INSULA - Biblioteca Algueresa
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<strong>INSULA</strong><br />
Quaderno di cultura sarda<br />
Num. 6, dicembre 2009<br />
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Arxiu de Tradicions<br />
<strong>INSULA</strong><br />
Quaderno di cultura sarda<br />
Num. 6, dicembre 2009<br />
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<strong>INSULA</strong>, Quaderno di cultura sarda. Num. 6, dicembre 2009<br />
Insula@cat è un Centro di Ricerca afferente all’Arxiu de Tradicions de l’Alguer<br />
Direttore editoriale e curatore: Joan Armangué i Herrero<br />
Comitato redazionale: Simona Pau, Luca Scala, Walter Tomasi<br />
Hanno collaborato a questo numero: Joan Armangué, della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere<br />
dell’Università degli Studi di Cagliari; Teresa Cabré, dell’Universitat Autònoma de<br />
Barcelona – Spagna; Marcello A. Farinelli e Maria del Mar Vanrell, dell’Universitat Pompeu<br />
Fabra – Barcellona, Spagna; Simona Ledda, collaboratrice esterna del CNR – Roma; Pilar Prieto,<br />
ICREA e Universitat Pompeu Fabra – Barcellona, Spagna; Roberto Rattu, dell’Arxiu de<br />
Tradicions; Aldo Sari, dell’Università degli Studi di Sassari; e Antonio Trudu, della Facoltà di<br />
Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Cagliari.<br />
In copertina<br />
Scultura di Gigi Porceddu<br />
Foto di Mauro Porceddu<br />
Prima edizione: Cagliari, dicembre 2009<br />
ISBN: 978-88-96778-07-4<br />
© Grafica del Parteolla<br />
Via dei Pisani, 5 (I-09041-Dolianova)<br />
Tel. 0039 070 741234<br />
grafpart@tiscali.it<br />
© Arxiu de Tradicions<br />
Reg. impresa: 221.861<br />
Via Carbonazzi, 17 (I-09123-Cagliari)<br />
Tel. 0039 070 6848000<br />
arxiudetradicions.alguer@gmail.com<br />
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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />
Simona Ledda<br />
Collaboratrice esterna del CNR – Roma<br />
Fig. 1. Demetra seduta con spiga<br />
e Persefone con fiaccola.<br />
5<br />
A Lorenzo<br />
La Sardegna negli anni che vanno dal IV al II sec. a.C. (periodo caratterizzato<br />
dalla presenza della cultura e tradizione punica) 1 è in gran parte segnato dalla<br />
presenza di piccole aree sacre, distribuite nell’entroterra dei centri maggiori in<br />
misura tale da divenire proprie della morfologia del territorio. 2 Tali aree sacre<br />
1 Sebbene la Sardegna fosse conosciuta ai Greci probabilmente sin da sempre – cioè dai tempi<br />
preellenici –, noi siamo nella fortunata situazione di conoscere in quale epoca ben delimitata su<br />
di essa si appuntavano anche precisi interessi ellenici. La conquista cartaginese dell’isola, cui<br />
aveva aperto la strada la battaglia navale di Alalia del 540 a.C. circa, rese vano ogni intresse<br />
greco per l’isola.<br />
2 F. BARRECA, La civiltà fenicio-punica in Sardegna, Sassari, 1986.<br />
<strong>INSULA</strong>, num. 6 (dicembre 2009) 5-24<br />
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Simona Ledda<br />
furono dedicate alla divinità agraria e delle messi, Demetra, il cui nome (Dêmêtêr)<br />
significa, per un verso, ‘madre terra’ e, per altro verso, può farsi risalire al termine<br />
cretese per indicare i cereali – cui comunque essa si collega in quanto dea<br />
della fertilità. Inoltre, essa appartiene, nella sua qualità di figlia di Crono e Rea,<br />
al primordiale complesso olimpico (sebbene, come Dioniso, sia stata trascurata<br />
dalla poesia omerica e dall’epica) e risulta venerata in tutto il mondo greco ed<br />
ellenistico. Secondo alcuni, 3 infine, la sua figura sarebbe da ricondurre alla<br />
potnia, 4 signora universale, padrona della vita e della morte, dea unificante della<br />
natura, al vertice del pantheon miceneo.<br />
Il suo culto venne introdotto a Cartagine, secondo Diodoro, 5 dopo il sacco<br />
di Siracusa e la distruzione del santuario di Demetra (e Kore), nel 396 a.C., da<br />
parte di Imilcone. 6 Secondo la leggenda, la dea, adirata per le stragi operate in<br />
Sicilia dalle armate puniche, ed in particolare per la distruzione del suo tempio<br />
a Siracusa, inviò un’epidemia che ne decimò l’esercito. Successivamente i<br />
Cartaginesi, per placare l’ira divina, decisero di assimilare completamente<br />
Demetra nel loro pantheon divino costruendo, sia a Cartagine che nelle sue<br />
colonie (di conseguenza anche in Sardegna), templi a lei dedicati e organizzandone<br />
il culto e i rituali, officiati con sacerdoti greci residenti in loco.<br />
Il nuovo culto in terra nord-africana sarebbe documentato da alcune epigrafi<br />
in cui si attestano il sacerdozio relativo a Kore ed una dedica a Demetra e Kore. 7<br />
Il nome di Kore è stato individuato nella grafia KRW’ in un’iscrizione funeraria<br />
di Cartagine – dove la defunta ha il titolo di KHNT SKRW’, «sacerdotessa di<br />
Kore (?)» (CIS I 5987, 1).<br />
Particolarmente significativa è inoltre l’iscrizione KAI 83 (= CIS I 177),<br />
una dedica in cui le due dee sono indicate con gli epiteti, rispettivamente, di<br />
Madre (‘m’) e di b’lt hhdrt, che si traduce come ‘Signora degli Inferi o Signora<br />
del mégaron’, in riferimento alla cavità sotterranea utilizzata nel culto delle due<br />
dee. Il termine ‘LT (elat), è stato quasi unanimemente interpretato come il nome<br />
comune che significa ‘dea’.<br />
3 B. C. DIETRICH, The origins of Greek religion, Berlin, 1973, pp. 128 ss. Sulla questione sinteticamente<br />
I. Chirassi Colombo, La religione greca, Laterza, Roma-Bari, 1942, pp. 9 ss.<br />
4 Il termine potnia contiene un’idea di potenza (cf. lat. potis ‘potente’): appellativo della Grande<br />
Madre mediterranea, signora del mondo.<br />
5 Diod. Sic. XIV, 77, 4-5.<br />
6 P. XELLA, Sull’introduzione del culto di Demetra e Kore a Cartagine, «SMSR», 40, 1969, pp.<br />
215-228.<br />
7 Iscrizioni CIS I 5987 da Cartagine; KAI 70 da Avignone. La prima riga dell’iscrizione recita:<br />
«qbr hnb’l hkhnt s Krw’».<br />
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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />
Il pur scarno materiale epigrafico non consente di affermare che il culto di<br />
Demetra e Kore avesse conservato dei caratteri chiaramente estranei alla religione<br />
punica e non si trovano tracce di questo culto né in altre iscrizioni, né<br />
nell’onomastica. Tale assenza è spiegabile alla luce del sopracitato racconto<br />
diodoreo sul carattere greco del culto tributato a Cartagine alle due divinità e<br />
sull’origine greca del loro sacerdozio. 8<br />
L’aspetto rituale di Demetra è congiunto per lo più alle antiche cerimonie agrarie<br />
in cui viene rappresento il legame con l’agricoltura e la fertilità dei campi: questo<br />
fu in realtà l’elemento fondamentale che ne favorì completamente l’assimilazione in<br />
ambito punico, anche a seguito di un verosimile incoraggiamento pubblico nei confronti<br />
di un tale culto che, con il suo carattere agrario, si addice bene alla politica di<br />
sfruttamento agricolo della Sardegna e del Nord Africa inaugurata dallo stato<br />
Cartaginese. 9 Demetra avrebbe così acquisito la natura di una «divinità benevola»,<br />
l’agricoltura, che rivela all’uomo la ricchezza e gli strumenti per ottenerla.<br />
Il culto<br />
Un analogo culto indigeno caratterizzato da cerimonie agrarie, o ciclo stagionale,<br />
esisteva probabilmente in Sardegna già in epoche precedenti alla dominazione<br />
punica. In esso le divinità agrarie e pastorali riproponevano il tema ciclico<br />
della semina-fioritura-maturazione-raccolto. Tale culto era analogamente basa-<br />
8 Nonostante questo, come già evidenziato da M. G. Amadasi Guzzo, è possibile che la dea Persefone<br />
– eventualmente chiamata in qualche caso col nome di Kore – potesse venir chiamata in<br />
terra punica con il nome di Elat, ‘dea’, e che a lei fosse dedicato il tempio di Sulci (attuale<br />
Sant’Antioco, nell’isola omonima); come si evince da una nuova rilettura dell’iscrizione bilingue<br />
latino-neopunica CIS I, 149 (= ICO Sard. Np. 5 = KAI 173), dove è nominato un «santuario»<br />
della «signora ‘LT», che indica la costruzione che ha motivato l’erezione di una statua in onore<br />
di Himilkot, figlio di Idnibal.<br />
9 Cfr. P. BARTOLONI – S. F. BONDÌ – S. MOSCATI, La penetrazione fenicio-punica in Sardegna<br />
trent’anni dopo, Roma, 1997, pp.73-92. Sulle modalità di occupazione del territorio rurale si<br />
vedano i recenti contributi: S. FINOCCHI, Considerazioni sugli aspetti produttivi di Nora e del<br />
suo territorio in epoca fenicia e punica, «RivStFen», 30, 2002, pp. 147-186; M. BOTTO – S.<br />
MELIS – S. FINOCCHI – M. RENDELLI, Nora: sfruttamento del territorio e organizzazione del paesaggio<br />
in età fenicia e punica, in C. GÓMEZ BELLARD (ed.), Ecohistoria del paisaje agrario,<br />
Universitat de València, 2003; A. STIGLITZ, Città e campagna nella Sardegna punica, ivi, pp.<br />
111-128; in merito anche M. MADAU, Cultura punica fra città e campagna nella provincia di<br />
Sassari, in «Atti del VII Convegno di Studi sull’Africa Romana» (Sassari, 15-17 dicembre 1989),<br />
Gallizzi, Sassari, 1990, pp. 513-518; G. TORE – A. STIGLITZ, Ricerche archeologiche nel Sinis e<br />
nell’alto Oristanese, in «Atti del IV Convegno di studio sull’Africa romana» (Sassari, 12-14<br />
dicembre 1986), Sassari, 1987, pp. 633-658.<br />
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Simona Ledda<br />
to sull’esistenza di un essere sovrumano femminile, datore di fecondità e fertilità,<br />
una sorta di Terra Madre, conosciuta come Dea Madre presso le società neolitiche<br />
sarde. A tal proposito, numerosi sono stati i ritrovamenti di statuine della<br />
Dea Madre in contesti abitati, funerari e di culto.<br />
Come già detto, secondo Diodoro Siculo (Lib. III.62), il nome stesso di<br />
Demetra è da ricollegare a quello di Dea Madre o Terra Madre. Del resto, gli<br />
elementi di nascita, vita, morte, rigenerazione e nuova nascita, legati al ciclo<br />
della natura e presenti nel culto della Dea Madre, sono rintracciabili anche nei<br />
rituali legati alla dea greco-punica Demetra, dea del grano e dell’agricoltura,<br />
costante nutrice della gioventù e della terra verde, artefice del ciclo delle stagioni,<br />
della vita e della morte.<br />
Proprio questa continuità dei culti, pur nella loro varietà di forme, costituisce<br />
un elemento distintivo e caratterizzante della Sardegna antica. Infatti, il culto<br />
della dea greco-punica rispondeva alle esigenze di gruppi che trovavano nell’economia<br />
agraria, la loro forma di sussistenza e la loro dimensione sociale<br />
all’interno dello stato territoriale cartaginese. Se, però, il culto della Dea Madre<br />
in Sardegna era strettamente connesso con i misteri legati alla vita, alla morte e<br />
alla rinascita in epoca cartaginese, nel culto greco-punico di Demetra l’aspetto<br />
religioso era soprattutto legato a quello agrario, elemento che interessava maggiormente<br />
rispetto alla dimensione misterica e salvifica. Forse perché, in un’epoca<br />
in cui le risorse agricole del territorio cartaginese diventavano di importanza<br />
vitale, si mirava probabilmente a conseguire il potente aiuto di Demetra e Kore<br />
per un’abbondanza dei raccolti. 10<br />
Risulta comunque arduo precisare nei dettagli la problematica dei rapporti<br />
tra culture e religioni incontrate in loco, senza dubbio contrassegnati da fenomeni<br />
di reciproca interazione e di sincretismo.<br />
È indubbio che il culto di Demetra 11 in Sardegna sia l’insieme dei fenomeni e<br />
delle concezioni costituite dall’incontro e dalla fusione di forme religiose differenti<br />
e affini. Tale affermazione è accreditata dalla presenza nell’isola di santuari<br />
dedicati a Demetra, edificati come continuazione di culti più antichi. Una prima<br />
ipotesi di lettura potrebbe partire dalla diversificazione dei santuari, spaziale e<br />
culturale. A questa distinzione sembra corrispondere una diversa caratterizzazione<br />
topografica dei siti: in zone pianeggianti, prossime all’abitato, oppure in aree<br />
collinari e montuose, isolate e sfavorevoli all’insediamento umano.<br />
10 P. XELLA – S. RIBICHINI, La religione fenica e punica in Italia, Libreria dello Stato, Roma, 1994.<br />
11 Il caso di Demetra, divinità adottata dai cartaginese dopo che avevano distrutto il santuario della<br />
dea presso Siracusa, è uno dei casi più illuminanti circa il fenomeno dell’ellenizzazione della<br />
religione punica; vedi S. MOSCATI, Chi furono i Fenici, Torino, 1992.<br />
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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />
Spazio sacro designato e ritualità: ove si praticava il culto<br />
Determinare dove si svolgeva il culto è solo apparentemente facile, poiché è<br />
necessario individuare una gerarchia concettuale che consenta di collocare le<br />
informazioni archeologiche all’interno di un sistema coerente dove i caratteri<br />
cultuali – dalle strutture del luogo di culto al sistema dei doni votivi – restituiscano<br />
il fenomeno religioso nella sua globalità. 12 Indubbiamente, a questo punto,<br />
bisogna porsi questa domanda: dove si svolgeva l’attività religiosa connessa<br />
al culto di Demetra in Sardegna? Che cosa è lo Spazio Sacro?<br />
Il sacro è una realtà polimorfa che, pur mutando a seconda delle culture, dei<br />
tempi e dei luoghi, presenta caratteristiche comuni presso le diverse civiltà e<br />
religioni. In generale la parola «sacro» indica un insieme di cose separato dall’ordinario<br />
perché riservato a un essere superiore: un dio o una dea. È possibile<br />
esprimere questo concetto di base in modo più generale sostenendo che uno<br />
spazio può essere considerato sacro nella misura in cui in esso si stabiliscano<br />
dei rapporti tra l’uomo e la divinità.<br />
Gli elementi attraverso i quali il sacro si manifesta sono il simbolo, il mito<br />
e il rito: 13<br />
a) il simbolo rappresenta il linguaggio del sacro, perché è la forma attraverso<br />
la quale si rende visibile;<br />
b) il mito è un racconto sacro mediante il quale l’uomo cerca di spiegare<br />
l’origine della vita e la sua presenza nel mondo;<br />
c) il rito è costituito da quell’insieme di parole e gesti del corpo che conferiscono<br />
un valore sacrale a persone (sacerdoti e indovini), oggetti (animali sacrificati<br />
o elementi naturali come l’acqua, il fuoco, il pane e il vino) e luoghi<br />
(templi, santuari, cattedrali e cappelle votive). Ciò che partecipa al rituale di<br />
consacrazione riceve dal soprannaturale forza, efficacia e durata e, soprattutto,<br />
una dimensione di realtà.<br />
L’ubicazione dello spazio sacro in relazione agli altri elementi del paesaggio,<br />
urbano ed extraurbano, è estremamente importante perché da essa si possono<br />
dedurre informazioni circa le corrispondenze del sacro all’interno della civiltà.<br />
Sull’isola insistono testimonianze di santuari urbani, extraurbani (edifici<br />
appositamente costruiti) ed extraurbani a carattere rurale (ambienti naturali<br />
riadattati). Per il culto potevano essere anche utilizzate strutture preesistenti<br />
12 I. OGGIANO, Dal terreno al divino. Archeologia del culto nella Palestina del primo Millennio,<br />
Carocci, Roma, 2005.<br />
13 R. JULIEN, L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità, Jaca Book, Milano, 2007, p. 673.<br />
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indigene ed opportunamente modificate come, ad esempio, il tempio di Demetra<br />
costruito sopra il Nuraghe Lugherras.<br />
L’esame della documentazione archeologica rivela contesti cultuali<br />
extraurbani, di piccole dimensioni. I santuari, quindi, erano presenti nei campi<br />
seminati a coltura cerealicola, obiettivo primario della politica economica<br />
cartaginese in Sardegna, e la loro posizione avrebbe assicurato il potente aiuto<br />
di Demetra e Kore per raccolti abbondanti e sicuri.<br />
Un esempio di tempio extraurbano dedicato a Demetra è quello ritrovato in<br />
località Strumpu Bagoi (III sec. a.C.), Terreseo di Narcao 14 (fig. 2), probabilmente<br />
pertinente ad un insediamento punico locale (e forse, è un’ipotesi, a quello<br />
di Paniloriga, in territorio del Comune di Santadi, unico insediamento feniciopunico<br />
al momento conosciuto nelle vicinanze).<br />
Fig. 2. Tempio di Demetra a Terreseo di Narcao.<br />
Simona Ledda<br />
Nel sito, già frequentato in epoca nuragica, il culto sembra sia stato attivato<br />
in funzione di una sorgente, quindi è presente un elemento sacro naturale, la<br />
sorgente, ed un elemento appositamente costruito, l’edificio di culto, che genererebbe<br />
un tertium genus, frutto della commistione tra lo schema del santuario<br />
extraurbano e quello del santuario extraurbano rurale.<br />
14 In questo lavoro mi preme segnalare anche lo stato di totale abbandono di questi santuari, come<br />
appunto quello di Terreseo di Narcano, in cui la folta vegetazione non ha dato la possibilità di<br />
effettuare una documentazione fotografica accettabile. Il sito attualmente non è fruibile ai visitatori<br />
e versa in uno stato di totale abbandono.<br />
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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />
Una prima osservazione del santuario di Terreseo di Narcano rivela la presenza<br />
di un elemento, la fonte d’acqua (di età nuragica e successivamente consacrata<br />
a Demetra), che, inteso quale punto di accesso agli inferi, ricollega il<br />
culto demetriaco direttamente all’episodio mitico del rapimento di Persefone. 15<br />
Anzi, secondo F. Barreca, il santuario sorse in età nuragica, come luogo di culto<br />
dell’acqua sorgiva e in esso fu venerata la dea madre della natura feconda, poi<br />
interpretata in età punica come Demetra.<br />
Altre fonti sacre in Sardegna hanno avuto lo stesso processo di continuità<br />
dei culti. Esempi ne sono i siti di Santa Cristina 16 presso Paulilatino (fig. 3), ove<br />
il pozzo sacro ripete lo schema planimetrico comune a questi edifici templari di<br />
età nuragica (atrio o vestibolo, scala discendente nella camera sotterranea, che<br />
custodisce la vena sorgiva), e Cuccuru S’Arriu 17 presso Cabras, dove il culto<br />
greco-punico di Demetra è subentrato a quello nuragico dei templi a pozzo sulle<br />
sorgenti sacre. Come afferma lo stesso Barreca «sarebbe difficilmente un caso,<br />
infatti, la coincidenza della sorgente con l’edificio su essa costruito». 18 Inoltre,<br />
è opportuno far presente che i culti relativi alle divinità salutifere effettuati presso<br />
le fonti e presso i chasmata 19 erano tipici della cultura fenicia, al punto che<br />
15 Il più importante mito legato a Demetra, che costituisce anche il cuore dei riti dei Misteri<br />
Eleusini, è la sua relazione con Persefone, sua figlia nonché incarnazione della dea stessa da<br />
giovane. Nel pantheon classico greco, Persefone ricoprì il ruolo di moglie di Ade, il dio degli<br />
Inferi. Diventò la dea del mondo sotterraneo quando, mentre stava giocando sulle sponde del<br />
Lago di Pergusa, in Sicilia, con alcune ninfe (secondo un’altra versione con Leucippe), che poi<br />
Demetra punì per non essersi opposte a ciò che accadeva trasformandole in sirene, Ade la rapì<br />
dalla terra e la portò con sé nel suo regno. La vita sulla terra si fermò e la disperata dea della terra<br />
Demetra cominciò ad andare in cerca della figlia perduta, riposandosi soltanto quando si sedette<br />
brevemente sulla pietra Agelasta. Alla fine Zeus, non potendo più permettere che la terra<br />
stesse morendo, costrinse Ade a lasciar tornare Persefone e mandò Hermes a riprenderla. Prima<br />
di lasciarla andare, Ade la spinse con un trucco a mangiare quattro semi di melagrana magici,<br />
che l’avrebbero da allora costretta a tornare nel mondo sotterraneo per quattro mesi all’anno. Da<br />
quando Demetra e Persefone furono di nuovo insieme, la terra rifiorì e le piante crebbero rigogliose,<br />
ma per quattro mesi all’anno, quando Persefone è costretta a tornare nel mondo delle<br />
ombre, la terra ridiventa spoglia e infeconda. Questi quattro mesi sono chiaramente quelli invernali,<br />
durante i quali in Grecia la maggior parte della vegetazione ingiallisce e muore. È,<br />
infatti, fin troppo chiara la relazione tra l’uscita di Kore/Persefone dal sottosuolo e i germogli di<br />
grano che in primavera escono dalla terra, e il rientro negli Inferi, che corrisponde invece con il<br />
periodo della semina in cui le sementi del grano vengono piantate sotto terra, consacrando<br />
l’inizio della stagione invernale.<br />
16 A. MORAVETTI, Il Santuario nuragico di Santa Cristina, Sassari, 2003.<br />
17 AA.VV., Cabras-Cuccuru S’Arriu, «RivStFen», 10, 1982, pp. 103-127.<br />
18 S. MOSCATI, Il tramonto di Cartagine, Torino, 1993, pp. 80-81.<br />
19 Luoghi voraginosi identificati con i bothroi o altari tondi.<br />
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12<br />
ogni tempio aveva una sua via di comunicazione con gli Inferi (questo spiegherebbe<br />
la presenza di pozzi sacri e piscine nei santuari fenici), attraverso la quale<br />
potevano essere inviate le offerte alle divinità ctonie.<br />
Fig. 3. Veduta d’insieme. Pozzo Santa Cristina di Paulilatino.<br />
Simona Ledda<br />
La credenza comune che i fiumi o le sorgenti fossero dotati di virtù curative<br />
è probabilmente data dal fatto che essi sgorgano dal sottosuolo. Per tale loro<br />
origine venivano considerati, come già accennato altrove, direttamente connessi<br />
alla dimensione caotica al di là dei confini del cosmo, sfera d’azione dei<br />
defunti e delle divinità ctonie.<br />
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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />
Il fatto che il santuario demetriaco di Terreseo di Narcao sia stato costruito<br />
sul luogo di un’antica sorgente sacra nuragica indica che la continuità del culto<br />
è duplice:<br />
– Dea Madre / Demetra, fertilità, guarigione, morte, rinascita;<br />
– Sorgente/ acqua scaturita dal sottosuolo, veicolo di virtù terapeutiche<br />
riconducibile a una dimensione extra-terrena, al di fuori delle leggi del mondo<br />
dei vivi.<br />
Da questo accenno si può dedurre che la virtù delle sorgenti, forse richiamata<br />
dalla dimensione extraurbana dei culti sardi connessi ad esse, sembra trovare riscontro<br />
e confronti anche in una più ampia tradizione semitica, per la quale è<br />
attestata l’immersione nell’acqua di fiumi o di sorgenti come mezzo di guarigione.<br />
Utilizzando le cosiddette fonti indirette, quali ad esempio la Bibbia ebraica,<br />
apprendiamo che nel secondo Libro dei Re (5, 1-14) è riportato l’episodio in cui<br />
le virtù curative delle acque del fiume Giordano vengono usate per la guarigione<br />
di Naaman, capo dell’esercito del re di Aram (da qui, nella tradizione cristiana,<br />
questo episodio simboleggia l’efficacia della fede e delle acque battesimali).<br />
Il santuario demetriaco di Terreseo di Narcao, in questo senso, appare significativo:<br />
infatti, nonostante la modestia dell’area sacra, l’architettura (e la ritualità)<br />
del luogo sembra mantenere alcuni parametri di più antica origine insulare, ma<br />
il suo aspetto complessivo si lega anche ad un apparato di manifestazioni religiose<br />
appartenenti, o ispirate, al mondo semitico. Non parliamo di<br />
differenziazione delle esperienze cultuali, ma piuttosto della convergenza di<br />
elementi di origine diversa in grado di comunicare e di interagire. Ciò che più<br />
impressiona è la persistenza dell’area sacra fino all’epoca imperiale romana.<br />
La mia personale conclusione circa la valenza magico-sacrale dell’acqua<br />
presso le genti preistoriche rientra nel più vasto e problematico mondo della più<br />
antica religiosità dell’uomo. Una delle manifestazioni più affascinanti della<br />
religiosità e dell’architettura degli antichi sardi fu senz’altro quella legata al<br />
mondo sotterraneo delle acque, in un isola dove l’approvvigionamento idrico<br />
ha sempre rappresentato un problema. L’acqua era oggetto di culto per il suo<br />
carattere ctonio di divinità sotterranea presso la quale le popolazioni nuragiche<br />
eseguivano suggestivi riti di purificazione e curavano le malattie, ma era anche<br />
connessa con il grande tema della fecondità agraria, oltre che umana e animale,<br />
della purificazione e della rigenerazione. Ed è proprio la fecondità agraria che<br />
lega il culto nuragico delle acque, e quindi della Dea Madre, al culto punicogreco<br />
della dea delle messi Demetra.<br />
Il confronto con la Sicilia è d’obbligo: a Gela, infatti, esistevano riti simili.<br />
Le acque del fiume Gelas, detto «selvaggio» da Virgilio (Eneide, 3.703) ma<br />
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14<br />
anche «puro-sacro» da Diodoro Siculo (<strong>Biblioteca</strong> Storica, 8.23.1), permettevano<br />
le cerimonie lustrali e i riti di purificazione, in cui le divinità propense<br />
a tali culti erano le due dee, madre e figlia, Demetra e Persefone/Kore. È<br />
indubbio, quindi, che nel santuario rurale di Terreseo di Narcano, ma anche<br />
negli altri tempietti dedicati al culto demetriaco in Sardegna, l’associazione<br />
di dee complementari come Demetra e Persefone/Kore, che simbolizzano<br />
da una parte la natura selvaggia, dall’altra la natura domesticata, permette il<br />
sincretismo tra divinità greche tradizionali e divinità indigene, non identificate<br />
nelle fonti scritte.<br />
La documentazione archeologica<br />
Simona Ledda<br />
In merito alle vie e ai vettori di diffusione del culto in Sardegna, anche la<br />
documentazione archeologica sembra impostarsi sulla direzione di un culto<br />
agrario e popolare.<br />
Il culto caratterizza tutto il periodo tra il IV e il II secolo a.C. ed è attestato da<br />
diverse testimonianze archeologiche. Interessante nel III sec. a.C. è la comparsa<br />
in Sardegna della moneta, 20 categoria artigianale precedentemente estranea all’isola<br />
(fig. 4). Il contesto numismatico è una testimonianza del consolidamento<br />
da parte punica del culto dedicato alle dee Demetra e Kore. Infatti, sul diritto di<br />
alcune monete ritroviamo una testa di Kore e sul rovescio un cavallino rampante.<br />
Tale simbologia, voluta dai Cartaginesi su modelli da loro stessi forniti, incontrò<br />
grande favore da parte dei Protosardi anche nelle zone montane più interne,<br />
come dimostrano i tesoretti di monete puniche rinvenuti nella Barbagia e che<br />
certo documentano o che fra i Protosardi e i Cartaginesi esistessero dei rapporti<br />
di tipo commerciale, oppure che alcuni tesoretti fossero frutto di razzie ai danni<br />
di Cartaginesi. Ma è altrettanto possibile che si tratti di denaro pagato ai<br />
Protosardi da Punici confinanti in cambio di merci acquistate regolarmente,<br />
come cera, miele, formaggi, pelli, bestiame e forse anche rame della zona mineraria<br />
di Gadoni-Funtana Raminosa.<br />
Per quanto riguarda la coroplastica, l’orientamento popolare delle produzioni<br />
fittili e la natura rurale e contadina delle aree sacre sono rimandabili alla<br />
devozione e religiosità dei diretti fruitori, ovvero le comunità contadine insulari<br />
che, in gran parte, provenivano dal Nord-Africa (troviamo ampiamente attestate<br />
20 E. ACQUARO, Sulla lettura di un tipo monetale punico, «Rivista Italiana di Numismatica e scienze<br />
affini», 1971; ID., Le Monete, in AA,VV., I Fenici, Milano, 1988, pp. 524-35.<br />
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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />
un po’ ovunque in Sardegna figurine in terracotta di Demetra: Sulcis, Nora,<br />
Tharros, Monte Sirai, Santa Margherita di Pula, Terreseu di Narcao, Sinis di<br />
Cabras, Nuraghe Lugherras e Santa Cristina di Paulilatino, Villanovaforru, ecc.) 21<br />
Fig. 4. Moneta punica con testa di Kore.<br />
In questo articolo saranno considerati alcuni esemplari coroplastici in cui si<br />
vedrà l’intervento dell’influenza greca, che giunge in Sardegna via Sicilia. Il<br />
conseguente sfruttamento agricolo e le nuove forme di religione, legate ai culti<br />
agrari, probabilmente hanno trovato nelle terrecotte la forma immediata di espressione<br />
artigianale ispirandosi all’ambiente cartaginese di provenienza e a quello<br />
siceliota di origine. Gran parte della produzione fittile sarda e nord-africana<br />
sembra concordare con la notizia diodorea relativa all’episodio del 396 a.C. di<br />
cui ho già parlato: la fioritura delle terrecotte andrebbe quindi a legarsi a una<br />
riforma o a un’innovazione religiosa.<br />
Gli esempi più significativi dell’affermata influenza ellenica nell’isola provengono<br />
dalle terrecotte di Tharros (fig. 5) e dai thymiateria 22 (bruciaprofumi o<br />
incenso, fig. 6) del nuraghe Lugherras.<br />
I primi thymiateria noti nel mondo antico si datano nella prima metà del VII<br />
sec. a.C., mentre i primi esemplari raffigurati compaiono attorno alla metà del<br />
VI a.C. Numerosi sono gli ambiti in cui i Greci li introdussero, da quello strettamente<br />
sacrale a quello privato (l’incensamento avveniva principalmente nei simposi<br />
e nei banchetti).<br />
21 F. BARRECA, La civiltà fenicio-punica in Sardegna cit.<br />
22 L’importanza degli incensieri nel culto Eleusino è resa evidente dalla Lex Eleusinia del 138 d.C.<br />
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I thymiateria sono stati trovati in notevole quantità nel santuario tardo-punico<br />
del Nuraghe Lugherras, vasto complesso archeologico che sorge nel territorio<br />
di Paulilatino.<br />
Fig. 5. Statuetta femminile con peplo<br />
e kalathos, da Tharros. Terracotta.<br />
Cagliari, Museo Nazionale (foto tratta da<br />
S. MOSCATI, Fenici e Cartaginesi in Sardegna).<br />
Simona Ledda<br />
Fig. 6. Bruciaprofumo in terracotta<br />
del santuario tardo-punico sovrapposto<br />
al Nuraghe Lugherras (foto tratta da<br />
S. MOSCATI, Fenici e Cartaginesi in Sardegna).<br />
Punto di avvio fondamentale nello studio del tale sito, considerate le caratteristiche<br />
della documentazione in possesso, ritengo debba essere una ricostruzione<br />
della storia degli scavi seppur sintetica e dei più importanti risultati da<br />
essi conseguiti.<br />
La paternità relativa alle prime indagini ufficiali archeologiche del nuraghe 23<br />
va ad Antonio Taramelli, che iniziò lo studio sistematico dell’edificio nel 1906,<br />
epoca in cui la metodologia archeologica non si avvaleva dei criteri stratigrafici.<br />
Purtroppo, la mancanza di precise e dettagliate notizie sulle condizioni del ri-<br />
23 A. TARAMELLI, Scavi e scoperte, 1903-1910, Carlo Delifino Editore, Sassari, 1982, pp. 485-525.<br />
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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />
trovamento di parecchi oggetti fittili e metallici presenti nel nuraghe, tra i quali<br />
i predetti thymiateria, ha creato sicuramente difficoltà agli studiosi ai fini del<br />
conseguimento di puntuali e validi risultati.<br />
In tale sito si svolse per lunghi secoli la vita associata, politica e religiosa di<br />
una comunità nuragica fino a quando, con la conquista cartaginese dell’isola<br />
risalente alla metà del VI secolo a.C. 24 e la successiva penetrazione all’interno<br />
avviata a partire dalla fine del VI e inizi del V sec. a.C., si determinò probabilmente<br />
la dispersione degli abitanti primitivi della zona del nuraghe Lugherras<br />
ed il suo conseguente abbandono. Ciò nonostante, sia i Punici che, in seguito, i<br />
Romani, conservarono il carattere sacro 25 del luogo e il legame con il culto di<br />
divinità agresti, scelta questa probabilmente connessa alla consapevolezza dell’importanza<br />
del ruolo agricolo che la Sardegna ebbe per entrambe le potenze<br />
dominatrici.<br />
Il complesso fu quindi trasformato in un santuario rupestre a cielo aperto,<br />
dove il sacello era costituito dal piano superiore dell’edificio principale proprio<br />
come già avvenuto in epoca anteriore; un caso, questo, di riutilizzo in età punica<br />
e poi romana di strutture architettoniche religiose preesistenti, secondo una prassi<br />
già nota in Sardegna. Va osservato che la conquista romana della Sardegna (238<br />
a.C.) non esclude una continuità di frequentazione punica del luogo sacro almeno<br />
fino alla fine del III sec. a.C. Infatti, nel nuraghe Lugherras furono rinvenute<br />
monete sardo-puniche coniate a partire dalla metà del III a.C., associate a monete<br />
romane repubblicane dello stesso periodo, oltre alla notevole quantità di<br />
bruciaprofumi o thymiateria a testa femminile, originariamente usati per bruciare<br />
aromi durante le celebrazioni rituali. Questi ultimi sono riconoscibili dalla<br />
presenza di kernophoroi, cioè un oggetto fittile che raffigura un vaso sacro portato<br />
sopra la testa da un personaggio (fig. 4).<br />
Il significato cultuale della statuetta recante sulla testa un vaso sacro si comprende<br />
allorché si considerano le processioni in cui le donne, nel mondo greco,<br />
portavano in testa un recipiente di terracotta, detto kernos, contenente primizie<br />
più qualche cosa che ardeva, come chicchi d’incenso, in onore di Demetra e<br />
Persefone. Un rito simile doveva svolgersi a Cartagine (e quindi anche nelle<br />
colonie di Sardegna) e questi vasi, offerti come doni votivi individuali, rappresenterebbero<br />
proprio le donne portanti il kernos.<br />
24 S. MOSCATI, I Cartaginese in Italia, Milano, 1977, pp. 134-36.<br />
25 Già Taramelli, che indagò il nuraghe, si rese conto che le pietre di una zona dell’edifico, erano<br />
ben lavorate e messe in opera con particolare cura. Il che aveva indotto il Taramelli a supporre<br />
che questo ambiente avesse una valenza importante così da essere utilizzato, già in epoca nuragica,<br />
come sacrario, forse dedicato ad una divinità della Terra.<br />
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Simona Ledda<br />
I thymiateria del santuario di Lugherras sono tutti eseguiti a stampo: ogni<br />
singolo pezzo veniva ricavato da un modello originario, l’archetipo composto<br />
da due sezioni: una in negativo per il lato anteriore con volto femminile, l’altra<br />
per il retro, per la convessità della testa. Il ritrovamento di matrici nella zona<br />
rende verosimile l’ipotesi di una produzione locale, ma di livello modesto, 26 il<br />
che probabilmente si ricollega sia al carattere locale dell’artigianato, sia alle<br />
modeste esigenze dell’ambiente di committenza, più attento alla funzione votiva<br />
dell’oggetto che alla sua fisionomia artistica.<br />
Dei 731 manufatti restituiti dal nuraghe Lugherras, poco più di una decina<br />
presentano tracce di combustione e i forellini di areazione, fondamentali per la<br />
funzione dell’oggetto, non sono presenti su tutti i reperti. Nel corso del tempo, il<br />
rituale di ardere aromi può essersi progressivamente attenuato fino a scomparire<br />
nella fase tarda di utilizzo del tempietto. Quindi, come dimostra la classificazione<br />
tipologica operata da P. Regoli, risulta evidente che in Sardegna il modello<br />
cartaginese viene interamente modificato e interpretato secondo esigenze locali, a<br />
testimonianza di una capacità innovativa e autonoma delle botteghe sarde.<br />
Quanto al significato religioso dei thymiateria di Lugherras ovviamente è<br />
da collegare al culto demetriaco e, del resto, lo stesso sacello punico di Lugherras<br />
sorge sui resti di un antico nuraghe già dedicato al culto di divinità agresti come<br />
per il tempio di Terreseo di Narcao. Tale culto, su questo sfondo socio-economico,<br />
verrebbe ad inserirsi in modo calzante.<br />
Infine, è opportuno un accenno ad un’ulteriore documentazione archeologica<br />
che ci viene dalla morfologia dei rituali che caratterizzano tutti i luoghi di culto<br />
dedicati a Demetra in Sardegna. Un indizio interessante ci viene dal tempio di<br />
Terreseo di Narcao dove, frontalmente al tempio, erano allineati cinque grossi<br />
altari (fig. 7) di dimensioni uguali, più un sesto, più piccolo, presso i quali furono<br />
ritrovati abbondanti quantità di cenere, piccoli frammenti ossei e denti di<br />
animale compatibili con i sacrifici animali tipici dei riti dell’epoca. All’interno<br />
di un vano (fig. 8) è stato rilevato, sotto le macerie del crollo del tetto, un altare<br />
di pietre circondato da ex voto fittili e coperto da ceneri e ossa combuste di<br />
suini (fig. 9).<br />
Nello stesso vano, al di sotto dell’altare, era custodito un deposito contenuto<br />
in una sorta di cassetta quadrangolare e costituito da una statuetta femminile<br />
stante, circondata da urnette con resti di sacrificio, bruciaprofumi e una lucerna.<br />
La disposizione dei materiali sembra ricordare situazioni analoghe ritrovate<br />
in Sicilia, nella fattispecie quelle di Bitalemi (Gela) e di S’Anna di Agrigento. I<br />
26 Si veda P. REGOLI, I bruciaprofumi a testa femminile dal Nuraghe Lugherras, Roma, 1991.<br />
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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />
Fig. 7. Terreseo di Narcao, tempio di Demetra. In primo piano i cinque altari.<br />
Fig. 8. Il vano in cui è stato rinvenuto il deposito sacro.<br />
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Simona Ledda<br />
due luoghi di culto, oltre ad essere accomunati dalla posizione di isolamento<br />
rispetto alla città, si trovano vicino a foci di fiumi ed hanno restituito attestazioni<br />
di sacrifici di porcellini e della sepoltura dei pasti rituali.<br />
La particolare dislocazione degli ex voto e dei resti di suini di Narcano<br />
potrebbe dipendere dall’espressione del carattere ctonio. 27<br />
L’offerta di sacrifici ed ex voto erano poste in piccoli ambienti nascosti alla<br />
vista, secondo modalità affini a quelle siceliote (a Sant’Anna gli oggetti erano<br />
raccolti dentro cerchi di pietra, mentre a Bitalemi erano collocati direttamente<br />
nella sabbia a diverse profondità e fermati con frammenti di ceramica).<br />
Ma ciò che caratterizza specificatamente il culto di Demetra è il sacrificio di<br />
maiali. Il maiale nel mondo semitico è notoriamente un tabù alimentare, ma tale<br />
impurità non implica che esso non potesse essere considerato una vittima ido-<br />
Fig. 9. Altare di pietre circondato da ex voto fittili e coperto da ceneri e ossa combuste.<br />
27 G. GARBATI, Sul culto di Demetra nella Sardegna punica, in Mutuare, interpretare, tradurre:<br />
storie e culture a confronto, Roma, 2003, pp. 127-143.<br />
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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />
nea per sacrifici. In Mesopotamia, ad esempio, i maiali venivano offerti al dio<br />
Nergal; sacrifici di maiali sono documentanti anche in Palestina, a Tell el-Farah,<br />
presso Nablus; l’Antico Testamento, in Is 65,4 e 66,3.17, menziona il sacrifico<br />
dei maiali come offerta alle divinità infere (e quindi non pura).<br />
Sembra utile aggiungere, a proposito dei sacrifici, alcune considerazioni sul<br />
significato della figura femminile fittile, ex voto che viene solitamente rappresentata<br />
con fiaccola e porcellino (fig. 8). Entrambi gli attributi rimandano al<br />
culto di Demetra e Persefone/Kore. Le figurine sono stanti, in posizione frontale;<br />
indossano il chitone e il capo viene solitamente ricoperto dal polos; 28 il viso<br />
si presenta solitamente ben modellato e i capelli bipartiti.<br />
Fig. 10. Statuetta femminile con fiaccola<br />
e porcellino.<br />
28 Al tal proposito si noti che il polos non sempre è stato considerato elemento probante per un’identificazione<br />
delle figure con divinità, sia perché il copricapo non sempre ricorre su esemplari di<br />
statuette con porcellino, sia perché esso poteva essere relativo anche ad altre figure, come eroi,<br />
sacerdoti, devoti.<br />
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22<br />
Simona Ledda<br />
Il porcellino in particolare rappresenta l’offerta più ricorrente nei riti<br />
eleusini, durante i quali le donne, in Grecia, usavano gettare porcellini vivi<br />
nei megara e compiere sacrifici. Clemente Alessandrino 29 illustra l’eziologia<br />
del rito facendo riferimento ad un preciso episodio del mito, allorché Persefone/Kore,<br />
rapita da Ade, sprofonda nel suolo insieme con le scrofe del pastore<br />
Eubuleo. L’importanza che l’offerta del porcellino rivestiva nelle cerimonie<br />
sacre è documentata altresì dal frequente ritrovamento nei luoghi di culto connessi<br />
a Demetra e Kore, di statuine recanti il porcellino, di rilievi che raffigurano<br />
l’animale portato al sacrificio oppure, ancora, di riproduzioni fittili di<br />
piccoli porcellini; più in particolare, per quanto concerne il santuario di<br />
Terreseo di Narcao, l’attestazione dell’esistenza dei riti sacrificali è documentata<br />
dal ritrovamento in loco di resti ossei di suini.<br />
Un valore simbolico altrettanto significativo per l’identificazione delle<br />
nostre statuette riveste l’attributo della fiaccola strettamente connessa, dal<br />
punto di vista iconografico, con le raffigurazioni demetriache. Si pensa che<br />
la fiaccola fosse elemento pertinente alla figura di Demetra, poiché la dea,<br />
secondo il mito, errava recando con sé torce accese durante la disperata<br />
ricerca di Persefone rapita. 30 Altrettanto documentata è l’importanza che la<br />
fiaccola rivestiva nelle cerimonie eleusine quale strumento di culto tenuto<br />
da sacerdoti, in particolar modo dal daduco e dai fedeli durante le processioni<br />
e riti notturni.<br />
La discussione in merito all’identificazione delle figure con fiaccola e porcellino<br />
è ancora aperta. Studi recenti propendono per l’ipotesi che si tratti di<br />
raffigurazioni di offerenti, considerando la fiaccola e il porcellino non esclusivi<br />
della divinità. Altri studiosi, invece, ritengono che le statuette rappresentino<br />
l’immagine stessa della divinità e considerano elementi indiscutibili di appartenenza<br />
la foggia dell’abbigliamento e la presenza degli attributi, soprattutto la<br />
fiaccola associata a Persefone. In realtà tali attributi, nell’ambito delle<br />
raffigurazioni demetriache, appaiono elementi connessi tanto con le due dee<br />
quanto con le sacerdotesse e le fedeli che assumevano spesso le connotazioni<br />
delle divinità. Gli attributi della fiaccola e del porcellino rappresenterebbero<br />
dunque elementi funzionali per il culto dove la fiaccola è tenuta accesa durante<br />
le processioni, mentre il porcellino è portato al sacrificio.<br />
29 Tito Flavio Clemente, meglio conosciuto come Clemente Alessandrino (150 ca.) è stato un<br />
teologo, filosofo, apologeta e scrittore cristiano greco antico del ii secolo d.C.<br />
30 Tale è la versione dell’Inno Omerico a Demetra, dove è descritto l’incontro della dea con Hekate,<br />
anch’essa portatrice di torce.<br />
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DEMETRA: RAGIONI E LUOGHI DI CULTO IN SARDEGNA<br />
Infine, si propone una sintetica analisi circa il significato cultuale dei<br />
thymiateria, che da sempre hanno suscitato l’attenzione degli studiosi e che<br />
appartenevano principalmente all’apparato cultuale inerente il sacrificio. 31 Una<br />
volta compresi nell’apparato del tempio, essi acquisivano una valenza di sacra<br />
inviolabilità, tanto che il solo spostarli era considerato un atto sacrilego e l’offerta<br />
di incenso faceva parte integrante dei riti svolti in onore della divinità.<br />
Diversi interrogativi sono sorti, innanzi tutto, riguardo la morfologia stessa<br />
dei manufatti, figure femminili rese fino all’altezza del busto, e in secondo luogo<br />
riguardo all’analisi dei contesti di ritrovamento di tali tipologie di terrecotte,<br />
rinvenute non solo in aree sacre, ma anche in necropoli (Sulci-Sant’Antioco) e<br />
quartieri abitativi punici (Villanovaforru, Monte Sirai, Cabras, Pani Loriga di<br />
Santadi). Per i reperti rinvenuti in contesti funerari sembra evidente che l’aspetto<br />
ctonio della divinità alla quale erano collegati fosse privilegiato rispetto a<br />
quello agrario. Per quel che concerne, invece, i ritrovamenti in aree di abitazione<br />
è verosimile ritenere che gli esemplari fossero destinati ad un uso personale<br />
dei fedeli per un culto domestico.<br />
In generale è da dire che una cura particolare riceveva sul manufatto la<br />
lavorazione della testa rispetto al resto, come a voler riferire ad essa la valenza<br />
simbolica primaria dell’oggetto. La testa, rigidamente frontale, presenta caratteri<br />
di ieraticità, trasmessi attraverso l’espressione serena ma, nel contempo,<br />
austera del volto ed evidenziati dall’acconciatura accurata e dagli ornamenti,<br />
quando presenti, che abbelliscono i capelli, le orecchie, il collo. Tale raffigurazione<br />
contrasta con la semplicità del busto, forse perché destinato ad essere<br />
sospeso o, più frequentemente, poggiato contro una parete o su un ripiano. La<br />
natura ctonia delle due dee, il loro legame con la terra, intesa come grembo<br />
materno, espressione di nascita, luce e fertilità, e con il regno ultraterreno, simbolo<br />
di oscurità e di morte, spiegherebbe la doppia destinazione, funeraria e<br />
sacrale, ma pur sempre votiva, dei busti.<br />
In conclusione, si riportano le parole di un illustre studioso, Antonio Taramelli,<br />
sulla scoperta del santuario demetriaco del nuraghe Lugherras:<br />
Le rovine del sacello di Astarte-Venere si accumularono sulle rovine del vetusto<br />
castello nuragico e sulle morte sedi, trasformate in una collina pietrosa, si stese il<br />
manto delle nere elci che a poco a poco inselvatichirono il luogo. La natura riprese i<br />
suoi diritti sul’opera dell’uomo, ma ancora oggi la fonte mormorante che sgorga<br />
accanto al nuraghe e si sparge in polle di acqua richiama le greggi pascenti<br />
31 Nei sacrifici, forse, avevano anche la funzione di lenire il forte odore sprigionato dalle carni<br />
bruciate con il profumo dell’incenso.<br />
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Simona Ledda<br />
sull’altopiano, ancora oggi nelle primavere fresche, le colombe silvestri fanno echeggiare<br />
il loro lungo mestissimo canto per la selva profumata e salubre e richiama a<br />
sorridente immagine della dea che ebbe sacre le colombe ed i frutti dei campi ed a cui<br />
nel povero sacello campestre si recarono per lunghe generazioni voti e si arsero incensi<br />
e si levarono preghiere invocanti messi abbondanti, fecondi gli armenti, tranquilla<br />
e prospera la vita. (Antonio TARAMELLI, Il Nuraghe Lugherras).<br />
Nella preparazione e nello svolgimento dell’articolo ho potuto usufruire dell’appoggio<br />
essenziale di amici e parenti. Il mio più vivo ringraziamento va anzitutto<br />
al prof. Joan Armangué i Herrero, che ha patrocinato e favorito la mia<br />
iniziativa; un sentito ringraziamento all’avvocato Paolo Aureli per i consigli e il<br />
prezioso sostegno morale.<br />
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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />
E IL POLITTICO DELL’ANNUNCIAZIONE DI JOAN MATES<br />
Aldo Sari<br />
Università di Sassari<br />
Sono note le vicende che portarono alla conquista catalana della Sardegna. Il 13<br />
giugno 1323 segna l’inizio del nuovo corso storico dell’Isola, preparato nell’ultimo<br />
decennio del XIII secolo dalla sua infeudazione a Giacomo II d’Aragona. 1<br />
Quel giorno di tarda primavera, infatti, le truppe catalane sbarcavano nel porto<br />
di Palma di Sulcis (in territorio di San Giovanni Suergiu) e il 28 successivo<br />
ponevano l’assedio a Villa di Chiesa (Iglesias). 2 Quasi un anno dopo, il 19 giugno<br />
del 1324, Cagliari pisana era costretta a firmare un trattato di pace con il re<br />
aragonese. 3 Il 9 giugno 1326 i Catalani prendevano definitivo possesso del Castello<br />
di Cagliari. 4<br />
Nel primo quarto del Trecento, grazie alla presenza di Pisa, Genova e della<br />
Chiesa, la Sardegna era pienamente inserita nel clima di rinnovamento economico-culturale<br />
che, come nel resto della Penisola italiana e dell’Europa, appariva<br />
il preludio dell’età moderna.<br />
Alla presa di possesso del Castello da parte catalana la vitalità della cultura<br />
artistica isolana era testimoniata a Cagliari, oltre che dall’architettura militare<br />
(il cui ardimento costruttivo e la perizia tecnica suscitarono l’ammirazione dei<br />
nuovi invasori, che ancora nel XVI secolo, durante i lavori di ampliamento e<br />
rifacimento delle mura, preferirono conservare le belle torri del Capula), da<br />
alcuni edifici religiosi sorti nel corso del XIII secolo: il S. Francesco, edificato<br />
dai minoriti nel quartiere di Stampace, e la fabbrica del Duomo che, costruito in<br />
forme romaniche nel primo Duecento, era ampliato, tra lo scorcio del XIII e il<br />
primo quarto del XIV secolo, secondo stilemi ormai gotici.<br />
La chiesa francescana, fondata nel 1274 (di essa, rovinata nel 1875 e incorporata<br />
in edifici posteriori, non sono visibili oggi che alcuni frammenti della<br />
1 F. C. CASULA, La Sardegna aragonese, 1: La Corona d’Aragona, Sassari, 1990, p. 61 ss.<br />
2 Ivi, p. 14 ss.<br />
3 Ivi, p. 174 ss.<br />
4 R. CONDE Y DELGADO DE MOLINA, La Sardegna aragonese, in Storia dei Sardi e della Sardegna,<br />
2. Il Medioevo, dai giudicati agli aragonesi, a cura di M. Guidetti, Milano 1987, p. 262; F. C.<br />
CASULA, La Sardegna aragonese cit., p. 206 ss.<br />
25<br />
<strong>INSULA</strong>, num. 6 (dicembre 2009) 25-52<br />
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26<br />
Aldo Sari<br />
tribuna e un portale laterale che, recuperato dalle macerie fu, sempre a Cagliari,<br />
ricomposto nel prospetto del Santuario di Bonaria), era, secondo una<br />
tipologia di origine cistercense fatta propria dai francescani, a croce commissa,<br />
con navata unica conclusa da transetto, su cui si aprivano il presbiterio quadrato<br />
fiancheggiato da due cappelle. I tre ambienti, a differenza dell’aula e del<br />
transetto coperti in legname, erano voltati a crociera costolonata. Come si<br />
intuisce dalla struttura rimasta, le costolature erano impostate su colonnine<br />
pensili angolari, che nella tribuna sorgevano da peducci raffiguranti il<br />
tetramorfo. L’edificio – che si poneva fra il tipo con transetto pronunciato su<br />
cui si aprono numerose cappelle, attestato nei S. Francesco di Pistoia, Pisa e<br />
Siena, e quello senza transetto con tre cappelle al termine dell’aula, riscontrabile<br />
nelle chiese sempre francescane di Lucca, Cortona e Prato e in quelle<br />
domenicane di Cortona e Arezzo – anticipava una disposizione di pianta e di<br />
alzato diffusa in toscana nel XIV secolo. 5 I suoi resti, ormai soprattutto scultorii,<br />
consentono di riconoscere l’educazione culturale, se non la provenienza delle<br />
maestranze. Di gusto toscano sono la dicromia, la modulazione chiaroscurale<br />
e il motivo delle mensole a foglie d’acanto tra caulicoli bifidi del portale secondario<br />
oggi a Bonaria. 6 L’ornato ancora romanico di queste ultime sembrerebbe<br />
confermare che l’edificazione della chiesa avvenisse subito dopo l’acquisto<br />
del terreno, fra l’ottavo e il nono decennio del Duecento. Lungo<br />
l’archivolto sottili nervature segnano la superficie dei tori con effetto di spigoli<br />
secondo uno schema di origine francese che si diffuse dall’Anjou, attraverso<br />
la Borgogna, in tutta Europa dopo il sesto decennio del XIII secolo.<br />
Gli stessi maestri del cantiere di S. Francesco di Stampace erano intervenuti<br />
nelle opere di ampliamento della cattedrale di S. Maria di Castello, come provano<br />
la contiguità di alcune forme del braccio settentrionale del transetto con<br />
quelle del portale della chiesa francescana, attualmente collocato nella facciata<br />
del Santuario di Bonaria, ma, soprattutto, l’affinità della cappella nord della<br />
tribuna con quelle che si affacciavano sul transetto nel S. Francesco di Stampace.<br />
Come nella chiesa francescana, anche nella cappella del Duomo, di pianta quadrata<br />
e voltata a crociera costolonata, con identità di partito e d’ornato, le costole<br />
sono impostate agli angoli su capitelli di colonne pensili sostenute da peducci<br />
scolpiti con i simboli degli evangelisti. 7<br />
5 R. DELOGU, L’architettura del Medioevo in Sardegna, Roma 1953, p. 213.<br />
6 Ivi, pp. 213-214.<br />
7 Ivi, pp. 219-221.<br />
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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />
Durante l’assedio di Cagliari i Catalani s’erano accampati a poca distanza<br />
dalla città, sulla collina di Bonaria, nella costa orientale, dove rapidamente avevano<br />
eretto un centro fortificato in grado di controllare il porto e le immediate<br />
vicinanze. 8 Il Castell de Bonaire, di cui i documenti tramandano le due porte di<br />
accesso, una detta dell’Ammiraglio e l’altra di Quart, 9 aveva all’interno delle<br />
mura anche una chiesa, dedicata alla SS. Trinità, incominciata nel 1324. Al suo<br />
disegno finale, così come al progetto dell’altra intitolata a S. Vittoria dei Catalani,<br />
nell’appendice di Lapola, contribuiva probabilmente quel Guillem «magister<br />
operis ecclesiae Tarracone», architetto della cattedrale di Tarragona, che nel<br />
giugno del 1326 chiedeva di potersi trasferire a Bonaria. 10<br />
La chiesa – chiamata dal 1330 ecclesia Santae Mariae de Bonayre – non fu il<br />
solo edificio religioso che i Catalani edificarono in Sardegna in quegli anni – le<br />
fonti ricordano la cappella di Sant’Eulalia nel castello di Salvaterra, a guardia<br />
della porta orientale d’Iglesias, e l’edicola commemorativa di Lucocisterna –, ma<br />
è la sola che si sia conservata nel suo impianto originario, agevolmente identificabile<br />
sotto le manomissioni successive. Esemplata sulla barcellonese chiesa palatina di<br />
S. Àgata, costruita qualche decennio prima da Bertran Riquer, aveva pianta ad<br />
aula conclusa da abside poligonale e copertura lignea su archi diaframma.<br />
Al momento della conquista della Sardegna, l’architettura gotica catalana si<br />
distingueva già per i suoi caratteri costitutivi: il predominio dell’orizzontalità delle<br />
strutture sulla verticalità, in opposizione a quello che era l’elemento precipuo<br />
della contemporanea architettura nordeuropea; la sobrietà ornamentale e, soprattutto,<br />
la concezione unitaria dello spazio interno, suo dato saliente e qualificatore.<br />
Un apporto fondamentale all’elaborazione dello spazio ampio e ininterrotto<br />
le era venuto dagli ordini mendicanti. I domenicani e soprattutto i francescani,<br />
come era accaduto in Italia, avevano conformato anche in Catalogna fin dall’origine<br />
i loro edifici a quelli cistercensi, consentanei nella loro severa bellezza<br />
agli ideali di povertà e semplicità che essi praticavano. Poiché le loro costituzioni<br />
indicavano per le chiese dell’Ordine strutture semplici e funzionali, vie-<br />
8 Cfr. Crònica de Ramon Muntaner, in Les quatres grans cròniques, a cura di Ferran Soldevila,<br />
Barcellona 1971, p. 915 ss.<br />
9 F. SEGNI PULVIRENTI, L’architettura religiosa gotico-catalana: i primi esempi, in F. SEGNI<br />
PULVIRENTI – A. SARI, Architettura tardogotica e d’influsso rinascimentale, Nuoro 1994, p. 14.<br />
10 S. CAPDEVILA, La Seu de Tarragona. Notes històriques sobre la construcció, el tresor, els artistes,<br />
els capitulars, Barcellona 1935, p. 36 e n. 7; vedi A. FRANCO MATA, Influenza catalana nella<br />
scultura monumentale del Trecento in Sardegna, in «Arte Cristiana. Rivista internazionale di<br />
Storia dell’Arte e di Arti liturgiche», Nuova Serie, LXXV, fasc. 721, luglio-agosto 1987, p. 240,<br />
n. 3; F. SEGNI PULVIRENTI, L’architettura religiosa cit. p. 15.<br />
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tando le volte in pietra, che erano consentite soltanto nel presbiterio, modellarono<br />
le loro prime chiese più che sugli edifici di culto cistercensi sulle soluzioni<br />
architettoniche che quell’Ordine aveva adottato nei dormitori e refettori dei propri<br />
monasteri, i cui spazi, ampi e unitari, avevano copertura lignea a doppio spiovente<br />
su archi diaframma trasversali a sesto acuto. E di quegli ambienti conservarono<br />
sempre, anche quando disattesero le norme delle costituzioni dell’Ordine,<br />
la visualizzazione chiara e immediata dello spazio interno.<br />
L’influsso dell’architettura cistercense su quella degli Ordini mendicanti si<br />
ravvisava nel primo impianto della chiesa di S. Francesco a Barcellona, fondata<br />
nel 1229 e scomparsa nel secolo XIX, a navata unica con cappelle laterali e<br />
abside quadrangolare, che presentava copertura in legname su archi diaframma<br />
a sesto acuto, secondo lo schema dei dormitori cistercensi.<br />
Al primitivo S. Francesco di Barcellona si attenevano le chiese minorite di<br />
S. Francesco di Montblanc, il cui convento era fondato prima del 1238, e di<br />
Palma di Maiorca, iniziata dopo il 1279, quando il convento era ceduto alle<br />
suore di S. Margherita. Ad aula coperta con soffitto in legname su archi diaframma<br />
a sesto acuto e cappelle laterali tra i contrafforti, quest’ultima aveva<br />
però abside poligonale con volta a nervature. 11 Questo schema diveniva peculiare<br />
dell’architettura catalana durante il XIII e il XIV secolo, ma già intorno alla<br />
metà del Duecento l’inosservanza delle costituzioni aveva portato ad un tipo di<br />
chiesa che si sviluppò parallelo al precedente e che adottò la volta a crociera,<br />
configurandosi ormai come pienamente gotico.<br />
I domenicani nel 1219 avevano aperto una sede a Barcellona accanto al<br />
ghetto ebraico, ma nel 1223 si erano trasferiti in alcune case cedute dalla municipalità<br />
presso la chiesetta di S. Caterina nel quartiere di Sant Pere, dove nel<br />
1243 avevano cominciato la fabbrica del convento. Nel 1252 la chiesa era già<br />
innalzata fino alla base delle arcate, e dieci anni dopo erano ormai ultimate<br />
l’abside e le prime tre campate. I lavori continuarono fino al 1275, quando con<br />
il lascito testamentario di Ponç d’Alast si potè voltare la settima e ultima campata.<br />
Il convento e la chiesa di S. Caterina subirono nel 1835 un incendio e due<br />
anni dopo furono abbattuti. La chiesa, il cui impianto ci è noto grazie ai disegni<br />
eseguiti da Josep Casademunt i Torrents nel 1837, si modellava probabilmente<br />
su quella del S. Francesco della stessa Barcellona, ristrutturata intorno al 1247. 12<br />
Anche S. Caterina fu costruita ad aula con cappelle laterali aperte tra i contrafforti<br />
11 N. DE DALMASES – A. JOSÉ I PITARCH, L’època del Cister, s. XIII. Història de l’Art Català, II,<br />
Barcellona 1985, pp. 119-121.<br />
12 Ivi, pp. 122-124.<br />
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esterni ed abside poligonale. Le sette campate, tante quanti i lati del poligono<br />
absidale, furono voltate a crociera, come le cappelle e il presbiterio.<br />
L’elemento unificante fra il primo tipo costruttivo, esemplificabile nel S.<br />
Francesco di Montblanc, più elementare, con copertura in legname su archi<br />
diaframma, e il secondo, cioè la S. Caterina di Barcellona, con volte a crociera<br />
sull’aula, era l’unità dello spazio interno.<br />
La definizione di spazi interni unici ritorna in tutte le edificazioni religiose<br />
del XIV e XV secolo dei paesi dipendenti politicamente e culturalmente dalla<br />
Catalogna, cioè le isole Baleari, il territorio valenzano, Napoli, la Sicilia e, con<br />
qualche variazione, la Sardegna. 13<br />
Nel 1323, quando Alfonso d’Aragona sbarcava in Sardegna, i due tipi di<br />
chiesa, che possono considerarsi varianti di uno stesso modello, 14 erano ormai<br />
definiti. Planimetricamente identici – ad aula con cappelle laterali, ricavate tra i<br />
contrafforti esterni addossati alle pilastrate di scarico degli archi diaframma<br />
interni, e abside poligonale –, si differenziavano solo per la copertura che in uno<br />
era in legname a due spioventi, sostenuti da archi trasversali a sesto acuto, e<br />
nell’altro a volte a crociera nervata tra archi diaframma che delimitano le campate.<br />
Con la pianta avevano in comune, inoltre, l’uso delle volte nell’abside e<br />
nelle cappelle e il presbiterio della stessa ampiezza e altezza della navata.<br />
Il sentimento unitario dello spazio interno è tale che non viene meno neppure<br />
negli edifici a tre navate, che utilizzano pilastri sottili e molto distanziati fra<br />
loro a separare navi di altezza pressoché uguale con effetto di un’unica grande<br />
sala, ancor più marcato che nelle Hallenkirchen tedesche, dove i pilastri hanno<br />
una distanza meno accentuata. 15 L’interno della Cattedrale di Barcellona, con<br />
soltanto cinque coppie di pilastri che separano le tre navate, e la S. Maria del<br />
Mar, sempre a Barcellona, cominciata nel 1329 dopo la cacciata definitiva dei<br />
pisani dal Castello di Cagliari, con quattro coppie di altissimi pilastri poligonali,<br />
sono gli esempi più significativi della concezione spaziale unitaria catalana negli<br />
edifici a più navate.<br />
Ma la spazialità ininterrotta, sottolineata dal presbiterio della stessa sezione<br />
trasversale dell’aula, non era compiutamente attuata nella chiesa di Bonaria, in<br />
cui, a differenza del modello barcellonese di S. Àgata – dove la navata conti-<br />
13 N. DE DALMASES – A. JOSÉ I PITARCH, L’art gòtic, s. XIV-XV. Història de l’Art Català, III, Barcellona<br />
1984, pp. 13-21.<br />
14 A. FLORENSA, Il gotico catalano in Sardegna, in «Bollettino del Centro di Studi per la Storia dell’Architettura»,<br />
Contributi alla storia dell’architettura in Sardegna, n. 17, Roma 1961, p. 85.<br />
15 Ivi, p. 86.<br />
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nuava senza alcuna interruzione nel vano absidale –, l’aula era conclusa da una<br />
parete rettilinea in cui si apriva un presbiterio molto più basso e stretto dell’aula<br />
stessa. Una soluzione che non trovava riscontri in Catalogna, tranne forse nella<br />
chiesa di S. Maria la Real a Perpignano, l’antica parrocchiale dei re di Maiorca,<br />
e nella Cappella reale della Cattedrale di Palma di Maiorca, costruita tra il 1313<br />
e il 1327 sul medesimo schema di quella rossiglionese.<br />
Poiché sul presbiterio si eleva la torre campanaria, Renata Serra spiega le<br />
ridotte dimensioni del vano presbiteriale con l’esigenza di assicurare stabilità<br />
alla struttura. 16 Se la singolarità della collocazione del campanile – nelle chiese<br />
continentali catalane le torri campanarie sorgono quasi sempre su cappelle laterali<br />
– giustifica per la chiesa di Bonaria l’adozione di un’abside poco più ampia<br />
di una cappella, non si riesce a dare una spiegazione soddisfacente alla persistenza<br />
di tale caratteristica in tutte le successive architetture religiose di gusto gotico<br />
catalano edificate in Sardegna – ad eccezione del S. Francesco di Alghero –,<br />
nelle quali il campanile fiancheggia la facciata o poggia su una cappella laterale,<br />
ma mai sul presbiterio.<br />
Una ragione della peculiare tipologia delle chiese sorte nell’Isola in età<br />
catalana, potrebbe forse trovarsi nell’influsso determinante delle locali architetture<br />
degli Ordini mendicanti, quali, a Cagliari, il S. Francesco di Stampace e il<br />
S. Domenico e, a Sassari, la S. Maria di Betlem. Anche per il Santuario di Bonaria<br />
potrebbe non essere estraneo l’impianto della primitiva chiesa di Valverde<br />
ad Iglesias, da poco conclusa al momento dello sbarco catalano. Proprio dall’esempio<br />
delle chiese francescane e domenicane isolane deriva il presbiterio<br />
quadrato invece che poligonale – presente però ad Alghero e in poche chiese del<br />
Meilogu –; mentre il campanile, almeno nel meridione dell’Isola, sarà posto sul<br />
lato sinistro della facciata secondo il modello della Cattedrale tardoromanica di<br />
Cagliari. 17 Nel settentrione le torri campanarie, forse sullo schema di quelle,<br />
sempre tardoromaniche, del S. Pietro di Silki e del Duomo di Sassari, si eleveranno<br />
sulle cappelle laterali, lungo i fianchi dell’edificio. Fanno eccezione, anche<br />
in questo caso, quelle di Alghero, che nel S. Francesco e nella Cattedrale<br />
sorgono rispettivamente su una cappelletta retrostante e speculare al presbiterio<br />
e sulla cappella radiale centrale. 18<br />
16 R. SERRA, L’architettura sardo-catalana, in I Catalani in Sardegna, a cura di J. Carbonell e F.<br />
Manconi, Cinisello Balsamo 1984, p. 125.<br />
17 Ivi, p. 135.<br />
18 A. SARI, L’architettura ad Alghero dal XV al XVII secolo, in «<strong>Biblioteca</strong> Francescana Sarda», IV,<br />
1990, pp. 8 e 13-15.<br />
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Lo iato tra la spazialità dell’aula e quella del presbiterio del Santuario di<br />
Bonaria appariva certo assai più evidente prima che la copertura lignea su<br />
archi trasversali fosse sostituita dalla secentesca bassa volta a botte spezzata<br />
segnata da sottarchi. Il soffitto in legname era del resto pressoché esclusivo<br />
negli edifici sardo-catalani del XIV-XV secolo. Avevano coperto in legname,<br />
ad esempio, sempre a Cagliari anche la chiesa di S. Giacomo, parrocchiale<br />
del quartiere di Villanova, documentata dal 1346, e quella di S. Eulalia,<br />
parrocchiale della Marina e attestata dal 1371, i cui interni, rimaneggiati in<br />
epoca posteriore, presentano oggi complesse volte a crociera. A Sassari i<br />
lavori di rifacimento della chiesa francescana di S. Maria di Betlem, eseguiti<br />
fra il 1440 e il 1465, risparmiarono la copertura in legname, evidentemente<br />
conforme anche al gusto dei dominatori. 19 In effetti le coperture a volta<br />
nell’aula degli edifici ecclesiastici di impronta gotico-catalana risultano quasi<br />
tutte posteriori al regno di Ferdinando II.<br />
Queste particolarità, che distinguono le architetture sorte in Sardegna nel<br />
XIV-XV secolo rispetto ai modelli d’oltremare, testimoniano, nella sintesi di<br />
tradizione italiana e novità catalana, la nascita di una modalità isolana originale,<br />
pur con una preponderante connotazione catalana. Quasi una sorta di<br />
resistenza all’acculturazione imposta da un nuovo ceto egemonico, ma che<br />
non andrà mai oltre alcune soluzioni strutturali e l’interpretazione in chiave<br />
neoromanica della plastica architettonica.<br />
Fa eccezione Alghero che nel 1354, trent’anni dopo la conquista catalana<br />
della Sardegna, era diventata villa regia. 20 Consapevole del suo ruolo strategicamente<br />
indispensabile per il dominio dell’Isola, Pietro il Cerimonioso come<br />
primo provvedimento, scacciati gli abitanti, l’aveva ripopolata, all’interno delle<br />
poderose mura, 21 con catalani e aragonesi, ai quali dava «totes les posessions,<br />
ço és, cases e terres e vinyes del dit lloc e de son terme», 22 trasformando la<br />
fortezza sardo-genovese in una preziosa testa di ponte catalana. E schiettamente<br />
catalana, di conseguenza, fu la sua architettura, dove l’emulazione dei<br />
raggiungimenti estetici della madrepatria si evidenzia, oltre che nell’osser-<br />
19 A. SARI, Storia di una chiesa francescana. Santa Maria di Betlem a Sassari, in «Nuova Comunità»,<br />
VIII, gennaio 1989, p. 21.<br />
20 Les quatres grans cròniques cit., p. 1121; G. MELONI, L’Italia medioevale nella Cronaca di<br />
Pietro IV d’Aragona, Cagliari 1980, p.151, n. 2; R. CONDE, La Sardegna aragonese cit., p.<br />
270.<br />
21 Sul circuito murario della villa e sulla sua storia vedi G. Sari, La piazsa fortificata di Alghero,<br />
Alghero 1988.<br />
22 Les quatres grans cròniques cit., p. 1122.<br />
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vanza dell’unità spaziale 23 (mai rispettata compiutamente altrove nell’Isola),<br />
nei partiti ornamentali.<br />
In realtà la conquista catalana non significò per la Sardegna una rottura definitiva<br />
e immediata con la cultura artistica del Continente italiano, sino ad allora<br />
suo referente principale. Questa, infatti, convisse con l’ideologia dei nuovi<br />
dominatori, pur in un ruolo ormai marginale, almeno fino agli inizi del XV secolo,<br />
come testimoniano, per non citare che alcune opere d’arte figurativa, il<br />
polittico commissionato verso il 1340, un quindicennio circa dopo l’impresa<br />
aragonese, dal convento di San Domenico di Cagliari al pisano Maestro della<br />
Carità, 24 stretto collaboratore di Francesco Traini (il pannello superstite, raffigurante<br />
S. Domenico, si trova nella Casa parrocchiale di Ploaghe), o il dossale,<br />
di cui faceva parte la Madonna del Bosco, eseguito a Genova, alla fine del<br />
Trecento, da un pittore dell’ambito di Nicolò da Voltri per la chiesa di S. Nicola<br />
di Sassari. 25 A uno scultore napoletano della cerchia del Camaino appartiene,<br />
poi, la statua di calcare del Redentore nella cripta di Santa Restituta a Cagliari; 26<br />
mentre Nino Pisano è l’autore del San Basilio marmoreo per i conventuali di<br />
Oristano. Intagliati da artisti toscani alla fine del XIV secolo sono pure l’Arcangelo<br />
Gabriele della parrocchiale di Sagama e l’Annunciata del Duomo di<br />
Oristano. L’Arcangelo ligneo fu eseguito allo scorcio del Trecento, se dobbiamo<br />
dar credito alla lettura fatta da Francisco Vico dell’iscrizione che correva<br />
attorno alla base (riapparsa in parte dopo l’ultimo restauro), tracciata «con letras<br />
23 Nella chiesa di S. Francesco, per esempio, ispirata in pianta e in alzato a moduli gotico-catalani,<br />
il presbiterio, ampio e luminoso, era di altezza uguale all’aula – a differenza di ciò che si riscontra<br />
nelle chiese sarde di matrice catalana, in cui la navata termina in un muro dove s’apre<br />
un’abside più bassa e stretta. La diretta adesione a principi costruttivi catalani era confermata<br />
poi, nella stessa chiesa, dalla corrispondenza fra il numero dei lati del presbiterio pentagonale<br />
(ottenuto in pianta dalla giustapposizione di un quadrato con un semiesagono) e quello delle<br />
campate dell’aula (A. SARI, L’architettura ad Alghero dal XV al XVII secolo cit., pp. 179-183).<br />
Tale corrispondenza, propria della tradizione planimetrica catalana, non trovava confronti nell’Isola,<br />
se si esclude il Santuario di Bonaria – edificato da maestranze catalane tra il 1324 e il<br />
1326, nel periodo cioè che va dall’assedio di Cagliari alla presa definitiva del Castello da parte<br />
delle truppe aragonesi –, il quale, precedentemente la sistemazione dell’attuale prospetto e il<br />
prolungamento della navata (1895), aveva anch’esso un numero di campate identico a quello<br />
dei lati del poligono absidale (R. SERRA, Il Santuario di Bonaria in Cagliari e gli inizi del<br />
gotico catalano in Sardegna, in «Studi Sardi», XIV-XV, 1958, p. 348).<br />
24 A. CALECA, Pittura in Sardegna: problemi mediterranei, in Cultura quattro-cinquecentesca in<br />
Sardegna. Retabli restaurati e documenti, Catalogo della mostra, Cagliari 1985, p. 32.<br />
25 R. SERRA, Retabli pittorici in Sardegna nel Quattrocento e nel Cinquecento, Roma 1980, p. 10;<br />
EAD., Pittura e scultura dall’età romanica alla fine del ‘500, Nuoro 1990, p. 46 e scheda n. 17<br />
a cura di R. Coroneo.<br />
26 Ivi, p. 56 e scheda n. 20 a cura di R. Coroneo.<br />
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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />
de oro goticas, que dize assí: “Questo Angelo Gabrielle fece fare discreto viro<br />
donno Simone de Sassari 1390”». 27 È attribuito al Maestro dell’Annunciazione<br />
di Montefoscoli da Gert Kreytenberg, che riferisce l’Annunciata di Oristano,<br />
già assegnata a Nino Pisano da Raffaello Delogu, al Maestro della Madonna di<br />
Cerreto. 28<br />
Tuttavia i catalani, consapevoli della funzione non secondaria della cultura<br />
d’immagine nel processo di colonizzazione di un popolo, diffondevano, dai<br />
primi momenti successivi alla presa di possesso dell’Isola, l’estetica gotica in<br />
quella loro particolare accezione che improntava ben presto tutto il paese sino<br />
allo scorcio del XVI secolo.<br />
Se, nel 1324, quando ancora assediavano Cagliari, fondavano, come si è<br />
detto, sul colle di Bonaria, con schemi peculiari della loro architettura e sul<br />
modello della Sant’Àgata di Barcellona, una chiesa destinata, secondo un primo<br />
progetto, a divenire la parrocchiale di una nuova città da contrapporre al<br />
Castrum pisano, nel 1326, subito dopo il definitivo ingresso nel Castello, sottolineavano<br />
la propria vittoria anche culturale con l’apertura della cappella gotica<br />
nel braccio meridionale del transetto del Duomo, dove la matrice della nuova<br />
concezione dello spazio era rimarcata dalle quatres barres, che ostentatamente,<br />
con la nuova arma di Cagliari, si disponevano nei capitelli dell’arco di accesso<br />
e nella chiave di volta.<br />
Nessuna traccia resta, sempre a Cagliari, delle primitive strutture del San<br />
Giacomo e della Sant’Eulalia. Si può supporre che, se non furono utilizzate<br />
fabbriche precedenti, non si discostassero dalle caratteristiche di spazio e di<br />
ornato delle contemporanee architetture di Catalogna.<br />
Alla metà dello stesso XIV secolo si introduceva in Sardegna il retaule che,<br />
nato in antitesi alla pittura murale e ai dossali orizzontali e poco visibili dell’epoca<br />
romanica, si era diffuso verso la fine del primo ventennio di quel secolo<br />
in Catalogna, distinguendone originalmente la produzione artistica per tutta l’età<br />
gotica. Nel retaule (‘retablo’, come si dirà più comunemente dal castigliano),<br />
che deriva la propria denominazione da retrotabula altaris, cioè ‘tavola dietro<br />
l’altare’ (rerataula), si concentrava la decorazione pittorica della cappella.<br />
Già prefigurato nei paliotti dipinti del XII secolo, che nel successivo, per<br />
ragioni liturgiche (la collocazione differente del sacerdote, che celebra dando le<br />
spalle ai fedeli, e l’obbligo di elevare l’Ostia), avevano trovato collocazione<br />
27 F. VICO, Historia general de la Isla y reyno de Sardeña, Barcellona 1639, VI, cap. V, c. 57v.<br />
28 G. KREYTENBERG, Andrea Pisano und toskanische Skulptur des 14.Jahrhunderts, Monaco 1984,<br />
p. 140, nn. 18-19.<br />
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dietro l’altare, sulla mensa, addossati alla parete di fondo della cappella, trasformandosi<br />
in dossali e pale d’altare, il retablo sembra derivare più direttamente<br />
dalle tavole istoriate che i francescani diffondevano nel XIII-XIV secolo in<br />
Europa, il cui schema, esemplato nella pala duecentesca (1235 c.) di Bonaventura<br />
Berlinghieri conservata nella chiesa di S. Francesco di Pescia, prevedeva al<br />
centro un’immagine del Santo fondatore dell’Ordine affiancata da una serie<br />
sovrapposta di scomparti con storie della sua vita.<br />
Non doveva differire da questa tipologia la «tabulam ad altare depictam et auro<br />
stellata» del convento francescano di Reading, in Inghilterra. 29 Ad un dipinto collocato<br />
dietro l’altare, e quindi quasi certamente ad un polittico, allude il termine<br />
retrotabularium registrato nel 1294 nella raccolta di leggi di Giacomo II di Maiorca.<br />
Come ha sottolineato Caterina Limentani Virdis: «Se pure le antiche denominazioni<br />
non sembrano registrarne affatto l’importanza, appare evidente che<br />
la caratteristica saliente del polittico è la sua struttura multipla, la sua natura di<br />
organismo complesso capace di saldare in un insieme armonioso un numero<br />
variabile di tavole, secondo un programma iconografico e decorativo sottomesso<br />
alla gerarchia dei soggetti e dunque all’intenzione del committente». 30<br />
La schema del retablo – con un’organizzazione degli spazi dei singoli scomparti<br />
non solo pittorica, ma volta quasi sempre a prolungare la spazialità reale (o<br />
in maniera indeterminata col fondo oro o definita con sfondi paesaggistici), e<br />
con la suddivisione mediante montanti a pinnacolo, tra cui s’impostano, a chiusura<br />
delle storie laterali, archi gigliati – è allusivo all’architettura, divenendo<br />
complemento e conclusione di quella della chiesa e del presbiterio.<br />
Come conferma la terminologia utilizzata nei documenti catalani del XV-XVI<br />
secolo per designare i singoli elementi del retablo, era sempre stata chiara la<br />
consapevolezza che esso fosse una macchina architettonica e che in quanto tale<br />
svolgesse un ruolo strutturale nello spazio presbiteriale. Altrettanto chiara doveva<br />
esserne la valenza simbolica: un’opera d’architettura, anzi, meglio, di urbanistica,<br />
dove si realizzava, grazie al Santo patrono e al suo operato, il Regno<br />
di Dio sulla terra, ma allusiva anche ad una dimensione ultraterrena, la città di<br />
Dio, cui dovrebbero aspirare tutti i fedeli.<br />
Il retablo presenta due parti fondamentali: una inferiore con andamento orizzontale<br />
chiamata predella o bancal, e l’altra di maggiore estensione verticale<br />
che vi si appoggia superiormente. Il termine bancal ha fra gli altri il significato<br />
29 Notizia citata in C. LIMENTANI VIRDIS – M. PIETROGIOVANNA, Polittici, San Giovanni Lupatoto<br />
2001, p. 12.<br />
30 Ivi, p. 15.<br />
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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />
di appezzamento di terreno e perciò anche di terreno compreso tra le mura e<br />
l’incasato della città medievale. La parte superiore ha al centro la tavola con<br />
l’effigie del santo cui è dedicato il polittico, che è detta compartiment, quindi<br />
‘compartimento’, spazio in cui è diviso il territorio di questa immaginaria città<br />
celeste, ma che riflette quella terrestre in cui vivono i fedeli e nella quale come<br />
in un edificio religioso sta il santo titolare. Nella zona soprastante è un pannello<br />
quasi sempre con la Crocifissione, detto cimal che può tradursi con ‘sommità’,<br />
luogo alto e perciò luogo dove sorge il castello cittadino. Lateralmente sono i<br />
departiments, cioè tavole di minori dimensioni organizzate in verticale in cui si<br />
svolgono le storie e i miracoli del titolare: tavole che nei documenti catalani<br />
sono chiamate cases, ‘case’, e l’insieme delle serie verticali forma i carrers,<br />
cioè le strade. I carrers sono uniti tra loro da montanti, mentre le cases sono<br />
separate da archeggiature e fregi. Infine, una fascia inclinata, i polvaroli, è detta<br />
guardapols, cioè ‘tetti della tavola’, perciò tetti della città.<br />
Per ovviare al rischio della frammentazione compositiva e all’attenuazione<br />
della tensione emotiva dell’osservatore, sempre presenti in opere di così vaste<br />
dimensioni suddivise in pannelli di soggetti differenti, pur se sottoposti ad un<br />
unico tema, i pittori ricorrono a ferrei principi compositivi e strutturali che vanno<br />
dall’uso della prospettiva, che, per quanto possibile, unifichi lo spazio delle<br />
varie tavole nell’unico punto di fuga centrale; alla sezione aurea; agli indicatori<br />
di percorso e perciò di lettura progressiva delle tavole, 31 principi costruttivi che<br />
riducono l’effetto di disorganicità, quando non l’annullano del tutto, ripristinando<br />
l’unità spaziale ed emotiva.<br />
Ad uno dei primi retabli importati nell’Isola è legata forse la Madonna Nera<br />
del Duomo di Cagliari, ascrivibile, per via formale, alla metà del Trecento. L’intaglio,<br />
che sembra modellarsi su altro celebre della cattedrale di Palma di<br />
Maiorca, assai probabilmente faceva parte, come suppose lo storico Giovanni<br />
Spano, di un retablo che ornava l’altare maggiore. 32<br />
Allo scorcio dello stesso secolo un artista catalano scolpiva per il Duomo di<br />
Oristano il retablo marmoreo del Rimedio, di cui avanzano alcuni elementi laterali<br />
e la statua della Vergine col Bambino. Ad un polittico pure scultorio dovevano appartenere<br />
nella stessa chiesa oristanese i rilievi eseguiti qualche decennio prima sul<br />
verso di due plutei marmorei romanici da un maestro della cerchia di Jaume Cascalls. 33<br />
31 Sugli indicatori di percorso vedi gli studi di R. Concas in corso di stampa.<br />
32 G. SPANO, Guida del Duomo di Cagliari, Cagliari 1856, p. 32.<br />
33 J. AINAUD DE LASARTE, Les relacions econòmiques de Barcelona amb Sardenya i la seva projecció<br />
artística, in «VI Congreso de Historia de la Corona de Aragón», Madrid 1959, p. 638.<br />
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I frammenti sono comunemente considerati come pertinenti ad un unico retablo,<br />
cui si potrebbe pensare abbiano lavorato due scultori diversi; in realtà sia nei<br />
frammenti riferibili al polittico della Madonna del Rimedio sia nei rilievi scolpiti<br />
sul retro dei plutei romanici è raffigurata fra le altre la scena dell’Annunciazione,<br />
ora, poiché è impensabile che in un retablo sia rappresentato due volte lo stesso<br />
episodio, non resta che considerare l’eventualità di due polittici diversi, come<br />
indicano pure le differenze stilistiche riscontrabili nei diversi frammenti. Opinione<br />
questa già espressa da Raffaello Delogu nel lontano 1952 e ripresa da Angela<br />
Mata nel 1987, la quale ultima ritiene che le due lastre scolpite nel verso dei plutei<br />
romanici fossero non una predella, ma gli elementi laterali di un retablo del tipo<br />
catalano a sviluppo orizzontale, con al centro la statua della Madonna col Bambino,<br />
e che i frammenti con l’Annunciazione e l’Incoronazione della Vergine appartenessero<br />
ad un secondo retablo marmoreo di mano differente. 34 In realtà ragioni<br />
formali sembrerebbero accostare questi ultimi alla Madonna del Rimedio, piuttosto<br />
che i rilievi attribuiti all’ambito di Jaume Cascalls.<br />
A questo proposito sarebbe interessante interrogarsi anche dove i due plutei<br />
siano stati rilavorati: in Sardegna, ad Oristano, o in Catalogna? Se in Catalogna,<br />
come probabile, cadrebbe l’attribuzione ad un maestro isolano dei rilievi romanici<br />
e la tesi della loro presenza ab antiquo nella cattedrale oristanese.<br />
All’attività scultoria catalana di quegli anni risale, infine, la piccola Madonna<br />
seduta con il Bambino sulle ginocchia del Santuario di Bonaria a Cagliari.<br />
Poco dopo la metà dello stesso secolo XIV, precisamente il 16 luglio 1364,<br />
Llorenç Saragossa – «lo millor pintor» di Barcellona, a detta di Pietro il Cerimonioso<br />
35 – firmava il contratto per l’esecuzione di un retablo, dedicato ai santi Gabriele<br />
e Antonio, per una cappella della Cattedrale di Cagliari, che doveva essere<br />
già ultimato il 30 dicembre del medesimo anno. 36 Dell’opera non resta traccia,<br />
anche se non è escluso che la sua presenza possa aver influito in qualche modo<br />
sugli artefici isolani. Per la stessa cappella l’anno seguente, 1365, erano spediti da<br />
Barcellona due candelabri in ferro battuto, che come ipotizza Ainaud de Lasarte<br />
dovevano essere simili ad altri esemplari catalani esistenti ancora a Cipro. 37<br />
34 A. FRANCO MATA, Influenza catalana cit., p. 231 ss.<br />
35 A. RUBIÓ I LLUCH, Documents per la història de la cultura catalana mig-eval, II, Barellona<br />
1921, doc. CLXXIV; J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana, Barcellona<br />
1986, p. 60.<br />
36 J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà. Su vida, su tiempo, sus seguidores y sus<br />
obras, in «Anales y Boletín de los Museos de Arte de Barcelona», VIII (Apéndice documental),<br />
1950, docc. 13-15; J. AINAUD DE LASARTE, Les relacions econòmiques cit., p. 640.<br />
37 Ivi, pp. 639-640.<br />
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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />
Ma artisti catalani, giunti sin dalle prime spedizioni militari di conquista,<br />
svolgevano a quell’epoca ormai attività stabile a Cagliari, partecipando<br />
così fattivamente al programma di catalanizzazione anche culturale<br />
della Corona.<br />
Nel 1355 Pietro il Cerimonioso, nel quadro della politica di ripopolamento<br />
della villa di Alghero, concedeva, per esempio, il trasferimento ad Alghero al<br />
pittore catalano Pere Blanch, che risiedeva allora a Cagliari, dove teneva certamente<br />
bottega. 38 Nel 1395 anche un altro pittore catalano, Ramonet de Caldes,<br />
viveva nel Castello di Cagliari. 39<br />
Intanto continuavano le importazioni dirette dalla Catalogna. Il 4 marzo<br />
1404, a Barcellona, Pere Serra si impegnava a dipingere per 30 lire un piccolo<br />
retablo per Arnau ça Bruguera, cittadino algherese, che saldava il pagamento<br />
il 25 settembre successivo. 40 Qualche anno prima, il 10 aprile del 1399, anche<br />
Leonardo De Doni, membro di una famiglia di commercianti d’origine pisana<br />
stabilitasi a Cagliari, il quale svolgeva un ruolo preponderante nell’esportazione<br />
del corallo da Alghero a Barcellona, aveva commissionato un retablo al<br />
Serra. 41 Lo stesso Leonardo De Doni, come attesta un documento del 17 maggio<br />
1403, era in rapporto con Joan Mates, collaboratore di Pere Serra. Sempre<br />
Leonardo si faceva forse mediatore tra Mates e un familiare, Guido, residente<br />
a Cagliari, per la realizzazione del retablo dell’Annunciazione, che era collocato<br />
nella cappella di patronato della famiglia De Doni nella chiesa di S. Francesco<br />
di Stampace a Cagliari.<br />
Nei frammenti rimasti – lo scomparto mediano con l’Annunciazione, la sovrastante<br />
Crocifissione, lo scomparto laterale alto di sinistra con la Caccia di S.<br />
Giuliano, la predella con i cinque scomparti, raffiguranti da sinistra: S. Antonio<br />
Abate, S. Giovanni Battista, Cristo come Uomo dei dolori, S. Margherita e S.<br />
Caterina d’Alessandria (tutti conservati nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari) –<br />
lo stile cortese del Mates, che appare lontano dagli italianismi di Pere e dal<br />
patetismo di Lluis Borrassà, si rivela nella eleganza del segno, che fluisce in<br />
accordo con la soavità della gamma cromatica.<br />
38 J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., doc. 401; J. AINAUD DE LASARTE, Les<br />
relacions econòmiques cit., p. 640.<br />
39 J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., doc. 96; J. AINAUD DE LASARTE, La pintura<br />
sardo-catalana, in I Catalani in Sardegna cit., p. 111.<br />
40 J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., doc. 68; J. AINAUD DE LASARTE, Les relacions<br />
econòmiques cit., p. 640.<br />
41 J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., doc. 43.<br />
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Così nel 1861 il canonico Giovanni Spano descriveva nella sua Guida della<br />
città e dintorni di Cagliari, al paragrafo dedicato alla chiesa stampacina, il<br />
polittico ancora intatto:<br />
Nelle tre cappelle che stanno sotto la Tribuna o il Coro, è dove più splende il<br />
bello antico, né meglio potria desiderarsi dai più illustri giotteschi fino al Masaccio.<br />
Non è possibile poter descrivere minutamente le tavole che stanno in queste tre cappelle<br />
abbandonate ed interdette. Peccato che questi preziosi tesori siano ivi non curati,<br />
pieni di polvere, ed albergo dei ragni! Di più, coll’umidità che vi è continuamente,<br />
un giorno verranno a perdersi, e perciò converrebbe di toglierli, ed assegnare ad essi<br />
più decente luogo. Nella stessa condizione erano quelle quattro tavole della Chiesa di<br />
S. Francesco d’Oristano, che abbiamo osservato in casa Decandia. Qual altro pregio<br />
non avrebbero se a queste toccasse la medesima sorte!<br />
La prima cappella a destra attigua a quella della Visitazione che abbiamo lasciato,<br />
è dedicata alla Annunziata che sta nello spartimento di mezzo, ingombrato da una<br />
nicchia: a sinistra vi sta un personaggio, il conte Rogerio, in abiti da Principe con<br />
sproni ai piedi, un cane sotto, con un falchetto in mano ed il cappuccio per lo stesso<br />
falco. A destra un Santo Monaco in abiti ruvidi, che è S. Brunone l’institutore dell’Ordine<br />
Certosino, il quale vivendo in una spelonca di un eremo in Calabria, venne<br />
scoperto dai cani del conte di Calabria, Rogerio, che verso quel sito attendeva alla<br />
caccia. In mezzo vi è l’Annunciazione slanciandosi una mano dall’alto sulla Vergine.<br />
Ai lati di sopra in piccola dimensione vi sta S. Giorgio a cavallo a sinistra, ed a destra<br />
un gruppo d’angeli con Gesù bambino scherzando. Nel finimento avvi ripetuta la<br />
Crocifissione, come nell’altro altare, con diversi gruppi e figure. Nell’imbasamento<br />
finalmente altri cinque spartimenti a metà di figure di Santi e di Sante. Queste sono<br />
ornate di diademi e di fregi dorati con pietre e gemme che sembrano fatte da poco. I<br />
volti delle Sante sono delicatissimi, che potrebbero confondersi coi ritratti dei migliori<br />
che si conoscono del Giunta Pisano. Si vedono con una tale espressione, che si<br />
potrebbero contare i peli ad uno ad uno nello sfilamento della barba e dei capelli.<br />
Nel pavimento di questa cappella si osserva un marmo in cui è presentato in<br />
basso rilievo un personaggio giacente in abito lungo colle mani incrociate, ed attorno<br />
l’iscrizione in caratteri gotici: Hic jacet corpus nobilis viri Domini Guido De Dono<br />
(Dedoni) mercatoris de Castro Calleris qui obiit anno Dom. 1410 indictione III die<br />
12 Mensis Decembris cujus animam [sic] requiescat in pace. 42 Al lato del cuscino vi<br />
sono due stemmi di famiglia, uguali a quello che si vede sopra l’arcata della cappella,<br />
che forse era patronato della famiglia Dedoni, una delle più antiche di Cagliari. 43<br />
Circa un cinquantennio più tardi, il retablo, smembrato e custodito nel<br />
Museo Nazionale di Cagliari, dopo l’iniqua legge sulla soppressione degli<br />
42 Questa la lettura corretta: «HIC IACET CO/RPUS NOBILIS VIRI DOMINI GUIDO DE DONO<br />
MERCATORIS DE CASTRO CALLE(R)IS/QUI OBIIT ANNO D(OMI)NI MCCCCX IN/<br />
DICTIO(N)E III DIE XII MENSIS D(E)CE(M)BRIS CUIUS ANIMAM REQ(U)IESCAT IN<br />
PACE AME(N)».<br />
43 G. SPANO, Guida della città e dintorni di Cagliari, Cagliari 1861, pp. 172-173.<br />
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ordini religiosi che aveva disperso gran parte del patrimonio artistico della<br />
chiesa e del convento di S. Francesco di Stampace, era studiato da Carlo Aru,<br />
che esponeva le sue deduzioni nel X Congresso di Storia dell’Arte, tenuto a<br />
Roma nel 1912, pubblicandole poco dopo, in attesa degli Atti, nell’ «Anuari<br />
de l’Institut d’Estudis Catalans». 44<br />
L’Aru, però, divideva le tavole che in origine avevano costituito il retablo<br />
dell’Annunciazione in due gruppi che assegnava a due polittici differenti, attribuendo<br />
il primo, risultante di due dipinti (un Santo Cavaliere e una Crocifissione),<br />
a un pittore catalano della seconda metà del Trecento con influssi toscani, e<br />
il secondo, comprendente cinque elementi di una predella raffiguranti rispettivamente<br />
Cristo al sepolcro e quattro santi, ad un artista della scuola di Lluís<br />
Borrassà attivo nei primi anni del XV secolo. Negli Atti, apparsi soltanto nel<br />
1922, lo studioso, che manteneva la divisione in due gruppi e le attribuzioni di<br />
dieci anni prima, indicava nella cappella dell’Annunziata del S. Francesco di<br />
Stampace la collocazione originaria del retablo di cui avrebbero fatto parte le<br />
cinque tavole della predella. 45<br />
Nel 1927 lo stesso Aru, nel saggio intitolato Lineamenti storici della pittura<br />
sarda, 46 compiva «un altro passo verso la migliore conoscenza delle relazioni<br />
intercorrenti tra queste sette tavole». 47 Egli, infatti, riuniva, sulla testimonianza<br />
della Guida del Canonico Spano, i due gruppi, che erano considerati così elementi<br />
del medesimo polittico descritto dallo Spano nella cappella<br />
dell’Annunziata, e ne confermava l’esecuzione ad un seguace del Borrassà.<br />
Ancora dieci anni dopo, nel 1936, la sua attribuzione era accolta nel catalogo<br />
del Museo Nazionale e della Pinacoteca di Cagliari, in cui Raffaello<br />
Delogu scriveva:<br />
Si nota in seguito un gruppo notevolissimo di opere fra le quali primeggiano,<br />
per il vivissimo goticismo, i due frammenti raffiguranti un S. Cavaliere e la Crocifissione,<br />
parti di una stessa ancona della chiesa di S. Francesco, dove sono di facile<br />
riscontro influenze coloristiche senesi. Alla stessa ancona apparteneva la sottostante<br />
predella con le figure del Cristo, di S. Antonio Abate, di S. Giovanni Evangelista,<br />
44 C. ARU, Storia della pittura in Sardegna nel secolo XV, in «Anuari de l’Institut d’Estudis Catalans»,<br />
IV (1911-12), Barcellona 1913. Dieci anni dopo il saggio era pubblicato finalmente: C. ARU, La<br />
pittura sarda nei secoli XV e XVI, in «Atti del X Congresso Internazionale di Storia dell’Arte»<br />
(1912), Roma 1922.<br />
45 Ivi, p. 263 ss.<br />
46 C. ARU, Lineamenti storici della pittura sarda, in «Fontana Viva», II, fasc. 2, 1927, p. 11.<br />
47 R. DELOGU, Chiosa al ‘Maestro di Peñafel’, in «Annali della Facoltà di Lettere, Filosofia e<br />
Magistero della Università di Cagliari», XIV, 1946, pp. 3-4.<br />
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S. Caterina d’Alessandria e di un’altra Santa; la squisita e delicatissima opera fu<br />
dipinta da un seguace di Louis Borrassà, attivo nei primi anni del secolo XV. Notevole<br />
il fiabesco e lirico contrasto tra la delicata figurina dell’ultima Santa a destra<br />
e il grottesco leone. L’opera costituisce la documentazione del primo apporto pittorico<br />
spagnolo alla terra sarda. 48<br />
Nel 1938, Chandler Rathfon Post identificava il Santo a cavallo con S. Giuliano<br />
Ospedaliere, 49 raffigurato, secondo una diffusa iconografia derivata dalla<br />
Legenda aurea, nell’atto di ascoltare attonito, durante una battuta di caccia, la<br />
profezia del cervo che aveva scovato dalla macchia, secondo la quale egli avrebbe<br />
ucciso i genitori di sua propria mano. 50<br />
In quello stesso anno il Delogu rinveniva nei magazzini del Museo Nazionale<br />
di Cagliari un’Annunciazione, che «per linguaggio e tecnica, oltre che per<br />
l’aderenza alla descrizione dello Spano», 51 dichiarava la sua appartenenza a<br />
quel medesimo polittico cui erano stati assegnati i sette frammenti attribuiti alla<br />
scuola del Borrassà.<br />
Si ricomponeva così l’ancona descritta nel XIX secolo dal Canonico Spano,<br />
della quale «rimangono, quindi: tutta la predella, lo scomparto centrale con l’Annunciazione,<br />
la soprastante Crocifissione e lo scomparto superiore di sinistra<br />
con la figura di S. Giuliano. Mancano, distrutti o probabilmente emigrati, tre<br />
scomparti, oltre ai polvaroles, raffiguranti, stando alla descrizione dello Spano,<br />
“il Conte Ruggero in abiti da principe”, S. Bruno da Colonia ed “un gruppo<br />
d’angeli con Gesù Bambino”». 52<br />
In realtà il conte Ruggero è da identificare con lo stesso S. Giuliano<br />
Ospedaliere e S. Bruno di Colonia con S. Giuliano di Padova Confessore,<br />
mentre la tavola con Gesù Bambino tra gli angeli raffigurava il divin Pargolo<br />
che gioca con i tre santi Innocenti, le cui reliquie appartennero a S. Giuliano<br />
Confessore. Le storie più popolari della legenda dei due santi, che in un retablo<br />
tradizionale sarebbero state confinate nei departiments, cioè nelle cases, oc-<br />
48 R. DELOGU, La Pinacoteca di Cagliari, in A. TARAMELLI – R. DELOGU, Il R. Museo Nazionale e<br />
la Pinacoteca di Cagliari, Roma 1936, p. 39.<br />
49 CH. R. POST, History of Spanish painting, Harward 1938, VII, parte 2, p. 747.<br />
50<br />
IACOPO DA VARAZZE, Legenda aurea, a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Torino 1995, pp. 176-<br />
177.<br />
51 R. DELOGU, Chiosa cit., p. 5. La tavola, le cui vaste cadute di colore avevano in gran parte<br />
compromessa la lettura delle due figure, era stata restaurata nel 1935, «sotto la direzione dell’Arch.<br />
Angelo Vicario, dal sig. Guido Fiscali mediante consolidamento del supporto, stuccatura delle<br />
lacune e nuova loro campitura con tinte neutre» (ivi, p. 5, nota 7).<br />
52 Ivi, p. 6.<br />
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cupavano il posto di solito riservato all’arcangelo Gabriele e all’Annunciata,<br />
in questo caso titolari del polittico e della cappella e perciò collocati nel<br />
compartiment, cioè la tavola principale.<br />
La presenza dei due S. Giuliano sembrerebbe un omaggio al capostipite<br />
della famiglia Dedoni, del quale erano i santi eponimi. 53<br />
L’attribuzione proposta dall’Aru era stata accolta in Sardegna, come abbiamo<br />
visto, dal Delogu, ma anche alcuni tra i più noti studiosi stranieri di pittura<br />
catalana avevano condiviso il suo riferimento a un seguace del Borrassà. 54<br />
Sempre nel 1938 il Post riuniva sotto la personalità di un anonimo Maestro<br />
di Peñafel – così denominato dalla sede originaria di due ancone rispettivamente<br />
dedicate a S. Michele e a Santa Lucia – i sette frammenti cagliaritani, tolta<br />
l’Annunciazione di cui sembrava non essere a conoscenza. 55<br />
Nell’importante Chiosa al ‘Maestro di Peñafel’, del 1946, Raffaello<br />
Delogu descrive in maniera incomparabile quella che è la qualità formale<br />
del Maestro di Peñafel, identificato qualche anno dopo da Joan Ainaud de<br />
Lasarte in Joan Mates: 56<br />
Per il «Maestro di Peñafel» la forma è colore e nel colore si risolve tutta la<br />
fenomenica del dipinto. In quale accezione debba poi, per lui, porsi l’astratto termine<br />
di «colore», potrà intendersi ricostruendone la stesura; quella tecnica, cioè, nella<br />
quale si concreta, e che è, la forma stessa; campite con tinte piatte fondamentali le<br />
diverse zone cromatiche, mettiamo, della figura, il pittore ne rialza con una serie di<br />
linee – pennellate approssimativamente parallele od incrociate – come in un affresco<br />
– le parti in maggiore aggetto fino a sciogliere in una pasta chiarissima – che ricorda<br />
molto approssimativamente il leonardesco «lustro» – le quote più rilevate. Altrettanto,<br />
in senso contrario, avviene per le zone rientranti o in ombra. Così la forma […] si<br />
fa tumida, morbida e lievitante; i piani si sfaldano; i contorni si smagliano o addirittura<br />
spariscono. E ciò, s’intenda, non più per virtù di luce, e cioè tonalmente, ma per<br />
53 Il nome del fondatore della casata, Giuliano, mi è stato segnalato dalla professoressa Maria<br />
Grazia Scano Naitza, che ha in corso di stampa un saggio sulla famiglia Dedoni e sul suo ruolo<br />
anche culturale nella Cagliari del xv secolo.<br />
54 Vedi G. GODDARD KING, Sardinian painting, Filadelfia 1923, p. 66 (la quale tuttavia seguiva i<br />
risultati dello studio che Carlo Aru aveva presentato nell’«Anuari de l’Institut d’Estudis Catalans»<br />
del 1913, non riconoscendo l’appartenenza dei frammenti ad un medesimo polittico); G. RICHERT,<br />
Mittelalterliche malerei in Spaniel, Berlino 1925, p. 55; A.L. MAYER, Historia de la pintura<br />
española, Madrid 1928, p. 312.<br />
55 A questo proposto scrive R. DELOGU, Chiosa cit., p. 7, nota 15: «Del rinvenimento e del restauro<br />
di questa “Annunciazione”, oltre che del suo collegamento con gli altri scomparti dell’ancona,<br />
diedi diretta comunicazione al Prof. Post nel 1938. Ignoro se Egli abbia poi pubblicato la riproduzione<br />
nell’occasione inviatagli e riferito sulle notizie trasmessegli».<br />
56 J. AINAUD DE LASARTE, Tablas ineditas de Joan Mates, in «Anales y Boletín de los Museos de<br />
Arte de Barcelona», IV, 1948, p. 341 ss.<br />
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un più semplice modo di essere, in sé, del colore. Così avviene nelle ancone di S.<br />
Lucia e di S. Michele, nell’altra dei due S. Giovanni, nella predella della collezione<br />
Latecoére e così anche nella cagliaritana ancona dell’Annunziata. Nelle quali opere,<br />
in pieno accordo e concomitanza con la cennata sensibilità coloristica, è minore,<br />
o strettamente legato alle esigenze iconografiche, il gusto del «racconto» e le<br />
diverse scene sono sentite come occasioni per il prezioso accordo dei colori nella<br />
bellezza dei pigmenti. 57<br />
Joan Mates era nato a Vilafranca del Penedès da un sellaio. In un atto del<br />
12 luglio 1391 figura come pittore residente a Barcellona. In questa notizia e<br />
in un’altra del 17 novembre del successivo 1392 appare in rapporto con il<br />
pittore Pere Serra, uno dei quattro figli d’un sarto barcellonese, Berenguer,<br />
che dominarono durante la seconda metà del Trecento il panorama artistico<br />
della capitale catalana. Essi condivisero la medesima bottega e furono tra i<br />
più prolifici produttori del tempo di retabli, commissionati loro da tutti i territori<br />
della Corona catalano-aragonese. 58<br />
Il maggiore dei fratelli Serra, Francesc, può considerarsi con Ramon<br />
Destorrents, dopo la morte di Ferrer e Arnau Bassa per peste nera nel 1348,<br />
l’iniziatore della scuola pittorica barcellonese. Sebbene i documenti ci consentano<br />
di seguirne l’attività dal 1350 fino alla morte, nel 1362, tramandandoci<br />
preziose informazioni su stipulazioni di contratti e ricevute di pagamento,<br />
non si è potuta identificare nessun’opera di sua mano. È quasi certo tuttavia<br />
che egli sia il cosiddetto Maestro di Sixena, la cui pittura risulta formalmente<br />
vicina a quella di Jaume e Pere Serra. 59<br />
La prima notizia di Jaume è del 1358, quando firma il contratto per il<br />
retablo di S. Michele per la cattedrale di Girona, avvallato dal fratello maggiore<br />
Francesc. Jaume, che a quella data doveva essere un pittore già affermato,<br />
collaborava certamente con il fratello, come sembra confermare l’impegno,<br />
sottoscritto il 30 giugno 1360, a dipingere e dorare il tabernacolo dell’altare<br />
maggiore della chiesa del monastero di S. Pere de les Puelles, il cui retablo<br />
era commissionato a Francesc, e il fatto che due anni dopo, nel 1362, egli si<br />
incaricava di completare, insieme con l’altro fratello, Pere, il più giovane dei<br />
57 R. DELOGU, Chiosa cit., p. 10. Le ancone citate sono quelle attribuite dal Post al gruppo del<br />
Maestro di Peñafel e restituite nel 1948 a Joan Mates da Ainaud De Lasarte.<br />
58 Vedi J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana cit., pp. 52 ss; per Joan Mates si<br />
rimanda all’importante monografia di R. ALCOY – M.M. MIRET, Joan Mates, pintor del Gòtic<br />
Internacional, Barcellona 1998.<br />
59 J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana cit., pp. 52-53.<br />
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tre, la pittura del retablo che Francesc, morendo prematuramente, aveva lasciato<br />
incompiuta. Jaume sostituiva il fratello anche nella direzione della bottega,<br />
nella quale ben presto brillava il genio di Pere.<br />
Formatosi presso il fratello maggiore, la personalità artistica di Jaume è<br />
attestata dal retablo commissionatogli nel 1361 da fra Martino de Alpartir per la<br />
sua sepoltura nel convento del Santo Sepolcro di Saragozza (oggi al Museo di<br />
Belle Arti). L’opera, realizzata prima della sua collaborazione con Pere, che in<br />
questo momento si stava ancora formando nella bottega di Ramon Destorrents,<br />
l’altro protagonista della scuola pittorica barcellonese della seconda parte del<br />
XIV secolo, dimostra la dipendenza di Jaume da Destorrents e dall’autore del<br />
retablo di Sixena, che è stato riconosciuto in Francesc Serra. Si notano, rispetto<br />
a quelli, una minore complessità compositiva e un cromatismo poco variato,<br />
anche se più delicato. Il 19 aprile 1389 faceva testamento e di lui non si hanno<br />
più notizie fino al 1395, quando risulta già defunto. 60<br />
Di Pere, il minore dei tre, possediamo un’abbondante documentazione, che<br />
dall’inizio del suo apprendistato nella bottega di Ramon Destorrents, previsto<br />
della durata di quattro anni nel contratto stipulato il 14 aprile 1357, giunge fino<br />
alla sua morte, avvenuta fra il 1405 e il 1408. Come scrive Josep Gudiol i Ricart:<br />
«Il fatto che la sua formazione avvenisse nella bottega di Ramon Destorrents e<br />
non in quella dei suoi fratelli dimostra la stretta relazione esistente fra i pittori<br />
barcellonesi di quell’epoca». 61 Nel 1362, anno della conclusione del suo tirocinio,<br />
morivano il maestro Destorrents e il fratello Francesc, e Pere entrava a far<br />
parte dell’impresa familiare, impegnandosi con Jaume a condurre a termine il<br />
retablo per la chiesa di S. Pere de les Puelles, che Francesc non aveva fatto in<br />
tempo a finire.<br />
La collaborazione con Jaume durò oltre venticinque anni e, alla morte di<br />
questi, Pere assumeva il comando della bottega, mantenendo un’elevata produttività<br />
grazie all’aiuto di collaboratori – quali Joan Mates, che, alla sua morte, il<br />
20 aprile 1409 si sarebbe incaricato di completare il retablo di S. Tommaso e S.<br />
Antonio commissionato al maestro per una cappella del chiostro della Cattedrale<br />
di Barcellona e rimasto incompiuto; Mateu Ortoneda e Pere Vall – e discepoli,<br />
come il fratello Joan, il perpignanese Jalbert Gaucelm e Tomàs Vàquer. 62<br />
60 Ivi, pp. 53-55.<br />
61 Ivi, p. 55: «El fet que la seva formació es produís al taller de Ramon Destorrents i no en el dels<br />
seus germans demostra l’estreta relació que hi devia haver entre els pintors barcelonins d’aquella<br />
època».<br />
62 Ibid.<br />
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La bottega di Pere, malgrado la presenza nella capitale di Lluís Borrassà e<br />
Joan Mates, che avevano fatto proprie le novità formali del Quattrocento europeo,<br />
risultava fino alla prima decade del XV secolo ancora la più efficiente. Uno<br />
degli ultimi contratti firmati da Pere Serra fu quello stipulato il 4 marzo 1404<br />
con l’algherese Arnau ça Bruguera.<br />
Lo stile di Pere Serra rivela la sua formazione nelle botteghe del Destorrents<br />
e del fratello Jaume, ma vi si distacca per la sensibilità narrativa, che si manterrà<br />
in tutta la sua produzione, e la ricchezza compositiva. «Le sottili armonie<br />
cromatiche, l’eleganza delle figure e l’abilità nel disporle in suggestivi paesaggi,<br />
tanto rurali come urbani, sono alcune altre caratteristiche che differenziano<br />
con chiarezza l’arte di Pere Serra». 63 Negli ultimi anni della sua attività, forse<br />
sotto l’influsso di Joan Mates, egli si avvicina timidamente al gusto internazionale,<br />
imprimendo maggiore movimento alle figure, attraverso la gestualità e il<br />
fluttuare delle vesti, e più accentuati contrasti cromatici. 64<br />
Joan Mates è documentato a Barcellona come pittore dal 1391, ma in realtà<br />
fino al 1406 non si hanno notizie della sua attività come artista indipendente, se si<br />
esclude l’impegno stilato il 31 luglio 1400 con la confraternita di S. Eligio e S.<br />
Matteo di concludere il retablo per la cappella della chiesa del Carmelo di Manresa,<br />
che era stato commissionato al pittore fiammingo Jaume Lors, residente allora a<br />
Barcellona, il quale però, appena ingessate le tavole, era tornato in patria. 65 Più<br />
numerosi sono invece i riferimenti, in quegli anni, ai suoi rapporti con i pittori<br />
barcellonesi Mateu Ortoneda, Guillem Ferrer, Guerau Gener e, soprattutto, Pere<br />
Serra, di cui fu valido collaboratore – come si è detto, dopo la morte di Pere fu lui<br />
a portare a termine il lavoro lasciato incompiuto dal maestro. 66<br />
Dal 1406 la documentazione relativa all’attività pittorica di Mates diviene<br />
più frequente e regolare. Dopo la commissione di un retablo per la cappella di<br />
S. Anna e S. Michele della Cattedrale di Barcellona, gli atti d’archivio registrano<br />
numerosi altri incarichi assolti dal pittore nella Capitale del regno e nei territori<br />
della Corona.<br />
Per poter onorare le rilevanti richieste, che hanno spinto a considerarlo l’erede<br />
di Pere Serra nell’ambito pittorico catalano, 67 Mates dovette servirsi di uno stuolo<br />
63 Ivi, p. 57: «Les subtils harmonies cromàtiques, l’elegància de les figures i l’habilitat a disposarles<br />
en els suggestius paisatges, tant rurals com urbans, són unes altres característiques que<br />
diferencien amb claredat l’art de Pere Serra».<br />
64 N. DE DALMASES – A. JOSÉ I PITARCH, L’art gòtic cit., p. 168.<br />
65 J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana cit., p. 88.<br />
66 Ibid.<br />
67 Ibid.<br />
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di aiuti e collaboratori, il principale dei quali fu il figliastro Francesc Oliva.<br />
Questi, che figurava come pittore dal 1408, moriva però prima del 1431. Quasi<br />
certamente faceva parte della bottega del Mates anche il figlio Bernat, documentato<br />
fra il 1425 e il 1462, della cui attività pittorica non si ha altra notizia<br />
che quella relativa ad un retablo eseguito per il castello di Vacarisses nel 1436. 68<br />
Nel 1426 iniziava l’apprendistato nella bottega del Mates il quattordicenne<br />
Francesc Mates, figlio di un sarto barcellonese forse legato al pittore da vincoli<br />
di parentela. Collaboratore stabile sembra sia stato l’imatger Colino, che il Mates<br />
ricorda nel suo testamento, redatto il 29 agosto 1431. Doveva essere l’ebanista<br />
che eseguiva la preparazione e l’intaglio dei retabli del pittore. 69<br />
Come attestano le opere documentate – il retablo dei santi Ambrogio e<br />
Martino nella Cattedrale di Barcellona, quello di S. Sebastiano per la cappella<br />
del refettorio della Pia Almoina di Barcellona e il retablo maggiore della chiesa<br />
parrocchiale di Vilarodona – e le altre che gli si possono attribuire attraverso<br />
l’analisi formale – come, per esempio, il retablo dei santi Lucia e Michele del<br />
Santuario di Peñafel e quelli di S. Giacomo di Vallespinosa, dei santi Giovanni<br />
Battista e Evangelista, dell’Annunciazione del S. Francesco di Cagliari –, Joan<br />
Mates è un artista di grande talento:<br />
Dotato di una personalità propria e creatore di una tipologia di facile identificazione,<br />
non conserva, almeno nelle opere che sono arrivate sino a noi, la più piccola traccia<br />
dello stile di chi probabilmente fu il suo maestro, Pere Serra. Tanto meno accusa l’influenza<br />
di Lluis Borrassà, il pittore barcellonese di più rilievo durante gli anni in cui<br />
Joan Mates svolse la sua attività. Mates rappresenta tuttavia una modalità distinta nella<br />
cosiddetta pittura «internazionale», più prossima alle correnti stilistiche che si svilupparono<br />
nella regione che comprende il nord della Francia e i paesi Bassi e che ebbero<br />
una grande risonanza nelle terre valenzane. Si tratta di un’arte che concede un’attenzione<br />
particolare al gesto dei personaggi, sempre eleganti e distinti, e che evita i violenti<br />
scorci borrassaniani. Il disegno, corretto e d’una grande sensibilità, si manifesta in<br />
maniera speciale nei soavi ritmi suggeriti dalle pieghe delle vesti. 70<br />
68 Ibid.<br />
69 Ibid.<br />
70 Ivi, p. 90: «Dotat d’una personalitat pròpia i creador d’una tipologia de fàcil identificació, no<br />
conserva, si més no en les obres que ens n’han arribat, la més petita traça de l’estil del qui<br />
possiblement fou el seu mestre, Pere Serra. Tampoc no acusa la influència de Lluís Borrassà, el<br />
pintor barceloní de més pes específic durant els anys que Joan Mates desplegà la seva activitat.<br />
Mates representa tanmateix una modalitat distinta dins la denominada pintura “internacional”,<br />
més d’acord amb els corrents estilístics que es desenrotllaren a la regió que comprèn el nord de<br />
França e els Països Baixos i que tingueren un gran ressò per terres valencianes. Es tracta d’un<br />
art que concedeix una atenció particular al gest dels personatges, sempre elegants i distingits, i<br />
que evita els violents escorços borrassanians. El dibuix, correcte i d’una gran sensibilitat, es<br />
manifesta d’una manera especial en els suaus ritmes suggerits pels plecs de la indumentària».<br />
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Protagonista della sua pittura è quasi esclusivamente la figura umana, il cui<br />
elegante atteggiarsi conferisce un’aura profana anche agli episodi religiosi, secondo<br />
modalità proprie dell’arte cortese nordeuropea. S. Giuliano del polittico<br />
di Cagliari; S. Sebastiano del retablo della Pia Almoina; S. Giovanni Battista e<br />
S. Giovanni Evangelista del retablo dei Santi Giovanni; S. Martino del retablo<br />
di S. Martino e S. Ambrogio nella cattedrale di Barcellona; S. Michele Arcangelo<br />
del retablo di S. Maria di Peñafel; S. Lucia del retablo omonimo già nel<br />
medesimo monastero di Peñafel; S. Margherita del retablo di Valldonzella paiono<br />
più paggi e dame di una corte terrena che abitatori del paradiso cristiano. 71<br />
Per Rosa Alcoy e Maria Montserrat Miret il retablo dell’Annunciazione di<br />
Cagliari sarebbe tra le prime opere eseguite dal Mates, anteriore perfino al retablo<br />
di S. Jaume di Vallespinosa, databile intorno al 1406-1410. Le forme «arrotondate<br />
e piene» di S. Antonio, S. Giovanni Battista, S. Margherita o S. Caterina<br />
infatti non hanno ancora perduto l’impronta medievale, e anche il Cristo in pietà,<br />
malgrado il comprensibile espressionismo, non può ancora dirsi inserito del<br />
tutto nel clima internazionale. La tavola del Calvario mostra rispetto ad altre<br />
sue pitture dello stesso tema una maggiore freschezza e la caccia di S. Giuliano<br />
prende come modello immediato la tavola dipinta nella bottega di Pere Serra<br />
per il retablo dei santi Giuliano e Lucia del convento del S. Sepolcro di Saragozza.<br />
Malgrado la sua parziale sfortunata distruzione, il retablo di Cagliari è una delle<br />
costruzioni figurative più singolari dipinte nella bottega di Joan Mates […] Le impertinenti<br />
lacune che profanano la pittura di Mates non devono essere d’ostacolo per<br />
vedere in questa opera alcuni dei frammenti pittorici più teneri del primo Gotico<br />
Internazionale catalano. Non ci deve sedurre lo stato rovinoso della superficie pittorica,<br />
ma ciò che si percepisce al di là di questo come una delle pagine in cui si forgia<br />
la pienezza artistica del maestro di Vilafranca già prima del 1410. Le linee si modulano,<br />
i meandri si fanno più presenti, per creare un’arte sofisticata che non dimentica<br />
la lezione dell’italianismo. 72<br />
Nella tavola con l’Annunciazione sono già presenti le peculiarità formali della<br />
pittura di Mates: l’architettura relegata nello sfondo, ma che sopravanza lateral-<br />
71 N. DE DALMASES – A. JOSÉ I PITARCH, L’art gòtic cit., p. 220.<br />
72 R. ALCOY – M. M. MIRET, Joan Mates cit., p. 47: «Malgrat la seva desafortunada destrucció<br />
parcial, el retaule de Càller és una de les construccions figuratives més singulars que pintà el taller<br />
de Joan Mates […] Les impertinents llacunes que profanen la pintura de Mates no han de ser<br />
obstacle per veure en aquesta obra alguns dels fragments pictòrics més tendres del primer Gòtic<br />
Internacional català. No ens han de seduir l’estat ruinós de la superfície pictòrica sinó el que es<br />
percep més enllà d’aquest com una de les pàgines en què es forja la plenitud artística del mestre<br />
vilafranquí ja abans del 1410. Les línies es modulen, els meandres es fan més presents, per a crear<br />
un art sofisticat que no oblida la lliçó de l’italianisme».<br />
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mente; i personaggi ravvicinati; il dialogo sottolineato dal gioco eloquente delle<br />
mani, cui si unisce qui, sonora come uno squillo di tromba, la mano benedicente<br />
dall’alto di Dio Padre; l’eleganza del ritmo compositivo, con gli ampi mantelli<br />
che si svolgono sinuosi e, consentanei con l’intimità dell’episodio, quasi si saldano<br />
tra loro in una sorta di fusione mistica; il raffinato accordo cromatico e non<br />
ultimo il punteggiato che orla le aureole e le vesti, rialzandone il colore.<br />
Joan Mates il 21 settembre 1415 era testimone di un contratto stipulato da<br />
Berenguer Carròs, conte di Quirra, con Ramon des Feu, decoratore di Barcellona,<br />
per la pittura di uno scudo, 73 mentre lo stesso conte affidava a Pere Alexandre<br />
quella delle bandiere e dei pennoni di una galea. 74<br />
Ad artista di area catalana risale poi il Crocifisso detto di Nicodemo custodito<br />
nel S. Francesco di Oristano. Databile ai primordi del secolo, la scultura<br />
ripropone, attraverso il Devot Christ (1307) della Cattedrale di Perpignano,<br />
il tipo renano del crocifisso gotico doloroso, in cui pietà e orrore si fondono<br />
nella violenza della rappresentazione. Il torace espanso, il ventre incavato, il<br />
capo abbandonato sul petto, l’audace flessione delle gambe e il conseguente<br />
esasperato sporgere delle ginocchia, i piedi lacerati dal lungo chiodo saranno<br />
poi ripresi, dal XVI al XVII secolo, in tutta una serie di Crocifissi scultorii e<br />
pittorici isolani. 75<br />
Un altro tema legato alla Passione di Cristo, diffuso in Sardegna in età<br />
catalana, è il Compianto scultorio. Tra i gruppi più notevoli e meglio conservati<br />
sono quello in terracotta di San Giacomo a Cagliari; l’altro della Cattedrale<br />
della stessa città, in cui alle statue lignee è accostata una Vergine in terracotta<br />
appartenente ad altro gruppo poco più tardo; e, infine, il Compianto di Santa<br />
Maria di Betlem a Sassari. Esemplati su modelli catalani, sono tutti ascrivibili<br />
alla seconda metà del Quattrocento.<br />
Nel primo quarto del XV secolo, un pittore tarragonese, assai prossimo al<br />
Maestro di La Secuita, dipingeva il retablo per la chiesa di San Martino di<br />
Oristano, in cui, come mostrano i due frammenti custoditi nell’Antiquarium<br />
cittadino, le esperienze italiane appaiono ormai calate nel gusto internazionale.<br />
Probabilmente ad Álvaro Pirez, un artista iberico che aveva allora bottega a<br />
Pisa, si affidava, infine, intorno al 1420, l’esecuzione del polittico per la cappel-<br />
73 J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., VII, 1949, reg. 212; J. AINAUD DE LASARTE,<br />
Les relacions econòmiques cit., p. 641.<br />
74 J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., VII, 1949, reg. 10; J. AINAUD DE LASARTE,<br />
Les relacions econòmiques cit., p. 641.<br />
75 A. SARI, Il Cristo di Nicodemo nel S. Francesco di Oristano e la diffusione del Crocifisso<br />
gotico doloroso in Sardegna, in «<strong>Biblioteca</strong> Francescana Sarda», I, n. 2, 1987.<br />
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la della Madonna dei Martiri, nel chiostro di San Domenico a Cagliari, di cui<br />
resta la tavola con la Vergine e il Bambino (ora nella Pinacoteca Nazionale di<br />
Cagliari), di evidente influsso senese. 76<br />
Per quanto le opere citate, mancando i riscontri d’archivio, possano essere<br />
solo attribuite, le fonti documentarie, nondimeno, confermano, anche per il XV<br />
secolo, le numerose commissioni ad artisti catalani e la presenza di alcuni di<br />
essi in Sardegna. Presenza che, seppure momentanea, deve aver contribuito a<br />
indirizzare in senso sempre più ispanico l’arte nell’Isola. Ricordiamo Pere Closa,<br />
pittore barcellonese, che il 26 giugno 1433 affidava la sua bottega di Barcellona<br />
al collega Pere Deuna per il periodo della sua permanenza in Sardegna. 77<br />
Qualche anno prima, nel 1429, Pere Alexandre, il pintor cortiner di cui si è<br />
detto precedentemente, aveva affrancato il suo schiavo sardo, Antoni Despasa,<br />
che negli anni 1437-49 avrebbe esercitato liberamente il mestiere di pittore a<br />
Barcellona. 78<br />
Bernat Martorell, attivo nella capitale catalana dal 1427 alla morte, il 17<br />
ottobre 1452 riceveva da Miquel Salou la somma di 40 lire come acconto per<br />
l’esecuzione di un retablo destinato in Sardegna. 79 Ma egli moriva il 23 dicembre<br />
senza avere, presumibilmente, condotto a termine l’incarico. L’8 marzo 1455<br />
il pittore valenzano Miquel Nadal, che aveva rilevato la sua bottega, riscuoteva<br />
un acconto di 10 lire delle 30 richieste per un retablo da inviare in Sardegna. 80<br />
Non sappiamo se si trattasse della stessa commissione o di un nuovo ordine.<br />
Certo è che, se mai fu eseguita, non esiste più nell’Isola un’opera che si possa<br />
accostare allo stile del Martorell o di Miquel Nadal.<br />
Il 22 febbraio 1455, a Cagliari, i pittori Rafael Tomàs, di Barcellona, e Joan<br />
Figuera, originario di Cervera, si impegnavano con il guardiano dei Minori<br />
Conventuali, Miquel Gros, e con il mercante Francesc Oliver, a realizzare per la<br />
chiesa di Stampace, entro un anno dal contratto, un retablo con le storie di San<br />
Bernardino da Siena. 81<br />
76 R. SERRA, Pittura e scultura cit., pp. 96 e scheda n. 39 a cura di R. Coroneo.<br />
77 J. AINAUD DE LASARTE, La pittura sardo-catalana cit., p. 118.<br />
78 J. MADURELL I MARIMON, El pintor Lluís Borrassà cit., VII, 1949, regg. 10, 174; J. AINAUD DE<br />
LASARTE, Les relacions econòmiques cit., pp. 640-641.<br />
79 J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana cit., p.124.<br />
80 J. GUDIOL – S. ALCOLEA I BLANCH, Pintura gòtica catalana cit., p. 130.<br />
81 C. ARU, Raffaele Thomas e Giovanni Figura, pittori catalani, in «L’Arte», XXIII, 1920, p. 136<br />
ss; C. ARU, La pittura sarda nel Rinascimento, II. I documenti d’archivio, in «Archivio Storico<br />
Sardo», XVI, 1926, pp. 194-195; C. MALTESE, Arte in Sardegna dal V al XVIII, Roma 1962, pp.<br />
203-204; R. SERRA, Retabli pittorici in Sardegna cit., pp. 39-42, scheda 3; R. SERRA, Pittura e<br />
scultura cit., pp. 97-101 e scheda n. 41 di R. Coroneo.<br />
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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />
Al polittico, conservatosi pressoché intatto – ancora nella seconda metà dell’Ottocento<br />
Giovanni Spano lo descrive completo di polvarolo, 82 del quale ora<br />
restano solo nove pannelli con figure di profeti, esposti con il retablo nella Pinacoteca<br />
Nazionale di Cagliari –, intervenne, però, anche un terzo pittore, cui si<br />
devono il guardapols e le due tavole centrali più alte con la Crocifissione e il<br />
Compianto, ad esclusione della figura di Cristo. 83 Al Tomàs, stilisticamente legato<br />
a Lluís Dalmau e al fiamminghismo iberico, spettano il comparto principale con il<br />
Santo sorretto dagli angeli e le sei scene laterali, mentre al Figuera la predella.<br />
Joan Figuera – che, a differenza del Tomàs, partito nel 1456 per Napoli,<br />
rimase a Cagliari sino alla morte avvenuta fra il 1477 e il 1479 84 – fu l’esecutore,<br />
intorno al 1459, anche della pala con i santi Pietro Martire e Marco Evangelista<br />
per la cappella dei Calzettai in San Domenico a Cagliari, in cui appare<br />
ancora evidente la sua dipendenza dai modi di Rafael Tomàs.<br />
Nel retablo per il S. Lucifero, sempre a Cagliari, che può considerarsi la sua<br />
opera più matura e del quale purtroppo rimane la sola predella con sette scomparti<br />
nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari, egli mostra, invece, uno stile più<br />
originalmente personale, in cui prevalgono i contrasti cromatici e le luci riflesse<br />
di ascendenza huguettiana.<br />
A Sassari aveva bottega, alla fine del secolo, un altro pittore catalano, Joan<br />
Barceló, 85 nativo di Tortosa, ma nel 1485 residente a Barcellona. Di lui, che,<br />
sposatosi a Sassari nel 1510, risulta attivo in Sardegna fino al 1516, non resta<br />
che l’ancona firmata per la cappella della Visitazione nel San Francesco di<br />
Stampace, ora nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari. Precedentemente, nel<br />
1488, aveva eseguito un retablo, oggi perduto, per l’altare maggiore della rinnovata<br />
chiesa dei Conventuali di Alghero, 86 e nel 1508 aveva firmato un contratto<br />
per il polittico presbiteriale della Santa Maria del Pi di Barcellona, 87 che<br />
quasi certamente non fu mai realizzato.<br />
L’opera cagliaritana, che nel 1861 era già priva di predella e polvaroli, 88 ci<br />
consente di inserire entro un ambito culturale ancora manifestamente valenzanofiammingo<br />
la produzione del Barceló. È, infatti, strettamente collegabile al<br />
82 G. SPANO, Guida della città cit., pp. 173-174.<br />
83 C. MALTESE, Arte in Sardegna cit., p. 203.<br />
84 G. OLLA REPETTO, Contributi alla storia della pittura sarda nel Rinascimento, in «Commentari»,<br />
XV, 1964, p. 123.<br />
85 C. ARU, La pittura sarda cit., pp. 164-165.<br />
86 C. ARU, Un documento definitivo per l’identificazione di G. Barcelo, in «Annali della Facoltà di<br />
Filosofia e Lettere della R. Università di Cagliari», III, 1931, p. 169 ss.<br />
87 CH. R. POST, A History of Spanish Painting cit., p. 467, n. 13.<br />
88 G. SPANO, Guida della città cit., p. 171 ss.<br />
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fiamminghismo di Joan Rexach, di cui fu probabilmente allievo. All’insegnamento<br />
del maestro valenzano appartengono la Crocifissione – che tuttavia ha<br />
come prototipo quella del retablo della Santa Croce, dipinto da Miquel Alcanyís<br />
tra il 1403 e il 1409 per la cappella di Nicolàs Pujades in San Domenico a<br />
Valencia – e, anche iconograficamente, la Pentecoste e la Sant’Apollonia. Quest’ultima,<br />
poi, mutua dalla Sant’Orsola del retablo di Cubells, compiuto dal<br />
Rexach nel 1458, oltre alla fisionomia e all’attitudine un po’ rigida pure il<br />
frangersi delle vesti.<br />
Della sua bottega faceva parte quasi certamente Nicolau de Liper, pittore di<br />
Sassari, il cui figlio quattordicenne, Francesco, nel 1518, alla morte del padre,<br />
entrava come apprendista a Barcellona dal pittore napoletano Nicolau de<br />
Credensa. 89<br />
Accanto a retabli interamente pittorici continuavano a prodursi quelli che<br />
accoglievano in luogo della tavola centrale la statua del titolare. Ad una struttura<br />
siffatta dovevano appartenere la bella effigie lignea della Vergine col Bambino<br />
del Santuario di Valverde, presso Alghero, opera di un maestro catalano di<br />
educazione nordica databile alla seconda metà del XV secolo, 90 e la Madonna<br />
del Fico in San Pietro di Silki a Sassari. Eseguita pure in Catalogna, ma ai<br />
primissimi del Quattrocento, è la Madonna seduta col Bambino sulle ginocchia<br />
in Santa Maria di Betlem a Sassari. Degli ultimi del secolo è, invece, la grande<br />
statua della Vergine di Bonaria, nell’omonimo Santuario cagliaritano, intagliata<br />
probabilmente a Napoli, o in Sicilia, come farebbe pensare la qualità del legno<br />
utilizzato, il carrubo, da un maestro di cultura ispanica. 91<br />
89 J. AINAUD DE LASARTE, Les relacions econòmiques cit., p. 643.<br />
90 A. SARI, L’arte, in F. MANUNTA – A. SARI, Il Santuario di Valverde tra arte, storia e leggenda,<br />
Alghero 1994, pp. 43-44; vedi pure M. G. SCANO NAITZA, Percorsi della scultura lignea in<br />
estofado de oro dal tardo Quattrocento alla fine del Seicento in Sardegna, in Estofado de oro.<br />
La statuaria lignea nella Sardegna spagnola, Catalogo della mostra, Cagliari 2001, pp. 25-26;<br />
e, nello stesso Catalogo, la scheda 54 a cura di M. Porcu Gaias.<br />
91 C. MALTESE, Arte in Sardegna cit., p. 207, scheda n. 72 a cura di R. Serra; R. SERRA, Per il<br />
‘Maestro della Madonna di Bonaria’, in «Studi Sardi», XXI, 1968-1970, pp. 52-72; EAD.,<br />
Pittura e scultura cit., pp. 68-77, e scheda n. 29 a cura di R. Coroneo.<br />
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L’ARTE IN SARDEGNA NEL XIV-XV SECOLO<br />
1. Joan Mates, Retablo dell’Annunciazione (prima del 1410), Cagliari,<br />
Pinacoteca Nazionale.<br />
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52<br />
2. Joan Mates, Retablo dell’Annunciazione (prima del 1410), Santa Margherita,<br />
part. della predella, Cagliari, Pinacoteca Nazionale<br />
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Aldo Sari
JOAN ROÍS DE CORELLA<br />
E GLI INCUNABOLI DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI CAGLIARI *<br />
Joan Armangué i Herrero<br />
Università di Cagliari<br />
Ci sono pervenuti pochi dati relativi alla presenza dell’opera del valenzano Joan<br />
Roís de Corella in Sardegna. La sua figura, oltretutto, non ha goduto nell’Isola di<br />
quell’interesse che ha permesso di seguire le tracce della poesia di Ausiàs March<br />
e della sua possibile influenza sull’opera dell’algherese Antonio Lo Frasso. 1 Allo<br />
stato attuale degli studi, le uniche testimonianze della presenza di Corella in Sardegna<br />
si limitano agli incunaboli conservati nella <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari<br />
(BUC): il Segon, Terç e Quart del Cartoixà e la Història de la passió, di<br />
Bernat Fenollar, che include testi di Pere Martínez, Joan Escrivà e Joan Roís de<br />
Corella.<br />
Nel presente articolo ci proponiamo di inquadrare questi libri nel contesto<br />
degli incunaboli catalani conservati nella BUC, 2 tralasciando approfondimenti<br />
tecnici di carattere bibliografico, sufficientemente conosciuti. 3<br />
* La prima versione di questo articolo, ora riassunto, fu presentata in catalano in occasione della<br />
«VII Trobada Internacional de Departaments de Català» (XXVI Premis Octubre, Valenza, 21-25<br />
ottobre 1997), dedicata alla Bibliografia i recepció de Joan Roís de Corella a Europa, e successivamente<br />
pubblicata in Estudis sobre Joan Roís de Corella, ed. Vicent Martines, Editorial<br />
Marfil, Alcoi, 1999, pp. 71-82: «Els incunables de la <strong>Biblioteca</strong> Universitària de Càller: Joan<br />
Roís de Corella». Traduzione dal catalano a cura di Luca Scala.<br />
1 Cfr., per esempio, Carla PILUDU, «‘Fortuna’ e ‘fortunale’: il sonetto catalano di Antonio Lo Frasso<br />
nel romanzo pastorale ‘Los diez libros de fortuna d’Amor’», in La Sardegna e la presenza<br />
catalana nel Mediterraneo. Atti del VI Congresso dell’Associazione Italiana di Studi Catalani<br />
(Cagliari, 11-15 ottobre 1995), ed. Paolo Maninchedda, vol. I, CUEC, Cagliari, 1998, pp. 473-<br />
486. Rimandiamo a questo studio per la bibliografia relativa ai rapporti tra i due poeti.<br />
2 Siccome vogliamo fondamentalmente studiare un aspetto della penetrazione della lingua e della<br />
letteratura catalane in Sardegna, ci riferiremo soltanto marginalmente ai testi scritti in latino.<br />
3 Si veda soprattutto la descrizione più completa del fondo di cui ci occupiamo: Franco CONI,<br />
Elenco descrittivo degli incunaboli della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari e di altre biblioteche<br />
sarde, Cagliari, 1954. In questo breve studio sono descritte, oltre alla BUC, la <strong>Biblioteca</strong><br />
Comunale di Alghero (con quattro incunaboli, due provenienti da Firenze e due da Venezia) e<br />
quella dei padri Cappuccini di Cagliari, con quattro incunaboli, tre veneziani e uno di origine<br />
valenzana: Jaime PÉREZ, Commentarium in Psalmos, Valenza, [Alfonso Fernandez de Cordoba y<br />
Gabriel Luis de Arinyo], 1484.<br />
53<br />
<strong>INSULA</strong>, num. 6 (dicembre 2009) 53-65<br />
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54<br />
Joan Armangué i Herrero<br />
Risalgono all’Ottocento i primi studi di carattere bibliografico che citano titoli<br />
catalani tra i fondi custoditi presso la BUC. A Pietro Martini, direttore della biblioteca,<br />
dobbiamo il Catalogo della biblioteca sarda del cav. Ludovico Baille<br />
(1844), 4 naturalmente molto incompleto per quanto riguarda il nostro interesse,<br />
dato che descrive soltanto il fondo donato da quel console spagnolo. Ancor più<br />
incompleti sono la Storia letteraria di Sardegna (1843-1844), di Giovanni Siotto<br />
Pintor, 5 e l’Illustrazione di Sardegna (1877), di L. Falqui-Massida, 6 cosicché dovremo<br />
aspettare l’arrivo nel capoluogo sardo del diplomatico catalano Eduard<br />
Toda i Güell per ottenere un’analisi sistematica degli incunaboli della BUC.<br />
In effetti, la sua Bibliografía española de Cerdeña include un’Appendice con il<br />
«Catálogo de incunables y libros raros españoles de la <strong>Biblioteca</strong> Universitaria de<br />
Cáller». 7 Prima di esporre i risultati della sua ricerca, però, il diplomatico catalano<br />
fa una deprimente descrizione dello stato della biblioteca alla fine del secolo XIX:<br />
No impera en aquel establecimiento todo el orden que sería necesario. No se crea que<br />
la casa sea muy grande ni que tenga gran servicio á que atender. Consta sólo de tres salas,<br />
una llamada grande y dos pequeñas, y cuenta con un Director, un Subdirector y tres ó<br />
cuatro empleados más. Todo este personal está entretenido por una docena de concurrentes,<br />
que parecen muy poco penetrados del objeto á que aquel sitio se consagra: mas este inconveniente<br />
sería pequeño si á lo menos los veinticinco mil volúmenes que allí pueden existir<br />
se encontraran con facilidad cuando se reclaman. (p. 30)<br />
Il «Catálogo de incunables» di Toda – che, seppur incompleto, seguiremo<br />
per questioni di metodo – censisce un totale di quindici titoli, dodici dei quali<br />
provengono dai Paesi Catalani. Di questi dodici, quattro sono in lingua latina:<br />
un’edizione barcellonese e tre di Montserrat. Gli otto incunaboli scritti in lingua<br />
catalana che Toda cita sono, dunque, i seguenti: 8<br />
– Furs e ordinacions fetes per los gloriosos Reys de Arago als Regnicoles de reyne<br />
de Valencia. Valencia, Lambert Palmart, 1482.<br />
4 Pietro MARTINI, Catalogo della biblioteca sarda del cav. Ludovico Baille, Cagliari, 1844. Occorre<br />
inoltre tener conto, dello stesso autore: Sulla <strong>Biblioteca</strong> della Regia Università di Cagliari,<br />
Cagliari, 1845; e Catalogo dei libri rari e preziosi della <strong>Biblioteca</strong> della Università di Cagliari,<br />
Cagliari, 1863, che contiene le interessanti «Memorie sulle vicende tipografiche in Sardegna»<br />
(pp. 127-144).<br />
5 Giovanni SIOTTO PINTOR, Storia letteraria di Sardegna, 4 voll., Cagliari, 1843-1844 [rist.<br />
anastatica: Bologna, 1966].<br />
6 L. FALQUI-MASSIDA, Illustrazione di Sardegna, Napoli, 1877.<br />
7 Eduardo TODA, Bibliografía española de Cerdeña, Tipografía de los Huérfanos, Madrid, 1890<br />
[rist. anastatica: Studio Editoriale Insubria, Milano, 1979], pp. 58-62<br />
8 Trascriviamo fedelmente i titoli proposti da Toda («Incunables españoles», ivi, pp. 58-59), in<br />
modo selettivo e senza tener conto delle note relative alle dimensioni dei libri.<br />
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JOAN ROÍS DE CORELLA E GLI INCUNABOLI DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI CAGLIARI<br />
– Istoria de la passio de nostro senyor Deu Jesu Crist ab algunes altres<br />
piadoses contemplacions segunt lo evangelista San Johan. Parlant per aquell<br />
Pere Martinez e per tots los altres Mossen Bernat Fenollar. Valencia, Jacobo<br />
Devilla, 1493.<br />
– Lo llibre del Consolat. En Barcelona, per Pere Possa, 1494.<br />
– Lo sagramental arromançat ab ses alleguacions en latí. Lleyda, per Henrich Botell,<br />
1495.<br />
– Aegidius Romanus: Lo llibre del regiment dels princeps. Barcelona, per Johan<br />
Lusckner, 1498.<br />
– Ludolfo de Sajonia: Liber de vita Christi, traduccion catalana de Roig de Corella.<br />
Existen de esta obra:<br />
Lo segon del Cartoxa. Valencia, 1500.<br />
Lo tercio del Cartoxa (sin data ni lugar de imprenta).<br />
Lo quarto del Cartoxa. Valencia, 1495.<br />
Il nostro diplomatico spiega nel seguente modo la presenza di incunaboli<br />
nella capitale sarda:<br />
Merced á España, pudo la Isla sarda disfrutar largamente los beneficios que de<br />
la imprenta reportara el continente europeo desde el primer siglo de su invención.<br />
Un ilustre español, Nicolás de Ágreda, llamó al primer impresor á Cáller antes que<br />
feneciera el sigle XV, y desde entonces hasta la hora de la evacuación española no<br />
cesaron las prensas de producir libros para aquel pueblo, ya colocado en el lugar de<br />
las provincias más libres y civilizadas de un gran reino. (p. 9)<br />
In effetti, in un altro punto della sua Bibliografía (n. 111), Eduard Toda dà<br />
conto della seguente edizione cagliaritana:<br />
1. Carta de logu. Caller, por Salvador de Bolonia, 1493. 9<br />
Si tratterebbe di:<br />
Un vol. en 4º con 100 págs. de texto y cuatro de índices. En el único<br />
ejemplar que se conoce de este libro falta la portada [...]. El Director de la<br />
<strong>Biblioteca</strong> de Cáller, Pietro Martini, no llegó a ver este ejemplar, y negó su<br />
existencia, 10 á pesar de señalarla José Cossu en una descripción de Cáller que<br />
9 BUC, inc. 230.<br />
10 In effetti, Pietro Martini volle considerare Nicolau Canyelles, stampatore e vescovo di Bosa<br />
morto nel 1585, come l’iniziatore della tipografia in Sardegna, seguendo la tradizione iniziata<br />
da Francisco Vico, nel secolo xvii, e continuata nel xix da Faustino C. Baille, autore delle<br />
Vicende tipografiche di Sardegna, esposte in dodici qualità di caratteri esistenti nella Reale<br />
Stamperia di Cagliari, Cagliari, 1801; e da Giovanni Spano, al quale dobbiamo la prima biografia<br />
del tipografo del Cinquecento: Notizie documentate intorno a Nicolò Canelles della<br />
città di Iglesias, primo introduttore dell’arte tipografica in Sardegna, Cagliari, 1866.<br />
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publicó en 1780 [...]. 11 Es el primer libro que se supone hecho en Cerdeña por<br />
Salvador de Bolonia á últimos del siglo XV [...]. El ejemplar de este libro que<br />
guardaban los Jesuítas fué sustraído de su Convento en 1773, viajó por Italia, volvió<br />
á Cerdeña á principios de este siglo [XIX], traído por los hermanos Simon, 12 y se<br />
encuentra ahora en la biblioteca del barón Guillot del Alguer.<br />
Invece, secondo Eduard Toda,<br />
Joan Armangué i Herrero<br />
la introducción de la imprenta en Cerdeña efectuóse en el siglo XV, y fué debida á la<br />
iniciativa de un español residente en Cáller, Nicolás de Agreda. El nombre del primer<br />
impresor que trabajó en la Isla es Salvador de Bolonia. La data de la primera impresión<br />
conocida, 1493. (p. 273)<br />
L’ipotesi di Toda relativa all’origine sarda dell’incunabolo della Carta de<br />
logu, priva di qualsivoglia sostegno documentale, restò valida per circa tutta la<br />
prima metà del Novecento: 13 sia la Bibliografia sarda di Raffaele Ciasca 14 ed il<br />
Gesamtkatalog der Wiegendrucke 15 che il Manual del librero hispano-americano,<br />
16 di Antonio Palau, la ritennero verosimile. Venne confutata soltanto nel<br />
1948, quando il personale della <strong>Biblioteca</strong> Nazionale Centrale di Roma, nell’Indice<br />
Generale degli Incunaboli delle biblioteche d’Italia (IGI), 17 attribuì<br />
l’incunabolo a Gabriel Lluís d’Arinyo, che l’avrebbe stampato a Valenza nel<br />
1485. Franco Coni, poco dopo, propose come definitiva l’attribuzione allo<br />
stampatore Pere Miquel, che avrebbe portato a termine l’edizione a Barcellona<br />
attorno all’anno 1492. 18<br />
Marina Romero, nel primo volume del Catalogo degli antichi fondi spagnoli<br />
della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari, 19 riporta le due ultime versio-<br />
11 Cfr. Giuseppe COSSU, Della città di Cagliari, notizie compendiose sacre e profane, Cagliari,<br />
1780, p. 3. L’erudito sardo, però, non afferma, come scrive Toda, «haber visto esta Carta de<br />
Logu en la <strong>Biblioteca</strong> de los PP. Jesuitas», ma semplicemente che vi era custodita.<br />
12 Cfr. Gianfrancesco SIMON, Lettera al cav. Don Tommaso de Quesada [...] sugl’illustri coltivatori<br />
della Giurisprudenza in Sardegna fino alla metà del sec. XVIII, Cagliari, 1801.<br />
13 Riassumiamo di seguito i dati proposti da Luigi BALSAMO, La stampa in Sardegna nei secoli XV<br />
e XVI, con appendice di documenti e annali, Firenze, 1968, pp. 34-35.<br />
14 Raffaele CIASCA, Bibliografia sarda, 5 voll., Roma 1931-1934, n. 3.251.<br />
15 Gesamtkatalog der Wiegendrucke, Leipzig, 1925-1940, n. 9.285.<br />
16 Antonio PALAU Y DULCET, Manual del librero hispano-americano, 28 voll., Barcellona, 1948-<br />
1977, n. 45.681.<br />
17 Indice Generale degli Incunaboli delle biblioteche d’Italia, Roma, 1943, n. 3.671.<br />
18 Franco CONI, Elenco descrittivo degli incunaboli della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari e<br />
di altre biblioteche sarde, Cagliari, 1954, n. 82.<br />
19 Marina ROMERO, «Gli incunaboli e le stampe cinquecentesche», in Ornella GABRIELLI – Marina<br />
ROMERO, Catalogo degli antichi fondi spagnoli della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari,<br />
Pisa, 1982, n. 12, s.v. «Eleonora d’Arborea».<br />
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JOAN ROÍS DE CORELLA E GLI INCUNABOLI DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI CAGLIARI<br />
ni, cosicché, con un gran margine d’incertezza, la Carta de logu passa a dipendere<br />
definitivamente da un editore che opera nei Paesi Catalani.<br />
Così come segnala Luigi Balsamo, niente ci permette di identificare questo<br />
esemplare unico, al quale mancano i fogli 1-26, con quello che descrisse Giuseppe<br />
Cossu nel 1780. Gianfrancesco Simon lo portò dall’Italia continentale<br />
alla fine del Settecento e nel corso degli anni passò tra i beni dell’erede della<br />
«<strong>Biblioteca</strong> Simoniana», il barone Guillot, dal quale l’acquistò, nel 1936, la<br />
<strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari. 20<br />
L’attribuzione che aveva fatto il Toda della Carta de logu a un pressoché<br />
sconosciuto Salvatore di Bologna, però, non era del tutto gratuita. Egli stesso<br />
aveva riscattato dall’oblio un riferimento di Marià Aguiló all’insolito tipografo,<br />
che avrebbe stampato anche a Cagliari, l’1 ottobre 1493, la versione catalana<br />
dello Speculum Ecclesiae di Hugo de Saint Cher, 21 l’unica copia della quale è<br />
conservata presso la <strong>Biblioteca</strong> Provinciale di Palma di Maiorca. 22 Nella sua<br />
nota, Marià Aguiló contraddiceva la versione di Pietro Martini, 23 secondo il<br />
quale l’iniziatore della tipografia in Sardegna sarebbe stato Nicolau Canyelles,<br />
responsabile della prima edizione cagliaritana, dell’anno 1566. E concludeva:<br />
El presente libro, impreso á instancias del aragonés maese Nicolás de Agreda,<br />
adelanta de setenta y tres años el supuesto origen de la estampa en Cerdeña, y señala<br />
á la ciudad de Cáller un lugar entre las que gozaron del trascendental invento en el<br />
mismo siglo XV. Siendo de esperar que las prolijas investigaciones de la bibliografía<br />
logren descubrir alguna otra obra de Salvador de Bolonya, pues no es de presumir<br />
(aunque este tipógrafo no llegase á arraigar en dicha isla) que por un solo opúsculo<br />
estableciese en ella su oficina.<br />
Pur se «las prolijas investigaciones de la bibliografía» a tutt’oggi non hanno<br />
potuto individuare alcun tipo di documento, né storico né bibliografico, che<br />
faccia riferimento né al presunto stampatore né all’aragonese che l’avrebbe<br />
incaricato dell’edizione dell’opuscolo, alla fine del secolo XIX Eduard Toda rac-<br />
20 L. BALSAMO, La stampa in Sardegna cit., p. 35, n. 1.<br />
21 Per lo studio di questo libro, si veda Curt WITTLIN, «La traducció catalana del ‘Speculum ecclesiae’<br />
d’Hug de Saint-Cher, impresa a Càller l’any 1493», in P. MANINCHEDDA (ed.), La Sardegna e la<br />
presenza catalana nel Mediterraneo cit., I, pp. 447-461; si veda anche una descrizione dell’incunabolo<br />
in L. BALSAMO, La stampa in Sardegna cit., n. I, e in Konrad HAEBLER, Bibliografía ibérica del siglo<br />
XV. Enumeración de todos los libros, impresos en España y Portugal hasta el año 1500, con notas<br />
críticas, La Haya-Leipzig, 1903-1917, n. 134.<br />
22 Marià AGUILÓ I FUSTER, Catálogo de obras en lengua catalana impresas desde 1474 hasta<br />
1860, Madrid, 1923, n. 125 [rist. anastatica: Barcelona-Sueca, 1977].<br />
23 Pietro MARTINI, Catalogo dei libri rari e preziosi della <strong>Biblioteca</strong> della Università di Cagliari<br />
cit., pp. 127-144.<br />
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Joan Armangué i Herrero<br />
colse l’appello dell’Aguiló e nella sua Bibliografía española de Cerdeña attribuì<br />
a Salvatore di Bologna non soltanto lo Speculum Ecclesiae (n. 524) ma<br />
anche, come abbiamo visto, la Carta de logu (n. 111). Secondo il nostro diplomatico,<br />
infatti,<br />
era Salvador de Bolonia uno de aquellos impresores ambulantes que en el primer<br />
siglo del arte tipográfico recorrían las ciudades con sus cajas y sus prensas. Deteníanse<br />
donde hallaban trabajo y marchaban á otra parte cuando lo habían agotado. Así se<br />
explica la desaparición de este impresor de Cáller y el hecho de que á ciencia cierta<br />
sólo conozcamos dos libros por él publicados. Sin embargo, es de presumir que<br />
estampara otros, ya que en una ciudad religiosa como Cáller no debió dejarse de<br />
aprovechar su permanencia para dotar al pueblo de obras de oración y de enseñanza<br />
cristiana: y si éstas no han sido halladas hasta ahora, débese á que quizás fenecieron<br />
por causa de su particular carácter, que las hacía objeto de diario uso en manos de los<br />
devotos. (p. 273)<br />
È stato messo in dubbio sia questo vantaggio che la città di Cagliari avrebbe<br />
ricavato dalla presenza di un tipografo ambulante, a causa della precaria situazione<br />
economica del Regno, sia la reale esistenza di editore e tipografo, al quale<br />
i pericoli della traversata del mare avrebbero assolutamente sconsigliato, così<br />
come scrive Balsamo, di far rotta verso l’isola. Non è questo, però, il luogo per<br />
occuparci di tale questione, per la quale rimandiamo agli studi specializzati. 24<br />
Sin dal primo momento dello stabilirsi a Cagliari di una colonia catalana, a<br />
partire dall’anno 1327, i conquistatori sentirono la necessità, logicamente, di<br />
accompagnare le nuove leggi che introducevano nell’isola con i testi legali che<br />
dovevano giustificarle. Non deve sorprendere, quindi, di trovare a Cagliari testi<br />
fondamentali del diritto catalano, che in alcuni casi erano già circolati in forma<br />
manoscritta, come i seguenti incunaboli:<br />
2. Consolat de mar. Barcelona: Pere Posa, 1494. 25<br />
3. Usatges de Barcelona. Barcelona: Pere Miquel e Diego Gumiel, 1495. 26<br />
4. Furs del Regne de València. Valenza: Lambert Palmart, ed. Gabriel Lluís d’Arinyo,<br />
1482. 27<br />
24 C. WITTLIN, «La traducció catalana del ‘Speculum ecclesiae’ d’Hug de Saint-Cher» cit.; L. BAL-<br />
SAMO, La Stampa in Sardegna cit.; ID., I primordi dell’arte tipografica a Cagliari, «La<br />
Bibliofilia», LXIV (1964), pp. 1-31.<br />
25 BUC, inc. 84 (ex libris di Montserrat Rosselló); Aguiló, 1.325; Coni, 73; Haebler, 164; IGI,<br />
3.179; Palau, 59.522; Romero, 11.<br />
26 BUC, inc. 199 (ex libris di Montserrat Rosselló); Coni, 209; Haebler, 652; IGI, 1.248; Romero, 35.<br />
27 BUC, inc. 71 (ex libris di Montserrat Rosselló); Coni, 92; Haebler, 282bis; IGI, 10.047; Romero, 15.<br />
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JOAN ROÍS DE CORELLA E GLI INCUNABOLI DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI CAGLIARI<br />
In effetti, alla metà del Trecento troviamo commercianti catalani residenti in<br />
modo permanente in tre dei quattro Giudicati sardi. L’intensità di questo rapporto<br />
economico portò alla creazione, a Cagliari, del Consolato catalano d’oltremare,<br />
del quale abbiamo notizie dal 1301. Anche se pochi anni dopo, nel<br />
1313, come conseguenza delle tensioni con Pisa, i Catalani furono espulsi dalla<br />
città, li ritroviamo nuovamente insediati il 10 dicembre 1321, quando Giacomo<br />
il Giusto dettò una serie di norme molto esplicite relative al consolato. 28 Nel<br />
1340, con la capitale già occupata, un solo console si era stabilito nel Regno di<br />
Sardegna; a partire da questo momento, però, così come riporta Antoni de<br />
Capmany, l’istituto consolare si diffuse rapidamente, di modo che in poco tempo<br />
furono costituiti già quattro consolati nell’isola. 29 Per forza di cose, quindi, i<br />
primi codici manoscritti relativi al Consolat de mar dovettero cominciare a circolare<br />
nel Trecento: la prima testimonianza di questo fenomeno, però, è il ms.<br />
80 della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari, che risale al secolo XV. 30<br />
Risale al secolo precedente, invece, il codice degli Usatges de Barcelona<br />
conservato nella BUC (ms. 6). Il vescovo di Bosa e grande umanista del Cinquecento,<br />
Giovanni Francesco Fara, ne aveva posseduto una copia, ma naturalmente<br />
non possiamo assicurare che si tratti della stessa che la BUC custodisce<br />
attualmente. Ad ogni modo, è interessante tener conto che, nel catalogo della<br />
sua biblioteca, constano, nella sezione intitolata «In iure municipali», questi<br />
singolari «Usatici Barchinonie manuscripti, latine». 31 Eduard Toda non include<br />
nel suo «Catálogo» l’incunabolo degli Usatici conservato nella BUC, che si<br />
deve attribuire ai tipografi barcellonesi Pere Miquel e Diego Gumiel, con data<br />
20 febbraio 1495. Di quest’edizione si conoscono soltanto quattro copie in Italia:<br />
quella di cui ora ci occupiamo e quelle custodite nelle Biblioteche Nazionali<br />
di Napoli, Casanatense di Roma e Lucchesiana di Agrigento.<br />
28 Luisa D’ARIENZO, Una nota sui consolati catalani in Sardegna nel secolo XIV, in «Annali della<br />
Facoltà di Scienze Politiche», III (1977-78), pp. 66-68.<br />
29 Antonio DE CAPMANY, Libro del Consulado del Mar. Edición del texto original catalán y traducción<br />
castellana, a cura di Josep Maria Font i Rius, Barcelona, 1965.<br />
30 Si veda una descrizione di questo manoscritto in Stefania BUSIA, ‘Llibre del Consolat de Mar’.<br />
Descrizione del ms. 80 della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari, in «Revista de l’Alguer», VI,<br />
n. 6 (1996), pp. 23-37. Si tratta di un riassunto, privo dell’edizione critica, della tesi di laurea<br />
dell’autrice, discussa in data 10 dicembre 1995 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università<br />
di Cagliari, sotto la direzione della prof.ssa Luisa D’Arienzo.<br />
31 Enzo CADONI – Raimondo TURTAS, Umanisti Sassaresi del ‘500: le biblioteche di Giovanni<br />
Francesco Fara e Alessio Fontana, Sassari, 1988, n. 723. Per quanto riguarda la biblioteca del<br />
vescovo di Bosa, cfr. anche Salvatore FRASCA, Joannis Francisci Farae Bibliotheca, Quartu<br />
Sant’Elena, 1989.<br />
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Infine, faremo riferimento solo brevemente ai Furs de València, dei quali si<br />
conserva nella BUC l’incunabolo dovuto a Lambert Palmart, stampato a Valenza<br />
nel 1482, su incarico di Gabriel Lluís d’Arinyo. Si tratta dell’unica copia conservata<br />
in Italia, alla quale si riferisce Palau (n. 95.613) nel descrivere questa<br />
«espléndida edición» dei Furs.<br />
Occorre tener conto che tutti i testi finora descritti – i due codici manoscritti<br />
ed i tre incunaboli – riportano l’ex libris di Montserrat Rosselló. 32 Ci paiono<br />
poco verosimili le due teorie esposte da Giuseppina Cossu, secondo la quale<br />
o anche,<br />
Joan Armangué i Herrero<br />
si può sostenere che questi preziosi codici siano stati introdotti in Sardegna dal Rossellò<br />
direttamente dalla Spagna;<br />
che questi codici si trovassero già nell’Isola e fossero appartenuti alla sua famiglia<br />
che probabilmente aveva portato con sé questa biblioteca o parte della stessa, durante<br />
quell’imponente movimento migratorio da e verso la Sardegna.<br />
Infatti, la stessa autrice stabilisce un’eccezione a quest’ipotesi, ricordando<br />
la presenza degli Usatges de Barcelona nella biblioteca di Giovanni Francesco<br />
Fara; ed abbiamo già visto che il Consolat de mar, dal XIV secolo, doveva essere<br />
un testo fondamentale tra i funzionari consolari stabiliti nelle colonie catalane<br />
della Sardegna.<br />
Grazie a una serie di testi pubblicati da J. Madurell e J. Rubió nella loro raccolta<br />
di Documentos para la historia de la imprenta y librería en Barcelona, possiamo<br />
ricostruire, in modo sufficientemente approssimato, alcuni aspetti relativi al commercio<br />
di libri catalani a Cagliari, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento.<br />
Il notaio Galceran Ram, catalano residente nella capitale del Regno, firmò<br />
nel maggio del 1492 una «comandam librorum de stampa» indirizzata allo<br />
stampatore barcellonese Pere Posa, 33 lo stesso che due anni più tardi, come abbiamo<br />
visto, doveva pubblicare la copia del Consolat de mar conservata nella BUC.<br />
32 Montserrat Rosselló, proprietario di una buona parte degli incunaboli che in questa sede prendiamo<br />
in considerazione, nacque a Cagliari alla metà del Cinquecento. La sua conoscenza del<br />
catalano doveva essere perfetta, giacché, oltre ad essere questa la lingua della classe alta della<br />
città, alla quale apparteneva, egli stesso era figlio di un maiorchino immigrato. Fu nominato<br />
giudice della Reale Udienza nel 1593, e poco dopo Visitatore generale dell’isola. Esiste un’ottima<br />
descrizione della sua biblioteca, che contiene la trascrizione dell’inventario: Enzo CADONI –<br />
Maria Teresa LANERI, Umanisti e cultura classica nella Sardegna del ‘500. 3: L’inventario dei<br />
beni e dei libri di Monserrat Rosselló, Sassari, 1994, pp. 11-146.<br />
33 J. MADURELL – J. RUBIÓ, Documentos para la historia de la imprenta y librería en Barcelona,<br />
Barcelona, 1955, p. 202.<br />
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JOAN ROÍS DE CORELLA E GLI INCUNABOLI DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI CAGLIARI<br />
Sappiamo, inoltre, che nel 1504 risiedeva in Sardegna il libraio Galceran<br />
Sala e che nel 1511 vi morì il tedesco Heinrich Esquirol, 34 libraio di Barcellona<br />
che si era trasferito nell’isola per portare a termine la vendita di una partita di<br />
libri che l’anno prima gli aveva affidato il lionese Jean Clein: proprio lo stesso<br />
tipografo responsabile nel 1499 dell’edizione dei Sermones di san Vincenzo<br />
Ferrer, raccolti da Simon Bertherius, una copia dei quali era appartenuta al nobile<br />
cagliaritano Ignasi Aimerich, così come possiamo leggere nell’ex libris<br />
dell’incunabolo ancor’oggi conservato nella BUC. 35<br />
Bisogna tener conto che, secondo Madurell, Esquirol poteva aver fatto parte<br />
del personale di Joan Luschner che operava a Montserrat. Di questo stampatore<br />
si conservano nella BUC i seguenti incunaboli:<br />
5. BENEDICTUS [S.]: Regula. Montserrat, 1499. 36<br />
6. BONAVENTURA [S.]: De instructione novitiorum. De quattuor virtutibus<br />
cardinalibus. Montserrat, 1499. 37<br />
7. Aegidius COLUMNA: Epistola de frare Egidi roma al Rey de França sobre lo libre<br />
del regimen de princeps. Barcelona: Frank Ferber, 1498. 38<br />
8. Franciscus GARCIA DE CISNEROS, Exercitatorium vitae spiritualis. Directorium<br />
horarum canonicarum. Montserrat [c. 1500]. 39<br />
Tutti e quattro gli incunaboli recano l’ex libris di Montserrat Rosselló. Apparteneva<br />
pure alla biblioteca di questo umanista cagliaritano:<br />
9. Climent SÁNCHEZ DE VERCIAL: Lo sagramental arromançat ab ses alleguacions en<br />
latí. Lleida: Heinrich Botel, 1495. 40<br />
Recano invece quello del collegio gesuitico di Cagliari gli altri due unici<br />
incunaboli provenienti dalla Catalogna conservati nella BUC:<br />
34 Ivi, p. 387.<br />
35 BUC, inc. 175. Coni, 212; IGI, 10.285; Romero, 37.<br />
36 BUC, inc. 182 (ex libris di Montserrat Rosselló). Coni, 33; Gesamtkatalog, 3.830; Haebler, 46;<br />
IGI, 1.455; Palau, 256.322; Romero, 7.<br />
37 BUC, inc. 181 (ex libris di Montserrat Rosselló). Coni, 50; Gesamtkatalog, 4.736; Haebler, 62;<br />
IGI, 1.892; Palau, 290.245; Romero, 9. Secondo Palau, «consta se tiraron 800 ejemplares y<br />
existe en varias <strong>Biblioteca</strong>s públicas».<br />
38 BUC, inc. 51 (ex libris di Montserrat Rosselló). Aguiló, 1.884; Coni, 72; Gesamtkatalog, 7.221;<br />
Haebler, 157; IGI, 3.096; Palau, 276.511; Romero, 10. Secondo Palau, si tratta della ristampa di<br />
Barcelona dell’anno 1480.<br />
39 BUC, inc. 183-184 (ex libris di Montserrat Rosselló). Coni, 68; Haebler, 151; IGI, 3.003; Palau,<br />
98.633, 99.636; Romero, 17.<br />
40 BUC, inc. 54 (ex libris di Montserrat Rosselló). Coni, 183; Haebler, 600; IGI, 10.148; Romero, 29.<br />
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Joan Armangué i Herrero<br />
10. ALBERTUS MAGNUS [S.]: Philosophia pauperum [Lleida: Heinrich Botel, c. 1485]. 41<br />
11. SAMUEL DE FEZ [SAMUEL MAROCCANUS]: Epistola ad rabbi Isaac contra Judaeorum<br />
errores, trad. Alphonsus Boni Hominis. PONTIUS PILATUS, Epistola Tiberio<br />
[Barcelona: Paul Hurus e Joan de Salisburgo, c. 1475. 42<br />
La pochezza dei dati relativi alla presenza di librai catalani in Sardegna, che<br />
tuttavia gettano un po’ di luce sul commercio di libri con la Catalogna, diventa<br />
un vuoto documentale completo se consideriamo il caso valenzano. Nessuna<br />
notizia, in effetti, fa chiarezza sulla presenza nella BUC dei seguenti incunaboli<br />
valenzani:<br />
12. AESOPUS: Fabulae, trad. Laurentius Valla. Lope de la Roca, 1495. 43<br />
13. BERNARDUS [S.] CLAREVALLENSIS: Epistola de gubernatione rei familiaris. Nikolaus<br />
Spindeler [c. 1495]. 44<br />
14. PHALARIS: Epistolae. Nikolaus Spindeler, 1496. 45<br />
15. BERNAT FENOLLAR: Historia de la passió. [Peter Hagenbach e Leonard Hutz], ed.<br />
Jaume de Vila, 1493. 46<br />
Per quanto riguarda i libri di Esopo e di san Bernardo di Chiaravalle, bisogna<br />
considerare che Palau si riferisce unicamente alle copie conservate nella<br />
BUC allorché descrive le rispettive edizioni (n. 81.831 e n. 290.148). Giova<br />
ricordare, ancora, che nell’inventario della biblioteca del nobile algherese<br />
Bartolomeo Simon, 47 padre di quel Gianfrancesco che alla fine del XVIII secolo<br />
portò dall’Italia continentale una copia della Carta de logu, vi figura un «Isopo,<br />
41 BUC, inc. 113. Coni, 3; Gesamtkatalog, 710; Haebler, 9; IGI, 219; Palau, 5.204; Romero, 2.<br />
Secondo Palau, «Ernst examinó ejemplares en las <strong>Biblioteca</strong>s Nacional de Madrid, Provincial<br />
de Huesca, y Catedral de Zaragoza».<br />
42 BUC, inc. 200.Coni, 181; IGI, 8.576; Palau, 289.196; Romero, 27. Secondo Palau, nel 1890<br />
Miquel Roura aveva descritto una copia di questo incunabolo, «como perteneciente a la <strong>Biblioteca</strong><br />
de Mahón». Franco Coni afferma che si tratta di «uno dei primi libri stampati in Ispagna,<br />
forse il primo stampato a Barcellona».<br />
43 BUC, inc. 131. Coni, 2; Gesamtkatalog, 325; Haebler, 5; IGI, 79; Romero, 1.<br />
44 BUC, inc. 132 (ex libris di Montserrat Rosselló). Coni, 33; Gesamtkatalog, 3.830; Haebler, 46;<br />
IGI, 1.455; Romero, 7.<br />
45 BUC, inc. 130 (ex di libris Montserrat Rosselló). Coni, 157; Haebler, 548; IGI, 7.703;<br />
Romero, 24.<br />
46 BUC, inc. 143 (ex libris di Montserrat Rosselló). Aguiló 893; Coni, 87; Haebler, 259; IGI,<br />
3.819; Romero, 14.<br />
47 Per quanto riguarda i dati di carattere strettamente biografico, rimandiamo il lettore a Pasquale<br />
TOLA, Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, ossia storia della vita pubblica<br />
e privata di tutti i sardi che di distinsero per opere, azioni, talenti, virtù e delitti, 3 voll., Torino,<br />
1837-1838 [rist. anastatica: Bologna, 1966], s.v.; e Beppe SECHI COPELLO, Conchiglie sotto un<br />
ramo di corallo. Galleria di ritratti algheresi, Alghero, 1987, s.v.<br />
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JOAN ROÍS DE CORELLA E GLI INCUNABOLI DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI CAGLIARI<br />
in spagnuolo: Favole». 48 L’espressione «in spagnuolo» può corrispondere sia al<br />
catalano che al castigliano, dal momento che il compilatore dell’inventario la<br />
utilizza anche nel caso del Prior, ossia il Llibre dels secrets de Agricultura,<br />
casa Rustica y Pastoril, di fra Miquel Agustí, evidentemente redatto in catalano.<br />
Per quanto riguarda la Història de la passió (Lo Passi en cobles), Palau si<br />
riferisce unicamente alle copie delle biblioteche Universitaria di Barcellona, di<br />
Valenza e Colombina di Siviglia (n. 87.667), senza ricordare quella della BUC.<br />
È così che troviamo il primo riferimento relativo alla presenza dell’opera di<br />
Roís de Corella in Sardegna. Effettivamente, Lo Passi en cobles include una<br />
Oracio a la sacratissima verge maria tenint son fill deu Jesus en la falda deuallat<br />
dela creu, ordenada per lo molt Reuerent mestre Mossen Corella; orazione che<br />
venne anche riprodotta alla fine dell’ultimo libro del Cartoixà.<br />
Oltre ai tre volumi di questa opera custoditi nella BUC, dobbiamo tener conto<br />
che nella biblioteca del patrizio algherese Bartolomeo Simon, alla quale ci siamo<br />
già riferiti, figurava una «Vita di Sant’Anna, in spagnuolo», attualmente irreperibile.<br />
Così come segnalato più sopra, il copista dell’inventario non distingueva tra<br />
catalano e castigliano quando considerava redatti «in spagnuolo» i libri che registrava,<br />
di modo che in questo caso poteva riferirsi sia al libro di Juan de Robles,<br />
La vida y excelencias y miraglos de Santa Anna, 49 che a quello di Joan Roís de<br />
Corella, Historia de la gloriosa sancta Anna, dovuto allo stampatore valenzano<br />
Lambert Palmart, che dovremmo datare tra gli anni 1480-1485. 50<br />
Conviene ricordare che per la stesura di questa Vida (1461-1471) Roís de<br />
Corella aveva seguito la Legenda aurea di Iacopo da Varazze, dove la Madonna<br />
diventa sorellastra di Maria di Cleofa e, contemporaneamente, di Maria Salomè: 51<br />
48 L’edizione più antica delle Faules di Esopo che cita Palau è Esta es la vida del ysopet con sus<br />
fabulas hystoriadas, Çaragoça, Iohan hurus alaman de costancia, 1489 (n. 81.877). La versione<br />
catalana più antica è: Llibre del savi e clarissim fabulador Ysop, Barcelona, Joan Carles Amorós,<br />
1550) (n. 81.970; Aguiló, 2.154). Cfr. l’inventario dei libri di Bartolomeo Simon in Joan ARMANGUÉ,<br />
Llengua i cultura a l’Alguer durant el segle XVIII: Bartomeu Simon, Barcelona, 1996, Appendice 6.<br />
49 Juan DE ROBLES, La vida y excelencias y miraglos de Santa Anna y dela gloriosa nuestra señora<br />
Santa Maria hasta la edad de quatroze años, Sevilla, Jacobo Croberger, 1511. Palau, 271.161.<br />
50 Palau, 362.931; Aguiló, 1.071.<br />
51 Conosciamo, oltre a quello di Maria Maddalena, alcuni dei nomi delle donne galilee che «che<br />
guardavano da lontano», donne «che avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo» (Mt 27,<br />
55-56): «Giovanna, moglie di Cusa, sovrintendente di Erode, Susanna e molte altre», fra cui<br />
«Maria di Giacomo», secondo il vangelo di Luca (Lc 8, 3; 24, 10); e secondo Matteo e Marco<br />
«Maria madre di Giacomo e di Giuseppe e la madre dei figli di Zebedeo» (Mt 27, 56), ossia<br />
«Maria di Cleofa» la prima (Gn 19, 25), «Salomè» la seconda (Mc 15, 40). In mezzo a questa<br />
complessità di figure femminili, gli unici nomi comuni ai quattro vangeli appartengono a Maria<br />
Maddalena e Maria di Cleofa, le quali, talvolta con «Maria Salomè», formano il gruppo conosciuto<br />
dalla tradizione come «le tre Marie».<br />
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Joan Armangué i Herrero<br />
si chiarisce così la triade delle Marie e il grado di parentela che univa Gesù ad<br />
alcuni apostoli, fra cui Giovanni Evangelista – marito della Maddalena! 52 Anche<br />
il certosino Ludolfo di Sassonia nella sua famosa Vita Christi, tradotta in<br />
catalano da Roís de Corella, segue questa antica tradizione, per cui nel capitolo<br />
XXV del primo libro, la Maddalena era infatti la sposa delle nozze di Cana, e<br />
san Giovanni Evangelista lo sposo.<br />
L’Indice Generale degli Incunaboli delle biblioteche d’Italia descrive nel<br />
seguente modo i tre incunaboli di Roís de Corella della BUC:<br />
16. LUDOLPHUS DE SAXONIA: Vita Christi, trad. Joan Roís de Corella. València [Christoph<br />
Kofmann], 1500 [= Segon del Cartoixà]. 53<br />
17. LUDOLPHUS DE SAXONIA: Vita Christi, trad. Joan Roís de Corella. València, Lope de<br />
la Roca, 1495 [= Terç del Cartoixà]. 54<br />
18. LUDOLPHUS DE SAXONIA: Vita Christi, trad. Joan Roís de Corella [= Quart del<br />
Cartoixà, 1495]. 55<br />
È probabile che alcune delle descrizioni di questi incunaboli non siano state<br />
compilate in seguito alla diretta osservazione degli originali. Coni, per esempio,<br />
attribuisce la traduzione di queste Meditationes vitae Christi a «Jean Roiz».<br />
D’altra parte, Ornella Gabbrielli e Marina Romero fanno sapere al lettore del<br />
loro catalogo che «per la descrizione degli incunaboli, attualmente non<br />
consultabili per i lavori di restauro in corso nella <strong>Biblioteca</strong>, si è ricorso alle<br />
indicazioni dell’Indice Generale degli Incunaboli delle biblioteche d’Italia». 56<br />
Le descrizioni esistenti, d’altra parte, non tengono conto di certe note manoscritte<br />
che possono costituire un buon documento sugli usi linguistici dei primi<br />
possessori degli incunaboli. Il Terç del Cartoixà, per esempio, è pieno di avvisi<br />
come il seguente: «Lo present evangeli se diu lo segon dia de coresma». In<br />
queste note troviamo spesso gravi incertezze ortografiche, con una possibile<br />
influenza sia castigliana («domigna») che italiana («della»).<br />
52 Cfr. la versione italiana del capitolo relativo a santa Maria Maddalena (§ XCVI) in Iacopo DA<br />
VARAZZE, Legenda aurea, Einaudi, Torino, 1995, pp. 516-526.<br />
53 BUC, inc. 58 (ex libris di Montserrat Rosselló). Aguiló, 883; Coni, 123; Haebler, 375; IGI,<br />
5.881; Romero, 23.<br />
54 BUC, inc. 59 (ex libris di Montserrat Rosselló). Aguiló, 884; Coni, 121; Haebler, 375; IGI,<br />
5.880; Romero, 21.<br />
55 BUC inc. 60 (ex libris di Montserrat Rosselló). Aguiló, 880, 881, 885; Coni, 122; Haebler, 377;<br />
IGI, 5.880; Romero, 22.<br />
56 O. GABRIELLI – M. ROMERO, Catalogo degli antichi fondi spagnoli della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria<br />
di Cagliari, Pisa, 1982, p. 16.<br />
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JOAN ROÍS DE CORELLA E GLI INCUNABOLI DELLA BIBLIOTECA UNIVERSITARIA DI CAGLIARI<br />
Tornando a Montserrat Rosselló, antico proprietario di questi inconaboli,<br />
bisogna tener conto che, sfortunatamente, nella copia dell’inventario della sua<br />
biblioteca, 57 ordinato alfabeticamente, manca un quaderno (quello che conteneva<br />
una parte delle lettere «L» e «M»), e non vi constano le traduzioni di Joan<br />
Roís de Corella, probabilemente classificate sotto il nome dell’autore della Vita<br />
Christi, Ludolfo di Sassonia.<br />
57 Cfr. E. CADONI – M. T. LANERI, Umanisti e cultura classica nella Sardegna del ‘500. 3: L’inventario<br />
dei beni e dei libri di Monserrat Rosselló cit.<br />
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IL FASCISMO AD ALGHERO.<br />
ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />
Marcello A. Farinelli<br />
Universitat Pompeu Fabra – Barcellona<br />
Per molto tempo la storia del fascismo è stata interpretata secondo la prospettiva<br />
del contrasto politico generale tra destra e sinistra, tra forze rivoluzionarie o<br />
progressiste e forze reazionarie o conservatrici. 1 Interessarsi alla storia di Alghero<br />
durante il regime fascista risulta, da questa prospettiva, poco interessante, ed in<br />
effetti l’opinione diffusa è che, sempre da questo punto di vista, ad Alghero non<br />
sia successo praticamente niente. Se invece consideriamo l’importanza del fascismo<br />
per quanto riguarda l’identità degli italiani, tra i quali gli algheresi, ecco che<br />
si scopre come durante quegli anni qualcosa, in effetti, sia successo, e questo<br />
qualcosa era legato alla maniera di identificarsi totalitaria proposta dal fascismo. 2<br />
Fino ad ora, però, sembra che questo aspetto, tanto nella macrostoria del<br />
fascismo italiano, come nella microstoria di Alghero, sia stato poco considerato,<br />
e per rimanere nel nostro ambito, quello della microstoria, possiamo citare<br />
due autori che hanno individuato in questo un periodo importante, anche se non<br />
si riferiscono esplicitamente al concetto di identità.<br />
Rafael Caria, sia in alcune sue opere, sia durante le occasioni nelle quali ho<br />
avuto il privilegio di parlargli, sembra riconoscere nel regime fascista un momento<br />
nel quale si iniziò ad affermare una certa colpevolizzazione/autocolpevolizzazione<br />
di chi parlava il catalano di Alghero, un primo passo verso un<br />
cambio nelle abitudini linguistiche della popolazione. 3 Sulla stessa lunghezza<br />
d’onda rimane Eduard Blasco i Ferrer, che sottolinea come fu durante il fascismo<br />
che si cominciò ad imporre, nelle classi popolari, l’italiano, allo stesso<br />
tempo in cui cresceva il numero dei nuovi arrivati che, in prevalenza sardi,<br />
emiliani e veneti, incrinavano la compattezza linguistica del territorio. 4<br />
1 Per una rassegna critica delle interpretazioni classiche del fascismo, cfr.: R. DE FELICE, Le interpretazioni<br />
del fascismo, Bari, Laterza, 1974 (1969).<br />
2 Sull’importanza dei legami tra fascismo, nazionalismo ed identità, cfr.: E. GENTILE, Le origini<br />
dell’ideologia fascista, Bologna, Il Mulino, 1996 (1975); La Grande Italia, Bari-Roma, Laterza,<br />
2006, pp. 155-241.<br />
3 R. CARIA (ed.), L’Alguer. Un popolo catalano d’Italia, Sassari, Gallizzi, 1981, pp. 28-30.<br />
4 E. BLASCO I FERRER, Il catalano di Alghero nei secoli XIX e XX, in A. MATTONE – P. SANNA (eds.),<br />
Alghero, la Catalogna, il Mediterraneo, Sassari, Gallizzi, 1994, pp. 691-699 (si veda p. 692).<br />
67<br />
<strong>INSULA</strong>, num. 6 (dicembre 2009) 67-92<br />
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68<br />
I due autori citati si riferiscono alla lingua, ed alle abitudini linguistiche<br />
della popolazione, nel tentativo di spiegare come questa abbia potuto passare<br />
dalla catalanofonia prevalente degli anni venti all’italianofonia dei nostri tempi;<br />
il nostro interesse risiede nell’identità, per la quale la lingua risulta essere molto<br />
importante, anche se è solo uno dei fattori che la costituiscono. Il nostro concetto<br />
di identità, è bene specificarlo, non è quello di una realtà fissa e predeterminata,<br />
ma piuttosto quello di una costruzione, in buona parte culturale, che è soggetta<br />
a mutazioni nel tempo, che può essere accettata o meno da un individuo e che<br />
può essere, in qualche modo, manipolata. Questa costruzione è come una lente<br />
attraverso la quale guardare il mondo, e si trova alla base di diverse visioni della<br />
realtà e di diversi movimenti politici, in particolar modo quelli ispirati, genericamente,<br />
al nazionalismo; tra questi possiamo includere tanto il catalanismo,<br />
ossia il movimento politico e culturale nato in Catalogna durante il XIX secolo in<br />
difesa della specificità di quelle terre rispetto al resto della Spagna, quanto quello<br />
fondato da Benito Mussolini quasi un secolo più tardi. Malgrado le differenze<br />
enormi, entrambi ponevano l’identità al centro del proprio discorso politico.<br />
In base a questa premessa intendiamo interpretare il fenomeno fascista ad<br />
Alghero, ed in particolare cercheremo, in questo articolo, di vedere se la dittatura<br />
delle camicie nere ha cercato d’influire o no sull’identificazione degli algheresi,<br />
e se ha condotto o meno una repressione, sia della lingua che di quanti difendevano<br />
la catalanità di questo territorio. Una risposta che ci porta, inevitabilmente,<br />
a considerare quale posizione tennero i catalanisti algheresi (o algheresisti<br />
secondo alcuni), ovvero quel ridotto gruppo di persone che, seguendo l’esempio<br />
dei catalanisti continentali, si dedicava, sin dalla fine del XIX secolo, alla<br />
valorizzazione ed al recupero della lingua locale (algherese o catalano di<br />
Alghero), e quindi, più o meno coscientemente, contribuiva a formare l’identità<br />
catalana di questa cittadina periferica.<br />
La politica del regime rispetto alle minoranze linguistiche<br />
Marcello A. Farinelli<br />
Uno dei propositi del fascismo era la realizzazione piena degli ideali del Risorgimento,<br />
e quindi il movimento si propose fin dalle sue origini di portare a<br />
termine sia il processo di unificazione dei territori considerati italiani, sia quello<br />
di diffusione dell’identità nazionale; in effetti la nascita del Regno d’Italia (1861)<br />
fu interpretata da alcune correnti politiche come un tradimento degli ideali risorgimentali,<br />
poiché non solo una parte dei territori rivendicati come nazionali<br />
si trovava in mani straniere (in particolare Venezia, annessa nel 1866, l’Istria e<br />
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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />
la Dalmazia, parzialmente annesse dopo la Grande Guerra, e infine Nizza, la Savoia<br />
e la Corsica, che facevano parte, come oggi, della Repubblica Francese), ma<br />
soprattutto non si verificò quella rivoluzione nazionale della quale parlavano soprattutto<br />
mazziniani e repubblicani, e che avrebbe dovuto coinvolgere le masse<br />
nel processo di unificazione con la conseguenza fondamentale di popolarizzare<br />
un’identità omogenea per tutto il Paese. Il risultato di questa mancata partecipazione<br />
delle masse fu che, quando il fascismo prese il potere, gli italiani, nonostante<br />
si trovassero uniti da circa sessant’anni, in buona parte faticavano ancora a<br />
sentirsi come cittadini di un’unica nazione; la lingua italiana, per esempio, era<br />
effettivamente diffusa soltanto tra le classi dirigenti e tra le popolazioni delle grandi<br />
città, mentre la maggior parte della popolazione parlava una serie di idiomi diversi<br />
dall’italiano (ufficialmente considerati dialetti), ma soprattutto, a parte la Prima<br />
Guerra Mondiale terminata pochi anni prima, non esisteva un avvenimento storico<br />
intorno al quale gravitasse l’orgoglio nazionale; l’Italia più che una nazione<br />
con minoranze era una nazione con una identità minoritaria, quella italiana, dentro<br />
un mare di identità di dimensioni, origini e consistenza molto diverse tra loro,<br />
che ancora la nuova nazione doveva integrare ed assorbire.<br />
Il fascismo, dunque, a partire da questa interpretazione del Risorgimento<br />
come atto mancato si propose di completare l’opera, e come aveva indicato<br />
Massimo D’Azeglio immediatamente dopo l’unificazione, Mussolini si propose<br />
letteralmente di «fare gli italiani»; per questo motivo, una volta al potere, il<br />
Duce mise in marcia una politica d’italianizzazione che era indirizzata in modo<br />
particolare alle nuove generazioni e perciò faceva affidamento soprattutto sull’educazione,<br />
sia scolastica che extra scolastica, e della quale, quindi, erano<br />
strumenti privilegiati non solo la riforma della scuola, ma anche le organizzazioni<br />
giovanili del Partito Nazionale Fascista (PNF) e l’intensa propaganda presente<br />
in tutti i campi della cultura. Secondo questo punto di vista il fascismo fu<br />
un periodo caratterizzato da una imponente espansione dell’identità italiana, in<br />
alcuni casi definitiva, che riguarda tutto il territorio nazionale, nel tentativo di<br />
portare a compimento la costruzione della nazione italiana.<br />
Quest’opera d’italianizzazione fu rivolta soprattutto a quei gruppi considerati<br />
estranei alla nazione, e quindi alle minoranze etniche, per usare la terminologia<br />
dell’epoca. Questo status era ufficialmente riconosciuto soltanto a quelle<br />
popolazioni che vivevano nelle nuove province annesse grazie alla vittoria nella<br />
Prima Guerra Mondiale, dove era forte la presenza di comunità d’etnia tedesca,<br />
serbo-croata e slovena, e che erano concentrate rispettivamente nell’attuale<br />
regione del Trentino-Alto Adige/Sud Tirolo, nei dintorni della città di Trieste e<br />
nella penisola dell’Istria.<br />
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A queste comunità s’aggiungevano altre che non si considerava differissero<br />
etnicamente dagli italiani, ma piuttosto per fattori linguistici, come per esempio<br />
le popolazioni della Valle d’Aosta, che ancora oggi parlano il francoprovenzale<br />
o arpitano, o le diverse comunità sparse per il sud della penisola dove tuttora<br />
resiste una varietà del greco (griko o grecanico) e dell’albanese (arbëreshë). A<br />
parte queste realtà, tutte le altre minoranze non riconosciute dallo Stato italiano<br />
non sembrano aver ottenuto un’attenzione particolare, almeno secondo quanto<br />
afferma Gabriella Klein, l’unica ad essersi occupata dell’argomento in maniera<br />
professionale. 5 Malgrado la Klein parli soprattutto dell’etnia tedesca, ed in minor<br />
misura di quella serbo-croata e slovena, la sua analisi risulta essere un ottimo<br />
punto di partenza per il nostro discorso, grazie alla quale ricaviamo un’idea<br />
dell’atteggiamento del fascismo verso le minoranze, molto utile per verificare<br />
l’applicazione o meno di queste iniziative al nostro caso.<br />
È possibile riassumere la politica fascista con questa citazione di un quotidiano<br />
sud-tirolese del 1928, che rispetto alla comunità tedesca diceva: «I tedeschi<br />
in Alto Adige non rappresentano una minoranza nazionale, ma una reliquia<br />
storica». 6 La politica d’italianizzazione di queste minoranze da poco entrate a<br />
far parte della nazione fu, in effetti, dura, e tra il 1923 ed il 1929 s’impose<br />
l’italiano come lingua ufficiale e d’uso pubblico in tutti i campi, anche se in<br />
maniera graduale e con intensità differente a seconda delle situazioni; dalla pubblica<br />
amministrazione fino al commercio, dalla toponomastica alle epigrafi, l’italiano<br />
fu imposto, malgrado le difficoltà che la scarsa conoscenza di questa lingua<br />
da parte delle popolazione comportava, e senza far caso, naturalmente,<br />
alle proteste. 7 Il regime, però, non fu completamente libero di agire in questo<br />
campo, e nel caso delle comunità germanofone la sua azione fu influenzata<br />
dalle relazioni internazionali, ed in particolare dalla riconciliazione con l’Austria<br />
(1934) e dal sempre più stretto rapporto con la Germania Nazista, che<br />
imposero un certo livello di tolleranza. Le istituzioni fasciste, dunque, in un<br />
certo senso non portarono avanti una cieca repressione, ma si limitarono ad<br />
una azione legislativa e sanzionatoria che, senza dubbio, mirava<br />
all’italianizzazione completa; al posto degli apparati dello Stato, furono le<br />
squadre di camicie nere che si incaricarono di perseguitare chi protestava contro<br />
tali politiche e si dimostrava non italiano, una circostanza che si verificò in<br />
particolare nelle aree abitate da comunità slovene e serbo-croate.<br />
5 G. KLEIN, La politica linguistica del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1986.<br />
6 Ivi, p. 70.<br />
7 Ivi, pp. 91-110.<br />
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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />
Nel campo scolastico la politica d’italianizzazione non comportò, contrariamente<br />
a quanto si possa pensare, la repressione di qualsiasi lingua che non fosse<br />
quella ufficiale, almeno nei primi anni del regime. Infatti durante i primi mesi<br />
del governo Mussolini, quando ancora la dittatura non si era instaurata e il fascismo<br />
era considerato da molti come una breve parentesi autoritaria finalizzata<br />
alla restaurazione dell’ordine sociale e del potere dello Stato, fu riorganizzato il<br />
sistema scolastico; la Riforma Gentile, dal nome del filosofo che, in qualità di<br />
Ministro dell’Educazione la elaborò e varò durante il 1923, rispetto al problema<br />
linguistico poneva due priorità, la lotta all’analfabetismo e la diffusione<br />
della lingua italiana, senza però assumere un atteggiamento demonizzante nei<br />
confronti sia dei dialetti, sia delle lingue minoritarie. 8 Una tale impostazione<br />
permetteva l’applicazione di un metodo d’insegnamento dell’italiano che utilizzava<br />
il dialetto o la lingua minoritaria per facilitare, nell’alunno, la comprensione<br />
delle strutture grammaticali della lingua ufficiale; era un sistema proposto<br />
dallo stesso Alessandro Manzoni e in uso fino alla fine del XIX secolo, che peraltro<br />
aveva generato un’interessante produzione di grammatiche e dizionari dei<br />
diversi idiomi parlati nel Paese. Il metodo, nonostante fosse stato proposto dal<br />
principale responsabile della normalizzazione linguistica dell’italiano, incontrava<br />
l’opposizione dei puristi della lingua e dei nazionalisti, cosicché ai principi<br />
del XX secolo fu abbandonato, almeno ufficialmente. Curiosamente, fu il primo<br />
Governo fascista a far sì che la scuola tornasse ad utilizzare lingue minoritarie<br />
e dialetti per insegnare l’italiano, sicuramente perché si trattava di un metodo<br />
efficace, ma anche perché il prestigio internazionale che Gentile dava al fascismo<br />
non permetteva, per il momento, di contraddire le sue idee.<br />
Malgrado quanto si è detto, la politica linguistica fascista andò progressivamente<br />
verso un’italianizzazione totalitaria, prima rispetto alle minoranze riconosciute,<br />
e poi verso tutte quelle che non lo erano affatto. Già dal 1925 si proibì,<br />
nei territori da poco entrati a far parte della nazione, che nelle scuole pubbliche<br />
fosse insegnata la lingua minoritaria, un’opzione che la riforma Gentile permetteva<br />
(sempre che la maggioranza dei genitori degli alunni ne facesse esplicita<br />
richiesta); anche l’insegnamento privato in lingua non italiana fu, se non proibito<br />
esplicitamente, ostacolato in tutti i modi, prima nel Sud Tirolo (1923) e poi<br />
nella Valle d’Aosta (1926); al contrario, non sembra che in altre aree del Paese<br />
esistessero scuole private finalizzate all’insegnamento della lingua locale, come<br />
per esempio non ne esistevano tra le comunità albanesi del sud Italia. Fu duran-<br />
8 Sulla lotta all’analfabetismo durante il xx secolo, cfr.: E. DE FORT, Scuola e analfabetismo nell’Italia<br />
del ‘900, Bologna, Il Mulino, 1995.<br />
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te gli anni trenta che, in sintonia con la generale radicalizzazione del regime,<br />
maturò un’opposizione netta a qualsiasi idioma diverso da quello nazionale, sia<br />
che si trattasse di una parlata locale che di una lingua straniera. Nel 1930 si vietò<br />
l’utilizzazione del dialetto nei titoli dei film, l’anno dopo se ne proibì l’uso in<br />
qualsiasi pubblicazione, fino ad arrivare nel 1934 alla proibizione del dialetto<br />
nell’insegnamento pubblico; con questa decisione si metteva fine, un’altra volta,<br />
all’applicazione del metodo proposto, a suo tempo, da Manzoni. Poi la Guerra<br />
d’Etiopia (1935-1936) e la costruzione dell’Impero portarono letteralmente alla<br />
xenofobia linguistica, fino ad arrivare all’istituzione di una Commissione per<br />
l’Italianità della Lingua, in seno alla Reale Accademia d’Italia, con lo scopo di<br />
vigilare sulla purezza della lingua e di proporre la versione italiana di ogni<br />
barbarismo in uso in quegli anni. 9 In questo clima si arrivò a cambiare addirittura<br />
i nomi di alcune città, come per esempio Olbia per Terranova Pausania o Agrigento<br />
per Girgenti, in un’ipotetica lotta per l’autarchia e la purezza linguistica.<br />
Dunque è facile rendersi conto di come il regime, per quanto riguarda la<br />
politica contraria alle minoranze nazionali, evolva verso soluzioni sempre più<br />
radicali, in particolare durante gli anni trenta. Il punto culminante di questo<br />
atteggiamento lo si può trovare durante la Seconda Guerra Mondiale, e precisamente<br />
nelle politiche di occupazione dei nuovi territori annessi durante la guerra,<br />
nei quali l’italianizzazione fu realizzata in maniera radicale, addirittura con<br />
la deportazione delle popolazioni e l’imposizione forzata dell’italiano. 10 Si tratta<br />
di misure applicate nell’ambito di una logica di guerra e che dunque possono<br />
sembrare più radicali di quelle applicate in patria, ma, come suggerisce Philippe<br />
Burrin per quanto riguarda la Germania Nazista, questa radicalità dipende dall’impossibilità<br />
in patria di applicare l’ideologia fino alla estreme conseguenze,<br />
a causa dei limiti che il regime, per quanto totalitario, trovava nell’ordinamento<br />
giuridico preesistente o in alcune istituzioni; secondo questa lettura dei fatti le<br />
politiche messe in atto nei territori occupati erano una sorta di prova generale di<br />
quanto si sarebbe fatto nella madre patria alla fine della guerra, quando il nuovo<br />
ordine sarebbe stato imposto a tutta l’Europa. 11 In altre parole, se il fascismo<br />
non ha agito in maniera drastica nel Sud Tirolo così come fece in Dalmazia<br />
durante la sua occupazione (1941-1943) non è perché non volesse una<br />
9 G. KLEIN, La politica linguistica del fascismo cit., pp. 193-197. Si tratta di un esempio di una<br />
lista di barbarismi e parole straniere con relativa versione italianizzata.<br />
10 Relativamente a questo aspetto cfr.: D. RODOGNO, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di<br />
occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943), Torino, Bollati Boringheri, 2003, pp.<br />
231-431.<br />
11 P. BURRIN, Fascisme, nazisme, autoritarisme, Éditions du Seuil, 2000, pp. 112-113.<br />
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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />
italianizzazione radicale, ma perché semplicemente non poteva, giacché la Chiesa,<br />
lo stesso ordinamento giuridico e i rapporti con Austria e Germania lo impedivano;<br />
al contrario, in un territorio annesso di recente l’ideologia del regime poteva<br />
avere la possibilità di essere applicata fino alle sue estreme conseguenze.<br />
Il regime e la ‘catalanità’ di Alghero<br />
Gli abitanti di Alghero non erano considerati ufficialmente una minoranza, e<br />
quindi non furono oggetto di una particolare politica repressiva, come è invece<br />
avvenuto nei casi che abbiamo appena finito di descrivere; ad ogni modo, che<br />
nella città fosse diffusa una variante del catalano era una realtà ben conosciuta,<br />
anche perché fu proprio un filologo italiano, Pier Enea Guarnerio (1854-1919),<br />
che alla fine del XIX secolo dimostrò che l’idioma parlato ad Alghero era un<br />
dialetto della lingua catalana. 12 Grazie a questo aspetto la città doveva essere,<br />
nell’immaginario collettivo degli italiani, una curiosità folcloristica, tanto che<br />
durante gli anni venti e trenta sono molti gli scrittori che parlano delle sue radici<br />
catalane, come possiamo leggere in un articolo di un importante quotidiano<br />
catalano dell’epoca, La Veu de Catalunya, dove venivano riportate alcune citazioni<br />
di autori italiani su Alghero, tra i quali spicca il nome di D’Annunzio. 13<br />
Davanti a questa situazione di scarsa italianità, se così possiamo dire, il<br />
regime si comportò così come fece per altre situazioni simili presenti nel resto<br />
del Paese; il caso algherese, dunque, rientrava nella normale opera<br />
d’italianizzazione e fascistizzazione alla quale era sottoposto tutto il Paese,<br />
un’opera che, ovviamente, era più intensa in aree periferiche come la Sardegna;<br />
la realizzazione di tali obiettivi era affidata in buona parte all’educazione, ed è<br />
perciò dalla scuola che bisogna cominciare l’analisi delle politiche messe in<br />
campo dal regime per italianizzare definitivamente gli algheresi.<br />
Come abbiamo già detto il sistema scolastico permetteva, tra il 1923 ed il<br />
1934, l’uso del dialetto per insegnare la lingua italiana, però non dobbiamo<br />
pensare che ciò fosse dovuto a una qualche volontà di salvaguardia della lingua<br />
e delle tradizioni locali; al contrario, lo scopo era quello di diffondere la lingua<br />
nazionale. Infatti, da un’analisi dei registri scolastici dell’epoca emergono molti<br />
riferimenti a questo aspetto, e per esempio in un registro di prima elementare<br />
12 P. E. GUARNERIO, Il dialetto catalano di Alghero, in «Archivio Glottologico Italiano», vol. 9, pp.<br />
262-364, Torino, Loescher, 1886.<br />
13 Almanac Literari. Alguer, in «La Veu de Catalunya», 29 marzo 1933 (edizione della sera).<br />
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si può leggere, tra gli obiettivi didattici: «Lingua: sostituzione di quella italiana<br />
a quella dialettale». 14<br />
Questa sostituzione pianificata tramite la scuola ci dà un’idea, sia di quale<br />
era la diffusione del catalano di Alghero, sia di quali dimensioni avesse assunto<br />
questa problematica davanti alle istituzioni. Lo scopo di una simile politica didattica<br />
era quello di disprezzare la lingua locale e di associarla ad una condizione<br />
d’ignoranza; si tratta di una situazione che fece maturare nei catalanoparlanti<br />
una specie di complesso di inferiorità, che nel dopoguerra avrà pesanti conseguenze<br />
sui meccanismi di diffusione della lingua. 15 Questa politica si fece man<br />
mano più estrema, fino ad arrivare al 1934 quando, in un tentativo di sradicare<br />
definitivamente ogni idioma differente dall’italiano, si vietò l’uso del dialetto<br />
nelle scuole, con la conseguenza di creare grosse difficoltà a tutti quegli insegnanti<br />
che, non essendo originari di Alghero, spesso non capivano i propri alunni<br />
(nei registri di classe dell’epoca gli insegnanti non algheresi sottolineano<br />
come questa sia la difficoltà maggiore che abbiano incontrato).<br />
Per quanto riguarda le scuole private dedicate all’insegnamento in lingua<br />
catalana non ci risulta che in quel periodo ne esistessero, ma soprattutto il catalano<br />
di Alghero non era utilizzato, ufficialmente, in nessuna istituzione, tanto pubblica<br />
che privata; malgrado ciò il Prefetto della Provincia di Sassari ed il Podestà<br />
di Alghero si preoccuparono, a partire dal 1928, di chiudere una sorta di scuole<br />
private, che nei documenti vengono dette costures («custuras» negli originali). 16<br />
In realtà, più che delle scuole private erano degli asili popolari abbastanza diffusi,<br />
ed erano organizzati esclusivamente da donne che ospitavano i bambini<br />
nella propria casa, nelle quale svolgevano anche lavori di sartoria, e da qui<br />
deriverebbe il nome. Le autorità motivano la decisione di vietare questa pratica<br />
sia per le pessime condizione igieniche dei locali che ospitano le costures, sia<br />
per l’imminente apertura di un asilo nido comunale. Malgrado le motivazioni<br />
ufficiali, la semplice constatazione che questa sorta di asili nido fossero gestiti e<br />
utilizzati da classi popolari – dunque prevalentemente catalanoparlanti – ci fa<br />
supporre che le autorità fossero preoccupate anche da un’educazione fuori dal<br />
loro controllo, e quindi non italiana e non fascista.<br />
14 Archivio di Stato di Sassari (ASS), Registri scolastici di Alghero, a.s. 1930-31, Classe I Elementare<br />
Maschile, Ins. Stefano Uleri.<br />
15 G. SARI, Poesia algherese del ‘900, in C. CALISAI (ed.), Sulle orme dei versi – Camí de versos.<br />
Antologia di poeti algheresi dal 1720 ai giorni nostri, Alghero, Panoramika, 2005, pp. 82-121<br />
(si veda p. 91).<br />
16 Archivio Storico del Comune di Alghero (ASCA), reg. 884/23/2.<br />
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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />
Nonostante l’azione del regime, le costures continuarono a funzionare anche<br />
durante gli anni trenta in modo clandestino, spesso camuffate da ripetizioni<br />
private; in ogni caso, lo ripetiamo, non si trattava di vere e proprie scuole, e la<br />
loro permanenza, malgrado i divieti del Prefetto, non sembra si possa interpretare<br />
come resistenza alla sostituzione linguistica, ma piuttosto come una necessità<br />
economica, principalmente perché durante quegli anni non era ancora maturata<br />
una sensibilità riguardo alla salvaguarda della lingua locale (o comunque<br />
era molto minoritaria).<br />
Per quanto riguarda ancora la scuola pubblica, questa non doveva soltanto<br />
diffondere l’italiano, ma anche gli ideali della patria e della rivoluzione fascista:<br />
«Il fascismo ha dato alla Scuola una piena riforma attraverso l’opera del Gentile<br />
che dal 1923 riorganizzava tutta la vita scolastica più che sulle basi della filosofia<br />
idealistica, sui principi etici della dottrina ricostruttrice e creatrice dell’Italiano<br />
Nuovo». 17 La scuola, dunque, era letteralmente destinata a produrre italiani<br />
e fascisti, e gli insegnanti avevano «l’alto onore di contribuire all’affermazione<br />
dell’Impero di Roma». 18 Basta leggere i programmi didattici per capire quanta<br />
importanza veniva data a questo aspetto. A questo proposito è significativo che<br />
nel testo per preparare l’esame di Stato per ottenere l’abilitazione all’insegnamento,<br />
dal quale abbiamo preso la citazione precedente, l’autrice prima di affrontare<br />
qualsiasi questione didattica e pedagogica si attarda per alcune pagine<br />
descrivendo la Scuola e lo Stato fascista, per poi intitolare il primo capitolo<br />
«patria-umanità-stato-governo».<br />
Ancora una volta sono i registri di classe che permettono meglio di altri documenti<br />
di farsi un’idea di quali fossero le ambizioni del regime, e di come si traducessero<br />
in realtà. Rosina Sau, maestra di scuola elementare, sul registro dell’anno<br />
scolastico 1934-1935, nella parte dedicata al programma didattico, scrive:<br />
Lezioni di cultura fascista e patriottica: Io sono italiano; la mia città natale piccolo<br />
lembo d’Italia; il saluto romano; come si ama la patria e si abbraccia la santa<br />
causa che a lei ci lega; la bandiera italiana; il Re e la preghiera reale; Mussolini; suo<br />
ritratto morale, la generosa befana fascista; il Duce desidera che tutti i bimbi d’Italia<br />
crescano sani e forti; prodezze del regime per raggiungere questo scopo; l’O.N.B.<br />
[Opera Nazionale Balilla, n.d.r.] e la sua numerosa schiera di piccoli italiani che<br />
marciano dietro le direttive del Duce per la grandezza e l’onore della patria. 19<br />
17 J. CERVELLATI, Scuola fascista. Preparazione completa per i candidati ai concorsi magistrali,<br />
Bologna, Licino Cappelli Editore, 1937, p. 99.<br />
18 Ivi, p. 3.<br />
19 ASS, Registri scolastici di Alghero, a. 1934-35, Classe I Elementare Maschile, Ins. Rosina Sau.<br />
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I piccoli algheresi, come tutti i bambini, erano obbligati a frequentare la scuola<br />
dall’età di sei anni fino a quella di quattordici, e trascorrevano la loro prima, e per<br />
molti unica, esperienza educativa in questo clima; inoltre in occasione delle diverse<br />
festività istituite dal regime o durante le visite di qualche autorità, venivano organizzati<br />
raduni e parate alle quali, ovviamente, gli alunni erano chiamati a partecipare.<br />
«Tutto l’insegnamento concorrerà a una sana cultura fascista», 20 e se questo non<br />
fosse stato sufficiente, c’erano le organizzazioni giovanili del partito (Opera Nazionale<br />
Balilla, dopo il 1937 riformata in Gioventù Italiana del Littorio) che reclutavano,<br />
attraverso gli stessi insegnanti, i giovani di entrambi i sessi per poter continuare<br />
la costruzione dei nuovi italiani anche al di fuori dalla scuola pubblica.<br />
Per capire come queste politiche abbiano potuto influenzare la formazione e<br />
la trasformazione dell’identità delle nuove generazioni, è molto utile analizzare<br />
i documenti che insegnanti e ispettori del Ministero per l’Educazione Nazionale<br />
producevano durante il loro lavoro; mentre nel primo caso si tratta ancora una<br />
volta dei registri di classe, nel secondo si tratta invece delle relazioni che gli<br />
ispettori inviavano al Ministero in occasione delle ispezioni che, periodicamente,<br />
portavano a termine negli edifici scolastici. Si tratta di documenti che non<br />
sono totalmente affidabili, in particolare per quanto riguarda i meriti ed i successi<br />
vantati dagli insegnanti alla fine dell’anno, però malgrado questo aspetto,<br />
in generale sono utili per farci un’idea di come, in un centro periferico come<br />
Alghero, veniva condotta l’opera d’italianizzazione e fascistizzazione.<br />
Dalle annotazioni che maestri e maestre lasciavano nei registri di classe ricaviamo<br />
un’immagine ben differente da quella che può derivare, per esempio, dalla<br />
lettura dei manuali didattici per gli insegnanti o dalla propaganda del regime. In<br />
generale emerge una situazione di estrema povertà che impedisce il lavoro agli<br />
insegnanti: «Molti alunni non vengono a scuola perché non hanno pane e [...] due<br />
mancano a scuola perché vanno in campagna a portare il pane al Babbo, il quale<br />
è costretto ad andare a lavorare e aspetta che la moglie lo compri a credito in<br />
qualche panetteria». 21 Da un altro registro risulta che le situazione economica<br />
della popolazione impediva che si realizzasse quell’iscrizione totalitaria alle associazioni<br />
giovanili del partito che il regime tanto voleva: «Su 45 alunni solo 24<br />
hanno le scarpe [...]. I miei alunni avevano l’età per essere iscritti Balilla e molti,<br />
magari a stento, avrebbero potuto magari [sic] pagare la tessera ma... e non ci<br />
vuole altro, i carmelitani scalzi ci sono, mentre i Balilla sono tutti calzati». 22<br />
20 ASS, Registri scolastici di Alghero, a. 1934-35, Classe III Elementare Maschile, Ins. Jole Zoboli.<br />
21 ASS, Registri scolastici di Alghero, a. 1930-31, Classe I Elementare Maschile, Ins. Enrichetta Oggiano.<br />
22 Ibid.<br />
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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />
Questa povertà diffusa, dunque, creava difficoltà enormi per la realizzazione<br />
degli obiettivi educativi del fascismo, soprattutto perché molti alunni non<br />
potevano permettersi il materiale didattico e lo Stato, nonostante i proclami<br />
della propaganda, non sembrava in grado di aiutare efficacemente le famiglie<br />
bisognose. Se pensiamo, infatti, all’ambizione di creare un «italiano nuovo»,<br />
che era affidata in buona parte proprio all’educazione, risulta quasi ridicolo<br />
leggere come molti insegnanti si lamentassero della «mancanza di aiuto da parte<br />
del Patronato», cioè l’istituzione che si occupava degli aiuti economici per gli<br />
alunni, e come denunciassero «la completa miseria intellettuale» che si respirava<br />
a scuola. 23 Quando poi arrivavano gli aiuti, arrivavano tardi e non erano<br />
sufficienti per far fronte alle difficoltà di tutti gli alunni:<br />
5-febbraio: sono arrivati i libri, un pò in ritardo in verità; ma il male non<br />
sarebbe poi tanto grave se tutte le alunne potessero avere il tanto atteso e desiderato<br />
libro. Su cinquanta alunne frequentanti, solo venti hanno il libro. Come si<br />
potrà leggere a scuola? 24<br />
Le relazioni scritte dagli ispettori ministeriali ci confermano, in parte, le<br />
osservazioni degli insegnanti, anche se effettivamente cercano di nascondere la<br />
povertà degli alunni ed i difetti del sistema. Da una relazione elaborata nel 1939<br />
in occasione di un’ispezione nella scuola elementare di Alghero, ricaviamo che<br />
l’edificio scolastico era grande a sufficienza, però l’illuminazione, la manutenzione<br />
e la pulizia erano scarse, mentre mancava materiale tecnico e scientifico<br />
di ogni tipo, inclusi la radio e il proiettore cinematografico, due mezzi ai quali il<br />
fascismo affidava buona parte della sua propaganda. 25<br />
Nella vita scolastica della cittadina catalana la distanza tra le ambizioni del<br />
regime e la realtà era, dunque, enorme, e le difficoltà che abbiamo elencato<br />
impedivano, di fatto, la trasformazione dei piccoli algheresi in perfetti italiani e<br />
fascisti; l’esempio più significativo di questa difficile situazione è costituito<br />
dalla costante difficoltà che i docenti dimostravano nei confronti dell’insegnamento<br />
della lingua italiana e dell’iscrizione degli alunni nelle strutture giovanili<br />
del partito, difficoltà che collegavano alle condizioni economiche delle famiglie,<br />
che non potevano permettersi né i libri né la quota d’iscrizione per le organizzazioni<br />
giovanili fasciste.<br />
23 ASS, Registri scolastici di Alghero, a. 1930-31, Classe I Elementare Femminile, Ins. Maria<br />
Sotgia.<br />
24 Ibid.<br />
25 ASS, Scuola Elementare di Alghero, Questionario per Alghero (documento non catalogato).<br />
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Per quanto riguarda l’uso pubblico della lingua, poi, il problema semplicemente<br />
non si poneva, perché il catalano di Alghero non era ammesso in ambiti<br />
come il commercio o le istituzioni. Questo era vero solo a un livello ufficiale,<br />
diciamo, perché effettivamente il catalano di Alghero era la lingua che la gran<br />
parte degli abitanti usava, pura o mischiata con il sardo o l’italiano, per comunicare<br />
tanto con il pescivendolo al mercato che con l’impiegato comunale. 26 Grazie<br />
a questo carattere popolare, dunque, non si assiste a nessuna persecuzione,<br />
né legale né fisica, di chi utilizzava il catalano di Alghero, che era invece parlato<br />
anche da coloro che avevano accettato il fascismo e addirittura dai membri della<br />
sezione locale del PNF (quando erano algheresi, ovviamente). 27 La repressione<br />
esisteva soltanto a scuola, mentre in famiglia e per la strada si parlava la<br />
lingua che si voleva, e spesso si parlava in dialetto; era questo, quindi, un aspetto<br />
che non sembrava preoccupare le autorità del regime, e le stesse persone che<br />
partecipavano alle attività delle organizzazioni fasciste ed erano cresciute in<br />
quel clima culturale, in alcuni casi non rifiutavano il catalano di Alghero, al di<br />
fuori ovviamente dall’ambito ufficiale. 28<br />
Un ultimo aspetto da considerare per poter avere una idea generale delle<br />
iniziative che il regime ha intrapreso nei confronti della catalanità di Alghero,<br />
è quello dell’italianizzazione dei toponimi del centro storico, che riflettevano<br />
perfettamente la strana situazione identitaria della città, in bilico tra influenze<br />
iberiche ed italiane. Originariamente in catalano, i nomi delle vie<br />
furono cambiati tra il 1827 e il 1876 con dei nomi italiani; 29 l’italianizzazione,<br />
però, non fu completa, e i nomi de les muralles (cioè le mura che si affacciavano<br />
sul mare), che dopo la demolizione di buona parte delle fortificazioni<br />
cittadine si stavano lentamente trasformando in luoghi di ritrovo, non furono<br />
cambiati; così come alcuni toponimi catalani quasi italianizzati resistevano<br />
nel centro storico, come nei casi di via Gilbert Ferret e via Francesco<br />
Ferrer. Non si tratta di un’esclusiva di Alghero, ed il regime infatti si preoccupò<br />
di portare a termine l’italianizzazione su tutto il territorio nazionale<br />
26 Sulla diffusione e sulle caratteristiche del catalano di Alghero durante il periodo fascista, cfr.:<br />
H. KUEN, El dialecto de l’Alguer y su posición en la historia de la lengua catalana, in «Anuari<br />
de l’Oficina Romànica de lingüística i literatura», vol. V, a. 1932, pp. 121-177; vol. VII, a.<br />
1934, pp. 41-112.<br />
27 Testimonianza di G. P. (1930-), figlio di un dirigente del PNF algherese, il quale era iscritto al<br />
Fascio di combattimento di Alghero dal 1921.<br />
28 Testimonianza di P. M. (1920-), iscritta alla Gioventù Italiana del Littorio (GIL), responsabile<br />
del Gruppo degli Universitari Fascisti (GUF), algherese e maestra elementare.<br />
29 R. CARIA, Toponomastica algherese, II: Introduzione allo studio dei nomi di luogo della città,<br />
del territorio, e delle coste di Alghero, Sassari, EDES, 1993, pp. 29-35.<br />
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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />
con due provvedimenti, uno del 1923 e l’altro del 1925, con i quali si stabiliva<br />
che i nomi di strade e piazze dovevano essere in italiano, o dedicate a<br />
italiani. Le leggi nazionali, però, sembra siano state applicate con lentezza<br />
ad Alghero, perché il primo provvedimento sulla materia viene preso dal<br />
Podestà solo nel 1929; l’atto municipale, a parte stabilire i nomi per alcune<br />
strade che erano state realizzate di recente, si preoccupava di cambiare i<br />
toponimi delle antiche mura marittime (Bastió de l’Esperó, Bastió de la<br />
Misericòrdia, Bastió de Sant Jaume, Bastió del Mirador, Bastió Reial); 30 i<br />
nuovi nomi furono, e sono tuttora, Bastioni Cristoforo Colombo, Bastioni<br />
Marco Polo, Bastioni Antonio Pigafetta e Bastioni Ferdinando Magellano,<br />
secondo un criterio che voleva dedicare questi spazi a navigatori e viaggiatori<br />
italiani o presunti tali, come nei casi de l’eternamente disputato Colombo<br />
e di Fernão de Magalhães, senza dubbio portoghese, ma che ebbe la sorte<br />
di avere un biografo di Vicenza, Antonio Pigafetta. Un altro cambiamento<br />
di nome fu deciso nel 1933, quando via Francesco Ferrer divenne via 4<br />
Novembre, il giorno della vittoria italiana nella Grande Guerra.<br />
L’azione fu lenta, ed a questo proposito risulta interessante notare come il<br />
Prefetto di Sassari abbia inviato per ben due volte, nel 1928 e nel 1930, una<br />
circolare nella quale rimproverava i podestà di abusare della propria libertà in<br />
materia di toponomastica; nei due documenti si ricorda che ogni volta che si<br />
dava o si cambiava il nome a una via o una piazza, il nuovo toponimo doveva<br />
essere approvato all’organo che tutelava il patrimonio artistico, che dipendeva<br />
dal Ministero per l’Educazione Nazionale; ma soprattutto il Prefetto insisteva<br />
nella proibizione dell’utilizzo di nomi di personaggi stranieri, salvo casi<br />
eccezionali e comunque dietro l’approvazione del Governo Centrale. 31 In realtà<br />
si tratta di circolari inviate a tutti i comuni della Provincia di Sassari, ma<br />
che assumono ai nostri occhi una particolare importanza se le mettiamo in<br />
relazione con un altro documento ritrovato all’interno della stessa cartella,<br />
che consiste in un foglio sopra il quale è stato disegnato il progetto di una<br />
targa viaria, nel quale si legge «via Eduart Toda»; 32 qualcuno voleva dedicare<br />
una via a Eduard Toda i Guëll? In realtà non abbiamo potuto trovare altri<br />
documenti al riguardo ed il progetto analizzato non è datato, ma allo stesso<br />
tempo si può dedurre facilmente dalle condizioni della carta, dall’inchiostro e<br />
soprattutto dalla grafia che questo sia contemporaneo agli altri documenti<br />
30 Ivi, p. 63.<br />
31 ASCA, regg. 922/12/5 e 922/15/2.<br />
32 ASCA, reg. 922/17/6.<br />
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Marcello A. Farinelli<br />
conservati nella stessa cartella, e tutto questo ci porta a pensare che è molto<br />
probabile che qualcuno volesse dedicare una via al principale ispiratore della<br />
Renaixença algherese di fine Ottocento. 33<br />
Nonostante i propositi del fascismo, e prima di lui dell’Italia liberale, l’uso<br />
dei toponimi catalani restò ben diffuso tra la popolazione durante tutto il periodo<br />
fascista, e un esempio su tutti è via Roma, che per i piccoli algheresi era La<br />
Merced, dal nome del convento che una volta si trovava in quella parte della<br />
città antica; la sopravvivenza di questi toponimi fino quasi ai giorni nostri è<br />
stata dimostrata a sufficienza dall’opera di Rafael Caria (1943-2008) che, durante<br />
gli anni ottanta e novanta, dedicò gran parte del suo lavoro intellettuale<br />
alla catalogazione della toponomastica della città e del suo entroterra, soprattutto<br />
attraverso interviste a pescatori e contadini.<br />
Per concludere definitivamente il discorso sull’atteggiamento del fascismo<br />
nei confronti dell’identità degli algheresi, possiamo affermare che questo fu in<br />
un certo senso prudente, anche se deciso a portare avanti l’obiettivo di<br />
italianizzare e fascistizzare la popolazione. Non si assiste, dunque, a quella repressione<br />
del catalano che comportò, al di là del mare, la dittatura franchista,<br />
che arrivò al parossismo di voler vietare addirittura le conversazioni private in<br />
catalano, 34 una circostanza che dipende ovviamente dall’enorme differenza tra<br />
le due situazioni: l’identità catalana rappresentava per Franco un elemento da<br />
sradicare per potersi garantire la vittoria, mentre per Mussolini si trattava di una<br />
reliquia storica come altre ne esistevano in Italia, e che era destinata ad essere<br />
assorbita gradualmente dall’identità italiana (e fascista); inoltre ad Alghero, e lo<br />
vedremo meglio più avanti, non sembrava esistesse nessuna relazione tra<br />
catalanità ed antifascismo, anzi la città continuava a dimostrarsi fedelissima, e<br />
non esistevano particolari motivazioni politiche per giustificare la repressione<br />
diretta della lingua locale. Certamente l’azione della scuola e delle organizzazioni<br />
giovanili del fascismo, la retorica del regime sulla patria, l’impero e la<br />
missione civilizzatrice della razza italiana erano elementi che facevano parte di<br />
una strategia finalizzata a sostituire la confusa identificazione algherese con<br />
quella dell’italiano nuovo, una sostituzione che si affidava soprattutto all’edu-<br />
33 Renaixença (‘rinascita’, in italiano) è il termine con il quale si individua il primo movimento<br />
catalanista d’ispirazione romantica che, nato in Catalogna ed in seguito parzialmente diffusosi<br />
in tutto il dominio linguistico catalano, caratterizzò, durante il xix secolo, prima la cultura e poi<br />
la politica di queste terre, e che per molti aspetti può essere paragonato al Risorgimento italiano,<br />
al quale in parte si ispirava.<br />
34 Sulla persecuzione della lingua catalana durante il franchismo, cfr.: F. FERRER I GIRONÈS, La<br />
persecució política de la llengua catalana, Barcellona, Edicions 62, 1986, pp. 177-201.<br />
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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />
cazione e alla propaganda e che non comportava, dunque, una repressione linguistica<br />
dura e sfacciata. Nonostante questo carattere prudente, le iniziative fasciste<br />
lasceranno un segno nell’identificazione e nelle abitudini linguistiche della<br />
popolazione, conseguenze che si vedranno solo dopo la caduta del regime, quando<br />
le generazioni cresciute sotto il fascismo smetteranno, in buona parte, di<br />
trasmettere il catalano di Alghero ai propri figli, perché era considerato ormai<br />
un idioma sinonimo d’ignoranza e povertà e perché, come accennavamo nell’introduzione,<br />
si era ormai affermata una certa colpevolizzazione/<br />
autocolpevolizzazione nei confronti di chi era catalanoparlante.<br />
I catalanisti algheresi di fronte al fascismo<br />
Arrivati a questo punto, è naturale chiedersi che atteggiamento mantennero quanti<br />
avevano dedicato buona parte della propria attività culturale a valorizzare e<br />
difendere il patrimonio culturale catalano della città; per poter rispondere a<br />
questa domanda risulta indispensabile spendere qualche parola sull’attività culturale<br />
che questi intellettuali intrapresero immediatamente prima dell’avvento<br />
del fascismo. Come è ben noto, il gruppo di poeti ed improvvisati filologi al<br />
quale ci siamo riferiti genericamente come catalanisti algheresi fu protagonista<br />
della Renaixença locale, ed in generale della vita culturale cittadina a cavallo<br />
dei due secoli; questa esperienza, culminata con la fondazione nel 1906 dell’associazione<br />
«La Palmavera», rappresentò un momento importante per la storia<br />
della città, ma si trattò anche di una esperienza breve ed effimera, destinata a<br />
tramontare sia per l’allontanamento da Alghero di alcuni dei suoi protagonisti,<br />
sia per i contrasti interni al gruppo.<br />
Nello stesso anno in cui si fondava «La Palmavera» due dei suoi componenti,<br />
Ramon Clavellet (1879-1911, al secolo Antoni Ciuffo) e Joan Palomba (1876-<br />
1953), furono invitati a partecipare al I Congresso Internazionale della Lingua<br />
Catalana, che si svolgeva proprio a Barcellona. Il viaggio, il trattamento ricevuto<br />
e la curiosità suscitata provocarono una forte impressione nei due, ma in<br />
particolare in Ramon Clavellet, che aveva già avuto modo di visitare la città<br />
durante il 1902; questi decise di non tornare ad Alghero, e grazie alla sua amicizia<br />
con alcuni intellettuali catalani, ed in particolare con l’editore Josep Aladern<br />
(1869-1918, al secolo Cosme Vidal i Rosich), si stabilì in Catalogna; qui svolse<br />
la funzione di ambasciatore del gruppo d’intellettuali algheresi per alcuni anni,<br />
durante i quali lo vediamo completamente devoto sia a promuovere il risveglio<br />
linguistico della propria città che a far conoscere la realtà algherese in Catalogna;<br />
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Clavellet si dà da fare con iniziative editoriali e tiene diverse conferenze, continuando<br />
a suscitare un certo interesse, senza però ottenere grandi successi editoriali,<br />
e dunque vivendo sempre in una situazione precaria.<br />
Durante la sua esperienza continentale, Clavellet sembra elaborare una visione<br />
del catalanismo più matura e più rivendicativa rispetto ai suoi colleghi<br />
algheresi, che invece dimostrano di essere fermi a una visione folcloristica e<br />
privata, essenzialmente apolitica, e sembrano preoccuparsi per le posizioni assunte<br />
da Clavellet. Quando questi, infatti, si trova ospite dal suo amico Josep<br />
Aladern e collabora alla sua rivista Catalonia, nella quale si occupa della sezione<br />
significativamente intitolata «Obra Patriòtica. La Sardenya Catalana. Història,<br />
Costums i Tradicions, Moviment intel·lectual Modern», è costretto a giustificare<br />
le sue iniziative davanti ai colleghi algheresi con queste parole:<br />
La nostra opera è eminentemente tradizionalista [...]. La nostra opera è dunque<br />
internazionale, ma allo stesso tempo non è politica; è scientifica e letteraria e<br />
tradizionalista soprattutto. Tende alla riforma della nostra lingua e letteratura. 35<br />
Nella stessa lettera si chiede al destinatario, Cipirano Cipriani, di assicurare<br />
gli altri catalanisti preoccupati, e Clavellet cerca di dimostrare come le sue iniziative<br />
siano lontane il più possibile dalla politica e non contengano nessuna<br />
idea radicale né tantomeno rivoluzionaria; d’altronde le preoccupazioni espresse<br />
dai catalanisti algheresi fanno parte del tradizionalismo e del conservatorismo<br />
dominanti, oggi come ieri, nella vita politica e culturale cittadina, due caratteristiche<br />
che riguardavano anche i rappresentanti della Renaixença algherese.<br />
Le iniziative di Clavellet, nonostante le rassicurazioni, continuano a suscitare<br />
la preoccupazione dei suo colleghi de «La Palmavera», soprattutto quando<br />
nel 1908 riesce a pubblicare una rivista dal titolo La Sardenya Catalana. Fulla<br />
patriòtica dels catalans d’Itàlia. Nel primo ed unico numero che vedrà la luce,<br />
in mezzo a diversi articoli sulla realtà algherese, trova spazio una significativa<br />
poesia di Clavellet, intitolata «Sem Vius!»:<br />
Sem Vius!: Perqué es viu ‘l llenguatge<br />
que‘ns dona aquest march extranger.<br />
Perqué tot: de la historia a la parla,<br />
la costum, la manera de sèr<br />
nos separen dels altres: a Italia<br />
catalana es la vila de Alguer.<br />
Marcello A. Farinelli<br />
35 P. CATALÀ I ROCA, L’aventura catalanista de la Palmavera. L’Alguer 1906, Alghero, Edicions<br />
del Sol, 1998, p. 153.<br />
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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />
Aquest vell sentiment que moria<br />
en las ruhinas del nostre passat.<br />
Aquest gran sentiment resuscita,<br />
d’amor patri encara més inflamat.<br />
Nostra rassa s’aixeca y camina<br />
nova via ‘l destí li ha signat. 36<br />
La reazione dei catalanisti algheresi costringe un’altra volta lo sfortunato<br />
poeta a rassicurarli:<br />
No hi ha remey. Estich conforme amb tot lo que vosaltres me diheu. Vosaltres<br />
que viviu al Alguer podeu coneixer més que mi aquesta ciutat y’l seu caràcter y las<br />
sua preocupacions, mentre que jo, vivint a Barcelona, m’he catalanisat, potser, una<br />
mica massa. – Lo subtítul de ‘fulla patriòtica’ que vosaltres diheu pot ferir la<br />
susceptibilitat dels algueresos se treurà posanthi enlloc: ‘Eco dels Catalans d’Italia’?<br />
si aquest tampoch no agrada, vosaltres me diureu com s’hauria de posar. 37<br />
Sembra che gli altri membri del gruppo non accettino l’idea di portare avanti<br />
una difesa pubblica della lingua, dietro la quale vedono un inevitabile passaggio<br />
da una dimensione privata e letteraria, ad una politica; ancora una volta<br />
questo atteggiamento sembra dimostrare il conservatorismo di questi catalanisti<br />
algheresi, ma per capire meglio le loro scelte politiche ci può essere utile constatare<br />
come, a differenza del Clavellet, gli altri membri del gruppo avessero<br />
tutto da perdere davanti ad un’eventuale accusa di scarsa italianità o addirittura<br />
di separatismo; infatti quasi tutti lavoravano per l’Amministrazione Pubblica:<br />
Joan Palomba era maestro, Carmen Dore (1869-1954) lavorava nell’Archivio<br />
Comunale, Joan de Giorgio Vitelli (1870-1916) lavorava per il Ministero degli<br />
Interni, mentre Joan Pais (1875-1964) nel 1912 ottenne un posto come direttore<br />
della farmacia e del laboratorio di chimica del carcere di Castiadas. Con un<br />
simile profilo, non potevano nemmeno lontanamente pensare di mettersi a capo<br />
di un movimento, sia esso politico o culturale, che proponesse un’identità non<br />
italiana per la città.<br />
Ramon Clavellet rimase dunque isolato, fondamentalmente perché, affascinato<br />
dall’ambiente culturale di Barcellona e dal suo catalanismo più<br />
rivendicativo, maturò una visione della situazione algherese che, se non era<br />
dichiaratamente politica, era molto più evoluta rispetto a quella dei suoi col-<br />
36 «La Sardenya Catalana», n. 1, 1 aprile 1908, p. 10. Qui e nelle altre citazioni riportate in lingua<br />
catalana, abbiamo deciso di rispettare il testo originale, riportando errori o forme ancora non<br />
normalizzate.<br />
37 P. CATALÀ, L’aventura catalanista de la Palmavera cit., p. 231.<br />
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Marcello A. Farinelli<br />
leghi rimasti sull’Isola; alle incomprensioni con i compagni si aggiunsero problemi<br />
economici, che lo portarono ad allontanarsi sempre più dal gruppo, fino<br />
al punto che questi non ebbero più notizie di lui. Morì in circostanze poco<br />
chiare probabilmente nel 1911. 38<br />
Non furono soltanto queste incomprensioni a portare alla fine del primo movimento<br />
catalanista algherese, ed infatti gli autori che si sono occupati di questo<br />
tema parlano delle invidie e delle polemiche nate tra Joan Pais e Joan Palomba in<br />
occasione della pubblicazione della prima grammatica del catalano di Alghero. I<br />
due, che erano cugini, lavorarono indipendentemente ad una propria grammatica,<br />
ma la sfida fu vinta da Palomba, che riuscì a far uscire la sua grammatica, in<br />
italiano, nel 1906, fatto che gli valse un invito al I Congresso Internazionale della<br />
Lingua Catalana. 39 Intorno a questi fatti nacque tra i due cugini una lunga e forte<br />
polemica, sia intellettuale che personale, che portò all’unico risultato di minare la<br />
coesione del gruppo che aveva dato vita a La Palmavera. A questa polemica si<br />
aggiunse la morte di Clavellet, seguita dal trasferimento di Joan Pais a Castiadas<br />
e da quello di Joan de Giorgio Vitelli a Ravenna, nominato Prefetto di tale Provincia<br />
nel 1913, dove morì tre anni più tardi.<br />
Nel giro di pochi anni, dunque, assistiamo all’uscita di scena di due tra i<br />
catalanisti algheresi più importanti, dei quali uno, Clavellet, abbiamo visto come<br />
si stava indirizzando verso una visione più matura della situazione algherese,<br />
mentre l’altro, Pais, rimase isolato in un piccolo centro del sud Sardegna ed<br />
abbandonò l’entusiasmo dei primi tempi, anche se continuò a lavorare alla sua<br />
grammatica, che però sarà pubblicata solo dopo la sua morte. 40 Per questi motivi<br />
quando il fascismo si affermò, ad Alghero il catalanismo non era un movimento<br />
culturale diffuso e forte, e non rappresentava in nessun caso un’opzione<br />
politica che potesse, facendo riferimento all’identità non italiana che sottintendeva,<br />
considerare il movimento di Mussolini come un avversario. Il catalanismo<br />
algherese era, in quel momento, una passione culturale che un piccolo numero<br />
di persone coltivava per lo più in forma privata, davanti alla quale il regime non<br />
sembrava assolutamente allarmato.<br />
38 Su Clavellet e gli altri catalanisti algheresi, cfr.: R. CARIA, Els ‘retrobaments’ a l’Alguer els<br />
segles XIX i XX, in J. CARBONELL – F. MANCONI (eds.), Els catalans a Sardenya, Enciclopèdia<br />
Catalana, Barcellona, 1984, pp. 183- 186; P. CATALÀ, L’aventura catalanista de la Palmavera<br />
cit.; J. ARMANGUÉ I HERRERO, Rossend Serra i Pagès, L’Alguer i el Centre Excursionista de<br />
Catalunya: 25 cartes (1901-1926), AEC, Granollers, 1999.<br />
39 G. PALOMBA, Grammatica del dialetto algherese odierno, Sassari, Tipografia G. Contorsi,<br />
1906.<br />
40 J. PAIS, Grammatica algherese, Barcellona, Barcino, 1970.<br />
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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />
Durante il periodo fascista in città rimasero, assieme ad altri personaggi<br />
minori, due tra i più importanti membri de «La Palmavera», Joan Palomba e<br />
Carmen Dore (nonostante il nome, si trattava di un uomo); ci sembra importante,<br />
a questo punto, seguire la loro attività durante il Ventennio.<br />
Palomba, dopo la pubblicazione della sua grammatica e mentre intratteneva<br />
relazioni epistolari con diversi intellettuali sia italiani che catalani, si occupò<br />
della traduzione di un saggio del catalanista rossiglionese Joan Amade e<br />
scrisse uno studio sul folclore di Alghero, opere pubblicate entrambe in lingua<br />
italiana. 41 Durante i confusi anni della Prima Guerra Mondiale e delle sue<br />
immediate conseguenze non abbiamo elementi per affermare quali fossero<br />
state le sue posizioni politiche, ma possiamo solo dire che aderì al fascismo,<br />
come molti altri, solo nel 1924, 42 e che quindi non può essere considerato un<br />
fascista della prima ora, come invece lui stesso cercò di far credere in un<br />
curriculum del 1941. 43 Palomba era un maestro e la sua adesione tardiva al<br />
fascismo può essere interpretata sicuramente come necessaria per non perdere<br />
il posto di lavoro; effettivamente continuò ad esercitare questo incarico<br />
anche durante il Ventennio, senza che il suo passato di catalanista costituisse<br />
un problema. Dunque Palomba non ebbe conseguenze a causa della sua passione<br />
culturale, anzi al contrario esistono elementi che ci possono far affermare<br />
come egli fosse abbastanza integrato nel regime; la sua attività culturale,<br />
infatti, sembra abbandonare i temi trattati fino allora, e durante i venti anni<br />
che durò la dittatura pubblicò solo due opere, che significativamente dimostravano<br />
la sua integrazione nel regime: nel 1929 scrisse un libro apologetico<br />
sul Duce, mentre nel 1942, quando Mussolini si aspettava uno sbarco alleato<br />
in Sardegna e stava tentando in tutti i modi di garantirsi la fedeltà dei sardi,<br />
scrisse il testo di un inno fascista per le scuole dell’Isola. 44<br />
Un’ulteriore dimostrazione di come Palomba si trovasse abbastanza integrato<br />
nel regime la possiamo trovare nella documentazione del PNF che si trova<br />
nell’Archivio Storico del Comune di Alghero; si tratta di due lettere, una del<br />
41 G. PALOMBA, Attraverso la letteratura catalana: saggio estratto dall’opera ‘Etudes sur la<br />
literature méridionale’ del prof. J. Amade, Sassari, Tipografia U. Satta, 1909; Tradizioni, usi e<br />
costumi di Alghero, «Archivio Storico Sardo», VII (1911), pp. 232-234.<br />
42 ASCA, reg. 1186, foglio tesseramento n. 18, a. XVIII. I documenti dentro questa cartella non si<br />
trovavano, al momento della consultazione, catalogati, e quindi si utilizzerà la numerazione<br />
applicata dai funzionari dell’epoca e si farà riferimento a questa cartella con il suo numero di<br />
catalogazione e, tra parentesi, la dicitura «documenti non catalogati».<br />
43 P. CATALÀ, L’aventura catalanista de la Palmavera cit., p. 311.<br />
44 G. PALOMBA, L’opera storica di Mussolini, Sassari, Stamperia della libreria italiana e straniera,<br />
1929; Balilla Sardi: inno per le scuole elementari e medie, Torino, Fratelli Amprimo, 1942.<br />
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Marcello A. Farinelli<br />
Segretario Federale del partito per la Provincia di Sassari, Martino Ofeddu, che<br />
chiede al Segretario Politico della sezione algherese, Angelo Silanos:<br />
Dimmi se nulla osta, dal lato politico, perché al nominato in oggetto (Giovanni<br />
Palomba) venga conferita una onorificenza cavalleresca. Dimmi se e da quando è<br />
iscritto al PNF. 45<br />
La risposta è a favore di Palomba, che viene considerato dal segretario politico<br />
di Alghero:<br />
Persona seria, equilibrata, di ottima moralità civile e politica è sempre stato un<br />
cittadino ed un padre modello. Fervente fascista, ha coadiuvato efficacemente la GIL<br />
durante il periodo in cui ricopriva le cariche di insegnante e Direttore delle scuole di<br />
avviamento professionale. Nulla osta perché gli venga concessa una onorificenza<br />
cavalleresca. 46<br />
A questa sua integrazione nel fascismo corrisponde una certa perdita d’interesse<br />
per la lingua e la letteratura catalana, che non possiamo attribuire esclusivamente<br />
ad un clima repressivo o sfavorevole a seguire questi interessi; dobbiamo<br />
considerare come il clima fosse differente, ed in particolare come il regime con la<br />
sua politica culturale offrisse agli intellettuali, spesso di provincia, possibilità d’affermazione<br />
che prima erano inesistenti: la propaganda e l’apologia del regime.<br />
Questo era un percorso seguito da molti intellettuali sardi, come nel caso di Paolo<br />
Orano; questi, in buoni rapporti tanto con Mussolini che con D’Annunzio, partendo<br />
da posizioni sindacal-rivoluzionarie aveva partecipato alla Prima Guerra Mondiale<br />
ed aveva militato tanto nel sardismo come nel fascismo (era presente alla<br />
fondazione del primo fascio a Milano). Già conosciuto nel campo della cultura<br />
italiana, durante il regime Orano ottenne la consacrazione definitiva pubblicando,<br />
tra le altre opere, alcuni libri sfacciatamente propagandistici. 47<br />
Altri intellettuali sardi seguirono questo percorso, alcuni perché poco conosciuti<br />
e quindi in cerca di notorietà, altri per smentire le accuse di antifascismo<br />
che in una realtà come quella sarda inevitabilmente le famiglie avversarie si<br />
muovevano le une contro le altre. È questo il caso di Edgardo Sulis, un fascista<br />
45 ASCA, reg. 1186 (documenti non catalogati), n. prot. 3250/SP. Si tratta di fogli utilizzati come<br />
palinsesti per scrivere i verbali delle sedute del Tribunale di Alghero.<br />
46 ASCA, ivi, n. prot. 422/3250. È valido lo stesso discorso fatto sopra.<br />
47 Per la figura di Orano, cfr.: C. MARAGLIO, Il fascista Paolo Orano. Giornalista e primo storico<br />
del giornalismo (1919-1945), Tesi di laurea in scienze politiche, Università degli Studi di Milano,<br />
a. 2000-2001. Come esempi di opere apologetiche e propagandistiche, cfr.: P. ORANO, Avanguardie<br />
dell’Italia nel mondo, Roma, Società Nazionale Dante Alighieri, 1938; Le direttive del<br />
duce sui problemi della vita nazionale. Lo Stato Fascista, Roma, Casa Editrice Pinciana, 1938.<br />
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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />
radicale che, in lotta con le gerarchie locali del PNF sia per la sua intransigenza<br />
che per vecchie rivalità familiari, si convertì in apologeta del Duce per poter<br />
conservare la posizione che occupava nella comunità locale e per poter tentare<br />
una carriera politico-intellettuale. 48<br />
Il fascismo, in effetti, rappresentava per gli intellettuali di provincia la possibilità<br />
di inserirsi al centro della cultura nazionale, e nel caso algherese questa circostanza<br />
si verificava in concomitanza alle difficoltà di comunicazione con la cultura<br />
catalana; l’instaurazione della dittatura di Primo de Rivera (1923-1930), nella<br />
quale erano elementi importanti tanto l’anticatalanismo come l’ispirazione al fascismo<br />
italiano, aveva tagliato le ali a quella cultura nella quale Palomba ed i suoi<br />
compagni avevano cercato di affermarsi, e quindi non ci deve stupire il fatto che<br />
il catalanista algherese abbia cercato altre strade per continuare la sua carriera.<br />
Anche Carmen Dore risulta iscritto nella sezione locale del PNF, e come per<br />
Palomba la sua iscrizione, che risale al 1924, è da interpretarsi come motivata<br />
dalla necessità di mantenere il proprio posto di lavoro (archivista comunale); il<br />
suo percorso politico e culturale è, al contrario, abbastanza differente da quello<br />
del suo collega catalanista. Dore, infatti, mantenne con relativa costanza un<br />
rapporto epistolare con intellettuali catalani, come il folclorista Rossend Serra i<br />
Pagès (1863-1929), o ancora il filologo ed editore Josep Maria de Casacuberta<br />
(1897-1985), svolgendo la funzione di punto di connessione tra la cultura catalana<br />
e Alghero. 49 Come tale Dore, occasionalmente affiancato da Palomba, fece da<br />
cicerone a tutti quegli intellettuali che venivano in città per studiarne la peculiare<br />
realtà linguistica, come per esempio in occasione della ricerca realizzata<br />
dall’Institut d’Estudis Catalans nel 1922, 50 mentre in altre occasioni collaborava<br />
a distanza con eminenti studiosi europei, come nel caso del filologo austriaco<br />
Heinric Kuen (1899-1989). 51 Malgrado queste attività, Dore non pubblicò<br />
niente durante il Ventennio e, in realtà, la maggior parte dei suoi scritti (principalmente<br />
poesie) o sono ancora inediti o sono stati pubblicati dopo la sua morte;<br />
Dore, sia prima che durante la dittatura, continuò a scrivere poesie in catalano<br />
di Alghero, cercando di affermarsi nel circuito della cultura catalana di allora,<br />
ed in parte riuscendovi nel 1921, quando ottenne un premio ai Jocs Florals con<br />
la poesia «Varemes Tristes», ispirata alla tragedia della guerra mondiale.<br />
48 R. J. B. BOSWORTH, Imitating Mussolini with advantages: the case of Edgardo Sulis, in «European<br />
History Quarterly», a. 2002, vol. 32, n. 4, pp. 515-533.<br />
49 P. CATALÀ, L’aventura catalanista de la Palmavera cit., p. 326.<br />
50 Ivi, p. 300.<br />
51 P. CATALÀ I ROCA – F. MANUNTA, Trilles, pagells i tòtanos. Los peixos de l’Alguer en una recerca<br />
de Carmen Dore del 1927, in «L’Alguer», II, n. 5, settembre-ottobre 1989, pp. 7-14.<br />
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Nelle sue poesie, come nelle lettere, si può appena notare una certa intolleranza<br />
per il clima creato dal regime fascista; una insofferenza privata che non<br />
arriva a farsi pubblica, testimoniata da alcuni versi, stavolta in italiano:<br />
Quando Vittorio era Re<br />
non mancò mai il caffè.<br />
Dopo fatto Imperatore<br />
si sentì solo l’odore.<br />
Occupata l’Albania<br />
il caffè se ne andò via.<br />
E se ne andrà via<br />
anche Lui con<br />
Mussolini pei fatti<br />
sui.<br />
Amen. 52<br />
Marcello A. Farinelli<br />
Si tratta di una poesia che, per il riferimento all’occupazione dell’Albania<br />
(1939), possiamo far risalire al periodo della Seconda Guerra Mondiale, e che<br />
ci suggerisce una posizione critica del Dore nei confronti del regime. Questa<br />
incomodità del poeta rispetto alla situazione che si era venuta a creare ad Alghero<br />
traspare anche dalla sua corrispondenza, ed in particolare dai suoi progetti di<br />
lasciare la città; è significativo, infatti, che Dore abbia manifestato a diversi<br />
interlocutori il suo desiderio di trasferirsi in Catalogna, non è chiaro se temporaneamente<br />
o definitivamente, per poter continuare l’opera che Ramon Clavellet<br />
aveva lasciato a metà. Questo desiderio fu manifestato già dal 1921 in una lettera<br />
inviata ad un destinatario a noi sconosciuto, nella quale Dore chiede come<br />
poter realizzare questa «Espedició», di una durata considerevole a quanto sembra,<br />
e soprattutto «apolitica, essenzialment literaria»; 53 un progetto che illustrò<br />
a diversi interlocutori, tra i quali Eduard Toda i Güell, che in una lettera del<br />
1925 gli rispose consigliando di aspettare tempi migliori:<br />
He pensat al projecte de que Vostè em parla de venir a Catalunya a treballar i<br />
ordenar los estudis catalans, y ab la major sinceritat dech aconsellarlo que no ho<br />
fassa per are y mentre durin las circustancias especials de la present politica espanyola.<br />
Tot lo català está molt baix i perseguit. [...] Tinga donchs un poch de paciencia y<br />
esperi temps millors que per tothom han de venir. 54<br />
Questi tempi migliori arrivarono, da un punto di vista catalano, nel 1930,<br />
come risulta da una lettera che l’ecclesiastico e catalanista Pere Voltas i<br />
52 P. CATALÀ, L’aventura catalanista de la Palmavera cit., p. 291.<br />
53 Ivi, pp. 298-299.<br />
54 Ivi, p. 322.<br />
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Montserrat (1879-1967) inviò a Dore proprio in quell’anno, e nella quale gli<br />
annunciava: «Vaig ser a Barcelona i vaig parlar del vostre viatge allí. Em sembla<br />
que ha arribat el moment en què podeu satisfer el vostre desig». 55<br />
Curiosamente Dore non realizzerà mai il tanto desiderato viaggio, e la sua<br />
corrispondenza, o almeno quella nota fino ad oggi, non ci fornisce elementi utili<br />
per stabilire il perché di questa rinuncia. Una spiegazione la possiamo trovare<br />
analizzando la situazione politica delle due penisole (quella italiana e quella iberica),<br />
una situazione che si faceva sempre più fosca e complessa a partire dalla proclamazione<br />
della Repubblica Catalana (14 aprile 1931) e della seconda esperienza<br />
repubblicana in Spagna (1931-1939), due avvenimenti che, a parte suscitare la<br />
riprovazione di Mussolini, inaugurarono un periodo caratterizzato da un violento<br />
conflitto politico e dallo scontro tra spinte rivoluzionarie e reazioni conservatrici,<br />
tra movimenti centrifughi e impostazioni centripete. In una simile situazione il<br />
regime fascista impedì a molti italiani di recarsi in Spagna, soprattutto a quanti<br />
erano sospettati di essere antifascisti, e sembra dunque probabile la voce che afferma<br />
che a Carmen Dore le autorità avessero negato il passaporto. 56 Purtroppo<br />
non abbiamo trovato nessun documento che confermi questa informazione, che<br />
però ci sembra abbastanza probabile se consideriamo come la popolazione fosse<br />
strettamente controllata sia dall’Organizzazione Vigilanza e Repressione<br />
Antifascismo (OVRA) che dal Tribunale Speciale, due organismi che ovviamente<br />
erano molto interessati a tenere sotto controllo i contatti tra italiani e catalani,<br />
soprattutto durante il periodo nel quale l’Italia intervenne nella Guerra Civile<br />
Spagnola (1936-1939); 57 non dobbiamo dimenticare poi come un altro algherese,<br />
Candido Adami, legato tanto al movimento degli ex-combattenti quanto al<br />
catalanismo, risulta facesse parte della rete degli informatori dell’OVRA, e che<br />
come tale avrebbe potuto parlare dei progetti del Dore. 58 In ogni caso possiamo<br />
ragionevolmente supporre che nel far prendere la decisione al poeta di non realizzare<br />
il suo progetto abbiano avuto un ruolo importante, al di là delle pressioni<br />
55 Ivi, p. 331.<br />
56 È un aneddoto abbastanza diffuso, e riportato anche in P. CATALÀ, L’aventura catalanista de la<br />
Palmavera cit., p. 331.<br />
57 Sulla polizia politica fascista e la repressione, cfr.: M. FRANZINELLI, I Tentacoli dell’Ovra. Agenti,<br />
collaboratori e vittime della polizia fascista, Torino, Bollati Borigheri, 2000; su Mussolini e<br />
la II Repubblica spagnola, cfr.: I. SAZ CAMPOS, Mussolini contra la II Republica, Valencia,<br />
Edicions Alfons el Magnànim, 1986.<br />
58 M. Franzinelli, I Tentacoli dell’Ovra cit., pp. 250, 458. Sembra che Adami, dopo essere passato<br />
dal sardismo al fascismo, sia entrato in conflitto con alcuni dirigenti fascisti della Provincia di<br />
Sassari ed abbia visto la sua posizione economica e sociale in pericolo; per questi motivi poteva<br />
essere ricattato dalla polizia fascista.<br />
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delle autorità italiane, sia la situazione catalana caratterizzata sempre più da un<br />
forte conflitto sociale e politico, sia lo scoppio della guerra civile nel 1936.<br />
Carmen Dore, dunque, sembra non essersi integrato così come Palomba, tanto<br />
da sentirsi incomodo e voler abbandonare la città; malgrado ciò, non risulta che il<br />
poeta abbia partecipato a qualche attività clandestina contro il regime, e infatti<br />
non figura nemmeno tra gli antifascisti sardi, 59 mentre dagli archivi scopriamo<br />
solo qualcosa contro suo figlio, Dario Dore, espulso dal PNF nel 1939 in conseguenza<br />
a una condanna per un reato di carattere economico (non si esclude, però,<br />
che questa fosse una forma di ritorsione politica). 60 Una opposizione moderata,<br />
sicuramente esercitata in un clima difficile, e può essere testimonianza di questo<br />
clima il fatto che tra le sue poesie si trovi un testo del 1927, «Alas a la Pàtria», che<br />
è un’esaltazione dell’Italia scritta in catalano, e che ha tutta l’aria di essere un<br />
tentativo di dissipare qualsiasi sospetto di antifascismo o scarso patriottismo, ma<br />
che rimase, comunque, inedita. 61 Da un punto di vista politico possiamo affermare,<br />
dunque, che l’archivista comunale era afascista, quindi né pro né contro, e da<br />
un punto di vista intellettuale fu l’unico tra i protagonisti della Renaixença algherese<br />
che abbia cercato di portare avanti quel progetto culturale; una prova concreta di<br />
quanto detto sono i rapporti epistolari che continuò a mantenere, e soprattutto la<br />
sua produzione poetica nella quale, accanto a temi intimisti, trovano ampio spazio<br />
temi legati all’identità catalana e alla madrepatria, trattati dal Dore con un linguaggio<br />
che ricorda molto da vicino quello dei poeti del Risorgimento, come ci<br />
dimostra questa poesia del 1934 che vale la pena riportare per intero:<br />
A CATALUNYA<br />
Dels pares meus la terra,<br />
de mi no es tan allunya,<br />
ses bella o Catalunya,<br />
i santa es la tua guerra.<br />
Sant també es lo tou crit,<br />
que enflame el nostre pit,<br />
que mou tot el jovent,<br />
que un horitzó de gloria,<br />
nos obri la victoria,<br />
del tou despertament.<br />
Marcello A. Farinelli<br />
59 M. BRIGAGLIA – M. T. LELLA, Dizionario biografico degli antifascisti sardi, in M. BRIGAGLIA – F.<br />
MANCONI – A. MATTONE – G. MELIS (eds.) L’antifascismo in Sardegna, vol. 2, Cagliari, Edizioni<br />
della Torre, 1986, pp. 259-359.<br />
60 ASCA, 1186 (documento non catalogato) n. prot. 629/4635.<br />
61 P. CATALÀ, L’aventura catalanista de la Palmavera cit., p. 324.<br />
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IL FASCISMO AD ALGHERO. ITALIANIZZAZIONE ALLA PERIFERIA DEL REGIME<br />
Conclusione<br />
El crit tou ressona<br />
tra pobles i comarques<br />
i a ma ta marxa marques,<br />
un ritme que retrona,<br />
nel cor dels catelans,<br />
en tots los germans,<br />
de treball i de fé,<br />
qué fills són de la Mare,<br />
que en cor tenen tancada,<br />
els catelans de l’Alguer.<br />
O forta terra avant!<br />
San Jordi el drac aterra,<br />
nos altres fem la guerra,<br />
les glories d’Ell cantant.<br />
D’en Jaume el gran valor<br />
cantem, i el seu amor<br />
per nostre Barcelona,<br />
pel just seu moviment,<br />
pel nou despertament,<br />
que llibertat nos dona.<br />
Avant! Avant! Les terres<br />
on viun les [sic] catelans,<br />
on lliuren les [sic] germans,<br />
santes i nobles guerres,<br />
a Catalonya tornin,<br />
i en Ella els fills retornin,<br />
cantant en veu suau,<br />
un nou himne de gloria,<br />
l’himne de la victoria,<br />
l’himne de amor, de pau.<br />
Avant! Avant germans!<br />
No u vus [sic] fermeu mai mes!<br />
Qui’ns ferma avui, arres<br />
pot fer pels catelans. 62<br />
Dunque possiamo affermare, secondo gli esempi riportati, che il fascismo ad<br />
Alghero mise in atto tutta una serie di misure finalizzate alla definitiva<br />
italianizzazione di una popolazione che, in fin dei conti, manteneva tratti culturali<br />
abbastanza diversi da quelli italiani. Lo scopo era quello di realizzare, final-<br />
62 Ivi, pp. 341-342.<br />
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mente, la nazione italiana, e come tale si è trattato di iniziative che non erano<br />
unicamente rivolte ad Alghero, o alla Sardegna, ma a tutte le realtà ancora «scarsamente<br />
italianizzate». La scuola riformata da Gentile, la religione della patria<br />
insegnata ai bambini, il cambio dei toponimi e la colpevolizzazione del dialetto<br />
come sinonimo di inferiorità dovettero avere conseguenze importanti nel modo<br />
di autorappresentarsi di molti algheresi, soprattutto in quanti erano nati e cresciuti<br />
durante il Ventennio; a questi fattori, in verità, dovremmo aggiungere<br />
l’importanza che hanno avuto l’inizio della bonifica della Nurra e la costruzione<br />
di Fertilia, città nuova dallo stile fascista e dal nome italianissimo, o ancora<br />
la martellante propaganda sui destini imperiali della stirpe italiana. Dunque la<br />
catalanità di Alghero, intesa come una serie di caratteri culturali e linguistici<br />
presi a fondamento di una supposta identità, subisce una mutazione e, per così<br />
dire, diminuisce durante gli anni del regime.<br />
Questo processo di italianizzazione, comunque, non portò assolutamente ad<br />
una repressione dura, e non risulta che in nessun caso sia stato perseguitato chi<br />
parlava in dialetto, come al contrario accadeva oltremare; la politica fascista, se<br />
paragonata a quella franchista, era in un certo senso più prudente, ma allo stesso<br />
tempo forse più sottile, perché giocava ad introdurre cambiamenti importanti, ma<br />
relativamente indolori, almeno riguardo la situazione algherese. Come abbiamo<br />
visto, infatti, in zone molto più conflittuali come il Sud Tirolo o la Dalmazia<br />
occupata, la repressione era molto più dura, con squadre fasciste che assaltavano<br />
scuole ed istituzioni culturali tedesche e con la deportazione di parte della popolazione<br />
slava. Se ad Alghero non succede niente che possa ricordare quei tristi<br />
episodi, in buona parte è perché quelli che abbiamo definito catalanisti algheresi,<br />
volenti o nolenti, non costituiscono affatto una opposizione; questi intellettuali<br />
non sembrano comprendere che il nazionalismo estremo insito nel fascismo italiano<br />
comportava, inevitabilmente, la messa in secondo piano di tutto quel che<br />
riguardava la cultura catalana, in quanto cultura straniera, e come obiettivo a lungo<br />
termine si poneva la sua cancellazione dal patrimonio storico-culturale di<br />
Alghero. In fin dei conti questi intellettuali non si opposero «all’oscurantismo<br />
culturale del periodo fascista» e nemmeno alla «colpevolizzazione che il regime<br />
di Mussolini praticò nei confronti dei dialetto-parlanti», 63 non rappresentando alcuna<br />
opposizione al fascismo in quanto nazionalismo italiano, ed è forse questo il<br />
fattore che più ha favorito l’opera d’italianizzazione condotta in vent’anni di regime<br />
ad Alghero, spianando la strada a quella sostituzione linguistica che tanto ha<br />
interessato linguisti e filologi durante gli ultimi decenni.<br />
63 R. CARIA, L’Alguer cit., p. 30.<br />
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FRANCO OPPO: IL MUSICISTA ORGANICO<br />
Antonio Trudu<br />
Università di Cagliari<br />
Se si pensa a un compositore del Novecento che abbia fatto della sua musica e<br />
del suo essere musicista uno strumento di comunicazione politica e sociale, il<br />
pensiero corre senza alcuna esitazione a Luigi Nono. Fu proprio lui, infatti, il<br />
primo a introdurre tra le problematiche della cosiddetta «scuola di Darmstadt» 1<br />
quella dell’impegno, soprattutto a partire dal suo Canto sospeso per soprano,<br />
contralto, tenore, coro misto e orchestra (1956), su testi di condannati a morte<br />
della Resistenza europea, raccolti da Giovanni Pirelli. 2 Nei suoi scritti, Luigi<br />
Nono ha illustrato a più riprese il carattere del suo impegno, prendendo lo spunto,<br />
ovviamente, dal concetto gramsciano di «intellettuale organico». 3 In una delle<br />
sue pagine fondamentali, 4 Nono ha rifiutato decisamente l’etichetta di «musicista<br />
esteta», dell’artista, cioè, che «è al di sopra e che vede da più lontano»,<br />
considerandosi a tutti gli effetti un musicista militante, con tutte le contraddizioni<br />
e le responsabilità che questo implica. «È chiaro – ha precisato Nono – che<br />
questa posizione è molto lontana, e anche agli antipodi rispetto a quella del musicista<br />
che pretende di essere, oggi come ieri, ‘al di sopra della mischia’, o peggio,<br />
un ‘medium tra l’universale e la massa’: queste posizioni sono al contrario ben<br />
radicate nelle istituzioni ufficiali, al servizio della classe borghese. (Ma Verdi, per<br />
citare un solo esempio che mi è molto caro, era al di sopra della mischia?)». 5<br />
In un’altra occasione, parlando del ruolo dell’intellettuale nel nostro tempo,<br />
6 lo stesso Nono ritornò sull’insegnamento politico-culturale di Antonio<br />
Gramsci, che aveva auspicato uno stretto rapporto tra arte e lotta di classe, rico-<br />
1 Per un inquadramento critico delle vicende dell’avanguardia postweberniana e del gruppo di<br />
compositori e musicologi che negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento si incontravano<br />
annualmente in occasione dei corsi estivi di Darmstadt, cfr. A. TRUDU, La «scuola» di Darmstadt.<br />
I Ferienkurse dal 1946 a oggi, Milano, 1992.<br />
2 L. NONO, Il canto sospeso, Ars Viva AV 50.<br />
3 Cfr. A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V.<br />
Garratana, Torino, 1975, III, pp. 1513-1524, 1550-1551.<br />
4 L. NONO, Sono un musicista militante, in L. NONO, Scritti e colloqui, a cura di A. I. De Benedictis<br />
e V. Rizzardi, Lucca, 2001, I, p. 288.<br />
5 Ibid.<br />
6 L. NONO, Intervista di Jean Villain, in L. NONO, Scritti e colloqui cit., II, p. 132.<br />
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<strong>INSULA</strong>, num. 6 (dicembre 2009) 93-120<br />
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Antonio Trudu<br />
noscendo che la cultura è un elemento essenziale nella battaglia della classe<br />
operaia per la sua egemonia e come tale è collegato strettamente con la concezione<br />
e con l’aspirazione a una società nuova e meglio organizzata. «Noi ci<br />
consideriamo – sottolineò deciso – produttori di cultura inseriti nella lotta politica<br />
militante. Il pittore non è solo pittore, il musicista non è solo musicista,<br />
entrambi sono in primo luogo compagni che partecipano con il loro lavoro alla<br />
lotta politica organizzata e mettono a disposizione della loro classe le loro particolari<br />
capacità di musicisti, attori o pittori». 7<br />
Non è questa la sede per ripercorrere le principali tappe della carriera artistica<br />
noniana e di ricordare la molteplicità delle manifestazioni del suo impegno<br />
civile e politico, che lo vide attivo non solo come compositore, ma anche come<br />
politico militante, come viaggiatore attento in numerosi Paesi dell’Europa orientale<br />
e dell’America Latina, come interlocutore sempre assai propositivo dei principali<br />
dirigenti del Partito Comunista Italiano, al quale si iscrisse nel 1952 e del<br />
cui Comitato Centrale divenne membro nel 1975. 8<br />
Pur se meno noto a livello sia nazionale che internazionale, pur se spesso<br />
lontano dalla luce dei riflettori, anche perché la sua attività si è svolta quasi<br />
esclusivamente in Sardegna, Franco Oppo deve essere considerato non soltanto<br />
un musicista militante nel senso in cui lo ha descritto e lo ha incarnato Nono, ma<br />
addirittura un intellettuale più calato nella realtà in cui vive, impegnato in maniera<br />
più completa e articolata, proprio come lo ha indicato Antonio Gramsci<br />
quando ha scritto: «Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere<br />
nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni,<br />
ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore,<br />
“persuasore permanentemente” perché non puro oratore». 9<br />
Nella sua attività Franco Oppo si è veramente mescolato alla vita pratica,<br />
unendo alla sua attività di compositore quella di insegnante, di sindacalista, di<br />
organizzatore di attività musicali, di membro del consiglio di amministrazione<br />
della cagliaritana Istituzione dei concerti e del Teatro Lirico «Giovanni Pierluigi<br />
da Palestrina», che per un breve periodo diresse, in compagnia di due importanti<br />
personaggi della vita musicale del capoluogo sardo, sempre dimostrandosi<br />
fautore di una musica intesa non come privilegio per pochi, ma come strumento<br />
di crescita sociale.<br />
7 Ivi, p. 133.<br />
8 Cfr. A. TRUDU, «A me piace scrivere lettere». Introduzione al carteggio, in Luigi Nono. Carteggi<br />
concernenti politica, cultura e Partito Comunista Italiano, a cura di A. Trudu, Firenze, 2008, p. V.<br />
9 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere cit., III, p. 1551.<br />
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FRANCO OPPO: IL MUSICISTA ORGANICO<br />
Sebbene nel 2005 siano stati festeggiati i suoi 70 anni e nonostante una<br />
malattia ne abbia rallentato i ritmi di lavoro, la sua attività compositiva non ha<br />
fino a oggi subito interruzioni. Anzi, nei primi anni dopo il suo pensionamento,<br />
Oppo diceva scherzosamente agli amici di aver preso a scrivere più di prima,<br />
perché l’insegnamento toglieva inevitabilmente continuità e concentrazione al<br />
suo lavoro di compositore.<br />
Nato a Nuoro nel 1935, 10 Franco Oppo ha condotto i suoi studi musicali a<br />
Cagliari, dove si è diplomato in musica corale, pianoforte e composizione. In<br />
seguito ha proseguito gli studi di composizione a Venezia con Giorgio Federico<br />
Ghedini, a Roma con Goffredo Petrassi e con Franco Evangelisti (con quest’ultimo<br />
per la musica elettronica) a Varsavia con Piotr Perkowski. Ma assai importanti,<br />
nella sua formazione musicale, sono stati anche gli incontri, avvenuti nel<br />
conservatorio cagliaritano, con Renato Fasano e con Marcello Abbado.<br />
Fasano dirigeva il conservatorio cagliaritano all’inizio degli anni Cinquanta,<br />
quando Franco Oppo iniziò i suoi studi musicali. Non era certamente un<br />
progressista, era stato assai attivo durante il periodo fascista, ma il suo rapporto<br />
con la musica era essenzialmente pragmatico. A Cagliari era stato l’artefice della<br />
trasformazione in Conservatorio della Scuola Civica di Musica e il fondatore<br />
dell’Istituzione dei Concerti. A Venezia, il cui Conservatorio diresse dopo quello<br />
di Cagliari, ideò le Vacanze Musicali e i corsi di perfezionamento estivi. Ma<br />
in precedenza aveva creato il gruppo strumentale «I Virtuosi di Roma», che gli<br />
diede notorietà internazionale e ne fece il primo grande divulgatore della musica<br />
di Vivaldi e del Settecento veneziano. «Quest’uomo ‘potente’ – ha raccontato<br />
lo stesso Oppo – sin dal mio ingresso in conservatorio ha avuto nei miei<br />
confronti (non so perché) un atteggiamento protettivo e paterno (non però<br />
paternalistico), dandomi quella fiducia che spesso i giovani riescono ad avere<br />
solo quando si sentono le spalle coperte; un esempio: gli studenti non sono in<br />
grado di eseguire il mio Quintetto per strumenti a fiato? Allora lo suonino i<br />
professori. […] Probabilmente, se fosse rimasto qui, i miei contrasti con i docenti<br />
di composizione sarebbero stati attenuati». 11<br />
10 Per la ricostruzione delle vicende biografiche di Franco Oppo è fondamentale, come del resto<br />
ha affermato lo stesso compositore, il cui archivio conserva quasi esclusivamente documenti<br />
legati alla sua attività artistica, una sorta di autobiografia che Oppo ha raccontato nel corso di<br />
una lunga intervista rilasciata nel 2004: G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo, in M.<br />
CARRARO-S. MELIS, G. N. SPANU (a cura di), Franco Oppo. Musiche per pianoforte solo e con<br />
strumenti, Fondazione Banco di Sardegna, Comune di Nuoro – Assessorato alle Politiche<br />
Educative, CERM Ensemble, s. l., 2004, pp. 4-64.<br />
11 Ivi, pp. 18-19.<br />
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Antonio Trudu<br />
Marcello Abbado, fratello di Claudio e per molti anni direttore del Conservatorio<br />
di Milano, fu il primo maestro di pianoforte di Oppo che per la composizione<br />
frequentava l’unica classe esistente in quegli anni, quella tenuta da Franco<br />
Margola. «Grazie e questi due maestri – ricorda Oppo – il primo impatto con<br />
l’ambiente del conservatorio è stato estremamente positivo. Mi hanno subito<br />
aperto gli occhi e lì ho capito che bisognava guardare oltre il mare: non è esagerato<br />
dire che quel primo anno è stato il più importante di tutto il periodo degli<br />
studi. Senza questa premessa non so immaginare come avrei potuto sfuggire ai<br />
condizionamenti conservativi e provinciali dell’ambiente musicale cagliaritano<br />
e alla pressione, da parte dei successivi maestri, affinché mi orientassi verso<br />
modelli accademici tradizionali». 12<br />
Trasferito Margola in un conservaotrio della penisola, l’incarico di tenere la<br />
classe di composizione fu affidato allo stesso Marcello Abbado, che dunque divenne<br />
l’unico punto di riferimento per il giovane Oppo sia per lo studio del pianoforte,<br />
sia per la composizione. Fu lui che avviò l’allievo allo studio e all’analisi<br />
delle opere degli autori contemporanei: Bartók, Hindemith, Petrassi, Stravinskij.<br />
Durante quel primo anno di studio, Franco Oppo scrisse un Quintetto per<br />
strumenti a fiato in quattro tempi che, a causa della sua conoscenza degli strumenti<br />
ancora assai limitata, risultò assai difficile da eseguire e fu per questo che<br />
Fasano decise di coinvolgere, per l’esecuzione al saggio di fine anno, i docenti<br />
dei diversi strumenti. «La composizione – rievoca Oppo – fece molto scalpore:<br />
era inaudito, e per qualcuno addirittura intollerabile, che uno studente del primo<br />
anno di conservatorio potesse scrivere simili cose. Per Abbado, invece, fu un<br />
conforto constatare che quell’anno trascorso in esilio in Sardegna non fosse<br />
stato totalmente sprecato». 13<br />
Decisamente più problematico e conflittuale il rapporto con Ennio Porrino,<br />
che alla partenza di Franco Margola fu incaricato di dirigere il Conservatorio<br />
cagliaritano. Fervente fascista ed esponente della corrente antimodernista e conservatrice,<br />
Porrino era convinto che l’unica possibile nuova strada della musica<br />
del Novecento fosse quella della neo-modalità e considerava follie tutte le altre<br />
correnti della musica contemporanea. Poiché «era arroccato su una concezione<br />
nazionalistica della musica oltre la quale non era capace di volgere lo sguardo e<br />
professava una sorta di integralismo estetico, nel nome di una ipotetica e<br />
anacronistica italianità della musica», 14 pensava che un giovane come Oppo,<br />
12 Ivi, pp. 11-12.<br />
13 Ivi, pp. 12-13.<br />
14 Ivi, p. 17.<br />
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attratto dai linguaggi musicali più nuovi, dovesse essere letteralmente ‘rieducato’,<br />
almeno dal punto di vista musicale. «Forse – ha ammesso Oppo – mi riconosceva<br />
un qualche talento: e per questo si sentiva in dovere di ricondurmi sulla ‘retta<br />
via’; vedendo, però, la mia ritrosia, assunse un atteggiamento ostile. Sembrava<br />
farne una questione personale: il mio diniego l’offendeva e i nostri rapporti<br />
divennero veramente pessimi. Credo che lui non abbia mai avuto nessuna stima<br />
per ciò che pensavo e scrivevo». 15<br />
Porrino, come in seguito avrebbe fatto anche Franco Oppo, aveva utilizzato,<br />
in numerose sue composizioni, temi tratti dal ricco patrimonio della musica<br />
popolare sarda; ma una differenza fondamentale avrebbe distinto i due modi<br />
diversi di accostarsi a quelle musiche. Per Oppo, infatti, la musica della Sardegna<br />
è un imprescindibile bagaglio di conoscenze, incarnato, già dai primi anni<br />
di vita, nel suo modo di concepire e pensare i suoni, prima ancora di maturare la<br />
conoscenza e l’esercizio del linguaggio musicale ‘colto’; per lui la tradizione<br />
musicale isolana non è mai stato un facile serbatoio di melodie da armonizzare<br />
e arrangiare, ma piuttosto un’arte antica e tuttora viva da studiare, penetrare e<br />
re-interpretare nei suoi fondamenti linguistici e strutturali. Egli insomma, come<br />
si legge nella «Premessa» all’opuscolo che accompagna il CD monografico con<br />
le sue musiche per pianoforte, «prende dalla cultura sarda per riconsegnare alla<br />
stessa cultura un prodotto carico della propria personale interpretazione e intelligenza<br />
musicale». 16 Ben diverso l’impiego dei suggestivi temi della musica sarda<br />
da parte di Porrino che, come ha giustamente sottolineato Oppo, «aveva<br />
della Sardegna (che penso conoscesse ben poco) una visione idealizzata e<br />
oleografica, che ben si rispecchia nella sua musica». 17<br />
Si capisce bene, dunque, come alla partenza di Abbado da Cagliari per il<br />
giovane musicista nuorese, che proseguì lo studio del pianoforte sino al diploma<br />
sotto la guida di Anna Paolone Zedda, per la composizione iniziasse quello<br />
che lui stesso ha descritto come «un calvario di incertezze e di vuoti», 18 tanto<br />
che ben presto si rese conto di essere isolato e di doversela cavare da solo. Ed è<br />
per questo che nelle scarne note biografie o autobiografiche che sono disponibili<br />
su di lui, oltre a Margola non figurino altri docenti del Conservatorio cagliaritano.<br />
19 Mentre vengono citati ripetutamente, fra i compositori con i quali Oppo<br />
15 Ibid.<br />
16 Ivi, p. 3.<br />
17 Ivi, p. 17.<br />
18 Ivi, p. 13.<br />
19 Cfr., per esempio, A. TRUDU, «Franco Oppo», in A. BASSO (a cura di), Dizionario Enciclopedico<br />
Universale della Musica e dei Musicisti (DEUMM), Le biografie, V, Torino 1988, p. 453.<br />
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ha studiato, Giorgio Federico Ghedini, Goffredo Petrassi, Franco Evangelisti,<br />
Piotr Perkowski.<br />
Di Ghedini, Oppo fu allievo dal 1958 al 1963 durante i corsi internazionali<br />
estivi di perfezionamento delle Vacanze Musicali di Venezia, che duravano due<br />
mesi e che erano assai diversi dai corsi di perfezionamento attuali, brevissimi e<br />
assai costosi, che spesso vengono frequentati dai giovani musicisti esclusivamente<br />
per poter aggiungere nel curriculum vitae un nome illustre fra i compositori<br />
di cui si è stati allievi. La personalità e la solidità musicale di Ghedini, come<br />
ha ammesso lo stesso Oppo, ebbero su di lui una notevole influenza, anche se<br />
poi sarebbe inutile cercarne tracce precise nella sua musica: «Ghedini era saldamente<br />
ancorato a una concezione tradizionale e conservativa della composizione<br />
ma badava quasi esclusivamente agli aspetti espressivi, alla sostanza al di là<br />
degli schematismi tecnici e formali; per questo il suo rapporto con gli studenti<br />
risultava comunque costruttivo». 20<br />
Ma la funzione di Ghedini nella formazione di Franco Oppo fu anche quella<br />
di una sorta di «contrappeso al radicalismo seriale, quasi religioso, che in quegli<br />
anni aveva ‘travolto’ molti giovani compositori», 21 una sorta di alternativa critica<br />
rispetto alle opere assai avanzate che i giovani frequentatori dei corsi veneziani<br />
potevano ascoltare grazie alla concomitanza, nel mese di settembre, delle<br />
Vacanze Musicali con il Festival Internazionale di Musica Contemporanea della<br />
Biennale. «Questa concomitanza – ha ricordato Oppo – rendeva prezioso il<br />
soggiorno a Venezia nel mese di settembre e per noi, giovani compositori, era<br />
proprio una pacchia, un concentrato di nuova musica, un’occasione unica per<br />
ascoltare, anno dopo anno, le novità dei più importanti compositori contemporanei:<br />
da Stravinskij a Stockhausen, da Malipiero a Maderna e Nono, da Boulez<br />
a Cage, a Feldman ecc.». 22<br />
Intanto Oppo si era diplomato in pianoforte nel 1958 e in composizione nel<br />
1960. Sebbene sino alla metà degli anni Sessanta non gli fosse ancora chiaro se<br />
avrebbe fatto il pianista o il compositore, nei mesi invernali fra il 1961 e il 1962 e fra<br />
il 1962 e il 1963 visse a Roma dove fece un anno di tirocinio con Virgilio Mortari e<br />
dove frequentò il corso di Goffredo Petrassi all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.<br />
Petrassi era uno dei più importanti compositori italiani e probabilmente il<br />
docente più apprezzato, tanto è vero che era titolare del corso sicuramente più<br />
prestigioso in Italia: quello di perfezionamento in composizione dell’Accade-<br />
20 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., pp. 23-24.<br />
21 Ivi, p. 24.<br />
22 Ibid.<br />
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mia di Santa Cecilia. L’incontro con Petrassi, che ancora a distanza di molti<br />
anni ricordava Franco Oppo come «un bravo musicista», 23 fu decisamente importante<br />
per Oppo, anche perché il suo rapporto con gli allievi, alquanto distaccato,<br />
era assai diverso da quello di Ghedini: preferiva soffermarsi sugli aspetti<br />
tecnici, come se non volesse invadere l’ambito personale e la coscienza estetica<br />
dei singoli allievi, rispettoso delle diverse nazionalità e scuole di appartenenza.<br />
Ciò che l’incontro con il Petrassi uomo, compositore e docente gli ha lasciato,<br />
Franco Oppo ha voluto sintetizzarlo in una composizione del 2004, centenario<br />
della nascita del Maestro, dal titolo enigmatico, Alcune verità indimostrabili,<br />
per flauto, clarinetto basso, percussione, pianoforte, violino e violoncello:<br />
ascendenze innegabili, ma difficili da argomentare e da rintracciare nelle partiture.<br />
«Tuttavia – ha ammesso Oppo – le mie composizioni scritte tra il 1962 e il 1964<br />
hanno una ‘cifra’ riconducibile al suo insegnamento: oltre al Lamento dal Salmo<br />
XIII, il Movimento per quartetto d’archi, Epitaffio e Don Chisciotte, anche<br />
se questi ultimi due lavori contengono già elementi di aleatorietà, che prefigurano<br />
i miei futuri orientamenti compositivi». 24<br />
Il periodo trascorso a Roma con Petrassi rappresentò il momento di consolidamento<br />
e di sintesi di tutte le precedenti esperienze e chiuse il lungo periodo<br />
della formazione. Come ricorda lo stesso Oppo, 25 il 1963 fu un anno assai importante,<br />
perché da un lato fu l’anno di composizione del primo lavoro maturo,<br />
il Lamento dal Salmo XIII, dall’altro perché fu alla fine di quell’anno che Oppo<br />
ottenne una borsa di studio del Ministero degli Esteri che gli permise di soggiornare<br />
in Polonia per due anni.<br />
Su suggerimento di Luigi Nono, che Oppo aveva conosciuto a Venezia, la<br />
partitura del Lamento era stata proposta per l’esecuzione a Mario Labroca, direttore<br />
del Festival veneziano, che inserì la composizione nella programmazione<br />
del festival dell’anno successivo, nel corso del quale fu eseguita al Teatro La<br />
Fenice il 13 settembre 1964, diretta dal polacco Andrzej Markowski, uno dei<br />
più attivi divulgatori della musica contemporanea di quegli anni.<br />
Il soggiorno in Polonia, invece, ebbe una duplice ragione. La prima, e la<br />
cosa non può certo sorprendere, fu una ragione musicale. Nell’ambito della<br />
cosiddetta avanguardia postweberniana tutto si evolveva con estrema rapidità e<br />
23 Così Petrassi definì il suo vecchio allievo Franco Oppo nel corso di una conversazione con<br />
l’autore di queste pagine, che ebbe luogo durante il 5° Seminario di studi e ricerche sul linguaggio<br />
musicale del settembre1975, tenutosi a Villa Cordellina-Lombardi, Montecchio Maggiore<br />
(Vicenza).<br />
24 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., pp. 26-27.<br />
25 Ivi, p. 25.<br />
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la poetica del serialismo integrale, alla quale peraltro Oppo non aveva mai aderito,<br />
si stava rapidamente esaurendo; in Polonia, dove si diceva stesse accadendo<br />
qualcosa di importante e di nuovo per la musica europea, c’era un grande<br />
fermento. La seconda può essere definita una ragione in qualche modo ‘politica’,<br />
cioè la curiosità per il mondo oltre la cosiddetta ‘cortina di ferro’, del quale<br />
tanti amici musicisti polacchi e ungheresi conosciuti a Roma e a Venezia avevano<br />
sdrammatizzato la situazione. «In quegli anni – precisa Oppo – l’informazione<br />
e la disinformazione erano strumenti fondamentali della lotta politica e una<br />
densa ‘cortina fumosa’ rendeva difficile vedere e conoscere la realtà delle cose;<br />
ma la mia generazione aveva ormai bisogno di capire. Quelli che avevo conosciuto<br />
erano musicisti normali, spesso più preparati e in generale molto più colti<br />
di noi: non potevano che avere alle spalle una buona scuola». 26<br />
Il primo dei due anni in Polonia, Oppo lo trascorse a Cracovia, dove potè<br />
contare su un piccolo appartamento con un pianoforte a coda che gli mise a disposizione<br />
il suo amico Markowski, direttore stabile dell’orchestra di Cracovia. Fu<br />
un anno dedicato allo studio del pianoforte, ma anche all’approfondimento della<br />
conoscenza del violoncello e all’esplorazione delle nuove possibilità tecniche ed<br />
espressive di quello strumento, grazie alla frequentazione di Krzysztof Okoñ, un<br />
violoncellista che Oppo aveva conosciuto a Venezia e del quale era diventato<br />
amico a Roma, dove il musicista polacco seguiva il corso di perfezionamento di<br />
Enrico Mainardi all’Accademia di Santa Cecilia. Il risultato di quel lavoro di<br />
approfondimento fu il Concerto per violoncello e orchestra, completato nel 1964<br />
ed eseguito per la prima volta durante gli Internationale Ferienkurse für Neue<br />
Musik di Darmstadt del 1966, interpretato dallo stesso Okoñ e diretto da Markowski.<br />
Però, come ha rivelato Franco Oppo, gli effetti di quel lavoro con il violoncellista<br />
di Cracovia si estesero anche al Trio per pianoforte, violino e violoncello, scritto<br />
nel 1968 ed eseguito per la prima volta a Rotterdam nel 1970.<br />
Ma il soggiorno a Cracovia fu anche utile a Oppo per fare chiarezza sul suo<br />
futuro e per decidere di abbandonare la strada del pianoforte, che gli si presentava<br />
stretta e incerta, per seguire senza più esitazioni quella della composizione.<br />
Fu così che nacque la decisione di lasciare Cracovia e di trascorrere il secondo<br />
anno del soggiorno polacco a Varsavia, soprattutto in seguito alla considerazione<br />
che per poter fare il compositore era necessario instaurare rapporti e coltivare<br />
amicizie, stare all’interno di una comunità della quale si condividevano gli<br />
interessi culturali e gli obiettivi. 27<br />
26 Ivi, p. 27-28.<br />
27 Ivi, p. 30.<br />
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Se prima dei due anni trascorsi in Polonia il giovane Oppo aveva già un chiaro<br />
orientamento politico e si collocava in quella che allora si chiamava l’area socialista,<br />
frequentando la famiglia di Emilio Lussu a Cagliari, a Roma e ad Armungia, 28<br />
al ritorno dalla Polonia, come lui stesso ha sottolineato, era decisamente comunista.<br />
Il ricordo, a distanza di quarant’anni, è ancora vivido, nella mente del compositore:<br />
«L’esperienza del socialismo reale mi aveva convinto. I primi tre-quattro<br />
mesi sono stati molto difficili, se fossi rientrato allora in Italia non avrei reagito<br />
diversamente dai frettolosi visitatori dei paesi dell’est: “comunismo?... no grazie”.<br />
Ma per fortuna il mio soggiorno in Polonia è stato assai più lungo. Per capire<br />
c’è voluto un po’ di tempo: diverso l’ordine sociale, diversi i valori prioritari, i<br />
comportamenti, le convenzioni, i ritmi di vita, i caratteri ecc., e poi la barriera<br />
della lingua… Solo quando ho iniziato a comunicare con i polacchi nella loro<br />
lingua, ho cominciato gradualmente a capire tutto il resto». 29<br />
Le differenze fra l’Italia liberista e capitalista e la Polonia comunista erano<br />
evidenti. Da un lato, per esempio, una società, quella italiana, caratterizzata da<br />
una frattura sociale e dalla contrapposizione di classe; dall’altro, la sensazione<br />
che la società polacca fosse omogenea e giusta, anche se, ovviamente, non priva<br />
di problemi. Se in Italia l’artista era per definizione «un morto di fame», lì<br />
invece era per tutti «un importante rappresentante della cultura e dell’identità<br />
nazionale». 30 E anche il problema delle libertà individuali, autentico cavallo di<br />
battaglia della propaganda anticomunista, almeno vivendo nella Polonia degli<br />
anni Sessanta, risultava del tutto inesistente.<br />
Una delle conseguenze della parentesi polacca fu il mancato ‘arruolamento’<br />
del giovane Oppo da parte di nessuna delle due cerchie di compositori dominanti<br />
in Italia, quella romana e quella milanese. Erano gli anni, non sarà inutile<br />
ricordarlo, del dominio quasi incontrastato della cosiddetta avanguardia<br />
postweberniana, tanto che i compositori appartenenti a quel gruppo erano afflitti<br />
– è Oppo che l’ha detto – da una sorta di complesso di superiorità che li<br />
spingeva a credere che tutta la musica che non rientrava nei canoni da loro<br />
condivisi fosse musica senza valore. E questo atteggiamento, inteso come posizione<br />
estetica, avrebbe anche potuto essere rispettato e forse anche condiviso,<br />
se non avesse prodotto una forma di neo-accademismo non meno nocivo del-<br />
28 Oppo era amico del figlio di Lussu, Giuannicu, e della moglie Joyce, che fra l’altro aveva<br />
tradotto alcune poesie del poeta turco Nazim Hikmet, che il compositore aveva utilizzato per<br />
un’opera del 1964, Ciò che ho scritto, per soprano e 4 strumenti, eseguita per la prima volta a<br />
Cracovia nel 1965.<br />
29 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 57.<br />
30 Ivi, p. 58.<br />
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l’accademismo vecchio stampo: «Non c’è niente da fare, l’applicazione religiosa<br />
di rigidi canoni chiude la porta a tutto ciò che se ne discosta: una non piccola<br />
contraddizione per una musica che voleva essere a tutti i costi progressiva e<br />
innovativa e che invece, spesso, finiva per essere piatta e indistinguibile. Per<br />
uno come me, che per tanti anni aveva dovuto difendersi dall’accademismo<br />
imperante nei conservatori italiani, era impossibile condividere quelle posizioni.<br />
Per questo motivo, forse, non ho mai fatto parte di una precisa cerchia di<br />
compositori né, tanto meno, di un gruppo di potere. In quegli anni Roma e<br />
Milano erano i due poli attorno ai quali ruotava la musica contemporanea italiana.<br />
Se nel biennio 1964-65 non fossi scomparso ‘oltre cortina’, mi sarei probabilmente<br />
ritrovato inquadrato da una parte o dall’altra». 31<br />
Al rientro a Cagliari dopo i due anni in Polonia, per Oppo fu giocoforza<br />
diventare politicamente attivo. Frequentando quasi esclusivamente persone di<br />
sinistra, inevitabilmente molte vecchie amicizie degli anni della formazione andarono<br />
un po’ per volta perdute. All’interno del Conservatorio cagliaritano, dove<br />
gli fu affidato l’incarico del corso di Armonia e contrappunto, Oppo si impegnò<br />
nella coordinazione dei pochi colleghi ‘progressisti’ che avevano aderito al Sindacato<br />
Musicisti Italiani (SMI), i pochi, come ha precisato, che avevano il coraggio<br />
di ‘venire allo scoperto’ rischiando ritorsioni e ricatti. Più tardi, alla metà<br />
degli anni Settanta, Oppo ebbe anche un ruolo attivo all’interno della federazione<br />
regionale del Partito Comunista Italiano, dove per alcuni anni fu responsabile<br />
per le attività musicali. Ma lo spazio per poter incidere concretamente sulla<br />
politica musicale regionale era assai ristretto, tanto è vero che di quell’incarico<br />
non rimangono tracce di rilievo.<br />
Decisamente più efficace, invece, la partecipazione al consiglio di amministrazione<br />
dell’Istituzione dei concerti e del teatro lirico «Giovanni Pierluigi da<br />
Palestrina», che era la vera sede del confronto tra Democrazia Cristiana e Partito<br />
Comunista Italiano sulla politica regionale dello spettacolo. Oppo era consigliere<br />
nella sua qualità di segretario regionale dello SMI e in almeno due occasioni fu il<br />
candidato della sinistra per la sovrintendenza, sconfitto però sempre di misura dal<br />
candidato democristiano di turno. Nel 1977, per una serie di circostanze fortunate,<br />
all’interno del consiglio di amministrazione del «Palestrina» si raggiunse un<br />
compromesso nominando non un sovrintendente, ma una commissione consiliare<br />
di sovrintendenza, formata da Oscar Crepas, Flavio Dessy Deliperi e Franco Oppo,<br />
appunto. Grazie a quella terna illuminata e grazie soprattutto a Franco Oppo, ma<br />
anche alla lungimiranza del direttore artistico del «Palestrina», Nino Bonavolontà,<br />
31 Ivi, pp. 31-32.<br />
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fu possibile raggiungere un obiettivo davvero straordinario: la realizzazione, nel<br />
1977 e nel 1978, delle Giornate di musica contemporanea, festival internazionale<br />
che, sull’onda lunga del Sessantotto, ebbe un grande successo di pubblico e<br />
attirò l’attenzione dei maggiori quotidiani italiani.<br />
Nel 1977 si chiamarono Giornate di musica e arte contemporanea, perché<br />
oltre alla musica ci fu la mostra «Punto e linea sulla superficie» curata da Marisa<br />
Volpi Orlandini e due conferenze su temi riguardanti le arti figurative: la prima<br />
della curatrice della mostra (Perché l’arte è storia dell’arte), la seconda di Gillo<br />
Dorfles che parlò di Segno musicale e segno grafico. La parte musicale comprendeva<br />
sei concerti, quattro sinfonici diretti da Alberto Peyretti (2), da Nino<br />
Bonavolontà e da Vittorio Gelmetti, con solisti del calibro di Severino Gazzelloni,<br />
Ingrid Frauchiger, Franco Maggio Ormezowski e Carmen Fournier; due<br />
cameristici, il primo dei quali con il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza,<br />
il secondo con alcuni strumentisti locali (Gabriella Artitzu, Giovanni<br />
Corrias, Silvano Minella, Francesco e Orlando Pittau), ai quali si aggiunsero<br />
Enore Zaffiri (sintetizzatore) e il mezzo soprano Ellen Kappel. Il programma<br />
proponeva, fra l’altro, opere di Varèse, Evangelisti, Stockhausen, Sciarrino,<br />
Penderecki, Scelsi, Boulez, Oppo, Donatoni Maderna, Manzoni, Togni. Ai concerti<br />
si aggiunsero una conferenza di Enrico Fubini (L’avanguardia nei suoi<br />
rapporti con pubblico e con la critica), quattro incontri con Claudio Casini,<br />
Boris Porena, Enore Zaffiri e con i componenti del Gruppo Nuova Consonanza,<br />
una tavola rotonda dal titolo Tendenze e orientamenti delle avanguardie: un<br />
bilancio, alla quale parteciparono, fra gli altri, Mario Bortolotto, Claudio Casini,<br />
Gillo Dorfles, Enrico Fubini, Mario Messinis, Luigi Pestalozza, Marisa Volpi<br />
e Michelangelo Zurletti. 32<br />
Quella rassegna, che deve essere considerata un passo avanti fondamentale<br />
per l’introduzione del pubblico di Cagliari alle difficoltà della musica nuova,<br />
attirò un pubblico numerosissimo che, anche quando fra gli interpreti non c’era<br />
il flauto d’oro di Severino Gazzelloni, già divo televisivo, gremì la Cripta di<br />
San Domenico, in cui si svolse la maggior parte delle manifestazioni, in ogni<br />
suo spazio (e molti non vi trovarono posto), dimostrando quanto fosse grande la<br />
richiesta di informazione sulla musica contemporanea da parte di un pubblico<br />
che ne era sempre stato escluso dalla programmazione non certo apertissima al<br />
nuovo dell’Istituzione dei Concerti, e quanto opportuna fosse stata la svolta<br />
fortemente voluta da Franco Oppo.<br />
32 Sulle Giornate di musica e arte contemporanea, cfr. A. TRUDU, Da Cagliari, «Nuova Rivista<br />
Musicale Italiana», XI, n. 3 (luglio-settembre 1977), pp. 445-448.<br />
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Nel 1978 si ebbe la seconda edizione delle Giornate di musica contemporanea,<br />
che si svolsero nel nuovissimo Auditorium del Conservatorio, questa volta<br />
dedicate esclusivamente alla musica. Il programma comprendeva otto concerti<br />
che diedero una dimensione europea a un’attività che troppo a lungo, in precedenza,<br />
era rimasta provinciale e isolata. I principali meriti di quel ciclo erano la<br />
programmazione quanto mai varia e interessante, che accostava opere di maestri<br />
del Novecento come Berio, Bussotti, Clementi, Donatoni, Ligeti, Penderecki,<br />
autori ancora poco noti ma importantissimi come Kurtág, Lachenmann, Scelsi,<br />
Sciarrino, compositori sardi maturi come Montis e Oppo e giovani poco più che<br />
esordienti come Carlo Cabiddu, Enrico Di Felice, Franco Fois, Riccardo Leone,<br />
Gigi Marras, Marcello Pusceddu, ma anche la presenza di interpreti di notevole<br />
valore come i direttori Gianluigi Gelmetti e Andrzey Markowski, il violoncellista<br />
Franco Maggio Ormezowski, la cimbalista Márta Fábian, il soprano<br />
Gabriella Ravazzi, il chitarrista Siegfried Behrend. Anche nel 1978 ai concerti<br />
si aggiunsero attività seminariali, che questa volta compresero conferenze di<br />
Franco Donatoni, Salvatore Sciarrino, Robert Helmschrott e Aldo Clementi, un<br />
incontro sulla musica elettronica con Enrico Chiarucci, Fausto Razzi, Ulrike e<br />
Wolf-Dieter Trüstedt e due laboratori sulla musica concreta e sulla musica elettronica<br />
affidati a Ulrike e Wolf-Dieter Trüstedt.<br />
Malgrado la manifestazione ponesse Cagliari ancora una volta al centro dell’attenzione<br />
del mondo musicale italiano 33 e nonostante un nuovo successo di<br />
pubblico, addirittura più numeroso di quello del 1977 e numerosissimo in occasione<br />
del concerto elettronico, in occasione del quale l’Auditorium del Conservatorio<br />
(1.100 posti) fece registrare il tutto esaurito, ci furono delle contestazioni<br />
da parte dei sindacati dei musicisti proprio alla vigilia delle Giornate, che<br />
portarono alle dimissioni della commissione consiliare di sovrintendenza formata<br />
da Crepas, Deliperi e dallo stesso Oppo e, come del resto era facile prevedere,<br />
negli anni successivi le Giornate di musica contemporanea furono cancellate<br />
dalla programmazione del «Palestrina». La spiegazione la fornisce<br />
lucidamente Franco Oppo: «Non fu […] possibile realizzare la terza edizione<br />
del festival perché il suo successo fu interpretato come una vittoria dei ‘comunisti’,<br />
che doveva essere cancellata». 34<br />
Il passo successivo di Franco Oppo nella direzione della diffusione della<br />
musica contemporanea nel capoluogo sardo, visto che non fu possibile ritrovare<br />
33 Le Giornate del 1978 furono seguite da alcuni quotidiani nazionali e dalla stampa specializzata.<br />
Cfr. A. TRUDU, Da Cagliari, «Nuova Rivista Musicale Italiana», XII, n. 4 (ottobre-dicembre<br />
1978), pp. 624-628.<br />
34 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 60.<br />
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all’interno dell’Istituzione dei concerti gli equilibri politici necessari per far<br />
rivivere le Giornate di musica contemporanea, fu la nascita dell’Associazione<br />
Spaziomusica e del suo festival: «Nel 1982 ho preso atto che quella esperienza<br />
era stata soltanto una felice parentesi e che l’Ente Lirico cagliaritano era<br />
ripiombato nel grigiore del provincialismo culturale, eufemisticamente chiamato<br />
‘tradizione’. Così, incoraggiato da molti compositori e interpreti (italiani e<br />
stranieri) che avevano partecipato alle felici stagioni del ’77 e ’78, ho preso<br />
l’iniziativa di raggruppare alcuni volenterosi, illuminati e preparati giovani<br />
musicisti cagliaritani intorno a un progetto culturale e organizzativo autonomo,<br />
svincolato dalle beghe dell’Ente Lirico e del Conservatorio. In breve tempo<br />
abbiamo fondato l’Associazione Spaziomusica e, già nel 1982, realizzato la<br />
prima edizione dell’omonimo Festival». 35<br />
Del Festival Spaziomusica Franco Oppo è stato per oltre vent’anni il principale<br />
animatore, oltre che il direttore artistico che di anno in anno sceglieva il tema<br />
generale di ciascun festival, definiva i programmi, selezionava gli interpreti. Impossibile,<br />
in questa sede, ripercorrere anche per sommi capi un’attività che dura<br />
da quasi trent’anni. Mi limiterò a ricordare le edizioni del 1985 e del 1986, rispettivamente<br />
dedicate a «Bach, Händel, Scarlatti nella musica contemporanea» 36 e a<br />
«Federico García Lorca nella musica contemporanea», 37 ricordando che quest’ultima<br />
ottenne l’ambito e prestigioso «Premio Abbiati», assegnato a Spaziomusica<br />
dai critici musicali italiani per la migliore iniziativa musicale del 1986; le edizioni<br />
del 1984 e del 1989, che ruotarono intorno alle figure di due dei grandi protagonisti<br />
della musica del secondo Novecento, Luigi Nono e Karlheinz Stockhausen<br />
rispettivamente, che furono fisicamente presenti a Cagliari per tenere incontri e<br />
seminari. Fra l’altro è soprattutto grazie alle occasioni di esecuzione e di confronto<br />
offerte dal Festival Spaziomusica che è nata e si è affermata tutta una nuova<br />
generazione di giovani compositori sardi che ha avuto modo, proprio grazie a<br />
quel festival, di farsi conoscere anche fuori dalla Sardegna.<br />
I nomi sono quelli di Fabrizio Casti, Antonio Doro, Lucio Garau, Marcello<br />
Pusceddu, Giorgio Tedde, 38 ai quali si sono aggiunti, in seguito, i più giovani<br />
Ettore Carta e Antonio Lai. Tutti loro sono stati allievi del Corso di Nuova<br />
35 Ivi, p. 61.<br />
36 Cfr. A. TRUDU (a cura di), Metamorfosi nella musica del Novecento: Bach, Händel, Scarlatti,<br />
«Quaderni di M/R», n. 13, Milano, 1987.<br />
37 Cfr. A. TRUDU (a cura di), Federico García Lorca nella musica contemporanea, «Quaderni di<br />
M/R», n. 24, Milano, 1990.<br />
38 Con l’eccezione di Tedde, degli altri quattro è possibile leggere un breve tributo all’insegnamento del<br />
Maestro in G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., pp. 19, 37-38, 49, 53.<br />
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Antonio Trudu<br />
Didattica della Composizione, in seguito chiamato, più semplicemente, Composizione<br />
Sperimentale, attivato nel 1975, accanto al quale nacquero prima il<br />
Laboratorio di Musica Elettronica e poi addirittura la classe di musica elettronica,<br />
una delle prime istituite in Italia. L’interesse per il nuovo corso di composizione<br />
fu immediatamente notevole e ai numerosi aspiranti compositori si aggiunsero<br />
studenti di musicologia (Myriam Quaquero e Gian Nicola Spanu, oltre<br />
a chi scrive) e strumentisti, ma anche giovani che intendevano semplicemente<br />
arricchire il proprio bagaglio culturale. Per alcuni anni quel corso fu un autentico<br />
cenacolo, nel quale ci si incontrava per imparare, ma anche per discutere<br />
animatamente di problemi non esclusivamente musicali.<br />
«Nel giro di pochi anni – precisano i ricordi di Franco Oppo – si è formato<br />
un gruppo di giovani interessati alla musica non solo emotivamente: c’era desiderio<br />
di conoscere e di capire, di andare oltre le apparenze. La vecchia<br />
metodologia didattica della composizione, basata su modelli da imitare, è stata<br />
sostituita dallo studio delle strutture musicali e dai modelli logici per l’elaborazione<br />
dei suoni: un cambio di prospettiva non indifferente, che coinvolgeva gli<br />
studenti e stimolava il dibattito». 39 I vecchi manuali furono sostituiti dal Manuale<br />
di armonia di Arnold Schönberg 40 e dall’imponente (471 pagine di un<br />
volume di grande formato) Introduzione alla composizione 41 del noto compositore,<br />
teorico e musicologo polacco, Bugus³aw Schaeffer, un librone che riassume<br />
le problematiche e le tecniche di composizione del Novecento, illustrandole<br />
con più di 700 esempi tratti dalla letteratura musicale contemporanea; ma a<br />
questi testi si affiancarono altre letture, prime fra tutte due libri di Umberto Eco:<br />
La struttura assente 42 e il Trattato di semiotica generale. 43<br />
Se il risultato più importante del corso sperimentale è rappresentato dalla<br />
nascita di una nuova generazione di compositori sardi, tutti con forte personalità<br />
e differente atteggiamento stilistico, «uno diverso dall’altro – ha detto Oppo<br />
quasi con orgoglio – nella buona tradizione dei vecchi maestri Ghedini e Petrassi<br />
(non compositori-fotocopia, quindi)», 44 d’altro canto l’atmosfera vivace della<br />
classe e la qualità del dibattito con gli allievi stimolarono il Maestro ad approfondire<br />
gli argomenti e a sviluppare una nuova teoria analitica denominata Teoria<br />
delle unità di articolazione, che Oppo sperimentò a lungo e che poi pose<br />
39 Ivi, pp. 63-64.<br />
40 A. SCHÖNBERG, Manuale di armonia, a cura di L. Rognoni, trad. di G. Manzoni, Milano, 1963.<br />
41 B. SCHÄFFER, Introduction to composition, Warszawa, 1976.<br />
42 U. ECO, La struttura assente. Introduzione alla ricerca semiologica, Milano, 1968.<br />
43 U. ECO, Trattato di semiotica generale, Milano, 1975.<br />
44 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 64.<br />
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alla base del suo corso, presentandola in occasione del convegno Musical<br />
grammars and Computer Analysis che si tenne a Modena nel 1982. 45<br />
È una teoria che applica alla musica il principio fondamentale della teoria<br />
dell’informazione, l’opposizione dei segni, e che è nata in seguito all’osservazione<br />
che il linguaggio musicale si sviluppa attraverso una successione di unità di<br />
articolazione di vario livello, dalle unità minime, quelle più minuscole ed elementari,<br />
alle più complesse e ampie, caratterizzate e riconoscibili grazie alla presenza<br />
di chiari segnali di inizio e di fine. La completa formalizzazione di questa teoria,<br />
che, per sua stessa ammissione, gli è stata suggerita dallo studio e dall’ascolto<br />
delle opere dei compositori che sente più vicini, Bach, Scarlatti, Mozart, Beethoven,<br />
Schubert, Chopin, Schumann, Brahms, Debussy, Stravinskij, Oppo non l’ha ancora<br />
messa completamente a punto e questo è un po’ il suo cruccio: «Ma ci sto<br />
lavorando – assicura – e spero di portare a termine quello che sarà un grosso<br />
volume teorico entro un anno o poco più. Ho già scritto l’introduzione e ne ho<br />
definito il titolo: Segmentazione, unità di articolazione e modelli strutturali della<br />
musica. Sono ancora incerto se integrarlo con “… e valore estetico”. L’incertezza<br />
ovviamente deriva dalla consapevolezza di quanto sia rischioso addentrarsi in<br />
questo terreno minato. Sta di fatto che, durate la stesura del testo, il problema<br />
riaffiora continuamente, s’insinua tra i ragionamenti puramente formali e, alcune<br />
volte, tra le funzioni strutturali delle unità d’articolazione ho potuto distinguere<br />
(credo con argomentazioni forti) quelle che danno logica formale e correttezza<br />
grammaticale da quelle che, invece, hanno un ruolo essenzialmente (o esclusivamente)<br />
estetico. […] Non è una questione da nulla, ma, sino a ora, ho trovato il<br />
coraggio di affrontarla ogni volta che si è presenta. L’aggiunta al titolo dipenderà<br />
da quanto alla fine quest’argomento peserà sul resto del testo». 46<br />
Ma, va ricordato e sottolineato, pur alternato e intrecciato a tutte le altre<br />
attività, il lavoro di compositore è sempre stato, per Oppo, il suo impegno principale<br />
e anzi, sebbene non abbia avuto difficoltà a riconoscere che l’esperienza<br />
del Corso Sperimentale sia stata e rimanga, comunque, uno dei momenti più<br />
felici della sua vita di musicista, 47 Oppo ha dovuto ammettere che per alcuni<br />
anni l’impegno e le energie profuse nell’attività didattica hanno rallentato la sua<br />
attività di compositore che continua senza pause e che oggi, quando non ci sono<br />
altri impegni prioritari a rallentarla, è finalmente diventata l’impegno rispetto al<br />
quale tutti gli altri sono subordinati.<br />
45 F. OPPO, Per una teoria generale del linguaggio musicale, in Musical Grammars and Computer<br />
Analysis, Atti del Convegno (Modena, 4-6 ottobre 1982), Firenze 1984, pp. 115-130.<br />
46 F. OPPO, Lettera a Antonio Trudu del 19 febbraio 2009.<br />
47 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 64.<br />
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Le prime composizioni, come si è detto, risalgono agli anni della formazione.<br />
Dopo quelle nelle quali è riconoscibile, come ha ammesso lo stesso Oppo,<br />
l’influenza di Petrassi, che risalgono ai primi anni Sessanta e che giustificano<br />
l’affermazione che il suo percorso stilistico sia partito da «posizioni<br />
neoclassiche», 48 vennero opere decisamente più personali e originali, chiaramente<br />
improntate e collegate alle problematiche dell’avanguardia di quegli anni,<br />
in particolare all’esigenza di controllare l’aleatorietà, che per molti compositori<br />
era stata la risposta, sulla scia della poetica del caso di John Cage, alla complessità<br />
e anche alle complicazioni del cosiddetto serialismo integrale. Così nelle<br />
opere vocali della metà degli anni Sessanta e soprattutto nel Concerto per violoncello<br />
la parte solistica assume la funzione di elemento strutturante sul quale<br />
gli strumenti intervengono reagendo alle diverse sollecitazioni del solista; così<br />
in lavori come la Musica per chitarra e quartetto d’archi (1975), Rondeau<br />
(1975) e Amply (1976) i procedimenti combimatori tendono a neutralizzare –<br />
senza tuttavia escluderlo completamente – il caso; e in Praxodia (1976) tutti i<br />
parametri musicali sono determinati dalle caratteristiche semantico-fonematiche<br />
dei testi del poeta angolano Agostinho Neto.<br />
Furono anni importanti, per Franco Oppo. Il Concerto per violoncello fu<br />
eseguito per la prima volta ai Ferienkurse di Darmstadt del 1966; il Trio per<br />
pianoforte, violino e violoncello e Digressione, per coro femminile e orchestra,<br />
furono presentati, entrambi in prima assoluta, ai Concorsi Gaudeamus, che si<br />
tennero rispettivamente nel 1970 a Rotterdam e nel 1971 a Utrecht; Praxodia<br />
vinse entrambi i premi (quello della giuria e quello del pubblico) al Seminario<br />
Internazionale dei Compositori di Boswil nel 1976; nel 1979 la versione teatrale<br />
della stessa Praxodia vinse il concorso bandito dal Teatro Sperimentale di<br />
Terni e dalla Filarmonica Umbra e venne messa in scena per la prima volta nel<br />
Teatro Caio Melisso di Spoleto.<br />
In particolare – lo ha raccontato lo stesso compositore – il 1975 e il 1976<br />
furono due anni proficui e cruciali sia per il suo lavoro compositivo sia per la<br />
sua vita privata. Nel 1975 Oppo vinse il concorso per una cattedra di ruolo di<br />
Armonia e Contrappunto al Conservatorio di Milano, diretto da Marcello Abbado,<br />
con il quale aveva mantenuto ottimi rapporti, ma rinunciò, optando per la cattedra<br />
di Composizione che nello stesso anno aveva ottenuto al Conservatorio di<br />
Cagliari: «Sono gli anni della Musica per chitarra e quartetto d’archi e di<br />
Praxodia, opere che rappresentano un’importante svolta stilistica e segnano<br />
tutta la mia attività di compositore. Opere che, probabilmente, non sarebbero<br />
48 A. TRUDU, «Franco Oppo» cit., p. 453.<br />
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Antonio Trudu
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mai nate se mi fossi trovato coinvolto nelle beghe della musica milanese di<br />
quegli anni (a parte il fatto che proprio allora a Cagliari si consolidava un legame<br />
affettivo diventato irrinunciabile)». 49<br />
A parte l’interesse musicale, le partiture della Musica per chitarra e di<br />
Praxodia hanno un aspetto grafico che rimanda alla musica aleatoria, pur non<br />
essendo opere aleatorie. In realtà queste partiture non si limitano, come accade<br />
di norma, a fornire agli interpreti tutte le indicazioni necessarie per l’esecuzione,<br />
ma descrivono in modo esplicito anche i procedimenti compositivi adottati.<br />
«A suo tempo – ricorda Oppo – ho definito queste partiture come autoanalizzate.<br />
Al di là dell’aspetto grafico, le due composizioni scaturiscono da due ‘grandi’<br />
scommesse strutturali: la prima è stata la costruzione di un’intera composizione<br />
basata sulla contrapposizione di due soli elementi (0 e 1, come nel sistema binario<br />
della teoria dell’informazione) e la seconda, Praxodia, è stata quella di costruire<br />
un’intera composizione facendo derivare ogni nota dalle strutture del<br />
testo: come se l’atto compositivo consistesse soltanto nell’estrazione della musica<br />
implicitamente contenuta nei versi, nelle parole e nelle sillabe». 50<br />
Praxodia deve essere considerato uno dei lavori più importanti e significativi<br />
dell’intera produzione di Oppo. Infatti è con quest’opera che i moduli della<br />
musica tradizionale della Sardegna entrano stabilmente nella produzione del<br />
compositore nuorese e ne diventano una componente essenziale. Non si tratta,<br />
però, di un uso di tipo tematico, quello, tanto per intenderci, messo in atto da un<br />
compositore come Ennio Porrino, che ha utilizzato, per le sue opere, numerosi,<br />
bellissimi temi tratti dal ricchissimo patrimonio della musica popolare sarda,<br />
rivestendoli, però, di sonorità, di armonie, di timbri che sono propri della musica<br />
occidentale colta. 51 Insomma, mentre il ricorso alla musica tradizionale sarda<br />
per Porrino era in qualche modo analogo ai numerosi riferimenti alla musica<br />
colta del passato e dunque classificabile, anche se schematicamente, come di<br />
matrice neoclassica, l’attenzione di Oppo si è concentrata sulle microstrutture<br />
della musica popolare della Sardegna e in breve quei procedimenti combinatori<br />
e quel tipo di organizzazione strutturale si sono insinuati nelle sue composizioni.<br />
La ‘sardità’ – come ha ammesso Oppo – entra nelle sue composizioni<br />
come valore aggiunto prettamente musicale, nel senso che le strutture della musica<br />
tradizionale della Sardegna si aggiungono a quelle della tradizione classica eu-<br />
49 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 13.<br />
50 Ivi, p. 40.<br />
51 Cfr., a questo proposito, A. TRUDU, Per una collocazione critica dell’opera di Ennio Porrino,<br />
«Annali della Facoltà di Magistero dell’Università degli Studi di Cagliari», n. s., I (1976), pp.<br />
127 150.<br />
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ropea; ma è ovvio e inevitabile – secondo lui – che di ciò si possano dare letture<br />
extramusicali: «I percorsi culturali sono complessi e aggrovigliati, e possono<br />
essere analizzati da tanti diversi punti di vista. Inutile tentare di nascondersi<br />
dietro un dito: la mia doppia identità culturale è innegabile e credo che proprio<br />
da qui si debba partire per inquadrare e capire la mia musica, e per ragionare sui<br />
valori extramusicali di cui potrebbe essere portatrice». 52<br />
Eppure – non è dubitabile – questi ‘valori’ ci sono stati nella produzione di<br />
Franco Oppo. Ciò almeno in molte delle composizioni vocali, per le quali, fra gli<br />
altri, Oppo ha utilizzato testi del poeta turco Nazim Hikmet. 53 Basta leggere i testi<br />
di Epitaffio, di Don Chisciotte e di Ciò che ho scritto per rendersi conto di come,<br />
già negli anni Sessanta, il suo scopo fosse – come è accaduto e accade spesso a chi<br />
scrive musica – quello di «far breccia nella sfera emotiva degli ascoltatori». 54<br />
Ma è soprattutto con Praxodia che Oppo ha affermato allo stesso tempo il diritto<br />
e il dovere dell’artista, del musicista di intervenire con il suo ‘canto’ nella ‘praxis’,<br />
di prendere coscienza e di denunciare situazioni di violenza e di repressione che ci<br />
si ostina a considerare circoscritte ad ambiti geografici e sociali lontani e diversi, ma<br />
che in realtà sono emblematiche, da sempre della storia della civiltà occidentale.<br />
Questo è il significato del titolo e questo fu il motivo della scelta dei testi di quell’opera,<br />
che sono alcune poesie di Agostinho Neto, prima poeta, poi combattente<br />
per la libertà e l’indipendenza del suo paese, l’Angola: poesie tratte da un’antologia<br />
dal titolo Con gli occhi asciutti, curata da Joyce Lussu. 55<br />
Nel 1976, quando fu scritta la versione concertistica dell’opera, l’autore<br />
pensava certamente di riferire la sua Praxodia a una realtà geografica, storica e<br />
sociale ben precisa e cioè quella della lotta di liberazione del popolo angolano<br />
dalla dominazione portoghese. Nel 1979, l’anno in cui fu realizzata la versione<br />
scenica, l’Angola era una repubblica indipendente e Agostinho Neto ne era il<br />
presidente. Perciò, tenuto conto del fatto che in altre parti del mondo, in tutti i<br />
continenti e a tutte le latitudini, c’era ancora chi lottava per emanciparsi, per<br />
non essere più sottomesso, sfruttato, emarginato, Oppo preferì rinunciare a qualsiasi<br />
riferimento preciso, trattando il problema come una questione generale,<br />
quasi una costante storica, della civiltà occidentale. Anche se, come lo stesso<br />
autore precisava, il modo in cui il lavoro è impostato suggerisce il riferimento<br />
52 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 52.<br />
53 Franco Oppo ha utilizzato, fra i testi «impegnati», anche scritti di Jorge Luis Borges, Bertolt<br />
Brecht, Federico García Lorca, Vladimir Majakovskij, Maximilien Robespierre, Tadeusz<br />
Ró¿ewicz, Andrej Voznesenskij.<br />
54 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 50.<br />
55 A. NETO, Con gli occhi asciutti, trad. di J. Lussu, Milano, 1963.<br />
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alle società sottosviluppate, non solo dei paesi del terzo mondo, ma anche,<br />
senza andare troppo lontano, del meridione italiano e delle isole.<br />
Per evidenziare questo carattere di ‘universalità’ del lavoro, l’autore rinunciò<br />
a organizzare il materiale testuale in una vera e propria vicenda teatrale,<br />
tanto è vero che mancano sia una vera e propria azione, sia le dramatis personae.<br />
Si ha invece una successione di poesie che descrivono situazioni emblematiche<br />
e che rappresentano degli stati emotivi individuali e collettivi, raccontando comunque<br />
una sorta di storia che, partendo dalla descrizione di una situazione di<br />
oppressione e passando attraverso la presa di coscienza e la conseguente ribellione,<br />
si conclude positivamente con l’inizio di una vita più giusta.<br />
Ma i testi delle poesie di Agostinho Neto non forniscono soltanto la materia per<br />
la recitazione e per il canto. Con una soluzione assai originale e interessante, Oppo<br />
fa sì che essi diano vita alla struttura stessa della composizione in tuti i suoi aspetti:<br />
la metrica determina di volta in volta la varietà o l’uniformità del ritmo, le vocali o<br />
i gruppi vocalici e le successioni sillabiche determinano le altezze. Così, nonostante<br />
il materiale musicale abbia la flessibilità caratteristica della costruzione aleatoria, in<br />
realtà è circoscritto dalla iniziale programmazione. La parte vocale si mantiene in<br />
ambiti estremamente ristretti: poche note, spesso a distanza di un quarto di tono.<br />
Anche la parte strumentale è in stretto rapporto con il testo, del quale in definitiva<br />
non è altro che una proiezione ritmico-musicale. Ne risulta un costante rapporto<br />
dialettico fra musica e testo poetico: se è vero, infatti, che la struttura musicale<br />
deriva dal testo, è anche vero che il testo viene integrato dalla musica, che ne mette<br />
in risalto i significati e le strutture. Per le indicazioni sceniche vengono utilizzati<br />
alcuni versi delle poesie di Neto che non vengono né recitati né cantati.<br />
A proposito della parte vocale, va sottolineato che in essa si possono riscontrare<br />
più o meno evidenti riferimenti agli stilemi della musica popolare. Del<br />
resto lo stesso compositore ha ammesso che con Praxodia i moduli della musica<br />
popolare sarda entrano stabilmente nella sua musica, diventandone una componente<br />
essenziale. 56 «Intorno al 1975 – ha precisato – la mia attenzione si è<br />
concentrata sulle microstrutture della musica tradizionale della Sardegna e in<br />
breve tempo quei procedimenti combinatori e quel tipo d’organizzazione strutturale<br />
si sono insinuati nelle mie composizioni». 57<br />
La partitura di Praxodia, come già in precedenza quella della Musica per chitarra<br />
e quartetto d’archi, è una di quelle che Oppo ha definito «autoana-lizzate», 58<br />
56 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 32.<br />
57 Ivi, p. 52.<br />
58 Ivi, p. 40.<br />
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di quelle, cioè, che oltre a fornire agli interpreti e al direttore (al quale del resto viene<br />
riservato un rigo a parte) tutti gli elementi necessari alla realizzazione, è anche una<br />
descrizione dei processi compositivi e della struttura dell’opera. Infatti evidenzia di<br />
volta in volta in forma esplicita le diverse relazioni intercorrenti fra il testo e la<br />
musica, sintetizzandole per mezzo di schemi formali comuni a entrambi.<br />
Le due versioni di Praxodia, la prima, del 1976, esclusivamente concertistica,<br />
per soprano, basso e 8 strumenti, la seconda, del 1979, scenica, con l’aggiunta<br />
di un numero variabile (da 3 a 5) di attori ai cantanti e agli strumenti, concludono<br />
un percorso stilistico particolarmente fecondo e felice che prende le mosse<br />
dal Concerto per violoncello (1964) e che prosegue con lavori come i già ricordati<br />
Musica per chitarra, Rondeau e Amply.<br />
Nelle opere composte a partire dagli anni Ottanta, fra le quali sarà opportuno<br />
ricordare almeno le due versioni di Anninnia, la prima (1978) per 8 strumenti<br />
e monocordo elettrico, la seconda (1982) per 8 strumenti, le Tre berceuses per<br />
pianoforte (1981-1982), Attitidu per fagotto e quartetto d’archi (1983), North<br />
Sardinian Dance per pianoforte (1984) e Sagra per oboe, 2 violini e viola (1985),<br />
le suggestioni del ricco patrimonio della musica popolare della Sardegna hanno<br />
incominciato a fornire alle composizioni di Franco Oppo da un lato il substrato<br />
culturale, dall’altro un preciso e costante supporto linguistico che non si contrappone<br />
alle soluzioni avanguardistiche ma si affianca ad esse. Si tratta di una<br />
nuova e originalissima musica ‘stocastica’, basata non, come accadeva al suo<br />
inventore, Iannis Xenakis, su leggi fisiche, sulle strutture di un edificio o sul calcolo<br />
delle probabilità, ma sulle strutture ritmiche e intervallari del canto popolare<br />
sardo che divengono generatrici di forme musicali ‘colte’; anche se – Oppo ci<br />
tiene a precisarlo 59 – soltanto raramente nelle sue composizioni è possibile trovare<br />
vere e proprie citazioni di temi tratti dalla musica popolare della Sardegna. 60<br />
Il catalogo di Franco Oppo comprende una novantina di composizioni, che si<br />
possono dividere in tre filoni, in tre gruppi non distinti cronologicamente e non<br />
sempre chiaramente delimitabili, anche perché spesso una composizione potrebbe<br />
essere inserita in più di un gruppo. Ai primi due si è già fatto cenno: quello<br />
della ricerca e della sperimentazione e quello delle opere che fanno riferimento al<br />
59 Questo concetto è stato ribadito più volte da Franco Oppo. In particolare mi riferisco a<br />
un’intervista inedita da me realizzata nell’autunno del 2006.<br />
60 L’uso più esplicito di una melodia popolare, come ha sottolineato lo stesso Franco Oppo, si<br />
trova nell’ultimo tempo del Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra, che è costruito nella forma<br />
classica del «Tema con variazioni» e il cui tema è, appunto, un canto monodico campidanese, in<br />
origine accompagnato dalla chitarra. Anche il primo tema dell’Adagio riporta, in forma meno<br />
esplicita, la melodia di Funtana cristallina, altro canto monodico della Sardegna centrale con<br />
accompagnamento di chitarra.<br />
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ricco patrimonio della musica popolare della Sardegna. Quest’ultima, va sottolineato,<br />
il compositore l’ha studiata a lungo, analizzandola puntigliosamente, 61 tanto<br />
che si può dire che le due attività, quella di studioso e quella di compositore, si<br />
siano intrecciate, in modo tale che l’una è stata proficuamente integrata e arricchita<br />
dall’altra. Esemplare, da questo punto di vista, una composizione come le Tre<br />
berceuses, che sono le trascrizioni pianistiche di tre ninne nanne sarde (anninnias)<br />
realizzate con il linguaggio e la tecnica compositiva attuali. 62<br />
Va comunque precisato che la presenza delle strutture e degli stilemi della<br />
musica popolare sarda si rintraccia anche in alcune delle composizioni del filone<br />
della ricerca, come per esempio il Concerto per violoncello e orchestra, ma<br />
soprattutto in diverse delle opere del terzo gruppo o filone. Quest’ultimo è quello<br />
che comprende opere scritte per una destinazione per così dire occasionale:<br />
composizioni commissionate per essere eseguite in occasioni particolari, come<br />
celebrazioni o anniversari, musiche finalizzate ad accompagnarsi a eventi artistici<br />
non esclusivamente musicali, come opere teatrali, documentari cinematografici<br />
e televisivi, musica d’ambiente per mostre d’arte o d’artigianato.<br />
L’opera più importante di questo terzo gruppo è senza dubbio Eleonora<br />
d’Arborea (1986), commissionata a Oppo dall’Istituzione dei Concerti e del Teatro<br />
Lirico di Cagliari che voleva realizzare e mettere in scena una versione musicale<br />
dell’omonimo poema drammatico di Giuseppe Dessì. 63 Se in Praxodia la<br />
tematica generale era la lotta dell’uomo contro l’ingiustizia e la sopraffazione, in<br />
Eleonora d’Arborea si parla della lotta di un popolo e della sua mitica giudicessa<br />
contro chi vuole privarli della libertà e dell’indipendenza. L’opera non è un melodramma<br />
nel senso tradizionale del termine: l’azione, infatti, viene affidata interamente<br />
agli attori, mentre la musica si aggiunge alla loro recitazione, l’accompagna<br />
e ne sottolinea le fasi drammaturgicamente più importanti. Gli interventi musicali<br />
sono di due tipi. Da una parte una musica esclusivamente strumentale, 64 una<br />
61 Va ricordata, a questo proposito, una lunga e articolata ricerca ‘sul campo’ sulle launeddas che<br />
si svolse nel 1987 grazie a un finanziamento dell’Istituto Etnografico Sardo, che prese le mosse<br />
da una lunga serie di interviste e di registrazioni a tutti i suonatori di launeddas della Sardegna.<br />
Il risultato fu un ampio testo rimasto inedito e un saggio breve: F. OPPO, Il sistema dei cunzertus<br />
nelle launeddas, in G. N. SPANU (a cura di), Sonos. Strumenti della musica popolare Sarda,<br />
Nuoro, 1994, pp. 156-161.<br />
62 Lo stesso discorso si può fare anche per Gallurese (1989) e Baroniese (1993), entrambe per<br />
pianoforte a 4 mani, che sono trascrizioni di altrettanti brani per launeddas.<br />
63 G. DESSÌ, Eleonora d’Arborea. Racconto drammatico in quattro atti, Milano, 1964.<br />
64 La parte strumentale è affidata a tre gruppi, due ai lati, fuori scena, e uno sul palco. Quest’ultimo<br />
è composto di soli quattro strumenti (clarinetto, fagotto e 2 violoncelli) e allude intenzionalmente<br />
al quartetto di voci maschili «a tenore» tipico della musica vocale barbaricina.<br />
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Antonio Trudu<br />
sorta di musica di scena che accompagna parte del testo recitato dagli attori;<br />
dall’altra delle sezioni cantate che si integrano con l’azione scenica e si sviluppano<br />
parallelamente a essa. Va comunque sottolineato che i due cantanti non<br />
hanno il ruolo di personaggi, ma riprendono, amplificandoli, i diversi momenti<br />
del dramma, con una funzione che può essere paragonata a quella del coro della<br />
tragedia greca, costituendo dunque, come ha detto lo stesso autore, una sorta di<br />
‘barriera morale’ posta tra il pubblico e il dramma, di ‘spettatore ideale’, di<br />
‘voce del compositore’. 65 La musica è una sintesi particolarmente felice ed efficace<br />
fra i due piani compositivi di Franco Oppo, quello della ricerca timbrica,<br />
costruttiva e formale e quello caratterizzato, arricchito e fecondato dalle suggestioni<br />
del ricco patrimonio della musica popolare della Sardegna.<br />
Sebbene molte delle ‘commissioni’ siano giunte a Franco Oppo dalla penisola<br />
e dall’estero, come dimostrano i luoghi in cui sono avvenute le prime esecuzioni<br />
di Variazioni su un tema di Mozart, per orchestra (Firenze, 1991), Musica per 11<br />
strumenti ad arco (Roma, 1992), Variazioni su temi popolari, per launeddas e<br />
live electronics (Darmstadt, 1992), Trio III, per flauto, violino e pianoforte<br />
(Darmstadt, 1994), Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra (Alicante, 1997),<br />
Tetrafonie (Stoccarda, 2000), Uno spettro si aggirava per l’Europa (Milano, 2000),<br />
Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra (Rabbi, 2002), Alcune verità indimostrabili<br />
(Latina, 2004), non sono mancati gli stimoli locali. «Dalla metà degli anni Settanta<br />
sino alla fine degli anni Ottanta – ha ricordato Oppo – Cagliari è stata una città<br />
culturalmente molto vivace; la sede regionale della RAI (che allora godeva di una<br />
reale autonomia) e i giornali locali registravano puntualmente tutte le attività culturali<br />
e artistiche. Non è quindi un caso che una gran parte della mia produzione<br />
degli anni Ottanta sia stata stimolata da committenze locali: oltre all’Eleonora<br />
d’Arborea, le musiche per i documentrari RAI di Roberto Olla, Intorno all’isola<br />
e Quadri di guerra, e infine Anafore e cicli elettronici, scritti per una mostra<br />
itinerante dell’ISOLA curata dall’Architetto milanese Luigi Massoni». 66<br />
Per tornare, concludendo queste pagine, al concetto con cui si è iniziato, quello<br />
di ‘musicista organico’ inteso nel senso gramsciano e noniano del termine, se<br />
non v’è alcun dubbio che Franco Oppo abbia dimostrato il suo impegno sociale,<br />
civile e politico in tutte le sue attività, quella di insegnante, di organizzatore di<br />
manifestazioni culturali, di sindacalista, di ricercatore e di studioso, parrebbe che<br />
l’attività in cui questo impegno si è manifestato in misura minore sia stata la com-<br />
65 A. TRUDU, Eleonora d’Arborea, in Lirica in Sardegna 1986. Madama Butterfly. Eleonora<br />
d’Arborea. Il lago dei cigni, programma di sala, Cagliari, 1986.<br />
66 G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo cit., p. 35.<br />
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posizione, proprio quella, cioè, alla quale Oppo ha sempre dato la maggiore importanza<br />
lungo tutto l’arco della sua vita di musicista e alla quale si dedica quasi<br />
esclusivamente da quando ha lasciato per raggiunti limiti di età l’insegnamento e<br />
ha rinunciato al ruolo di direttore artistico del Festival Spaziomusica.<br />
A parte le composizioni basate su testi letterari, a parte le composizioni<br />
teatrali e le musiche di scena per la Bottega del pane di Brecht (1969), soltanto<br />
in una composizione esclusivamente strumentale, come ha riconosciuto lo stesso<br />
compositore, 67 si può rintracciare un riferimento simbolico. Si tratta di Uno<br />
spettro si aggirava per l’Europa, per 25 strumenti ad arco e nastro magnetico<br />
ad libitum, in cui la contrapposizione consonanza/dissonanza, tonale/atonale<br />
allude alla contrapposizione capitalismo/comunismo e vuole essere una rappresentazione<br />
musicale della grande sfida lanciata da Marx e Engels nel Manifesto<br />
del partito comunista, che ha segnato la storia del Novecento.<br />
Franco Oppo è convinto che la musica comunichi esclusivamente per mezzo<br />
delle sue strutture linguistiche e formali: «È innegabile – ha ammesso – che la<br />
musica possa essere portatrice di significati extramusicali, ma questi sono ovviamente<br />
anche extrastrutturali, non vengono, cioè, espressi direttamente dalle<br />
strutture della musica ma sono attribuiti ad essa arbitrariamente da qualcuno<br />
(che può essere lo stesso compositore). Si tratta quindi di significati simbolici<br />
validi solo per chi ne è al corrente. La struttura musicale non c’entra». 68 Per lui,<br />
insomma, soltanto le composizioni vocali con testo contengono riferimenti<br />
extramusicali impliciti, ma in realtà questi riferimenti sono indotti dal testo e<br />
sono quindi extrastrutturali, mentre la musica continua a reggersi sulle proprie<br />
gambe, sulla sua autonomia strutturale. La sfera emotiva, per Oppo, è una questione<br />
privata, per il compositore, ma anche per l’ascoltatore: «Penso che alla<br />
sfera emotiva del compositore si possa concretamente accedere solo per la parte<br />
rappresentata dalla sua musica, che una volta scritta smette di essere un fatto<br />
privato, mentre per il resto non si possono che fare illazioni». 69<br />
Se una fase emozionale c’è, nella composizione, per Franco Oppo è esclusivamente<br />
la fase preliminare, fatta quasi esclusivamente di impulsi emotivi; ma<br />
nella seconda fase, quella della scrittura, le emozioni non sono più sufficienti:<br />
«Non si può scrivere disordinatamente tutto ciò che viene in testa: bisogna selezionare<br />
le idee, precisarle, coordinarle, scartare quelle superflue e approfondire<br />
quelle con le quali si intende caratterizzare il brano; bisogna fare i conti con la<br />
67 Ivi, p. 43.<br />
68 Ivi, p. 48.<br />
69 Ivi, p. 50.<br />
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grammatica musicale e con le possibilità tecniche degli strumenti; bisogna organizzare<br />
i suoni (strutturarli in modo che l’interprete e l’ascoltatore possano<br />
capire le intenzioni del compositore; bisogna elaborare un percorso, un ‘racconto’<br />
che l’ascoltatore possa seguire e trovare sensato, o almeno plausibile;<br />
bisogna fare in modo che le immagini sonore del compositore siano riconoscibili<br />
dall’ascoltatore. In sintesi: la prima fase della composizione è soprattutto<br />
fantasia e creatività, mentre la seconda è soprattutto tecnica e artigianato». 70<br />
Ciò vale anche per la forma, che per il compositore nuorese non è un contenitore<br />
preesistente, ma il risultato di un processo compositivo e delle strategie strutturali<br />
adottate. Non si pensi, tuttavia, che per Franco Oppo la composizione sia<br />
una pratica eccessivamente razionale e macchinosa. Ammettendo che nel suo pensiero<br />
musicale c’è una componente ludica e formalista, ha detto chiaramente che<br />
chi non riesce a divertirsi giocando con i suoni è meglio che non faccia il compositore.<br />
E ha aggiunto: «Il piacere del gioco, il giocare con le note musicali, riaffiora<br />
in tutte le epoche storiche. A parte i risvolti estetici, il gioco del comporre è affascinante<br />
e coinvolgente: c’è il piacere di comporre giocando con leggerezza (come<br />
sapevano fare magistralmente Scarlatti, Mozart e Chopin) oppure quello del giocare<br />
con piglio serioso (come sapevano fare Bach e Brahms)». 71<br />
Il rischio è, ovviamente, che nelle sue composizioni o almeno in alcune di esse<br />
si possa ravvisare un eccesso di elaborazione strutturale. Lo stesso Oppo, però,<br />
prevede questa possibilità, ma si dice disposto a correre questo rischio, sicuro<br />
com’è che, non certo per caso, in ogni epoca storica tutte le composizioni alle<br />
quali è stato riconosciuto un alto valore estetico sono strutturalmente ineccepibili.<br />
Certo, lo scopo della composizione non è il raggiungimento della perfezione formale,<br />
anche se questo spesso accade e in quei casi non è difficile constatare che il<br />
compositore ha raggiunto anche la perfezione estetica. Ma una buona idea musicale,<br />
se vuole far breccia nella mente dell’ascoltatore, non può fare a meno di una<br />
adeguata e coerente strutturazione; proprio come il disegno di un abile architetto,<br />
che non è sufficiente sia bello sulla carta, ma che per diventare un edificio deve<br />
fare i conti con la solidità delle strutture e con materiali idonei. «Credo proprio –<br />
il compositore Franco Oppo ne è assolutamente convinto – che ciò che l’ascoltatore<br />
percepisce di una composizione sia nient’altro che la sua organizzazione<br />
strutturale e che il piacere estetico derivi da questa». 72<br />
70 Ivi, pp. 47-48.<br />
71 Ivi, p. 41.<br />
72 Ivi, p. 46.<br />
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Antonio Trudu
FRANCO OPPO: IL MUSICISTA ORGANICO<br />
APPENDICE<br />
1. Catalogo cronologico delle opere di Franco Oppo<br />
Sonatina per tromba e pianoforte (1951);<br />
Sonatina per corno e pianoforte (1951);<br />
Cinque Pezzi facili, per pianoforte (1951-1952);<br />
Variazioni su tema di Schumann per pianoforte (1953);<br />
Quattro pezzi per violino e oboe (1956);<br />
Fantasia per pianoforte e orchestra (1960);<br />
Varie partite sopra Frescobaldi, per clavicembalo, arpa, pianoforte e orchestra (1960);<br />
Tre canzoni spagnole, per soprano e pianoforte (testo di F. García Lorca, 1960);<br />
Allitterazioni-Organum-Ragtime, per 11 strumenti (1961);<br />
Movimento per quartetto d’archi (1962);<br />
Lamento dal Salmo XIII, per coro e strumenti a percussione (1964);<br />
Epitaffio, per voce recitante e 8 strumenti (testo di N. Hikmet, 1963);<br />
Don Chisciotte, per voce recitante e 7 strumenti (testo di N. Hikmet, 1963);<br />
Ciò che ho scritto, per soprano e 4 strumenti (testo di N. Hikmet, 1964);<br />
Concerto per violoncello e orchestra (1964);<br />
Dzieci, per soprano e 2 pianoforti (testo di T. Ró¿ewicz, 1966);<br />
Canti popolari della Sardegna, per voce, pianoforte e piccole percussioni (1967);<br />
Trio per violino, violoncello e pianoforte (1968);<br />
Musiche per La Bottega del pane di Bertolt Brecht, per voce e pianoforte (1969);<br />
Cinque pezzi per pianoforte (1970);<br />
Digressione, per coro femminile e orchestra (testo di A. Voznesenskij, 1970);<br />
Silenzio, per contralto e 4 strumenti (testo di E. Montale, 1971);<br />
Nodos, per orchestra (1972-1973);<br />
Riverberazioni, per violoncello e pianoforte (1974);<br />
Ninna-nanna campidanese, per coro a cappella (1975);<br />
Musica per chitarra e quartetto d’archi (1975);<br />
Rondeau, per 2 strumenti ad arco (1975);<br />
Amply, per 2 strumenti ad arco amplificati (1976);<br />
Praxodia I, per soprano, basso e 8 strumenti (testo di A. Neto, 1976);<br />
Anninnia I, per 8 strumenti e monocordo elettrico (1978);<br />
Praxodia II, azione scenica per soprano, basso, 3/5 attori e 8 strumenti (testo di A. Neto, 1979);<br />
Tre berceuses, per pianoforte (1980-1981);<br />
Anninnia II, per 8 strumenti (1982);<br />
Musica per 8 strumenti a fiato (1983);<br />
Attitidu, per fagotto e quartetto d’archi (1983);<br />
Intorno all’isola, musica per film per 9 strumenti (1983);<br />
North Sardinian Dance, per pianoforte (1984);<br />
Quadri di guerra, musica per film (elettronica, 1984);<br />
Fasi, per flauto e pianoforte (1984-1989);<br />
Sagra, per oboe, 2 violini e viola (1985);<br />
Per tonos, canone a 2 da Bach, per flauto, clavicembalo e quartetto d’archi (1985);<br />
Le cerniere, per nastro magnetico (1985);<br />
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118<br />
Antonio Trudu<br />
Eleonora d’Arborea, azione scenica in due atti per soprano, baritono, 6 attori, coro femminile e 3<br />
gruppi strumentali (testo di G. Dessì e M. Gagliardo, 1986);<br />
Solo, per flauto (1986);<br />
Como en los sueños, per soprano (testo di J. L. Borges, 1988);<br />
Anafore e cicli elettronici, per nastro magnetico (1988);<br />
Figure instabili, per oboe, clarinetto, corno, fagotto e pianoforte (1989)<br />
Gallurese, per pianoforte a 4 mani (1989);<br />
40 melodie popolari polacche, per flauto e pianoforte (1989-1993);<br />
3 melodie popolari polacche, per flauto, violoncello e pianoforte (1990-1993);<br />
Variazioni su tema di Mozart, per orchestra (1991);<br />
Te Deum, per 2 voci femminili e 9 strumenti (1991);<br />
Musica per 11 strumenti ad arco (1992);<br />
Variazioni su temi popolari, per launeddas e live electronics (1992);<br />
Baroniese, per pianoforte a 4 mani (1993);<br />
Trio II, per viola, violoncello e contrabbasso (1993);<br />
Trio III, per flauto, violino e pianoforte (1994);<br />
Sueños, per soprano e nastro magnetico (testo di J. L. Borges, 1995);<br />
Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra (1995-1997);<br />
Polski Walc, per flauto, clarinetto pianoforte e quartetto d’archi (1996);<br />
Concetti fluidi, per violino, viola, violoncello e pianoforte (1997);<br />
Retrògas A, per viola (1998);<br />
Retrògas B, per violino (1998);<br />
Tetrafonie, per 12 voci (1998-1999);<br />
Retrògas C, per violoncello (1999);<br />
Uno spettro si aggirava per l’Europa, per 25 strumenti ad arco e nastro magnetico ad libitum<br />
(1999-2000);<br />
Toccata sopra «Freu dich sehr, o meine Seele», per organo (2000);<br />
Freu dich sehr, o meine Seele, per pianoforte con pedaliera (2000);<br />
Tre bagatelle per pianoforte (2001);<br />
Nodas, per orchestra (2001);<br />
Intermezzi, per 2 violini, 2 viole e violoncello (2001);<br />
… quasi silenzio, per nastro magnetico (2002);<br />
Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra (2002);<br />
Studio I (Gamme), per clarinetto (2002);<br />
12 aforismi, per pianoforte (2002-2007);<br />
Capriccio per violoncello (2003);<br />
Alcune verità indimostrabili, per flauto, clarinetto basso, percussioni, pianoforte, violino e violoncello<br />
(2004);<br />
Sonata per pianoforte (2005);<br />
Kantelesong, per kantele [cetra finlandese] (2005);<br />
Sonata B, per pianoforte e percussioni (2005);<br />
Ditirambo, per violino (2006);<br />
Spirale, per 4 saxofoni (2006);<br />
Concerto per flauto e orchestra d’archi (2006);<br />
Con-sonanti, per clarinetto in si bemolle (2008);<br />
Sonata L. 467, per quartetto d’archi (da Domenico Scarlatti, 2008);<br />
Sonata L. 475, per quartetto d’archi (da Domenico Scarlatti, 2008);<br />
Fasi B, per flauto, vibrafono e pianoforte (2009).<br />
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FRANCO OPPO: IL MUSICISTA ORGANICO<br />
2. Elenco degli scritti di Franco Oppo<br />
119<br />
A proposito delle partiture di ‘Praxodia’ e della ‘Musica per chitarra e quartetto d’archi’, in M.<br />
MOLLIA (a cura di), Autobiografia della musica contemporanea, Cosenza, 1979, pp. 237-240;<br />
Il ‘Rondeau’ per due strumenti ad arco, ivi, pp. 241-242;<br />
Elementi di Semiotica Musicale – Grammatica generativa e analisi musicale, in A. TRUDU (a cura<br />
di), Per un approccio alla semiotica della musica, Cagliari, 1979, pp. 119-129;<br />
Per una teoria generale del linguaggio musicale, in Musical Grammars and Computer Analysis,<br />
Firenze, 1984, pp. 115-130;<br />
Il sistema dei ‘cunzertus’ nelle ‘launeddas’, in G. N. SPANU, Sonos. Strumenti della musica popolare<br />
Sarda, Nuoro, 1994, pp. 156-161;<br />
La vocalità tra tradizione e sperimentazione, in La musica vocale, aspetti compositivi, Nuoro,<br />
1992, pp. 69-78;<br />
Concetti Fluidi, in M. Cima Pestalozza (a cura di ), Musiche per Luigi Pestalozza, Milano, 1998;<br />
Innovazione e tradizione nel linguaggio musicale di Arnold Schönberg, «Quaderni della Facoltà<br />
di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Cagliari», 1999, n. 1 (1999), pp. 185-191;<br />
Musica e parola, «Anterem», V serie, n. 63 (2001), pp. 74-76;<br />
Verdi come Beethoven, in 40 per Verdi, Lucca, 2001, pp. 205-211;<br />
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120<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
Antonio Trudu<br />
A. TRUDU, Fra alea e stocastica. La ‘Musica per chitarra e quartetto d’archi’ di Franco Oppo. Un<br />
esempio di impiego della teoria dell’informazione nella composizione musicale, «Annali<br />
della Facoltà di Magistero dell’Università di Cagliari», n. s., IV (1980), pp. 67-100.<br />
A. TRUDU, Procedure estrattive, segmentazione e analisi musicale, «Annali della Facoltà di Magistero<br />
dell’Università di Cagliari», Quaderno n. 10 (1980), pp. 201-206.<br />
A. TRUDU, «Franco Oppo», in A. BASSO (a cura di), in Dizionario Enciclopedico Universale della<br />
Musica e dei Musicisti (DEUMM), Le biografie, V, Torino, 1988, p. 453.<br />
I. BENT, Analisi musicale, ed. italiana a cura di C. Annibaldi, Torino, 1990, pp. X, XII, XX, 354.<br />
A. TRUDU, La «scuola» di Darmstadt, Milano, 1992, pp.192-193.<br />
C. COLOMO, Musica colta e musica popolare: l’esperienza di Franco Oppo, tesi di laurea Facoltà<br />
di Scienze della formazione dell’Università di Cagliari, a. a. 1997-1998, relatore A. Trudu.<br />
R. CRESTI (a cura di), Enciclopedia italiana dei compositori contemporanei, Napoli, 1999, pp.<br />
231-234.<br />
R. FAVARO-L. PESTALOZZA (a cura di), Storia della musica, Milano, 1999, pp. 20, 32.<br />
L. MAZORRA INCERA, LIM 2 mil, Madrid, 2000, pp. 58, 92, 171, 197, 202.<br />
G. PODDA, La signora della politica, Cagliari, 2001, pp. 175, 186-188, 192, 206, 207.<br />
A. LAI, Genèse et révolutions des langages musicaux, Paris, 2002, pp. 28, 245.<br />
J.-N. VON DER WEID, La musica del XX secolo, Lucca, 2002, pp. 433, 444, 449, 450, 456, 457, 480.<br />
J. VILLA ROJO, Notación y grafía musical en le siglo XX, Madrid, 2003, pp. 88-89, 117, 118, 122,<br />
123, 124, 162, 163, 170, 197, 198, 381, 395.<br />
L. ROTILI, Franco Oppo. Catalogo dell’opera musicale, tesi di laurea Facoltà di Lettere e filosofia<br />
dell’Università di Bologna, a. a. 2003-2004, relatore M. Giani.<br />
G. N. SPANU, Conversazione con Franco Oppo, in M. Carraro-S. Melis-G. N. Spanu (a cura di),<br />
Franco Oppo. Musiche per pianoforte solo e con strumenti, pp. 4-64, Fondazione Banco di<br />
Sardegna, Comune di Nuoro-Assessorato alle Politiche Educative, CERM Ensemble, s. l.,<br />
2004, pp. 4-64.<br />
A. BASSO (a cura di), Storia della musica, Torino, 2004, IV, pp. 164, 166.<br />
G. N. SPANU (a cura di), Conversazione con Franco Oppo, «Musica/Realtà», XXIV, n. 76 (2005),<br />
pp. 171-187.<br />
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LE DENOMINAZIONI POPOLARI DELLA LIBELLULA<br />
NELLE VARIETÀ SARDE MERIDIONALI<br />
Roberto Rattu<br />
Arxiu de Tradicions<br />
121<br />
1. Con il nome comune di «libellula» si designano varie specie appartenenti<br />
all’ordine degli Odonati. La libellula è un insetto di dimensioni medio-grandi,<br />
particolarmente frequente in prossimità di corsi d’acqua, laghi e stagni, soprattutto<br />
in estate. Caratterizzata spesso da livree sgargianti, si nutre di piccoli insetti<br />
che cattura librandosi in aria grazie alle eccellenti capacità di volo.<br />
Sono diversi gli studiosi che hanno indagato tale insetto dal punto di vista<br />
folklorico e onomasiologico. Infatti, le particolari credenze che lo connotano e<br />
la ricchissima presenza di appellativi anche in spazi linguistici circoscritti, hanno<br />
da tempo attirato l’interesse di specialisti di varia estrazione quali Sarot (1958),<br />
Picchetti (1960-63) e Hoyer (2001). Adriano Garbini, nella sua magnifica opera<br />
Antroponimie ed omonimie nel campo della zoologia popolare (Garbini 1919-<br />
25), dedica addirittura una quarantina di pagine alle denominazioni popolari<br />
della libellula, discutendo alcune centinaia di appellativi italiani.<br />
Tale esuberanza lessicale costituisce un tratto caratteristico non solo del<br />
quadro onomasiologico relativo a tale insetto, ma anche di tanti altri piccoli<br />
animali, soprattutto invertebrati terrestri. Per rendersi conto di ciò a livello italiano,<br />
è sufficiente osservare alcune carte dell’AIS e, nello specifico, quelle dedicate<br />
alle denominazioni della cavalletta, della coccinella, del grillotalpa.<br />
Tuttavia, anche all’interno di tale notevole varianza lessicale, è possibile apprezzare<br />
alcune costanti dal punto di vista iconomastico. L’iconomastica è quella<br />
disciplina che si occupa di indagare i vari aspetti relativi alla motivazione, cioè a<br />
quella strategia della lingua che prevede la designazione di nuovi referenti tramite<br />
il riciclo di parole già esistenti (Alinei 1996). Infatti, soprattutto grazie all’impresa<br />
dell’ALiR che ha permesso di considerare per la prima volta un corpus molto<br />
ampio di micro-zoonimi, è risultato evidente che le denominazioni degli insetti<br />
attingono – nella maggior parte dei casi – ai medesimi aspetti (Caprini 2004).<br />
Circa la variabilità onomasiologica e gli aspetti iconomastici dei nomi popolari<br />
della libellula, vorremmo dare illustrazione in relazione alle varietà sarde<br />
comprese all’interno del campidanese (Virdis 1988: 905). I dati presentati e<br />
<strong>INSULA</strong>, num. 6 (dicembre 2009) 121-129<br />
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122<br />
Roberto Rattu<br />
discussi provengono da fonti bibliografiche, ma soprattutto da inchieste condotte<br />
personalmente sul campo, interpellando interlocutori di età medio-alta,<br />
attraverso una fitta rete di punti di inchiesta. I dati inediti sono preceduti dal<br />
simbolo +. La trascrizione fonetica si basa su quella del DES (2008), salvo che<br />
per i seguenti simboli: y ed w = approssimante palatale e velare; b = fricativa<br />
bilabiale sonora; g = fricativa velare sonora; d = fricativa dentale sonora; dh =<br />
cacuminale alveolare sonora; z = s sonora; n’ = n palatale.<br />
2. Nelle varietà linguistiche neolatine, un iconimo attestato con particolare frequenza<br />
nelle denominazioni della libellula prevede il reimpiego dei corrispettivi<br />
dialettali della parola «cavallo», spesso seguita da varie attribuzioni. Tale iconimo<br />
risulta attestato in catalano, dacorumeno, dialetti italo-settentrionali, centrali e<br />
meridionali, friulano, galiziano, portoghese, spagnolo (Hoyer 2001: 293-5). Nelle<br />
varietà sarde settentrionali, secondo AIS (tav. 479) e DES (236), troviamo tale<br />
iconimo a Luras, dove la libellula è detta kádhu e déu, ‘cavallo di Dio’; a<br />
Villanova Monteleone e Bitti, dove è detta kádhu e ábba, ‘cavallo dell’acqua’;<br />
a Padria e Berchidda, dove è detta kádh’e zántu gáuánne, ‘cavallo di san Giovanni’;<br />
a Posada e Siniscola, dove è detta rispettivamente kádhu e demóniu,<br />
‘cavallo del demonio’, e kádh’e pilíkke (pilíkke è un derivato da pílu ‘pelo’ per<br />
via della forma sottile dell’insetto [Giulio Paulis, com. pers.]); a Ploaghe, dove<br />
è detta kádhu e ssánt’antòni, ‘cavallo di sant’Antonio’; e infine a Nuoro dove è<br />
detta kavádhu e ssu tiábulu, ‘cavallo del diavolo’. 1<br />
Nel campidanese l’iconimo in questione è abbastanza raro ed è diffuso a<br />
macchia di leopardo. Secondo AIS (tav. 479) e DES (236), la libellula è detta:<br />
a. kádhu e ddéus a Baunei, ‘cavallo di Dio’. Tale dato però non si accorda<br />
con la documentazione dell’ALSar (tav. 4), dove l’appellativo designa la mantide,<br />
come è stato confermato anche dalle nostre inchieste. A Baunei la libellula è<br />
infatti detta +konkimáÈÈu, +konkumáÈÈu (vd. par. 7, punto m.).<br />
b. kwádh’e ábbas a Laconi, ‘cavallo delle acque’, confermato nelle nostre<br />
inchieste.<br />
c. kwádhu éndyu a Escalaplano, ‘cavallo venduto’. I nostri rilievi sul campo<br />
hanno però accertato che kwádhu éndyu – almeno allo stato attuale – è pertinente<br />
alla mantide (cfr. anche ALSar tav. 4), mentre la libellula è detta pár’e vrúmini<br />
(vd. par. 6, punto a.).<br />
1 Tuttavia è da notare che – nella forma kabádhu dessu tiáulu – DES (236) riporta tale appellativo<br />
per Nuoro, ma nel significato di ‘mantide’.<br />
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Personalmente abbiamo rilevato:<br />
d. +kwádhu e arríu a Nurallao, ‘cavallo di rivo’.<br />
L’iconimo si spiega verosimilmente per le rilevanti dimensioni della libellula<br />
rispetto agli altri invertebrati terrestri. In sardo infatti, «cavallo» è frequentemente<br />
utilizzato in senso metaforico per marcare le grandi dimensioni di un referente in<br />
relazione ad altri a questo affini. Ad esempio il DES (236), riporta che il log.<br />
kádhu ‘cavallo’ si applica anche a una persona alta, e nello stesso senso si usa<br />
kadhòne. Nella fitonimia popolare áppyu e gwádhus, ‘sedano dei cavalli’, designa<br />
il macerone (Smyrnium olusatrum L.), in riferimento alle maggiori dimensioni<br />
di tale pianta rispetto al sedano cui è paragonata (Paulis 1992: 154). Ancora, le<br />
specie di cisto (Cistus sp.) caratterizzate da un’altezza compresa tra 1 e 2 m sono<br />
dette mudréku kabadhínu, ‘cisto cavallino’, in relazione alle loro maggiori dimensioni<br />
rispetto a specie affini più prostrate (Paulis 1992: 412).<br />
Nell’appellativo di Baunei e in quelli afferenti alle varietà settentrionali, le<br />
attribuzioni a Dio, a san Giovanni, a san Antonio, al diavolo, sono spiegabili<br />
sulla base di particolari concezioni magiche relative al nostro insetto che, evidentemente,<br />
era strettamente legato alla sfera del sacro (Beccaria 2000: 242 ss).<br />
Un interessante nome della libellula personalmente rilevato in alcuni centri<br />
della bassa Ogliastra, prevede il reimpiego della parola «cane» seguita dal determinante<br />
«acqua». L’insetto è perciò detto:<br />
e. +kán’i ábba a Jerzu, Perdas de Fogu e Tertenia, ‘cane dell’acqua’. Probabilmente<br />
«cane» è usato in senso figurato per sottolineare caratteristiche negative<br />
attribuitegli (vd. par. 3).<br />
3. In relazione alle varietà neolatine, l’impresa dell’ALiR ha reso possibile apprezzare<br />
il campo referenziale di un altro iconimo, quello relativo ai danni immaginari.<br />
Infatti numerosi e inoffensivi piccoli animali, essendo invece ritenuti capaci di ferire,<br />
uccidere e provocare malattie, ricevono appellativi chiaramente negativi. Nelle<br />
varietà romanze, ad esempio, compaiono frequentemente denominazioni che alludono<br />
alla presunta capacità della libellula di ferire gli occhi (Hoyer 2001: 310 ss).<br />
Che anche in Sardegna il nostro insetto fosse connotato in senso negativo<br />
nella mentalità popolare e fosse per questo ritenuto responsabile di atti nefandi<br />
del tutto sproporzionati alla effettiva capacità di nuocere, è testimoniato dai<br />
seguenti entomonimi (Marcialis 2005: 60):<br />
a. segaddíru a Cagliari, ‘tagliadito’, denominazione non rilevata nelle nostre<br />
inchieste.<br />
b. segamánus in camp., ‘tagliamani’, denominazione non rilevata nelle nostre<br />
inchieste.<br />
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Roberto Rattu<br />
c. segabódhigße a Meana, ‘tagliapollice’, denominazione non rilevata nelle<br />
nostre inchieste, che hanno invece appurato la presenza di bánd’erríu (o bandíu)<br />
e soldáu, designanti rispettivamente gli Zigotteri e gli Anisotteri (vd. par. 7,<br />
punto b. e c.). Analogamente in catalano una denominazione della libellula è<br />
serr«díts, ‘taglia dita’ (Hoyer 2001: 312).<br />
Inoltre abbiamo personalmente rilevato:<br />
d. +pappalillía(-za) ad Assemini e Decimomannu (assieme a preidédhu, vd.<br />
par. 6, punto b.), ‘mangia pene, -i’. La parola lillía designa il pene dei bambini<br />
(DES, 655). Analogamente in portoghese una denominazione della libellula è<br />
kapadór, ‘castratore’ (Hoyer 2001: 312).<br />
4. L’iconimo che reimpiega i corrispondenti dialettali degli appellativi «signora, -<br />
e», spesso al diminutivo, è estremamente diffuso nelle varietà linguistiche neolatine<br />
e non solo. Lo si riscontra in catalano, corso, francoprovenzale, friulano, dialetti<br />
italo-settentrionali, centrali e meridionali, occitano, oïl (Hoyer 2001: 301-2).<br />
Nel campidanese e secondo AIS (tav. 479), DES (698) e Marcialis (2005:<br />
60), la libellula è infatti detta:<br />
a. sennorèdha a San Nicolò Gerrei, ‘signorina’; sennorèdha bírdi a Isili, ‘~<br />
verde’. In confronto a tali dati bibliografici, le nostre ricerche hanno rilevato<br />
sin’orikkèdha a San Nicolò Gerrei (vd. par. 4, punto c.) e pára e arríu a Isili<br />
(vd. par. 6, punto a.). Inoltre abbiamo rilevato sennorèdha a Baradili,<br />
Fluminimaggiore (anche sennòra), Musei, Pauli Arbarei, Pompu, San Basilio<br />
(per designare gli Anisotteri), Siddi, Simala, Siris; sannorèdha a Curcuris,<br />
Marrubiu, Masullas, Morgongiori, Turri e Ussaramanna.<br />
b. sen’òra a Sant’Antioco, ‘signora’, denominazione non rilevata nelle nostre<br />
inchieste. Abbiamo rilevato sennòri (arríu) a Narcao (per designare gli<br />
Anisotteri); sin’orína a Muravera e San Vito (anche sin’oríkka).<br />
c. sin’uríkka a Cagliari, denominazione non rilevata nelle nostre inchieste. 2<br />
In base ai nostri rilievi sin’oríkka è impiegato a Barisardo, Muravera (anche<br />
sin’orína) e Villaputzu. A Tortolì abbiamo rilevato sin’oríkk’e erríu, e<br />
sin’orikkèdha a Lotzorai e San Nicolò Gerrei.<br />
Inoltre la libellula è detta:<br />
d. sen’òri pòberu a Tuili (Cabras 1897: 20), da noi confermato nella forma<br />
sannòri póburu, ‘signore povero’. Cabras glossa l’entomonimo con<br />
«formicaleone», significato non reperito nei nostri rilievi.<br />
2 Secondo DES (698), a Cagliari l’appellativo sin’uríkka designa l’orbettino.<br />
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In campidanese tale iconimo è quindi circoscritto al Sarrabus, ad alcuni centri<br />
della Marmilla, del Gerrei e dell’Ogliastra. Si spiega probabilmente non sulla<br />
base della morfologia dell’insetto, ma per via del ruolo sacro che lo connotava<br />
e che si evince dal generale quadro onomasiologico (Hoyer 2001). Infatti è<br />
verosimile che la motivazione «signora» si basi sull’esigenza di scongiurare<br />
verbalmente gli aspetti negativi che connota(va)no la libellula e che si evincono<br />
– ad esempio – dagli appellativi relativi ai danni immaginari (vd. par. 3), o da<br />
quelli dove compare l’attribuzione al diavolo (vd. par. 2). Tuttavia la funzione<br />
moderna del nome e l’interpretazione che oggigiorno i parlanti ne fanno, risentono<br />
della paretimologia nell’interpretazione delle parole utilizzate quotidianamente.<br />
Per cui la libellula nel senso comune è paragonata a una «signora» per<br />
via della sottigliezza e della eleganza delle forme.<br />
5. Nella designazione degli insetti e altri piccoli invertebrati, un’altra costante<br />
ben nota è l’impiego di nomi personali umani e di termini che denotano esseri<br />
fantastici o spauracchi (Riegler 1981). Ad esempio, secondo i dati di Hoyer<br />
(2001: 305), la libellula è detta «strega» in friulano, dialetti italo-settentrionali e<br />
meridionali. Inoltre è detta «spauracchio» in portoghese.<br />
In relazione a tale iconimo, abbiamo personalmente rilevato:<br />
a +paragadhèu a Villacidro. Circa l’interpretazione di tale denominazione<br />
– utilizzata nel significato di ‘libellula’ esclusivamente a Villacidro – bisogna<br />
tener presente che a Escolca, Gergei e Serri, paragadhèu designa la figura di un<br />
frate – paragadhèu è interpretato dagli informatori come ‘frate Caddeo’ –, non<br />
sappiamo se frutto di fantasia o poggiante su una qualche realtà storica. 3 Inoltre<br />
è da notare che a Isili e Laconi – secondo inchieste personali – paragadhèu<br />
designa una figura dai contorni vaghi, affine a uno spauracchio. 4<br />
b. +parassènti a Genuri, probabilmente da pára bissènti ‘frate Vincenzo’.<br />
6. Nel panorama degli appellativi campidanesi pertinenti alla libellula, l’iconimo<br />
afferente al basso clero – che si caratterizza per il riciclo delle parole pára<br />
‘frate’ e prédi ‘prete’, spesso modificate da suffissi diminutivi e completate dalla<br />
determinazione de arríu ‘di rivo’, de vrúmini ‘di fiume’, de ákwa ‘d’acqua’ –<br />
3 Su tale personaggio sono presenti componimenti poetici orali che ne raccontano episodi di vita<br />
connessi alla sfera sessuale.<br />
4 Non bisogna tacere che la mantide religiosa è detta pregadéw in catalano, pregadíw in occitano,<br />
pregaddòy« nei dialetti italo-meridionali (García Mouton 2001: 258). Anche se a titolo di<br />
pura ipotesi, tali denominazioni – assonanti con paragadhèu ‘libellula’ a Villacidro – possono<br />
aver avuto un qualche ruolo nella designazione del nostro insetto.<br />
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Roberto Rattu<br />
è quello arealmente più diffuso. Nelle varietà linguistiche neolatine tale iconimo<br />
è presente in catalano, corso, dialetti italo-settentrionali, francoprovenzale,<br />
friulano, portoghese (Hoyer 2001: 304-5).<br />
Nel campidanese e secondo DES (591), la libellula è detta:<br />
a. pára a Mogoro e Teulada; pára ess’ákwa a Domus de Maria; pára ess’arríu<br />
a Santadi e Isili; pari•édhu a Sestu. Secondo i nostri rilievi, a Isili è impiegato<br />
pára e arríu mentre a Santadi si utilizza anche +parabuttíl’aza (vd. par. 6, punto<br />
c.). L’appellativo pari•édhu è stato rilevato anche a Las Plassas e Pimentel<br />
mentre pari•édhu de arríu risulta diffuso a Samatzai e Sardara.<br />
Secondo i nostri rilievi pára e arríu è diffuso ad Ales, Arbus, Arixi, Barrali,<br />
Collinas, Gesturi, Gonnosnò, Guasila, Iglesias, Mandas, Monastir, Nuragus,<br />
Ortacesus, Senorbì, Villaperuccio, Villaverde. A Narcao, San Basilio, Santadi e<br />
Soleminis tale entomonimo è specializzato nella designazione dei soli Zigotteri.<br />
Infine l’appellativo pára è stato da noi rilevato a Donori, Guspini e Sarrok,<br />
mentre pár’e vrúmini a Escalaplano e Villanovafranca.<br />
Secondo DES (639), la libellula è detta anche:<br />
b. preidédhu a Oristano (anche prei•édhu) e San Gavino. Abbiamo personalmente<br />
rilevato preidédhu a Decimomannu e prédi (arríu) ad Arbus, Armungia,<br />
Burcei, Decimoputzu, Fluminimaggiore (dove designa solo i maschi del genere<br />
Calopterix), Gesico, Goni, Gonnosfanadiga, Samassi, Serramanna, Siliqua,<br />
Silius, Sini, Sinnai, Tramatza, Villamar e Villaspeciosa. Inoltre abbiamo riscontrato<br />
preidédhu e arríu ad Assolo, Genoni, Nureci, Senis e Usellus.<br />
Abbiamo personalmente rilevato anche:<br />
c. +parabuttíl’a(-za) a Masainas e Santadi (compresente a pára e arríu). La<br />
denominazione – ‘frate bottiglia, -e’ – allude alla forma della libellula, massiccia<br />
nel capo e nel torace ma lunga e sottile nell’addome, sì da potersi paragonare<br />
alla forma di una bottiglia.<br />
d. +sagrestánu a Maracalagonis, ‘sagrestano’.<br />
Il motivo che ha portato al riciclo dei corrispettivi dialettali di termini relativi<br />
a cariche del basso clero è generalmente ascritto all’affinità di colore con la<br />
libellula, in particolare le specie dalla livrea scura. Tuttavia, per il fatto che il<br />
basso clero era ritenuto possessore esclusivo di poteri misteriosi e per questo<br />
risultava assai temuto (Atzori-Satta 1980: 157 ss), tale meccanismo<br />
onomasiologico può essere insorto a seguito delle presunte caratteristiche sacre<br />
attribuite all’insetto (vd. par. 2).<br />
A Fluminimaggiore, Narcao, San Basilio, Santadi e Soleminis è presente<br />
una partizione lessicale basata sulla macrodivisione tra i sottordini Anisotteri e<br />
Zigotteri: per cui i rappresentanti del primo sottordine possiedono una denomi-<br />
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127<br />
nazione che si differenzia dagli esponenti del secondo. Tale suddivisione è frutto<br />
di un esito innovativo dovuto ad un processo di rianalisi motivazionale. Infatti,<br />
per il fatto che nella maggior parte dei centri tutte le libellule – senza alcuna<br />
distinzione – sono dette prédi o pára (arríu), poteva risultare poco chiara l’attribuzione<br />
di termini relativi al basso clero agli insetti in questione. Allora i<br />
parlanti, ipotizzando il sorgere di tale accostamento a seguito di affinità di colore,<br />
hanno specializzato il termine prédi o pára (arríu) nella designazione della<br />
libellula caratterizzata dalla livrea nera – le Calopterix sp. maschio –, riservando<br />
denominazioni differenti per le altre specie.<br />
7. Nello spazio linguistico meridionale, le denominazioni del nostro insetto<br />
attingono anche ad altri iconimi. Il volo, che spesso si svolge avanti e indietro<br />
nelle zone acquose, è paragonato per questo al pattugliamento di un carabiniere,<br />
di un soldato o al vagabondare di un bandito. Abbiamo così rispettivamente:<br />
a. karabinéri a Triei (DES, 220), ‘carabiniere’, confermato dai nostri rilievi<br />
e utilizzato assieme a +finantsyéri, ‘finanziere’. Abbiamo personalmente riscontrato<br />
karabinéri anche a Osini, San Vito (dove tuttavia è prevalente il tipo<br />
sin’orína, vd. par. 4, punto b.) e Ussassai. Secondo DES (220), la denominazione<br />
è diffusa anche nel log., e per la precisione a Sènnori.<br />
b. +bánd’erríu (accanto a +bandíu) a Meana (ma per designare solo gli<br />
Zigotteri), ‘bandito di rivo’.<br />
c. soldáu a Meana (DES, 708), ‘soldato’, confermato nei nostri rilievi ma per<br />
designare solo gli Anisotteri (gli Zigotteri infatti sono detti +bánd’erríu o +bandíu).<br />
Abbiamo personalmente rilevato sodráu a San Nicolò D’Arcidano; sordáu a Suelli<br />
(assieme a +kònk’e mállu, vd. punto m.); +sodráu e vrúmiâ a Segariu, ‘soldato di<br />
fiume’; +sodradédhu a Mogorella, ‘soldatino’. Secondo DES (708), in log. e per<br />
la precisione a Macomer, la libellula è detta sordádu éttsu, ‘soldato vecchio’.<br />
Alla forma dell’addome si appunta la seguente denominazione:<br />
d. kò e bída nel Sarrabus (DES, 258), ‘coda di pera’. Il dato – ricavato da<br />
Böhne (1950: 26) – non è stato confermato con tale significato nei centri di<br />
Muravera, San Vito e Villaputzu. La parola è risultata pertinente a un coleottero<br />
cerambicide (Cerambix cerdo L.). Secondo i nostri rilievi la libellula è detta<br />
koibíra a Quartucciu e Selargius. 5<br />
5 L’appellativo koibíra è uno zoonimo dallo scopo referenziale piuttosto ampio. Questo, oltre a designare<br />
la libellula nei centri citati, è impiegato – secondo DES (258) – a San Pantaleo ed Escalaplano<br />
nel significato di ‘cicala’, a Mogoro e nel territorio del Sulcis per designare il Cerambix cerdo, a<br />
San Gavino per il grillo, nella forma koigoibíra. Aggiungiamo che in base a inchieste personali, a<br />
Musei koibíra designa un piccolo uccello non meglio determinato.<br />
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Per via della particolare modalità di volo, la libellula è assimilata a un elicottero<br />
e/o un aeroplano (Hoyer 2001: 309). Perciò – specialmente dalle generazioni<br />
più giovani – la libellula è detta:<br />
e. +aeroplánu a Quartucciu, ‘aeroplano’.<br />
f. +elikòtteru ad Aritzo, Assolo, Donori, Laconi, Mandas, Maracalagonis,<br />
Orroli, Pauli Arbarei e Ussana, ‘elicottero’.<br />
In alcune località di inchiesta la libellula è designata con denominazioni<br />
afferenti principalmente ad altri insetti. È perciò detta:<br />
g. +kalagázu erríu ad Arzana, ‘farfalla (di) rivo’.<br />
h. èspi forráyna a Domus de Maria (DES, 383), denominazione non confermata<br />
nelle nostre inchieste, che ne hanno invece appurato la pertinenza alla<br />
vespa del genere Vespula.<br />
i. +gríllu a Settimo S. Pietro, ‘grillo’.<br />
l. +sínsalu erríu a Ilbono; +tíntalu erríu a Urzulei, ‘zanzara (di) rivo’. Anche<br />
nel log. è presente tale modello onomasiologico. Infatti, secondo DES (780),<br />
a Oschiri la libellula è detta tintulòne, ‘zanzarone’.<br />
La libellula – soprattutto i rappresentanti del sottordine degli Anisotteri –<br />
presenta un lungo e affusolato addome, mentre il torace e il capo sono massicci.<br />
Per questo è detta:<br />
m. +kònk’e mállu a Soleminis (ma solo per gli Anisotteri) e a Suelli (assieme<br />
a sordáu, vd. punto c.); +konkimágágáu, +konkumágágáu a Baunei, ‘testa di<br />
maglio’. Secondo DES (263), in log. e per la precisione a Santu Lussurgiu, la<br />
libellula, per la medesima ragione, è detta kònka e mádzu.<br />
È da notare che, a seguito di simili caratteristiche morfologiche, i girini delle<br />
rane e dei rospi, caratterizzati da capo grosso e coda sottile sono detti kònk’e<br />
mállu et sim. (DES, 518).<br />
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LE DENOMINAZIONI POPOLARI DELLA LIBELLULA NELLE VARIETÀ SARDE MERIDIONALI<br />
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130<br />
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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ:<br />
EL CAS DE L’ALGUER *<br />
Resum<br />
Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />
ICREA-Universitat Pompeu Fabra, Universitat Autònoma de Barcelona,<br />
Universitat Pompeu Fabra<br />
131<br />
En la primera part d’aquest article presentem la descripció i el funcionament del<br />
web de l’Atles interactiu de l’entonació del català, un projecte que té com a<br />
objectiu la presentació sistemàtica d’una sèrie de materials en àudio i en vídeo<br />
per a l’estudi de la prosòdia i l’entonació dels dialectes catalans, de tal manera<br />
que es pugui iniciar l’anàlisi de la notable diversitat dialectal de l’entonació<br />
catalana i el traçat de les isoglosses prosòdiques en el domini lingüístic català.<br />
En aquesta part ens centrem concretament en la descripció de les dades de l’Atles<br />
que corresponen a la part de l’Alguer. En la segona part fem una pinzellada dels<br />
primers resultats geoprosòdics que s’han obtingut a partir de l’anàlisi de diferents<br />
* Primer de tot, volem donar les gràcies als professors i investigadors externs que han participat<br />
i donat suport al projecte des dels seus inicis, i molt especialment a Jaume Corbera, Joan<br />
Julià, Ignasi Mascaró, Manuel Pérez-Saldanya, Joan Peytaví, Gemma Rigau, Luca Scala. El<br />
projecte ha estat possible gràcies a la col·laboració dels següents becaris d’investigació, que<br />
han participat en l’enregistrament i el tractament de les dades i el seu trasllat al web: Myriam<br />
Almarcha, Núria Argemí, Francesc Ballone, Joan Borràs-Comes, Roger Craviotto, Verònica<br />
Crespo-Sendra, Núria Gavaldà, Marianna Nadeu, Rafèu Sichel, Paolo Roseano, Francesc<br />
Torres-Tamarit. Volem expressar també el nostre agraïment a les institucions que han finançat<br />
i donat suport al projecte. Part dels resultats que presentem en aquest article es van presentar<br />
en una conferència titulada Atles interactiu de l’entonació del català: current state,<br />
future perspectives and related research a la Università degli Studi di Cagliari, dins el<br />
Programa de Mobilitat Docent, i volem donar les gràcies als assistents a aquesta conferència<br />
pels seus comentaris i aportacions. També volem agrair de forma especial a Rita Ballone,<br />
Mariangela Caneo, Fabio Corbia, Luca Nurra, Rita Satta, Sergio Scala i Pinutxa Zucca, la<br />
seva participació desinteressada com a informants de l’Alguer en la recollida de dades. El<br />
projecte ha rebut el finançament de la Càtedra Alcover-Moll-Villangómez (CAMV) durant<br />
els anys 2005-2009, de la Generalitat de Catalunya a través de l’ajut Euroregió 2007, de la<br />
Universitat Autònoma de Barcelona a través d’un projecte d’innovació docent, del Ministerio<br />
d’Educació i Ciència mitjançant l’ajut HUM2006-01758/FILO. Finalment, el projecte ha<br />
rebut el suport institucional de la Universitat Autònoma de Barcelona, la Universitat Pompeu<br />
Fabra i l’Institut d’Estudis Catalans.<br />
<strong>INSULA</strong>, num. 6 (dicembre 2009) 131-160<br />
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132 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />
tipus de patrons entonatius de l’Atles, fent especial atenció a l’entonació algueresa<br />
en comparació amb la de la resta de varietats. Finalment, en la darrera secció, us<br />
presentem el web Corpus oral de l’alguerès que pretén aplegar en format digital<br />
els corpus orals ja existents sobre l’alguerès, ja sigui en format vídeo (corpus<br />
Francesc Ballone, corpus Conversa amb...) o en àudio (corpus Amper-Cat, corpus<br />
Atles interactiu de l’entonació del català, corpus Andreu Bosch i corpus Arxiu<br />
de Tradicions de l’Alguer).<br />
1. Introducció<br />
L’any 2006 es va iniciar un projecte d’estudi i documentació de la prosòdia<br />
del català mitjançant el desenvolupament d’un lloc web anomenat Atles<br />
interactiu de l’entonació del català. 1 L’Atles, que enguany ja és una realitat<br />
acabada, té com a objectiu principal la presentació d’una sèrie de materials<br />
en àudio i en vídeo per a l’estudi de la prosòdia i l’entonació dels dialectes<br />
catalans, de tal manera que es pugui iniciar l’estudi sistemàtic de la notable<br />
diversitat dialectal de l’entonació catalana. Aquest projecte ha implicat la<br />
cooperació entre investigadors de diferents territoris de parla catalana, per<br />
tal d’endegar un projecte comú de recollida de materials per a l’estudi de la<br />
llengua catalana. Entre aquests investigadors hi figuren Jaume Corbera, Ignasi<br />
Mascaró, Manuel Pérez-Saldanya, Joan Peytaví, Gemma Rigau, Luca Scala,<br />
etc. En el cas del català del Rosselló i de l’Alguer, aquest procés de<br />
documentació és especialment important en moments en què l’ús d’aquestes<br />
varietats està en forta reculada i la població que parla aquestes varietats<br />
com a primera llengua és d’edat avançada.<br />
Aquest projecte pretén endegar la descripció de l’entonació en diverses<br />
varietats del català i investigar els seus patrons de variació. Com és sabut, la<br />
variació entonativa dialectal que presenta el català és poc coneguda. Tal i<br />
com han remarcat Veny (1986) i Recasens (1991), si bé l’entonació dialectal<br />
ha cridat l’atenció d’alguns investigadors, els estudis existents representen<br />
de manera molt desigual les diferents àrees del domini lingüístic. El dialecte<br />
central compta amb un cos descriptiu prou ampli (veg. els treballs<br />
monogràfics de Bonet 1984, Estebas 2000, Salcioli 1988a i els articles de<br />
1 L’adreça del lloc web de l’Atles interactiu de l’entonació del català és la següent: http://<br />
prosodia.upf.edu/atlesentonacio.<br />
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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />
133<br />
Bonet 1986, Prieto 1995, 2001, 2002a, 2002b, Recasens 1977, Salcioli<br />
1988b, Virgili 1971), mentre que les aportacions sobre els altres dialectes es<br />
redueixen a dos articles d’Ignasi Mascaró centrats en l’entonació del<br />
mallorquí i del menorquí (Mascaró 1986, 1987) i alguns articles sobre<br />
diferents varietats del català (Prieto 2001, Payà-Vanrell 2005, Pradilla-Prieto<br />
2002, Martínez-Celdrán et al. 2005, Vanrell 2006, Crespo-Sendra 2008,<br />
Martínez-Celdrán et al. 2008). Un dels objectius principals d’aquest projecte<br />
és posar a l’abast dels investigadors i docents materials prosòdics en àudio<br />
i en vídeo ordenats descriptivament per tal que constitueixin la base per a<br />
una descripció de l’entonació dels dialectes catalans i de les isoglosses<br />
prosòdiques en el territori de parla catalana, que es podran comparar amb<br />
les isoglosses més conegudes, basades en processos segmentals.<br />
Aquest lloc web que presentem pot ser una eina important tant per a la<br />
docència com per a la recerca. Per començar, aquesta eina pot ser ben útil per<br />
als estudiants i els professors de llengua catalana que vulguin tenir accés a<br />
materials de parla de diferents varietats dialectals. Per altra banda, el web de<br />
l’Atles pot ser útil per als investigadors de la prosòdia del català, atès que<br />
permet de parar atenció a la varietat prosòdica que mostra aquesta llengua i<br />
als trets distintius d’entonació que caracteritzen les diferents varietats dialectals.<br />
Un altre dels objectius d’aquest projecte és iniciar l’aplicació del model<br />
autosegmental (i concretament el sistema de transcripció ToBI) a l’estudi de<br />
l’entonació dels dialectes catalans. Actualment, el sistema autosegmental ToBI<br />
és l’estàndard de transcripció entonativa internacional, i les dades que recull<br />
aquest Atles representen un primer pas per a aconseguir que el català sigui de<br />
les primeres llengües romàniques que comptin amb un sistema estàndard de<br />
transcripció de la prosòdia. 2<br />
En la primera part d’aquest article presentem l’Atles interactiu de l’entonació<br />
del català, el seu funcionament bàsic i unes dades concretes de la part de l’Alguer.<br />
En la segona part parlem dels primers resultats geoprosòdics que s’han obtingut<br />
a partir de l’anàlisi de diferents tipus de patrons entonatius, fent especial atenció<br />
a l’entonació algueresa en comparació amb la de la resta de varietats. Finalment,<br />
presentem un projecte estretament relacionat amb l’Atles com és el projecte<br />
Corpus oral de l’alguerès, lloc web que té com a finalitat la difusió d’una sèrie<br />
de materials en àudio i en vídeo sobre l’alguerès.<br />
2 Veg. el següent lloc web, que recull les propostes ToBI en diferents llengües: http://www.ling.ohiostate.edu/~tobi/.<br />
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134 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />
2. Funcionament de l’‘Atles interactiu de l’entonació del català’<br />
Com hem dit abans, l’Atles interactiu de l’entonació del català conté tota<br />
una sèrie de materials orals en format d’àudio i vídeo que pretenen ser la<br />
base per a un estudi més aprofundit de la prosòdia del català. Tal i com<br />
podem veure a la reproducció del portal web, a la fig. 1, a banda del mapa<br />
interactiu on l’usuari hi pot trobar totes les dades, aquest web també conté<br />
una pàgina de Recursos sobre l’entonació catalana, la Proposta Cat-ToBI<br />
per a l’etiquetatge prosòdic del català (amb un manual i exercicis<br />
d’autoaprenentatge), així com una eina de Cerca per a poder comparar les<br />
entonacions de diferents varietats geogràfiques.<br />
Fig. 1. Portal del web Atles interactiu de l’entonació del català.<br />
Els materials s’organitzen tenint en compte les següents varietats<br />
geogràfiques del català: alguerès, balear, català central, català nordoccidental,<br />
català septentrional i valencià. A través del mapa del domini<br />
lingüístic català, l’usuari pot accedir de forma simple als diferents<br />
materials en àudio i vídeo. El mapa dialectal conté els enllaços directes<br />
a les 70 poblacions enquestades, que pertanyen a les diferents zones<br />
dialectals del domini lingüístic. Fent un clic sobre cadascuna de les<br />
localitats s’accedeix a un menú que permet que l’usuari accedeixi a<br />
diferents materials interactius.<br />
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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />
Fig. 2. Mapa dialectal del web Atles interactiu de l’entonació del català, amb<br />
les poblacions enquestades.<br />
135<br />
A partir del mapa del domini lingüístic es pot accedir a les dades de l’alguerès<br />
clicant sobre la població de l’Alguer. També existeix una altra manera d’accedir<br />
a les dades, segons el que vulguem consultar, que és anar a la pestanya Cerca,<br />
marcar el tipus de material en el qual estem interessats i, a continuació, seleccionar<br />
el dialecte alguerès.<br />
Pel que fa al contingut, dins de cada població triada s’hi poden trobar els<br />
següents tres tipus de materials diferenciats, que explicarem tot seguit: Entrevista,<br />
corpus de diàleg Map Task (materials de parla espontània) i Frases obtingudes<br />
a partir d’una enquesta d’entonació.<br />
Per a cada població s’han enquestat parlants de dues franges d’edat<br />
diferenciades. Per a l’entrevista en vídeo els enquestats són tant homes com<br />
dones d’edat superior als 60 anys. Els participants havien d’haver viscut tota la<br />
vida a la localitat en qüestió. A l’enquesta de situacions i al corpus de diàleg<br />
Map Task s’han entrevistat dones de mitjana edat, d’entre 20 i 35 anys i amb<br />
estudis de grau mitjà o superior. Això ho justifiquem perquè amb informants<br />
femenines s’obtenen unes corbes de freqüència fonamental més clares. Ara bé,<br />
Impaginato 6.pmd 135<br />
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136 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />
en el cas de l’alguerès i del rossellonès s’ha fet una excepció. En aquestes<br />
varietats, és difícil trobar parlants femenines relativament joves, perquè són les<br />
que tradicionalment han optat per transmetre el francès (en el cas de la Catalunya<br />
del Nord) o l’italià (en el cas de l’Alguer). Per això, per a l’alguerès, vam escollir<br />
com a informants 3 homes que tenien al voltant de 40 anys d’edat (homes), 2<br />
dones que en tenien 50 (dones I) i 2 més que en tenien al voltant de 60 (dones<br />
II). Així, vam cobrir la variació generacional.<br />
A continuació expliquem els tres tipus de materials que s’hi poden trobar.<br />
2.1. Frases: l’enquesta de situacions<br />
Les dades de les Frases es varen obtenir mitjançant l’enquesta de situacions,<br />
que ha estat dissenyada seguint de prop la categorització descriptiva establerta<br />
al capítol sobre «Entonació» a la Gramàtica del català contemporani (Prieto<br />
2001, 2002). L’enquesta permet a l’entrevistador d’evocar situacions familiars<br />
a l’entrevistat i d’aquesta manera s’aconsegueix que aquest intervingui d’acord<br />
amb les situacions comunicatives de l’esmentada situació. Aquest mètode és<br />
especialment útil perquè permet obtenir un ventall ampli de contorns entonatius<br />
que és difícil que apareguin amb els altres mètodes.<br />
Cada enquesta ha estat adaptada per a cada dialecte per part d’un parlant<br />
nadiu coneixedor de les característiques lingüístiques específiques del dialecte.<br />
A continuació, us oferim un exemple d’una de les situacions que apareixen a<br />
l’enquesta en català central (a) i en alguerès (b) perquè pugueu observar quina<br />
és l’adaptació que s’ha dut a terme:<br />
(a) Declarativa categòrica en català central<br />
–Tu i una amiga esteu parlant d’uns amics que volen comprar un pis i no<br />
saben segur on aniran a viure. Tu saps que viuran a Viella. La teva amiga et<br />
diu que no, que viuran a Morella, molt segura. Digues-li, convençuda, que no,<br />
que viuran a Viella.<br />
–Que no, que viuran a Viella!<br />
(b) Declarativa categòrica en alguerès<br />
–Tu i una amiga estau parlant de certos amics que volen comprar un<br />
apartament i no saben de segur on anigueran a viure. Tu saps que anigueran a<br />
l’Olmedo. L’amiga tua te diu que no, que segurament anigueran a Càller. Diguesli,<br />
convencida, que no, que anigueran a l’Olmedo.<br />
–No, que anigueran a Olmedo!<br />
Impaginato 6.pmd 136<br />
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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />
137<br />
Mitjançant l’enquesta de situacions s’han obtingut uns 50 tipus de frase<br />
diferents per localitat, que inclouen oracions declaratives, interrogatives<br />
(interrogatives absolutes, parcials i reiteratives), precs i ordres, i vocatius, amb<br />
diferents matisos semàntics. Cada exemple d’entonació inclou l’arxiu de so, la<br />
corba de freqüència fonamental (f0), i la transcripció fonètica. Els exemples<br />
també van acompanyats de la descripció de la significació del contorn entonatiu.<br />
Si cliquem, per exemple, sobre la frase interrogativa absoluta de més d’una<br />
unitat tonal (un dels tipus d’oracions que s’obtenen a partir de l’enquesta<br />
d’entonació) a la localitat de l’Alguer se’ns obrirà una pàgina (fig. 3) on hi<br />
apareixerà la situació que ha provocat aquest determinat contorn (1), la<br />
interpretació (2), les inicials de l’informant (3), la descripció del contorn (4), la<br />
barra reproductora del contorn de freqüència fonamental (5) i la corba entonativa<br />
amb la transcripció ortogràfica i fonètica (6).<br />
1<br />
2<br />
3<br />
4<br />
5<br />
6<br />
Fig. 3. Fitxa que conté tota la informació referent a la frase<br />
interrogativa absoluta «Ma Maria, tornada és?» (l’Alguer).<br />
Impaginato 6.pmd 137<br />
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138 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />
La transcripció ortogràfica de les dades s’ha fet seguint uns criteris de<br />
transcripció que trobareu a l’apartat de Metodologia de l’Atles. La idea subjacent<br />
a aquests criteris és per una banda reflectir la parla col·loquial pel que fa a la<br />
morfologia, la sintaxi, el lèxic i els recursos expressius com les interjeccions i<br />
les exclamacions, i, per l’altra, per no dificultar la intel·ligibilitat i apel·lant a la<br />
transparència, no reflectir en l’ortografia totes aquelles pronúncies que es deriven<br />
de l’aplicació de processos fonològics generals a cada dialecte i, per tant,<br />
previsibles (per exemple: pel que fa a la despalatalització que trobem en ribagorçà<br />
o alguerès escriurem grill i no gril o anys i no ans).<br />
2.2. Corpus de diàleg Map Task<br />
El Map Task és una tasca validada de col·laboració entre dos parlants dissenyada<br />
per afavorir la producció de diferents tipus de frases interrogatives (Anderson<br />
et al. 1991; Carletta et al. 1996). Cadascun dels participants té un mapa però<br />
només un hi té una ruta dibuixada que ha de ser reproduïda per l’altre amb l’ajut<br />
de preguntes sobre el lloc per on passa aquesta ruta. Per dificultar una mica més<br />
la tasca i obtenir més temps de parla i més espontaneïtat, els dos mapes no són<br />
exactament iguals. En el cas de l’alguerès (i també del català septentrional), els<br />
noms que apareixen als mapes es va adaptar a les característiques lèxiques del<br />
dialecte, tenint sempre present la realitat sociolingüística dels dos llocs. La fig.<br />
4 mostra el mapa que es va utilitzar per a les gravacions del català central (figura<br />
superior) i de l’alguerès (figura inferior).<br />
En general, entre un i altre mapa hi trobem, sobretot, diferències lèxiques com<br />
asilo per ‘guarderia’, distribudor per ‘benzinera’ o municipi per ‘ajuntament’,<br />
però d’altres derivades de la situació sociolingüística especial com el fet d’escriure<br />
Sardenya amb grafia italiana, Sardegna, o del context sociocultural com el fet de<br />
posar Bar de Furesi perquè és un bar molt conegut a l’Alguer.<br />
Des de cada població es pot accedir a una gravació en format àudio i a la<br />
transcripció ortogràfica corresponent. Alternativament, es pot accedir a les dades<br />
a partir del cercador des de la pàgina del Corpus. La fig. 5 ens mostra la fitxa que<br />
se’ns desplega en clicar sobre Map Task. La fitxa conté la següent informació: la<br />
barra de reproducció de l’arxiu d’àudio (1), la icona del disquet que indica on s’ha<br />
de clicar per accedir a les descàrregues en format àudio .mp3 (2), la informació<br />
sobre la gravació (participants i durada) (3) i la transcripció ortogràfica amb<br />
informació relativa al temps cada 30 segons (4). En el cas de l’Alguer hi ha tres<br />
gravacions de Map Task: dues amb informants dones i una amb informants homes.<br />
Amb aquest mètode hem obtingut 72 enregistraments que constitueixen el<br />
Corpus de diàleg Map Task del català. Aquest projecte s’insereix en un<br />
Impaginato 6.pmd 138<br />
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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />
Fig. 4. Mapa del que té la ruta dibuixada utilitzat per a la recollida de dades del català<br />
central (fig. superior) i de l’alguerès (fig. inferior).<br />
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139
140 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />
1<br />
2<br />
3<br />
4<br />
programa de recerca d’abast internacional que pretén aplegar corpus de diàleg<br />
en diferents llengües seguint la metodologia estàndard del Map Task (veg. HCRC<br />
Map Task Corpus Project; Anderson et al. 1991; Carletta et al. 1996). Actualment<br />
llengües com l’anglès, el suec, l’holandès, l’italià, el japonès, el portuguès, i ara<br />
el català, ja compten amb extensos corpus Map Task.<br />
2.3. Entrevista en vídeo<br />
Fig. 5. Fitxa que apareix en un dels Map Task de l’Alguer.<br />
Per a cada població representada s’ha dut a terme una entrevista d’uns 10-15<br />
minuts de durada, de la qual s’ha triat un fragment representatiu d’uns 3-4 minuts.<br />
Des de cada població es pot accedir a l’entrevista en format àudio i vídeo i a la<br />
transcripció ortogràfica corresponent. La majoria de vegades es tracta<br />
d’entrevistes amb un informant o grup d’informants que discuteixen sobre<br />
qüestions d’actualitat, fets relacionats amb la seva infantesa o joventut, etc.<br />
Normalment, la intervenció de l’entrevistador és mínima. Els informants havien<br />
de ser gent més gran de 60 anys ja que ens interessava cobrir la franja d’edat que<br />
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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />
141<br />
no cobria, per exemple, el material que podem trobar a l’apartat Frases o Map<br />
Tasks. Aquestes dades es poden visualitzar i escoltar lliurement i, a més, és<br />
possible descarregar-se el material en format vídeo o en format àudio. Sota del<br />
vídeo, també hi ha la transcripció ortogràfica (per a la qual s’han seguit els<br />
mateixos criteris ortogràfics de què parlàvem anteriorment) que ens permet seguir<br />
el diàleg que apareix en el vídeo amb molta més facilitat.<br />
La fig. 6 mostra la fitxa que se’ns desplega dins l’apartat Entrevistes. La<br />
fitxa conté el vídeo en format flaix (1), una icona d’un disquet que indica on<br />
s’ha de clicar per accedir a les descàrregues en format vídeo .avi i en format<br />
àudio .mp3 (2), la informació sobre l’entrevista (lloc i data, entrevistador,<br />
participant, tema i durada) (3) i la transcripció ortogràfica amb informació relativa<br />
al temps cada 30 segons (4). En el cas de l’Alguer hi trobem dos vídeos, un<br />
amb un informant femení i l’altre amb un informant masculí.<br />
1<br />
2<br />
3<br />
4<br />
Fig. 6. Mostra de fitxa que apareix en l’apartat d’Entrevistes de l’Alguer.<br />
Impaginato 6.pmd 141<br />
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142 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />
En el cas de l’Alguer, els dos vídeos que apareixen en la secció Entrevistes<br />
formen part d’un corpus més gran que és el corpus de vídeo enregistrat per Francesc<br />
Ballone. Es tracta d’un conjunt de 12 textos orals recollits i enregistrats entre el<br />
2000 i el 2008. Els informants tenien quasi tots més de 70 anys en el moment de<br />
l’entrevista i pertanyien a una mateixa estratificació social tot i que amb notables<br />
diferències laborals. Tot el material té una durada estimada de 20 hores.<br />
En una iniciativa recent de replegar els diferents corpus orals existents<br />
sobre l’alguerès, també presentem el Corpus oral de l’alguerès 3 que explicarem<br />
a la secció 4.<br />
3.1. Les isoglosses prosòdiques i el cas de l’Alguer<br />
L’entonació, i molt especialment l’entonació dialectal, continua essent un dels<br />
aspectes prosòdics menys explorats de la nostra llengua. Malgrat comptar amb<br />
una sèrie d’estudis descriptius, la major part centrats en la descripció del dialecte<br />
central, encara no s’ha estudiat de forma sistemàtica la notable diversitat dialectal<br />
de l’entonació catalana. L’any 1916, en l’article «De l’entonació en els nostres<br />
dialectes», Pere Barnils constatava l’interès de la variació melòdica dialectal,<br />
així com les dificultats que comportava aleshores la seva descripció:<br />
Naturalment que les diferències augmenten i tenen llur màxim en ple domini<br />
dialectal. El valencià, per exemple, Xè! que mo n’anem? o nèmoné?, ondularà<br />
segurament d’una manera ben distinta que el seu corresponent català, mallorquí<br />
i rossellonès. Això, que podem deduir ja a priori, i confirmar-ho per la impressió<br />
auditiva que tenim de les converses hagudes amb els dialectants d’aquelles<br />
contrades, no podem fixar-ho gràficament com caldria per oferir-ho com a<br />
materials a la investigació filològica (Barnils 1916: 12).<br />
L’abandó que ha sofert l’estudi de l’entonació, tant en català com en altres<br />
llengües, es podria atribuir a dos esculls que dificulten considerablement el seu<br />
tractament sistemàtic. D’una banda, és difícil d’aplicar als contorns entonatius<br />
els mateixos criteris contrastius que utilitza la fonologia segmental, pel fet que<br />
en la decisió no hi entren oposicions lèxiques clares (per exemple, que pal i mal<br />
es diferenciïn pel primer fonema), sinó matisos semàntics i expressius que no<br />
són senzills de delimitar. D’altra banda, tenim el problema de la representació<br />
tonal, és a dir, l’acceptació d’un sistema de transcripció que sigui prou global,<br />
senzill i que faci les distincions lingüísticament rellevants. En relació a aquesta<br />
darrera questió, últimament s’estan esmerçant esforços en la creació d’un siste-<br />
3 El web del Corpus Oral Alguerès és el següent: http://prosodia.upf.edu/coalgueres/index.html.<br />
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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />
143<br />
ma ToBI (Tones and Break Indices), basat en el model autosegmental. Així, el<br />
Grup d’Estudis de Prosòdia (UPF-UAB) treballa en la proposta de transcripció<br />
entonativa per al català: CAT_ToBI (Prieto et al. 2009), presentada a la<br />
comunitat científica en el marc del Workshop on transcription of Intonation<br />
in the Ibero-Romance Languages (PaPI 2007, Braga). La proposta conté l’inventari<br />
d’accents tonals i accents de frontera, a més de les possibles<br />
combinacions d’accents tonals i accents de frontera, amb la interpretació<br />
associada, tot això acompanyat de la descripció de corbes melòdiques<br />
procedents de diferents zones dialectals del català, i amb la possibilitat<br />
d’escoltar l’enunciat. Actualment, la proposta s’ha incorporat al web principal<br />
del ToBI, a la Universitat de Ohio, amb la voluntat de difondre els resultats<br />
entre altres lingüistes (veg. nota al peu 2). El Grup d’Estudis de Prosòdia<br />
(UPF-UAB) també ha desenvolupat, recentment, una eina interessant i<br />
necessària per a l’anotació prosòdica de corpus en català que conté informació<br />
prosòdica, fonètica i entonativa. Aquesta eina, en forma de lloc web, 4 conté<br />
materials de pràctica del sistema de transcripció Cat_ToBI amb exemples de<br />
frases etiquetades i també exercicis per a aprendre a etiquetar. L’objectiu<br />
principal és que sigui una eina pràctica per a aprendre a etiquetar prosòdicament<br />
diferents tipus de parla del català. El lloc web es va presentar al congrés<br />
Phonetics and Phonology in Iberia (PaPI 2009, Las Palmas) i va permetre<br />
que es fessin les primeres passes per a la creació d’una eina semblant que<br />
permetés la transcripció prosòdica de totes les llengües romàniques.<br />
L’estudi que presentem és només la primera passa d’un projecte més ampli<br />
que pretén impulsar l’anàlisi de la variació dialectal de manera transversal, això<br />
és, comparar l’entonació que tenen diferents tipus d’oracions com declaratives,<br />
interrogatives absolutes, parcials i reiteratives, precs i ordres, i vocatius amb<br />
matisos semanticopragmàtics diferents en tots els dialectes del català. La passa<br />
final d’aquest projecte serà la de cartografiar els resultats d’aquest estudi<br />
transversal amb el traçat de les isoglosses prosòdiques corresponents. La primera<br />
temptativa d’aquesta idea es dugué a terme al Workshop sobre entonació del<br />
català i Cat_ToBI any (2009) 5 en què es presentaren els primers resultats<br />
cartografiats de l’anàlisi tonal transversal de diversos tipus d’interrogatives: les<br />
interrogatives que demanen informació, les que demanen confirmació, els<br />
oferiments i les interrogatives antiexpectatives. A continuació posarem un<br />
4 El lloc web dels materials d’entrenament és el següent: http://prosodia.upf.edu/cat_tobi/en/.<br />
5 El lloc web on es poden trobar els materials presentats al Workshop sobre entonació del català i<br />
Cat_ToBI és el següent: http://prosodia.upf.edu/cattobi_workshop/home/.<br />
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144 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />
exemple d’aquest intent de cartografiar la variació entonativa trobada a tots els<br />
punts d’enquesta del domini lingüístic català mitjançant un exemple de les<br />
interrogatives absolutes neutres (les interrogatives que demanen informació),<br />
segurament el tipus d’oració en què trobem més variació interdialectal.<br />
Com és ben sabut, existeix una distinció clara entre les interrogatives<br />
informatives (information-seeking questions) i les interrogatives confirmatòries<br />
(confirmation-seeking questions) (Escandell 1993, Prieto 2002b). En el primer<br />
cas es tracta d’interrogatves informatives que demanen informació que no és<br />
compartida amb l’interlocutor, mentre que en el segon cas es tracta<br />
d’interrogatives que demanen informació compartida amb l’interlocutor, o dit<br />
amb altres paraules, interrogatives en què el parlant té alguna pressuposició<br />
sobre quina serà la resposta. En anglès, aquests dos tipus d’interrogatives tenen<br />
patrons sintàctics diferents. Així, mentre les interrogatives que demanen<br />
informació es caracteritzen per la inversió del subjecte i la presència d’un auxiliar<br />
(Did Jim leave early?), les interrogatives que demanen confirmació tendeixen a<br />
presentar sintaxi declarativa (Jim left early?). Com que en català i altres llengües<br />
romàniques aquests dos tipus d’interrogatives no són sintàcticament diferents,<br />
la decisió sobre l’estatus informatiu d’una determinada pregunta rau en<br />
l’entonació. L’entonació, doncs, és capaç de disambiguar dos tipus<br />
d’interrogatives diferents en llengües en què la sintaxi no hi té un paper tan<br />
fonamental, fet que s’ha demostrat en llengües romàniques com l’italià de Bari<br />
(Grice-Savino 1993, 2007a, 2007b) o el portuguès europeu (Santos-Mata 2008).<br />
A l’Atles hi ha recollides interrogatives informatives de les 70 localitats que hi<br />
apareixen. La situació emprada per a obtenir aquest tipus de frase era la següent<br />
(adaptació algueresa):<br />
–Entres a una botiga on no sés entrat mai (i per això no saps el que tenen i el<br />
que no) i demanes si tenen taronges.<br />
–Bon dia, teniu taronja?<br />
A la fig. 7 podeu observar quins són els patrons que s’han trobat en diferents<br />
parts del domini lingüístic català.<br />
Com podem observar en el mapa, en general trobem dos patrons per a les<br />
interrogatives que demanen informació: a) un patró descendent (color gris oscur<br />
al mapa) i b) un patró ascendent (gris pàl·lid al mapa). El colors llisos indiquen<br />
un moviment descendent (gris oscur) o ascendent (gris pàl·lid) durant la síl·laba<br />
nuclear (o última síl·laba tònica del contorn). Els colors tramats indiquen les<br />
variacions tonals que es poden afegir a aquest contorn ascendent o descendent.<br />
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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />
Fig. 7. Mapa en què apareixen els resultats obtinguts a l’Atles per a les interrogatives<br />
que demanen informació del tipus Teniu taronja?<br />
145<br />
L’especificació «*descendent» i «*ascendent» que apareix al requadre de la fig. 7<br />
indica que, tot i que la cua final és descendent o ascendent com en els contorns<br />
indicats amb color llis, aquest moviment presenta una petita diferència respecte<br />
al marcat amb el color llis. Per exemple: en el català de Mallorca trobem una<br />
entonació descendent associada a la síl·laba nuclear (color gris oscur), però, a<br />
més, és característic d’aquest dialecte que la síl·laba prenuclear es realitzi en un<br />
to extra alt, i això ho hem marcat mitjançant una trama de color negre. La fig. 8<br />
il·lustra la diferència entonativa marcada amb gris oscur llis i gris oscur (tramat<br />
en negre i tramat en blanc).<br />
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146 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />
Fig. 8. Esquema dels diferents contorns entonatius que trobem com a variacions del contorn<br />
descendent: contorn descendent (esquerra), contorn descendent amb la pretònica realitzada<br />
en un to extra alt (centre) i contorn descendent-ascendent (dreta).<br />
El català de l’Alguer presenta una entonació que també trobem en bona<br />
part del català nord-occidental i el català de les Illes Balears: un moviment<br />
descendent associat a la síl·laba nuclear seguit d’una cua també descendent<br />
alineada amb les síl·labes postnuclears (Vanrell 2006). La fig. 9 exemplifica<br />
aquest contorn, que es caracteritza per la presència d’un to descendent associat<br />
a la síl·laba -ron- de taronja i un to alt associat amb la síl·laba pretònica -ta-.<br />
La inflexió final és també de caràcter descendent.<br />
Fig. 9. Transcripció ortogràfica, tonal, oscil·lograma i contorn d’f0 de la interrogativa<br />
informativa Teniu taronja? produïda per una parlant d’alguerès.<br />
Els patrons entonatius de les interrogatives absolutes informatives i les<br />
confirmatòries del català de les Illes Balears i del català central obtinguts mitjançant<br />
una enquesta de situacions ens permet d’apreciar una gamma variada de contorns<br />
interrogatius relacionats amb la intencionalitat que hi pot haver darrere. Aquests<br />
contorns es van analitzar a Vanrell et al. (2009a). Els resultats de l’anàlisi d’aquestes<br />
dades demostren que els parlants tenen estratègies diferents per a marcar la<br />
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147<br />
diferència entre interrogatives absolutes informatives i confirmatòries segons el<br />
dialecte a què pertanyen. Així, hi ha dialectes com el català central que marquen la<br />
distinció entre un i altre tipus d’interrogativa mitjançant l’ús de configuracions<br />
nuclears diferents; altres, com el mallorquí i el menorquí, tenen com a indici d’aquest<br />
contrast la diferència d’altura en la síl·laba prenuclear; i altres, com l’eivissenc i el<br />
formenterer, utilitzen les dues estratègies, tenen un doble contrast: en un, utilitzen<br />
tons de frontera diferents i, en l’altre, una major o menor altura tonal de la síl·laba<br />
prenuclear. Sembla que la diferència entre interrogatives que demanen informació<br />
i interrogatives que demanen confirmació pot marcar-se en alguerès amb una altura<br />
diferent de la síl·laba prenuclear com també passa en mallorquí, menorquí<br />
(Vanrell et al. 2009a, 2009b) i una part del català nord-occidental. Les dades<br />
extretes de les gravacions de Map Task de Prieto i Cabré (2008) confirmen aquesta<br />
hipòtesi. La fig. 10 mostra dos contorns confirmatoris extrets de les gravacions de<br />
Map Task: La puc fer-la nova? (esquerra) i Torn torna enrera? (dreta).<br />
Fig. 10. Transcripció ortogràfica, tonal, oscil·lograma i contorn d’f0 de les interrogatives<br />
que demanen confirmació La puc fer-la nova? (esquerra) i Torn torna enrera? (dreta)<br />
produïdes per parlants d’alguerès.<br />
Observeu que en les preguntes confirmatòries l’altura de la síl·laba pretònica<br />
final -la (de fer-la) i en- (d’enrera) no es realitza en un to extra alt sinó en un to alt<br />
simplement. Si comparem l’altura d’una interrogativa informativa amb una interrogativa<br />
confirmatòria realitzada per la mateixa parlant algueresa, comprovem<br />
que la diferència entre el to de la pretònica en la interrogativa informativa i el to<br />
de la pretònica en la interrogativa confirmatòria és de 3,6 semitonsque és, més o<br />
menys, la diferència que hi ha entre la nota re i la fa produïdes pel mateix instrument.<br />
Uns dels tipus d’oracions interessants des del punt de vista entonatiu són els<br />
oferiments. Ens referim a un tipus d’oracions que són interrogatives des del<br />
punt de vista de la força o modalitat oracional, però que, en canvi, tenen la<br />
força il·locutiva (la intenció) d’oferiment. A l’Atles, han estat aconseguides<br />
mitjançant els següents contextos (adaptació algueresa):<br />
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148 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />
–Demana a un amic si vol venir a prendre calqui cosa amb tu.<br />
–Véns a prendre calqui cosa?<br />
–Demana als tous nebots petits si volen una caramel.la.<br />
– (Que) voleu una caramel·la?<br />
A la majoria de domini lingüístic català, trobem el mateix patró: una corba<br />
melòdica que es manté estable durant tota l’oració i baixa durant la síl·laba<br />
nuclear amb inflexió final també descendent (fig. 11). Observeu que la melodia<br />
es manté estable durant vols anar a prendre, però experimenta una davallada a<br />
la síl·laba al- (d’algo). Aquest és un exemple de Manresa (català central).<br />
Fig. 11. Transcripció ortogràfica, tonal, oscil·lograma i contorn d’f0 de l’oferiment<br />
Vols anar a prendre algo? produïda per una parlant de català central.<br />
En alguerès, els oferiments són lleugerament diferents. Sintàcticament,<br />
aquestes formes interrogatives amb intenció d’oferiment poden anar introduïdes<br />
per la partícula a, com en sard. Jones ( 1993) posa el següent exemple del sard<br />
campidanès: A keres vénnere a domo mea? (‘Vols venir a casa meva?’) i diu el<br />
següent en relació a la partícula a: «This particle is used predominantly, but not<br />
exclusively, in questions which are to be interpreted as requests, invitations,<br />
offers, etc.». En alguerès, aquesta partícula tampoc no apareix de manera<br />
obligatòria. Per tant, trobem oferiments com: A véns amb mi que te convid calqui<br />
cosa?, A véns al bar mos bevem una cosa? però també Minyons, una caramel·la,<br />
la voleu? o Vols venim amb mi que anem a mos prendre calqui cosa?<br />
Els oferiments en alguerès presenten una entonació que es caracteritza per<br />
una pujada inicial amb un pic tonal alineat amb la primera síl·laba tònica del<br />
mot seguida d’un descens tonal. A partir d’aquest descens, la línia tonal es<br />
manté baixa fins al final de l’oració, en què, en alguns casos, puja lleugerament.<br />
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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />
La fig. 12, mostra dos exemples d’aquest contorn: Voleu una caramel·la?<br />
(esquerra) i Véns a te beure un cafè? (dreta).<br />
Fig. 12. Transcripció ortogràfica, tonal, oscil·lograma i contorn d’f0 dels oferiments<br />
Voleu una caramel·la? (esquerra) i Véns a te beure un cafè? (dreta) produïts<br />
per dos parlants d’alguerès.<br />
149<br />
En les dues figures, el pic tonal està alineat amb les síl·labes -leu (de voleu)<br />
en el contorn de l’esquerra i véns en el contorn de la dreta. A continuació, la<br />
melodia davalla i es manté baixa durant la resta de contorn. Aquesta sembla que<br />
és l’entonació que trobem, també, en les interrogatives en sard nuorès. Contini<br />
(1976) descriu aquesta mateixa entonació, amb el pic alineat amb la primera<br />
síl·laba tònica de l’oració, per a les interrogatives introduïdes per la partícula a<br />
del tipus A l’isches? ‘Ho saps?’, les interrogatives amb inversió del tipus Bidu<br />
l’as? ‘Vist l’has?’, i les interrogatives sense cap dels dos fenòmens anteriors<br />
com S’abba? ‘L’aigua?’ del sard nuorès: «Type I. Dans les phrases introduites<br />
par a les ommet mélodique se situe soit sur cet élément soit sur la syllable<br />
accentuée du premier mot phonique», «Type II. Le sommet mélodique coïncide<br />
les plus souvent avec l’accent du premier mot phonique», «Type III. Le sommet<br />
de la courbe coïncide les plus souvent avec l’accent du premier mot phonique».<br />
A partir de les dades de l’Atles també s’han començat a estudiar els vocatius<br />
algueresos definint prosòdicament el procés d’apocopació i analitzant el patró<br />
entonatiu que adopten aquests vocatius. L’alguerès, ben igual que els altres<br />
dialectes del català, usa uns recursos entonatius diferents en els vocatius segons<br />
si és la primera vegada que es crida a una persona o si se l’ha de tornar a cridar<br />
intensificant el valor del vocatiu. A partir de les dades que ofereix l’Atles<br />
interactiu de l’entonació del català (Prieto-Cabré 2008), podem dir que en la<br />
majoria de dialectes del català, aquesta segona crida va acompanyada d’una<br />
pujada en la intensitat i d’un increment del valor del to en què s’ha produït<br />
aquesta primera crida (sovint, no es tracta només d’un increment del to absolut,<br />
sinó que també trobem una ampliació del camp tonal general amb què s’ha emès<br />
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150 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />
el primer vocatiu, és a dir, els tons baixos esdevindran més baixos i els alts, més<br />
alts –veg. fig. 13–). Tanmateix, també existeix una altra possibilitat, exemplificada<br />
a la fig. 14, la d’utilitzar una configuració nuclear diferent per marcar aquest valor<br />
d’insistència (entenem per configuració nuclear la suma de l’accent nuclear, és a<br />
dir, l’accent tonal associat a l’última síl·laba tònica de l’enunciat, i els tons de<br />
frontera). El vocatiu en català es pronuncia amb un moviment tonal ascendent<br />
associat a la síl·laba tònica del nom seguit d’una cua que es realitza en un to mig.<br />
Ara bé, si el nostre interlocutor no fa cas d’aquesta primera crida, tenim dues<br />
estratègies: la més general, sobretot en zones urbanes, que fa ús del mateix patró<br />
entonatiu però realitzat amb un to més alt (fig. 13 dreta), o bé una altra de més<br />
restringida, que fa ús del mateix accent tonal ascendent a la síl·laba tònica amb<br />
una cua ascendent-descendent associada a les síl·labes posttòniques (fig. 14 dreta).<br />
Fig. 13. Transcripció ortogràfica, tonal, oscil·lograma i contorn d’f0 del vocatiu Maria<br />
pronunciat de manera no emfàtica (esquerra) i de manera emfàtica (dreta)<br />
per una parlant de mallorquí.<br />
Fig. 14. Transcripció ortogràfica, tonal, oscil·lograma i contorn d’f0 del vocatiu Maria<br />
pronunciat de manera no emfàtica (esquerra) i de manera emfàtica (dreta)<br />
per una parlant de mallorquí.<br />
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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />
151<br />
En alguerès, tot i que hi podem trobar els patrons descrits, la llengua tradicional<br />
fa ús d’un tercer patró que permet als parlants de transmetre el valor d’insistència de<br />
què hem parlat. Aquest patró es caracteritza per l’alineació de l’accent tonal amb la<br />
primera síl·laba del mot. Aquest «retrocés de l’accent» que interpretem des d’un<br />
punt de vista fonològic com una diferència d’alineació de l’accent tonal (Cabré-<br />
Vanrell 2008), no és exclusiva només dels vocatius de l’alguerès sinó que ja havia<br />
estat descrita per als vocatius del llatí (Floricic 2009), del turc (Zimmer 1970) o el<br />
persa (Ferguson 1957, Hodge 1957, Zav’jalova 1962, 1964; Vahidian-Kamyar 2001,<br />
Sadat-Tehrani 2007). A més, els vocatius en alguerès poden perdre tot el material<br />
fònic que apareix a la dreta de la vocal tònica. Alguns exemples d’aquest procés<br />
són: María > Marí, Estéve > Esté, Pasqualíno > Pasqualí, Fábio > Fa. Els vocatius<br />
són els únics mots que es poden apocopar, tot i que no és un requisit indispensable<br />
atès que hi ha altres mecanismes com l’entonació o la partícula «o» que poden<br />
marcar aquest cas. Els treballs de Cabré i Vanrell (2008) i Vanrell i Cabré (2009)<br />
demostren que el procés de truncament que té lloc en els vocatius implica l’elisió de<br />
tot el material fònic que apareix a la dreta de la vocal tònica. Es tracta d’un procés<br />
morfològic de formació de mots que no segueix cap patró prosòdic ni pel que fa a la<br />
seqüència que es manté ni a la que s’elideix. Segons la posició de l’accent del mot<br />
base, el vocatiu apocopat pot tenir una síl·laba (Fábio > Fa), dues síl·labes (María<br />
> Marí) o tres síl·labes (Pasqualíno > Pasqualí).<br />
En relació a l’entonació, hem vist que cal distingir entre el vocatiu de primera<br />
crida o de segona. Considerem que la segona crida sempre és més emfàtica i<br />
insistent que la primera i això té un efecte evident en l’entonació. En la primera<br />
crida, trobem un predomini important d’accents tonals descendents alineats amb<br />
la síl·laba que conté l’accent del mot (fig. 15, esquerra). En canvi, en la segona<br />
crida, és habitual que l’accent tonal de caràcter ascendent (amb el pic lleugerament<br />
retractat en relació al final de la síl·laba, cosa que fa que es percebi com un moviment<br />
ascendent-descendent) i alineat amb la primera síl·laba del mot (fig. 15, dreta).<br />
Fig. 15. Representació esquemàtica dels dos patrons entonatius que poden associar-se<br />
als vocatius en alguerès: un patró descendent associat a la síl·laba tònica (esquerra) o b)<br />
un patró ascendent alineat amb la primera síl·laba del mot amb el pic lleugerament avançat<br />
(dreta). El requadre gris representa la síl·laba a la qual s’associa el moviment tonal.<br />
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152 Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />
Una característica significativa del patró emfàtic és que s’ha de realitzar<br />
sobre una base truncada o bisil·làbica. Tanmateix, l’efecte emfàtic pot venir<br />
també donat per la presència de la partícula «o» que pot ajuntar-se a una base<br />
sencera o truncada però amb accent tonal sempre descendent alineat amb la<br />
síl·laba tònica del mot.<br />
En resum, podem constatar dos fets rellevants en la formació de vocatius<br />
de l’alguerès. D’una banda, els mots apocopats monosil·làbics (procedents<br />
de bases planes de dues sil·labes o esdrúixoles de tres síl·labes) compensen<br />
sempre amb un allargament prou notori el pes sil·làbic de la síl·laba oberta<br />
resultat del procés de truncament. D’altra banda, els vocatius bisil·làbics<br />
plans, tipus Mário, Fábio, Ánna, Énzo, i els bisil·làbics aguts, tipus Francé,<br />
Joá, Gaví (també acabats en vocal), usen exactament els mateixos patrons<br />
entonatius. Tots es poden realitzar amb una entonació no emfàtica de tipus<br />
descendent alineant l’accent tonal a la dreta del mot: Fabió, Marió, Anná,<br />
Enzó, Francé, Joá, Gaví. Al mateix temps, tots es poden realitzar amb una<br />
entonació emfàtica de tipus ascendent alineant l’accent tonal a l’esquerra<br />
del mot: Fábio, Mário, Ánna, Énzo, Fránce, Jóa, Gávi. La bisil·labicitat<br />
sembla, doncs, el patró prosòdic per defecte que permet l’adaptació de totes<br />
les possibles formes vocatives i de tots els patrons entonatius. Les figures<br />
següents exemplifiquen un vocatiu apocopat amb el seu corresponent emfàtic<br />
marcat per la partícula o (fig. 16) i un vocatiu també apocopat amb el<br />
corresponent emfàtic marcat mitjançant una diferent alineació de l’accent<br />
tonal (fig. 17).<br />
Fig. 16. Transcripció ortogràfica, tonal, oscil·lograma i contorn d’f0 del vocatiu<br />
Joá pronunciat de manera no emfàtica (esquerra) i o Joán pronunciat<br />
de manera emfàtica (dreta).<br />
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15/03/2010, 15.05
EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />
Fig. 17. Transcripció ortogràfica, tonal, oscil·lograma i contorn d’f0 del vocatiu<br />
Antó pronunciat de manera no emfàtica (esquerra) i Ánto pronunciat<br />
de manera emfàtica (dreta).<br />
4. Altres corpus sobre l’alguerès<br />
153<br />
Com hem vist, les dades de l’Atles interactiu de l’entonació del català ens permeten<br />
de fer un estudi prou aprofundit sobre l’entonació o sobre altres fenòmens dels<br />
dialectes del català. Ara bé, en alguns casos ens ha calgut fer enquestes<br />
suplementàries per estudiar l’efecte d’un determinat significat pragmàtic en<br />
l’entonació o, en el cas dels vocatius, per determinar si l’estructura sil·làbica o la<br />
llargada del mot afectava el tipus de forma truncada que obteníem. També creiem<br />
que és molt important contrastar els resultats obtinguts mitjançant enquestes de<br />
parla semiespontània amb dades de parla espontània. És per això que hem aplegat<br />
aquests materials dins del web interactiu anomenat Corpus oral de l’alguerès.<br />
El Corpus oral de l’alguerès es tracta d’un lloc web (adreça en la nota 3)<br />
que recull alguns dels corpus orals de l’alguerès recollits fins ara en format<br />
vídeo (corpus Francesc Ballone, corpus Conversa amb...) o en àudio (corpus<br />
Amper-Cat, corpus Atles interactiu de l’entonació del català, corpus Andreu<br />
Bosch, corpus Arxiu de Tradicions de l’Alguer). A més de poder accedir<br />
lliurement a aquest material i poder, també, descarregar-lo, l’usuari té accés a<br />
la transcripció ortogràfica.<br />
Disposar d’aquest material en línia té els següents objectius:<br />
–la preservació, atès que suposarà una manera de preservar en format digital<br />
una part molt important del patrimoni sociocultural alguerès i, per tant, català<br />
(literatura popular com poemes, cançons i relats; textos orals sobre la cultura<br />
i la història de l’Alguer; etc.).<br />
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Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />
–la difusió, ja que s’utilitzarà un entorn virtual que facilita que ni el temps ni<br />
l’espai siguin un inconvenient perquè l’usuari entri en contacte amb la realitat<br />
sociocultural algueresa i, a més, estarà en quatre llengües: català, sard, italià i anglès.<br />
–la recerca. Considerem que l’accessibilitat d’aquests corpus contribuirà<br />
a esperonar la recerca en l’àmbit de la lingüística algueresa.<br />
–l’educació/ensenyament. Creiem que l’existència d’aquest recurs pot ser una<br />
eina importantíssima per a l’ensenyament de l’alguerès a les escoles d’infants i<br />
d’adults ja que sabem que, malauradament, la transmissió intergenarcional de<br />
l’alguerès no és una pràctica comuna. El fet de poder accedir a aquest material des<br />
de qualsevol lloc en garantirà l’ús per a treballar determinats aspectes lingüístics<br />
relacionats amb l’alguerès o determinades habilitats (comprendre el sentit global<br />
d’una conversa, identificar la idea o idees principals d’un text escoltat prèviament,<br />
identificar aspectes rellevants de la situació de comunicació –actitud i intenció de<br />
la persona que parla-) que poden ser difícils de presentar en un context en què s’ha<br />
perdut la transmissió intergeneracional d’aquesta llengua.<br />
La taula següent mostra una breu descripció del material en brut amb què<br />
comptem i que serà la matèria primera per a la creació d’aquest Corpus oral<br />
de l’alguerès:<br />
Un dels objectius d’aquest projecte és el de la preservació de material en un<br />
format de qualitat, en format digital, i de tot el que això suposa: una part important<br />
del patrimoni oral de l’alguerès. La preservació digital es basa en la cerca de<br />
mètodes per garantir que la informació emmagatzemada digitalment en qualsevol<br />
tipus de format, programari, maquinari o sistema, continuï sent accessible tot i<br />
el ràpid desenvolupament de les noves tecnologies. En aquest sentit, la<br />
preservació digital es farà en dos formats diferents: un format que permeti<br />
disposar d’aquests materials en qualsevol moment (això és mp3 pel que fa a<br />
l’àudio, i flaix, pel que fa al vídeo) i un altre format de més qualitat com és el<br />
wav (material d’àudio) i l’avi (material de vídeo). Aquesta doble preservació té<br />
com a objectiu que el lloc web tingui dos tipus d’usuaris ben diferents i que<br />
aquest material es pugui adaptar a les seves necessitats: a) l’usuari que només<br />
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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />
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està interessat a visualitzar o escoltar les dades (per tant, li interessa poder dur a<br />
terme aquesta idea sense haver d’esperar descàrregues), i b) l’usuari que vol<br />
treballar a partir d’aquestes dades i que necessita un format apte per a l’anàlisi<br />
en un programari concret.<br />
La fig. 18 mostra la primera pàgina del Corpus oral de l’alguerès. Es tracta<br />
d’un lloc web que conté les seccions següents, presentació, l’alguerès, dades,<br />
equip i enllaços, que es presenten a continuació:<br />
Fig. 18. Pàgina d’inici del web Corpus oral de l’alguerès.<br />
Presentació. En aquesta secció es descriuen els objectius del projecte i el<br />
contingut d’aquest web.<br />
L’alguerès. Aquí s’explica quin és l’estatus del català de l’Alguer pel que fa a<br />
l’ús social, a l’ensenyament, als mitjans de comunicació i a la legislació, al mateix<br />
temps es presenta una breu introducció històrica al fet que a Sardenya es parli català.<br />
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Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />
Dades. Les dades estan agrupades segons els format (àudio/vídeo) i<br />
l’investigador que ha recollit el corpus (Arxiu de Tradicions de l’Alguer, Amper-<br />
Cat, Atles interactiu de l’entonació del català, Francesc Ballone, Andreu Bosch,<br />
Jaume Corbera o Amper-Cat). Una vegada s’ha accedit al corpus en qüestió es<br />
pot visualitzar/escoltar el material i seguir a través de transcripcions ortogràfiques.<br />
També hi ha la possibilitat de descarregar els arxius de so/vídeo i la transcripció.<br />
Equip. Es tracta d’un projecte coordinat per Pilar Prieto (ICREA-Universitat<br />
Pompeu Fabra) i Maria del Mar Vanrell (Universitat Pompeu Fabra) i amb un<br />
equip format pels representants dels diferents corpus que són: Luca Scala (AdT),<br />
Laboratori de Fonètica-Universitat de Barcelona (Amper-Cat), Pilar Prieto (Atles),<br />
Andreu Bosch (Corpus Bosch), Francesc Ballone (Corpus Ballone), Jaume Corbera<br />
(Corpus Conversa amb...) i Eugenio Martínez-Celdrán (Corpus Amper-Cat).<br />
Enllaços. A partir d’aquesta pestanya es pot accedir a altres webs que<br />
considerem importants per al català de l’Alguer o l’entorn sociocultural alguerès<br />
i a una petita descripció d’aquests webs. També s’hi pot trobar un ellaç al<br />
document El català de l’Alguer: un model d’àmbit restringit, a un recull de<br />
lèxic alguerès, a l’Enquesta d’usos lingüístics a l’Alguer 2004, a associacions i<br />
entitats de l’Alguer, etc.<br />
Els corpus que formen part d’aquest lloc web:<br />
Corpus Arxiu de Tradicions de l’Alguer. Es tracta d’un corpus format per<br />
entrevistes longitudinals dutes a terme a dues senyores de més de 60 anys amb<br />
una durada total aproximada de 150 minuts. Aquestes entrevistes es varen dur a<br />
terme entre l’estiu i la tardor de 1997. Les dues dones no havien viscut mai a<br />
fora de l’Alguer. El mètode d’entrevista utilitzat era el de fer preguntes perquè<br />
les entrevistades poguessin explicar històries de manera espontània amb poca<br />
intervenció per part de l’entrevistador. Així, aquest material està format per<br />
poemes, rondalles, contes, cançons, acudits, etc. Aquestes dades varen ser<br />
recollides per Luca Scala.<br />
Corpus Atles interactiu de l’entonació del català (Prieto-Cabré 2008). Es<br />
tracta d’un corpus format per 3 map tasks d’una durada mitjana de 10 minuts<br />
cada un recollit al desembre de 2007. Els informants són 2 dones d’uns 50 anys,<br />
2 de 60 anys i 2 homes, més joves, d’una trentena d’anys. La metodologia que<br />
es va seguir per a la recollida de dades és el map task. Les dades varen ser<br />
recollides per Francesc Ballone i Maria del Mar Vanrell.<br />
Corpus Ballone. Es tracta d’un corpus format per 12 textos orals, recollits i<br />
enregistrats entre el 2000 i el 2008. Els informants pertanyen a una mateixa<br />
estratificació social però amb notables diferències laborals: hi ha representants<br />
del món pagesívol, representants del món de l’esport, pescadors, sabaters,<br />
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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />
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capellans, dones de casa. Els informants tenen quasi tots més de 70 anys en el<br />
moment de l’entrevista, amb un cas de locutor de 52 anys i una locutora de 100<br />
anys (nascuda l’any 1906). El material ha estat recollit i enregistrat per Francesc<br />
Ballone. El material en brut té una durada estimada de 20 hores.<br />
Corpus Bosch i Sanna. Es tracta d’un corpus format per 25 textos orals<br />
(sobretot narracions, però també cançons i poesies), recollit i enregistrat entre<br />
el 2 de febrer i el 21 de març de 1995. Els informants pertanyen a una mateixa<br />
estratificació social, prevalentment a la clase treballadora, poc culturitzada,<br />
sobretot de l’àmbit del camp, però també del món més urbà i mariner, de llengua<br />
materna catalana i, a voltes, amb alguna deficiència en el domini de la llengua<br />
italiana (alguns són coneixedors passius o actius del sard). En el moment de les<br />
entrevistes, eren d’edats compreses entre els 60 i 84 anys. Les dades varen ser<br />
recollides pels entrevistadors Andreu Bosch i Rodoreda i Maria Antonietta Susanna<br />
Sanna.<br />
Corpus Conversa amb... Es tracta de 6 entrevistes en format vídeo<br />
enregistrades a l’Alguer durant els dies 25 i 26 de juliol de 2008. Els entrevistats<br />
eren pescadors, pagesos o del món urbà. Tots eren majors de 70 anys. Cada<br />
entrevista té una durada aproximada d’una hora i mitja. Les dades varen ser<br />
recollides per Jaume Corbera i Enrico Chessa.<br />
Corpus Amper-Cat. Es tracta d’un corpus format per 2 gravacions de Map<br />
Task d’una durada mitjana de 12 minuts cada un, una narració espontània d’uns<br />
tres minuts de durada i unes frases d’ús comú. Els informants són una dona de<br />
25 anys i un home de 60. Els materials van ser recollits al desembre de 2007 i a<br />
l’agost de 2008. Les dades varen ser recollides, mitjançant una gravadora digital,<br />
per Esteve Valls i Maria Cabrera, Lourdes Aguilar i Francesc Ballone en el marc<br />
del projecte Amper-Cat.<br />
5. Conclusions<br />
En aquest article hem fet una descripció del web de l’Atles interactiu de<br />
l’entonació del català i dels materials en àudio i en vídeo que conté per a l’estudi<br />
de la prosòdia i l’entonació dels dialectes catalans, centrant-nos especialment<br />
en les dades de la varietat algueresa. En la part central de l’article hem posat de<br />
relleu com les dades de l’Atles ens permeten iniciar el traçat de les isoglosses<br />
prosòdiques de la llengua catalana. En aquesta part hem fet una pinzellada dels<br />
primers resultats geoprosòdics que s’han obtingut a partir de l’anàlisi de quatre<br />
tipus de patrons entonatius de l’Atles: les preguntes informatives, les preguntes<br />
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158<br />
Pilar Prieto, Teresa Cabré i Maria del Mar Vanrell<br />
confirmatòries, les preguntes d’oferiment i els vocatius. Hem pogut observar<br />
com a voltes l’entonació algueresa es correspon amb els patrons entonatius de<br />
la varietat balear (per exemple, en el contrast entre interrogativa informativa i<br />
confirmatòria) i a voltes mostra trets ben diferenciats que podrien ser deguts a la<br />
influència del sard (preguntes d’oferiment i vocatius).<br />
Finalment, en la darrera secció, hem presentat un projecte important per a la<br />
documentació i l’estudi lingüístic de la varietat parlada a l’Alguer. És el web<br />
Corpus oral de l’alguerès que pretén d’aplegar en format digital els corpus<br />
orals ja existents sobre l’alguerès, ja sigui en format vídeo (corpus Francesc<br />
Ballone, corpus Conversa amb...) o en àudio (corpus Amper-Cat, corpus Atles<br />
interactiu de l’entonació del català, corpus Andreu Bosch i corpus Arxiu de<br />
Tradicions de l’Alguer).<br />
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EL PROJECTE DE L’ATLES INTERACTIU DE L’ENTONACIÓ DEL CATALÀ: EL CAS DE L’ALGUER<br />
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Num. 1 (giugno 2007)<br />
INDICE DEI NUMERI PRECEDENTI<br />
161<br />
Joan ARMANGUÉ (Università di Cagliari), Forme di cultura catalana nella Sardegna medioevale<br />
Esther Martí (Universitat de Lleida), Les ciutats reials en els Parlaments sards i en les Corts<br />
catalanes durant el Regnat d’Alfons el Magnànim<br />
Walter TOMASI (Arxiu de Tradicions), Taxació d’oficis de maestrances (Oristano 1597-1621)<br />
Maria LEPORI (Università di Cagliari), Il marchese d’Arcais, un signore sgradito<br />
Gabriel ANDRÉS (Università di Cagliari), Grazia Deledda sotto censura nella Spagna franchista<br />
Num. 2 (dicembre 2007)<br />
Antonello V. GRECO (Arxiu de Tradicions), Città costiere romane di tradizione punica: alcune<br />
osservazioni topografiche su Carales e Carthago Nova. Ipotesi sulla circolazione di un ‘modello’<br />
metropolitano<br />
Joan ARMANGUÉ (Università di Cagliari), Le prime ‘Ordinanze’ di Castello di Cagliari (1347).<br />
Testo e traduzione<br />
Umberto ZUCCA (OFMCon), Il culto di san Giuseppe da Copertino in Oristano<br />
Ramon VIOLANT I SIMORRA, Parallelismi culturali tra Sardegna, Catalogna e Baleari<br />
Matthew L. JUGE (Texas State University, San Marcos), Usual outcomes in unusual circumstances:<br />
Catalan in L’Alguer<br />
Num. 3 (giugno 2008)<br />
Jordi CARBONELL DE BALLESTER (Università di Cagliari), La grida in catalano del veghiere di Cagliari<br />
del 1337<br />
Joan ARMANGUÉ (Università di Cagliari), Gli ebrei nelle prime ‘Ordinanze’ di Castello di Cagliari<br />
(1347). Nota per una rilettura etnologica<br />
Ines LOI CORVETTO (Università di Cagliari), Prassi scrittoria e interferenze linguistiche nella Sardegna<br />
sabauda<br />
Simona MELONI (Arxiu de Tradicions), Il Fondo Timon della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari.<br />
Testimonianze dello sviluppo della tipografia nella Sardegna del XIX secolo<br />
Roslyn M. FRANK (University of Iowa), Recovering European Ritual Bear Hunts: A Comparative<br />
Study of Basque and Sardinian Ursine Carnival Performances<br />
Francesc-Xavier LLORCA IBI (Universitat d’Alacant), ‘Turina bella’. Llengua i cultura de la tonyina<br />
a Sardenya<br />
Num. 4 (dicembre 2008)<br />
Joan ARMANGUÉ (Università di Cagliari), Ripopolamento e continuità culturale ad Alghero:<br />
l’identità epica<br />
Mauro MAXIA (Università di Sassari), Il Condaghe di Luogosanto. Un documento in sardo<br />
logudorese del primo Cinquecento<br />
Impaginato 6.pmd 161<br />
15/03/2010, 15.05
162<br />
Aldo SARI (Università di Sassari), I teatri stabili ad Alghero nell’Ottocento<br />
Constantino VIDAL SALMERON (Universitat de Barcelona), Una ‘mezuzà’ algueresa inèdita<br />
Francesc BALLONE (Università di Sassari), Català de l’Alguer: anàlisi instrumental d’un text oral<br />
Roslyn M. FRANK (University of Iowa), Evidence in Favor of the Palaeolithic Continuity Refugium<br />
Theory (PCRT): ‘Hamalau’ and its linguistic and cultural relatives. Part 1<br />
Num. 5 (giugno 2009)<br />
Antonello V. GRECO (Arxiu de Tradicions), Unzioni rituali e spiritualità semitica<br />
Constantino VIDAL SALMERON (Universitat de Barcelona), Documents sobre una inscripció hebrea<br />
a l’Arxiu Municipal de l’Alguer<br />
Joan ARMANGUÉ (Università di Cagliari), Le lingue in Sardegna attraverso gli Statuti delle città regie<br />
Mauro MAXIA (Università di Sassari), Per una fonetica storica delle varietà sardo-corse<br />
Andreu BOSCH I RODOREDA (Universitat de Barcelona), Problemes de codificació de l’alguerès<br />
Roslyn FRANK (University of Iowa), Evidence in Favor of the Palaeolithic Continuity Refugium<br />
Theory (PCRT): ‘Hamalau’ and its linguistic and cultural relatives. Part 2<br />
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SERIE «ATTI»<br />
Pubblicazioni dell’Arxiu de Tradicions<br />
COEDIZIONI<br />
GRAFICA DEL PARTEOLLA – AdT<br />
163<br />
1. Tesori in Sardegna. Atti del II Simposio di Etnopoetica dell’AdT. Dolianova 2001.<br />
4. L’acqua nella tradizione popolare sarda. Atti del III Simposio di Etnopoetica dell’AdT. Dolianova 2002.<br />
5. Le lingue del popolo. Contatto linguistico nella letteratura popolare del Mediterraneo occidentale. Dolianova<br />
2003.<br />
6. Oralità e memoria. Identità e immaginario collettivo nel mediterraneo occidentale. Dolianova 2005.<br />
7. La biografia popular. De l’hagiografia al gossip. Atti del VI Simposio di Etnopoetica dell’AdT (Tarragona<br />
2005). Dolianova 2006.<br />
8. Els gèneres etnopoètics. Competència i actuació. Atti del VII Simposio di Etnopoetica dell’AdT (Palma di<br />
Maiorca 2006). Dolianova 2007.<br />
9. Folklore i Romanticisme. Els estudis etnopoètics de la Renaixença. Atti dell’VIII Simposio di Etnopoetica<br />
dell’AdT (Alicante 2007). Dolianova 2008.<br />
10. Illes i insularitat en el folklore dels Països Catalans, Atti del IX Simposio di Etnopoetica de l’Arxiu de<br />
Tradicions de l’AdT (Alghero 2008). Cagliari 2009.<br />
STUDI STORICI<br />
1. Storia dell’ulivo in Sardegna. Atti della II Giornata di Studi Oleari dell’AdT. Dolianova 2001.<br />
2. Aragonensia. Quaderno di studi sardo-catalani. Dolianova 2003.<br />
3. La rotta delle isole / La ruta de les illes. Dolianova 2004.<br />
4. Norbello e Domusnovas. Appunti di vita comunitaria. Dolianova 2005.<br />
<strong>INSULA</strong>. QUADERNO DI CULTURA SARDA<br />
1. Giugno 2007.<br />
2. Dicembre 2007.<br />
3. Giugno 2008.<br />
4. Dicembre 2008.<br />
5. Giugno 2009.<br />
6. Dicembre 2009.<br />
BOLLETTINO DELL’ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI ORISTANO<br />
1. Dicembre 2007.<br />
2. Agosto 2008.<br />
3. Dicembre 2008.<br />
4. Giugno 2009.<br />
BIBLIOTECA EDUARD TODA<br />
1. Eduard Toda i Güell, Memoria sobre los Archivos de Cerdeña, ed. Luca Scala. Cagliari, 2009.<br />
2. Eduard Toda i Güell, Cortes españolas de Cerdeña, ed. Joan Armangué. Cagliari, 2009.<br />
PUBLICACIONS DE L’ABADIA DE MONTSERRAT – AdT<br />
1. La Setmana Santa a l’Alguer. Atti del I Simposio di Etnopoetica dell’AdT. Barcellona 1999. Serie «Atti», num. 1.<br />
2. Arxiu de Tradicions de l’Alguer. Barcellona 2001. Serie «Atti», num. 3.<br />
3. Joan Armangué, L’obra primerenca d’Apel·les Mestres. Barcellona 2007.<br />
«ROCCAS»<br />
S’ALVURE – AdT<br />
1. Castelli in Sardegna. Oristano 2002.<br />
2. Aspetti del sistema di fortificazione in Sardegna. Oristano 2003.<br />
3. Anna Paola Deiana, Il castello di Gioiosa Guardia, attraverso i documenti e la lettura archeologica. Oristano 2003.<br />
4. I catalani e il castelliere sardo. Oristano 2004.<br />
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164<br />
PRIMA TIPOGRAFIA MOGORESE – AdT<br />
ARCHIVIO ORISTANESE<br />
1. Archivio oristanese, ed. Maria Grazia Farris. Mogoro 2003.<br />
2. Dei, uomini e regni, da Tharros a Oristano, ed. Joan Armangué. Mogoro 2004.<br />
3. La cultura catalana del Trecento, fra la Catalogna e Arborea. Mogoro 2005.<br />
4. Uomini e guerre nella Sardegna medioevale. Mogoro 2007.<br />
HELIS!<br />
1. Testimonianze inedite di storia arborense, ed. Walter Tomasi. Mogoro 2008.<br />
EDIZIONI AdT<br />
SERIE «FASCICULARIA»<br />
1. Estudis catalans a Sardenya, ed. Joan Armangué (novembre 1999).<br />
2. Memòria de les activitats, 1997-2000 (marzo 2000).<br />
3. Forme dell’acqua nella cultura popolare, ed. Veniero Pinna e A. Murgia (agosto 2000).<br />
4. La ruta de les illes: de Sardenya a Malta, ed. Joan Armangué (novembre 2000).<br />
5. Emanuela Sarti, La Guerra Civile in Catalogna (1936-1939) (giugno 2001).<br />
7. La ruta de les illes: de Mallorca a Sardenya, ed. Joan Armangué (novembre 2001).<br />
8. Memòria de les activitats, 1997-2002 / Memoria delle attività, 1997-2002 (maggio 2002).<br />
9. Pirri: la storia e le chiese, ed. Alessandro Sogos (luglio 2002).<br />
10. Laudes immortales. Gosos e devozione mariana in Sardegna, ed. Sara Chirra e Maria Grazia Farris (agosto 2002).<br />
11. Lo Càntic dels Càntics / Su Cantu de is Cantus, ed. Arxiu de Tradicions (agosto 2002).<br />
13. Francesc Pasqual i ArmengoL, Apel·les Mestres a Cervelló (settembre 2003).<br />
14. Memòria de les activitats, 2003 / Memoria delle attività, 2003 (gennaio 2004).<br />
15. El Seminari de formació del voluntari. Units – 2004 (novembre 2004).<br />
16. Francesca Cau, L’arciconfraternita della Madonna d’Itria in Cagliari (gennaio 2005).<br />
17. Walter Tomasi, Taxació d’oficis de maestrances. Oristano 1597-1621 (maggio 2005).<br />
18. Daniela Di Giovanni, I luoghi dei giovani nella Cagliari notturna (giugno 2005).<br />
19. Federica Pau, Soggettività e totalità nella forma del romanzo moderno (dicembre 2006).<br />
20. Walter Tomasi, Alcuni documenti inediti sulle manifestazioni equestri nella Oristano dei secoli XVI-XVII (dicembre 2006).<br />
21. Giannina Monzitta, Ombre cinesi, ed. Tiziana Limbardi (settembre 2007).<br />
SERIE «OPUS MINUS»<br />
1. Cristiana Pili, El Llegendari Popular Català (1924-1930) (luglio 2001).<br />
2. Ramon Violant i Simorra, Paral·lelismes culturals entre Sardenya, Catalunya i Balears, ed. Arxiu de Tradicions<br />
de l’Alguer (settembre 2003).<br />
3. Apel·les Mestres, Sant Pere en la llegenda popular, ed. Anna Garcia (febbraio 2007).<br />
4. Carla Piga, Pasqual Scanu i els Jocs Florals de la Llengua Catalana a l’exili (1959-1977) (gennaio 2008).<br />
5. Pere Català i Roca, Pasqual Scanu, perfilat per ell mateix (30 gennaio 2008).<br />
6. Joan Armangué, Llegendes alguereses al Llegendari Popular Català (1926-1928) (febbraio 2008).<br />
SERIE «DEDÀLEIA»<br />
1. Homenatge a Francesc Martorell, arqueòleg a l’Alguer (1868) (settembre 2002).<br />
2. Antonello V. Greco, Betel. Studi sulle stele con raffigurazioni betiliche dell’area di Tharros (settembre 2003).<br />
SERIE «LINGUA»<br />
1. Enrico Chessa, La llengua interrompuda. Transmissió intergeneracional i futur del català a l’Alguer<br />
(ottobre 2003).<br />
2. Marina Castagneto, Chiacchierare, bisbigliare, litigare… in turco. Il complesso intreccio tra attività<br />
linguistiche, iconismo, reduplicazione (settembre 2004).<br />
3. Joan Armangué, Represa i exercici de la consciència lingüística a l’Alguer (ss. XVIII-XX) (giugno 2006).<br />
ANTOLOGIA<br />
1. Poesia algueresa de Quaresma i de Passió, ed. Joan Armangué (aprile 2000).<br />
2. Gaví Ballero, Lo sidadu, ed. Luca Scala (febbraio 2002).<br />
3. Carles Duarte, Il silenzio (settembre 2004).<br />
4. August Bover, Vicino al mare (ottobre 2006).<br />
5. Mariagrazia Dessì, A perda furriada (novembre 2006).<br />
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INDICE<br />
165<br />
Simona LEDDA<br />
Demetra, ragioni e luoghi di culto in Sardegna 5<br />
Aldo SARI<br />
L’arte in Sardegna nel XIV-XV secolo e il polittico<br />
dell’Annunciazione di Joan Mates 25<br />
Joan ARMANGUÉ<br />
Joan Roís de Corella e gli incunaboli<br />
della <strong>Biblioteca</strong> Universitaria di Cagliari 53<br />
Marcello A. FARINELLI<br />
Il fascismo ad Alghero. Italianizzazione alla periferia del regime 67<br />
Antonio TRUDU<br />
Franco Oppo: il musicista organico 93<br />
Roberto RATTU<br />
Le denominazioni popolari della libellula<br />
nelle varietà sarde meridionali 121<br />
Pilar PRIETO, Teresa CABRÉ, Maria del Mar VANRELL<br />
El projecte de l’‘Atles interactiu de l’entonació del català’:<br />
el cas de l’Alguer 131<br />
Indice dei numeri precedenti 161<br />
Pubblicazioni dell’Arxiu de Tradicions 163<br />
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15/03/2010, 15.05
166<br />
Finito di stampare<br />
nel mese di dicembre 2009<br />
nella tipografia<br />
Grafica del Parteolla<br />
Dolianova (CA)<br />
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15/03/2010, 15.05
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