anche se in<br />

maniera graduale e con intensità differente a seconda delle situazioni; dalla pubblica<br />

amministrazione fino al commercio, dalla toponomastica alle epigrafi, l’italiano<br />

fu imposto, malgrado le difficoltà che la scarsa conoscenza di questa lingua<br />

da parte delle popolazione comportava, e senza far caso, naturalmente,<br />

alle proteste. 7 Il regime, però, non fu completamente libero di agire in questo<br />

campo, e nel caso delle comunità germanofone la sua azione fu influenzata<br />

dalle relazioni internazionali, ed in particolare dalla riconciliazione con l’Austria<br />

(1934) e dal sempre più stretto rapporto con la Germania Nazista, che<br />

imposero un certo livello di tolleranza. Le istituzioni fasciste, dunque, in un<br />

certo senso non portarono avanti una cieca repressione, ma si limitarono ad<br />

una azione legislativa e sanzionatoria che, senza dubbio, mirava<br />

all’italianizzazione completa; al posto degli apparati dello Stato, furono le<br />

squadre di camicie nere che si incaricarono di perseguitare chi protestava contro<br />

tali politiche e si dimostrava non italiano, una circostanza che si verificò in<br />

particolare nelle aree abitate da comunità slovene e serbo-croate.<br />

5 G. KLEIN, La politica linguistica del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1986.<br />

6 Ivi, p. 70.<br />

7 Ivi, pp. 91-110.<br />

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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />

Nel campo scolastico la politica d’italianizzazione non comportò, contrariamente<br />

a quanto si possa pensare, la repressione di qualsiasi lingua che non fosse<br />

quella ufficiale, almeno nei primi anni del regime. Infatti durante i primi mesi<br />

del governo Mussolini, quando ancora la dittatura non si era instaurata e il fascismo<br />

era considerato da molti come una breve parentesi autoritaria finalizzata<br />

alla restaurazione dell’ordine sociale e del potere dello Stato, fu riorganizzato il<br />

sistema scolastico; la Riforma Gentile, dal nome del filosofo che, in qualità di<br />

Ministro dell’Educazione la elaborò e varò durante il 1923, rispetto al problema<br />

linguistico poneva due priorità, la lotta all’analfabetismo e la diffusione<br />

della lingua italiana, senza però assumere un atteggiamento demonizzante nei<br />

confronti sia dei dialetti, sia delle lingue minoritarie. 8 Una tale impostazione<br />

permetteva l’applicazione di un metodo d’insegnamento dell’italiano che utilizzava<br />

il dialetto o la lingua minoritaria per facilitare, nell’alunno, la comprensione<br />

delle strutture grammaticali della lingua ufficiale; era un sistema proposto<br />

dallo stesso Alessandro Manzoni e in uso fino alla fine del XIX secolo, che peraltro<br />

aveva generato un’interessante produzione di grammatiche e dizionari dei<br />

diversi idiomi parlati nel Paese. Il metodo, nonostante fosse stato proposto dal<br />

principale responsabile della normalizzazione linguistica dell’italiano, incontrava<br />

l’opposizione dei puristi della lingua e dei nazionalisti, cosicché ai principi<br />

del XX secolo fu abbandonato, almeno ufficialmente. Curiosamente, fu il primo<br />

Governo fascista a far sì che la scuola tornasse ad utilizzare lingue minoritarie<br />

e dialetti per insegnare l’italiano, sicuramente perché si trattava di un metodo<br />

efficace, ma anche perché il prestigio internazionale che Gentile dava al fascismo<br />

non permetteva, per il momento, di contraddire le sue idee.<br />

Malgrado quanto si è detto, la politica linguistica fascista andò progressivamente<br />

verso un’italianizzazione totalitaria, prima rispetto alle minoranze riconosciute,<br />

e poi verso tutte quelle che non lo erano affatto. Già dal 1925 si proibì,<br />

nei territori da poco entrati a far parte della nazione, che nelle scuole pubbliche<br />

fosse insegnata la lingua minoritaria, un’opzione che la riforma Gentile permetteva<br />

(sempre che la maggioranza dei genitori degli alunni ne facesse esplicita<br />

richiesta); anche l’insegnamento privato in lingua non italiana fu, se non proibito<br />

esplicitamente, ostacolato in tutti i modi, prima nel Sud Tirolo (1923) e poi<br />

nella Valle d’Aosta (1926); al contrario, non sembra che in altre aree del Paese<br />

esistessero scuole private finalizzate all’insegnamento della lingua locale, come<br />

per esempio non ne esistevano tra le comunità albanesi del sud Italia. Fu duran-<br />

8 Sulla lotta all’analfabetismo durante il xx secolo, cfr.: E. DE FORT, Scuola e analfabetismo nell’Italia<br />

del ‘900, Bologna, Il Mulino, 1995.<br />

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Marcello A. Farinelli<br />

te gli anni trenta che, in sintonia con la generale radicalizzazione del regime,<br />

maturò un’opposizione netta a qualsiasi idioma diverso da quello nazionale, sia<br />

che si trattasse di una parlata locale che di una lingua straniera. Nel 1930 si vietò<br />

l’utilizzazione del dialetto nei titoli dei film, l’anno dopo se ne proibì l’uso in<br />

qualsiasi pubblicazione, fino ad arrivare nel 1934 alla proibizione del dialetto<br />

nell’insegnamento pubblico; con questa decisione si metteva fine, un’altra volta,<br />

all’applicazione del metodo proposto, a suo tempo, da Manzoni. Poi la Guerra<br />

d’Etiopia (1935-1936) e la costruzione dell’Impero portarono letteralmente alla<br />

xenofobia linguistica, fino ad arrivare all’istituzione di una Commissione per<br />

l’Italianità della Lingua, in seno alla Reale Accademia d’Italia, con lo scopo di<br />

vigilare sulla purezza della lingua e di proporre la versione italiana di ogni<br />

barbarismo in uso in quegli anni. 9 In questo clima si arrivò a cambiare addirittura<br />

i nomi di alcune città, come per esempio Olbia per Terranova Pausania o Agrigento<br />

per Girgenti, in un’ipotetica lotta per l’autarchia e la purezza linguistica.<br />

Dunque è facile rendersi conto di come il regime, per quanto riguarda la<br />

politica contraria alle minoranze nazionali, evolva verso soluzioni sempre più<br />

radicali, in particolare durante gli anni trenta. Il punto culminante di questo<br />

atteggiamento lo si può trovare durante la Seconda Guerra Mondiale, e precisamente<br />

nelle politiche di occupazione dei nuovi territori annessi durante la guerra,<br />

nei quali l’italianizzazione fu realizzata in maniera radicale, addirittura con<br />

la deportazione delle popolazioni e l’imposizione forzata dell’italiano. 10 Si tratta<br />

di misure applicate nell’ambito di una logica di guerra e che dunque possono<br />

sembrare più radicali di quelle applicate in patria, ma, come suggerisce Philippe<br />

Burrin per quanto riguarda la Germania Nazista, questa radicalità dipende dall’impossibilità<br />

in patria di applicare l’ideologia fino alla estreme conseguenze,<br />

a causa dei limiti che il regime, per quanto totalitario, trovava nell’ordinamento<br />

giuridico preesistente o in alcune istituzioni; secondo questa lettura dei fatti le<br />

politiche messe in atto nei territori occupati erano una sorta di prova generale di<br />

quanto si sarebbe fatto nella madre patria alla fine della guerra, quando il nuovo<br />

ordine sarebbe stato imposto a tutta l’Europa. 11 In altre parole, se il fascismo<br />

non ha agito in maniera drastica nel Sud Tirolo così come fece in Dalmazia<br />

durante la sua occupazione (1941-1943) non è perché non volesse una<br />

9 G. KLEIN, La politica linguistica del fascismo cit., pp. 193-197. Si tratta di un esempio di una<br />

lista di barbarismi e parole straniere con relativa versione italianizzata.<br />

10 Relativamente a questo aspetto cfr.: D. RODOGNO, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di<br />

occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Torino, Bollati Boringheri, 2003, pp.<br />

231-431.<br />

11 P. BURRIN, Fascisme, nazisme, autoritarisme, Éditions du Seuil, 2000, pp. 112-113.<br />

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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />

italianizzazione radicale, ma perché semplicemente non poteva, giacché la Chiesa,<br />

lo stesso ordinamento giuridico e i rapporti con Austria e Germania lo impedivano;<br />

al contrario, in un territorio annesso di recente l’ideologia del regime poteva<br />

avere la possibilità di essere applicata fino alle sue estreme conseguenze.<br />

Il regime e la ‘catalanità’ di Alghero<br />

Gli abitanti di Alghero non erano considerati ufficialmente una minoranza, e<br />

quindi non furono oggetto di una particolare politica repressiva, come è invece<br />

avvenuto nei casi che abbiamo appena finito di descrivere; ad ogni modo, che<br />

nella città fosse diffusa una variante del catalano era una realtà ben conosciuta,<br />

anche perché fu proprio un filologo italiano, Pier Enea Guarnerio (1854-1919),<br />

che alla fine del XIX secolo dimostrò che l’idioma parlato ad Alghero era un<br />

dialetto della lingua catalana. 12 Grazie a questo aspetto la città doveva essere,<br />

nell’immaginario collettivo degli italiani, una curiosità folcloristica, tanto che<br />

durante gli anni venti e trenta sono molti gli scrittori che parlano delle sue radici<br />

catalane, come possiamo leggere in un articolo di un importante quotidiano<br />

catalano dell’epoca, La Veu de Catalunya, dove venivano riportate alcune citazioni<br />

di autori italiani su Alghero, tra i quali spicca il nome di D’Annunzio. 13<br />

Davanti a questa situazione di scarsa italianità, se così possiamo dire, il<br />

regime si comportò così come fece per altre situazioni simili presenti nel resto<br />

del Paese; il caso algherese, dunque, rientrava nella normale opera<br />

d’italianizzazione e fascistizzazione alla quale era sottoposto tutto il Paese,<br />

un’opera che, ovviamente, era più intensa in aree periferiche come la Sardegna;<br />

la realizzazione di tali obiettivi era affidata in buona parte all’educazione, ed è<br />

perciò dalla scuola che bisogna cominciare l’analisi delle politiche messe in<br />

campo dal regime per italianizzare definitivamente gli algheresi.<br />

Come abbiamo già detto il sistema scolastico permetteva, tra il 1923 ed il<br />

1934, l’uso del dialetto per insegnare la lingua italiana, però non dobbiamo<br />

pensare che ciò fosse dovuto a una qualche volontà di salvaguardia della lingua<br />

e delle tradizioni locali; al contrario, lo scopo era quello di diffondere la lingua<br />

nazionale. Infatti, da un’analisi dei registri scolastici dell’epoca emergono molti<br />

riferimenti a questo aspetto, e per esempio in un registro di prima elementare<br />

12 P. E. GUARNERIO, Il dialetto catalano di Alghero, in «Archivio Glottologico Italiano», vol. 9, pp.<br />

262-364, Torino, Loescher, 1886.<br />

13 Almanac Literari. Alguer, in «La Veu de Catalunya», 29 marzo 1933 (edizione della sera).<br />

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Marcello A. Farinelli<br />

si può leggere, tra gli obiettivi didattici: «Lingua: sostituzione di quella italiana<br />

a quella dialettale». 14<br />

Questa sostituzione pianificata tramite la scuola ci dà un’idea, sia di quale<br />

era la diffusione del catalano di Alghero, sia di quali dimensioni avesse assunto<br />

questa problematica davanti alle istituzioni. Lo scopo di una simile politica didattica<br />

era quello di disprezzare la lingua locale e di associarla ad una condizione<br />

d’ignoranza; si tratta di una situazione che fece maturare nei catalanoparlanti<br />

una specie di complesso di inferiorità, che nel dopoguerra avrà pesanti conseguenze<br />

sui meccanismi di diffusione della lingua. 15 Questa politica si fece man<br />

mano più estrema, fino ad arrivare al 1934 quando, in un tentativo di sradicare<br />

definitivamente ogni idioma differente dall’italiano, si vietò l’uso del dialetto<br />

nelle scuole, con la conseguenza di creare grosse difficoltà a tutti quegli insegnanti<br />

che, non essendo originari di Alghero, spesso non capivano i propri alunni<br />

(nei registri di classe dell’epoca gli insegnanti non algheresi sottolineano<br />

come questa sia la difficoltà maggiore che abbiano incontrato).<br />

Per quanto riguarda le scuole private dedicate all’insegnamento in lingua<br />

catalana non ci risulta che in quel periodo ne esistessero, ma soprattutto il catalano<br />

di Alghero non era utilizzato, ufficialmente, in nessuna istituzione, tanto pubblica<br />

che privata; malgrado ciò il Prefetto della Provincia di Sassari ed il Podestà<br />

di Alghero si preoccuparono, a partire dal 1928, di chiudere una sorta di scuole<br />

private, che nei documenti vengono dette costures («custuras» negli originali). 16<br />

In realtà, più che delle scuole private erano degli asili popolari abbastanza diffusi,<br />

ed erano organizzati esclusivamente da donne che ospitavano i bambini<br />

nella propria casa, nelle quale svolgevano anche lavori di sartoria, e da qui<br />

deriverebbe il nome. Le autorità motivano la decisione di vietare questa pratica<br />

sia per le pessime condizione igieniche dei locali che ospitano le costures, sia<br />

per l’imminente apertura di un asilo nido comunale. Malgrado le motivazioni<br />

ufficiali, la semplice constatazione che questa sorta di asili nido fossero gestiti e<br />

utilizzati da classi popolari – dunque prevalentemente catalanoparlanti – ci fa<br />

supporre che le autorità fossero preoccupate anche da un’educazione fuori dal<br />

loro controllo, e quindi non italiana e non fascista.<br />

14 Archivio di Stato di Sassari (ASS), Registri scolastici di Alghero, a.s. 1930-31, Classe I Elementare<br />

Maschile, Ins. Stefano Uleri.<br />

15 G. SARI, Poesia algherese del ‘900, in C. CALISAI (ed.), Sulle orme dei versi – Camí de versos.<br />

Antologia di poeti algheresi dal 1720 ai giorni nostri, Alghero, Panoramika, 2005, pp. 82-121<br />

(si veda p. 91).<br />

16 Archivio Storico del Comune di Alghero (ASCA), reg. 884/23/2.<br />

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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />

Nonostante l’azione del regime, le costures continuarono a funzionare anche<br />

durante gli anni trenta in modo clandestino, spesso camuffate da ripetizioni<br />

private; in ogni caso, lo ripetiamo, non si trattava di vere e proprie scuole, e la<br />

loro permanenza, malgrado i divieti del Prefetto, non sembra si possa interpretare<br />

come resistenza alla sostituzione linguistica, ma piuttosto come una necessità<br />

economica, principalmente perché durante quegli anni non era ancora maturata<br />

una sensibilità riguardo alla salvaguarda della lingua locale (o comunque<br />

era molto minoritaria).<br />

Per quanto riguarda ancora la scuola pubblica, questa non doveva soltanto<br />

diffondere l’italiano, ma anche gli ideali della patria e della rivoluzione fascista:<br />

«Il fascismo ha dato alla Scuola una piena riforma attraverso l’opera del Gentile<br />

che dal 1923 riorganizzava tutta la vita scolastica più che sulle basi della filosofia<br />

idealistica, sui principi etici della dottrina ricostruttrice e creatrice dell’Italiano<br />

Nuovo». 17 La scuola, dunque, era letteralmente destinata a produrre italiani<br />

e fascisti, e gli insegnanti avevano «l’alto onore di contribuire all’affermazione<br />

dell’Impero di Roma». 18 Basta leggere i programmi didattici per capire quanta<br />

importanza veniva data a questo aspetto. A questo proposito è significativo che<br />

nel testo per preparare l’esame di Stato per ottenere l’abilitazione all’insegnamento,<br />

dal quale abbiamo preso la citazione precedente, l’autrice prima di affrontare<br />

qualsiasi questione didattica e pedagogica si attarda per alcune pagine<br />

descrivendo la Scuola e lo Stato fascista, per poi intitolare il primo capitolo<br />

«patria-umanità-stato-governo».<br />

Ancora una volta sono i registri di classe che permettono meglio di altri documenti<br />

di farsi un’idea di quali fossero le ambizioni del regime, e di come si traducessero<br />

in realtà. Rosina Sau, maestra di scuola elementare, sul registro dell’anno<br />

scolastico 1934-1935, nella parte dedicata al programma didattico, scrive:<br />

Lezioni di cultura fascista e patriottica: Io sono italiano; la mia città natale piccolo<br />

lembo d’Italia; il saluto romano; come si ama la patria e si abbraccia la santa<br />

causa che a lei ci lega; la bandiera italiana; il Re e la preghiera reale; Mussolini; suo<br />

ritratto morale, la generosa befana fascista; il Duce desidera che tutti i bimbi d’Italia<br />

crescano sani e forti; prodezze del regime per raggiungere questo scopo; l’O.N.B.<br />

[Opera Nazionale Balilla, n.d.r.] e la sua numerosa schiera di piccoli italiani che<br />

marciano dietro le direttive del Duce per la grandezza e l’onore della patria. 19<br />

17 J. CERVELLATI, Scuola fascista. Preparazione completa per i candidati ai concorsi magistrali,<br />

Bologna, Licino Cappelli Editore, 1937, p. 99.<br />

18 Ivi, p. 3.<br />

19 ASS, Registri scolastici di Alghero, a. 1934-35, Classe I Elementare Maschile, Ins. Rosina Sau.<br />

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I piccoli algheresi, come tutti i bambini, erano obbligati a frequentare la scuola<br />

dall’età di sei anni fino a quella di quattordici, e trascorrevano la loro prima, e per<br />

molti unica, esperienza educativa in questo clima; inoltre in occasione delle diverse<br />

festività istituite dal regime o durante le visite di qualche autorità, venivano organizzati<br />

raduni e parate alle quali, ovviamente, gli alunni erano chiamati a partecipare.<br />

«Tutto l’insegnamento concorrerà a una sana cultura fascista», 20 e se questo non<br />

fosse stato sufficiente, c’erano le organizzazioni giovanili del partito (Opera Nazionale<br />

Balilla, dopo il 1937 riformata in Gioventù Italiana del Littorio) che reclutavano,<br />

attraverso gli stessi insegnanti, i giovani di entrambi i sessi per poter continuare<br />

la costruzione dei nuovi italiani anche al di fuori dalla scuola pubblica.<br />

Per capire come queste politiche abbiano potuto influenzare la formazione e<br />

la trasformazione dell’identità delle nuove generazioni, è molto utile analizzare<br />

i documenti che insegnanti e ispettori del Ministero per l’Educazione Nazionale<br />

producevano durante il loro lavoro; mentre nel primo caso si tratta ancora una<br />

volta dei registri di classe, nel secondo si tratta invece delle relazioni che gli<br />

ispettori inviavano al Ministero in occasione delle ispezioni che, periodicamente,<br />

portavano a termine negli edifici scolastici. Si tratta di documenti che non<br />

sono totalmente affidabili, in particolare per quanto riguarda i meriti ed i successi<br />

vantati dagli insegnanti alla fine dell’anno, però malgrado questo aspetto,<br />

in generale sono utili per farci un’idea di come, in un centro periferico come<br />

Alghero, veniva condotta l’opera d’italianizzazione e fascistizzazione.<br />

Dalle annotazioni che maestri e maestre lasciavano nei registri di classe ricaviamo<br />

un’immagine ben differente da quella che può derivare, per esempio, dalla<br />

lettura dei manuali didattici per gli insegnanti o dalla propaganda del regime. In<br />

generale emerge una situazione di estrema povertà che impedisce il lavoro agli<br />

insegnanti: «Molti alunni non vengono a scuola perché non hanno pane e [...] due<br />

mancano a scuola perché vanno in campagna a portare il pane al Babbo, il quale<br />

è costretto ad andare a lavorare e aspetta che la moglie lo compri a credito in<br />

qualche panetteria». 21 Da un altro registro risulta che le situazione economica<br />

della popolazione impediva che si realizzasse quell’iscrizione totalitaria alle associazioni<br />

giovanili del partito che il regime tanto voleva: «Su 45 alunni solo 24<br />

hanno le scarpe [...]. I miei alunni avevano l’età per essere iscritti Balilla e molti,<br />

magari a stento, avrebbero potuto magari [sic] pagare la tessera ma... e non ci<br />

vuole altro, i carmelitani scalzi ci sono, mentre i Balilla sono tutti calzati». 22<br />

20 ASS, Registri scolastici di Alghero, a. 1934-35, Classe III Elementare Maschile, Ins. Jole Zoboli.<br />

21 ASS, Registri scolastici di Alghero, a. 1930-31, Classe I Elementare Maschile, Ins. Enrichetta Oggiano.<br />

22 Ibid.<br />

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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />

Questa povertà diffusa, dunque, creava difficoltà enormi per la realizzazione<br />

degli obiettivi educativi del fascismo, soprattutto perché molti alunni non<br />

potevano permettersi il materiale didattico e lo Stato, nonostante i proclami<br />

della propaganda, non sembrava in grado di aiutare efficacemente le famiglie<br />

bisognose. Se pensiamo, infatti, all’ambizione di creare un «italiano nuovo»,<br />

che era affidata in buona parte proprio all’educazione, risulta quasi ridicolo<br />

leggere come molti insegnanti si lamentassero della «mancanza di aiuto da parte<br />

del Patronato», cioè l’istituzione che si occupava degli aiuti economici per gli<br />

alunni, e come denunciassero «la completa miseria intellettuale» che si respirava<br />

a scuola. 23 Quando poi arrivavano gli aiuti, arrivavano tardi e non erano<br />

sufficienti per far fronte alle difficoltà di tutti gli alunni:<br />

5-febbraio: sono arrivati i libri, un pò in ritardo in verità; ma il male non<br />

sarebbe poi tanto grave se tutte le alunne potessero avere il tanto atteso e desiderato<br />

libro. Su cinquanta alunne frequentanti, solo venti hanno il libro. Come si<br />

potrà leggere a scuola? 24<br />

Le relazioni scritte dagli ispettori ministeriali ci confermano, in parte, le<br />

osservazioni degli insegnanti, anche se effettivamente cercano di nascondere la<br />

povertà degli alunni ed i difetti del sistema. Da una relazione elaborata nel 1939<br />

in occasione di un’ispezione nella scuola elementare di Alghero, ricaviamo che<br />

l’edificio scolastico era grande a sufficienza, però l’illuminazione, la manutenzione<br />

e la pulizia erano scarse, mentre mancava materiale tecnico e scientifico<br />

di ogni tipo, inclusi la radio e il proiettore cinematografico, due mezzi ai quali il<br />

fascismo affidava buona parte della sua propaganda. 25<br />

Nella vita scolastica della cittadina catalana la distanza tra le ambizioni del<br />

regime e la realtà era, dunque, enorme, e le difficoltà che abbiamo elencato<br />

impedivano, di fatto, la trasformazione dei piccoli algheresi in perfetti italiani e<br />

fascisti; l’esempio più significativo di questa difficile situazione è costituito<br />

dalla costante difficoltà che i docenti dimostravano nei confronti dell’insegnamento<br />

della lingua italiana e dell’iscrizione degli alunni nelle strutture giovanili<br />

del partito, difficoltà che collegavano alle condizioni economiche delle famiglie,<br />

che non potevano permettersi né i libri né la quota d’iscrizione per le organizzazioni<br />

giovanili fasciste.<br />

23 ASS, Registri scolastici di Alghero, a. 1930-31, Classe I Elementare Femminile, Ins. Maria<br />

Sotgia.<br />

24 Ibid.<br />

25 ASS, Scuola Elementare di Alghero, Questionario per Alghero (documento non catalogato).<br />

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Per quanto riguarda l’uso pubblico della lingua, poi, il problema semplicemente<br />

non si poneva, perché il catalano di Alghero non era ammesso in ambiti<br />

come il commercio o le istituzioni. Questo era vero solo a un livello ufficiale,<br />

diciamo, perché effettivamente il catalano di Alghero era la lingua che la gran<br />

parte degli abitanti usava, pura o mischiata con il sardo o l’italiano, per comunicare<br />

tanto con il pescivendolo al mercato che con l’impiegato comunale. 26 Grazie<br />

a questo carattere popolare, dunque, non si assiste a nessuna persecuzione,<br />

né legale né fisica, di chi utilizzava il catalano di Alghero, che era invece parlato<br />

anche da coloro che avevano accettato il fascismo e addirittura dai membri della<br />

sezione locale del PNF (quando erano algheresi, ovviamente). 27 La repressione<br />

esisteva soltanto a scuola, mentre in famiglia e per la strada si parlava la<br />

lingua che si voleva, e spesso si parlava in dialetto; era questo, quindi, un aspetto<br />

che non sembrava preoccupare le autorità del regime, e le stesse persone che<br />

partecipavano alle attività delle organizzazioni fasciste ed erano cresciute in<br />

quel clima culturale, in alcuni casi non rifiutavano il catalano di Alghero, al di<br />

fuori ovviamente dall’ambito ufficiale. 28<br />

Un ultimo aspetto da considerare per poter avere una idea generale delle<br />

iniziative che il regime ha intrapreso nei confronti della catalanità di Alghero,<br />

è quello dell’italianizzazione dei toponimi del centro storico, che riflettevano<br />

perfettamente la strana situazione identitaria della città, in bilico tra influenze<br />

iberiche ed italiane. Originariamente in catalano, i nomi delle vie<br />

furono cambiati tra il 1827 e il 1876 con dei nomi italiani; 29 l’italianizzazione,<br />

però, non fu completa, e i nomi de les muralles (cioè le mura che si affacciavano<br />

sul mare), che dopo la demolizione di buona parte delle fortificazioni<br />

cittadine si stavano lentamente trasformando in luoghi di ritrovo, non furono<br />

cambiati; così come alcuni toponimi catalani quasi italianizzati resistevano<br />

nel centro storico, come nei casi di via Gilbert Ferret e via Francesco<br />

Ferrer. Non si tratta di un’esclusiva di Alghero, ed il regime infatti si preoccupò<br />

di portare a termine l’italianizzazione su tutto il territorio nazionale<br />

26 Sulla diffusione e sulle caratteristiche del catalano di Alghero durante il periodo fascista, cfr.:<br />

H. KUEN, El dialecto de l’Alguer y su posición en la historia de la lengua catalana, in «Anuari<br />

de l’Oficina Romànica de lingüística i literatura», vol. V, a. 1932, pp. 121-177; vol. VII, a.<br />

1934, pp. 41-112.<br />

27 Testimonianza di G. P. (1930-), figlio di un dirigente del PNF algherese, il quale era iscritto al<br />

Fascio di combattimento di Alghero dal 1921.<br />

28 Testimonianza di P. M. (1920-), iscritta alla Gioventù Italiana del Littorio (GIL), responsabile<br />

del Gruppo degli Universitari Fascisti (GUF), algherese e maestra elementare.<br />

29 R. CARIA, Toponomastica algherese, II: Introduzione allo studio dei nomi di luogo della città,<br />

del territorio, e delle coste di Alghero, Sassari, EDES, 1993, pp. 29-35.<br />

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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />

con due provvedimenti, uno del 1923 e l’altro del 1925, con i quali si stabiliva<br />

che i nomi di strade e piazze dovevano essere in italiano, o dedicate a<br />

italiani. Le leggi nazionali, però, sembra siano state applicate con lentezza<br />

ad Alghero, perché il primo provvedimento sulla materia viene preso dal<br />

Podestà solo nel 1929; l’atto municipale, a parte stabilire i nomi per alcune<br />

strade che erano state realizzate di recente, si preoccupava di cambiare i<br />

toponimi delle antiche mura marittime (Bastió de l’Esperó, Bastió de la<br />

Misericòrdia, Bastió de Sant Jaume, Bastió del Mirador, Bastió Reial); 30 i<br />

nuovi nomi furono, e sono tuttora, Bastioni Cristoforo Colombo, Bastioni<br />

Marco Polo, Bastioni Antonio Pigafetta e Bastioni Ferdinando Magellano,<br />

secondo un criterio che voleva dedicare questi spazi a navigatori e viaggiatori<br />

italiani o presunti tali, come nei casi de l’eternamente disputato Colombo<br />

e di Fernão de Magalhães, senza dubbio portoghese, ma che ebbe la sorte<br />

di avere un biografo di Vicenza, Antonio Pigafetta. Un altro cambiamento<br />

di nome fu deciso nel 1933, quando via Francesco Ferrer divenne via 4<br />

Novembre, il giorno della vittoria italiana nella Grande Guerra.<br />

L’azione fu lenta, ed a questo proposito risulta interessante notare come il<br />

Prefetto di Sassari abbia inviato per ben due volte, nel 1928 e nel 1930, una<br />

circolare nella quale rimproverava i podestà di abusare della propria libertà in<br />

materia di toponomastica; nei due documenti si ricorda che ogni volta che si<br />

dava o si cambiava il nome a una via o una piazza, il nuovo toponimo doveva<br />

essere approvato all’organo che tutelava il patrimonio artistico, che dipendeva<br />

dal Ministero per l’Educazione Nazionale; ma soprattutto il Prefetto insisteva<br />

nella proibizione dell’utilizzo di nomi di personaggi stranieri, salvo casi<br />

eccezionali e comunque dietro l’approvazione del Governo Centrale. 31 In realtà<br />

si tratta di circolari inviate a tutti i comuni della Provincia di Sassari, ma<br />

che assumono ai nostri occhi una particolare importanza se le mettiamo in<br />

relazione con un altro documento ritrovato all’interno della stessa cartella,<br />

che consiste in un foglio sopra il quale è stato disegnato il progetto di una<br />

targa viaria, nel quale si legge «via Eduart Toda»; 32 qualcuno voleva dedicare<br />

una via a Eduard Toda i Guëll? In realtà non abbiamo potuto trovare altri<br />

documenti al riguardo ed il progetto analizzato non è datato, ma allo stesso<br />

tempo si può dedurre facilmente dalle condizioni della carta, dall’inchiostro e<br />

soprattutto dalla grafia che questo sia contemporaneo agli altri documenti<br />

30 Ivi, p. 63.<br />

31 ASCA, regg. 922/12/5 e 922/15/2.<br />

32 ASCA, reg. 922/17/6.<br />

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Marcello A. Farinelli<br />

conservati nella stessa cartella, e tutto questo ci porta a pensare che è molto<br />

probabile che qualcuno volesse dedicare una via al principale ispiratore della<br />

Renaixença algherese di fine Ottocento. 33<br />

Nonostante i propositi del fascismo, e prima di lui dell’Italia liberale, l’uso<br />

dei toponimi catalani restò ben diffuso tra la popolazione durante tutto il periodo<br />

fascista, e un esempio su tutti è via Roma, che per i piccoli algheresi era La<br />

Merced, dal nome del convento che una volta si trovava in quella parte della<br />

città antica; la sopravvivenza di questi toponimi fino quasi ai giorni nostri è<br />

stata dimostrata a sufficienza dall’opera di Rafael Caria (1943-2008) che, durante<br />

gli anni ottanta e novanta, dedicò gran parte del suo lavoro intellettuale<br />

alla catalogazione della toponomastica della città e del suo entroterra, soprattutto<br />

attraverso interviste a pescatori e contadini.<br />

Per concludere definitivamente il discorso sull’atteggiamento del fascismo<br />

nei confronti dell’identità degli algheresi, possiamo affermare che questo fu in<br />

un certo senso prudente, anche se deciso a portare avanti l’obiettivo di<br />

italianizzare e fascistizzare la popolazione. Non si assiste, dunque, a quella repressione<br />

del catalano che comportò, al di là del mare, la dittatura franchista,<br />

che arrivò al parossismo di voler vietare addirittura le conversazioni private in<br />

catalano, 34 una circostanza che dipende ovviamente dall’enorme differenza tra<br />

le due situazioni: l’identità catalana rappresentava per Franco un elemento da<br />

sradicare per potersi garantire la vittoria, mentre per Mussolini si trattava di una<br />

reliquia storica come altre ne esistevano in Italia, e che era destinata ad essere<br />

assorbita gradualmente dall’identità italiana (e fascista); inoltre ad Alghero, e lo<br />

vedremo meglio più avanti, non sembrava esistesse nessuna relazione tra<br />

catalanità ed antifascismo, anzi la città continuava a dimostrarsi fedelissima, e<br />

non esistevano particolari motivazioni politiche per giustificare la repressione<br />

diretta della lingua locale. Certamente l’azione della scuola e delle organizzazioni<br />

giovanili del fascismo, la retorica del regime sulla patria, l’impero e la<br />

missione civilizzatrice della razza italiana erano elementi che facevano parte di<br />

una strategia finalizzata a sostituire la confusa identificazione algherese con<br />

quella dell’italiano nuovo, una sostituzione che si affidava soprattutto all’edu-<br />

33 Renaixença (‘rinascita’, in italiano) è il termine con il quale si individua il primo movimento<br />

catalanista d’ispirazione romantica che, nato in Catalogna ed in seguito parzialmente diffusosi<br />

in tutto il dominio linguistico catalano, caratterizzò, durante il xix secolo, prima la cultura e poi<br />

la politica di queste terre, e che per molti aspetti può essere paragonato al Risorgimento italiano,<br />

al quale in parte si ispirava.<br />

34 Sulla persecuzione della lingua catalana durante il franchismo, cfr.: F. FERRER I GIRONÈS, La<br />

persecució política de la llengua catalana, Barcellona, Edicions 62, 1986, pp. 177-201.<br />

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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />

cazione e alla propaganda e che non comportava, dunque, una repressione linguistica<br />

dura e sfacciata. Nonostante questo carattere prudente, le iniziative fasciste<br />

lasceranno un segno nell’identificazione e nelle abitudini linguistiche della<br />

popolazione, conseguenze che si vedranno solo dopo la caduta del regime, quando<br />

le generazioni cresciute sotto il fascismo smetteranno, in buona parte, di<br />

trasmettere il catalano di Alghero ai propri figli, perché era considerato ormai<br />

un idioma sinonimo d’ignoranza e povertà e perché, come accennavamo nell’introduzione,<br />

si era ormai affermata una certa colpevolizzazione/<br />

autocolpevolizzazione nei confronti di chi era catalanoparlante.<br />

I catalanisti algheresi di fronte al fascismo<br />

Arrivati a questo punto, è naturale chiedersi che atteggiamento mantennero quanti<br />

avevano dedicato buona parte della propria attività culturale a valorizzare e<br />

difendere il patrimonio culturale catalano della città; per poter rispondere a<br />

questa domanda risulta indispensabile spendere qualche parola sull’attività culturale<br />

che questi intellettuali intrapresero immediatamente prima dell’avvento<br />

del fascismo. Come è ben noto, il gruppo di poeti ed improvvisati filologi al<br />

quale ci siamo riferiti genericamente come catalanisti algheresi fu protagonista<br />

della Renaixença locale, ed in generale della vita culturale cittadina a cavallo<br />

dei due secoli; questa esperienza, culminata con la fondazione nel 1906 dell’associazione<br />

«La Palmavera», rappresentò un momento importante per la storia<br />

della città, ma si trattò anche di una esperienza breve ed effimera, destinata a<br />

tramontare sia per l’allontanamento da Alghero di alcuni dei suoi protagonisti,<br />

sia per i contrasti interni al gruppo.<br />

Nello stesso anno in cui si fondava «La Palmavera» due dei suoi componenti,<br />

Ramon Clavellet (1879-1911, al secolo Antoni Ciuffo) e Joan Palomba (1876-<br />

1953), furono invitati a partecipare al I Congresso Internazionale della Lingua<br />

Catalana, che si svolgeva proprio a Barcellona. Il viaggio, il trattamento ricevuto<br />

e la curiosità suscitata provocarono una forte impressione nei due, ma in<br />

particolare in Ramon Clavellet, che aveva già avuto modo di visitare la città<br />

durante il 1902; questi decise di non tornare ad Alghero, e grazie alla sua amicizia<br />

con alcuni intellettuali catalani, ed in particolare con l’editore Josep Aladern<br />

(1869-1918, al secolo Cosme Vidal i Rosich), si stabilì in Catalogna; qui svolse<br />

la funzione di ambasciatore del gruppo d’intellettuali algheresi per alcuni anni,<br />

durante i quali lo vediamo completamente devoto sia a promuovere il risveglio<br />

linguistico della propria città che a far conoscere la realtà algherese in Catalogna;<br />

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Clavellet si dà da fare con iniziative editoriali e tiene diverse conferenze, continuando<br />

a suscitare un certo interesse, senza però ottenere grandi successi editoriali,<br />

e dunque vivendo sempre in una situazione precaria.<br />

Durante la sua esperienza continentale, Clavellet sembra elaborare una visione<br />

del catalanismo più matura e più rivendicativa rispetto ai suoi colleghi<br />

algheresi, che invece dimostrano di essere fermi a una visione folcloristica e<br />

privata, essenzialmente apolitica, e sembrano preoccuparsi per le posizioni assunte<br />

da Clavellet. Quando questi, infatti, si trova ospite dal suo amico Josep<br />

Aladern e collabora alla sua rivista Catalonia, nella quale si occupa della sezione<br />

significativamente intitolata «Obra Patriòtica. La Sardenya Catalana. Història,<br />

Costums i Tradicions, Moviment intel·lectual Modern», è costretto a giustificare<br />

le sue iniziative davanti ai colleghi algheresi con queste parole:<br />

La nostra opera è eminentemente tradizionalista [...]. La nostra opera è dunque<br />

internazionale, ma allo stesso tempo non è politica; è scientifica e letteraria e<br />

tradizionalista soprattutto. Tende alla riforma della nostra lingua e letteratura. 35<br />

Nella stessa lettera si chiede al destinatario, Cipirano Cipriani, di assicurare<br />

gli altri catalanisti preoccupati, e Clavellet cerca di dimostrare come le sue iniziative<br />

siano lontane il più possibile dalla politica e non contengano nessuna<br />

idea radicale né tantomeno rivoluzionaria; d’altronde le preoccupazioni espresse<br />

dai catalanisti algheresi fanno parte del tradizionalismo e del conservatorismo<br />

dominanti, oggi come ieri, nella vita politica e culturale cittadina, due caratteristiche<br />

che riguardavano anche i rappresentanti della Renaixença algherese.<br />

Le iniziative di Clavellet, nonostante le rassicurazioni, continuano a suscitare<br />

la preoccupazione dei suo colleghi de «La Palmavera», soprattutto quando<br />

nel 1908 riesce a pubblicare una rivista dal titolo La Sardenya Catalana. Fulla<br />

patriòtica dels catalans d’Itàlia. Nel primo ed unico numero che vedrà la luce,<br />

in mezzo a diversi articoli sulla realtà algherese, trova spazio una significativa<br />

poesia di Clavellet, intitolata «Sem Vius!»:<br />

Sem Vius!: Perqué es viu ‘l llenguatge<br />

que‘ns dona aquest march extranger.<br />

Perqué tot: de la historia a la parla,<br />

la costum, la manera de sèr<br />

nos separen dels altres: a Italia<br />

catalana es la vila de Alguer.<br />

Marcello A. Farinelli<br />

35 P. CATALÀ I ROCA, L’aventura catalanista de la Palmavera. L’Alguer 1906, Alghero, Edicions<br />

del Sol, 1998, p. 153.<br />

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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />

Aquest vell sentiment que moria<br />

en las ruhinas del nostre passat.<br />

Aquest gran sentiment resuscita,<br />

d’amor patri encara més inflamat.<br />

Nostra rassa s’aixeca y camina<br />

nova via ‘l destí li ha signat. 36<br />

La reazione dei catalanisti algheresi costringe un’altra volta lo sfortunato<br />

poeta a rassicurarli:<br />

No hi ha remey. Estich conforme amb tot lo que vosaltres me diheu. Vosaltres<br />

que viviu al Alguer podeu coneixer més que mi aquesta ciutat y’l seu caràcter y las<br />

sua preocupacions, mentre que jo, vivint a Barcelona, m’he catalanisat, potser, una<br />

mica massa. – Lo subtítul de ‘fulla patriòtica’ que vosaltres diheu pot ferir la<br />

susceptibilitat dels algueresos se treurà posanthi enlloc: ‘Eco dels Catalans d’Italia’?<br />

si aquest tampoch no agrada, vosaltres me diureu com s’hauria de posar. 37<br />

Sembra che gli altri membri del gruppo non accettino l’idea di portare avanti<br />

una difesa pubblica della lingua, dietro la quale vedono un inevitabile passaggio<br />

da una dimensione privata e letteraria, ad una politica; ancora una volta<br />

questo atteggiamento sembra dimostrare il conservatorismo di questi catalanisti<br />

algheresi, ma per capire meglio le loro scelte politiche ci può essere utile constatare<br />

come, a differenza del Clavellet, gli altri membri del gruppo avessero<br />

tutto da perdere davanti ad un’eventuale accusa di scarsa italianità o addirittura<br />

di separatismo; infatti quasi tutti lavoravano per l’Amministrazione Pubblica:<br />

Joan Palomba era maestro, Carmen Dore (1869-1954) lavorava nell’Archivio<br />

Comunale, Joan de Giorgio Vitelli (1870-1916) lavorava per il Ministero degli<br />

Interni, mentre Joan Pais (1875-1964) nel 1912 ottenne un posto come direttore<br />

della farmacia e del laboratorio di chimica del carcere di Castiadas. Con un<br />

simile profilo, non potevano nemmeno lontanamente pensare di mettersi a capo<br />

di un movimento, sia esso politico o culturale, che proponesse un’identità non<br />

italiana per la città.<br />

Ramon Clavellet rimase dunque isolato, fondamentalmente perché, affascinato<br />

dall’ambiente culturale di Barcellona e dal suo catalanismo più<br />

rivendicativo, maturò una visione della situazione algherese che, se non era<br />

dichiaratamente politica, era molto più evoluta rispetto a quella dei suoi col-<br />

36 «La Sardenya Catalana», n. 1, 1 aprile 1908, p. 10. Qui e nelle altre citazioni riportate in lingua<br />

catalana, abbiamo deciso di rispettare il testo originale, riportando errori o forme ancora non<br />

normalizzate.<br />

37 P. CATALÀ, L’aventura catalanista de la Palmavera cit., p. 231.<br />

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Marcello A. Farinelli<br />

leghi rimasti sull’Isola; alle incomprensioni con i compagni si aggiunsero problemi<br />

economici, che lo portarono ad allontanarsi sempre più dal gruppo, fino<br />

al punto che questi non ebbero più notizie di lui. Morì in circostanze poco<br />

chiare probabilmente nel 1911. 38<br />

Non furono soltanto queste incomprensioni a portare alla fine del primo movimento<br />

catalanista algherese, ed infatti gli autori che si sono occupati di questo<br />

tema parlano delle invidie e delle polemiche nate tra Joan Pais e Joan Palomba in<br />

occasione della pubblicazione della prima grammatica del catalano di Alghero. I<br />

due, che erano cugini, lavorarono indipendentemente ad una propria grammatica,<br />

ma la sfida fu vinta da Palomba, che riuscì a far uscire la sua grammatica, in<br />

italiano, nel 1906, fatto che gli valse un invito al I Congresso Internazionale della<br />

Lingua Catalana. 39 Intorno a questi fatti nacque tra i due cugini una lunga e forte<br />

polemica, sia intellettuale che personale, che portò all’unico risultato di minare la<br />

coesione del gruppo che aveva dato vita a La Palmavera. A questa polemica si<br />

aggiunse la morte di Clavellet, seguita dal trasferimento di Joan Pais a Castiadas<br />

e da quello di Joan de Giorgio Vitelli a Ravenna, nominato Prefetto di tale Provincia<br />

nel 1913, dove morì tre anni più tardi.<br />

Nel giro di pochi anni, dunque, assistiamo all’uscita di scena di due tra i<br />

catalanisti algheresi più importanti, dei quali uno, Clavellet, abbiamo visto come<br />

si stava indirizzando verso una visione più matura della situazione algherese,<br />

mentre l’altro, Pais, rimase isolato in un piccolo centro del sud Sardegna ed<br />

abbandonò l’entusiasmo dei primi tempi, anche se continuò a lavorare alla sua<br />

grammatica, che però sarà pubblicata solo dopo la sua morte. 40 Per questi motivi<br />

quando il fascismo si affermò, ad Alghero il catalanismo non era un movimento<br />

culturale diffuso e forte, e non rappresentava in nessun caso un’opzione<br />

politica che potesse, facendo riferimento all’identità non italiana che sottintendeva,<br />

considerare il movimento di Mussolini come un avversario. Il catalanismo<br />

algherese era, in quel momento, una passione culturale che un piccolo numero<br />

di persone coltivava per lo più in forma privata, davanti alla quale il regime non<br />

sembrava assolutamente allarmato.<br />

38 Su Clavellet e gli altri catalanisti algheresi, cfr.: R. CARIA, Els ‘retrobaments’ a l’Alguer els<br />

segles XIX i XX, in J. CARBONELL – F. MANCONI (eds.), Els catalans a Sardenya, Enciclopèdia<br />

Catalana, Barcellona, 1984, pp. 183- 186; P. CATALÀ, L’aventura catalanista de la Palmavera<br />

cit.; J. ARMANGUÉ I HERRERO, Rossend Serra i Pagès, L’Alguer i el Centre Excursionista de<br />

Catalunya: 25 cartes (1901-1926), AEC, Granollers, 1999.<br />

39 G. PALOMBA, Grammatica del dialetto algherese odierno, Sassari, Tipografia G. Contorsi,<br />

1906.<br />

40 J. PAIS, Grammatica algherese, Barcellona, Barcino, 1970.<br />

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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />

Durante il periodo fascista in città rimasero, assieme ad altri personaggi<br />

minori, due tra i più importanti membri de «La Palmavera», Joan Palomba e<br />

Carmen Dore (nonostante il nome, si trattava di un uomo); ci sembra importante,<br />

a questo punto, seguire la loro attività durante il Ventennio.<br />

Palomba, dopo la pubblicazione della sua grammatica e mentre intratteneva<br />

relazioni epistolari con diversi intellettuali sia italiani che catalani, si occupò<br />

della traduzione di un saggio del catalanista rossiglionese Joan Amade e<br />

scrisse uno studio sul folclore di Alghero, opere pubblicate entrambe in lingua<br />

italiana. 41 Durante i confusi anni della Prima Guerra Mondiale e delle sue<br />

immediate conseguenze non abbiamo elementi per affermare quali fossero<br />

state le sue posizioni politiche, ma possiamo solo dire che aderì al fascismo,<br />

come molti altri, solo nel 1924, 42 e che quindi non può essere considerato un<br />

fascista della prima ora, come invece lui stesso cercò di far credere in un<br />

curriculum del 1941. 43 Palomba era un maestro e la sua adesione tardiva al<br />

fascismo può essere interpretata sicuramente come necessaria per non perdere<br />

il posto di lavoro; effettivamente continuò ad esercitare questo incarico<br />

anche durante il Ventennio, senza che il suo passato di catalanista costituisse<br />

un problema. Dunque Palomba non ebbe conseguenze a causa della sua passione<br />

culturale, anzi al contrario esistono elementi che ci possono far affermare<br />

come egli fosse abbastanza integrato nel regime; la sua attività culturale,<br />

infatti, sembra abbandonare i temi trattati fino allora, e durante i venti anni<br />

che durò la dittatura pubblicò solo due opere, che significativamente dimostravano<br />

la sua integrazione nel regime: nel 1929 scrisse un libro apologetico<br />

sul Duce, mentre nel 1942, quando Mussolini si aspettava uno sbarco alleato<br />

in Sardegna e stava tentando in tutti i modi di garantirsi la fedeltà dei sardi,<br />

scrisse il testo di un inno fascista per le scuole dell’Isola. 44<br />

Un’ulteriore dimostrazione di come Palomba si trovasse abbastanza integrato<br />

nel regime la possiamo trovare nella documentazione del PNF che si trova<br />

nell’Archivio Storico del Comune di Alghero; si tratta di due lettere, una del<br />

41 G. PALOMBA, Attraverso la letteratura catalana: saggio estratto dall’opera ‘Etudes sur la<br />

literature méridionale’ del prof. J. Amade, Sassari, Tipografia U. Satta, 1909; Tradizioni, usi e<br />

costumi di Alghero, «Archivio Storico Sardo», VII (1911), pp. 232-234.<br />

42 ASCA, reg. 1186, foglio tesseramento n. 18, a. XVIII. I documenti dentro questa cartella non si<br />

trovavano, al momento della consultazione, catalogati, e quindi si utilizzerà la numerazione<br />

applicata dai funzionari dell’epoca e si farà riferimento a questa cartella con il suo numero di<br />

catalogazione e, tra parentesi, la dicitura «documenti non catalogati».<br />

43 P. CATALÀ, L’aventura catalanista de la Palmavera cit., p. 311.<br />

44 G. PALOMBA, L’opera storica di Mussolini, Sassari, Stamperia della libreria italiana e straniera,<br />

1929; Balilla Sardi: inno per le scuole elementari e medie, Torino, Fratelli Amprimo, 1942.<br />

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Marcello A. Farinelli<br />

Segretario Federale del partito per la Provincia di Sassari, Martino Ofeddu, che<br />

chiede al Segretario Politico della sezione algherese, Angelo Silanos:<br />

Dimmi se nulla osta, dal lato politico, perché al nominato in oggetto (Giovanni<br />

Palomba) venga conferita una onorificenza cavalleresca. Dimmi se e da quando è<br />

iscritto al PNF. 45<br />

La risposta è a favore di Palomba, che viene considerato dal segretario politico<br />

di Alghero:<br />

Persona seria, equilibrata, di ottima moralità civile e politica è sempre stato un<br />

cittadino ed un padre modello. Fervente fascista, ha coadiuvato efficacemente la GIL<br />

durante il periodo in cui ricopriva le cariche di insegnante e Direttore delle scuole di<br />

avviamento professionale. Nulla osta perché gli venga concessa una onorificenza<br />

cavalleresca. 46<br />

A questa sua integrazione nel fascismo corrisponde una certa perdita d’interesse<br />

per la lingua e la letteratura catalana, che non possiamo attribuire esclusivamente<br />

ad un clima repressivo o sfavorevole a seguire questi interessi; dobbiamo<br />

considerare come il clima fosse differente, ed in particolare come il regime con la<br />

sua politica culturale offrisse agli intellettuali, spesso di provincia, possibilità d’affermazione<br />

che prima erano inesistenti: la propaganda e l’apologia del regime.<br />

Questo era un percorso seguito da molti intellettuali sardi, come nel caso di Paolo<br />

Orano; questi, in buoni rapporti tanto con Mussolini che con D’Annunzio, partendo<br />

da posizioni sindacal-rivoluzionarie aveva partecipato alla Prima Guerra Mondiale<br />

ed aveva militato tanto nel sardismo come nel fascismo (era presente alla<br />

fondazione del primo fascio a Milano). Già conosciuto nel campo della cultura<br />

italiana, durante il regime Orano ottenne la consacrazione definitiva pubblicando,<br />

tra le altre opere, alcuni libri sfacciatamente propagandistici. 47<br />

Altri intellettuali sardi seguirono questo percorso, alcuni perché poco conosciuti<br />

e quindi in cerca di notorietà, altri per smentire le accuse di antifascismo<br />

che in una realtà come quella sarda inevitabilmente le famiglie avversarie si<br />

muovevano le une contro le altre. È questo il caso di Edgardo Sulis, un fascista<br />

45 ASCA, reg. 1186 (documenti non catalogati), n. prot. 3250/SP. Si tratta di fogli utilizzati come<br />

palinsesti per scrivere i verbali delle sedute del Tribunale di Alghero.<br />

46 ASCA, ivi, n. prot. 422/3250. È valido lo stesso discorso fatto sopra.<br />

47 Per la figura di Orano, cfr.: C. MARAGLIO, Il fascista Paolo Orano. Giornalista e primo storico<br />

del giornalismo (1919-1945), Tesi di laurea in scienze politiche, Università degli Studi di Milano,<br />

a. 2000-2001. Come esempi di opere apologetiche e propagandistiche, cfr.: P. ORANO, Avanguardie<br />

dell’Italia nel mondo, Roma, Società Nazionale Dante Alighieri, 1938; Le direttive del<br />

duce sui problemi della vita nazionale. Lo Stato Fascista, Roma, Casa Editrice Pinciana, 1938.<br />

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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />

radicale che, in lotta con le gerarchie locali del PNF sia per la sua intransigenza<br />

che per vecchie rivalità familiari, si convertì in apologeta del Duce per poter<br />

conservare la posizione che occupava nella comunità locale e per poter tentare<br />

una carriera politico-intellettuale. 48<br />

Il fascismo, in effetti, rappresentava per gli intellettuali di provincia la possibilità<br />

di inserirsi al centro della cultura nazionale, e nel caso algherese questa circostanza<br />

si verificava in concomitanza alle difficoltà di comunicazione con la cultura<br />

catalana; l’instaurazione della dittatura di Primo de Rivera (1923-1930), nella<br />

quale erano elementi importanti tanto l’anticatalanismo come l’ispirazione al fascismo<br />

italiano, aveva tagliato le ali a quella cultura nella quale Palomba ed i suoi<br />

compagni avevano cercato di affermarsi, e quindi non ci deve stupire il fatto che<br />

il catalanista algherese abbia cercato altre strade per continuare la sua carriera.<br />

Anche Carmen Dore risulta iscritto nella sezione locale del PNF, e come per<br />

Palomba la sua iscrizione, che risale al 1924, è da interpretarsi come motivata<br />

dalla necessità di mantenere il proprio posto di lavoro (archivista comunale); il<br />

suo percorso politico e culturale è, al contrario, abbastanza differente da quello<br />

del suo collega catalanista. Dore, infatti, mantenne con relativa costanza un<br />

rapporto epistolare con intellettuali catalani, come il folclorista Rossend Serra i<br />

Pagès (1863-1929), o ancora il filologo ed editore Josep Maria de Casacuberta<br />

(1897-1985), svolgendo la funzione di punto di connessione tra la cultura catalana<br />

e Alghero. 49 Come tale Dore, occasionalmente affiancato da Palomba, fece da<br />

cicerone a tutti quegli intellettuali che venivano in città per studiarne la peculiare<br />

realtà linguistica, come per esempio in occasione della ricerca realizzata<br />

dall’Institut d’Estudis Catalans nel 1922, 50 mentre in altre occasioni collaborava<br />

a distanza con eminenti studiosi europei, come nel caso del filologo austriaco<br />

Heinric Kuen (1899-1989). 51 Malgrado queste attività, Dore non pubblicò<br />

niente durante il Ventennio e, in realtà, la maggior parte dei suoi scritti (principalmente<br />

poesie) o sono ancora inediti o sono stati pubblicati dopo la sua morte;<br />

Dore, sia prima che durante la dittatura, continuò a scrivere poesie in catalano<br />

di Alghero, cercando di affermarsi nel circuito della cultura catalana di allora,<br />

ed in parte riuscendovi nel 1921, quando ottenne un premio ai Jocs Florals con<br />

la poesia «Varemes Tristes», ispirata alla tragedia della guerra mondiale.<br />

48 R. J. B. BOSWORTH, Imitating Mussolini with advantages: the case of Edgardo Sulis, in «European<br />

History Quarterly», a. 2002, vol. 32, n. 4, pp. 515-533.<br />

49 P. CATALÀ, L’aventura catalanista de la Palmavera cit., p. 326.<br />

50 Ivi, p. 300.<br />

51 P. CATALÀ I ROCA – F. MANUNTA, Trilles, pagells i tòtanos. Los peixos de l’Alguer en una recerca<br />

de Carmen Dore del 1927, in «L’Alguer», II, n. 5, settembre-ottobre 1989, pp. 7-14.<br />

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Nelle sue poesie, come nelle lettere, si può appena notare una certa intolleranza<br />

per il clima creato dal regime fascista; una insofferenza privata che non<br />

arriva a farsi pubblica, testimoniata da alcuni versi, stavolta in italiano:<br />

Quando Vittorio era Re<br />

non mancò mai il caffè.<br />

Dopo fatto Imperatore<br />

si sentì solo l’odore.<br />

Occupata l’Albania<br />

il caffè se ne andò via.<br />

E se ne andrà via<br />

anche Lui con<br />

Mussolini pei fatti<br />

sui.<br />

Amen. 52<br />

Marcello A. Farinelli<br />

Si tratta di una poesia che, per il riferimento all’occupazione dell’Albania<br />

(1939), possiamo far risalire al periodo della Seconda Guerra Mondiale, e che<br />

ci suggerisce una posizione critica del Dore nei confronti del regime. Questa<br />

incomodità del poeta rispetto alla situazione che si era venuta a creare ad Alghero<br />

traspare anche dalla sua corrispondenza, ed in particolare dai suoi progetti di<br />

lasciare la città; è significativo, infatti, che Dore abbia manifestato a diversi<br />

interlocutori il suo desiderio di trasferirsi in Catalogna, non è chiaro se temporaneamente<br />

o definitivamente, per poter continuare l’opera che Ramon Clavellet<br />

aveva lasciato a metà. Questo desiderio fu manifestato già dal 1921 in una lettera<br />

inviata ad un destinatario a noi sconosciuto, nella quale Dore chiede come<br />

poter realizzare questa «Espedició», di una durata considerevole a quanto sembra,<br />

e soprattutto «apolitica, essenzialment literaria»; 53 un progetto che illustrò<br />

a diversi interlocutori, tra i quali Eduard Toda i Güell, che in una lettera del<br />

1925 gli rispose consigliando di aspettare tempi migliori:<br />

He pensat al projecte de que Vostè em parla de venir a Catalunya a treballar i<br />

ordenar los estudis catalans, y ab la major sinceritat dech aconsellarlo que no ho<br />

fassa per are y mentre durin las circustancias especials de la present politica espanyola.<br />

Tot lo català está molt baix i perseguit. [...] Tinga donchs un poch de paciencia y<br />

esperi temps millors que per tothom han de venir. 54<br />

Questi tempi migliori arrivarono, da un punto di vista catalano, nel 1930,<br />

come risulta da una lettera che l’ecclesiastico e catalanista Pere Voltas i<br />

52 P. CATALÀ, L’aventura catalanista de la Palmavera cit., p. 291.<br />

53 Ivi, pp. 298-299.<br />

54 Ivi, p. 322.<br />

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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />

Montserrat (1879-1967) inviò a Dore proprio in quell’anno, e nella quale gli<br />

annunciava: «Vaig ser a Barcelona i vaig parlar del vostre viatge allí. Em sembla<br />

que ha arribat el moment en què podeu satisfer el vostre desig». 55<br />

Curiosamente Dore non realizzerà mai il tanto desiderato viaggio, e la sua<br />

corrispondenza, o almeno quella nota fino ad oggi, non ci fornisce elementi utili<br />

per stabilire il perché di questa rinuncia. Una spiegazione la possiamo trovare<br />

analizzando la situazione politica delle due penisole (quella italiana e quella iberica),<br />

una situazione che si faceva sempre più fosca e complessa a partire dalla proclamazione<br />

della Repubblica Catalana (14 aprile 1931) e della seconda esperienza<br />

repubblicana in Spagna (1931-1939), due avvenimenti che, a parte suscitare la<br />

riprovazione di Mussolini, inaugurarono un periodo caratterizzato da un violento<br />

conflitto politico e dallo scontro tra spinte rivoluzionarie e reazioni conservatrici,<br />

tra movimenti centrifughi e impostazioni centripete. In una simile situazione il<br />

regime fascista impedì a molti italiani di recarsi in Spagna, soprattutto a quanti<br />

erano sospettati di essere antifascisti, e sembra dunque probabile la voce che afferma<br />

che a Carmen Dore le autorità avessero negato il passaporto. 56 Purtroppo<br />

non abbiamo trovato nessun documento che confermi questa informazione, che<br />

però ci sembra abbastanza probabile se consideriamo come la popolazione fosse<br />

strettamente controllata sia dall’Organizzazione Vigilanza e Repressione<br />

Antifascismo (OVRA) che dal Tribunale Speciale, due organismi che ovviamente<br />

erano molto interessati a tenere sotto controllo i contatti tra italiani e catalani,<br />

soprattutto durante il periodo nel quale l’Italia intervenne nella Guerra Civile<br />

Spagnola (1936-1939); 57 non dobbiamo dimenticare poi come un altro algherese,<br />

Candido Adami, legato tanto al movimento degli ex-combattenti quanto al<br />

catalanismo, risulta facesse parte della rete degli informatori dell’OVRA, e che<br />

come tale avrebbe potuto parlare dei progetti del Dore. 58 In ogni caso possiamo<br />

ragionevolmente supporre che nel far prendere la decisione al poeta di non realizzare<br />

il suo progetto abbiano avuto un ruolo importante, al di là delle pressioni<br />

55 Ivi, p. 331.<br />

56 È un aneddoto abbastanza diffuso, e riportato anche in P. CATALÀ, L’aventura catalanista de la<br />

Palmavera cit., p. 331.<br />

57 Sulla polizia politica fascista e la repressione, cfr.: M. FRANZINELLI, I Tentacoli dell’Ovra. Agenti,<br />

collaboratori e vittime della polizia fascista, Torino, Bollati Borigheri, 2000; su Mussolini e<br />

la II Repubblica spagnola, cfr.: I. SAZ CAMPOS, Mussolini contra la II Republica, Valencia,<br />

Edicions Alfons el Magnànim, 1986.<br />

58 M. Franzinelli, I Tentacoli dell’Ovra cit., pp. 250, 458. Sembra che Adami, dopo essere passato<br />

dal sardismo al fascismo, sia entrato in conflitto con alcuni dirigenti fascisti della Provincia di<br />

Sassari ed abbia visto la sua posizione economica e sociale in pericolo; per questi motivi poteva<br />

essere ricattato dalla polizia fascista.<br />

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delle autorità italiane, sia la situazione catalana caratterizzata sempre più da un<br />

forte conflitto sociale e politico, sia lo scoppio della guerra civile nel 1936.<br />

Carmen Dore, dunque, sembra non essersi integrato così come Palomba, tanto<br />

da sentirsi incomodo e voler abbandonare la città; malgrado ciò, non risulta che il<br />

poeta abbia partecipato a qualche attività clandestina contro il regime, e infatti<br />

non figura nemmeno tra gli antifascisti sardi, 59 mentre dagli archivi scopriamo<br />

solo qualcosa contro suo figlio, Dario Dore, espulso dal PNF nel 1939 in conseguenza<br />

a una condanna per un reato di carattere economico (non si esclude, però,<br />

che questa fosse una forma di ritorsione politica). 60 Una opposizione moderata,<br />

sicuramente esercitata in un clima difficile, e può essere testimonianza di questo<br />

clima il fatto che tra le sue poesie si trovi un testo del 1927, «Alas a la Pàtria», che<br />

è un’esaltazione dell’Italia scritta in catalano, e che ha tutta l’aria di essere un<br />

tentativo di dissipare qualsiasi sospetto di antifascismo o scarso patriottismo, ma<br />

che rimase, comunque, inedita. 61 Da un punto di vista politico possiamo affermare,<br />

dunque, che l’archivista comunale era afascista, quindi né pro né contro, e da<br />

un punto di vista intellettuale fu l’unico tra i protagonisti della Renaixença algherese<br />

che abbia cercato di portare avanti quel progetto culturale; una prova concreta di<br />

quanto detto sono i rapporti epistolari che continuò a mantenere, e soprattutto la<br />

sua produzione poetica nella quale, accanto a temi intimisti, trovano ampio spazio<br />

temi legati all’identità catalana e alla madrepatria, trattati dal Dore con un linguaggio<br />

che ricorda molto da vicino quello dei poeti del Risorgimento, come ci<br />

dimostra questa poesia del 1934 che vale la pena riportare per intero:<br />

A CATALUNYA<br />

Dels pares meus la terra,<br />

de mi no es tan allunya,<br />

ses bella o Catalunya,<br />

i santa es la tua guerra.<br />

Sant també es lo tou crit,<br />

que enflame el nostre pit,<br />

que mou tot el jovent,<br />

que un horitzó de gloria,<br />

nos obri la victoria,<br />

del tou despertament.<br />

Marcello A. Farinelli<br />

59 M. BRIGAGLIA – M. T. LELLA, Dizionario biografico degli antifascisti sardi, in M. BRIGAGLIA – F.<br />

MANCONI – A. MATTONE – G. MELIS (eds.) L’antifascismo in Sardegna, vol. 2, Cagliari, Edizioni<br />

della Torre, 1986, pp. 259-359.<br />

60 ASCA, 1186 (documento non catalogato) n. prot. 629/4635.<br />

61 P. CATALÀ, L’aventura catalanista de la Palmavera cit., p. 324.<br />

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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />

Conclusione<br />

El crit tou ressona<br />

tra pobles i comarques<br />

i a ma ta marxa marques,<br />

un ritme que retrona,<br />

nel cor dels catelans,<br />

en tots los germans,<br />

de treball i de fé,<br />

qué fills són de la Mare,<br />

que en cor tenen tancada,<br />

els catelans de l’Alguer.<br />

O forta terra avant!<br />

San Jordi el drac aterra,<br />

nos altres fem la guerra,<br />

les glories d’Ell cantant.<br />

D’en Jaume el gran valor<br />

cantem, i el seu amor<br />

per nostre Barcelona,<br />

pel just seu moviment,<br />

pel nou despertament,<br />

que llibertat nos dona.<br />

Avant! Avant! Les terres<br />

on viun les [sic] catelans,<br />

on lliuren les [sic] germans,<br />

santes i nobles guerres,<br />

a Catalonya tornin,<br />

i en Ella els fills retornin,<br />

cantant en veu suau,<br />

un nou himne de gloria,<br />

l’himne de la victoria,<br />

l’himne de amor, de pau.<br />

Avant! Avant germans!<br />

No u vus [sic] fermeu mai mes!<br />

Qui’ns ferma avui, arres<br />

pot fer pels catelans. 62<br />

Dunque possiamo affermare, secondo gli esempi riportati, che il fascismo ad<br />

Alghero mise in atto tutta una serie di misure finalizzate alla definitiva<br />

italianizzazione di una popolazione che, in fin dei conti, manteneva tratti culturali<br />

abbastanza diversi da quelli italiani. Lo scopo era quello di realizzare, final-<br />

62 Ivi, pp. 341-342.<br />

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92 Marcello A. Farinelli<br />

mente, la nazione italiana, e come tale si è trattato di iniziative che non erano<br />

unicamente rivolte ad Alghero, o alla Sardegna, ma a tutte le realtà ancora «scarsamente<br />

italianizzate». La scuola riformata da Gentile, la religione della patria<br />

insegnata ai bambini, il cambio dei toponimi e la colpevolizzazione del dialetto<br />

come sinonimo di inferiorità dovettero avere conseguenze importanti nel modo<br />

di autorappresentarsi di molti algheresi, soprattutto in quanti erano nati e cresciuti<br />

durante il Ventennio; a questi fattori, in verità, dovremmo aggiungere<br />

l’importanza che hanno avuto l’inizio della bonifica della Nurra e la costruzione<br />

di Fertilia, città nuova dallo stile fascista e dal nome italianissimo, o ancora<br />

la martellante propaganda sui destini imperiali della stirpe italiana. Dunque la<br />

catalanità di Alghero, intesa come una serie di caratteri culturali e linguistici<br />

presi a fondamento di una supposta identità, subisce una mutazione e, per così<br />

dire, diminuisce durante gli anni del regime.<br />

Questo processo di italianizzazione, comunque, non portò assolutamente ad<br />

una repressione dura, e non risulta che in nessun caso sia stato perseguitato chi<br />

parlava in dialetto, come al contrario accadeva oltremare; la politica fascista, se<br />

paragonata a quella franchista, era in un certo senso più prudente, ma allo stesso<br />

tempo forse più sottile, perché giocava ad introdurre cambiamenti importanti, ma<br />

relativamente indolori, almeno riguardo la situazione algherese. Come abbiamo<br />

visto, infatti, in zone molto più conflittuali come il Sud Tirolo o la Dalmazia<br />

occupata, la repressione era molto più dura, con squadre fasciste che assaltavano<br />

scuole ed istituzioni culturali tedesche e con la deportazione di parte della popolazione<br />

slava. Se ad Alghero non succede niente che possa ricordare quei tristi<br />

episodi, in buona parte è perché quelli che abbiamo definito catalanisti algheresi,<br />

volenti o nolenti, non costituiscono affatto una opposizione; questi intellettuali<br />

non sembrano comprendere che il nazionalismo estremo insito nel fascismo italiano<br />

comportava, inevitabilmente, la messa in secondo piano di tutto quel che<br />

riguardava la cultura catalana, in quanto cultura straniera, e come obiettivo a lungo<br />

termine si poneva la sua cancellazione dal patrimonio storico-culturale di<br />

Alghero. In fin dei conti questi intellettuali non si opposero «all’oscurantismo<br />

culturale del periodo fascista» e nemmeno alla «colpevolizzazione che il regime<br />

di Mussolini praticò nei confronti dei dialetto-parlanti», 63 non rappresentando alcuna<br />

opposizione al fascismo in quanto nazionalismo italiano, ed è forse questo il<br />

fattore che più ha favorito l’opera d’italianizzazione condotta in vent’anni di regime<br />

ad Alghero, spianando la strada a quella sostituzione linguistica che tanto ha<br />

interessato linguisti e filologi durante gli ultimi decenni.<br />

63 R. CARIA, L’Alguer cit., p. 30.<br />

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FRANCO OPPO: IL MUSICISTA ORGANICO<br />

Antonio Trudu<br />

Università di Cagliari<br />

Se si pensa a un compositore del Novecento che abbia fatto della sua musica e<br />

del suo essere musicista uno strumento di comunicazione politica e sociale, il<br />

pensiero corre senza alcuna esitazione a Luigi Nono. Fu proprio lui, infatti, il<br />

primo a introdurre tra le problematiche della cosiddetta «scuola di Darmstadt» 1<br />

quella dell’impegno, soprattutto a partire dal suo Canto sospeso per soprano,<br />

contralto, tenore, coro misto e orchestra (1956), su testi di condannati a morte<br />

della Resistenza europea, raccolti da Giovanni Pirelli. 2 Nei suoi scritti, Luigi<br />

Nono ha illustrato a più riprese il carattere del suo impegno, prendendo lo spunto,<br />

ovviamente, dal concetto gramsciano di «intellettuale organico». 3 In una delle<br />

sue pagine fondamentali, 4 Nono ha rifiutato decisamente l’etichetta di «musicista<br />

esteta», dell’artista, cioè, che «è al di sopra e che vede da più lontano»,<br />

considerandosi a tutti gli effetti un musicista militante, con tutte le contraddizioni<br />

e le responsabilità che questo implica. «È chiaro – ha precisato Nono – che<br />

questa posizione è molto lontana, e anche agli antipodi rispetto a quella del musicista<br />

che pretende di essere, oggi come ieri, ‘al di sopra della mischia’, o peggio,<br />

un ‘medium tra l’universale e la massa’: queste posizioni sono al contrario ben<br />

radicate nelle istituzioni ufficiali, al servizio della classe borghese. (Ma Verdi, per<br />

citare un solo esempio che mi è molto caro, era al di sopra della mischia?)». 5<br />

In un’altra occasione, parlando del ruolo dell’intellettuale nel nostro tempo,<br />

6 lo stesso Nono ritornò sull’insegnamento politico-culturale di Antonio<br />

Gramsci, che aveva auspicato uno stretto rapporto tra arte e lotta di classe, rico-<br />

1 Per un inquadramento critico delle vicende dell’avanguardia postweberniana e del gruppo di<br />

compositori e musicologi che negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento si incontravano<br />

annualmente in occasione dei corsi estivi di Darmstadt, cfr. A. TRUDU, La «scuola» di Darmstadt.<br />

I Ferienkurse dal 1946 a oggi, Milano, 1992.<br />

2 L. NONO, Il canto sospeso, Ars Viva AV 50.<br />

3 Cfr. A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V.<br />

Garratana, Torino, 1975, III, pp. 1513-1524, 1550-1551.<br />

4 L. NONO, Sono un musicista militante, in L. NONO, Scritti e colloqui, a cura di A. I. De Benedictis<br />

e V. Rizzardi, Lucca, 2001, I, p. 288.<br />

5 Ibid.<br />

6 L. NONO, Intervista di Jean Villain, in L. NONO, Scritti e colloqui cit., II, p. 132.<br />

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<strong>INSULA</strong>, num. 6 (dicembre 2009) 93-120<br />

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Antonio Trudu<br />

noscendo che la cultura è un elemento essenziale nella battaglia della classe<br />

operaia per la sua egemonia e come tale è collegato strettamente con la concezione<br />

e con l’aspirazione a una società nuova e meglio organizzata. «Noi ci<br />

consideriamo – sottolineò deciso – produttori di cultura inseriti nella lotta politica<br />

militante. Il pittore non è solo pittore, il musicista non è solo musicista,<br />

entrambi sono in primo luogo compagni che partecipano con il loro lavoro alla<br />

lotta politica organizzata e mettono a disposizione della loro classe le loro particolari<br />

capacità di musicisti, attori o pittori». 7<br />

Non è questa la sede per ripercorrere le principali tappe della carriera artistica<br />

noniana e di ricordare la molteplicità delle manifestazioni del suo impegno<br />

civile e politico, che lo vide attivo non solo come compositore, ma anche come<br />

politico militante, come viaggiatore attento in numerosi Paesi dell’Europa orientale<br />

e dell’America Latina, come interlocutore sempre assai propositivo dei principali<br />

dirigenti del Partito Comunista Italiano, al quale si iscrisse nel 1952 e del<br />

cui Comitato Centrale divenne membro nel 1975. 8<br />

Pur se meno noto a livello sia nazionale che internazionale, pur se spesso<br />

lontano dalla luce dei riflettori, anche perché la sua attività si è svolta quasi<br />

esclusivamente in Sardegna, Franco Oppo deve essere considerato non soltanto<br />

un musicista militante nel senso in cui lo ha descritto e lo ha incarnato Nono, ma<br />

addirittura un intellettuale più calato nella realtà in cui vive, impegnato in maniera<br />

più completa e articolata, proprio come lo ha indicato Antonio Gramsci<br />

quando ha scritto: «Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere<br />

nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni,<br />

ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore,<br />

“persuasore permanentemente” perché non puro oratore». 9<br />

Nella sua attività Franco Oppo si è veramente mescolato alla vita pratica,<br />

unendo alla sua attività di compositore quella di insegnante, di sindacalista, di<br />

organizzatore di attività musicali, di membro del consiglio di amministrazione<br />

della cagliaritana Istituzione dei concerti e del Teatro Lirico «Giovanni Pierluigi<br />

da Palestrina», che per un breve periodo diresse, in compagnia di due importanti<br />

personaggi della vita musicale del capoluogo sardo, sempre dimostrandosi<br />

fautore di una musica intesa non come privilegio per pochi, ma come strumento<br />

di crescita sociale.<br />

7 Ivi, p. 133.<br />

8 Cfr. A. TRUDU, «A me piace scrivere lettere». Introduzione al carteggio, in Luigi Nono. Carteggi<br />

concernenti politica, cultura e Partito Comunista Italiano, a cura di A. Trudu, Firenze, 2008, p. V.<br />

9 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere cit., III, p. 1551.<br />

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FRANCO OPPO: IL MUSICISTA ORGANICO<br />

Sebbene nel 2005 siano stati festeggiati i suoi 70 anni e nonostante una<br />

malattia ne abbia rallentato i ritmi di lavoro, la sua attività compositiva non ha<br />

fino a oggi subito interruzioni. Anzi, nei primi anni dopo il suo pensionamento,<br />

Oppo diceva scherzosamente agli amici di aver preso a scrivere più di prima,<br />

perché l’insegnamento toglieva inevitabilmente continuità e concentrazione al<br />

suo lavoro di compositore.<br />

Nato a Nuoro nel 1935, 10 Franco Oppo ha condotto i suoi studi musicali a<br />

Cagliari, dove si è diplomato in musica corale, pianoforte e composizione. In<br />

seguito ha proseguito gli studi di composizione a Venezia con Giorgio Federico<br />

Ghedini, a Roma con Goffredo Petrassi e con Franco Evangelisti (con quest’ultimo<br />

per la musica elettronica) a Varsavia con Piotr Perkowski. Ma assai importanti,<br />

nella sua formazione musicale, sono stati anche gli incontri, avvenuti nel<br />

conservatorio cagliaritano, con Renato Fasano e con Marcello Abbado.<br />

Fasano dirigeva il conservatorio cagliaritano all’inizio degli anni Cinquanta,<br />

quando Franco Oppo iniziò i suoi studi musicali. Non era certamente un<br />

progressista, era stato assai attivo durante il periodo fascista, ma il suo rapporto<br />

con la musica era essenzialmente pragmatico. A Cagliari era stato l’artefice della<br />

trasformazione in Conservatorio della Scuola Civica di Musica e il fondatore<br />

dell’Istituzione dei Concerti. A Venezia, il cui Conservatorio diresse dopo quello<br />

di Cagliari, ideò le Vacanze Musicali e i corsi di perfezionamento estivi. Ma<br />

in precedenza aveva creato il gruppo strumentale «I Virtuosi di Roma», che gli<br />

diede notorietà internazionale e ne fece il primo grande divulgatore della musica<br />

di Vivaldi e del Settecento veneziano. «Quest’uomo ‘potente’ – ha raccontato<br />

lo stesso Oppo – sin dal mio ingresso in conservatorio ha avuto nei miei<br />

confronti (non so perché) un atteggiamento protettivo e paterno (non però<br />

paternalistico), dandomi quella fiducia che spesso i giovani riescono ad avere<br />

solo quando si sentono le spalle coperte; un esempio: gli studenti non sono in<br />

grado di eseguire il mio Quintetto per strumenti a fiato? Allora lo suonino i<br />

professori. […] Probabilmente, se fosse rimasto qui, i miei contrasti con i docenti<br />

di composizione sarebbero stati attenuati». 11<br />

10 Per la ricostruzione delle vicende biografiche di Franco Oppo è fondamentale, come del resto<br />

ha affermato lo stesso compositore, il cui archivio conserva quasi esclusivamente documenti<br />

legati alla sua attività artistica, una sorta di autobiografia che Oppo ha raccontato nel corso di<br />

una lunga intervista rilasciata nel 2004: G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo, in M.<br />

CARRARO-S. MELIS, G. N. SPANU (a cura di), Franco Oppo. Musiche per pianoforte solo e con<br />

strumenti, Fondazione Banco di Sardegna, Comune di Nuoro – Assessorato alle Politiche<br />

Educative, CERM Ensemble, s. l., 2004, pp. 4-64.<br />

11 Ivi, pp. 18-19.<br />

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Antonio Trudu<br />

Marcello Abbado, fratello di Claudio e per molti anni direttore del Conservatorio<br />

di Milano, fu il primo maestro di pianoforte di Oppo che per la composizione<br />

frequentava l’unica classe esistente in quegli anni, quella tenuta da Franco<br />

Margola. «Grazie e questi due maestri – ricorda Oppo – il primo impatto con<br />

l’ambiente del conservatorio è stato estremamente positivo. Mi hanno subito<br />

aperto gli occhi e lì ho capito che bisognava guardare oltre il mare: non è esagerato<br />

dire che quel primo anno è stato il più importante di tutto il periodo degli<br />

studi. Senza questa premessa non so immaginare come avrei potuto sfuggire ai<br />

condizionamenti conservativi e provinciali dell’ambiente musicale cagliaritano<br />

e alla pressione, da parte dei successivi maestri, affinché mi orientassi verso<br />

modelli accademici tradizionali». 12<br />

Trasferito Margola in un conservaotrio della penisola, l’incarico di tenere la<br />

classe di composizione fu affidato allo stesso Marcello Abbado, che dunque divenne<br />

l’unico punto di riferimento per il giovane Oppo sia per lo studio del pianoforte,<br />

sia per la composizione. Fu lui che avviò l’allievo allo studio e all’analisi<br />

delle opere degli autori contemporanei: Bartók, Hindemith, Petrassi, Stravinskij.<br />

Durante quel primo anno di studio, Franco Oppo scrisse un Quintetto per<br />

strumenti a fiato in quattro tempi che, a causa della sua conoscenza degli strumenti<br />

ancora assai limitata, risultò assai difficile da eseguire e fu per questo che<br />

Fasano decise di coinvolgere, per l’esecuzione al saggio di fine anno, i docenti<br />

dei diversi strumenti. «La composizione – rievoca Oppo – fece molto scalpore:<br />

era inaudito, e per qualcuno addirittura intollerabile, che uno studente del primo<br />

anno di conservatorio potesse scrivere simili cose. Per Abbado, invece, fu un<br />

conforto constatare che quell’anno trascorso in esilio in Sardegna non fosse<br />

stato totalmente sprecato». 13<br />

Decisamente più problematico e conflittuale il rapporto con Ennio Porrino,<br />

che alla partenza di Franco Margola fu incaricato di dirigere il Conservatorio<br />

cagliaritano. Fervente fascista ed esponente della corrente antimodernista e conservatrice,<br />

Porrino era convinto che l’unica possibile nuova strada della musica<br />

del Novecento fosse quella della neo-modalità e considerava follie tutte le altre<br />

correnti della musica contemporanea. Poiché «era arroccato su una concezione<br />

nazionalistica della musica oltre la quale non era capace di volgere lo sguardo e<br />

professava una sorta di integralismo estetico, nel nome di una ipotetica e<br />

anacronistica italianità della musica», 14 pensava che un giovane come Oppo,<br />

12 Ivi, pp. 11-12.<br />

13 Ivi, pp. 12-13.<br />

14 Ivi, p. 17.<br />

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FRANCO OPPO: IL MUSICISTA ORGANICO<br />

attratto dai linguaggi musicali più nuovi, dovesse essere letteralmente ‘rieducato’,<br />

almeno dal punto di vista musicale. «Forse – ha ammesso Oppo – mi riconosceva<br />

un qualche talento: e per questo si sentiva in dovere di ricondurmi sulla ‘retta<br />

via’; vedendo, però, la mia ritrosia, assunse un atteggiamento ostile. Sembrava<br />

farne una questione personale: il mio diniego l’offendeva e i nostri rapporti<br />

divennero veramente pessimi. Credo che lui non abbia mai avuto nessuna stima<br />

per ciò che pensavo e scrivevo». 15<br />

Porrino, come in seguito avrebbe fatto anche Franco Oppo, aveva utilizzato,<br />

in numerose sue composizioni, temi tratti dal ricco patrimonio della musica<br />

popolare sarda; ma una differenza fondamentale avrebbe distinto i due modi<br />

diversi di accostarsi a quelle musiche. Per Oppo, infatti, la musica della Sardegna<br />

è un imprescindibile bagaglio di conoscenze, incarnato, già dai primi anni<br />

di vita, nel suo modo di concepire e pensare i suoni, prima ancora di maturare la<br />

conoscenza e l’esercizio del linguaggio musicale ‘colto’; per lui la tradizione<br />

musicale isolana non è mai stato un facile serbatoio di melodie da armonizzare<br />

e arrangiare, ma piuttosto un’arte antica e tuttora viva da studiare, penetrare e<br />

re-interpretare nei suoi fondamenti linguistici e strutturali. Egli insomma, come<br />

si legge nella «Premessa» all’opuscolo che accompagna il CD monografico con<br />

le sue musiche per pianoforte, «prende dalla cultura sarda per riconsegnare alla<br />

stessa cultura un prodotto carico della propria personale interpretazione e intelligenza<br />

musicale». 16 Ben diverso l’impiego dei suggestivi temi della musica sarda<br />

da parte di Porrino che, come ha giustamente sottolineato Oppo, «aveva<br />

della Sardegna (che penso conoscesse ben poco) una visione idealizzata e<br />

oleografica, che ben si rispecchia nella sua musica». 17<br />

Si capisce bene, dunque, come alla partenza di Abbado da Cagliari per il<br />

giovane musicista nuorese, che proseguì lo studio del pianoforte sino al diploma<br />

sotto la guida di Anna Paolone Zedda, per la composizione iniziasse quello<br />

che lui stesso ha descritto come «un calvario di incertezze e di vuoti», 18 tanto<br />

che ben presto si rese conto di essere isolato e di doversela cavare da solo. Ed è<br />

per questo che nelle scarne note biografie o autobiografiche che sono disponibili<br />

su di lui, oltre a Margola non figurino altri docenti del Conservatorio cagliaritano.<br />

19 Mentre vengono citati ripetutamente, fra i compositori con i quali Oppo<br />

15 Ibid.<br />

16 Ivi, p. 3.<br />

17 Ivi, p. 17.<br />

18 Ivi, p. 13.<br />

19 Cfr., per esempio, A. TRUDU, «Franco Oppo», in A. BASSO (a cura di), Dizionario Enciclopedico<br />

Universale della Musica e dei Musicisti (DEUMM), Le biografie, V, Torino 1988, p. 453.<br />

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Antonio Trudu<br />

ha studiato, Giorgio Federico Ghedini, Goffredo Petrassi, Franco Evangelisti,<br />

Piotr Perkowski.<br />

Di Ghedini, Oppo fu allievo dal 1958 al 1963 durante i corsi internazionali<br />

estivi di perfezionamento delle Vacanze Musicali di Venezia, che duravano due<br />

mesi e che erano assai diversi dai corsi di perfezionamento attuali, brevissimi e<br />

assai costosi, che spesso vengono frequentati dai giovani musicisti esclusivamente<br />

per poter aggiungere nel curriculum vitae un nome illustre fra i compositori<br />

di cui si è stati allievi. La personalità e la solidità musicale di Ghedini, come<br />

ha ammesso lo stesso Oppo, ebbero su di lui una notevole influenza, anche se<br />

poi sarebbe inutile cercarne tracce precise nella sua musica: «Ghedini era saldamente<br />

ancorato a una concezione tradizionale e conservativa della composizione<br />

ma badava quasi esclusivamente agli aspetti espressivi, alla sostanza al di là<br />

degli schematismi tecnici e formali; per questo il suo rapporto con gli studenti<br />

risultava comunque costruttivo». 20<br />

Ma la funzione di Ghedini nella formazione di Franco Oppo fu anche quella<br />

di una sorta di «contrappeso al radicalismo seriale, quasi religioso, che in quegli<br />

anni aveva ‘travolto’ molti giovani compositori», 21 una sorta di alternativa critica<br />

rispetto alle opere assai avanzate che i giovani frequentatori dei corsi veneziani<br />

potevano ascoltare grazie alla concomitanza, nel mese di settembre, delle<br />

Vacanze Musicali con il Festival Internazionale di Musica Contemporanea della<br />

Biennale. «Questa concomitanza – ha ricordato Oppo – rendeva prezioso il<br />

soggiorno a Venezia nel mese di settembre e per noi, giovani compositori, era<br />

proprio una pacchia, un concentrato di nuova musica, un’occasione unica per<br />

ascoltare, anno dopo anno, le novità dei più importanti compositori contemporanei:<br />

da Stravinskij a Stockhausen, da Malipiero a Maderna e Nono, da Boulez<br />

a Cage, a Feldman ecc.». 22<br />

Intanto Oppo si era diplomato in pianoforte nel 1958 e in composizione nel<br />

1960. Sebbene sino alla metà degli anni Sessanta non gli fosse ancora chiaro se<br />

avrebbe fatto il pianista o il compositore, nei mesi invernali fra il 1961 e il 1962 e fra<br />

il 1962 e il 1963 visse a Roma dove fece un anno di tirocinio con Virgilio Mortari e<br />

dove frequentò il corso di Goffredo Petrassi all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.<br />

Petrassi era uno dei più importanti compositori italiani e probabilmente il<br />

docente più apprezzato, tanto è vero che era titolare del corso sicuramente più<br />

prestigioso in Italia: quello di perfezionamento in composizione dell’Accade-<br />

20 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., pp. 23-24.<br />

21 Ivi, p. 24.<br />

22 Ibid.<br />

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FRANCO OPPO: IL MUSICISTA ORGANICO<br />

mia di Santa Cecilia. L’incontro con Petrassi, che ancora a distanza di molti<br />

anni ricordava Franco Oppo come «un bravo musicista», 23 fu decisamente importante<br />

per Oppo, anche perché il suo rapporto con gli allievi, alquanto distaccato,<br />

era assai diverso da quello di Ghedini: preferiva soffermarsi sugli aspetti<br />

tecnici, come se non volesse invadere l’ambito personale e la coscienza estetica<br />

dei singoli allievi, rispettoso delle diverse nazionalità e scuole di appartenenza.<br />

Ciò che l’incontro con il Petrassi uomo, compositore e docente gli ha lasciato,<br />

Franco Oppo ha voluto sintetizzarlo in una composizione del 2004, centenario<br />

della nascita del Maestro, dal titolo enigmatico, Alcune verità indimostrabili,<br />

per flauto, clarinetto basso, percussione, pianoforte, violino e violoncello:<br />

ascendenze innegabili, ma difficili da argomentare e da rintracciare nelle partiture.<br />

«Tuttavia – ha ammesso Oppo – le mie composizioni scritte tra il 1962 e il 1964<br />

hanno una ‘cifra’ riconducibile al suo insegnamento: oltre al Lamento dal Salmo<br />

XIII, il Movimento per quartetto d’archi, Epitaffio e Don Chisciotte, anche<br />

se questi ultimi due lavori contengono già elementi di aleatorietà, che prefigurano<br />

i miei futuri orientamenti compositivi». 24<br />

Il periodo trascorso a Roma con Petrassi rappresentò il momento di consolidamento<br />

e di sintesi di tutte le precedenti esperienze e chiuse il lungo periodo<br />

della formazione. Come ricorda lo stesso Oppo, 25 il 1963 fu un anno assai importante,<br />

perché da un lato fu l’anno di composizione del primo lavoro maturo,<br />

il Lamento dal Salmo XIII, dall’altro perché fu alla fine di quell’anno che Oppo<br />

ottenne una borsa di studio del Ministero degli Esteri che gli permise di soggiornare<br />

in Polonia per due anni.<br />

Su suggerimento di Luigi Nono, che Oppo aveva conosciuto a Venezia, la<br />

partitura del Lamento era stata proposta per l’esecuzione a Mario Labroca, direttore<br />

del Festival veneziano, che inserì la composizione nella programmazione<br />

del festival dell’anno successivo, nel corso del quale fu eseguita al Teatro La<br />

Fenice il 13 settembre 1964, diretta dal polacco Andrzej Markowski, uno dei<br />

più attivi divulgatori della musica contemporanea di quegli anni.<br />

Il soggiorno in Polonia, invece, ebbe una duplice ragione. La prima, e la<br />

cosa non può certo sorprendere, fu una ragione musicale. Nell’ambito della<br />

cosiddetta avanguardia postweberniana tutto si evolveva con estrema rapidità e<br />

23 Così Petrassi definì il suo vecchio allievo Franco Oppo nel corso di una conversazione con<br />

l’autore di queste pagine, che ebbe luogo durante il 5° Seminario di studi e ricerche sul linguaggio<br />

musicale del settembre1975, tenutosi a Villa Cordellina-Lombardi, Montecchio Maggiore<br />

(Vicenza).<br />

24 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., pp. 26-27.<br />

25 Ivi, p. 25.<br />

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Antonio Trudu<br />

la poetica del serialismo integrale, alla quale peraltro Oppo non aveva mai aderito,<br />

si stava rapidamente esaurendo; in Polonia, dove si diceva stesse accadendo<br />

qualcosa di importante e di nuovo per la musica europea, c’era un grande<br />

fermento. La seconda può essere definita una ragione in qualche modo ‘politica’,<br />

cioè la curiosità per il mondo oltre la cosiddetta ‘cortina di ferro’, del quale<br />

tanti amici musicisti polacchi e ungheresi conosciuti a Roma e a Venezia avevano<br />

sdrammatizzato la situazione. «In quegli anni – precisa Oppo – l’informazione<br />

e la disinformazione erano strumenti fondamentali della lotta politica e una<br />

densa ‘cortina fumosa’ rendeva difficile vedere e conoscere la realtà delle cose;<br />

ma la mia generazione aveva ormai bisogno di capire. Quelli che avevo conosciuto<br />

erano musicisti normali, spesso più preparati e in generale molto più colti<br />

di noi: non potevano che avere alle spalle una buona scuola». 26<br />

Il primo dei due anni in Polonia, Oppo lo trascorse a Cracovia, dove potè<br />

contare su un piccolo appartamento con un pianoforte a coda che gli mise a disposizione<br />

il suo amico Markowski, direttore stabile dell’orchestra di Cracovia. Fu<br />

un anno dedicato allo studio del pianoforte, ma anche all’approfondimento della<br />

conoscenza del violoncello e all’esplorazione delle nuove possibilità tecniche ed<br />

espressive di quello strumento, grazie alla frequentazione di Krzysztof Okoñ, un<br />

violoncellista che Oppo aveva conosciuto a Venezia e del quale era diventato<br />

amico a Roma, dove il musicista polacco seguiva il corso di perfezionamento di<br />

Enrico Mainardi all’Accademia di Santa Cecilia. Il risultato di quel lavoro di<br />

approfondimento fu il Concerto per violoncello e orchestra, completato nel 1964<br />

ed eseguito per la prima volta durante gli Internationale Ferienkurse für Neue<br />

Musik di Darmstadt del 1966, interpretato dallo stesso Okoñ e diretto da Markowski.<br />

Però, come ha rivelato Franco Oppo, gli effetti di quel lavoro con il violoncellista<br />

di Cracovia si estesero anche al Trio per pianoforte, violino e violoncello, scritto<br />

nel 1968 ed eseguito per la prima volta a Rotterdam nel 1970.<br />

Ma il soggiorno a Cracovia fu anche utile a Oppo per fare chiarezza sul suo<br />

futuro e per decidere di abbandonare la strada del pianoforte, che gli si presentava<br />

stretta e incerta, per seguire senza più esitazioni quella della composizione.<br />

Fu così che nacque la decisione di lasciare Cracovia e di trascorrere il secondo<br />

anno del soggiorno polacco a Varsavia, soprattutto in seguito alla considerazione<br />

che per poter fare il compositore era necessario instaurare rapporti e coltivare<br />

amicizie, stare all’interno di una comunità della quale si condividevano gli<br />

interessi culturali e gli obiettivi. 27<br />

26 Ivi, p. 27-28.<br />

27 Ivi, p. 30.<br />

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Se prima dei due anni trascorsi in Polonia il giovane Oppo aveva già un chiaro<br />

orientamento politico e si collocava in quella che allora si chiamava l’area socialista,<br />

frequentando la famiglia di Emilio Lussu a Cagliari, a Roma e ad Armungia, 28<br />

al ritorno dalla Polonia, come lui stesso ha sottolineato, era decisamente comunista.<br />

Il ricordo, a distanza di quarant’anni, è ancora vivido, nella mente del compositore:<br />

«L’esperienza del socialismo reale mi aveva convinto. I primi tre-quattro<br />

mesi sono stati molto difficili, se fossi rientrato allora in Italia non avrei reagito<br />

diversamente dai frettolosi visitatori dei paesi dell’est: “comunismo?... no grazie”.<br />

Ma per fortuna il mio soggiorno in Polonia è stato assai più lungo. Per capire<br />

c’è voluto un po’ di tempo: diverso l’ordine sociale, diversi i valori prioritari, i<br />

comportamenti, le convenzioni, i ritmi di vita, i caratteri ecc., e poi la barriera<br />

della lingua… Solo quando ho iniziato a comunicare con i polacchi nella loro<br />

lingua, ho cominciato gradualmente a capire tutto il resto». 29<br />

Le differenze fra l’Italia liberista e capitalista e la Polonia comunista erano<br />

evidenti. Da un lato, per esempio, una società, quella italiana, caratterizzata da<br />

una frattura sociale e dalla contrapposizione di classe; dall’altro, la sensazione<br />

che la società polacca fosse omogenea e giusta, anche se, ovviamente, non priva<br />

di problemi. Se in Italia l’artista era per definizione «un morto di fame», lì<br />

invece era per tutti «un importante rappresentante della cultura e dell’identità<br />

nazionale». 30 E anche il problema delle libertà individuali, autentico cavallo di<br />

battaglia della propaganda anticomunista, almeno vivendo nella Polonia degli<br />

anni Sessanta, risultava del tutto inesistente.<br />

Una delle conseguenze della parentesi polacca fu il mancato ‘arruolamento’<br />

del giovane Oppo da parte di nessuna delle due cerchie di compositori dominanti<br />

in Italia, quella romana e quella milanese. Erano gli anni, non sarà inutile<br />

ricordarlo, del dominio quasi incontrastato della cosiddetta avanguardia<br />

postweberniana, tanto che i compositori appartenenti a quel gruppo erano afflitti<br />

– è Oppo che l’ha detto – da una sorta di complesso di superiorità che li<br />

spingeva a credere che tutta la musica che non rientrava nei canoni da loro<br />

condivisi fosse musica senza valore. E questo atteggiamento, inteso come posizione<br />

estetica, avrebbe anche potuto essere rispettato e forse anche condiviso,<br />

se non avesse prodotto una forma di neo-accademismo non meno nocivo del-<br />

28 Oppo era amico del figlio di Lussu, Giuannicu, e della moglie Joyce, che fra l’altro aveva<br />

tradotto alcune poesie del poeta turco Nazim Hikmet, che il compositore aveva utilizzato per<br />

un’opera del 1964, Ciò che ho scritto, per soprano e 4 strumenti, eseguita per la prima volta a<br />

Cracovia nel 1965.<br />

29 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 57.<br />

30 Ivi, p. 58.<br />

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Antonio Trudu<br />

l’accademismo vecchio stampo: «Non c’è niente da fare, l’applicazione religiosa<br />

di rigidi canoni chiude la porta a tutto ciò che se ne discosta: una non piccola<br />

contraddizione per una musica che voleva essere a tutti i costi progressiva e<br />

innovativa e che invece, spesso, finiva per essere piatta e indistinguibile. Per<br />

uno come me, che per tanti anni aveva dovuto difendersi dall’accademismo<br />

imperante nei conservatori italiani, era impossibile condividere quelle posizioni.<br />

Per questo motivo, forse, non ho mai fatto parte di una precisa cerchia di<br />

compositori né, tanto meno, di un gruppo di potere. In quegli anni Roma e<br />

Milano erano i due poli attorno ai quali ruotava la musica contemporanea italiana.<br />

Se nel biennio 1964-65 non fossi scomparso ‘oltre cortina’, mi sarei probabilmente<br />

ritrovato inquadrato da una parte o dall’altra». 31<br />

Al rientro a Cagliari dopo i due anni in Polonia, per Oppo fu giocoforza<br />

diventare politicamente attivo. Frequentando quasi esclusivamente persone di<br />

sinistra, inevitabilmente molte vecchie amicizie degli anni della formazione andarono<br />

un po’ per volta perdute. All’interno del Conservatorio cagliaritano, dove<br />

gli fu affidato l’incarico del corso di Armonia e contrappunto, Oppo si impegnò<br />

nella coordinazione dei pochi colleghi ‘progressisti’ che avevano aderito al Sindacato<br />

Musicisti Italiani (SMI), i pochi, come ha precisato, che avevano il coraggio<br />

di ‘venire allo scoperto’ rischiando ritorsioni e ricatti. Più tardi, alla metà<br />

degli anni Settanta, Oppo ebbe anche un ruolo attivo all’interno della federazione<br />

regionale del Partito Comunista Italiano, dove per alcuni anni fu responsabile<br />

per le attività musicali. Ma lo spazio per poter incidere concretamente sulla<br />

politica musicale regionale era assai ristretto, tanto è vero che di quell’incarico<br />

non rimangono tracce di rilievo.<br />

Decisamente più efficace, invece, la partecipazione al consiglio di amministrazione<br />

dell’Istituzione dei concerti e del teatro lirico «Giovanni Pierluigi da<br />

Palestrina», che era la vera sede del confronto tra Democrazia Cristiana e Partito<br />

Comunista Italiano sulla politica regionale dello spettacolo. Oppo era consigliere<br />

nella sua qualità di segretario regionale dello SMI e in almeno due occasioni fu il<br />

candidato della sinistra per la sovrintendenza, sconfitto però sempre di misura dal<br />

candidato democristiano di turno. Nel 1977, per una serie di circostanze fortunate,<br />

all’interno del consiglio di amministrazione del «Palestrina» si raggiunse un<br />

compromesso nominando non un sovrintendente, ma una commissione consiliare<br />

di sovrintendenza, formata da Oscar Crepas, Flavio Dessy Deliperi e Franco Oppo,<br />

appunto. Grazie a quella terna illuminata e grazie soprattutto a Franco Oppo, ma<br />

anche alla lungimiranza del direttore artistico del «Palestrina», Nino Bonavolontà,<br />

31 Ivi, pp. 31-32.<br />

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fu possibile raggiungere un obiettivo davvero straordinario: la realizzazione, nel<br />

1977 e nel 1978, delle Giornate di musica contemporanea, festival internazionale<br />

che, sull’onda lunga del Sessantotto, ebbe un grande successo di pubblico e<br />

attirò l’attenzione dei maggiori quotidiani italiani.<br />

Nel 1977 si chiamarono Giornate di musica e arte contemporanea, perché<br />

oltre alla musica ci fu la mostra «Punto e linea sulla superficie» curata da Marisa<br />

Volpi Orlandini e due conferenze su temi riguardanti le arti figurative: la prima<br />

della curatrice della mostra (Perché l’arte è storia dell’arte), la seconda di Gillo<br />

Dorfles che parlò di Segno musicale e segno grafico. La parte musicale comprendeva<br />

sei concerti, quattro sinfonici diretti da Alberto Peyretti (2), da Nino<br />

Bonavolontà e da Vittorio Gelmetti, con solisti del calibro di Severino Gazzelloni,<br />

Ingrid Frauchiger, Franco Maggio Ormezowski e Carmen Fournier; due<br />

cameristici, il primo dei quali con il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza,<br />

il secondo con alcuni strumentisti locali (Gabriella Artitzu, Giovanni<br />

Corrias, Silvano Minella, Francesco e Orlando Pittau), ai quali si aggiunsero<br />

Enore Zaffiri (sintetizzatore) e il mezzo soprano Ellen Kappel. Il programma<br />

proponeva, fra l’altro, opere di Varèse, Evangelisti, Stockhausen, Sciarrino,<br />

Penderecki, Scelsi, Boulez, Oppo, Donatoni Maderna, Manzoni, Togni. Ai concerti<br />

si aggiunsero una conferenza di Enrico Fubini (L’avanguardia nei suoi<br />

rapporti con pubblico e con la critica), quattro incontri con Claudio Casini,<br />

Boris Porena, Enore Zaffiri e con i componenti del Gruppo Nuova Consonanza,<br />

una tavola rotonda dal titolo Tendenze e orientamenti delle avanguardie: un<br />

bilancio, alla quale parteciparono, fra gli altri, Mario Bortolotto, Claudio Casini,<br />

Gillo Dorfles, Enrico Fubini, Mario Messinis, Luigi Pestalozza, Marisa Volpi<br />

e Michelangelo Zurletti. 32<br />

Quella rassegna, che deve essere considerata un passo avanti fondamentale<br />

per l’introduzione del pubblico di Cagliari alle difficoltà della musica nuova,<br />

attirò un pubblico numerosissimo che, anche quando fra gli interpreti non c’era<br />

il flauto d’oro di Severino Gazzelloni, già divo televisivo, gremì la Cripta di<br />

San Domenico, in cui si svolse la maggior parte delle manifestazioni, in ogni<br />

suo spazio (e molti non vi trovarono posto), dimostrando quanto fosse grande la<br />

richiesta di informazione sulla musica contemporanea da parte di un pubblico<br />

che ne era sempre stato escluso dalla programmazione non certo apertissima al<br />

nuovo dell’Istituzione dei Concerti, e quanto opportuna fosse stata la svolta<br />

fortemente voluta da Franco Oppo.<br />

32 Sulle Giornate di musica e arte contemporanea, cfr. A. TRUDU, Da Cagliari, «Nuova Rivista<br />

Musicale Italiana», XI, n. 3 (luglio-settembre 1977), pp. 445-448.<br />

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Antonio Trudu<br />

Nel 1978 si ebbe la seconda edizione delle Giornate di musica contemporanea,<br />

che si svolsero nel nuovissimo Auditorium del Conservatorio, questa volta<br />

dedicate esclusivamente alla musica. Il programma comprendeva otto concerti<br />

che diedero una dimensione europea a un’attività che troppo a lungo, in precedenza,<br />

era rimasta provinciale e isolata. I principali meriti di quel ciclo erano la<br />

programmazione quanto mai varia e interessante, che accostava opere di maestri<br />

del Novecento come Berio, Bussotti, Clementi, Donatoni, Ligeti, Penderecki,<br />

autori ancora poco noti ma importantissimi come Kurtág, Lachenmann, Scelsi,<br />

Sciarrino, compositori sardi maturi come Montis e Oppo e giovani poco più che<br />

esordienti come Carlo Cabiddu, Enrico Di Felice, Franco Fois, Riccardo Leone,<br />

Gigi Marras, Marcello Pusceddu, ma anche la presenza di interpreti di notevole<br />

valore come i direttori Gianluigi Gelmetti e Andrzey Markowski, il violoncellista<br />

Franco Maggio Ormezowski, la cimbalista Márta Fábian, il soprano<br />

Gabriella Ravazzi, il chitarrista Siegfried Behrend. Anche nel 1978 ai concerti<br />

si aggiunsero attività seminariali, che questa volta compresero conferenze di<br />

Franco Donatoni, Salvatore Sciarrino, Robert Helmschrott e Aldo Clementi, un<br />

incontro sulla musica elettronica con Enrico Chiarucci, Fausto Razzi, Ulrike e<br />

Wolf-Dieter Trüstedt e due laboratori sulla musica concreta e sulla musica elettronica<br />

affidati a Ulrike e Wolf-Dieter Trüstedt.<br />

Malgrado la manifestazione ponesse Cagliari ancora una volta al centro dell’attenzione<br />

del mondo musicale italiano 33 e nonostante un nuovo successo di<br />

pubblico, addirittura più numeroso di quello del 1977 e numerosissimo in occasione<br />

del concerto elettronico, in occasione del quale l’Auditorium del Conservatorio<br />

(1.100 posti) fece registrare il tutto esaurito, ci furono delle contestazioni<br />

da parte dei sindacati dei musicisti proprio alla vigilia delle Giornate, che<br />

portarono alle dimissioni della commissione consiliare di sovrintendenza formata<br />

da Crepas, Deliperi e dallo stesso Oppo e, come del resto era facile prevedere,<br />

negli anni successivi le Giornate di musica contemporanea furono cancellate<br />

dalla programmazione del «Palestrina». La spiegazione la fornisce<br />

lucidamente Franco Oppo: «Non fu […] possibile realizzare la terza edizione<br />

del festival perché il suo successo fu interpretato come una vittoria dei ‘comunisti’,<br />

che doveva essere cancellata». 34<br />

Il passo successivo di Franco Oppo nella direzione della diffusione della<br />

musica contemporanea nel capoluogo sardo, visto che non fu possibile ritrovare<br />

33 Le Giornate del 1978 furono seguite da alcuni quotidiani nazionali e dalla stampa specializzata.<br />

Cfr. A. TRUDU, Da Cagliari, «Nuova Rivista Musicale Italiana», XII, n. 4 (ottobre-dicembre<br />

1978), pp. 624-628.<br />

34 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 60.<br />

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all’interno dell’Istituzione dei concerti gli equilibri politici necessari per far<br />

rivivere le Giornate di musica contemporanea, fu la nascita dell’Associazione<br />

Spaziomusica e del suo festival: «Nel 1982 ho preso atto che quella esperienza<br />

era stata soltanto una felice parentesi e che l’Ente Lirico cagliaritano era<br />

ripiombato nel grigiore del provincialismo culturale, eufemisticamente chiamato<br />

‘tradizione’. Così, incoraggiato da molti compositori e interpreti (italiani e<br />

stranieri) che avevano partecipato alle felici stagioni del ’77 e ’78, ho preso<br />

l’iniziativa di raggruppare alcuni volenterosi, illuminati e preparati giovani<br />

musicisti cagliaritani intorno a un progetto culturale e organizzativo autonomo,<br />

svincolato dalle beghe dell’Ente Lirico e del Conservatorio. In breve tempo<br />

abbiamo fondato l’Associazione Spaziomusica e, già nel 1982, realizzato la<br />

prima edizione dell’omonimo Festival». 35<br />

Del Festival Spaziomusica Franco Oppo è stato per oltre vent’anni il principale<br />

animatore, oltre che il direttore artistico che di anno in anno sceglieva il tema<br />

generale di ciascun festival, definiva i programmi, selezionava gli interpreti. Impossibile,<br />

in questa sede, ripercorrere anche per sommi capi un’attività che dura<br />

da quasi trent’anni. Mi limiterò a ricordare le edizioni del 1985 e del 1986, rispettivamente<br />

dedicate a «Bach, Händel, Scarlatti nella musica contemporanea» 36 e a<br />

«Federico García Lorca nella musica contemporanea», 37 ricordando che quest’ultima<br />

ottenne l’ambito e prestigioso «Premio Abbiati», assegnato a Spaziomusica<br />

dai critici musicali italiani per la migliore iniziativa musicale del 1986; le edizioni<br />

del 1984 e del 1989, che ruotarono intorno alle figure di due dei grandi protagonisti<br />

della musica del secondo Novecento, Luigi Nono e Karlheinz Stockhausen<br />

rispettivamente, che furono fisicamente presenti a Cagliari per tenere incontri e<br />

seminari. Fra l’altro è soprattutto grazie alle occasioni di esecuzione e di confronto<br />

offerte dal Festival Spaziomusica che è nata e si è affermata tutta una nuova<br />

generazione di giovani compositori sardi che ha avuto modo, proprio grazie a<br />

quel festival, di farsi conoscere anche fuori dalla Sardegna.<br />

I nomi sono quelli di Fabrizio Casti, Antonio Doro, Lucio Garau, Marcello<br />

Pusceddu, Giorgio Tedde, 38 ai quali si sono aggiunti, in seguito, i più giovani<br />

Ettore Carta e Antonio Lai. Tutti loro sono stati allievi del Corso di Nuova<br />

35 Ivi, p. 61.<br />

36 Cfr. A. TRUDU (a cura di), Metamorfosi nella musica del Novecento: Bach, Händel, Scarlatti,<br />

«Quaderni di M/R», n. 13, Milano, 1987.<br />

37 Cfr. A. TRUDU (a cura di), Federico García Lorca nella musica contemporanea, «Quaderni di<br />

M/R», n. 24, Milano, 1990.<br />

38 Con l’eccezione di Tedde, degli altri quattro è possibile leggere un breve tributo all’insegnamento del<br />

Maestro in G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., pp. 19, 37-38, 49, 53.<br />

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Antonio Trudu<br />

Didattica della Composizione, in seguito chiamato, più semplicemente, Composizione<br />

Sperimentale, attivato nel 1975, accanto al quale nacquero prima il<br />

Laboratorio di Musica Elettronica e poi addirittura la classe di musica elettronica,<br />

una delle prime istituite in Italia. L’interesse per il nuovo corso di composizione<br />

fu immediatamente notevole e ai numerosi aspiranti compositori si aggiunsero<br />

studenti di musicologia (Myriam Quaquero e Gian Nicola Spanu, oltre<br />

a chi scrive) e strumentisti, ma anche giovani che intendevano semplicemente<br />

arricchire il proprio bagaglio culturale. Per alcuni anni quel corso fu un autentico<br />

cenacolo, nel quale ci si incontrava per imparare, ma anche per discutere<br />

animatamente di problemi non esclusivamente musicali.<br />

«Nel giro di pochi anni – precisano i ricordi di Franco Oppo – si è formato<br />

un gruppo di giovani interessati alla musica non solo emotivamente: c’era desiderio<br />

di conoscere e di capire, di andare oltre le apparenze. La vecchia<br />

metodologia didattica della composizione, basata su modelli da imitare, è stata<br />

sostituita dallo studio delle strutture musicali e dai modelli logici per l’elaborazione<br />

dei suoni: un cambio di prospettiva non indifferente, che coinvolgeva gli<br />

studenti e stimolava il dibattito». 39 I vecchi manuali furono sostituiti dal Manuale<br />

di armonia di Arnold Schönberg 40 e dall’imponente (471 pagine di un<br />

volume di grande formato) Introduzione alla composizione 41 del noto compositore,<br />

teorico e musicologo polacco, Bugus³aw Schaeffer, un librone che riassume<br />

le problematiche e le tecniche di composizione del Novecento, illustrandole<br />

con più di 700 esempi tratti dalla letteratura musicale contemporanea; ma a<br />

questi testi si affiancarono altre letture, prime fra tutte due libri di Umberto Eco:<br />

La struttura assente 42 e il Trattato di semiotica generale. 43<br />

Se il risultato più importante del corso sperimentale è rappresentato dalla<br />

nascita di una nuova generazione di compositori sardi, tutti con forte personalità<br />

e differente atteggiamento stilistico, «uno diverso dall’altro – ha detto Oppo<br />

quasi con orgoglio – nella buona tradizione dei vecchi maestri Ghedini e Petrassi<br />

(non compositori-fotocopia, quindi)», 44 d’altro canto l’atmosfera vivace della<br />

classe e la qualità del dibattito con gli allievi stimolarono il Maestro ad approfondire<br />

gli argomenti e a sviluppare una nuova teoria analitica denominata Teoria<br />

delle unità di articolazione, che Oppo sperimentò a lungo e che poi pose<br />

39 Ivi, pp. 63-64.<br />

40 A. SCHÖNBERG, Manuale di armonia, a cura di L. Rognoni, trad. di G. Manzoni, Milano, 1963.<br />

41 B. SCHÄFFER, Introduction to composition, Warszawa, 1976.<br />

42 U. ECO, La struttura assente. Introduzione alla ricerca semiologica, Milano, 1968.<br />

43 U. ECO, Trattato di semiotica generale, Milano, 1975.<br />

44 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 64.<br />

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alla base del suo corso, presentandola in occasione del convegno Musical<br />

grammars and Computer Analysis che si tenne a Modena nel 1982. 45<br />

È una teoria che applica alla musica il principio fondamentale della teoria<br />

dell’informazione, l’opposizione dei segni, e che è nata in seguito all’osservazione<br />

che il linguaggio musicale si sviluppa attraverso una successione di unità di<br />

articolazione di vario livello, dalle unità minime, quelle più minuscole ed elementari,<br />

alle più complesse e ampie, caratterizzate e riconoscibili grazie alla presenza<br />

di chiari segnali di inizio e di fine. La completa formalizzazione di questa teoria,<br />

che, per sua stessa ammissione, gli è stata suggerita dallo studio e dall’ascolto<br />

delle opere dei compositori che sente più vicini, Bach, Scarlatti, Mozart, Beethoven,<br />

Schubert, Chopin, Schumann, Brahms, Debussy, Stravinskij, Oppo non l’ha ancora<br />

messa completamente a punto e questo è un po’ il suo cruccio: «Ma ci sto<br />

lavorando – assicura – e spero di portare a termine quello che sarà un grosso<br />

volume teorico entro un anno o poco più. Ho già scritto l’introduzione e ne ho<br />

definito il titolo: Segmentazione, unità di articolazione e modelli strutturali della<br />

musica. Sono ancora incerto se integrarlo con “… e valore estetico”. L’incertezza<br />

ovviamente deriva dalla consapevolezza di quanto sia rischioso addentrarsi in<br />

questo terreno minato. Sta di fatto che, durate la stesura del testo, il problema<br />

riaffiora continuamente, s’insinua tra i ragionamenti puramente formali e, alcune<br />

volte, tra le funzioni strutturali delle unità d’articolazione ho potuto distinguere<br />

(credo con argomentazioni forti) quelle che danno logica formale e correttezza<br />

grammaticale da quelle che, invece, hanno un ruolo essenzialmente (o esclusivamente)<br />

estetico. […] Non è una questione da nulla, ma, sino a ora, ho trovato il<br />

coraggio di affrontarla ogni volta che si è presenta. L’aggiunta al titolo dipenderà<br />

da quanto alla fine quest’argomento peserà sul resto del testo». 46<br />

Ma, va ricordato e sottolineato, pur alternato e intrecciato a tutte le altre<br />

attività, il lavoro di compositore è sempre stato, per Oppo, il suo impegno principale<br />

e anzi, sebbene non abbia avuto difficoltà a riconoscere che l’esperienza<br />

del Corso Sperimentale sia stata e rimanga, comunque, uno dei momenti più<br />

felici della sua vita di musicista, 47 Oppo ha dovuto ammettere che per alcuni<br />

anni l’impegno e le energie profuse nell’attività didattica hanno rallentato la sua<br />

attività di compositore che continua senza pause e che oggi, quando non ci sono<br />

altri impegni prioritari a rallentarla, è finalmente diventata l’impegno rispetto al<br />

quale tutti gli altri sono subordinati.<br />

45 F. OPPO, Per una teoria generale del linguaggio musicale, in Musical Grammars and Computer<br />

Analysis, Atti del Convegno (Modena, 4-6 ottobre 1982), Firenze 1984, pp. 115-130.<br />

46 F. OPPO, Lettera a Antonio Trudu del 19 febbraio 2009.<br />

47 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 64.<br />

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Le prime composizioni, come si è detto, risalgono agli anni della formazione.<br />

Dopo quelle nelle quali è riconoscibile, come ha ammesso lo stesso Oppo,<br />

l’influenza di Petrassi, che risalgono ai primi anni Sessanta e che giustificano<br />

l’affermazione che il suo percorso stilistico sia partito da «posizioni<br />

neoclassiche», 48 vennero opere decisamente più personali e originali, chiaramente<br />

improntate e collegate alle problematiche dell’avanguardia di quegli anni,<br />

in particolare all’esigenza di controllare l’aleatorietà, che per molti compositori<br />

era stata la risposta, sulla scia della poetica del caso di John Cage, alla complessità<br />

e anche alle complicazioni del cosiddetto serialismo integrale. Così nelle<br />

opere vocali della metà degli anni Sessanta e soprattutto nel Concerto per violoncello<br />

la parte solistica assume la funzione di elemento strutturante sul quale<br />

gli strumenti intervengono reagendo alle diverse sollecitazioni del solista; così<br />

in lavori come la Musica per chitarra e quartetto d’archi (1975), Rondeau<br />

(1975) e Amply (1976) i procedimenti combimatori tendono a neutralizzare –<br />

senza tuttavia escluderlo completamente – il caso; e in Praxodia (1976) tutti i<br />

parametri musicali sono determinati dalle caratteristiche semantico-fonematiche<br />

dei testi del poeta angolano Agostinho Neto.<br />

Furono anni importanti, per Franco Oppo. Il Concerto per violoncello fu<br />

eseguito per la prima volta ai Ferienkurse di Darmstadt del 1966; il Trio per<br />

pianoforte, violino e violoncello e Digressione, per coro femminile e orchestra,<br />

furono presentati, entrambi in prima assoluta, ai Concorsi Gaudeamus, che si<br />

tennero rispettivamente nel 1970 a Rotterdam e nel 1971 a Utrecht; Praxodia<br />

vinse entrambi i premi (quello della giuria e quello del pubblico) al Seminario<br />

Internazionale dei Compositori di Boswil nel 1976; nel 1979 la versione teatrale<br />

della stessa Praxodia vinse il concorso bandito dal Teatro Sperimentale di<br />

Terni e dalla Filarmonica Umbra e venne messa in scena per la prima volta nel<br />

Teatro Caio Melisso di Spoleto.<br />

In particolare – lo ha raccontato lo stesso compositore – il 1975 e il 1976<br />

furono due anni proficui e cruciali sia per il suo lavoro compositivo sia per la<br />

sua vita privata. Nel 1975 Oppo vinse il concorso per una cattedra di ruolo di<br />

Armonia e Contrappunto al Conservatorio di Milano, diretto da Marcello Abbado,<br />

con il quale aveva mantenuto ottimi rapporti, ma rinunciò, optando per la cattedra<br />

di Composizione che nello stesso anno aveva ottenuto al Conservatorio di<br />

Cagliari: «Sono gli anni della Musica per chitarra e quartetto d’archi e di<br />

Praxodia, opere che rappresentano un’importante svolta stilistica e segnano<br />

tutta la mia attività di compositore. Opere che, probabilmente, non sarebbero<br />

48 A. TRUDU, «Franco Oppo» cit., p. 453.<br />

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Antonio Trudu


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mai nate se mi fossi trovato coinvolto nelle beghe della musica milanese di<br />

quegli anni (a parte il fatto che proprio allora a Cagliari si consolidava un legame<br />

affettivo diventato irrinunciabile)». 49<br />

A parte l’interesse musicale, le partiture della Musica per chitarra e di<br />

Praxodia hanno un aspetto grafico che rimanda alla musica aleatoria, pur non<br />

essendo opere aleatorie. In realtà queste partiture non si limitano, come accade<br />

di norma, a fornire agli interpreti tutte le indicazioni necessarie per l’esecuzione,<br />

ma descrivono in modo esplicito anche i procedimenti compositivi adottati.<br />

«A suo tempo – ricorda Oppo – ho definito queste partiture come autoanalizzate.<br />

Al di là dell’aspetto grafico, le due composizioni scaturiscono da due ‘grandi’<br />

scommesse strutturali: la prima è stata la costruzione di un’intera composizione<br />

basata sulla contrapposizione di due soli elementi (0 e 1, come nel sistema binario<br />

della teoria dell’informazione) e la seconda, Praxodia, è stata quella di costruire<br />

un’intera composizione facendo derivare ogni nota dalle strutture del<br />

testo: come se l’atto compositivo consistesse soltanto nell’estrazione della musica<br />

implicitamente contenuta nei versi, nelle parole e nelle sillabe». 50<br />

Praxodia deve essere considerato uno dei lavori più importanti e significativi<br />

dell’intera produzione di Oppo. Infatti è con quest’opera che i moduli della<br />

musica tradizionale della Sardegna entrano stabilmente nella produzione del<br />

compositore nuorese e ne diventano una componente essenziale. Non si tratta,<br />

però, di un uso di tipo tematico, quello, tanto per intenderci, messo in atto da un<br />

compositore come Ennio Porrino, che ha utilizzato, per le sue opere, numerosi,<br />

bellissimi temi tratti dal ricchissimo patrimonio della musica popolare sarda,<br />

rivestendoli, però, di sonorità, di armonie, di timbri che sono propri della musica<br />

occidentale colta. 51 Insomma, mentre il ricorso alla musica tradizionale sarda<br />

per Porrino era in qualche modo analogo ai numerosi riferimenti alla musica<br />

colta del passato e dunque classificabile, anche se schematicamente, come di<br />

matrice neoclassica, l’attenzione di Oppo si è concentrata sulle microstrutture<br />

della musica popolare della Sardegna e in breve quei procedimenti combinatori<br />

e quel tipo di organizzazione strutturale si sono insinuati nelle sue composizioni.<br />

La ‘sardità’ – come ha ammesso Oppo – entra nelle sue composizioni<br />

come valore aggiunto prettamente musicale, nel senso che le strutture della musica<br />

tradizionale della Sardegna si aggiungono a quelle della tradizione classica eu-<br />

49 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 13.<br />

50 Ivi, p. 40.<br />

51 Cfr., a questo proposito, A. TRUDU, Per una collocazione critica dell’opera di Ennio Porrino,<br />

«Annali della Facoltà di Magistero dell’Università degli Studi di Cagliari», n. s., I (1976), pp.<br />

127 150.<br />

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Antonio Trudu<br />

ropea; ma è ovvio e inevitabile – secondo lui – che di ciò si possano dare letture<br />

extramusicali: «I percorsi culturali sono complessi e aggrovigliati, e possono<br />

essere analizzati da tanti diversi punti di vista. Inutile tentare di nascondersi<br />

dietro un dito: la mia doppia identità culturale è innegabile e credo che proprio<br />

da qui si debba partire per inquadrare e capire la mia musica, e per ragionare sui<br />

valori extramusicali di cui potrebbe essere portatrice». 52<br />

Eppure – non è dubitabile – questi ‘valori’ ci sono stati nella produzione di<br />

Franco Oppo. Ciò almeno in molte delle composizioni vocali, per le quali, fra gli<br />

altri, Oppo ha utilizzato testi del poeta turco Nazim Hikmet. 53 Basta leggere i testi<br />

di Epitaffio, di Don Chisciotte e di Ciò che ho scritto per rendersi conto di come,<br />

già negli anni Sessanta, il suo scopo fosse – come è accaduto e accade spesso a chi<br />

scrive musica – quello di «far breccia nella sfera emotiva degli ascoltatori». 54<br />

Ma è soprattutto con Praxodia che Oppo ha affermato allo stesso tempo il diritto<br />

e il dovere dell’artista, del musicista di intervenire con il suo ‘canto’ nella ‘praxis’,<br />

di prendere coscienza e di denunciare situazioni di violenza e di repressione che ci<br />

si ostina a considerare circoscritte ad ambiti geografici e sociali lontani e diversi, ma<br />

che in realtà sono emblematiche, da sempre della storia della civiltà occidentale.<br />

Questo è il significato del titolo e questo fu il motivo della scelta dei testi di quell’opera,<br />

che sono alcune poesie di Agostinho Neto, prima poeta, poi combattente<br />

per la libertà e l’indipendenza del suo paese, l’Angola: poesie tratte da un’antologia<br />

dal titolo Con gli occhi asciutti, curata da Joyce Lussu. 55<br />

Nel 1976, quando fu scritta la versione concertistica dell’opera, l’autore<br />

pensava certamente di riferire la sua Praxodia a una realtà geografica, storica e<br />

sociale ben precisa e cioè quella della lotta di liberazione del popolo angolano<br />

dalla dominazione portoghese. Nel 1979, l’anno in cui fu realizzata la versione<br />

scenica, l’Angola era una repubblica indipendente e Agostinho Neto ne era il<br />

presidente. Perciò, tenuto conto del fatto che in altre parti del mondo, in tutti i<br />

continenti e a tutte le latitudini, c’era ancora chi lottava per emanciparsi, per<br />

non essere più sottomesso, sfruttato, emarginato, Oppo preferì rinunciare a qualsiasi<br />

riferimento preciso, trattando il problema come una questione generale,<br />

quasi una costante storica, della civiltà occidentale. Anche se, come lo stesso<br />

autore precisava, il modo in cui il lavoro è impostato suggerisce il riferimento<br />

52 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 52.<br />

53 Franco Oppo ha utilizzato, fra i testi «impegnati», anche scritti di Jorge Luis Borges, Bertolt<br />

Brecht, Federico García Lorca, Vladimir Majakovskij, Maximilien Robespierre, Tadeusz<br />

Ró¿ewicz, Andrej Voznesenskij.<br />

54 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 50.<br />

55 A. NETO, Con gli occhi asciutti, trad. di J. Lussu, Milano, 1963.<br />

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alle società sottosviluppate, non solo dei paesi del terzo mondo, ma anche,<br />

senza andare troppo lontano, del meridione italiano e delle isole.<br />

Per evidenziare questo carattere di ‘universalità’ del lavoro, l’autore rinunciò<br />

a organizzare il materiale testuale in una vera e propria vicenda teatrale,<br />

tanto è vero che mancano sia una vera e propria azione, sia le dramatis personae.<br />

Si ha invece una successione di poesie che descrivono situazioni emblematiche<br />

e che rappresentano degli stati emotivi individuali e collettivi, raccontando comunque<br />

una sorta di storia che, partendo dalla descrizione di una situazione di<br />

oppressione e passando attraverso la presa di coscienza e la conseguente ribellione,<br />

si conclude positivamente con l’inizio di una vita più giusta.<br />

Ma i testi delle poesie di Agostinho Neto non forniscono soltanto la materia per<br />

la recitazione e per il canto. Con una soluzione assai originale e interessante, Oppo<br />

fa sì che essi diano vita alla struttura stessa della composizione in tuti i suoi aspetti:<br />

la metrica determina di volta in volta la varietà o l’uniformità del ritmo, le vocali o<br />

i gruppi vocalici e le successioni sillabiche determinano le altezze. Così, nonostante<br />

il materiale musicale abbia la flessibilità caratteristica della costruzione aleatoria, in<br />

realtà è circoscritto dalla iniziale programmazione. La parte vocale si mantiene in<br />

ambiti estremamente ristretti: poche note, spesso a distanza di un quarto di tono.<br />

Anche la parte strumentale è in stretto rapporto con il testo, del quale in definitiva<br />

non è altro che una proiezione ritmico-musicale. Ne risulta un costante rapporto<br />

dialettico fra musica e testo poetico: se è vero, infatti, che la struttura musicale<br />

deriva dal testo, è anche vero che il testo viene integrato dalla musica, che ne mette<br />

in risalto i significati e le strutture. Per le indicazioni sceniche vengono utilizzati<br />

alcuni versi delle poesie di Neto che non vengono né recitati né cantati.<br />

A proposito della parte vocale, va sottolineato che in essa si possono riscontrare<br />

più o meno evidenti riferimenti agli stilemi della musica popolare. Del<br />

resto lo stesso compositore ha ammesso che con Praxodia i moduli della musica<br />

popolare sarda entrano stabilmente nella sua musica, diventandone una componente<br />

essenziale. 56 «Intorno al 1975 – ha precisato – la mia attenzione si è<br />

concentrata sulle microstrutture della musica tradizionale della Sardegna e in<br />

breve tempo quei procedimenti combinatori e quel tipo d’organizzazione strutturale<br />

si sono insinuati nelle mie composizioni». 57<br />

La partitura di Praxodia, come già in precedenza quella della Musica per chitarra<br />

e quartetto d’archi, è una di quelle che Oppo ha definito «autoana-lizzate», 58<br />

56 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 32.<br />

57 Ivi, p. 52.<br />

58 Ivi, p. 40.<br />

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Antonio Trudu<br />

di quelle, cioè, che oltre a fornire agli interpreti e al direttore (al quale del resto viene<br />

riservato un rigo a parte) tutti gli elementi necessari alla realizzazione, è anche una<br />

descrizione dei processi compositivi e della struttura dell’opera. Infatti evidenzia di<br />

volta in volta in forma esplicita le diverse relazioni intercorrenti fra il testo e la<br />

musica, sintetizzandole per mezzo di schemi formali comuni a entrambi.<br />

Le due versioni di Praxodia, la prima, del 1976, esclusivamente concertistica,<br />

per soprano, basso e 8 strumenti, la seconda, del 1979, scenica, con l’aggiunta<br />

di un numero variabile (da 3 a 5) di attori ai cantanti e agli strumenti, concludono<br />

un percorso stilistico particolarmente fecondo e felice che prende le mosse<br />

dal Concerto per violoncello (1964) e che prosegue con lavori come i già ricordati<br />

Musica per chitarra, Rondeau e Amply.<br />

Nelle opere composte a partire dagli anni Ottanta, fra le quali sarà opportuno<br />

ricordare almeno le due versioni di Anninnia, la prima (1978) per 8 strumenti<br />

e monocordo elettrico, la seconda (1982) per 8 strumenti, le Tre berceuses per<br />

pianoforte (1981-1982), Attitidu per fagotto e quartetto d’archi (1983), North<br />

Sardinian Dance per pianoforte (1984) e Sagra per oboe, 2 violini e viola (1985),<br />

le suggestioni del ricco patrimonio della musica popolare della Sardegna hanno<br />

incominciato a fornire alle composizioni di Franco Oppo da un lato il substrato<br />

culturale, dall’altro un preciso e costante supporto linguistico che non si contrappone<br />

alle soluzioni avanguardistiche ma si affianca ad esse. Si tratta di una<br />

nuova e originalissima musica ‘stocastica’, basata non, come accadeva al suo<br />

inventore, Iannis Xenakis, su leggi fisiche, sulle strutture di un edificio o sul calcolo<br />

delle probabilità, ma sulle strutture ritmiche e intervallari del canto popolare<br />

sardo che divengono generatrici di forme musicali ‘colte’; anche se – Oppo ci<br />

tiene a precisarlo 59 – soltanto raramente nelle sue composizioni è possibile trovare<br />

vere e proprie citazioni di temi tratti dalla musica popolare della Sardegna. 60<br />

Il catalogo di Franco Oppo comprende una novantina di composizioni, che si<br />

possono dividere in tre filoni, in tre gruppi non distinti cronologicamente e non<br />

sempre chiaramente delimitabili, anche perché spesso una composizione potrebbe<br />

essere inserita in più di un gruppo. Ai primi due si è già fatto cenno: quello<br />

della ricerca e della sperimentazione e quello delle opere che fanno riferimento al<br />

59 Questo concetto è stato ribadito più volte da Franco Oppo. In particolare mi riferisco a<br />

un’intervista inedita da me realizzata nell’autunno del 2006.<br />

60 L’uso più esplicito di una melodia popolare, come ha sottolineato lo stesso Franco Oppo, si<br />

trova nell’ultimo tempo del Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra, che è costruito nella forma<br />

classica del «Tema con variazioni» e il cui tema è, appunto, un canto monodico campidanese, in<br />

origine accompagnato dalla chitarra. Anche il primo tema dell’Adagio riporta, in forma meno<br />

esplicita, la melodia di Funtana cristallina, altro canto monodico della Sardegna centrale con<br />

accompagnamento di chitarra.<br />

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ricco patrimonio della musica popolare della Sardegna. Quest’ultima, va sottolineato,<br />

il compositore l’ha studiata a lungo, analizzandola puntigliosamente, 61 tanto<br />

che si può dire che le due attività, quella di studioso e quella di compositore, si<br />

siano intrecciate, in modo tale che l’una è stata proficuamente integrata e arricchita<br />

dall’altra. Esemplare, da questo punto di vista, una composizione come le Tre<br />

berceuses, che sono le trascrizioni pianistiche di tre ninne nanne sarde (anninnias)<br />

realizzate con il linguaggio e la tecnica compositiva attuali. 62<br />

Va comunque precisato che la presenza delle strutture e degli stilemi della<br />

musica popolare sarda si rintraccia anche in alcune delle composizioni del filone<br />

della ricerca, come per esempio il Concerto per violoncello e orchestra, ma<br />

soprattutto in diverse delle opere del terzo gruppo o filone. Quest’ultimo è quello<br />

che comprende opere scritte per una destinazione per così dire occasionale:<br />

composizioni commissionate per essere eseguite in occasioni particolari, come<br />

celebrazioni o anniversari, musiche finalizzate ad accompagnarsi a eventi artistici<br />

non esclusivamente musicali, come opere teatrali, documentari cinematografici<br />

e televisivi, musica d’ambiente per mostre d’arte o d’artigianato.<br />

L’opera più importante di questo terzo gruppo è senza dubbio Eleonora<br />

d’Arborea (1986), commissionata a Oppo dall’Istituzione dei Concerti e del Teatro<br />

Lirico di Cagliari che voleva realizzare e mettere in scena una versione musicale<br />

dell’omonimo poema drammatico di Giuseppe Dessì. 63 Se in Praxodia la<br />

tematica generale era la lotta dell’uomo contro l’ingiustizia e la sopraffazione, in<br />

Eleonora d’Arborea si parla della lotta di un popolo e della sua mitica giudicessa<br />

contro chi vuole privarli della libertà e dell’indipendenza. L’opera non è un melodramma<br />

nel senso tradizionale del termine: l’azione, infatti, viene affidata interamente<br />

agli attori, mentre la musica si aggiunge alla loro recitazione, l’accompagna<br />

e ne sottolinea le fasi drammaturgicamente più importanti. Gli interventi musicali<br />

sono di due tipi. Da una parte una musica esclusivamente strumentale, 64 una<br />

61 Va ricordata, a questo proposito, una lunga e articolata ricerca ‘sul campo’ sulle launeddas che<br />

si svolse nel 1987 grazie a un finanziamento dell’Istituto Etnografico Sardo, che prese le mosse<br />

da una lunga serie di interviste e di registrazioni a tutti i suonatori di launeddas della Sardegna.<br />

Il risultato fu un ampio testo rimasto inedito e un saggio breve: F. OPPO, Il sistema dei cunzertus<br />

nelle launeddas, in G. N. SPANU (a cura di), Sonos. Strumenti della musica popolare Sarda,<br />

Nuoro, 1994, pp. 156-161.<br />

62 Lo stesso discorso si può fare anche per Gallurese (1989) e Baroniese (1993), entrambe per<br />

pianoforte a 4 mani, che sono trascrizioni di altrettanti brani per launeddas.<br />

63 G. DESSÌ, Eleonora d’Arborea. Racconto drammatico in quattro atti, Milano, 1964.<br />

64 La parte strumentale è affidata a tre gruppi, due ai lati, fuori scena, e uno sul palco. Quest’ultimo<br />

è composto di soli quattro strumenti (clarinetto, fagotto e 2 violoncelli) e allude intenzionalmente<br />

al quartetto di voci maschili «a tenore» tipico della musica vocale barbaricina.<br />

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Antonio Trudu<br />

sorta di musica di scena che accompagna parte del testo recitato dagli attori;<br />

dall’altra delle sezioni cantate che si integrano con l’azione scenica e si sviluppano<br />

parallelamente a essa. Va comunque sottolineato che i due cantanti non<br />

hanno il ruolo di personaggi, ma riprendono, amplificandoli, i diversi momenti<br />

del dramma, con una funzione che può essere paragonata a quella del coro della<br />

tragedia greca, costituendo dunque, come ha detto lo stesso autore, una sorta di<br />

‘barriera morale’ posta tra il pubblico e il dramma, di ‘spettatore ideale’, di<br />

‘voce del compositore’. 65 La musica è una sintesi particolarmente felice ed efficace<br />

fra i due piani compositivi di Franco Oppo, quello della ricerca timbrica,<br />

costruttiva e formale e quello caratterizzato, arricchito e fecondato dalle suggestioni<br />

del ricco patrimonio della musica popolare della Sardegna.<br />

Sebbene molte delle ‘commissioni’ siano giunte a Franco Oppo dalla penisola<br />

e dall’estero, come dimostrano i luoghi in cui sono avvenute le prime esecuzioni<br />

di Variazioni su un tema di Mozart, per orchestra (Firenze, 1991), Musica per 11<br />

strumenti ad arco (Roma, 1992), Variazioni su temi popolari, per launeddas e<br />

live electronics (Darmstadt, 1992), Trio III, per flauto, violino e pianoforte<br />

(Darmstadt, 1994), Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra (Alicante, 1997),<br />

Tetrafonie (Stoccarda, 2000), Uno spettro si aggirava per l’Europa (Milano, 2000),<br />

Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra (Rabbi, 2002), Alcune verità indimostrabili<br />

(Latina, 2004), non sono mancati gli stimoli locali. «Dalla metà degli anni Settanta<br />

sino alla fine degli anni Ottanta – ha ricordato Oppo – Cagliari è stata una città<br />

culturalmente molto vivace; la sede regionale della RAI (che allora godeva di una<br />

reale autonomia) e i giornali locali registravano puntualmente tutte le attività culturali<br />

e artistiche. Non è quindi un caso che una gran parte della mia produzione<br />

degli anni Ottanta sia stata stimolata da committenze locali: oltre all’Eleonora<br />

d’Arborea, le musiche per i documentrari RAI di Roberto Olla, Intorno all’isola<br />

e Quadri di guerra, e infine Anafore e cicli elettronici, scritti per una mostra<br />

itinerante dell’ISOLA curata dall’Architetto milanese Luigi Massoni». 66<br />

Per tornare, concludendo queste pagine, al concetto con cui si è iniziato, quello<br />

di ‘musicista organico’ inteso nel senso gramsciano e noniano del termine, se<br />

non v’è alcun dubbio che Franco Oppo abbia dimostrato il suo impegno sociale,<br />

civile e politico in tutte le sue attività, quella di insegnante, di organizzatore di<br />

manifestazioni culturali, di sindacalista, di ricercatore e di studioso, parrebbe che<br />

l’attività in cui questo impegno si è manifestato in misura minore sia stata la com-<br />

65 A. TRUDU, Eleonora d’Arborea, in Lirica in Sardegna 1986. Madama Butterfly. Eleonora<br />

d’Arborea. Il lago dei cigni, programma di sala, Cagliari, 1986.<br />

66 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 35.<br />

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FRANCO OPPO: IL MUSICISTA ORGANICO<br />

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posizione, proprio quella, cioè, alla quale Oppo ha sempre dato la maggiore importanza<br />

lungo tutto l’arco della sua vita di musicista e alla quale si dedica quasi<br />

esclusivamente da quando ha lasciato per raggiunti limiti di età l’insegnamento e<br />

ha rinunciato al ruolo di direttore artistico del Festival Spaziomusica.<br />

A parte le composizioni basate su testi letterari, a parte le composizioni<br />

teatrali e le musiche di scena per la Bottega del pane di Brecht (1969), soltanto<br />

in una composizione esclusivamente strumentale, come ha riconosciuto lo stesso<br />

compositore, 67 si può rintracciare un riferimento simbolico. Si tratta di Uno<br />

spettro si aggirava per l’Europa, per 25 strumenti ad arco e nastro magnetico<br />

ad libitum, in cui la contrapposizione consonanza/dissonanza, tonale/atonale<br />

allude alla contrapposizione capitalismo/comunismo e vuole essere una rappresentazione<br />

musicale della grande sfida lanciata da Marx e Engels nel Manifesto<br />

del partito comunista, che ha segnato la storia del Novecento.<br />

Franco Oppo è convinto che la musica comunichi esclusivamente per mezzo<br />

delle sue strutture linguistiche e formali: «È innegabile – ha ammesso – che la<br />

musica possa essere portatrice di significati extramusicali, ma questi sono ovviamente<br />

anche extrastrutturali, non vengono, cioè, espressi direttamente dalle<br />

strutture della musica ma sono attribuiti ad essa arbitrariamente da qualcuno<br />

(che può essere lo stesso compositore). Si tratta quindi di significati simbolici<br />

validi solo per chi ne è al corrente. La struttura musicale non c’entra». 68 Per lui,<br />

insomma, soltanto le composizioni vocali con testo contengono riferimenti<br />

extramusicali impliciti, ma in realtà questi riferimenti sono indotti dal testo e<br />

sono quindi extrastrutturali, mentre la musica continua a reggersi sulle proprie<br />

gambe, sulla sua autonomia strutturale. La sfera emotiva, per Oppo, è una questione<br />

privata, per il compositore, ma anche per l’ascoltatore: «Penso che alla<br />

sfera emotiva del compositore si possa concretamente accedere solo per la parte<br />

rappresentata dalla sua musica, che una volta scritta smette di essere un fatto<br />

privato, mentre per il resto non si possono che fare illazioni». 69<br />

Se una fase emozionale c’è, nella composizione, per Franco Oppo è esclusivamente<br />

la fase preliminare, fatta quasi esclusivamente di impulsi emotivi; ma<br />

nella seconda fase, quella della scrittura, le emozioni non sono più sufficienti:<br />

«Non si può scrivere disordinatamente tutto ciò che viene in testa: bisogna selezionare<br />

le idee, precisarle, coordinarle, scartare quelle superflue e approfondire<br />

quelle con le quali si intende caratterizzare il brano; bisogna fare i conti con la<br />

67 Ivi, p. 43.<br />

68 Ivi, p. 48.<br />

69 Ivi, p. 50.<br />

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grammatica musicale e con le possibilità tecniche degli strumenti; bisogna organizzare<br />

i suoni (strutturarli in modo che l’interprete e l’ascoltatore possano<br />

capire le intenzioni del compositore; bisogna elaborare un percorso, un ‘racconto’<br />

che l’ascoltatore possa seguire e trovare sensato, o almeno plausibile;<br />

bisogna fare in modo che le immagini sonore del compositore siano riconoscibili<br />

dall’ascoltatore. In sintesi: la prima fase della composizione è soprattutto<br />

fantasia e creatività, mentre la seconda è soprattutto tecnica e artigianato». 70<br />

Ciò vale anche per la forma, che per il compositore nuorese non è un contenitore<br />

preesistente, ma il risultato di un processo compositivo e delle strategie strutturali<br />

adottate. Non si pensi, tuttavia, che per Franco Oppo la composizione sia<br />

una pratica eccessivamente razionale e macchinosa. Ammettendo che nel suo pensiero<br />

musicale c’è una componente ludica e formalista, ha detto chiaramente che<br />

chi non riesce a divertirsi giocando con i suoni è meglio che non faccia il compositore.<br />

E ha aggiunto: «Il piacere del gioco, il giocare con le note musicali, riaffiora<br />

in tutte le epoche storiche. A parte i risvolti estetici, il gioco del comporre è affascinante<br />

e coinvolgente: c’è il piacere di comporre giocando con leggerezza (come<br />

sapevano fare magistralmente Scarlatti, Mozart e Chopin) oppure quello del giocare<br />

con piglio serioso (come sapevano fare Bach e Brahms)». 71<br />

Il rischio è, ovviamente, che nelle sue composizioni o almeno in alcune di esse<br />

si possa ravvisare un eccesso di elaborazione strutturale. Lo stesso Oppo, però,<br />

prevede questa possibilità, ma si dice disposto a correre questo rischio, sicuro<br />

com’è che, non certo per caso, in ogni epoca storica tutte le composizioni alle<br />

quali è stato riconosciuto un alto valore estetico sono strutturalmente ineccepibili.<br />

Certo, lo scopo della composizione non è il raggiungimento della perfezione formale,<br />

anche se questo spesso accade e in quei casi non è difficile constatare che il<br />

compositore ha raggiunto anche la perfezione estetica. Ma una buona idea musicale,<br />

se vuole far breccia nella mente dell’ascoltatore, non può fare a meno di una<br />

adeguata e coerente strutturazione; proprio come il disegno di un abile architetto,<br />

che non è sufficiente sia bello sulla carta, ma che per diventare un edificio deve<br />

fare i conti con la solidità delle strutture e con materiali idonei. «Credo proprio –<br />

il compositore Franco Oppo ne è assolutamente convinto – che ciò che l’ascoltatore<br />

percepisce di una composizione sia nient’altro che la sua organizzazione<br />

strutturale e che il piacere estetico derivi da questa». 72<br />

70 Ivi, pp. 47-48.<br />

71 Ivi, p. 41.<br />

72 Ivi, p. 46.<br />

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Antonio Trudu


FRANCO OPPO: IL MUSICISTA ORGANICO<br />

APPENDICE<br />

1. Catalogo cronologico delle opere di Franco Oppo<br />

Sonatina per tromba e pianoforte (1951);<br />

Sonatina per corno e pianoforte (1951);<br />

Cinque Pezzi facili, per pianoforte (1951-1952);<br />

Variazioni su tema di Schumann per pianoforte (1953);<br />

Quattro pezzi per violino e oboe (1956);<br />

Fantasia per pianoforte e orchestra (1960);<br />

Varie partite sopra Frescobaldi, per clavicembalo, arpa, pianoforte e orchestra (1960);<br />

Tre canzoni spagnole, per soprano e pianoforte (testo di F. García Lorca, 1960);<br />

Allitterazioni-Organum-Ragtime, per 11 strumenti (1961);<br />

Movimento per quartetto d’archi (1962);<br />

Lamento dal Salmo XIII, per coro e strumenti a percussione (1964);<br />

Epitaffio, per voce recitante e 8 strumenti (testo di N. Hikmet, 1963);<br />

Don Chisciotte, per voce recitante e 7 strumenti (testo di N. Hikmet, 1963);<br />

Ciò che ho scritto, per soprano e 4 strumenti (testo di N. Hikmet, 1964);<br />

Concerto per violoncello e orchestra (1964);<br />

Dzieci, per soprano e 2 pianoforti (testo di T. Ró¿ewicz, 1966);<br />

Canti popolari della Sardegna, per voce, pianoforte e piccole percussioni (1967);<br />

Trio per violino, violoncello e pianoforte (1968);<br />

Musiche per La Bottega del pane di Bertolt Brecht, per voce e pianoforte (1969);<br />

Cinque pezzi per pianoforte (1970);<br />

Digressione, per coro femminile e orchestra (testo di A. Voznesenskij, 1970);<br />

Silenzio, per contralto e 4 strumenti (testo di E. Montale, 1971);<br />

Nodos, per orchestra (1972-1973);<br />

Riverberazioni, per violoncello e pianoforte (1974);<br />

Ninna-nanna campidanese, per coro a cappella (1975);<br />

Musica per chitarra e quartetto d’archi (1975);<br />

Rondeau, per 2 strumenti ad arco (1975);<br />

Amply, per 2 strumenti ad arco amplificati (1976);<br />

Praxodia I, per soprano, basso e 8 strumenti (testo di A. Neto, 1976);<br />

Anninnia I, per 8 strumenti e monocordo elettrico (1978);<br />

Praxodia II, azione scenica per soprano, basso, 3/5 attori e 8 strumenti (testo di A. Neto, 1979);<br />

Tre berceuses, per pianoforte (1980-1981);<br />

Anninnia II, per 8 strumenti (1982);<br />

Musica per 8 strumenti a fiato (1983);<br />

Attitidu, per fagotto e quartetto d’archi (1983);<br />

Intorno all’isola, musica per film per 9 strumenti (1983);<br />

North Sardinian Dance, per pianoforte (1984);<br />

Quadri di guerra, musica per film (elettronica, 1984);<br />

Fasi, per flauto e pianoforte (1984-1989);<br />

Sagra, per oboe, 2 violini e viola (1985);<br />

Per tonos, canone a 2 da Bach, per flauto, clavicembalo e quartetto d’archi (1985);<br />

Le cerniere, per nastro magnetico (1985);<br />

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117


118<br />

Antonio Trudu<br />

Eleonora d’Arborea, azione scenica in due atti per soprano, baritono, 6 attori, coro femminile e 3<br />

gruppi strumentali (testo di G. Dessì e M. Gagliardo, 1986);<br />

Solo, per flauto (1986);<br />

Como en los sueños, per soprano (testo di J. L. Borges, 1988);<br />

Anafore e cicli elettronici, per nastro magnetico (1988);<br />

Figure instabili, per oboe, clarinetto, corno, fagotto e pianoforte (1989)<br />

Gallurese, per pianoforte a 4 mani (1989);<br />

40 melodie popolari polacche, per flauto e pianoforte (1989-1993);<br />

3 melodie popolari polacche, per flauto, violoncello e pianoforte (1990-1993);<br />

Variazioni su tema di Mozart, per orchestra (1991);<br />

Te Deum, per 2 voci femminili e 9 strumenti (1991);<br />

Musica per 11 strumenti ad arco (1992);<br />

Variazioni su temi popolari, per launeddas e live electronics (1992);<br />

Baroniese, per pianoforte a 4 mani (1993);<br />

Trio II, per viola, violoncello e contrabbasso (1993);<br />

Trio III, per flauto, violino e pianoforte (1994);<br />

Sueños, per soprano e nastro magnetico (testo di J. L. Borges, 1995);<br />

Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra (1995-1997);<br />

Polski Walc, per flauto, clarinetto pianoforte e quartetto d’archi (1996);<br />

Concetti fluidi, per violino, viola, violoncello e pianoforte (1997);<br />

Retrògas A, per viola (1998);<br />

Retrògas B, per violino (1998);<br />

Tetrafonie, per 12 voci (1998-1999);<br />

Retrògas C, per violoncello (1999);<br />

Uno spettro si aggirava per l’Europa, per 25 strumenti ad arco e nastro magnetico ad libitum<br />

(1999-2000);<br />

Toccata sopra «Freu dich sehr, o meine Seele», per organo (2000);<br />

Freu dich sehr, o meine Seele, per pianoforte con pedaliera (2000);<br />

Tre bagatelle per pianoforte (2001);<br />

Nodas, per orchestra (2001);<br />

Intermezzi, per 2 violini, 2 viole e violoncello (2001);<br />

… quasi silenzio, per nastro magnetico (2002);<br />

Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra (2002);<br />

Studio I (Gamme), per clarinetto (2002);<br />

12 aforismi, per pianoforte (2002-2007);<br />

Capriccio per violoncello (2003);<br />

Alcune verità indimostrabili, per flauto, clarinetto basso, percussioni, pianoforte, violino e violoncello<br />

(2004);<br />

Sonata per pianoforte (2005);<br />

Kantelesong, per kantele [cetra finlandese] (2005);<br />

Sonata B, per pianoforte e percussioni (2005);<br />

Ditirambo, per violino (2006);<br />

Spirale, per 4 saxofoni (2006);<br />

Concerto per flauto e orchestra d’archi (2006);<br />

Con-sonanti, per clarinetto in si bemolle (2008);<br />

Sonata L. 467, per quartetto d’archi (da Domenico Scarlatti, 2008);<br />

Sonata L. 475, per quartetto d’archi (da Domenico Scarlatti, 2008);<br />

Fasi B, per flauto, vibrafono e pianoforte (2009).<br />

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FRANCO OPPO: IL MUSICISTA ORGANICO<br />

2. Elenco degli scritti di Franco Oppo<br />

119<br />

A proposito delle partiture di ‘Praxodia’ e della ‘Musica per chitarra e quartetto d’archi’, in M.<br />

MOLLIA (a cura di), Autobiografia della musica contemporanea, Cosenza, 1979, pp. 237-240;<br />

Il ‘Rondeau’ per due strumenti ad arco, ivi, pp. 241-242;<br />

Elementi di Semiotica Musicale – Grammatica generativa e analisi musicale, in A. TRUDU (a cura<br />

di), Per un approccio alla semiotica della musica, Cagliari, 1979, pp. 119-129;<br />

Per una teoria generale del linguaggio musicale, in Musical Grammars and Computer Analysis,<br />

Firenze, 1984, pp. 115-130;<br />

Il sistema dei ‘cunzertus’ nelle ‘launeddas’, in G. N. SPANU, Sonos. Strumenti della musica popolare<br />

Sarda, Nuoro, 1994, pp. 156-161;<br />

La vocalità tra tradizione e sperimentazione, in La musica vocale, aspetti compositivi, Nuoro,<br />

1992, pp. 69-78;<br />

Concetti Fluidi, in M. Cima Pestalozza (a cura di ), Musiche per Luigi Pestalozza, Milano, 1998;<br />

Innovazione e tradizione nel linguaggio musicale di Arnold Schönberg, «Quaderni della Facoltà<br />

di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Cagliari», 1999, n. 1 (1999), pp. 185-191;<br />

Musica e parola, «Anterem», V serie, n. 63 (2001), pp. 74-76;<br />

Verdi come Beethoven, in 40 per Verdi, Lucca, 2001, pp. 205-211;<br />

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15/03/2010, 15.05


120<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

Antonio Trudu<br />

A. TRUDU, Fra alea e stocastica. La ‘Musica per chitarra e quartetto d’archi’ di Franco Oppo. Un<br />

esempio di impiego della teoria dell’informazione nella composizione musicale, «Annali<br />

della Facoltà di Magistero dell’Università di Cagliari», n. s., IV (1980), pp. 67-100.<br />

A. TRUDU, Procedure estrattive, segmentazione e analisi musicale, «Annali della Facoltà di Magistero<br />

dell’Università di Cagliari», Quaderno n. 10 (1980), pp. 201-206.<br />

A. TRUDU, «Franco Oppo», in A. BASSO (a cura di), in Dizionario Enciclopedico Universale della<br />

Musica e dei Musicisti (DEUMM), Le biografie, V, Torino, 1988, p. 453.<br />

I. BENT, Analisi musicale, ed. italiana a cura di C. Annibaldi, Torino, 1990, pp. X, XII, XX, 354.<br />

A. TRUDU, La «scuola» di Darmstadt, Milano, 1992, pp.192-193.<br />

C. COLOMO, Musica colta e musica popolare: l’esperienza di Franco Oppo, tesi di laurea Facoltà<br />

di Scienze della formazione dell’Università di Cagliari, a. a. 1997-1998, relatore A. Trudu.<br />

R. CRESTI (a cura di), Enciclopedia italiana dei compositori contemporanei, Napoli, 1999, pp.<br />

231-234.<br />

R. FAVARO-L. PESTALOZZA (a cura di), Storia della musica, Milano, 1999, pp. 20, 32.<br />

L. MAZORRA INCERA, LIM 2 mil, Madrid, 2000, pp. 58, 92, 171, 197, 202.<br />

G. PODDA, La signora della politica, Cagliari, 2001, pp. 175, 186-188, 192, 206, 207.<br />

A. LAI, Genèse et révolutions des langages musicaux, Paris, 2002, pp. 28, 245.<br />

J.-N. VON DER WEID, La musica del XX secolo, Lucca, 2002, pp. 433, 444, 449, 450, 456, 457, 480.<br />

J. VILLA ROJO, Notación y grafía musical en le siglo XX, Madrid, 2003, pp. 88-89, 117, 118, 122,<br />

123, 124, 162, 163, 170, 197, 198, 381, 395.<br />

L. ROTILI, Franco Oppo. Catalogo dell’opera musicale, tesi di laurea Facoltà di Lettere e filosofia<br />

dell’Università di Bologna, a. a. 2003-2004, relatore M. Giani.<br />

G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo, in M. Carraro-S. Melis-G. N. Spanu (a cura di),<br />

Franco Oppo. Musiche per pianoforte solo e con strumenti, pp. 4-64, Fondazione Banco di<br />

Sardegna, Comune di Nuoro-Assessorato alle Politiche Educative, CERM Ensemble, s. l.,<br />

2004, pp. 4-64.<br />

A. BASSO (a cura di), Storia della musica, Torino, 2004, IV, pp. 164, 166.<br />

G. N. SPANU (a cura di), Conversazione con Franco Oppo, «Musica/Realtà», XXIV, n. 76 (2005),<br />

pp. 171-187.<br />

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LE DENOMINAZIONI POPOLARI DELLA LIBELLULA<br />

NELLE VARIETÀ SARDE MERIDIONALI<br />

Roberto Rattu<br />

Arxiu de Tradicions<br />

121<br />

1. Con il nome comune di «libellula» si designano varie specie appartenenti<br />

all’ordine degli Odonati. La libellula è un insetto di dimensioni medio-grandi,<br />

particolarmente frequente in prossimità di corsi d’acqua, laghi e stagni, soprattutto<br />

in estate. Caratterizzata spesso da livree sgargianti, si nutre di piccoli insetti<br />

che cattura librandosi in aria grazie alle eccellenti capacità di volo.<br />

Sono diversi gli studiosi che hanno indagato tale insetto dal punto di vista<br />

folklorico e onomasiologico. Infatti, le particolari credenze che lo connotano e<br />

la ricchissima presenza di appellativi anche in spazi linguistici circoscritti, hanno<br />

da tempo attirato l’interesse di specialisti di varia estrazione quali Sarot (1958),<br />

Picchetti (1960-63) e Hoyer (2001). Adriano Garbini, nella sua magnifica opera<br />

Antroponimie ed omonimie nel campo della zoologia popolare (Garbini 1919-<br />

25), dedica addirittura una quarantina di pagine alle denominazioni popolari<br />

della libellula, discutendo alcune centinaia di appellativi italiani.<br />

Tale esuberanza lessicale costituisce un tratto caratteristico non solo del<br />

quadro onomasiologico relativo a tale insetto, ma anche di tanti altri piccoli<br />

animali, soprattutto invertebrati terrestri. Per rendersi conto di ciò a livello italiano,<br />

è sufficiente osservare alcune carte dell’AIS e, nello specifico, quelle dedicate<br />

alle denominazioni della cavalletta, della coccinella, del grillotalpa.<br />

Tuttavia, anche all’interno di tale notevole varianza lessicale, è possibile apprezzare<br />

alcune costanti dal punto di vista iconomastico. L’iconomastica è quella<br />

disciplina che si occupa di indagare i vari aspetti relativi alla motivazione, cioè a<br />

quella strategia della lingua che prevede la designazione di nuovi referenti tramite<br />

il riciclo di parole già esistenti (Alinei 1996). Infatti, soprattutto grazie all’impresa<br />

dell’ALiR che ha permesso di considerare per la prima volta un corpus molto<br />

ampio di micro-zoonimi, è risultato evidente che le denominazioni degli insetti<br />

attingono – nella maggior parte dei casi – ai medesimi aspetti (Caprini 2004).<br />

Circa la variabilità onomasiologica e gli aspetti iconomastici dei nomi popolari<br />

della libellula, vorremmo dare illustrazione in relazione alle varietà sarde<br />

comprese all’interno del campidanese (Virdis 1988: 905). I dati presentati e<br />

<strong>INSULA</strong>, num. 6 (dicembre 2009) 121-129<br />

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122<br />

Roberto Rattu<br />

discussi provengono da fonti bibliografiche, ma soprattutto da inchieste condotte<br />

personalmente sul campo, interpellando interlocutori di età medio-alta,<br />

attraverso una fitta rete di punti di inchiesta. I dati inediti sono preceduti dal<br />

simbolo +. La trascrizione fonetica si basa su quella del DES (2008), salvo che<br />

per i seguenti simboli: y ed w = approssimante palatale e velare; b = fricativa<br />

bilabiale sonora; g = fricativa velare sonora; d = fricativa dentale sonora; dh =<br />

cacuminale alveolare sonora; z = s sonora; n’ = n palatale.<br />

2. Nelle varietà linguistiche neolatine, un iconimo attestato con particolare frequenza<br />

nelle denominazioni della libellula prevede il reimpiego dei corrispettivi<br />

dialettali della parola «cavallo», spesso seguita da varie attribuzioni. Tale iconimo<br />

risulta attestato in catalano, dacorumeno, dialetti italo-settentrionali, centrali e<br />

meridionali, friulano, galiziano, portoghese, spagnolo (Hoyer 2001: 293-5). Nelle<br />

varietà sarde settentrionali, secondo AIS (tav. 479) e DES (236), troviamo tale<br />

iconimo a Luras, dove la libellula è detta kádhu e déu, ‘cavallo di Dio’; a<br />

Villanova Monteleone e Bitti, dove è detta kádhu e ábba, ‘cavallo dell’acqua’;<br />

a Padria e Berchidda, dove è detta kádh’e zántu gáuánne, ‘cavallo di san Giovanni’;<br />

a Posada e Siniscola, dove è detta rispettivamente kádhu e demóniu,<br />

‘cavallo del demonio’, e kádh’e pilíkke (pilíkke è un derivato da pílu ‘pelo’ per<br />

via della forma sottile dell’insetto [Giulio Paulis, com. pers.]); a Ploaghe, dove<br />

è detta kádhu e ssánt’antòni, ‘cavallo di sant’Antonio’; e infine a Nuoro dove è<br />

detta kavádhu e ssu tiábulu, ‘cavallo del diavolo’. 1<br />

Nel campidanese l’iconimo in questione è abbastanza raro ed è diffuso a<br />

macchia di leopardo. Secondo AIS (tav. 479) e DES (236), la libellula è detta:<br />

a. kádhu e ddéus a Baunei, ‘cavallo di Dio’. Tale dato però non si accorda<br />

con la documentazione dell’ALSar (tav. 4), dove l’appellativo designa la mantide,<br />

come è stato confermato anche dalle nostre inchieste. A Baunei la libellula è<br />

infatti detta +konkimáÈÈu, +konkumáÈÈu (vd. par. 7, punto m.).<br />

b. kwádh’e ábbas a Laconi, ‘cavallo delle acque’, confermato nelle nostre<br />

inchieste.<br />

c. kwádhu éndyu a Escalaplano, ‘cavallo venduto’. I nostri rilievi sul campo<br />

hanno però accertato che kwádhu éndyu – almeno allo stato attuale – è pertinente<br />

alla mantide (cfr. anche ALSar tav. 4), mentre la libellula è detta pár’e vrúmini<br />

(vd. par. 6, punto a.).<br />

1 Tuttavia è da notare che – nella forma kabádhu dessu tiáulu – DES (236) riporta tale appellativo<br />

per Nuoro, ma nel significato di ‘mantide’.<br />

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LE DENOMINAZIONI POPOLARI DELLA LIBELLULA NELLE VARIETÀ SARDE MERIDIONALI<br />

123<br />

Personalmente abbiamo rilevato:<br />

d. +kwádhu e arríu a Nurallao, ‘cavallo di rivo’.<br />

L’iconimo si spiega verosimilmente per le rilevanti dimensioni della libellula<br />

rispetto agli altri invertebrati terrestri. In sardo infatti, «cavallo» è frequentemente<br />

utilizzato in senso metaforico per marcare le grandi dimensioni di un referente in<br />

relazione ad altri a questo affini. Ad esempio il DES (236), riporta che il log.<br />

kádhu ‘cavallo’ si applica anche a una persona alta, e nello stesso senso si usa<br />

kadhòne. Nella fitonimia popolare áppyu e gwádhus, ‘sedano dei cavalli’, designa<br />

il macerone (Smyrnium olusatrum L.), in riferimento alle maggiori dimensioni<br />

di tale pianta rispetto al sedano cui è paragonata (Paulis 1992: 154). Ancora, le<br />

specie di cisto (Cistus sp.) caratterizzate da un’altezza compresa tra 1 e 2 m sono<br />

dette mudréku kabadhínu, ‘cisto cavallino’, in relazione alle loro maggiori dimensioni<br />

rispetto a specie affini più prostrate (Paulis 1992: 412).<br />

Nell’appellativo di Baunei e in quelli afferenti alle varietà settentrionali, le<br />

attribuzioni a Dio, a san Giovanni, a san Antonio, al diavolo, sono spiegabili<br />

sulla base di particolari concezioni magiche relative al nostro insetto che, evidentemente,<br />

era strettamente legato alla sfera del sacro (Beccaria 2000: 242 ss).<br />

Un interessante nome della libellula personalmente rilevato in alcuni centri<br />

della bassa Ogliastra, prevede il reimpiego della parola «cane» seguita dal determinante<br />

«acqua». L’insetto è perciò detto:<br />

e. +kán’i ábba a Jerzu, Perdas de Fogu e Tertenia, ‘cane dell’acqua’. Probabilmente<br />

«cane» è usato in senso figurato per sottolineare caratteristiche negative<br />

attribuitegli (vd. par. 3).<br />

3. In relazione alle varietà neolatine, l’impresa dell’ALiR ha reso possibile apprezzare<br />

il campo referenziale di un altro iconimo, quello relativo ai danni immaginari.<br />

Infatti numerosi e inoffensivi piccoli animali, essendo invece ritenuti capaci di ferire,<br />

uccidere e provocare malattie, ricevono appellativi chiaramente negativi. Nelle<br />

varietà romanze, ad esempio, compaiono frequentemente denominazioni che alludono<br />

alla presunta capacità della libellula di ferire gli occhi (Hoyer 2001: 310 ss).<br />

Che anche in Sardegna il nostro insetto fosse connotato in senso negativo<br />

nella mentalità popolare e fosse per questo ritenuto responsabile di atti nefandi<br />

del tutto sproporzionati alla effettiva capacità di nuocere, è testimoniato dai<br />

seguenti entomonimi (Marcialis 2005: 60):<br />

a. segaddíru a Cagliari, ‘tagliadito’, denominazione non rilevata nelle nostre<br />

inchieste.<br />

b. segamánus in camp., ‘tagliamani’, denominazione non rilevata nelle nostre<br />

inchieste.<br />

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124<br />

Roberto Rattu<br />

c. segabódhigße a Meana, ‘tagliapollice’, denominazione non rilevata nelle<br />

nostre inchieste, che hanno invece appurato la presenza di bánd’erríu (o bandíu)<br />

e soldáu, designanti rispettivamente gli Zigotteri e gli Anisotteri (vd. par. 7,<br />

punto b. e c.). Analogamente in catalano una denominazione della libellula è<br />

serr«díts, ‘taglia dita’ (Hoyer 2001: 312).<br />

Inoltre abbiamo personalmente rilevato:<br />

d. +pappalillía(-za) ad Assemini e Decimomannu (assieme a preidédhu, vd.<br />

par. 6, punto b.), ‘mangia pene, -i’. La parola lillía designa il pene dei bambini<br />

(DES, 655). Analogamente in portoghese una denominazione della libellula è<br />

kapadór, ‘castratore’ (Hoyer 2001: 312).<br />

4. L’iconimo che reimpiega i corrispondenti dialettali degli appellativi «signora, -<br />

e», spesso al diminutivo, è estremamente diffuso nelle varietà linguistiche neolatine<br />

e non solo. Lo si riscontra in catalano, corso, francoprovenzale, friulano, dialetti<br />

italo-settentrionali, centrali e meridionali, occitano, oïl (Hoyer 2001: 301-2).<br />

Nel campidanese e secondo AIS (tav. 479), DES (698) e Marcialis (2005:<br />

60), la libellula è infatti detta:<br />

a. sennorèdha a San Nicolò Gerrei, ‘signorina’; sennorèdha bírdi a Isili, ‘~<br />

verde’. In confronto a tali dati bibliografici, le nostre ricerche hanno rilevato<br />

sin’orikkèdha a San Nicolò Gerrei (vd. par. 4, punto c.) e pára e arríu a Isili<br />

(vd. par. 6, punto a.). Inoltre abbiamo rilevato sennorèdha a Baradili,<br />

Fluminimaggiore (anche sennòra), Musei, Pauli Arbarei, Pompu, San Basilio<br />

(per designare gli Anisotteri), Siddi, Simala, Siris; sannorèdha a Curcuris,<br />

Marrubiu, Masullas, Morgongiori, Turri e Ussaramanna.<br />

b. sen’òra a Sant’Antioco, ‘signora’, denominazione non rilevata nelle nostre<br />

inchieste. Abbiamo rilevato sennòri (arríu) a Narcao (per designare gli<br />

Anisotteri); sin’orína a Muravera e San Vito (anche sin’oríkka).<br />

c. sin’uríkka a Cagliari, denominazione non rilevata nelle nostre inchieste. 2<br />

In base ai nostri rilievi sin’oríkka è impiegato a Barisardo, Muravera (anche<br />

sin’orína) e Villaputzu. A Tortolì abbiamo rilevato sin’oríkk’e erríu, e<br />

sin’orikkèdha a Lotzorai e San Nicolò Gerrei.<br />

Inoltre la libellula è detta:<br />

d. sen’òri pòberu a Tuili (Cabras 1897: 20), da noi confermato nella forma<br />

sannòri póburu, ‘signore povero’. Cabras glossa l’entomonimo con<br />

«formicaleone», significato non reperito nei nostri rilievi.<br />

2 Secondo DES (698), a Cagliari l’appellativo sin’uríkka designa l’orbettino.<br />

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LE DENOMINAZIONI POPOLARI DELLA LIBELLULA NELLE VARIETÀ SARDE MERIDIONALI<br />

125<br />

In campidanese tale iconimo è quindi circoscritto al Sarrabus, ad alcuni centri<br />

della Marmilla, del Gerrei e dell’Ogliastra. Si spiega probabilmente non sulla<br />

base della morfologia dell’insetto, ma per via del ruolo sacro che lo connotava<br />

e che si evince dal generale quadro onomasiologico (Hoyer 2001). Infatti è<br />

verosimile che la motivazione «signora» si basi sull’esigenza di scongiurare<br />

verbalmente gli aspetti negativi che connota(va)no la libellula e che si evincono<br />

– ad esempio – dagli appellativi relativi ai danni immaginari (vd. par. 3), o da<br />

quelli dove compare l’attribuzione al diavolo (vd. par. 2). Tuttavia la funzione<br />

moderna del nome e l’interpretazione che oggigiorno i parlanti ne fanno, risentono<br />

della paretimologia nell’interpretazione delle parole utilizzate quotidianamente.<br />

Per cui la libellula nel senso comune è paragonata a una «signora» per<br />

via della sottigliezza e della eleganza delle forme.<br />

5. Nella designazione degli insetti e altri piccoli invertebrati, un’altra costante<br />

ben nota è l’impiego di nomi personali umani e di termini che denotano esseri<br />

fantastici o spauracchi (Riegler 1981). Ad esempio, secondo i dati di Hoyer<br />

(2001: 305), la libellula è detta «strega» in friulano, dialetti italo-settentrionali e<br />

meridionali. Inoltre è detta «spauracchio» in portoghese.<br />

In relazione a tale iconimo, abbiamo personalmente rilevato:<br />

a +paragadhèu a Villacidro. Circa l’interpretazione di tale denominazione<br />

– utilizzata nel significato di ‘libellula’ esclusivamente a Villacidro – bisogna<br />

tener presente che a Escolca, Gergei e Serri, paragadhèu designa la figura di un<br />

frate – paragadhèu è interpretato dagli informatori come ‘frate Caddeo’ –, non<br />

sappiamo se frutto di fantasia o poggiante su una qualche realtà storica. 3 Inoltre<br />

è da notare che a Isili e Laconi – secondo inchieste personali – paragadhèu<br />

designa una figura dai contorni vaghi, affine a uno spauracchio. 4<br />

b. +parassènti a Genuri, probabilmente da pára bissènti ‘frate Vincenzo’.<br />

6. Nel panorama degli appellativi campidanesi pertinenti alla libellula, l’iconimo<br />

afferente al basso clero – che si caratterizza per il riciclo delle parole pára<br />

‘frate’ e prédi ‘prete’, spesso modificate da suffissi diminutivi e completate dalla<br />

determinazione de arríu ‘di rivo’, de vrúmini ‘di fiume’, de ákwa ‘d’acqua’ –<br />

3 Su tale personaggio sono presenti componimenti poetici orali che ne raccontano episodi di vita<br />

connessi alla sfera sessuale.<br />

4 Non bisogna tacere che la mantide religiosa è detta pregadéw in catalano, pregadíw in occitano,<br />

pregaddòy« nei dialetti italo-meridionali (García Mouton 2001: 258). Anche se a titolo di<br />

pura ipotesi, tali denominazioni – assonanti con paragadhèu ‘libellula’ a Villacidro – possono<br />

aver avuto un qualche ruolo nella designazione del nostro insetto.<br />

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126<br />

Roberto Rattu<br />

è quello arealmente più diffuso. Nelle varietà linguistiche neolatine tale iconimo<br />

è presente in catalano, corso, dialetti italo-settentrionali, francoprovenzale,<br />

friulano, portoghese (Hoyer 2001: 304-5).<br />

Nel campidanese e secondo DES (591), la libellula è detta:<br />

a. pára a Mogoro e Teulada; pára ess’ákwa a Domus de Maria; pára ess’arríu<br />

a Santadi e Isili; pari•édhu a Sestu. Secondo i nostri rilievi, a Isili è impiegato<br />

pára e arríu mentre a Santadi si utilizza anche +parabuttíl’aza (vd. par. 6, punto<br />

c.). L’appellativo pari•édhu è stato rilevato anche a Las Plassas e Pimentel<br />

mentre pari•édhu de arríu risulta diffuso a Samatzai e Sardara.<br />

Secondo i nostri rilievi pára e arríu è diffuso ad Ales, Arbus, Arixi, Barrali,<br />

Collinas, Gesturi, Gonnosnò, Guasila, Iglesias, Mandas, Monastir, Nuragus,<br />

Ortacesus, Senorbì, Villaperuccio, Villaverde. A Narcao, San Basilio, Santadi e<br />

Soleminis tale entomonimo è specializzato nella designazione dei soli Zigotteri.<br />

Infine l’appellativo pára è stato da noi rilevato a Donori, Guspini e Sarrok,<br />

mentre pár’e vrúmini a Escalaplano e Villanovafranca.<br />

Secondo DES (639), la libellula è detta anche:<br />

b. preidédhu a Oristano (anche prei•édhu) e San Gavino. Abbiamo personalmente<br />

rilevato preidédhu a Decimomannu e prédi (arríu) ad Arbus, Armungia,<br />

Burcei, Decimoputzu, Fluminimaggiore (dove designa solo i maschi del genere<br />

Calopterix), Gesico, Goni, Gonnosfanadiga, Samassi, Serramanna, Siliqua,<br />

Silius, Sini, Sinnai, Tramatza, Villamar e Villaspeciosa. Inoltre abbiamo riscontrato<br />

preidédhu e arríu ad Assolo, Genoni, Nureci, Senis e Usellus.<br />

Abbiamo personalmente rilevato anche:<br />

c. +parabuttíl’a(-za) a Masainas e Santadi (compresente a pára e arríu). La<br />

denominazione – ‘frate bottiglia, -e’ – allude alla forma della libellula, massiccia<br />

nel capo e nel torace ma lunga e sottile nell’addome, sì da potersi paragonare<br />

alla forma di una bottiglia.<br />

d. +sagrestánu a Maracalagonis, ‘sagrestano’.<br />

Il motivo che ha portato al riciclo dei corrispettivi dialettali di termini relativi<br />

a cariche del basso clero è generalmente ascritto all’affinità di colore con la<br />

libellula, in particolare le specie dalla livrea scura. Tuttavia, per il fatto che il<br />

basso clero era ritenuto possessore esclusivo di poteri misteriosi e per questo<br />

risultava assai temuto (Atzori-Satta 1980: 157 ss), tale meccanismo<br />

onomasiologico può essere insorto a seguito delle presunte caratteristiche sacre<br />

attribuite all’insetto (vd. par. 2).<br />

A Fluminimaggiore, Narcao, San Basilio, Santadi e Soleminis è presente<br />

una partizione lessicale basata sulla macrodivisione tra i sottordini Anisotteri e<br />

Zigotteri: per cui i rappresentanti del primo sottordine possiedono una denomi-<br />

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LE DENOMINAZIONI POPOLARI DELLA LIBELLULA NELLE VARIETÀ SARDE MERIDIONALI<br />

127<br />

nazione che si differenzia dagli esponenti del secondo. Tale suddivisione è frutto<br />

di un esito innovativo dovuto ad un processo di rianalisi motivazionale. Infatti,<br />

per il fatto che nella maggior parte dei centri tutte le libellule – senza alcuna<br />

distinzione – sono dette prédi o pára (arríu), poteva risultare poco chiara l’attribuzione<br />

di termini relativi al basso clero agli insetti in questione. Allora i<br />

parlanti, ipotizzando il sorgere di tale accostamento a seguito di affinità di colore,<br />

hanno specializzato il termine prédi o pára (arríu) nella designazione della<br />

libellula caratterizzata dalla livrea nera – le Calopterix sp. maschio –, riservando<br />

denominazioni differenti per le altre specie.<br />

7. Nello spazio linguistico meridionale, le denominazioni del nostro insetto<br />

attingono anche ad altri iconimi. Il volo, che spesso si svolge avanti e indietro<br />

nelle zone acquose, è paragonato per questo al pattugliamento di un carabiniere,<br />

di un soldato o al vagabondare di un bandito. Abbiamo così rispettivamente:<br />

a. karabinéri a Triei (DES, 220), ‘carabiniere’, confermato dai nostri rilievi<br />

e utilizzato assieme a +finantsyéri, ‘finanziere’. Abbiamo personalmente riscontrato<br />

karabinéri anche a Osini, San Vito (dove tuttavia è prevalente il tipo<br />

sin’orína, vd. par. 4, punto b.) e Ussassai. Secondo DES (220), la denominazione<br />

è diffusa anche nel log., e per la precisione a Sènnori.<br />

b. +bánd’erríu (accanto a +bandíu) a Meana (ma per designare solo gli<br />

Zigotteri), ‘bandito di rivo’.<br />

c. soldáu a Meana (DES, 708), ‘soldato’, confermato nei nostri rilievi ma per<br />

designare solo gli Anisotteri (gli Zigotteri infatti sono detti +bánd’erríu o +bandíu).<br />

Abbiamo personalmente rilevato sodráu a San Nicolò D’Arcidano; sordáu a Suelli<br />

(assieme a +kònk’e mállu, vd. punto m.); +sodráu e vrúmiâ a Segariu, ‘soldato di<br />

fiume’; +sodradédhu a Mogorella, ‘soldatino’. Secondo DES (708), in log. e per<br />

la precisione a Macomer, la libellula è detta sordádu éttsu, ‘soldato vecchio’.<br />

Alla forma dell’addome si appunta la seguente denominazione:<br />

d. kò e bída nel Sarrabus (DES, 258), ‘coda di pera’. Il dato – ricavato da<br />

Böhne (1950: 26) – non è stato confermato con tale significato nei centri di<br />

Muravera, San Vito e Villaputzu. La parola è risultata pertinente a un coleottero<br />

cerambicide (Cerambix cerdo L.). Secondo i nostri rilievi la libellula è detta<br />

koibíra a Quartucciu e Selargius. 5<br />

5 L’appellativo koibíra è uno zoonimo dallo scopo referenziale piuttosto ampio. Questo, oltre a designare<br />

la libellula nei centri citati, è impiegato – secondo DES (258) – a San Pantaleo ed Escalaplano<br />

nel significato di ‘cicala’, a Mogoro e nel territorio del Sulcis per designare il Cerambix cerdo, a<br />

San Gavino per il grillo, nella forma koigoibíra. Aggiungiamo che in base a inchieste personali, a<br />

Musei koibíra designa un piccolo uccello non meglio determinato.<br />

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Per via della particolare modalità di volo, la libellula è assimilata a un elicottero<br />

e/o un aeroplano (Hoyer 2001: 309). Perciò – specialmente dalle generazioni<br />

più giovani – la libellula è detta:<br />

e. +aeroplánu a Quartucciu, ‘aeroplano’.<br />

f. +elikòtteru ad Aritzo, Assolo, Donori, Laconi, Mandas, Maracalagonis,<br />

Orroli, Pauli Arbarei e Ussana, ‘elicottero’.<br />

In alcune località di inchiesta la libellula è designata con denominazioni<br />

afferenti principalmente ad altri insetti. È perciò detta:<br />

g. +kalagázu erríu ad Arzana, ‘farfalla (di) rivo’.<br />

h. èspi forráyna a Domus de Maria (DES, 383), denominazione non confermata<br />

nelle nostre inchieste, che ne hanno invece appurato la pertinenza alla<br />

vespa del genere Vespula.<br />

i. +gríllu a Settimo S. Pietro, ‘grillo’.<br />

l. +sínsalu erríu a Ilbono; +tíntalu erríu a Urzulei, ‘zanzara (di) rivo’. Anche<br />

nel log. è presente tale modello onomasiologico. Infatti, secondo DES (780),<br />

a Oschiri la libellula è detta tintulòne, ‘zanzarone’.<br />

La libellula – soprattutto i rappresentanti del sottordine degli Anisotteri –<br />

presenta un lungo e affusolato addome, mentre il torace e il capo sono massicci.<br />

Per questo è detta:<br />

m. +kònk’e mállu a Soleminis (ma solo per gli Anisotteri) e a Suelli (assieme<br />

a sordáu, vd. punto c.); +konkimágágáu, +konkumágágáu a Baunei, ‘testa di<br />

maglio’. Secondo DES (263), in log. e per la precisione a Santu Lussurgiu, la<br />

libellula, per la medesima ragione, è detta kònka e mádzu.<br />

È da notare che, a seguito di simili caratteristiche morfologiche, i girini delle<br />

rane e dei rospi, caratterizzati da capo grosso e coda sottile sono detti kònk’e<br />

mállu et sim. (DES, 518).<br />

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LE DENOMINAZIONI POPOLARI DELLA LIBELLULA NELLE VARIETÀ SARDE MERIDIONALI<br />

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130<br />

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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ:<br />

EL CAS DE L’ALGUER *<br />

Resum<br />

Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />

ICREA-Universitat Pompeu Fabra, Universitat Autònoma de Barcelona,<br />

Universitat Pompeu Fabra<br />

131<br />

En la primera part d’aquest article presentem la descripció i el funcionament del<br />

web de l’Atles interactiu de l’entonació del català, un projecte que té com a<br />

objectiu la presentació sistemàtica d’una sèrie de materials en àudio i en vídeo<br />

per a l’estudi de la prosòdia i l’entonació dels dialectes catalans, de tal manera<br />

que es pugui iniciar l’anàlisi de la notable diversitat dialectal de l’entonació<br />

catalana i el traçat de les isoglosses prosòdiques en el domini lingüístic català.<br />

En aquesta part ens centrem concretament en la descripció de les dades de l’Atles<br />

que corresponen a la part de l’Alguer. En la segona part fem una pinzellada dels<br />

primers resultats geoprosòdics que s’han obtingut a partir de l’anàlisi de diferents<br />

* Primer de tot, volem donar les gràcies als professors i investigadors externs que han participat<br />

i donat suport al projecte des dels seus inicis, i molt especialment a Jaume Corbera, Joan<br />

Julià, Ignasi Mascaró, Manuel Pérez-Saldanya, Joan Peytaví, Gemma Rigau, Luca Scala. El<br />

projecte ha estat possible gràcies a la col·laboració dels següents becaris d’investigació, que<br />

han participat en l’enregistrament i el tractament de les dades i el seu trasllat al web: Myriam<br />

Almarcha, Núria Argemí, Francesc Ballone, Joan Borràs-Comes, Roger Craviotto, Verònica<br />

Crespo-Sendra, Núria Gavaldà, Marianna Nadeu, Rafèu Sichel, Paolo Roseano, Francesc<br />

Torres-Tamarit. Volem expressar també el nostre agraïment a les institucions que han finançat<br />

i donat suport al projecte. Part dels resultats que presentem en aquest article es van presentar<br />

en una conferència titulada Atles interactiu de l’entonació del català: current state,<br />

future perspectives and related research a la Università degli Studi di Cagliari, dins el<br />

Programa de Mobilitat Docent, i volem donar les gràcies als assistents a aquesta conferència<br />

pels seus comentaris i aportacions. També volem agrair de forma especial a Rita Ballone,<br />

Mariangela Caneo, Fabio Corbia, Luca Nurra, Rita Satta, Sergio Scala i Pinutxa Zucca, la<br />

seva participació desinteressada com a informants de l’Alguer en la recollida de dades. El<br />

projecte ha rebut el finançament de la Càtedra Alcover-Moll-Villangómez (CAMV) durant<br />

els anys 2005-2009, de la Generalitat de Catalunya a través de l’ajut Euroregió 2007, de la<br />

Universitat Autònoma de Barcelona a través d’un projecte d’innovació docent, del Ministerio<br />

d’Educació i Ciència mitjançant l’ajut HUM2006-01758/FILO. Finalment, el projecte ha<br />

rebut el suport institucional de la Universitat Autònoma de Barcelona, la Universitat Pompeu<br />

Fabra i l’Institut d’Estudis Catalans.<br />

<strong>INSULA</strong>, num. 6 (dicembre 2009) 131-160<br />

Impaginato 6.pmd 131<br />

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132 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />

tipus de patrons entonatius de l’Atles, fent especial atenció a l’entonació algueresa<br />

en comparació amb la de la resta de varietats. Finalment, en la darrera secció, us<br />

presentem el web Corpus oral de l’alguerès que pretén aplegar en format digital<br />

els corpus orals ja existents sobre l’alguerès, ja sigui en format vídeo (corpus<br />

Francesc Ballone, corpus Conversa amb...) o en àudio (corpus Amper-Cat, corpus<br />

Atles interactiu de l’entonació del català, corpus Andreu Bosch i corpus Arxiu<br />

de Tradicions de l’Alguer).<br />

1. Introducció<br />

L’any 2006 es va iniciar un projecte d’estudi i documentació de la prosòdia<br />

del català mitjançant el desenvolupament d’un lloc web anomenat Atles<br />

interactiu de l’entonació del català. 1 L’Atles, que enguany ja és una realitat<br />

acabada, té com a objectiu principal la presentació d’una sèrie de materials<br />

en àudio i en vídeo per a l’estudi de la prosòdia i l’entonació dels dialectes<br />

catalans, de tal manera que es pugui iniciar l’estudi sistemàtic de la notable<br />

diversitat dialectal de l’entonació catalana. Aquest projecte ha implicat la<br />

cooperació entre investigadors de diferents territoris de parla catalana, per<br />

tal d’endegar un projecte comú de recollida de materials per a l’estudi de la<br />

llengua catalana. Entre aquests investigadors hi figuren Jaume Corbera, Ignasi<br />

Mascaró, Manuel Pérez-Saldanya, Joan Peytaví, Gemma Rigau, Luca Scala,<br />

etc. En el cas del català del Rosselló i de l’Alguer, aquest procés de<br />

documentació és especialment important en moments en què l’ús d’aquestes<br />

varietats està en forta reculada i la població que parla aquestes varietats<br />

com a primera llengua és d’edat avançada.<br />

Aquest projecte pretén endegar la descripció de l’entonació en diverses<br />

varietats del català i investigar els seus patrons de variació. Com és sabut, la<br />

variació entonativa dialectal que presenta el català és poc coneguda. Tal i<br />

com han remarcat Veny (1986) i Recasens (1991), si bé l’entonació dialectal<br />

ha cridat l’atenció d’alguns investigadors, els estudis existents representen<br />

de manera molt desigual les diferents àrees del domini lingüístic. El dialecte<br />

central compta amb un cos descriptiu prou ampli (veg. els treballs<br />

monogràfics de Bonet 1984, Estebas 2000, Salcioli 1988a i els articles de<br />

1 L’adreça del lloc web de l’Atles interactiu de l’entonació del català és la següent: http://<br />

prosodia.upf.edu/atlesentonacio.<br />

Impaginato 6.pmd 132<br />

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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />

133<br />

Bonet 1986, Prieto 1995, 2001, 2002a, 2002b, Recasens 1977, Salcioli<br />

1988b, Virgili 1971), mentre que les aportacions sobre els altres dialectes es<br />

redueixen a dos articles d’Ignasi Mascaró centrats en l’entonació del<br />

mallorquí i del menorquí (Mascaró 1986, 1987) i alguns articles sobre<br />

diferents varietats del català (Prieto 2001, Payà-Vanrell 2005, Pradilla-Prieto<br />

2002, Martínez-Celdrán et al. 2005, Vanrell 2006, Crespo-Sendra 2008,<br />

Martínez-Celdrán et al. 2008). Un dels objectius principals d’aquest projecte<br />

és posar a l’abast dels investigadors i docents materials prosòdics en àudio<br />

i en vídeo ordenats descriptivament per tal que constitueixin la base per a<br />

una descripció de l’entonació dels dialectes catalans i de les isoglosses<br />

prosòdiques en el territori de parla catalana, que es podran comparar amb<br />

les isoglosses més conegudes, basades en processos segmentals.<br />

Aquest lloc web que presentem pot ser una eina important tant per a la<br />

docència com per a la recerca. Per començar, aquesta eina pot ser ben útil per<br />

als estudiants i els professors de llengua catalana que vulguin tenir accés a<br />

materials de parla de diferents varietats dialectals. Per altra banda, el web de<br />

l’Atles pot ser útil per als investigadors de la prosòdia del català, atès que<br />

permet de parar atenció a la varietat prosòdica que mostra aquesta llengua i<br />

als trets distintius d’entonació que caracteritzen les diferents varietats dialectals.<br />

Un altre dels objectius d’aquest projecte és iniciar l’aplicació del model<br />

autosegmental (i concretament el sistema de transcripció ToBI) a l’estudi de<br />

l’entonació dels dialectes catalans. Actualment, el sistema autosegmental ToBI<br />

és l’estàndard de transcripció entonativa internacional, i les dades que recull<br />

aquest Atles representen un primer pas per a aconseguir que el català sigui de<br />

les primeres llengües romàniques que comptin amb un sistema estàndard de<br />

transcripció de la prosòdia. 2<br />

En la primera part d’aquest article presentem l’Atles interactiu de l’entonació<br />

del català, el seu funcionament bàsic i unes dades concretes de la part de l’Alguer.<br />

En la segona part parlem dels primers resultats geoprosòdics que s’han obtingut<br />

a partir de l’anàlisi de diferents tipus de patrons entonatius, fent especial atenció<br />

a l’entonació algueresa en comparació amb la de la resta de varietats. Finalment,<br />

presentem un projecte estretament relacionat amb l’Atles com és el projecte<br />

Corpus oral de l’alguerès, lloc web que té com a finalitat la difusió d’una sèrie<br />

de materials en àudio i en vídeo sobre l’alguerès.<br />

2 Veg. el següent lloc web, que recull les propostes ToBI en diferents llengües: http://www.ling.ohiostate.edu/~tobi/.<br />

Impaginato 6.pmd 133<br />

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134 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />

2. Funcionament de l’‘Atles interactiu de l’entonació del català’<br />

Com hem dit abans, l’Atles interactiu de l’entonació del català conté tota<br />

una sèrie de materials orals en format d’àudio i vídeo que pretenen ser la<br />

base per a un estudi més aprofundit de la prosòdia del català. Tal i com<br />

podem veure a la reproducció del portal web, a la fig. 1, a banda del mapa<br />

interactiu on l’usuari hi pot trobar totes les dades, aquest web també conté<br />

una pàgina de Recursos sobre l’entonació catalana, la Proposta Cat-ToBI<br />

per a l’etiquetatge prosòdic del català (amb un manual i exercicis<br />

d’autoaprenentatge), així com una eina de Cerca per a poder comparar les<br />

entonacions de diferents varietats geogràfiques.<br />

Fig. 1. Portal del web Atles interactiu de l’entonació del català.<br />

Els materials s’organitzen tenint en compte les següents varietats<br />

geogràfiques del català: alguerès, balear, català central, català nordoccidental,<br />

català septentrional i valencià. A través del mapa del domini<br />

lingüístic català, l’usuari pot accedir de forma simple als diferents<br />

materials en àudio i vídeo. El mapa dialectal conté els enllaços directes<br />

a les 70 poblacions enquestades, que pertanyen a les diferents zones<br />

dialectals del domini lingüístic. Fent un clic sobre cadascuna de les<br />

localitats s’accedeix a un menú que permet que l’usuari accedeixi a<br />

diferents materials interactius.<br />

Impaginato 6.pmd 134<br />

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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />

Fig. 2. Mapa dialectal del web Atles interactiu de l’entonació del català, amb<br />

les poblacions enquestades.<br />

135<br />

A partir del mapa del domini lingüístic es pot accedir a les dades de l’alguerès<br />

clicant sobre la població de l’Alguer. També existeix una altra manera d’accedir<br />

a les dades, segons el que vulguem consultar, que és anar a la pestanya Cerca,<br />

marcar el tipus de material en el qual estem interessats i, a continuació, seleccionar<br />

el dialecte alguerès.<br />

Pel que fa al contingut, dins de cada població triada s’hi poden trobar els<br />

següents tres tipus de materials diferenciats, que explicarem tot seguit: Entrevista,<br />

corpus de diàleg Map Task (materials de parla espontània) i Frases obtingudes<br />

a partir d’una enquesta d’entonació.<br />

Per a cada població s’han enquestat parlants de dues franges d’edat<br />

diferenciades. Per a l’entrevista en vídeo els enquestats són tant homes com<br />

dones d’edat superior als 60 anys. Els participants havien d’haver viscut tota la<br />

vida a la localitat en qüestió. A l’enquesta de situacions i al corpus de diàleg<br />

Map Task s’han entrevistat dones de mitjana edat, d’entre 20 i 35 anys i amb<br />

estudis de grau mitjà o superior. Això ho justifiquem perquè amb informants<br />

femenines s’obtenen unes corbes de freqüència fonamental més clares. Ara bé,<br />

Impaginato 6.pmd 135<br />

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136 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />

en el cas de l’alguerès i del rossellonès s’ha fet una excepció. En aquestes<br />

varietats, és difícil trobar parlants femenines relativament joves, perquè són les<br />

que tradicionalment han optat per transmetre el francès (en el cas de la Catalunya<br />

del Nord) o l’italià (en el cas de l’Alguer). Per això, per a l’alguerès, vam escollir<br />

com a informants 3 homes que tenien al voltant de 40 anys d’edat (homes), 2<br />

dones que en tenien 50 (dones I) i 2 més que en tenien al voltant de 60 (dones<br />

II). Així, vam cobrir la variació generacional.<br />

A continuació expliquem els tres tipus de materials que s’hi poden trobar.<br />

2.1. Frases: l’enquesta de situacions<br />

Les dades de les Frases es varen obtenir mitjançant l’enquesta de situacions,<br />

que ha estat dissenyada seguint de prop la categorització descriptiva establerta<br />

al capítol sobre «Entonació» a la Gramàtica del català contemporani (Prieto<br />

2001, 2002). L’enquesta permet a l’entrevistador d’evocar situacions familiars<br />

a l’entrevistat i d’aquesta manera s’aconsegueix que aquest intervingui d’acord<br />

amb les situacions comunicatives de l’esmentada situació. Aquest mètode és<br />

especialment útil perquè permet obtenir un ventall ampli de contorns entonatius<br />

que és difícil que apareguin amb els altres mètodes.<br />

Cada enquesta ha estat adaptada per a cada dialecte per part d’un parlant<br />

nadiu coneixedor de les característiques lingüístiques específiques del dialecte.<br />

A continuació, us oferim un exemple d’una de les situacions que apareixen a<br />

l’enquesta en català central (a) i en alguerès (b) perquè pugueu observar quina<br />

és l’adaptació que s’ha dut a terme:<br />

(a) Declarativa categòrica en català central<br />

–Tu i una amiga esteu parlant d’uns amics que volen comprar un pis i no<br />

saben segur on aniran a viure. Tu saps que viuran a Viella. La teva amiga et<br />

diu que no, que viuran a Morella, molt segura. Digues-li, convençuda, que no,<br />

que viuran a Viella.<br />

–Que no, que viuran a Viella!<br />

(b) Declarativa categòrica en alguerès<br />

–Tu i una amiga estau parlant de certos amics que volen comprar un<br />

apartament i no saben de segur on anigueran a viure. Tu saps que anigueran a<br />

l’Olmedo. L’amiga tua te diu que no, que segurament anigueran a Càller. Diguesli,<br />

convencida, que no, que anigueran a l’Olmedo.<br />

–No, que anigueran a Olmedo!<br />

Impaginato 6.pmd 136<br />

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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />

137<br />

Mitjançant l’enquesta de situacions s’han obtingut uns 50 tipus de frase<br />

diferents per localitat, que inclouen oracions declaratives, interrogatives<br />

(interrogatives absolutes, parcials i reiteratives), precs i ordres, i vocatius, amb<br />

diferents matisos semàntics. Cada exemple d’entonació inclou l’arxiu de so, la<br />

corba de freqüència fonamental (f0), i la transcripció fonètica. Els exemples<br />

també van acompanyats de la descripció de la significació del contorn entonatiu.<br />

Si cliquem, per exemple, sobre la frase interrogativa absoluta de més d’una<br />

unitat tonal (un dels tipus d’oracions que s’obtenen a partir de l’enquesta<br />

d’entonació) a la localitat de l’Alguer se’ns obrirà una pàgina (fig. 3) on hi<br />

apareixerà la situació que ha provocat aquest determinat contorn (1), la<br />

interpretació (2), les inicials de l’informant (3), la descripció del contorn (4), la<br />

barra reproductora del contorn de freqüència fonamental (5) i la corba entonativa<br />

amb la transcripció ortogràfica i fonètica (6).<br />

1<br />

2<br />

3<br />

4<br />

5<br />

6<br />

Fig. 3. Fitxa que conté tota la informació referent a la frase<br />

interrogativa absoluta «Ma Maria, tornada és?» (l’Alguer).<br />

Impaginato 6.pmd 137<br />

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138 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />

La transcripció ortogràfica de les dades s’ha fet seguint uns criteris de<br />

transcripció que trobareu a l’apartat de Metodologia de l’Atles. La idea subjacent<br />

a aquests criteris és per una banda reflectir la parla col·loquial pel que fa a la<br />

morfologia, la sintaxi, el lèxic i els recursos expressius com les interjeccions i<br />

les exclamacions, i, per l’altra, per no dificultar la intel·ligibilitat i apel·lant a la<br />

transparència, no reflectir en l’ortografia totes aquelles pronúncies que es deriven<br />

de l’aplicació de processos fonològics generals a cada dialecte i, per tant,<br />

previsibles (per exemple: pel que fa a la despalatalització que trobem en ribagorçà<br />

o alguerès escriurem grill i no gril o anys i no ans).<br />

2.2. Corpus de diàleg Map Task<br />

El Map Task és una tasca validada de col·laboració entre dos parlants dissenyada<br />

per afavorir la producció de diferents tipus de frases interrogatives (Anderson<br />

et al. 1991; Carletta et al. 1996). Cadascun dels participants té un mapa però<br />

només un hi té una ruta dibuixada que ha de ser reproduïda per l’altre amb l’ajut<br />

de preguntes sobre el lloc per on passa aquesta ruta. Per dificultar una mica més<br />

la tasca i obtenir més temps de parla i més espontaneïtat, els dos mapes no són<br />

exactament iguals. En el cas de l’alguerès (i també del català septentrional), els<br />

noms que apareixen als mapes es va adaptar a les característiques lèxiques del<br />

dialecte, tenint sempre present la realitat sociolingüística dels dos llocs. La fig.<br />

4 mostra el mapa que es va utilitzar per a les gravacions del català central (figura<br />

superior) i de l’alguerès (figura inferior).<br />

En general, entre un i altre mapa hi trobem, sobretot, diferències lèxiques com<br />

asilo per ‘guarderia’, distribudor per ‘benzinera’ o municipi per ‘ajuntament’,<br />

però d’altres derivades de la situació sociolingüística especial com el fet d’escriure<br />

Sardenya amb grafia italiana, Sardegna, o del context sociocultural com el fet de<br />

posar Bar de Furesi perquè és un bar molt conegut a l’Alguer.<br />

Des de cada població es pot accedir a una gravació en format àudio i a la<br />

transcripció ortogràfica corresponent. Alternativament, es pot accedir a les dades<br />

a partir del cercador des de la pàgina del Corpus. La fig. 5 ens mostra la fitxa que<br />

se’ns desplega en clicar sobre Map Task. La fitxa conté la següent informació: la<br />

barra de reproducció de l’arxiu d’àudio (1), la icona del disquet que indica on s’ha<br />

de clicar per accedir a les descàrregues en format àudio .mp3 (2), la informació<br />

sobre la gravació (participants i durada) (3) i la transcripció ortogràfica amb<br />

informació relativa al temps cada 30 segons (4). En el cas de l’Alguer hi ha tres<br />

gravacions de Map Task: dues amb informants dones i una amb informants homes.<br />

Amb aquest mètode hem obtingut 72 enregistraments que constitueixen el<br />

Corpus de diàleg Map Task del català. Aquest projecte s’insereix en un<br />

Impaginato 6.pmd 138<br />

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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />

Fig. 4. Mapa del que té la ruta dibuixada utilitzat per a la recollida de dades del català<br />

central (fig. superior) i de l’alguerès (fig. inferior).<br />

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139


140 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />

1<br />

2<br />

3<br />

4<br />

programa de recerca d’abast internacional que pretén aplegar corpus de diàleg<br />

en diferents llengües seguint la metodologia estàndard del Map Task (veg. HCRC<br />

Map Task Corpus Project; Anderson et al. 1991; Carletta et al. 1996). Actualment<br />

llengües com l’anglès, el suec, l’holandès, l’italià, el japonès, el portuguès, i ara<br />

el català, ja compten amb extensos corpus Map Task.<br />

2.3. Entrevista en vídeo<br />

Fig. 5. Fitxa que apareix en un dels Map Task de l’Alguer.<br />

Per a cada població representada s’ha dut a terme una entrevista d’uns 10-15<br />

minuts de durada, de la qual s’ha triat un fragment representatiu d’uns 3-4 minuts.<br />

Des de cada població es pot accedir a l’entrevista en format àudio i vídeo i a la<br />

transcripció ortogràfica corresponent. La majoria de vegades es tracta<br />

d’entrevistes amb un informant o grup d’informants que discuteixen sobre<br />

qüestions d’actualitat, fets relacionats amb la seva infantesa o joventut, etc.<br />

Normalment, la intervenció de l’entrevistador és mínima. Els informants havien<br />

de ser gent més gran de 60 anys ja que ens interessava cobrir la franja d’edat que<br />

Impaginato 6.pmd 140<br />

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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />

141<br />

no cobria, per exemple, el material que podem trobar a l’apartat Frases o Map<br />

Tasks. Aquestes dades es poden visualitzar i escoltar lliurement i, a més, és<br />

possible descarregar-se el material en format vídeo o en format àudio. Sota del<br />

vídeo, també hi ha la transcripció ortogràfica (per a la qual s’han seguit els<br />

mateixos criteris ortogràfics de què parlàvem anteriorment) que ens permet seguir<br />

el diàleg que apareix en el vídeo amb molta més facilitat.<br />

La fig. 6 mostra la fitxa que se’ns desplega dins l’apartat Entrevistes. La<br />

fitxa conté el vídeo en format flaix (1), una icona d’un disquet que indica on<br />

s’ha de clicar per accedir a les descàrregues en format vídeo .avi i en format<br />

àudio .mp3 (2), la informació sobre l’entrevista (lloc i data, entrevistador,<br />

participant, tema i durada) (3) i la transcripció ortogràfica amb informació relativa<br />

al temps cada 30 segons (4). En el cas de l’Alguer hi trobem dos vídeos, un<br />

amb un informant femení i l’altre amb un informant masculí.<br />

1<br />

2<br />

3<br />

4<br />

Fig. 6. Mostra de fitxa que apareix en l’apartat d’Entrevistes de l’Alguer.<br />

Impaginato 6.pmd 141<br />

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142 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />

En el cas de l’Alguer, els dos vídeos que apareixen en la secció Entrevistes<br />

formen part d’un corpus més gran que és el corpus de vídeo enregistrat per Francesc<br />

Ballone. Es tracta d’un conjunt de 12 textos orals recollits i enregistrats entre el<br />

2000 i el 2008. Els informants tenien quasi tots més de 70 anys en el moment de<br />

l’entrevista i pertanyien a una mateixa estratificació social tot i que amb notables<br />

diferències laborals. Tot el material té una durada estimada de 20 hores.<br />

En una iniciativa recent de replegar els diferents corpus orals existents<br />

sobre l’alguerès, també presentem el Corpus oral de l’alguerès 3 que explicarem<br />

a la secció 4.<br />

3.1. Les isoglosses prosòdiques i el cas de l’Alguer<br />

L’entonació, i molt especialment l’entonació dialectal, continua essent un dels<br />

aspectes prosòdics menys explorats de la nostra llengua. Malgrat comptar amb<br />

una sèrie d’estudis descriptius, la major part centrats en la descripció del dialecte<br />

central, encara no s’ha estudiat de forma sistemàtica la notable diversitat dialectal<br />

de l’entonació catalana. L’any 1916, en l’article «De l’entonació en els nostres<br />

dialectes», Pere Barnils constatava l’interès de la variació melòdica dialectal,<br />

així com les dificultats que comportava aleshores la seva descripció:<br />

Naturalment que les diferències augmenten i tenen llur màxim en ple domini<br />

dialectal. El valencià, per exemple, Xè! que mo n’anem? o nèmoné?, ondularà<br />

segurament d’una manera ben distinta que el seu corresponent català, mallorquí<br />

i rossellonès. Això, que podem deduir ja a priori, i confirmar-ho per la impressió<br />

auditiva que tenim de les converses hagudes amb els dialectants d’aquelles<br />

contrades, no podem fixar-ho gràficament com caldria per oferir-ho com a<br />

materials a la investigació filològica (Barnils 1916: 12).<br />

L’abandó que ha sofert l’estudi de l’entonació, tant en català com en altres<br />

llengües, es podria atribuir a dos esculls que dificulten considerablement el seu<br />

tractament sistemàtic. D’una banda, és difícil d’aplicar als contorns entonatius<br />

els mateixos criteris contrastius que utilitza la fonologia segmental, pel fet que<br />

en la decisió no hi entren oposicions lèxiques clares (per exemple, que pal i mal<br />

es diferenciïn pel primer fonema), sinó matisos semàntics i expressius que no<br />

són senzills de delimitar. D’altra banda, tenim el problema de la representació<br />

tonal, és a dir, l’acceptació d’un sistema de transcripció que sigui prou global,<br />

senzill i que faci les distincions lingüísticament rellevants. En relació a aquesta<br />

darrera questió, últimament s’estan esmerçant esforços en la creació d’un siste-<br />

3 El web del Corpus Oral Alguerès és el següent: http://prosodia.upf.edu/coalgueres/index.html.<br />

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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />

143<br />

ma ToBI (Tones and Break Indices), basat en el model autosegmental. Així, el<br />

Grup d’Estudis de Prosòdia (UPF-UAB) treballa en la proposta de transcripció<br />

entonativa per al català: CAT_ToBI (Prieto et al. 2009), presentada a la<br />

comunitat científica en el marc del Workshop on transcription of Intonation<br />

in the Ibero-Romance Languages (PaPI 2007, Braga). La proposta conté l’inventari<br />

d’accents tonals i accents de frontera, a més de les possibles<br />

combinacions d’accents tonals i accents de frontera, amb la interpretació<br />

associada, tot això acompanyat de la descripció de corbes melòdiques<br />

procedents de diferents zones dialectals del català, i amb la possibilitat<br />

d’escoltar l’enunciat. Actualment, la proposta s’ha incorporat al web principal<br />

del ToBI, a la Universitat de Ohio, amb la voluntat de difondre els resultats<br />

entre altres lingüistes (veg. nota al peu 2). El Grup d’Estudis de Prosòdia<br />

(UPF-UAB) també ha desenvolupat, recentment, una eina interessant i<br />

necessària per a l’anotació prosòdica de corpus en català que conté informació<br />

prosòdica, fonètica i entonativa. Aquesta eina, en forma de lloc web, 4 conté<br />

materials de pràctica del sistema de transcripció Cat_ToBI amb exemples de<br />

frases etiquetades i també exercicis per a aprendre a etiquetar. L’objectiu<br />

principal és que sigui una eina pràctica per a aprendre a etiquetar prosòdicament<br />

diferents tipus de parla del català. El lloc web es va presentar al congrés<br />

Phonetics and Phonology in Iberia (PaPI 2009, Las Palmas) i va permetre<br />

que es fessin les primeres passes per a la creació d’una eina semblant que<br />

permetés la transcripció prosòdica de totes les llengües romàniques.<br />

L’estudi que presentem és només la primera passa d’un projecte més ampli<br />

que pretén impulsar l’anàlisi de la variació dialectal de manera transversal, això<br />

és, comparar l’entonació que tenen diferents tipus d’oracions com declaratives,<br />

interrogatives absolutes, parcials i reiteratives, precs i ordres, i vocatius amb<br />

matisos semanticopragmàtics diferents en tots els dialectes del català. La passa<br />

final d’aquest projecte serà la de cartografiar els resultats d’aquest estudi<br />

transversal amb el traçat de les isoglosses prosòdiques corresponents. La primera<br />

temptativa d’aquesta idea es dugué a terme al Workshop sobre entonació del<br />

català i Cat_ToBI any (2009) 5 en què es presentaren els primers resultats<br />

cartografiats de l’anàlisi tonal transversal de diversos tipus d’interrogatives: les<br />

interrogatives que demanen informació, les que demanen confirmació, els<br />

oferiments i les interrogatives antiexpectatives. A continuació posarem un<br />

4 El lloc web dels materials d’entrenament és el següent: http://prosodia.upf.edu/cat_tobi/en/.<br />

5 El lloc web on es poden trobar els materials presentats al Workshop sobre entonació del català i<br />

Cat_ToBI és el següent: http://prosodia.upf.edu/cattobi_workshop/home/.<br />

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144 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />

exemple d’aquest intent de cartografiar la variació entonativa trobada a tots els<br />

punts d’enquesta del domini lingüístic català mitjançant un exemple de les<br />

interrogatives absolutes neutres (les interrogatives que demanen informació),<br />

segurament el tipus d’oració en què trobem més variació interdialectal.<br />

Com és ben sabut, existeix una distinció clara entre les interrogatives<br />

informatives (information-seeking questions) i les interrogatives confirmatòries<br />

(confirmation-seeking questions) (Escandell 1993, Prieto 2002b). En el primer<br />

cas es tracta d’interrogatves informatives que demanen informació que no és<br />

compartida amb l’interlocutor, mentre que en el segon cas es tracta<br />

d’interrogatives que demanen informació compartida amb l’interlocutor, o dit<br />

amb altres paraules, interrogatives en què el parlant té alguna pressuposició<br />

sobre quina serà la resposta. En anglès, aquests dos tipus d’interrogatives tenen<br />

patrons sintàctics diferents. Així, mentre les interrogatives que demanen<br />

informació es caracteritzen per la inversió del subjecte i la presència d’un auxiliar<br />

(Did Jim leave early?), les interrogatives que demanen confirmació tendeixen a<br />

presentar sintaxi declarativa (Jim left early?). Com que en català i altres llengües<br />

romàniques aquests dos tipus d’interrogatives no són sintàcticament diferents,<br />

la decisió sobre l’estatus informatiu d’una determinada pregunta rau en<br />

l’entonació. L’entonació, doncs, és capaç de disambiguar dos tipus<br />

d’interrogatives diferents en llengües en què la sintaxi no hi té un paper tan<br />

fonamental, fet que s’ha demostrat en llengües romàniques com l’italià de Bari<br />

(Grice-Savino 1993, 2007a, 2007b) o el portuguès europeu (Santos-Mata 2008).<br />

A l’Atles hi ha recollides interrogatives informatives de les 70 localitats que hi<br />

apareixen. La situació emprada per a obtenir aquest tipus de frase era la següent<br />

(adaptació algueresa):<br />

–Entres a una botiga on no sés entrat mai (i per això no saps el que tenen i el<br />

que no) i demanes si tenen taronges.<br />

–Bon dia, teniu taronja?<br />

A la fig. 7 podeu observar quins són els patrons que s’han trobat en diferents<br />

parts del domini lingüístic català.<br />

Com podem observar en el mapa, en general trobem dos patrons per a les<br />

interrogatives que demanen informació: a) un patró descendent (color gris oscur<br />

al mapa) i b) un patró ascendent (gris pàl·lid al mapa). El colors llisos indiquen<br />

un moviment descendent (gris oscur) o ascendent (gris pàl·lid) durant la síl·laba<br />

nuclear (o última síl·laba tònica del contorn). Els colors tramats indiquen les<br />

variacions tonals que es poden afegir a aquest contorn ascendent o descendent.<br />

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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />

Fig. 7. Mapa en què apareixen els resultats obtinguts a l’Atles per a les interrogatives<br />

que demanen informació del tipus Teniu taronja?<br />

145<br />

L’especificació «*descendent» i «*ascendent» que apareix al requadre de la fig. 7<br />

indica que, tot i que la cua final és descendent o ascendent com en els contorns<br />

indicats amb color llis, aquest moviment presenta una petita diferència respecte<br />

al marcat amb el color llis. Per exemple: en el català de Mallorca trobem una<br />

entonació descendent associada a la síl·laba nuclear (color gris oscur), però, a<br />

més, és característic d’aquest dialecte que la síl·laba prenuclear es realitzi en un<br />

to extra alt, i això ho hem marcat mitjançant una trama de color negre. La fig. 8<br />

il·lustra la diferència entonativa marcada amb gris oscur llis i gris oscur (tramat<br />

en negre i tramat en blanc).<br />

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146 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />

Fig. 8. Esquema dels diferents contorns entonatius que trobem com a variacions del contorn<br />

descendent: contorn descendent (esquerra), contorn descendent amb la pretònica realitzada<br />

en un to extra alt (centre) i contorn descendent-ascendent (dreta).<br />

El català de l’Alguer presenta una entonació que també trobem en bona<br />

part del català nord-occidental i el català de les Illes Balears: un moviment<br />

descendent associat a la síl·laba nuclear seguit d’una cua també descendent<br />

alineada amb les síl·labes postnuclears (Vanrell 2006). La fig. 9 exemplifica<br />

aquest contorn, que es caracteritza per la presència d’un to descendent associat<br />

a la síl·laba -ron- de taronja i un to alt associat amb la síl·laba pretònica -ta-.<br />

La inflexió final és també de caràcter descendent.<br />

Fig. 9. Transcripció ortogràfica, tonal, oscil·lograma i contorn d’f0 de la interrogativa<br />

informativa Teniu taronja? produïda per una parlant d’alguerès.<br />

Els patrons entonatius de les interrogatives absolutes informatives i les<br />

confirmatòries del català de les Illes Balears i del català central obtinguts mitjançant<br />

una enquesta de situacions ens permet d’apreciar una gamma variada de contorns<br />

interrogatius relacionats amb la intencionalitat que hi pot haver darrere. Aquests<br />

contorns es van analitzar a Vanrell et al. (2009a). Els resultats de l’anàlisi d’aquestes<br />

dades demostren que els parlants tenen estratègies diferents per a marcar la<br />

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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />

147<br />

diferència entre interrogatives absolutes informatives i confirmatòries segons el<br />

dialecte a què pertanyen. Així, hi ha dialectes com el català central que marquen la<br />

distinció entre un i altre tipus d’interrogativa mitjançant l’ús de configuracions<br />

nuclears diferents; altres, com el mallorquí i el menorquí, tenen com a indici d’aquest<br />

contrast la diferència d’altura en la síl·laba prenuclear; i altres, com l’eivissenc i el<br />

formenterer, utilitzen les dues estratègies, tenen un doble contrast: en un, utilitzen<br />

tons de frontera diferents i, en l’altre, una major o menor altura tonal de la síl·laba<br />

prenuclear. Sembla que la diferència entre interrogatives que demanen informació<br />

i interrogatives que demanen confirmació pot marcar-se en alguerès amb una altura<br />

diferent de la síl·laba prenuclear com també passa en mallorquí, menorquí<br />

(Vanrell et al. 2009a, 2009b) i una part del català nord-occidental. Les dades<br />

extretes de les gravacions de Map Task de Prieto i Cabré (2008) confirmen aquesta<br />

hipòtesi. La fig. 10 mostra dos contorns confirmatoris extrets de les gravacions de<br />

Map Task: La puc fer-la nova? (esquerra) i Torn torna enrera? (dreta).<br />

Fig. 10. Transcripció ortogràfica, tonal, oscil·lograma i contorn d’f0 de les interrogatives<br />

que demanen confirmació La puc fer-la nova? (esquerra) i Torn torna enrera? (dreta)<br />

produïdes per parlants d’alguerès.<br />

Observeu que en les preguntes confirmatòries l’altura de la síl·laba pretònica<br />

final -la (de fer-la) i en- (d’enrera) no es realitza en un to extra alt sinó en un to alt<br />

simplement. Si comparem l’altura d’una interrogativa informativa amb una interrogativa<br />

confirmatòria realitzada per la mateixa parlant algueresa, comprovem<br />

que la diferència entre el to de la pretònica en la interrogativa informativa i el to<br />

de la pretònica en la interrogativa confirmatòria és de 3,6 semitonsque és, més o<br />

menys, la diferència que hi ha entre la nota re i la fa produïdes pel mateix instrument.<br />

Uns dels tipus d’oracions interessants des del punt de vista entonatiu són els<br />

oferiments. Ens referim a un tipus d’oracions que són interrogatives des del<br />

punt de vista de la força o modalitat oracional, però que, en canvi, tenen la<br />

força il·locutiva (la intenció) d’oferiment. A l’Atles, han estat aconseguides<br />

mitjançant els següents contextos (adaptació algueresa):<br />

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148 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />

–Demana a un amic si vol venir a prendre calqui cosa amb tu.<br />

–Véns a prendre calqui cosa?<br />

–Demana als tous nebots petits si volen una caramel.la.<br />

– (Que) voleu una caramel·la?<br />

A la majoria de domini lingüístic català, trobem el mateix patró: una corba<br />

melòdica que es manté estable durant tota l’oració i baixa durant la síl·laba<br />

nuclear amb inflexió final també descendent (fig. 11). Observeu que la melodia<br />

es manté estable durant vols anar a prendre, però experimenta una davallada a<br />

la síl·laba al- (d’algo). Aquest és un exemple de Manresa (català central).<br />

Fig. 11. Transcripció ortogràfica, tonal, oscil·lograma i contorn d’f0 de l’oferiment<br />

Vols anar a prendre algo? produïda per una parlant de català central.<br />

En alguerès, els oferiments són lleugerament diferents. Sintàcticament,<br />

aquestes formes interrogatives amb intenció d’oferiment poden anar introduïdes<br />

per la partícula a, com en sard. Jones ( 1993) posa el següent exemple del sard<br />

campidanès: A keres vénnere a domo mea? (‘Vols venir a casa meva?’) i diu el<br />

següent en relació a la partícula a: «This particle is used predominantly, but not<br />

exclusively, in questions which are to be interpreted as requests, invitations,<br />

offers, etc.». En alguerès, aquesta partícula tampoc no apareix de manera<br />

obligatòria. Per tant, trobem oferiments com: A véns amb mi que te convid calqui<br />

cosa?, A véns al bar mos bevem una cosa? però també Minyons, una caramel·la,<br />

la voleu? o Vols venim amb mi que anem a mos prendre calqui cosa?<br />

Els oferiments en alguerès presenten una entonació que es caracteritza per<br />

una pujada inicial amb un pic tonal alineat amb la primera síl·laba tònica del<br />

mot seguida d’un descens tonal. A partir d’aquest descens, la línia tonal es<br />

manté baixa fins al final de l’oració, en què, en alguns casos, puja lleugerament.<br />

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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />

La fig. 12, mostra dos exemples d’aquest contorn: Voleu una caramel·la?<br />

(esquerra) i Véns a te beure un cafè? (dreta).<br />

Fig. 12. Transcripció ortogràfica, tonal, oscil·lograma i contorn d’f0 dels oferiments<br />

Voleu una caramel·la? (esquerra) i Véns a te beure un cafè? (dreta) produïts<br />

per dos parlants d’alguerès.<br />

149<br />

En les dues figures, el pic tonal està alineat amb les síl·labes -leu (de voleu)<br />

en el contorn de l’esquerra i véns en el contorn de la dreta. A continuació, la<br />

melodia davalla i es manté baixa durant la resta de contorn. Aquesta sembla que<br />

és l’entonació que trobem, també, en les interrogatives en sard nuorès. Contini<br />

(1976) descriu aquesta mateixa entonació, amb el pic alineat amb la primera<br />

síl·laba tònica de l’oració, per a les interrogatives introduïdes per la partícula a<br />

del tipus A l’isches? ‘Ho saps?’, les interrogatives amb inversió del tipus Bidu<br />

l’as? ‘Vist l’has?’, i les interrogatives sense cap dels dos fenòmens anteriors<br />

com S’abba? ‘L’aigua?’ del sard nuorès: «Type I. Dans les phrases introduites<br />

par a les ommet mélodique se situe soit sur cet élément soit sur la syllable<br />

accentuée du premier mot phonique», «Type II. Le sommet mélodique coïncide<br />

les plus souvent avec l’accent du premier mot phonique», «Type III. Le sommet<br />

de la courbe coïncide les plus souvent avec l’accent du premier mot phonique».<br />

A partir de les dades de l’Atles també s’han començat a estudiar els vocatius<br />

algueresos definint prosòdicament el procés d’apocopació i analitzant el patró<br />

entonatiu que adopten aquests vocatius. L’alguerès, ben igual que els altres<br />

dialectes del català, usa uns recursos entonatius diferents en els vocatius segons<br />

si és la primera vegada que es crida a una persona o si se l’ha de tornar a cridar<br />

intensificant el valor del vocatiu. A partir de les dades que ofereix l’Atles<br />

interactiu de l’entonació del català (Prieto-Cabré 2008), podem dir que en la<br />

majoria de dialectes del català, aquesta segona crida va acompanyada d’una<br />

pujada en la intensitat i d’un increment del valor del to en què s’ha produït<br />

aquesta primera crida (sovint, no es tracta només d’un increment del to absolut,<br />

sinó que també trobem una ampliació del camp tonal general amb què s’ha emès<br />

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150 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />

el primer vocatiu, és a dir, els tons baixos esdevindran més baixos i els alts, més<br />

alts –veg. fig. 13–). Tanmateix, també existeix una altra possibilitat, exemplificada<br />

a la fig. 14, la d’utilitzar una configuració nuclear diferent per marcar aquest valor<br />

d’insistència (entenem per configuració nuclear la suma de l’accent nuclear, és a<br />

dir, l’accent tonal associat a l’última síl·laba tònica de l’enunciat, i els tons de<br />

frontera). El vocatiu en català es pronuncia amb un moviment tonal ascendent<br />

associat a la síl·laba tònica del nom seguit d’una cua que es realitza en un to mig.<br />

Ara bé, si el nostre interlocutor no fa cas d’aquesta primera crida, tenim dues<br />

estratègies: la més general, sobretot en zones urbanes, que fa ús del mateix patró<br />

entonatiu però realitzat amb un to més alt (fig. 13 dreta), o bé una altra de més<br />

restringida, que fa ús del mateix accent tonal ascendent a la síl·laba tònica amb<br />

una cua ascendent-descendent associada a les síl·labes posttòniques (fig. 14 dreta).<br />

Fig. 13. Transcripció ortogràfica, tonal, oscil·lograma i contorn d’f0 del vocatiu Maria<br />

pronunciat de manera no emfàtica (esquerra) i de manera emfàtica (dreta)<br />

per una parlant de mallorquí.<br />

Fig. 14. Transcripció ortogràfica, tonal, oscil·lograma i contorn d’f0 del vocatiu Maria<br />

pronunciat de manera no emfàtica (esquerra) i de manera emfàtica (dreta)<br />

per una parlant de mallorquí.<br />

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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />

151<br />

En alguerès, tot i que hi podem trobar els patrons descrits, la llengua tradicional<br />

fa ús d’un tercer patró que permet als parlants de transmetre el valor d’insistència de<br />

què hem parlat. Aquest patró es caracteritza per l’alineació de l’accent tonal amb la<br />

primera síl·laba del mot. Aquest «retrocés de l’accent» que interpretem des d’un<br />

punt de vista fonològic com una diferència d’alineació de l’accent tonal (Cabré-<br />

Vanrell 2008), no és exclusiva només dels vocatius de l’alguerès sinó que ja havia<br />

estat descrita per als vocatius del llatí (Floricic 2009), del turc (Zimmer 1970) o el<br />

persa (Ferguson 1957, Hodge 1957, Zav’jalova 1962, 1964; Vahidian-Kamyar 2001,<br />

Sadat-Tehrani 2007). A més, els vocatius en alguerès poden perdre tot el material<br />

fònic que apareix a la dreta de la vocal tònica. Alguns exemples d’aquest procés<br />

són: María > Marí, Estéve > Esté, Pasqualíno > Pasqualí, Fábio > Fa. Els vocatius<br />

són els únics mots que es poden apocopar, tot i que no és un requisit indispensable<br />

atès que hi ha altres mecanismes com l’entonació o la partícula «o» que poden<br />

marcar aquest cas. Els treballs de Cabré i Vanrell (2008) i Vanrell i Cabré (2009)<br />

demostren que el procés de truncament que té lloc en els vocatius implica l’elisió de<br />

tot el material fònic que apareix a la dreta de la vocal tònica. Es tracta d’un procés<br />

morfològic de formació de mots que no segueix cap patró prosòdic ni pel que fa a la<br />

seqüència que es manté ni a la que s’elideix. Segons la posició de l’accent del mot<br />

base, el vocatiu apocopat pot tenir una síl·laba (Fábio > Fa), dues síl·labes (María<br />

> Marí) o tres síl·labes (Pasqualíno > Pasqualí).<br />

En relació a l’entonació, hem vist que cal distingir entre el vocatiu de primera<br />

crida o de segona. Considerem que la segona crida sempre és més emfàtica i<br />

insistent que la primera i això té un efecte evident en l’entonació. En la primera<br />

crida, trobem un predomini important d’accents tonals descendents alineats amb<br />

la síl·laba que conté l’accent del mot (fig. 15, esquerra). En canvi, en la segona<br />

crida, és habitual que l’accent tonal de caràcter ascendent (amb el pic lleugerament<br />

retractat en relació al final de la síl·laba, cosa que fa que es percebi com un moviment<br />

ascendent-descendent) i alineat amb la primera síl·laba del mot (fig. 15, dreta).<br />

Fig. 15. Representació esquemàtica dels dos patrons entonatius que poden associar-se<br />

als vocatius en alguerès: un patró descendent associat a la síl·laba tònica (esquerra) o b)<br />

un patró ascendent alineat amb la primera síl·laba del mot amb el pic lleugerament avançat<br />

(dreta). El requadre gris representa la síl·laba a la qual s’associa el moviment tonal.<br />

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152 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />

Una característica significativa del patró emfàtic és que s’ha de realitzar<br />

sobre una base truncada o bisil·làbica. Tanmateix, l’efecte emfàtic pot venir<br />

també donat per la presència de la partícula «o» que pot ajuntar-se a una base<br />

sencera o truncada però amb accent tonal sempre descendent alineat amb la<br />

síl·laba tònica del mot.<br />

En resum, podem constatar dos fets rellevants en la formació de vocatius<br />

de l’alguerès. D’una banda, els mots apocopats monosil·làbics (procedents<br />

de bases planes de dues sil·labes o esdrúixoles de tres síl·labes) compensen<br />

sempre amb un allargament prou notori el pes sil·làbic de la síl·laba oberta<br />

resultat del procés de truncament. D’altra banda, els vocatius bisil·làbics<br />

plans, tipus Mário, Fábio, Ánna, Énzo, i els bisil·làbics aguts, tipus Francé,<br />

Joá, Gaví (també acabats en vocal), usen exactament els mateixos patrons<br />

entonatius. Tots es poden realitzar amb una entonació no emfàtica de tipus<br />

descendent alineant l’accent tonal a la dreta del mot: Fabió, Marió, Anná,<br />

Enzó, Francé, Joá, Gaví. Al mateix temps, tots es poden realitzar amb una<br />

entonació emfàtica de tipus ascendent alineant l’accent tonal a l’esquerra<br />

del mot: Fábio, Mário, Ánna, Énzo, Fránce, Jóa, Gávi. La bisil·labicitat<br />

sembla, doncs, el patró prosòdic per defecte que permet l’adaptació de totes<br />

les possibles formes vocatives i de tots els patrons entonatius. Les figures<br />

següents exemplifiquen un vocatiu apocopat amb el seu corresponent emfàtic<br />

marcat per la partícula o (fig. 16) i un vocatiu també apocopat amb el<br />

corresponent emfàtic marcat mitjançant una diferent alineació de l’accent<br />

tonal (fig. 17).<br />

Fig. 16. Transcripció ortogràfica, tonal, oscil·lograma i contorn d’f0 del vocatiu<br />

Joá pronunciat de manera no emfàtica (esquerra) i o Joán pronunciat<br />

de manera emfàtica (dreta).<br />

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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />

Fig. 17. Transcripció ortogràfica, tonal, oscil·lograma i contorn d’f0 del vocatiu<br />

Antó pronunciat de manera no emfàtica (esquerra) i Ánto pronunciat<br />

de manera emfàtica (dreta).<br />

4. Altres corpus sobre l’alguerès<br />

153<br />

Com hem vist, les dades de l’Atles interactiu de l’entonació del català ens permeten<br />

de fer un estudi prou aprofundit sobre l’entonació o sobre altres fenòmens dels<br />

dialectes del català. Ara bé, en alguns casos ens ha calgut fer enquestes<br />

suplementàries per estudiar l’efecte d’un determinat significat pragmàtic en<br />

l’entonació o, en el cas dels vocatius, per determinar si l’estructura sil·làbica o la<br />

llargada del mot afectava el tipus de forma truncada que obteníem. També creiem<br />

que és molt important contrastar els resultats obtinguts mitjançant enquestes de<br />

parla semiespontània amb dades de parla espontània. És per això que hem aplegat<br />

aquests materials dins del web interactiu anomenat Corpus oral de l’alguerès.<br />

El Corpus oral de l’alguerès es tracta d’un lloc web (adreça en la nota 3)<br />

que recull alguns dels corpus orals de l’alguerès recollits fins ara en format<br />

vídeo (corpus Francesc Ballone, corpus Conversa amb...) o en àudio (corpus<br />

Amper-Cat, corpus Atles interactiu de l’entonació del català, corpus Andreu<br />

Bosch, corpus Arxiu de Tradicions de l’Alguer). A més de poder accedir<br />

lliurement a aquest material i poder, també, descarregar-lo, l’usuari té accés a<br />

la transcripció ortogràfica.<br />

Disposar d’aquest material en línia té els següents objectius:<br />

–la preservació, atès que suposarà una manera de preservar en format digital<br />

una part molt important del patrimoni sociocultural alguerès i, per tant, català<br />

(literatura popular com poemes, cançons i relats; textos orals sobre la cultura<br />

i la història de l’Alguer; etc.).<br />

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Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />

–la difusió, ja que s’utilitzarà un entorn virtual que facilita que ni el temps ni<br />

l’espai siguin un inconvenient perquè l’usuari entri en contacte amb la realitat<br />

sociocultural algueresa i, a més, estarà en quatre llengües: català, sard, italià i anglès.<br />

–la recerca. Considerem que l’accessibilitat d’aquests corpus contribuirà<br />

a esperonar la recerca en l’àmbit de la lingüística algueresa.<br />

–l’educació/ensenyament. Creiem que l’existència d’aquest recurs pot ser una<br />

eina importantíssima per a l’ensenyament de l’alguerès a les escoles d’infants i<br />

d’adults ja que sabem que, malauradament, la transmissió intergenarcional de<br />

l’alguerès no és una pràctica comuna. El fet de poder accedir a aquest material des<br />

de qualsevol lloc en garantirà l’ús per a treballar determinats aspectes lingüístics<br />

relacionats amb l’alguerès o determinades habilitats (comprendre el sentit global<br />

d’una conversa, identificar la idea o idees principals d’un text escoltat prèviament,<br />

identificar aspectes rellevants de la situació de comunicació –actitud i intenció de<br />

la persona que parla-) que poden ser difícils de presentar en un context en què s’ha<br />

perdut la transmissió intergeneracional d’aquesta llengua.<br />

La taula següent mostra una breu descripció del material en brut amb què<br />

comptem i que serà la matèria primera per a la creació d’aquest Corpus oral<br />

de l’alguerès:<br />

Un dels objectius d’aquest projecte és el de la preservació de material en un<br />

format de qualitat, en format digital, i de tot el que això suposa: una part important<br />

del patrimoni oral de l’alguerès. La preservació digital es basa en la cerca de<br />

mètodes per garantir que la informació emmagatzemada digitalment en qualsevol<br />

tipus de format, programari, maquinari o sistema, continuï sent accessible tot i<br />

el ràpid desenvolupament de les noves tecnologies. En aquest sentit, la<br />

preservació digital es farà en dos formats diferents: un format que permeti<br />

disposar d’aquests materials en qualsevol moment (això és mp3 pel que fa a<br />

l’àudio, i flaix, pel que fa al vídeo) i un altre format de més qualitat com és el<br />

wav (material d’àudio) i l’avi (material de vídeo). Aquesta doble preservació té<br />

com a objectiu que el lloc web tingui dos tipus d’usuaris ben diferents i que<br />

aquest material es pugui adaptar a les seves necessitats: a) l’usuari que només<br />

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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />

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està interessat a visualitzar o escoltar les dades (per tant, li interessa poder dur a<br />

terme aquesta idea sense haver d’esperar descàrregues), i b) l’usuari que vol<br />

treballar a partir d’aquestes dades i que necessita un format apte per a l’anàlisi<br />

en un programari concret.<br />

La fig. 18 mostra la primera pàgina del Corpus oral de l’alguerès. Es tracta<br />

d’un lloc web que conté les seccions següents, presentació, l’alguerès, dades,<br />

equip i enllaços, que es presenten a continuació:<br />

Fig. 18. Pàgina d’inici del web Corpus oral de l’alguerès.<br />

Presentació. En aquesta secció es descriuen els objectius del projecte i el<br />

contingut d’aquest web.<br />

L’alguerès. Aquí s’explica quin és l’estatus del català de l’Alguer pel que fa a<br />

l’ús social, a l’ensenyament, als mitjans de comunicació i a la legislació, al mateix<br />

temps es presenta una breu introducció històrica al fet que a Sardenya es parli català.<br />

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Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />

Dades. Les dades estan agrupades segons els format (àudio/vídeo) i<br />

l’investigador que ha recollit el corpus (Arxiu de Tradicions de l’Alguer, Amper-<br />

Cat, Atles interactiu de l’entonació del català, Francesc Ballone, Andreu Bosch,<br />

Jaume Corbera o Amper-Cat). Una vegada s’ha accedit al corpus en qüestió es<br />

pot visualitzar/escoltar el material i seguir a través de transcripcions ortogràfiques.<br />

També hi ha la possibilitat de descarregar els arxius de so/vídeo i la transcripció.<br />

Equip. Es tracta d’un projecte coordinat per Pilar Prieto (ICREA-Universitat<br />

Pompeu Fabra) i Maria del Mar Vanrell (Universitat Pompeu Fabra) i amb un<br />

equip format pels representants dels diferents corpus que són: Luca Scala (AdT),<br />

Laboratori de Fonètica-Universitat de Barcelona (Amper-Cat), Pilar Prieto (Atles),<br />

Andreu Bosch (Corpus Bosch), Francesc Ballone (Corpus Ballone), Jaume Corbera<br />

(Corpus Conversa amb...) i Eugenio Martínez-Celdrán (Corpus Amper-Cat).<br />

Enllaços. A partir d’aquesta pestanya es pot accedir a altres webs que<br />

considerem importants per al català de l’Alguer o l’entorn sociocultural alguerès<br />

i a una petita descripció d’aquests webs. També s’hi pot trobar un ellaç al<br />

document El català de l’Alguer: un model d’àmbit restringit, a un recull de<br />

lèxic alguerès, a l’Enquesta d’usos lingüístics a l’Alguer 2004, a associacions i<br />

entitats de l’Alguer, etc.<br />

Els corpus que formen part d’aquest lloc web:<br />

Corpus Arxiu de Tradicions de l’Alguer. Es tracta d’un corpus format per<br />

entrevistes longitudinals dutes a terme a dues senyores de més de 60 anys amb<br />

una durada total aproximada de 150 minuts. Aquestes entrevistes es varen dur a<br />

terme entre l’estiu i la tardor de 1997. Les dues dones no havien viscut mai a<br />

fora de l’Alguer. El mètode d’entrevista utilitzat era el de fer preguntes perquè<br />

les entrevistades poguessin explicar històries de manera espontània amb poca<br />

intervenció per part de l’entrevistador. Així, aquest material està format per<br />

poemes, rondalles, contes, cançons, acudits, etc. Aquestes dades varen ser<br />

recollides per Luca Scala.<br />

Corpus Atles interactiu de l’entonació del català (Prieto-Cabré 2008). Es<br />

tracta d’un corpus format per 3 map tasks d’una durada mitjana de 10 minuts<br />

cada un recollit al desembre de 2007. Els informants són 2 dones d’uns 50 anys,<br />

2 de 60 anys i 2 homes, més joves, d’una trentena d’anys. La metodologia que<br />

es va seguir per a la recollida de dades és el map task. Les dades varen ser<br />

recollides per Francesc Ballone i Maria del Mar Vanrell.<br />

Corpus Ballone. Es tracta d’un corpus format per 12 textos orals, recollits i<br />

enregistrats entre el 2000 i el 2008. Els informants pertanyen a una mateixa<br />

estratificació social però amb notables diferències laborals: hi ha representants<br />

del món pagesívol, representants del món de l’esport, pescadors, sabaters,<br />

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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />

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capellans, dones de casa. Els informants tenen quasi tots més de 70 anys en el<br />

moment de l’entrevista, amb un cas de locutor de 52 anys i una locutora de 100<br />

anys (nascuda l’any 1906). El material ha estat recollit i enregistrat per Francesc<br />

Ballone. El material en brut té una durada estimada de 20 hores.<br />

Corpus Bosch i Sanna. Es tracta d’un corpus format per 25 textos orals<br />

(sobretot narracions, però també cançons i poesies), recollit i enregistrat entre<br />

el 2 de febrer i el 21 de març de 1995. Els informants pertanyen a una mateixa<br />

estratificació social, prevalentment a la clase treballadora, poc culturitzada,<br />

sobretot de l’àmbit del camp, però també del món més urbà i mariner, de llengua<br />

materna catalana i, a voltes, amb alguna deficiència en el domini de la llengua<br />

italiana (alguns són coneixedors passius o actius del sard). En el moment de les<br />

entrevistes, eren d’edats compreses entre els 60 i 84 anys. Les dades varen ser<br />

recollides pels entrevistadors Andreu Bosch i Rodoreda i Maria Antonietta Susanna<br />

Sanna.<br />

Corpus Conversa amb... Es tracta de 6 entrevistes en format vídeo<br />

enregistrades a l’Alguer durant els dies 25 i 26 de juliol de 2008. Els entrevistats<br />

eren pescadors, pagesos o del món urbà. Tots eren majors de 70 anys. Cada<br />

entrevista té una durada aproximada d’una hora i mitja. Les dades varen ser<br />

recollides per Jaume Corbera i Enrico Chessa.<br />

Corpus Amper-Cat. Es tracta d’un corpus format per 2 gravacions de Map<br />

Task d’una durada mitjana de 12 minuts cada un, una narració espontània d’uns<br />

tres minuts de durada i unes frases d’ús comú. Els informants són una dona de<br />

25 anys i un home de 60. Els materials van ser recollits al desembre de 2007 i a<br />

l’agost de 2008. Les dades varen ser recollides, mitjançant una gravadora digital,<br />

per Esteve Valls i Maria Cabrera, Lourdes Aguilar i Francesc Ballone en el marc<br />

del projecte Amper-Cat.<br />

5. Conclusions<br />

En aquest article hem fet una descripció del web de l’Atles interactiu de<br />

l’entonació del català i dels materials en àudio i en vídeo que conté per a l’estudi<br />

de la prosòdia i l’entonació dels dialectes catalans, centrant-nos especialment<br />

en les dades de la varietat algueresa. En la part central de l’article hem posat de<br />

relleu com les dades de l’Atles ens permeten iniciar el traçat de les isoglosses<br />

prosòdiques de la llengua catalana. En aquesta part hem fet una pinzellada dels<br />

primers resultats geoprosòdics que s’han obtingut a partir de l’anàlisi de quatre<br />

tipus de patrons entonatius de l’Atles: les preguntes informatives, les preguntes<br />

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158<br />

Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />

confirmatòries, les preguntes d’oferiment i els vocatius. Hem pogut observar<br />

com a voltes l’entonació algueresa es correspon amb els patrons entonatius de<br />

la varietat balear (per exemple, en el contrast entre interrogativa informativa i<br />

confirmatòria) i a voltes mostra trets ben diferenciats que podrien ser deguts a la<br />

influència del sard (preguntes d’oferiment i vocatius).<br />

Finalment, en la darrera secció, hem presentat un projecte important per a la<br />

documentació i l’estudi lingüístic de la varietat parlada a l’Alguer. És el web<br />

Corpus oral de l’alguerès que pretén d’aplegar en format digital els corpus<br />

orals ja existents sobre l’alguerès, ja sigui en format vídeo (corpus Francesc<br />

Ballone, corpus Conversa amb...) o en àudio (corpus Amper-Cat, corpus Atles<br />

interactiu de l’entonació del català, corpus Andreu Bosch i corpus Arxiu de<br />

Tradicions de l’Alguer).<br />

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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />

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Num. 1 (giugno 2007)<br />

INDICE DEI NUMERI PRECEDENTI<br />

161<br />

Joan ARMANGUÉ (Università di Cagliari), Forme di cultura catalana nella Sardegna medioevale<br />

Esther Martí (Universitat de Lleida), Les ciutats reials en els Parlaments sards i en les Corts<br />

catalanes durant el Regnat d’Alfons el Magnànim<br />

Walter TOMASI (Arxiu de Tradicions), Taxació d’oficis de maestrances (Oristano 1597-1621)<br />

Maria LEPORI (Università di Cagliari), Il marchese d’Arcais, un signore sgradito<br />

Gabriel ANDRÉS (Università di Cagliari), Grazia Deledda sotto censura nella Spagna franchista<br />

Num. 2 (dicembre 2007)<br />

Antonello V. GRECO (Arxiu de Tradicions), Città costiere romane di tradizione punica: alcune<br />

osservazioni topografiche su Carales e Carthago Nova. Ipotesi sulla circolazione di un ‘modello’<br />

metropolitano<br />

Joan ARMANGUÉ (Università di Cagliari), Le prime ‘Ordinanze’ di Castello di Cagliari (1347).<br />

Testo e traduzione<br />

Umberto ZUCCA (OFMCon), Il culto di san Giuseppe da Copertino in Oristano<br />

Ramon VIOLANT I SIMORRA, Parallelismi culturali tra Sardegna, Catalogna e Baleari<br />

Matthew L. JUGE (Texas State University, San Marcos), Usual outcomes in unusual circumstances:<br />

Catalan in L’Alguer<br />

Num. 3 (giugno 2008)<br />

Jordi CARBONELL DE BALLESTER (Università di Cagliari), La grida in catalano del veghiere di Cagliari<br />

del 1337<br />

Joan ARMANGUÉ (Università di Cagliari), Gli ebrei nelle prime ‘Ordinanze’ di Castello di Cagliari<br />

(1347). Nota per una rilettura etnologica<br />

Ines LOI CORVETTO (Università di Cagliari), Prassi scrittoria e interferenze linguistiche nella Sardegna<br />

sabauda<br />

Simona MELONI (Arxiu de Tradicions), Il Fondo Timon della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari.<br />

Testimonianze dello sviluppo della tipografia nella Sardegna del XIX secolo<br />

Roslyn M. FRANK (University of Iowa), Recovering European Ritual Bear Hunts: A Comparative<br />

Study of Basque and Sardinian Ursine Carnival Performances<br />

Francesc-Xavier LLORCA IBI (Universitat d’Alacant), ‘Turina bella’. Llengua i cultura de la tonyina<br />

a Sardenya<br />

Num. 4 (dicembre 2008)<br />

Joan ARMANGUÉ (Università di Cagliari), Ripopolamento e continuità culturale ad Alghero:<br />

l’identità epica<br />

Mauro MAXIA (Università di Sassari), Il Condaghe di Luogosanto. Un documento in sardo<br />

logudorese del primo Cinquecento<br />

Impaginato 6.pmd 161<br />

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162<br />

Aldo SARI (Università di Sassari), I teatri stabili ad Alghero nell’Ottocento<br />

Constantino VIDAL SALMERON (Universitat de Barcelona), Una ‘mezuzà’ algueresa inèdita<br />

Francesc BALLONE (Università di Sassari), Català de l’Alguer: anàlisi instrumental d’un text oral<br />

Roslyn M. FRANK (University of Iowa), Evidence in Favor of the Palaeolithic Continuity Refugium<br />

Theory (PCRT): ‘Hamalau’ and its linguistic and cultural relatives. Part 1<br />

Num. 5 (giugno 2009)<br />

Antonello V. GRECO (Arxiu de Tradicions), Unzioni rituali e spiritualità semitica<br />

Constantino VIDAL SALMERON (Universitat de Barcelona), Documents sobre una inscripció hebrea<br />

a l’Arxiu Municipal de l’Alguer<br />

Joan ARMANGUÉ (Università di Cagliari), Le lingue in Sardegna attraverso gli Statuti delle città regie<br />

Mauro MAXIA (Università di Sassari), Per una fonetica storica delle varietà sardo-corse<br />

Andreu BOSCH I RODOREDA (Universitat de Barcelona), Problemes de codificació de l’alguerès<br />

Roslyn FRANK (University of Iowa), Evidence in Favor of the Palaeolithic Continuity Refugium<br />

Theory (PCRT): ‘Hamalau’ and its linguistic and cultural relatives. Part 2<br />

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SERIE «ATTI»<br />

Pubblicazioni dell’Arxiu de Tradicions<br />

COEDIZIONI<br />

GRAFICA DEL PARTEOLLA – AdT<br />

163<br />

1. Tesori in Sardegna. Atti del II Simposio di Etnopoetica dell’AdT. Dolianova 2001.<br />

4. L’acqua nella tradizione popolare sarda. Atti del III Simposio di Etnopoetica dell’AdT. Dolianova 2002.<br />

5. Le lingue del popolo. Contatto linguistico nella letteratura popolare del Mediterraneo occidentale. Dolianova<br />

2003.<br />

6. Oralità e memoria. Identità e immaginario collettivo nel mediterraneo occidentale. Dolianova 2005.<br />

7. La biografia popular. De l’hagiografia al gossip. Atti del VI Simposio di Etnopoetica dell’AdT (Tarragona<br />

2005). Dolianova 2006.<br />

8. Els gèneres etnopoètics. Competència i actuació. Atti del VII Simposio di Etnopoetica dell’AdT (Palma di<br />

Maiorca 2006). Dolianova 2007.<br />

9. Folklore i Romanticisme. Els estudis etnopoètics de la Renaixença. Atti dell’VIII Simposio di Etnopoetica<br />

dell’AdT (Alicante 2007). Dolianova 2008.<br />

10. Illes i insularitat en el folklore dels Països Catalans, Atti del IX Simposio di Etnopoetica de l’Arxiu de<br />

Tradicions de l’AdT (Alghero 2008). Cagliari 2009.<br />

STUDI STORICI<br />

1. Storia dell’ulivo in Sardegna. Atti della II Giornata di Studi Oleari dell’AdT. Dolianova 2001.<br />

2. Aragonensia. Quaderno di studi sardo-catalani. Dolianova 2003.<br />

3. La rotta delle isole / La ruta de les illes. Dolianova 2004.<br />

4. Norbello e Domusnovas. Appunti di vita comunitaria. Dolianova 2005.<br />

<strong>INSULA</strong>. QUADERNO DI CULTURA SARDA<br />

1. Giugno 2007.<br />

2. Dicembre 2007.<br />

3. Giugno 2008.<br />

4. Dicembre 2008.<br />

5. Giugno 2009.<br />

6. Dicembre 2009.<br />

BOLLETTINO DELL’ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI ORISTANO<br />

1. Dicembre 2007.<br />

2. Agosto 2008.<br />

3. Dicembre 2008.<br />

4. Giugno 2009.<br />

BIBLIOTECA EDUARD TODA<br />

1. Eduard Toda i Güell, Memoria sobre los Archivos de Cerdeña, ed. Luca Scala. Cagliari, 2009.<br />

2. Eduard Toda i Güell, Cortes españolas de Cerdeña, ed. Joan Armangué. Cagliari, 2009.<br />

PUBLICACIONS DE L’ABADIA DE MONTSERRAT – AdT<br />

1. La Setmana Santa a l’Alguer. Atti del I Simposio di Etnopoetica dell’AdT. Barcellona 1999. Serie «Atti», num. 1.<br />

2. Arxiu de Tradicions de l’Alguer. Barcellona 2001. Serie «Atti», num. 3.<br />

3. Joan Armangué, L’obra primerenca d’Apel·les Mestres. Barcellona 2007.<br />

«ROCCAS»<br />

S’ALVURE – AdT<br />

1. Castelli in Sardegna. Oristano 2002.<br />

2. Aspetti del sistema di fortificazione in Sardegna. Oristano 2003.<br />

3. Anna Paola Deiana, Il castello di Gioiosa Guardia, attraverso i documenti e la lettura archeologica. Oristano 2003.<br />

4. I catalani e il castelliere sardo. Oristano 2004.<br />

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164<br />

PRIMA TIPOGRAFIA MOGORESE – AdT<br />

ARCHIVIO ORISTANESE<br />

1. Archivio oristanese, ed. Maria Grazia Farris. Mogoro 2003.<br />

2. Dei, uomini e regni, da Tharros a Oristano, ed. Joan Armangué. Mogoro 2004.<br />

3. La cultura catalana del Trecento, fra la Catalogna e Arborea. Mogoro 2005.<br />

4. Uomini e guerre nella Sardegna medioevale. Mogoro 2007.<br />

HELIS!<br />

1. Testimonianze inedite di storia arborense, ed. Walter Tomasi. Mogoro 2008.<br />

EDIZIONI AdT<br />

SERIE «FASCICULARIA»<br />

1. Estudis catalans a Sardenya, ed. Joan Armangué (novembre 1999).<br />

2. Memòria de les activitats, 1997-2000 (marzo 2000).<br />

3. Forme dell’acqua nella cultura popolare, ed. Veniero Pinna e A. Murgia (agosto 2000).<br />

4. La ruta de les illes: de Sardenya a Malta, ed. Joan Armangué (novembre 2000).<br />

5. Emanuela Sarti, La Guerra Civile in Catalogna (1936-1939) (giugno 2001).<br />

7. La ruta de les illes: de Mallorca a Sardenya, ed. Joan Armangué (novembre 2001).<br />

8. Memòria de les activitats, 1997-2002 / Memoria delle attività, 1997-2002 (maggio 2002).<br />

9. Pirri: la storia e le chiese, ed. Alessandro Sogos (luglio 2002).<br />

10. Laudes immortales. Gosos e devozione mariana in Sardegna, ed. Sara Chirra e Maria Grazia Farris (agosto 2002).<br />

11. Lo Càntic dels Càntics / Su Cantu de is Cantus, ed. Arxiu de Tradicions (agosto 2002).<br />

13. Francesc Pasqual i ArmengoL, Apel·les Mestres a Cervelló (settembre 2003).<br />

14. Memòria de les activitats, 2003 / Memoria delle attività, 2003 (gennaio 2004).<br />

15. El Seminari de formació del voluntari. Units – 2004 (novembre 2004).<br />

16. Francesca Cau, L’arciconfraternita della Madonna d’Itria in Cagliari (gennaio 2005).<br />

17. Walter Tomasi, Taxació d’oficis de maestrances. Oristano 1597-1621 (maggio 2005).<br />

18. Daniela Di Giovanni, I luoghi dei giovani nella Cagliari notturna (giugno 2005).<br />

19. Federica Pau, Soggettività e totalità nella forma del romanzo moderno (dicembre 2006).<br />

20. Walter Tomasi, Alcuni documenti inediti sulle manifestazioni equestri nella Oristano dei secoli XVI-XVII (dicembre 2006).<br />

21. Giannina Monzitta, Ombre cinesi, ed. Tiziana Limbardi (settembre 2007).<br />

SERIE «OPUS MINUS»<br />

1. Cristiana Pili, El Llegendari Popular Català (1924-1930) (luglio 2001).<br />

2. Ramon Violant i Simorra, Paral·lelismes culturals entre Sardenya, Catalunya i Balears, ed. Arxiu de Tradicions<br />

de l’Alguer (settembre 2003).<br />

3. Apel·les Mestres, Sant Pere en la llegenda popular, ed. Anna Garcia (febbraio 2007).<br />

4. Carla Piga, Pasqual Scanu i els Jocs Florals de la Llengua Catalana a l’exili (1959-1977) (gennaio 2008).<br />

5. Pere Català i Roca, Pasqual Scanu, perfilat per ell mateix (30 gennaio 2008).<br />

6. Joan Armangué, Llegendes alguereses al Llegendari Popular Català (1926-1928) (febbraio 2008).<br />

SERIE «DEDÀLEIA»<br />

1. Homenatge a Francesc Martorell, arqueòleg a l’Alguer (1868) (settembre 2002).<br />

2. Antonello V. Greco, Betel. Studi sulle stele con raffigurazioni betiliche dell’area di Tharros (settembre 2003).<br />

SERIE «LINGUA»<br />

1. Enrico Chessa, La llengua interrompuda. Transmissió intergeneracional i futur del català a l’Alguer<br />

(ottobre 2003).<br />

2. Marina Castagneto, Chiacchierare, bisbigliare, litigare… in turco. Il complesso intreccio tra attività<br />

linguistiche, iconismo, reduplicazione (settembre 2004).<br />

3. Joan Armangué, Represa i exercici de la consciència lingüística a l’Alguer (ss. XVIII-XX) (giugno 2006).<br />

ANTOLOGIA<br />

1. Poesia algueresa de Quaresma i de Passió, ed. Joan Armangué (aprile 2000).<br />

2. Gaví Ballero, Lo sidadu, ed. Luca Scala (febbraio 2002).<br />

3. Carles Duarte, Il silenzio (settembre 2004).<br />

4. August Bover, Vicino al mare (ottobre 2006).<br />

5. Mariagrazia Dessì, A perda furriada (novembre 2006).<br />

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INDICE<br />

165<br />

Simona LEDDA<br />

Demetra, ragioni e luoghi di culto in Sardegna 5<br />

Aldo SARI<br />

L’arte in Sardegna nel XIV-XV secolo e il polittico<br />

dell’Annunciazione di Joan Mates 25<br />

Joan ARMANGUÉ<br />

Joan Roís de Corella e gli incunaboli<br />

della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari 53<br />

Marcello A. FARINELLI<br />

Il fascismo ad Alghero. Italianizzazione alla periferia del regime 67<br />

Antonio TRUDU<br />

Franco Oppo: il musicista organico 93<br />

Roberto RATTU<br />

Le denominazioni popolari della libellula<br />

nelle varietà sarde meridionali 121<br />

Pilar PRIETO, Teresa CABRÉ, Maria del Mar VANRELL<br />

El projecte de l’‘Atles interactiu de l’entonació del català’:<br />

el cas de l’Alguer 131<br />

Indice dei numeri precedenti 161<br />

Pubblicazioni dell’Arxiu de Tradicions 163<br />

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166<br />

Finito di stampare<br />

nel mese di dicembre 2009<br />

nella tipografia<br />

Grafica del Parteolla<br />

Dolianova (CA)<br />

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168<br />

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