Sommario - Shop - Wolters Kluwer Italia

Antimafia
Parcheggi
Responsabilità
Pubblica
SPECIALE
LA RIFORMA DEL CODICE APPALTI
di Rosanna De Nictolis 253
OPINIONI
LA DOCUMENTAZIONE ANTIMAFIA NEL D.LGS. 6 SETTEMBRE 2011, N. 159: PROFILI CRITICI
di Giovanni D’Angelo 256
LA NUOVA DISCIPLINA DEI PARCHEGGI PERTINENZIALI
di Lorenzo Ieva 268
IL NUOVO QUADRO NORMATIVO DELLA RESPONSABILITÀ SOLIDALE NEGLI APPALTI PUBBLICI
di Giuseppe Fabrizio Maiellaro 277
NORMATIVA
LE NOVITÀ DELLA LEGGE ANTICORRUZIONE
amministrazione Legge 6 novembre 2012, n. 190 293
il commento di Sergio Foà 293
In house
GIURISPRUDENZA
Corte UE
IN HOUSE: IL CONTROLLO ANALOGO CONGIUNTO DEGLI ENTI SOCI
providing Corte UE, sez. III, 29 novembre 2011, C-182/11 e C-183/11 307
il commento di Francesco Leggiadro 310
Giurisdizione
Offerte anomale
Offerte anomale
Costituzionale
OSSERVATORIO
acuradiMaria Teresa Sempreviva 315
Civile
IL RIPARTO DI GIURISDIZIONE IN TEMA DI ACQUISIZIONE SANANTE ANCHE DOPO L’ART. 42-BIS
T.U. 327/2001
Cassazione civile, Sez. Un. 12 ottobre 2012, n. 17405 317
il commento di Italo Franco 319
OSSERVATORIO
acuradiAntonella Ferrero 327
Amministrativa
IL RUP CARDINE DEL PROCEDIMENTO DI VERIFICA DELL’ANOMALIA DELL’OFFERTA
Consiglio di Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2012, n. 36 330
il commento di Francesco De Lucia 334
LA STRUTTURA TRIFASICA DEL PROCEDIMENTO DI VERIFICA DELL’ANOMALIA
Urbanistica e appalti
Sommario
Consiglio di Stato, sez. V, 19 novembre 2012, n. 5846 340
il commento di Andrea Manzi 342
OSSERVATORIO
acuradiGiulia Ferrari e Luigi Tarantino 351
Urbanistica e appalti 3/2013 251

Urbanistica e appalti
Sommario
Lottizzazione
abusiva
Penale
TRASFORMAZIONE DI SOTTOTETTO IN LOCALE ABITABILE: QUANDO È LOTTIZZAZIONE
ABUSIVA?
Cassazione penale, sez. III, 22 novembre 2012, n. 45732 355
il commento di Alessio Scarcella 357
OSSERVATORIO
acuradiAlessio Scarcella 364
INDICI
Urbanistica
e appalti
Mensile di edilizia, urbanistica, espropriazione,
appalti, lavori pubblici
Indice degli autori, indice cronologico, indice analitico 369
COMITATO PER LA VALUTAZIONE
A. Angeletti, G. Acquarone, M. Andreis, A. Bartolini, M. Bombardelli, C. Cacciavillani, M. M. Cafagno, R. Caranta, M. P. Chiti, F. Cintioli,
S. Civitarese Matteucci, A. Clarizia, G. Clemente di San Luca, G. D. Comporti, M. Dugato, M. Esposito, R. Ferrara, F. Figorilli,
E. Follieri, F. Fracchia, C. E. Gallo, G. Gardini, M. Immordino, G. Manfredi, F. Manganaro, B. Marchetti, M. Mazzamuto, A. Meale,
G. Morbidelli, N. Paolantonio, V. Parisio, E. Picozza, M. Renna, G. Rossi, F. Saitta, D. Vaiano, F. Volpe, A. Zito
RESPONSABILI DI SETTORE
Diritto costituzionale: Maria Teresa Sempreviva
Diritto civile: Roberto Conti
Diritto penale: Alessio Scarcella
Diritto amministrativo:
— Ambiente: Martino Colucci
— Appalti pubblici: Roberto Damonte, Mauro
Giovannelli, Barbara Mameli, Carmen Mucio
— Edilizia e Urbanistica: Mario Bassani, Cesare
Lamberti, Antonello Mandarano
— Espropriazione e beni culturali: Paolo
Carpentieri, Stefano Fantini
— Processo Amministrativo: Massimo Andreis,
Paolo Patrito
Diritto comunitario: Francesco Leggiadro
EDITRICE
Wolters Kluwer Italia S.r.l.
Strada 1, Palazzo F6
20090 Milanofiori Assago (MI)
DIRETTORE RESPONSABILE
Giulietta Lemmi
REDAZIONE
Ines Attorresi
Maria Grazia Bonacini (mariagrazia.bonacini@wki.it)
Francesco Cantisani
REALIZZAZIONE GRAFICA
Wolters Kluwer Italia S.r.l.
FOTOCOMPOSIZIONE
Sinergie Grafiche s.r.l.
20090 Rozzano - Via Pavese, 1/3 - Tel. 02/57789422
STAMPA
GECA s.p.a. - Via Magellano, 11
20090 Cesano Boscone (MI)
L’elaborazione dei testi, anche se curata con
scrupolosa attenzione, non può comportare specifiche
responsabilità per eventuali errori o inesattezze
Per informazioni su gestione abbonamenti,
numeri arretrati, cambi d’indirizzo, ecc. scrivere
o telefonare a:
IPSOA Servizio Clienti
Casella postale 12055 – 20120 Milano
telefono (02) 824761 – telefax (02) 82476.799
Servizio risposta automatica:
telefono (02) 82476.999
PUBBLICITÀ:
db Consulting srl Event & Advertising
via Leopoldo Gasparotto 168 - 21100 Varese
tel. 0332/282160 - fax 0332/282483
e-mail: info@db-consult.it
www.db-consult.it
Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 686
del 18 novembre 1996
Tariffa R.O.C.: Poste Italiane Spa - Spedizione
in abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in
L. 27 febbraio 2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano
Iscritta nel Registro Nazionale della Stampa
con il n. 3353 vol. 34 Foglio 417 in data 31 luglio 1991
Iscrizione al R.O.C. n. 1702
ABBONAMENTI
Gli abbonamenti hanno durata annuale, solare: gennaiodicembre;
rolling: 12 mesi dalla data di sottoscrizione, e
si intendono rinnovati, in assenza di disdetta da
comunicarsi entro 30 gg. prima della data di scadenza a
mezzo raccomandata A.R. da inviare a Wolters Kluwer
Italia S.r.l. Strada 1 Pal. F6 Milanofiori 20090 Assago
(MI).
Servizio Clienti: tel. 02 824761 - e.mail:
servizio.clienti@wki.it - www.ipsoa.it/servizioclienti
Compresa nel prezzo dell’abbonamento Urbanistica e
appalti on-line consultabile all’indirizzo http://
www.ipsoa.it/urbanisticaeappalti
ITALIA
Abbonamento annuale: E 224,00
ESTERO
Abbonamento annuale: E 448,00
MAGISTRATI e UDITORI GIUDIZIARI - sconto del
30% sull’acquisto dell’abbonamento annuale alla
rivista, applicabile rivolgendosi alle Agenzie Ipsoa di
zona (www.ipsoa.it/agenzie) o inviando l’ordine via
posta a Wolters Kluwer Italia S.r.l., Strada 1 Pal. F6,
20090 Milanofiori Assago (MI) o via fax al n. 02-
82476403
o rivolgendosi al Servizio Informazioni Commerciali
al n. 02-82476794.
Per informazioni in merito a contributi, articoli
ed argomenti trattati scrivere o telefonare a:
Casella Postale 12055 - 20120 Milano
telefono (02) 82476.837 – telefax (02) 82476.079
Nell’ordine di acquisto i magistrati dovranno allegare
fotocopia del proprio tesserino identificativo attestante
l’appartenenza alla magistratura e dichiarare di essere
iscritti all’Associazione Nazionale Magistrati.
MODALITÀ DI PAGAMENTO
— Versare l’importo sul C/C/P n. 583203 intestato a
WKI S.r.l. Gestione incassi - Strada 1, Palazzo F6,
Milanofiori
oppure
— Inviare assegno bancario/circolare non trasferibile
intestato a Wolters Kluwer Italia S.r.l.. Indicare nella
causale del versamento il titolo della rivista e l’anno di
abbonamento
Prezzo copia: E 23,00
È disponibile l’annata arretrata rilegata
al prezzo di E 215,00
DISTRIBUZIONE
Vendita esclusiva per abbonamento
Il corrispettivo per l’abbonamento a questo periodico
è comprensivo dell’IVA assolta dall’editore ai sensi
e per gli effetti del combinato disposto dell’art. 74
del D.P.R. 26/10/1972, n. 633 e del D.M. 29/12/1989
e successive modificazioni e integrazioni.
Egregio Abbonato,
Ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, La
informiamo che i Suoi dati personali sono registrati su
database elettronici di proprietà di Wolters Kluwer Italia
S.r.l., con sede legale in Assago Milanofiori Strada 1-Palazzo
F6, 20090 Assago (MI), titolare del trattamento e
sono trattati da quest’ultima tramite propri incaricati.
Wolters Kluwer Italia S.r.l. utilizzerà i dati che La riguardano
per finalità amministrative e contabili. I Suoi recapiti
postali e il Suo indirizzo di posta elettronica saranno utilizzabili,
ai sensi dell’art. 130, comma 4, del D.Lgs. n.
196/2003, anche a fini di vendita diretta di prodotti o servizi
analoghi a quelli oggetto della presente vendita. Lei
potrà in ogni momento esercitare i diritti di cui all’art. 7
del D.Lgs. n. 196/2003, fra cui il diritto di accedere ai
Suoi dati e ottenerne l’aggiornamento o la cancellazione
per violazione di legge, di opporsi al trattamento dei Suoi
dati ai fini di invio di materiale pubblicitario, vendita diretta
e comunicazioni commerciali e di richiedere l’elenco
aggiornato dei responsabili del trattamento, mediante
comunicazione scritta da inviarsi a: Wolters Kluwer Italia
S.r.l. PRIVACY Centro Direzionale Milanofiori Strada 1-
Palazzo F6, 20090 Assago (MI), o inviando un Fax al numero:
02.82476.403
252 Urbanistica e appalti 3/2013

La riforma del Codice appalti
acuradiROSANNA DE NICTOLIS
Normativa
Il D.L. 2 novembre 2012, n. 187
Il D.L. 2 novembre 2012, n. 187 aveva dettato misure urgenti per la ridefinizione dei rapporti contrattuali con la Società
Stretto di Messina s.p.a.
Il decreto legge in commento (art. 1) sebbene sembrasse apparentemente voler imprimere una accelerazione all’iter
di approvazione del progetto definitivo dell’opera, di fatto disegnava una exit strategy che suona come un requiem
per il mai nato ponte sullo stretto.
In sintesi il decreto, con una tempistica scandita, da un lato imponeva la firma di un atto aggiuntivo e dall’altro lato
la presentazione di una serie di atti al CIPE al fine di un primo esame in linea tecnica del progetto definitivo, e la verifica
che l’investimento sia finanziariamente sostenibile. In mancanza di risorse private sarebbe stato sciolto ex lege
il vincolo contrattuale con riconoscimento di un indennizzo forfetario.
Lo stesso effetto di scioglimento ex lege con corresponsione di indennizzo forfetario sarebbe conseguito sia alla
mancata approvazione del progetto definitivo da parte del CIPE, per il quale adempimento era fissato un termine perentorio,
sia alla mancata stipulazione dell’atto aggiuntivo previsto dal comma 1 entro il termine perentorio del 18
marzo 2013.
Nelle more dell’approvazione del progetto definitivo da parte del CIPE, era previsto un congelamento di tutti gli effetti
dei contratti stipulati per la realizzazione dell’opera, e dunque di tutte le relative attività.
Si prevedeva la possibilità di dirottare la società Stretto di Messina sulla realizzazione di altre opere infrastrutturali
per i trasporti tra la Sicilia e l’Italia.
Si disciplinava poi il procedimento di liquidazione della Società Stretto di Messina per il caso di scioglimento del vincolo
contrattuale.
Si demandava ad un atto di indirizzo del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro delle infrastrutture
e dei trasporti, il compito di impartire direttive finalizzate all’immediato contenimento dei costi di gestione
e di personale della società Stretto di Messina.
Il decreto legge non è stato tuttavia convertito in legge, per cui la vicenda ‘‘ponte sullo stretto’’ resta in attesa di
una soluzione.
Le novità contenute nel D.L. n. 179/2012 convertito in L. n. 221/2012
Contratti pubblici
Speciale
Numerose le novità in materia di appalti pubblici dettate in tale decreto legge, non tutte adottate con la tecnica della
novella al codice n. 163/2006.
Tra i soggetti ammessi alle gare di appalto, di cui all’art. 34 codice appalti, sono state inserite le aggregazioni tra le
imprese aderenti al contratto di rete ai sensi dell’art. 3, comma 4-ter, del D.L. 10 febbraio 2009, n. 5, convertito,
con modificazioni, dalla L. 9 aprile 2009, n. 33; si applicano le disposizioni dell’art. 37 (lett. e-bis).
La disciplina dettata dall’art. 37 codice appalti trova applicazione, in quanto compatibile, alla partecipazione alle procedure
di affidamento delle aggregazioni tra le imprese aderenti al contratto di rete, di cui all’art. 34, comma 1, lett.
e-bis (art. 37, comma 15-bis, codice, inserito dalla L. n. 221/2012).
In tema di trasparenza, l’art. 33-ter, D.L. n. 179/2012 inserito dalla legge di conversione n. 221/2012 ha previsto inoltre
l’anagrafe unica delle stazioni appaltanti, istituita presso l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture. Le stazioni appaltanti di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture hanno l’obbligo di richiedere
l’iscrizione all’Anagrafe unica presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici. Esse hanno altresì l’obbligo di aggiornare
annualmente i rispettivi dati identificativi. Dall’obbligo di iscrizione ed aggiornamento dei dati derivano, in
caso di inadempimento, la nullità degli atti adottati e la responsabilità amministrativa e contabile dei funzionari responsabili.
L’Autorità stabilisce con propria deliberazione le modalità operative e di funzionamento dell’Anagrafe unica
delle stazioni appaltanti.
In tema di pubblicità dei bandi di gara sulla stampa quotidiana, e di relativo onere, l’art. 34, comma 35, D.L. n. 179/
2012 ha disposto che a partire dai bandi e dagli avvisi pubblicati successivamente al 18 gennaio 2013, le spese per
la pubblicazione di cui al secondo periodo del comma 7 dell’art. 66 e al secondo periodo del comma 5 dell’art. 122
del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, sono rimborsate alla stazione appaltante dall’aggiudicatario entro il termine di sessanta
giorni dall’aggiudicazione.
Altre novità riguardano lo svincolo progressivo della garanzia di esecuzione dell’appalto nei settori speciali.
Per le opere realizzate nell’ambito dell’appalto che siano, in tutto o in parte, poste in esercizio prima della relativa
collaudazione tecnico-amministrativa, l’esercizio protratto per oltre un anno determina, per la parte corrispondente,
lo svincolo automatico delle garanzie di buona esecuzione prestate a favore dell’ente aggiudicatore, senza necessità
di alcun benestare, ferma restando una quota massima del 20 per cento che, alle condizioni previste dal comma 2,
è svincolata all’emissione del certificato di collaudo, ovvero decorso il termine contrattualmente previsto per l’emis-
Urbanistica e appalti 3/2013 253

Contratti pubblici
Speciale
sione del certificato di collaudo ove questo non venga emesso entro tale termine per motivi non ascrivibili a responsabilità
dell’appaltatore. Resta altresì fermo il mancato svincolo dell’ammontare delle garanzie relative alle parti non
in esercizio (art. 237-bis, comma 1, codice, inserito dall’art. 33-quater, D.L. n. 179/2012, aggiunto dalla legge di conversione
n. 221/2012).
Qualora l’ente aggiudicatore rilevi e contesti all’esecutore, entro il primo anno di esercizio delle opere, vizi o difformità
delle stesse che l’esecutore non rimuova nel corso del medesimo periodo, l’ente aggiudicatore comunica al
garante, entro il predetto termine di un anno dall’entrata in esercizio delle opere, l’entità delle somme, corrispondenti
al valore economico dei vizi o difformità rilevati, per le quali, in aggiunta alla quota del 20 per cento prevista al
comma 1 e fino alla concorrenza dell’intero importo corrispondente alla parte posta in esercizio, non interviene lo
svincolo automatico delle garanzie (art. 237-bis, comma 2, codice, inserito dall’art. 33-quater, D.L. n. 179/2012, aggiunto
dalla legge di conversione n. 221/2012).
Tale disciplina è stata introdotta dalla L. n. 221/2012; in via transitoria è stato stabilito che per i contratti già affidati
alla data di entrata in vigore della L. n. 221/2012, per i quali, alla medesima data, è spirato il termine di cui all’art.
237-bis, comma 1, codice, il termine comincia a decorrere dalla predetta data e ha durata di centottottanta giorni
(art. 33-quater, comma 2, D.L. n. 179/2012).
Gli appalti della difesa
Con D.P.R. 15 novembre 2012, n. 236 è stato finalmente adottato il regolamento recante disciplina delle attività del
Ministero della difesa in materia di lavori, servizi e forniture, a norma dell’art. 196 del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163
(G.U. del 7 gennaio 2013)
Si tratta del regolamento di attuazione per gli appalti della difesa ai sensi dell’art. 196, codice appalti.
Consta di 138 articoli.
Disciplina anche, in via transitoria, gli appalti in materia di armi, disciplinati dal decreto legislativo nelle more dell’adozione
dello specifico regolamento, nei limiti di compatibilità con il decreto legislativo (art. 137).
Sostituisce il D.P.R. n. 170/2005, che viene abrogato (art. 136).
Entrerà n vigore 180 giorni dopo la sua pubblicazione in G.U., e dunque il 6 luglio 2013 (art. 138).
Giurisprudenza
Giurisprudenza UE
Con la decisione Corte Giust. UE, sez. III, 13 dicembre 2012, C-465/11, Forposta SA, ABC Direct Contact sp. Z.o.o.
la Corte europea ha interpretato la causa di esclusione dell’errore grave in materia professionale.
Secondo la Corte l’art. 45, paragrafo 2, comma 1, lett. d), della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori,
di forniture e di servizi, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale ai sensi della
quale sussiste un errore grave in materia professionale, il quale conduce all’esclusione automatica dell’operatore
economico in questione da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico in corso, quando, per circostanze
imputabili a tale medesimo operatore economico, l’amministrazione aggiudicatrice ha risolto o denunciato un precedente
contratto di aggiudicazione di un appalto pubblico con il suddetto operatore, o si è ritirata dal medesimo, qualora
tale risoluzione, denuncia o ritiro del contratto siano avvenuti nei tre anni precedenti l’avvio della procedura in corso
ed il valore dell’appalto pubblico precedente non realizzato ammonti ad almeno il 5% del suo valore globale.
I principi e le norme del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici non giustificano che, per la tutela dell’interesse
pubblico e dei legittimi interessi delle amministrazioni aggiudicatrici nonché per il mantenimento di una concorrenza
leale tra operatori economici, una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, imponga
a un’amministrazione aggiudicatrice di escludere automaticamente da una procedura di aggiudicazione di un
appalto pubblico un operatore economico in un’ipotesi come quella considerata dalla risposta alla prima questione
pregiudiziale.
Si legge nella motivazione che la nozione di «errore grave» deve essere intesa nel senso che essa si riferisce normalmente
a un comportamento dell’operatore economico in questione che denota un’intenzione dolosa o un atteggiamento
colposo di una certa gravità da parte sua. Pertanto, qualsiasi esecuzione non corretta, imprecisa o carente
di un contratto o di una parte dello stesso può eventualmente dimostrare una competenza professionale limitata
dell’operatore economico in questione, ma non equivale automaticamente a un errore grave. Inoltre l’accertamento
della sussistenza di un «errore grave» necessita, in linea di principio, lo svolgimento di una valutazione specifica e
concreta dell’atteggiamento dell’operatore economico interessato.
Per l’effetto è stato ritenuto incompatibile con la direttiva 2004/18/CE il diritto polacco che stabilisce ex ante cosa si
intende per errore grave prescindendo da ogni indagine sull’elemento soggettivo e che impone alle stazioni appaltanti
una esclusione automatica quando ricorrono i presupposti legali.
Nell’ordinamento italiano la causa di esclusione per grave errore professionale o negligenza o malafede in pregressi
appalti è prevista dall’art. 38, comma 1, lett. f) D.Lgs. n. 163/2006 e appare in linea con il diritto comunitario e le prescrizioni.
Con la decisione Corte Giust. UE, grande sezione, 19 dicembre 2012, C-159/11, Ordine degli ingegneri della Provincia
di Lecce c. ASL Lecce e Università del Salento la Corte dell’UE si è pronunciata su una questione pregiudiziale rimessa
dal Consiglio di Stato e afferente al limite di applicabilità dell’art. 15, L. n. 241/1990, ossia degli accordi tra
254 Urbanistica e appalti 3/2013

Contratti pubblici
Speciale
pubbliche amministrazioni, che abbiano ad oggetto servizi di ingegneria che in base alla direttiva 2004/18/CE vanno
affidati con gara.
Il caso era quello di un accordo ex art. 15 L. n. 241/1990 stipulato tra la ASL di Lecce e l’Università del Salento,
avente ad oggetto la verifica della idoneità sismica delle strutture ospedaliere della Provincia di Lecce, prestazione
che la Università erogava verso corrispettivo.
Contro tale convenzione proponeva ricorso al giudice amministrativo l’Ordine degli ingegneri della Provincia di Lecce.
Il Consiglio di Stato rimetteva alla Corte Giust. UE la seguente questione pregiudiziale: «Se la [direttiva 2004/18], ed
in particolare l’art. 1, paragrafo 2, lett. a) e d), l’art. 2, l’art. 28 e l’allegato II [A], categorie 8 e 12, ostino ad una disciplina
nazionale che consente la stipulazione di accordi in forma scritta tra due amministrazioni aggiudicatrici per lo
studio e la valutazione della vulnerabilità sismica di strutture ospedaliere da eseguirsi alla luce delle normative nazionali
in materia di sicurezza delle strutture ed in particolare degli edifici strategici, verso un corrispettivo non superiore
ai costi sostenuti per l’esecuzione della prestazione, ove l’amministrazione esecutrice possa rivestire la qualità di
operatore economico» (Cons. Stato, sez. V, 8 febbraio 2011, n. 861).
La Corte UE afferma che il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici osta ad una normativa nazionale che autorizzi
la stipulazione, senza previa gara, di un contratto mediante il quale taluni enti pubblici istituiscono tra loro una
cooperazione, nel caso in cui - ciò che spetta al giudice del rinvio verificare - tale contratto non abbia il fine di garantire
l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune agli enti medesimi, non sia retto unicamente da considerazioni
ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d’interesse pubblico, oppure sia tale da porre un prestatore
privato in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti.
In motivazione la Corte Giust. UE richiama anzitutto la propria giurisprudenza sul caso CONISMA, secondo cui alle
università pubbliche è in linea di principio consentito partecipare ad un procedimento di aggiudicazione di un appalto
pubblico di servizi. Tuttavia, gli Stati membri possono disciplinare le attività di tali soggetti e, in particolare, autorizzarli
o non autorizzarli ad operare sul mercato, tenuto conto dei loro fini istituzionali e statutari. Comunque, se e nei
limiti in cui i suddetti soggetti siano autorizzati a offrire taluni servizi sul mercato, non può essere loro vietato di partecipare
a una gara d’appalto avente ad oggetto i servizi in questione.
In secondo luogo osserva che attività quali quelle costituenti l’oggetto del contratto in esame, pur potendo rientrare -
come menzionato dal giudice del rinvio - nel campo della ricerca scientifica, ricadono, secondo la loro natura effettiva,
nell’ambito dei servizi di ricerca e sviluppo di cui all’allegato II A, categoria 8, della direttiva 2004/18, oppure nell’ambito
dei servizi d’ingegneria e dei servizi affini di consulenza scientifica e tecnica indicati nella categoria 12 di tale allegato.
In terzo luogo, la Corte osserva che, come risulta dal senso normalmente e abitualmente attribuito all’espressione
«a titolo oneroso», un contratto non può esulare dalla nozione di appalto pubblico per il solo fatto che la remunerazione
in esso prevista sia limitata al rimborso delle spese sostenute per fornire il servizio convenuto.
Secondo la Corte, salve le verifiche di competenza del giudice del rinvio, risulta che il contratto controverso presenta
tutte le caratteristiche di un appalto pubblico.
La Corte sembra poi lasciare qualche spazio all’accertamento del caso concreto.
Osserva infatti che secondo il diritto comunitario due tipi di appalti conclusi da enti pubblici non rientrano nell’ambito
di applicazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici.
Si tratta, in primo luogo, dei contratti di appalto stipulati da un ente pubblico con un soggetto giuridicamente distinto
da esso, quando detto ente eserciti su tale soggetto un controllo analogo a quello che esso esercita sui propri servizi
e, al contempo, il soggetto in questione realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti
che lo controllano (v., in tal senso, sentenza Teckal, punto 50).
È comunque assodato che tale eccezione non è applicabile nel caso di specie, dal momento che l’ASL non esercita
alcun controllo sull’Università.
In secondo luogo, si tratta dei contratti che istituiscono una cooperazione tra enti pubblici finalizzata a garantire l’adempimento
di una funzione di servizio pubblico comune a questi ultimi (v., in tal senso, sentenza 9 giugno 2009,,
C-480/06, Commissione/Germania).
In tale ipotesi, le norme del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici non sono applicabili, a condizione che -
inoltre - tali contratti siano stipulati esclusivamente tra enti pubblici, senza la partecipazione di una parte privata, che
nessun prestatore privato sia posto in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti, e che la cooperazione
da essi istituita sia retta unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d’interesse
pubblico (v., in tal senso, sentenza Commissione/Germania, cit., punti 44 e 47).
È pur vero che, come rilevato dal giudice del rinvio, un contratto come quello controverso nel procedimento principale
sembra soddisfare taluni dei criteri menzionati nei due precedenti punti, un contratto siffatto può tuttavia esulare dall’ambito
di applicazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici soltanto qualora soddisfi tutti i suddetti criteri.
Al riguardo, dalle indicazioni contenute nella decisione di rinvio sembra risultare, in primo luogo, che tale contratto
presenti un insieme di aspetti materiali corrispondenti in misura estesa, se non preponderante, ad attività che vengono
generalmente svolte da ingegneri o architetti e che, se pur basate su un fondamento scientifico, non assomigliano
ad attività di ricerca scientifica. Di conseguenza, contrariamente a quanto la Corte ha potuto constatare al
punto 37 della citata sentenza Commissione/Germania, la funzione di servizio pubblico costituente l’oggetto della
cooperazione tra enti pubblici istituita da detto contratto non sembra garantire l’adempimento di una funzione di servizio
pubblico comune all’ASL e all’Università.
In secondo luogo, il contratto controverso nel procedimento principale potrebbe condurre a favorire imprese private
qualora tra i collaboratori esterni altamente qualificati cui, in base a detto contratto, l’Università è autorizzata a ricorrere
per la realizzazione di talune prestazioni, fossero inclusi dei prestatori privati.
Spetta tuttavia al giudice del rinvio provvedere a tutti gli accertamenti necessari a questo proposito.
Urbanistica e appalti 3/2013 255

Opinioni
Appalti e lavori pubblici
Antimafia
La documentazione antimafia
nel D.Lgs. 6 settembre 2011,
n. 159: profili critici
di Giovanni D’Angelo *
L’Autore si sofferma su alcune delle disposizioni del cd. codice antimafia più rilevanti nel campo del diritto
amministrativo e sul problematico coordinamento con il codice dei contratti.
Il sistema delle informative. L’informativa
cd. atipica e il codice antimafia
Già da tempo la giurisprudenza amministrativa ha
individuato tre tipi di cd. informazioni prefettizie
(1): a) quelle ricognitive di cause di per sé interdittive
di cui all’art. 4, comma 4, D.Lgs. 8 agosto
1994, n. 490 (2); b) quelle relative ad eventuali
tentativi di infiltrazione mafiosa e la cui efficacia
interdittiva discende da una valutazione del prefetto
(art. 10, comma 7, D.P.R. 3 giugno 1998, n.
252) (3); c) quelle supplementari o atipiche la cui
efficacia interdittiva scaturisce da una valutazione
autonoma e discrezionale dell’amministrazione destinataria
dell’informativa (art. 1-septies D.L. 6 settembre
1982, n. 629 (4), introdotto dall’art. 2 L.
15 novembre 1988, n. 486) (5).
Secondo questo modello, dunque, l’informativa atipica
non ha carattere interdittivo (6) e, nell’ambito
degli appalti pubblici, rimette alla stazione appaltante
la valutazione, secondo canoni di discrezionalità,
circa l’avvio o il prosieguo dei rapporti contrattuali
(7) alla luce dell’idoneità morale del concorrente
di assumere la posizione di contraente con
l’amministrazione.
Allo stesso tempo l’amministrazione destinataria
dell’informativa atipica non può rimanere ‘‘indifferente’’:
essa ha l’obbligo di una motivazione puntuale
circa le proprie determinazioni, siano queste
nel senso di interrompere il rapporto con l’impresa
sospetta, siano invece nel senso di instaurare o proseguire
il rapporto con l’impresa pur a seguito dell’informativa;
motivazione, peraltro, che in questo
secondo caso la giurisprudenza ha affermato dover
essere particolarmente ampia (8). La discrezionalità
non è relativa all’an ma piuttosto al quomodo.
Note:
* Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione
di un referee.
(1) Cfr. Cons. Stato; sez. VI, 28 aprile 2010, n. 2441; sez. IV, 14
aprile 2010, n. 2078; sez. VI, 11 dicembre 2009, n. 7777, tutte in
Foro It., 2011, III, 205, con nota di G. Famiglietti; Cons. Stato,
sez. VI, 25 novembre 2008, n. 5780, in www.giustizia-amministrativa.it.
Per un’ampia disamina della giurisprudenza prima del codice
antimafia v. R. Papania, Notazioni in tema di efficacia interdittiva
delle informative antimafia, inForo Amm. CdS, 2011,321ss.
(2) Si tratta delle informazioni cd. meramente ricognitive.
(3) Si distingue tra le informazioni cd. ricognitive di fattispecie
da cui si desume il tentativo di infiltrazione (lett. a) e b) del comma
7 dell’art. 10) e le informazioni cd. accertative che si fondano
su verifiche autonome del prefetto anche avvalendosi dei poteri
di accesso e di accertamento delegati dal Ministero dell’interno
(lett. c) del comma 7 dell’art. 10).
(4) Convertito dalla L. 12 ottobre 1982, n. 726.
(5) La disposizione è richiamata dall’art. 10, comma 9, D.P.R. n.
252/1998. Sulla distinzione tra informazione atipica e informazione
tipica cfr. la circolare del Ministero dell’interno 8 gennaio 1996, n.
559 e Cons. Stato, sez. VI, 8 giugno 2009, n. 3491, in questa Rivista,
2009, 1088 con nota di G. F. Nicodemo, Il contenuto minimo
dell’informativa antimafia tipica. Sul tema v. R. Papania, Notazioni
in tema di efficacia interdittiva, cit. 331 ss. Per una rassegna della
giurisprudenza sul punto v. G. Zamberletti, I tentativi di infiltrazione
mafiosa, le informative tipiche e quelle atipiche o supplementari:
il punto della situazione e le prospettive, inRiv. Trim. App.,
2008, 709; B. Frattasi, Le informative tipiche ed atipiche: che cosa
sono? Le risposte della giurisprudenza, ibid., 727.
(6) Da ultimo, sulla distinzione tra informative tipiche e atipiche
sul piano degli effetti giuridici, cfr. Cons. Stato, sez. III, 9 agosto
2011, n. 4754, sez. VI, 21 luglio 2011, n. 4444; 21 dicembre
2010, n. 323; 15 dicembre 2010, n. 8928; sez. V, 24 novembre
2010, n. 8224, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
(7) Quindi non produce automaticamente l’esclusione dalla gara
o il recesso dal contratto.
(8) Cons. Stato, sez. III, 4 agosto 2011, n. 4691 e 9 agosto
2011, n. 4754 in banca dati DeJure.
256 Urbanistica e appalti 3/2013

In questo quadro la difficoltà di valutazione e di
scelta dell’amministrazione destinataria della informativa
atipica è dettata da due fattori.
In primo luogo, dal fatto che essa sia fondata sull’accertamento
di elementi che, pur denotanti il pericolo
di collegamenti tra le imprese e la criminalità
mafiosa, non raggiungono la soglia di gravità prevista
per le informative tipiche, sia perché carenti di
alcuni requisiti soggettivi od oggettivi pertinenti alle
cause di divieto o sospensione, sia perché non integranti
appieno il tentativo di infiltrazione, con la
conseguenza pertanto che la comunicazione all’amministrazione
interessata ha l’unica funzione di arricchire
la sua conoscenza in ordine ad elementi
utili per l’eventuale esercizio del potere discrezionale
(9).
L’informativa atipica prescinde da rilevanze probatorie
tipiche del diritto penale, in quanto centrata
sull’affidabilità, complessivamente intesa, dell’impresa
che ha rapporti con la pubblica amministrazione
(10). In altri termini, secondo la giurisprudenza
non è necessaria una prova analoga a quella
richiesta per dimostrare l’appartenenza di un soggetto
ad associazioni di stampo mafioso, essendo sufficienti
indizi relativi anche ad eventi verificatisi a
distanza di tempo in quanto riguardano la valutazione
sull’idoneità morale del concorrente (11).
Il prefetto, dunque, può basare la propria valutazione
su uno specifico quadro indiziario, nel quale assumono
rilievo quei comportamenti e quelle scelte
imprenditoriali che rappresentino, induttivamente,
un veicolo d’infiltrazione delle associazioni criminali
nei rapporti con la pubblica amministrazione,
giungendo così a fondare un giudizio circa la possibilità
che l’attività d’impresa agevoli, anche indirettamente,
le attività criminali o esserne in qualche
modo condizionata per la presenza, nei centri decisionali,
di soggetti legati ad organizzazioni malavitose
(12).
Il secondo elemento di difficoltà è determinato dal
fatto che l’informativa atipica, in misura maggiore
delle altre due informative, è espressione di una anticipazione
della soglia di difesa sociale funzionale a
garantire, prima di ogni altro strumento, un contrasto
efficace della criminalità organizzata. Dunque,
l’amministrazione destinataria dell’informativa (13)
è chiamata a gestire, a valle del procedimento, una
situazione estremamente complessa, sia dal punto di
vista degli elementi che devono fondare la scelta
sia da quello della funzione dell’istituto.
Su questa situazione dovrebbe incidere il D.Lgs. n.
159/2011; i profili critici appena illustrati sembrano
risolti in radice dal codice antimafia che, una volta
Opinioni
Appalti e lavori pubblici
a regime le disposizioni sulla documentazione antimafia
(14), non prevede più le informative atipiche.
Le certezze iniziali, dovute alla prima versione
del codice, sono state di recente incrinate dal decreto
legislativo contenente disposizioni integrative
e correttive al codice antimafia (15). Nel correttivo
(art. 9, comma 1 lett. b) e art. 8, comma 1 lett. c),
infatti, è espunto dalle norme abrogate e da quelle
oggetto di coordinamento del codice (rispettivamente
art. 120, comma 2 e art. 116, comma 4)
l’art. 1-septies D.L. n. 629/1982. La disposizione,
espressamente richiamata dall’art. 10, comma 9,
D.P.R. n. 252/1998, è stata individuata dalla giurisprudenza
e dalla dottrina come fonte della informativa
cd. supplementare o atipica.
Nel senso di escludere il mantenimento delle informative
atipiche come tertium genus della documentazione
antimafia (accanto cioè alla comunicazione
e alla informazione, v. art. 84 codice) e di ricondurre
l’art. 1-septies D.L. n. 629/1982 comunque nell’alveo
della ‘‘formulazione più elastica’’ del tentativo
di infiltrazione mafiosa (art. 91, comma 6, codice)
si è già espresso il Comitato di coordinamento
per l’alta sorveglianza grandi opere (CCASGO) attraverso
le linee guida del 19 dicembre 2012 (16).
Note:
(9) Cons. Stato, sez. IV, 18 marzo 2001, n. 1148, in Foro Amm.,
2001, 336.
(10) In modo analogo, peraltro, è stato ritenuto anche con riferimento
alle informative di cui all’art. 10, comma 7 lett. c), D.P.R.
n. 252/1998 (tentativi di infiltrazione desunti dagli accertamenti
disposti dal prefetto); v. Cons. Stato, sez. VI, 17 maggio 2006,
n. 2867, in www.giustizia-amministrativa.it.
(11) In questi termini Cons. Stato, sez. V, 31 dicembre 2007, n.
6902, in banca dati DeJure. Sempre da un punto di vista probatorio,
per esempio, la giurisprudenza è generalmente concorde
nel ritenere che l’informativa supplementare possa dare legittimamente
rilievo anche agli elementi che costituiscono solo indizi
(che comunque, specifica la giurisprudenza, non devono costituire
semplici dubbi o congetture privi di riscontri fattuali) del rischio
di coinvolgimento con la associazione criminale da parte
delle imprese che intrattengono rapporti con la pubblica amministrazione
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 2 ottobre 2007, n. 5069, in
www.giustizia-amministrativa.it e 17 luglio 2006, n. 4574, in Foro
Amm. CdS, 2006, 2249).
(12) In questi termini Cons. Stato, sez. VI, 2 agosto 2006, n.
4737, e 11 settembre 2001, n. 4724, in Foro It., 2002, III, 290,
con nota di S. Cimini, La nuova documentazione antimafia: le
«informazioni» del prefetto.
(13) Spesso un ente locale di piccole o medie dimensioni, con
mezzi e organizzazione insufficienti.
(14) Sulla entrata in vigore di queste disposizioni cfr. amplius infra
nel testo.
(15) D.Lgs. 15 novembre 2012, n. 218 (in G.U. 13 dicembre
2012, n. 299).
(16) In G.U. 21 gennaio 2013, n. 17: «le evenienze dubbie, per
le quali cioè non è possibile esprimere un giudizio prognostico
(segue)
Urbanistica e appalti 3/2013 257

Opinioni
Appalti e lavori pubblici
A sostegno della irrilevanza della mancata abrogazione
e di un semplice maquillage legislativo soccorrono
due argomenti, uno di carattere testuale l’altro
di carattere sistematico.
Il primo è che il D.P.R. n. 252/1998, il cui art. 10,
comma 9, appunto richiama la disposizione fonte
delle informative atipiche, compare ancora nell’elenco
delle abrogazioni di cui all’art. 120, comma
2, del codice.
Il secondo è che è poco comprensibile mantenere
all’esterno del codice una disposizione così importante.
Questi argomenti, però, possono non essere decisivi
perché con l’attuale formulazione del decreto correttivo,
l’art. 1-septies D.L. n. 629/1982 rimane comunque
in vigore (17) e determina notevoli incertezze
interpretative su un aspetto decisivo della documentazione
antimafia. La contraddizione rispetto
all’obiettivo dichiarato nella relazione illustrativa
del codice, realizzare un testo di riferimento valido
e completo delle norme antimafia, anche amministrative,
è evidente.
Segue: le conseguenze interdittive
delle informazioni e rilievi in ordine
agli artt. 92 e 94 del codice
Il codice antimafia rende le conseguenze interdittive
delle informazioni generalmente vincolate, anche
dopo la stipulazione del contratto o l’instaurazione
del rapporto (art. 94).
Di particolare rilievo è il caso in cui l’informativa
sia successiva alla stipula del contratto o al rilascio
degli atti autorizzatori.
In precedenza l’art. 11, commi 2 e 3, D.P.R. n.
252/1998 lasciava margini di scelta più ampi all’amministrazione
(in questo senso è sempre stata interpretata
la locuzione adoperata dal legislatore «può
revocare ... o recedere» e «facoltà di revoca o recesso»),
anche se la giurisprudenza ha individuato i limiti
a tale apprezzamento dell’amministrazione. La
giurisprudenza, anche di recente, ha ribadito la sussistenza
di un onere motivazionale ‘‘rafforzato’’ in
capo all’amministrazione che decida per la prosecuzione
del rapporto; la motivazione deve in particolare
dar conto dell’interesse pubblico e della convenienza
alla prosecuzione del rapporto (18). Nella
interpretazione maggioritaria si tratta comunque di
ipotesi eccezionali, perché eccezionale deve essere
la possibilità di «pretermettere l’interesse superiore
teso a impedire alle amministrazioni pubbliche di
intrattenere rapporti con imprese pregiudicate da
tentativi di infiltrazioni mafiosa» (19).
In questo quadro la giurisprudenza ha anche tipizzato
alcune di queste ipotesi, per esempio quando si
dimostri la convenienza alla prosecuzione «in relazione
al tempo dell’esecuzione del contratto e alla
difficoltà di trovare un nuovo contraente, se la causa
di decadenza sopravviene a esecuzione ampiamente
inoltrata» (20).
Di norma, viceversa, l’effetto interdittivo della informativa
del prefetto, che accerti il «condizionamento
malavitoso dell’attività», opera in modo
automatico e la risoluzione del rapporto contrattuale
rappresenta un atto doveroso per la stazione appaltante
(21).
Rispetto all’ipotesi di ‘‘informativa sopravvenuta’’, il
codice (artt. 92 e 94) inasprisce gli effetti dell’informazione
prevedendo l’obbligo, e non più la facoltà
per l’amministrazione di recedere dal contratto o di
revocare l’autorizzazione o la concessione, fatto salvo
il pagamento del valore delle opere eseguite e il
rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del
rimanente nei limiti delle utilità conseguite.
A fronte di questa previsione generale l’art. 94,
comma 3, pone solo due eccezioni: a) l’opera sia in
Note:
(segue nota 16)
sfavorevole, non potranno dare adito all’adozione di un’informazione
‘‘atipica’’. Piuttosto la sequenza corretta sarà quella di avviare
una fase di approfondimento ulteriore che potrà confluire
nell’adozione di un’informazione interdittiva eventualmente anche
per la ricorrenza delle circostanze di cui all’art. 91, comma
6, del codice. Quest’ultima disposizione, infatti, dà la massima
evidenza, attraendole senz’altro nell’orbita delle informazioni interdittive,
a quelle situazioni tipiche dell’area grigia, rafforzando,
a ben guardare, le finalità prevenzionistiche dell’istituto».
A questo proposito è opportuno ricordare che l’art. 4, comma 1
lett. c), D.Lgs. n. 218/2012 ha modificato l’art. 91, comma 6, e
ricompreso tra le situazioni dalle quali il prefetto può desumere
il tentativo di infiltrazioni mafiose anche l’accertamento delle
violazioni degli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari di cui
all’art. 3 L. 13 agosto 2010, n. 136, commesse con la condizione
della reiterazione prevista dall’art. 8-bis della L. 24 novembre
1981, n. 689.
(17) E questa è l’intenzione che emerge espressamente nella
relazione illustrativa del correttivo.
(18) Da ultimo, cfr. Cons. Stato, sez. III, 5 ottobre 2011, n. 5478
e 19 settembre 2011, n. 5262, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it:
«il provvedimento di prosecuzione del rapporto
contrattuale è soggetto a onere motivazionale rafforzato nel
senso che l’amministrazione deve dare ampia e dettagliata motivazione
quando ritenga di non aderire alla portata inibitoria della
informativa prefettizia, ma laddove invece la stazione appaltante
non intenda fare uso della facoltà di prosecuzione, non si
impone alcun obbligo motivazionale specifico e risulta sufficiente
il mero rinvio alla misura interdittiva» (n. 5478/2011).
(19) Cons. Stato, n. 5478/2011 cit. Cfr. anche Cons. Stato, sez.
V, 27 giugno 2006, n. 4135 in Giurisdiz. Amm., 2006, I, 986 e
sez. V, 29 agosto 2005, n. 4408, in Cons. Stato, 2005, I, 1316.
(20) Cons. Stato, n. 4135/2006 cit.
(21) Cons. Stato, n. 4408/2005 cit.
258 Urbanistica e appalti 3/2013

fase di ultimazione; b) la non sostituibilità in tempi
rapidi del soggetto che presti una fornitura di beni
e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento
dell’interesse pubblico. Si tratta, essenzialmente,
della casistica elaborata dalla giurisprudenza in applicazione
dell’art. 11 D.P.R. n. 252/1998.
Peraltro, gli artt. 92 e 94 non sono esenti da qualche
rilievo critico. Da un punto di vista formale, si
riscontrano numerose imprecisioni, anche dopo
l’intervento del correttivo (22). Qui è possibile evidenziare
solo le principali.
a) Nonostante la rubrica e il testo dell’art. 94 facciano
riferimento alle sole informazioni si deve ritenere
che l’effetto interdittivo sui rapporti già instaurati
ivi disciplinato sia proprio anche delle comunicazioni
in ragione del richiamo alle cause di
decadenza, sospensione, divieto ex art. 67.
b) Al comma 3 dell’art. 92 si fa riferimento «ai
contributi, finanziamenti, le agevolazioni e le altre
erogazioni di cui al comma 1»: il rinvio è privo di
riscontro, essendo il comma 1 relativo al rilascio
dell’informativa conseguente alla consultazione della
banca dati. La disposizione, purtroppo, ‘‘riproduce
fedelmente’’ un errore già presente nell’art. 11,
comma 2, D.P.R. n. 252/1998, il cui testo a sua
volta era meramente riproduttivo del comma 5 dell’art.
4 D.Lgs. n. 490/1994, nel cui contesto il rinvio
al comma 1 esprimeva la volontà di richiamare
le concessioni o le erogazioni latamente intese che
per natura e importo erano sottoposti alla informazione
del prefetto ed appunto disciplinate nel comma
1 dell’art. 4 cit. Oggi una disposizione analoga è
contenuta nell’art. 91, comma 1, ed è a questa, in
definitiva, che deve intendersi riferito il richiamo
del comma 3 dell’art. 92.
c) Per il caso che dalla consultazione della banca
dati emerga la sussistenza di cause di decadenza, di
sospensione o di divieto di cui all’art. 67 o di un
tentativo di infiltrazione mafiosa di cui all’art. 84,
comma 4, l’art. 92, comma 2, contiene un laconico
riferimento alle verifiche di particolare complessità
disposte dal prefetto senza specificare altro, frutto
ancora una volta di una trasposizione in parte poco
ragionata della precedente normativa; il riferimento
risulta funzionale solo ai fini dei termini per rilascio
dell’informazione (23).
La disposizione deve essere letta alla luce dell’art.
88, commi 2 e 3, sulla comunicazione antimafia
(24), che al ricorrere dei medesimi presupposti
prevede che il prefetto effettui, prima dell’adozione
della comunicazione interdittiva, le necessarie verifiche
e accerti «la corrispondenza dei motivi ostativi
emersi dalla consultazione della banca dati alla
Opinioni
Appalti e lavori pubblici
situazione aggiornata del soggetto sottoposto agli
accertamenti». In questo quadro, è coerente il comma
3 dell’art. 88 che regolamenta sia l’ipotesi in cui
le verifiche diano esito positivo (cioè confermino
gli elementi ricavati dalla banca dati), e il conseguente
rilascio della comunicazione interdittitiva)
tanto quella in cui le verifiche diano esito negativo
(e cioè non confermino i dati presenti nella banca
dati), e il conseguente rilascio della comunicazione
liberatoria.
Queste importanti precisazioni sull’istruttoria procedimentale
per l’acquisizione della comunicazione
sono omesse nell’art. 92 sulle informazioni e rese
implicite nel riferimento alle «verifiche». Anche da
questo punto di vista è auspicabile un nuovo intervento
legislativo che, fuori dai casi di urgenza disciplinati
dal comma 3 dell’art. 92, corregga il comma
2 dell’art. 92 o attraverso un semplice richiamo all’art.
88, commi 2-3-4, oppure attraverso una riproposizione
più puntuale di queste disposizioni appena
richiamate.
Infine, rispetto al testo dell’art. 94, comma 3, è possibile
sollevare un rilievo anche da un punto di vista
sostanziale.
Come già anticipato, la disposizione codifica, sulla
scorta di una casistica elaborata dalla giurisprudenza,
le due ipotesi nelle quali l’informazione prefettizia
non produce l’effetto caducatorio sui rapporti in
essere tra amministrazione e impresa. Sarebbe stata
forse più opportuna una formulazione in termini
«possono non procedere» invece dell’attuale «non
precedono alle revoche o ai recessi» che pare configurare
un obbligo in capo all’amministrazione di
non interrompere il rapporto con l’impresa al ricorrere
di una delle due situazioni enunciate: secondo
una parte della dottrina «l’obbligo di non risolvere,
soprattutto in ipotesi così nebulose come quello
che lo postulano ... apre uno scenario potenziale di
dialettica nell’arena giudiziaria» con l’esposizione
Note:
(22) Nel correttivo sono state eliminate altre imprecisioni. Per
esempio il riferimento all’art. 91, comma 7, è stato correttamente
sostituito con quello all’art. 91, comma 6, sul tentativo di infiltrazione
mafiosa.
(23) Il correttivo ha solo aggiunto al comma 2, in fine, il seguente
periodo: «il prefetto procede con le stesse modalità quando
la consultazione della Banca dati è eseguita per un soggetto
che risulti non censito» (art. 5, comma 1 lett. a) D.Lgs. n. 218/
2012).
(24) La stretta corrispondenza tra l’art. 88 e l’art. 92 è confermata
dalla circostanza che le due disposizioni sono state modificate
dal correttivo negli stessi identici termini in relazione ai soggetti
censiti o meno nella banca dati (cfr. rispettivamente art. 4,
comma 1 lett. b) e art. 5, comma 1 lett. a) D.Lgs. n. 218/2012).
Urbanistica e appalti 3/2013 259

Opinioni
Appalti e lavori pubblici
per l’amministrazione soccombente di dover risarcire
i danni (25).
Elementi di novità positivi e smagliature
nel codice antimafia
Alcune disposizioni del codice segnano certamente
un progresso. Tra queste è opportuno segnalare l’istituzione
della banca dati antimafia (art. 96) (26) e
l’obbligo per l’ente locale sciolto per infiltrazioni mafiose
ai sensi dell’art. 143 D.Lgs. 18 agosto 2000, n.
267 di acquisizione della informazione prefettizia, indipendentemente
dal valore economico del contratto,
nei 5 anni successivi allo scioglimento (art. 100).
Accanto a questi elementi, però, il codice antimafia
presenta alcune smagliature.
1) Il codice ignora i profili di difficoltà pratica per
la difesa in giudizio dello Stato.
Le informative nascono in genere da indagini compiute
dove l’impresa mafiosa ha la sua sede o la sua
attività principale. Per questa ragione l’informativa
interdittiva può essere rilasciata da una prefettura
di una provincia diversa da quella in cui hanno sede
i soggetti richiedenti, chiamati poi ad adottare
l’atto conclusivo (cfr. art. 90) (27). Ciò comporta
che la stessa informativa possa essere impugnata davanti
a TAR diversi.
Il rischio di pronunce difformi è dunque presente
(specie in sede cautelare) a fronte di una informativa
che può dare luogo, per esempio, a più recessi e
quindi a più contenziosi (28). Si è già osservato che
il codice antimafia, da un lato, dovrebbe avere superato
il modello delle informazioni atipiche la cui efficacia
interdittiva scaturisce da una valutazione
autonoma e discrezionale dell’amministrazione destinataria
dell’informativa, dall’altro, rende le conseguenze
interdittive delle informazioni generalmente
vincolate, anche dopo la stipulazione del contratto
o l’instaurazione del rapporto (art. 94). Ed allora il
giudizio verterà principalmente, ancora più che in
passato, sulla informazione; rispetto ad essa il successivo
atto che incide sul procedimento di aggiudicazione
o sull’appalto è un atto vincolato, dovuto.
Il problema della competenza territoriale dei TAR
in questo tipo di vertenze è stato ignorato anche
dal codice del processo amministrativo. Su questo
tema non appare decisivo l’art. 13, comma 4-bis,
c.p.a. (29). Questa disposizione, ai fini della competenza
territoriale nel caso di impugnazione di atti
connessi, introduce la distinzione fra il caso in cui
l’atto presupposto impugnato abbia carattere di atto
normativo o generale, e il caso in cui l’atto presupposto
impugnato non abbia tale carattere: nel se-
condo caso la competenza è devoluta al giudice
competente per il ricorso contro il «provvedimento
da cui deriva l’interesse a ricorrere». Come è stato
già evidenziato, non si tratta però di un criterio risolutivo:
«nei confronti di una informativa antimafia,
ancorché ‘‘atipica’’, sembra possibile ammettere
un interesse a ricorrere anche direttamente» (30).
Sul punto si può ricordare, per esempio, quella giurisprudenza
che in alcune specifiche ipotesi ha riconosciuto
sussistere, in via di eccezione alla regola secondo
cui l’atto endoprocedimentale non è autonomamente
impugnabile, la lesione della sfera giuridica
dell’interessato. Una di questa ipotesi è stata individuata
negli «atti di natura vincolanti (pareri o
proposte) idonei come tali ad esprimere un indirizzo
ineluttabile alla determinazione conclusiva» (31).
In questo contesto, va segnalata la posizione assunta
da alcuni TAR ‘‘di prima linea’’ sulla vis attractiva
della informazione prefettizia e quindi sulla competenza
per connessione (32). Questa soluzione, però,
non è stata recepita nel secondo decreto correttivo
del codice del processo ed è stata disattesa dal-
Note:
(25) V. Capuzza, Nuovi tratti normativi del codice antimafia sull’informativa
prefettizia, inwww.giustamm.it.
Su questa norma e sul rapporto con l’art. 135 codice contratti v.
subito infra.
(26) Con l’auspicio che i relativi regolamenti di attuazione possano
presto essere emanati e che una volta a regime sia completa
e aggiornata, anche attraverso il collegamento telematico al
CED del Ministero interno (cfr. infra nota n. 46).
(27) Dopo la modifica dell’art. 87, ad opera dell’art. 4 D.Lgs. n.
218/2012, il problema non si pone per le comunicazioni antimafia:
esclusa ora la possibilità di richiesta da parte dei privati in
considerazione della loro natura certificativa (cfr. infra nota n.
36), la competenza al rilascio è unicamente del prefetto della
provincia in cui hanno sede i soggetti richiedenti di cui all’art.
83, commi 1 e 2.
(28) Sul dibattito sulla competenza territoriale del TAR, nel caso
di impugnazione di un atto presupposto ‘‘non generale’’ e di un
atto applicativo cfr. M. Ramajoli, Giudice competente nel caso
d’impugnazione di più atti connessi, inDir. Proc. Amm., 2011,
731 ss.
(29) Inserito dall’art. 1, comma 1 lett. a) n. 1, D.Lgs. 14 settembre
2012, n. 160 (secondo correttivo al codice del processo amministrativo).
Su questa disposizione, con ampi riferimenti alla
tematica della competenza per i giudizi sulle informative antimafia,
cfr. G. Veltri, Il giudizio amministrativo dopo il secondo correttivo:
lo spostamento della competenza territoriale per ragioni
di connessione, inwww.giustizia-amministrativa.it.
(30) A. Travi, nota a Cons. Stato, Ad. Plen., ord., 24 settembre
2012, n. 33, in Foro It., 2013, III, 5.
(31) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 7 ottobre 2008, n. 4885 e sez. VI,
9 giugno 2005, n. 3043, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
In senso contrario però v. Cons. Stato, sez. IV, 28 marzo
2012, n. 1829, in Giurisdiz. Amm., 2012, I, 624.
(32) T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 28 gennaio 2011, n. 45 e
25 luglio 2011, n. 631, in www.giustizia-amministrativa.it.
260 Urbanistica e appalti 3/2013

l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che ha
ritenuto competente a sindacare la legittimità delle
informative antimafia, sia interdittive (33) che atipiche
(34), non il TAR nella cui circoscrizione ha
sede il prefetto che ha emesso l’informativa ma
quello competente a giudicare degli atti dell’appalto
cui si riferisce l’informativa. La tesi della Plenaria si
basa essenzialmente sul fatto che l’informativa deve
essere adottata dal prefetto in relazione alla singola
procedura d’appalto (35): gli effetti ‘‘diretti’’ sarebbero
riconducibili sempre al provvedimento conseguente
all’informativa, e non all’informativa stessa,
anche se interdittiva.
L’argomento sembra in parte avvalorato dal correttivo
del codice antimafia (pubblicato dopo la sentenza)
che ha modificato l’art. 86 (validità della documentazione
antimafia) ed espunto la possibilità
per l’amministrazione o per l’interessato di utilizzare
la comunicazione o la informazione antimafia anche
in un procedimento diverso da quello per il
quale era stata rilasciata (36).
La conclusione raggiunta dall’Adunanza Plenaria,
per quanto ‘‘non obbligata’’, è comunque frutto di
una lacuna legislativa in punto di difesa in giudizio
dello Stato che appare grave in considerazione di
almeno due circostanze.
La prima è che l’informativa, pure formalmente riferita
sempre a una specifica procedura d’appalto, è
fondata su elementi che, fino ad (eventuale) aggiornamento,
determinano l’emissione di atti di contenuto
identico anche in relazione a procedure d’appalto
diverse: riconoscere la competenza del TAR
nella cui circoscrizione ha sede la prefettura che
emana l’informazione limiterebbe il fenomeno, che
invece si sta concretamente verificando, di pronunce
contraddittorie di TAR diversi su informative
con identico contenuto. È evidente il riflesso negativo
di questo fenomeno sulla quotidiana azione di
contrasto alla criminalità da parte delle prefetture.
La seconda è che nel giudizio che verte sugli atti
applicativi dell’informativa l’oggetto del processo finisce
normalmente con essere la legittimità dell’informativa,
a maggior ragione nel sistema delineato
dal codice antimafia in cui, come osservato, le conseguenze
interdittive delle informazioni sono generalmente
vincolate: prevedere che, almeno in materia
di appalti pubblici, in giudizi in cui la fase cautelare
è caratterizzata da tempi strettissimi, sia competente
il TAR nella cui circoscrizione ha sede la
prefettura che ha emanato l’informativa, può consentire
all’amministrazione (ed in particolare all’Avvocatura
distrettuale dello Stato) una difesa altrimenti
molto complicata in pratica (37).
Opinioni
Appalti e lavori pubblici
Una soluzione diversa, per esempio, si trova nell’art.
114 (ora trasfuso nell’art. 135, comma 1 lett.
p), c.p.a.) (38) che ha previsto il foro esclusivo del
TAR Lazio per tutte le controversie attribuite al
giudice amministrativo derivanti dall’applicazione
del titolo sull’Agenzia nazionale per l’amministrazione
e la designazione dei beni sequestrati e confiscati
alla criminalità organizzata (39). Peraltro, an-
Note:
(33) Cons. Stato, Ad. Plen., ord., 24 settembre 2012, n. 33, in
Foro It., 2013, III, 5.
(34) Cons. Stato, Ad. Plen., ord., 19 novembre 2012, n. 34, in
Foro It., 2013, III, 5. Questa pronuncia richiama a sostegno della
propria tesi, tra l’altro, anche il principio espresso nell’art. 13,
comma 4-bis, c.p.a., ritenuto «già desumibile dal testo previgente»
(cfr. § 7).
(35) Da questo punto di vista la disciplina vigente al momento
della pronuncia (cfr. D.P.R. n. 252/1998) è sostanzialmente confermata
nel codice.
(36) Inoltre, l’art. 86 del codice, come modificato dall’art. 3 del
correttivo, specifica che la documentazione antimafia ha una validità
(in precedenza «è utilizzabile») di sei (comunicazione) e dodici
(informazione) mesi decorrente dalla data dell’acquisizione
(in precedenza «del rilascio»).
È opportuno segnalare, inoltre, che la comunicazione antimafia,
dopo le modifiche dell’art. 87 del codice ad opera dell’art. 4 del
correttivo, può essere richiesta al prefetto esclusivamente dai
soggetti di cui all’art. 83, commi 1 e 2, così escludendo i privati
dai soggetti legittimati alla richiesta. Nella relazione illustrativa
del correttivo la modifica è stata giustificata con l’esigenza di
adeguare, anche sul piano formale, la disciplina della comunicazione
antimafia ai principi della cd. decertificazione, che escludono
sia che l’amministrazione possa richiedere a un privato certificazioni
riguardanti informazioni in proprio possesso sia che tali
certificati, se rilasciati, siano validi (cfr. l’art. 15 L. 12 novembre
2011, n. 183 che ha modificato l’art. 40 D.P.R. 28 dicembre
2000, n. 445).
(37) La centralità dell’informativa conferma la necessità di una
difesa in giudizio particolarmente attenta a fornire al giudice tutti
gli elementi a sostegno della sua fondatezza; il profilo informativo
a cura del Ministero dell’interno è decisivo per il contenzioso.
Spesso è stata invocata la segretezza delle indagini per argomentare
circa l’incompletezza dell’informativa e dei documenti
sui quali essa si fonda. Il caso più frequente nella prassi è l’utilizzo
della ‘‘sbianchettatura’’ o degli omissis, così che l’informativa
risulta essere di difficile lettura e oscura con riferimento agli elementi
fondanti. Si tratta, però, di un argomento ‘‘perdente’’ in
caso di ricorso giurisdizionale e che risulta in contrasto con l’art.
24 Cost. Del resto, la giurisprudenza è orientata nel senso di ritenere
le informative prefettizie non sottratte in via generale al
diritto di accesso in quanto non comprese nei casi di esclusione
stabiliti dalla legge sul procedimento o dai regolamenti applicativi
(cfr. C.G.A. Sicilia, 3 marzo 2010, n. 281, in Foro Amm. CdS,
2010, 702).
(38) Lettera sostituita dall’art. 1, comma 1 lett. nn) n. 4), D.Lgs.
15 novembre 2011, n. 195 (primo correttivo del codice del processo
amministrativo).
(39) V. l’art. 3, comma 25-ter, all. 4 del D.Lgs. 2 luglio 2010, n.
104 (comma inserito dall’art. 1, comma 3 lett. a) n. 8, D.Lgs. 15
novembre 2011, n. 195) che ha così sostituito l’art. 114 codice
antimafia: «Per tutte le controversie attribuite alla cognizione del
giudice amministrativo derivanti dall’applicazione del presente titolo,
la competenza è determinata ai sensi dell’art. 135, comma
1, lett. p), del codice del processo amministrativo».
Urbanistica e appalti 3/2013 261

Opinioni
Appalti e lavori pubblici
che questa norma è stata già oggetto di diverse interpretazioni
nel caso di impugnazione di un atto
rientrante nella competenza territoriale del TAR
periferico e di un atto sopravvenuto nel corso del
giudizio sul primo, rientrante nella competenza funzionale
del TAR del Lazio (40). L’Adunanza Plenaria
25 giugno 2012, n. 23 ha negato «che in una simile
situazione possa operare sull’impugnativa del
secondo atto la vis attractiva del TAR periferico»
(41).
2) Nell’art. 89, sulla autocertificazione circa l’assenza
delle cause ostative di cui all’art. 67, il riferimento
è ai casi tassativi di silenzio assenso di cui alla tabella
C del D.P.R. 26 aprile 1992, n. 300. Tuttavia,
il regolamento è stato superato nel 2005 dalla riforma
dell’art. 20 L. n. 241/1990 (42) il cui testo originario
prevedeva l’adozione di un regolamento di
delegificazione, ai sensi dell’art. 17, comma 2, L. 23
agosto 1988 n. 400, per l’individuazione dei casi di
silenzio assenso. Oggi, invece, la norma di delegificazione
(43) è stata abrogata e il silenzio assenso
non è limitato a pochi casi: nella logica della riforma
è divenuto istituto generale che regola tutti i
casi, salvo eccezioni, in cui non è stato emanato un
provvedimento espresso nei termini previsti per la
conclusione del procedimento.
L’art. 89 segna dunque un’applicazione molto ampia
dell’autocertificazione in quanto associata a tutti
i casi di SCIA e silenzio assenso, applicazione
che potrebbe essere ancora più ampia ove il riferimento
al silenzio assenso fosse corretto alla luce
della riforma dell’art. 20 L. n. 241/1990. I riflessi
sul piano dei controlli e sulla lotta alla criminalità
sono rilevanti.
Nel campo degli appalti pubblici, in capo alla stazione
appaltante grava un obbligo di verifica del
possesso dei requisiti soggettivi prima dell’aggiudicazione
definitiva ed è comunque necessaria, nei
casi di sopra soglia, l’acquisizione della documentazione
antimafia prima della stipulazione del contratto
(44). Nel caso delle autorizzazioni amministrative,
invece, la verifica delle autodichiarazioni non è
garantita sistematicamente: è solo un ‘‘rischio di
controllo’’ per l’impresa collusa. E qualsiasi tipo di
rischio per un’impresa mafiosa è semplicemente un
costo che può essere previsto e gestito.
Invece, occorrono controlli sistematici e immediati
perché sullo sfondo il valore effettivamente in gioco
è la legalità, rispetto al quale ogni altro interesse
è secondario e senza il quale non vi può nemmeno
essere sviluppo economico e sociale (45).
3) Con riferimento alla banca dati nazionale, sono
in ritardo i regolamenti di attuazione e esecuzione
previsti dall’art. 99 del codice (46), atti che peraltro
condizionavano l’entrata in vigore delle disposizioni
relative (in particolare) alla documentazione
antimafia (art. 119). Probabilmente per questa ragione
il decreto correttivo ha modificato l’art. 119
che ora subordina l’entrata in vigore di queste disposizioni
decorsi due mesi dalla sua data di pubblicazione
in G.U. (13 dicembre 2012) (47).
Note:
(40) Si tratta, dunque, di una fattispecie diversa da quella decisa
dall’Adunanza Plenaria, ord., 16 novembre 2011, n. 20 (in Foro
It., III, 8) secondo cui «quando in un unico ricorso siano proposte
più domande, una delle quali di competenza del TAR Lazio,
e le altre di competenza di un TAR periferico, deve essere salvaguardata
l’unità del giudizio e la competenza spetta al TAR Lazio».
(41) Ritiene la Plenaria che «a ciò osta la stessa natura della
competenza funzionale che, per avere carattere di specialità e
per essere quindi espressione di esigenze affatto peculiari, necessariamente
prevale o comunque non può essere assorbita
da quella delineata in via generale dall’art. 13 c.p.a. in riferimento
alla mera sede dell’Autorità emanante o alla sfera territoriale
degli effetti degli atti». In generale, sulla competenza funzionale
del TAR Lazio cfr. Corte cost., 26 giugno 2007, n. 237, in Giorn.
Dir. Amm., 2007, 1051 con nota di M. Gnes, La competenza
giurisdizionale sui provvedimenti adottati durante lo stato di
emergenza.
(42) Art. 3, comma 6-ter, D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito
dalla L. 14 maggio 2005, n. 80.
l’art. 20, comma 1, L. n. 241/1990 nella formulazione originaria.
(43) Id est
(44) Si veda già prima del codice contratti la determinazione
AVCP n. 1/2005. Sul punto cfr. anche G. Chiné, Le cause di
esclusione dalle gare: condanne penali e informative interdittive,
in www.igitalia.it/doc/100.pdf, 2.
(45) Si tratta del riflesso di un fenomeno più ampio. In questi anni
l’amministrazione su certificati ha fatto posto ad una amministrazione
su autocertificazione o dichiarazione sostitutiva. La
prassi del controllo su campione, sancito anche nell’art. 71
D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 sulla documentazione amministrativa
e da molti regolamenti comunali, si è rilevata controproducente
anche rispetto a quegli effetti di semplificazione procedimentale
generati dall’autocertificazione e dalla dichiarazione
sostitutiva di atto notorio. Basti pensare al contenzioso in tema
di DIA edilizia per rendersi conto che spesso la semplificazione
procedimentale si è tradotta in una crescita esponenziale dei ricorsi,
‘‘spostando’’ così il profilo del controllo dal procedimento
al processo. In definitiva, questo modello di amministrazione,
anche per come applicato nella prassi quotidiana per carenza di
strumenti e risorse, rischia di indebolire la lotta contro la criminalità
organizzata.
(46) Fino all’attivazione della banca dati, «le prefetture utilizzano
il collegamento informatico al Centro elaborazione dati di cui all’art.
8 della legge 18 aprile 1981, n. 121, al fine di verificare la
sussistenza di una delle cause di decadenza, di sospensione o
di divieto di cui all’art. 67 o di un tentativo di infiltrazione mafiosa
di cui all’art. 84, comma 4, e all’art. 91, comma 6, nonché i
collegamenti informatici o telematici, attivati in attuazione del
D.P.R. 3 giugno 1998, n. 252. In ogni caso, si osservano per il rilascio
della documentazione antimafia i termini di cui agli artt.
88 e 92» (art. 99, comma 2-bis).
(47) Il riferimento è al primo decreto legislativo contenente le disposizioni
integrative e correttive adottate ai sensi degli artt. 1,
comma 5, e 2, comma 4, della legge delega; si tratta, dunque,
dello stesso D.Lgs. n. 218/2012.
262 Urbanistica e appalti 3/2013

4) Ai sensi dell’art. 101 del codice, nel caso di scioglimento
dell’ente locale ex art. 143 D.Lgs. n. 267/
2000, la commissione straordinaria per la gestione
dell’ente «può ricorrere alla stazione unica appaltante».
Sarebbe invece opportuno sancire un obbligo
(48): spesso in questi casi, soprattutto nei piccoli
e medi centri, la continuità di alcune figure chiave
(segretario comunale, dirigenti, consulenti, professionisti
di fiducia) impone un taglio netto, di guisa
che i commissari prefettizi dovrebbero innanzi tutto
perseguire la discontinuità rispetto all’amministrazione
precedente (49). Il correttivo, invece, non
interviene sul punto, anzi introduce una dubbia
clausola di salvaguardia delle altre ipotesi previste
dalla legge. (50)
5) Una smagliatura, però, èpiù grave della altre in
quanto mette a rischio l’adeguatezza degli effetti interdittivi
della documentazione e l’uniformità di applicazione
in settori diversi.
Il codice antimafia, infatti, non tiene conto dell’art.
71 D.Lgs. 26 marzo 2010, n. 59 (51) che dispone
che i soggetti sottoposti a una misura di prevenzione
(personale o patrimoniale, definitiva o non definitiva)
non possono esercitare l’attività commerciale
di vendita e di somministrazione. Invece, nell’art.
67 del codice - che disciplina le cause di decadenza,
sospensione o divieto (52) che fondano a loro volta
la comunicazione (art. 84, comma 2) o l’informazione
meramente ricognitiva (art. 84, comma 3) interdittive
- il riferimento è unicamente alle misure
di prevenzione personali, fra l’altro solo se divenute
definitive.
Nella relazione governativa la ragione della formulazione
dell’art. 67 è stata individuata nella modifica
ad opera del D.L. 23 maggio 2008, n. 92 (53)
che ha previsto la possibilità di applicazione disgiunta
della misura personale e di quella patrimoniale;
prima, invece, la misura patrimoniale poteva
solo accompagnare o seguire quella personale (54).
Quanto al carattere della definitività della misura
di prevenzione, esso era previsto dall’art. 10 L. n.
575/1965 sulle cause di decadenza, sospensione o
divieto prima del codice.
Ignorare l’art. 71 D.Lgs. n. 59/2010, però, comporta
un arretramento dalle conseguenze dirompenti. Se
da un lato, infatti, sarà possibile ‘‘recuperare’’, ai fini
di una informativa interdittiva, la misura di prevenzione
patrimoniale e/o non definitiva come circostanza
da cui desumere il tentativo di infiltrazione
mafiosa ai sensi dell’art. 84, comma 4 (55), dall’altro
non sarà più possibile nello stesso caso emettere
una comunicazione interdittiva (56). Per esempio,
potrà accadere nei contratti d’appalto di lavori
Opinioni
Appalti e lavori pubblici
pubblici di importo superiore a euro 150.000 (soglia
rilevante ai fini dell’applicazione delle disposizioni
sulla documentazione antimafia, art. 83, comma 3
lett. e), ma inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria
di euro 5.000.000 (soglia rilevante ai fini del
Note:
(48) La formulazione oggetto di critica sembra peraltro ‘‘imposta’’
dalla legge delega n. 136/2010 (cfr. art. 2, comma 1, lett.
h).
(49) Per esempio, sulla stazione unica appaltante in Lombardia
v. l’art. 1, comma 3-bis, L.R. 28 dicembre 2007, n. 33. La disposizione
era stata introdotta dall’art. 2 L.R. 28 dicembre 2011, n.
22 e attribuiva, a questi fini, a Lombardia Informatica s.p.a. le
funzioni di SUA. Dopo la modifica ad opera dell’art. 11, comma
1 lett. b), L.R. 16 luglio 2012, n. 12, le funzioni sono state attribuite
all’Agenzia regionale centrale acquisti.
(50) L’art. 8, comma 1 lett. b), D.Lgs. n. 218/2012 sostituisce integralmente
il primo comma dell’art. 101 ma le uniche modifiche
rispetto alla precedente formulazione riguardano l’introduzione
dell’inciso iniziale «salvo che la legge disponga diversamente»
e la sostituzione, opportuna in virtù dell’art. 144 TUEL,
della locuzione «commissario nominato» con quella «commissione
straordinaria per la gestione dell’ente».
(51) Di attuazione della cd. direttiva servizi (direttiva 2006/123/
CE relativa ai servizi nel mercato interno).
(52) La rubrica dell’articolo, «Effetti delle misure di prevenzione»,
è riduttiva e fuorviante: il comma 8, infatti, dispone come
causa ostativa la condanna con sentenza definitiva o, ancorché
non definitiva, confermata in grado di appello, per uno dei delitti
di cui all’art. 51, comma 3-bis, c.p.p.
(53) Recante «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica»,
convertito in L. 24 luglio 2008, n. 125.
(54) Dopo l’innovazione dell’applicazione disgiunta «appare logico
limitare gli effetti in questione alla sola applicazione di misure
di prevenzione personali, le uniche in relazione alle quali è
ancora sempre prevista una valutazione dell’attuale pericolosità
sociale del soggetto proposto; depone a favore di tale interpretazione
la considerazione che le misure patrimoniali possono
oggi (dopo il citato D.L. n. 92/08) essere applicate anche nei
confronti degli eredi di un soggetto che ha accumulato negli anni
un patrimonio illecito: in questo caso la valutazione di pericolosità
sociale degli eredi è esclusa in radice, riferendosi la misura
ad un patrimonio accumulato da altri, mentre ove sussista
pericolosità sociale anche degli eredi, ricorrendone gli ulteriori
presupposti sarà possibile applicare nei loro confronti anche la
misura di prevenzione personale con i conseguenti effetti previsti
ora dall’art. 67». Tuttavia, da un punto di vista prettamente
amministrativistico, cosa accade, per esempio, nel caso di una
licenza o autorizzazione volturata agli eredi nei cui confronti è
disposta la sola misura di prevenzione patrimoniale? È possibile
considerare decaduta la licenza o l’autorizzazione in quanto
‘‘rientrante nel patrimonio’’ oggetto della misura di prevenzione?
La soluzione preferibile è che, in tutti i casi in cui sia possibile
ratione materiae, il riferimento normativo sia il D.Lgs. n.
59/2010.
(55) Nel quale il riferimento è alla «proposta» o al «provvedimento
di applicazione di taluna delle misure di prevenzione».
(56) Il codice ha lasciato sostanzialmente inalterato il precedente
sistema delle soglie di valore ai fini del rilascio della comunicazione
o della informazione; è bene ricordare che vi sono casi
in cui è possibile prescindere dal valore economico e l’unico documento
antimafia è rappresentato dalla comunicazione (come
nel caso, per esempio, di iscrizioni o provvedimenti a contenuto
autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività
imprenditoriali; art. 67, lett. f).
Urbanistica e appalti 3/2013 263

Opinioni
Appalti e lavori pubblici
rilascio dell’informazione in luogo della comunicazione,
art. 91, comma 1 lett. a) (57).
Inoltre, ai fini della documentazione antimafia e
degli effetti interdittivi, non ha alcun senso distinguere
tra l’esercizio di attività commerciale di vendita
e di somministrazione (rispetto al quale la misura
di prevenzione patrimoniale e non definitiva è
di per sé ostativa in virtù dell’art. 71 D.Lgs. n. 59/
2010) e l’esercizio di altre attività economiche (rispetto
al quale la stessa misura non produce effetti
analoghi in virtù dell’art. 67 codice antimafia).
In questo modo si corre il rischio di lanciare implicitamente
un messaggio sulla possibilità di destinare
capitali mafiosi in questi altri settori.
Il rapporto con il codice dei contratti
Alcune smagliature, poi, possono essere riferite a
profili di coordinamento tra il codice antimafia e
quello dei contratti. La necessità di un maggiore
coordinamento tra i due corpi normativi, almeno
per taluni aspetti, era stata segnalata anche dall’Autorità
per la vigilanza sui contratti pubblici in sede
di audizione alla Commissione giustizia alla Camera
dei deputati sul disegno di legge contenente la delega
al Governo in materia di normativa antimafia.
Ciò nonostante, i profili di maggiore criticità non
hanno trovato una soluzione soddisfacente nel codice.
L’art. 247 D.Lgs. n. 163/2006 fa salve le vigenti disposizioni
in materia di prevenzione della delinquenza
di stampo mafioso e di comunicazioni e informazioni
antimafia. Questo rinvio però non appare
sufficiente a garantire un coordinamento adeguato
in alcune ipotesi specifiche.
a) Art. 38 codice contratti e art. 84 codice
antimafia
La disposizione che suscita le perplessità maggiori è,
a mio avviso, l’art. 38 D.Lgs. n. 163/2006 che stabilisce,
tra l’altro, l’impossibilità di partecipare alle
procedure di evidenza pubblica e il divieto di stipulare
i relativi contratti: 1) per i soggetti condannati
con sentenza passata in giudicato per determinati
reati (tra cui quello di partecipazione a un’organizzazione
criminale e il riciclaggio); 2) per coloro nei
cui confronti è pendente procedimento per l’applicazione
di una misura di prevenzione personale; 3)
soggetti vittima dei reati di concussione ed estorsione
con l’aggravante ex art. 7 D.L. 13 maggio 1991,
n. 151 (58) che non abbiano denunciato i fatti all’autorità
giudiziaria a meno che non ricorra una
causa di giustificazione.
Si tratta di ipotesi analoghe a quelle che l’art. 84,
comma 4, considera rilevanti per desumere, ai fini
di una informativa interdittiva, il tentativo di infiltrazione
mafiosa. L’art. 84, comma 4, però, prevede
una diversa formulazione. In particolare:
a) con riferimento alla ipotesi sub 1), l’art. 84, comma
4, fa riferimento, per le stesse tipologie di delitti
indicati in precedenza, a provvedimenti che dispongono
una misura cautelare o il giudizio o che
recano una condanna anche non definitiva. Inoltre
l’art. 67, ultimo comma, indica come causa ostativa
alla contrattazione la condanna, anche solo confermata
in grado di appello, per uno dei delitti di cui
all’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale
(causa ostativa che deve essere attestata tanto
dalla comunicazione che dall’informazione, cfr. art.
84, commi 2 e 3).
b) Con riferimento alla ipotesi sub 2), innanzi tutto
occorre registrare la formulazione in parte differente
dell’art. 67, comma 6, codice antimafia sugli effetti
delle misure di prevenzione e sul relativo procedimento.
La disposizione prevede una sospensione del
procedimento amministrativo per il rilascio di licenze,
autorizzazioni, concessioni, erogazioni, abilitazioni
e iscrizioni o una inibitoria alla stipulazione di contratti
o subcontratti, a favore di persone nei cui confronti
sia in corso il procedimento di prevenzione ai
fini di un eventuale provvedimento cautelare del giudice
ai sensi del comma 3. Per questa ragione, i relativi
procedimenti amministrativi sono sospesi fino a
quando il giudice non provvede e, comunque, per un
periodo non superiore a venti giorni dalla data in cui
l’amministrazione ha proceduto alla comunicazione.
Nell’art. 38 codice contratti, invece, la pendenza
del procedimento per l’applicazione di una misura
di prevenzione è di per sé causa ostativa alla partecipazione
alla procedura di affidamento e alla stipula
del contratto.
Inoltre, mentre l’art. 38 fa riferimento alle misure
di prevenzione personale, l’art. 84, comma 4, fa riferimento
a «taluna delle misure di prevenzione»,
cioè il tentativo di infiltrazione mafiosa è desunto
anche dall’emissione di una misura di prevenzione
patrimoniale.
Note:
(57) Dal 18 gennaio 2012 v. Reg. (UE) della Commissione, 30
novembre 2011, n. 1251 che modifica le direttive 2004/17/CE,
2004/18/CE e 2009/81/CE del Parlamento europeo e del Consiglio
riguardo alle soglie di applicazione in materia di procedure
di aggiudicazione degli appalti.
(58) E cioè avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis
c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste
dallo stesso articolo.
264 Urbanistica e appalti 3/2013

c) Con riferimento alla ipotesi sub 3), l’art. 84,
comma 4, precisa che rispetto ai medesimi soggetti
(59) il tentativo è desumibile anche in assenza
nei loro confronti di un procedimento per l’applicazione
di una misura di prevenzione o di una causa
ostativa ivi previste; quest’ultima specificazione però
oggi è espunta dall’art. 38 ad opera dell’art. 4,
comma 2 lett. b), D.L. 13 maggio 2011, n. 70 (convertito
con modificazioni in L. 12 luglio 2011, n.
106) (60).
Così, con particolare riguardo alle ipotesi sub 1) e
sub 2) il codice antimafia, a differenza che del codice
appalti, fa riferimento a misure cautelari o condanne
non definitive e alle misure di prevenzione
in genere; pertanto il rilascio dell’informativa interdittiva
per tentativo di infiltrazione mafiosa si può
fondare su un elenco di fattispecie penali che risulta
più ampio di quello previsto all’art. 38 del codice
dei contratti.
Il paradosso è evidente ove si consideri che l’informativa
è acquisita tra l’aggiudicazione definitiva e
la stipulazione del contratto (cfr. l’art. 91): il soggetto
ammesso a partecipare alla gara d’appalto per
non incorrere in alcuna delle esclusioni di cui all’art.
38 e risultato aggiudicatario può essere destinatario
di una informativa interdittiva alla stipula
del contratto ex art. 84, comma 4, del codice antimafia,
con un aggravio non giustificabile in termini
di costi e di efficienza amministrativa. È il caso, per
esempio, del titolare di un’impresa individuale condannato
in primo grado per il delitto di cui all’art.
416-bis c.p.
Lo stesso può accadere rispetto all’informativa ex
art. 84, comma 3 (quella che nel precedente quadro
normativo era stata classificata come meramente ricognitiva)
con riferimento alla condizione ostativa
prevista dall’art. 67, ultimo comma, di una condanna
confermata in appello, per esempio, per il delitto
di cui all’art. 416-bis c.p., situazione che di per sé
non produce l’esclusione dalla gara d’appalto ex art.
38 codice contratti.
È dunque evidente, a mio avviso, la necessità di un
intervento legislativo mirato a rendere uniformi le
disposizioni sulle condizioni ostative alla partecipazione
alle gare e alla stipula dei contratti con la
pubblica amministrazione.
b) Art. 135 codice contratti e art. 94 codice
antimafia
Una considerazione merita anche il rapporto tra
l’art. 94 codice antimafia e l’art. 135 codice contratti.
Può accadere che l’informativa del prefetto
sopraggiunga dopo la stipula del contratto: ciò può
Opinioni
Appalti e lavori pubblici
verificarsi perché la prefettura non ha adottato entro
i termini previsti l’informativa, oppure nel caso
di appalti urgenti, oppure ancora nel caso in cui gli
elementi per l’informativa siano stati accertati successivamente
al contratto, per esempio in seguito
agli accessi nei cantieri disposti ai sensi dell’art. 93.
In questa ipotesi, come si è già segnalato, l’art. 94,
comma 2, fissa, con maggiore rigore che in passato,
la regola dell’obbligo di recedere dal contratto (o di
revoca delle concessioni, autorizzazioni, etc.).
Il comma 3, invece, specifica tassativamente i due
casi in cui l’amministrazione possa non recedere dal
contratto pur in presenza di un’informativa del prefetto:
a) nel caso in cui l’opera sia in corso di ultimazione;
b) in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta
essenziale per il perseguimento dell’interesse
pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia
sostituibile in tempi rapidi.
Si è già detto in merito all’opportunità di una diversa
formulazione del comma.
Al di là di questo aspetto, è importante la chiarezza
del rapporto tra regola ed eccezione individuato nei
due commi dell’art. 94.
Nel codice appalti, l’art. 135 (sulla risoluzione del
contratto qualora nei confronti dell’appaltatore, tra
le varie ipotesi, sia intervenuta l’emanazione di una
misura di prevenzione o la condanna definitiva per
riciclaggio) pare lasciare alla stazione appaltante un
margine nella valutazione sull’interruzione del rapporto
contrattuale. È affidata, infatti, al responsabile
del procedimento la proposta alla stazione appaltante
di procedere alla risoluzione del contratto, «in relazione
allo stato dei lavori e alle eventuali conseguenze
nei riguardi delle finalità dell’intervento».
Anche alla luce dell’incipit dell’art. 135 («fermo
quanto previsto da altre disposizioni di legge») ritengo
che esso vada interpretato, almeno nei casi
che possono fondare la informativa interdittiva, secondo
la regola più rigorosa indicata nell’art. 94 codice
antimafia.
Note:
(59) Cioè soggetti vittima dei reati di concussione ed estorsione
(con l’aggravante ex art. 7 D.L. n. 152/1991) che non abbiano
denunciato i fatti all’autorità giudiziaria a meno che non ricorra
una causa di giustificazione.
(60) Sull’art. 38 codice contratti, alla luce anche delle ultime modifiche
ad opera dell’art. 20, comma 1 lett. d), D.L. 9 febbraio
2012, n. 5 convertito con modificazioni in L. 4 aprile 2012, n. 35
(che ha novellato il comma 1-ter attribuendo all’AVCP il potere
di graduare la sanzione interdittiva ivi prevista) e dell’art. 1, comma
5, D.L. 2 marzo 2012, n. 16 convertito con modificazioni in
L. 26 aprile 2012, n. 44 (che ha novellato il comma 2, in riferimento
al comma 1, lett. g), v. la determinazione AVCP 16 maggio
2012, n. 1 «Indicazioni applicative sui requisiti di ordine generale
per l’affidamento dei contratti pubblici».
Urbanistica e appalti 3/2013 265

Opinioni
Appalti e lavori pubblici
Segue: le recenti modifiche in tema
di appalti
Infine, un accenno meritano due recenti disposizioni
in tema di appalti pubblici.
La prima è l’art. 44, comma 6, D.L. 6 dicembre
2011, n. 201 (convertito in L. 22 dicembre 2011,
n. 214) che ha modificato l’art. 140 codice appalti
sul cd. scorrimento della graduatoria (61), il cui
campo di applicazione è esteso ora anche ai casi di
recesso dal contratto per informativa interdittiva
successiva alla stipula del contratto (il riferimento è
all’art. 11 D.P.R. n. 252/1998 non essendo ancora
in vigore il codice antimafia).
La seconda disposizione è l’art. 4, lett. g) e comma
13, D.L. n. 70/2011: presso ogni prefettura è istituito
l’elenco di fornitori e prestatori di servizi non
soggetti a rischio di inquinamento mafioso, ai quali
possono rivolgersi gli esecutori di lavori, servizi e
forniture, per la scelta dei subappaltatori e subcontraenti.
La prefettura è tenuta ad effettuare verifiche
periodiche circa la perdurante insussistenza dei
rischi di infiltrazione mafiosa e, in caso di esito negativo,
dispone la cancellazione dell’impresa dall’elenco.
Un D.P.C.M., di cui si attende ancora la
emanazione, dovrà definire le modalità per l’istituzione
e l’aggiornamento, senza nuovi o maggiori
oneri per la finanza pubblica, dell’elenco di cui al
primo periodo, nonché per l’attività di verifica.
Più di recente, una disposizione analoga riferita agli
esecutori di lavori, servizi e forniture si riscontra anche
nella legge cd. anticorruzione (L. 6 novembre
2012, n. 190) per garantire l’efficacia dei controlli
antimafia nelle attività che la legge qualifica maggiormente
esposte a rischio di infiltrazione mafiosa
(62). In questo caso si specifica che l’iscrizione negli
elenchi della prefettura della provincia in cui l’impresahasedesoddisfairequisiti
per l’informazione
antimafia per l’esercizio della relativa attività (63).
Si tratta della c.d. white list, un modello in precedenza
concepito per i ‘‘grandi eventi’’ (piano carceri,
ricostruzione post-terremoto in Abruzzo e in
Emilia-Romagna, Expo 2015) e via via esteso prima
in tema di subappalto e subcontratto e oggi a molti
settori degli appalti pubblici.
La white list è una soluzione che ha consentito utilità
e vantaggi anche di natura pratica; essa, però,
presenta un profilo critico in ordine alla sua compatibilità
con il diritto comunitario che garantisce la
più ampia partecipazione alle gare ed esclude soltanto
le imprese rispetto alle quali siano emersi gravi
elementi di responsabilità (si dovrebbe, dunque,
ragionare semmai in termini di black list) (64).
In ogni caso, come ha rilevato l’AVCP in occasione
della ricostruzione dopo il sisma in Abruzzo, si
«dovrebbe assicurare la possibilità a qualsiasi operatore,
stabilito sia in Italia che all’estero, di ottenere,
qualora dotato dei requisiti richiesti, l’iscrizione
nell’elenco». Dunque, dovrebbe essere sempre consentita,
in qualsiasi momento, l’iscrizione nella white
list (come previsto dall’art. 45, comma 8, codice
contratti per gli elenchi ufficiali di fornitori o prestatori
di servizi); «diversamente si verrebbe a porre
in essere una procedura dell’aggiudicatario in evidente
contrasto con il codice e con i principi del
diritto comunitario di non discriminazione e della
libera concorrenza» (65).
In questo quadro, è opportuno richiamare il rating
di legalità delle imprese (66), istituito dall’art. 5-ter
D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 (67), del quale le amministrazioni
pubbliche devono tenere conto in sede
di concessione di finanziamenti. La delibera 14
Note:
(61) Su questa e su altre disposizioni contenute nel D.L. n. 201/
2011 cfr. R. De Nictolis, Le novità di fine anno in materia di contratti
pubblici, in questa Rivista, 2012, 139 ss.
(62) L’art. 1, comma 53, qualifica le attività maggiormente esposte
a rischio di infiltrazione mafiosa (in precedenza cfr. direttiva
Ministero Interno 23 giugno 2010). Per garantire l’efficacia dei
controlli antimafia in queste attività, il comma 52 del medesimo
articolo prevede che presso ogni prefettura sia istituito l’elenco
dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti
a tentativo di infiltrazione mafiosa operanti nei medesimi
settori. La prefettura effettua verifiche periodiche circa la perdurante
insussistenza dei suddetti rischi e, in caso di esito negativo,
dispone la cancellazione dell’impresa dall’elenco.
(63) Anche in questo caso, si prevede che sia un D.P.C.M, entro
sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, a definire
le modalità per l’istituzione e l’aggiornamento, senza nuovi
o maggiori oneri per la finanza pubblica, dell’elenco di cui al
comma 52, nonché per l’attività di verifica (art. 1, comma 56, L.
n. 190/2012).
(64) Solo di recente l’Unione europea sembra avere preso consapevolezza
della dimensione non solo italiana del fenomeno attraverso
l’istituzione, nel marzo 2012, della Commissione speciale
sul crimine organizzato, la corruzione e il riciclaggio di denaro
(CRIM), a seguito dell’approvazione della risoluzione del
Parlamento Europeo del 25 ottobre 2011. Tra le sue finalità l’analisi
su scala europea della infiltrazione mafiosa nel settore
pubblico e della distrazione dei fondi pubblici, nonché l’individuazione
delle misure legislative di contrasto.
(65) Audizione dell’11 maggio 2010 del Presidente dell’AVCP
sul disegno di legge n. 3290 recante «Piano straordinario contro
le mafie, nonché la delega al Governo in materia di normativa
antimafia», § 6.
(66) Sul rapporto tra rating di legalità, codici etici e modelli organizzativi
ex D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, cfr. M. Caputo, La mano
visibile. Codici etici e cultura d’impresa nell’imputazione della
responsabilità agli enti, inwww.penalecontemporaneo.it.
(67) Articolo inserito in sede di conversione dall’art. 1, comma
1, L. 24 marzo 2012, n. 27, e poi modificato dall’art. 1, comma
1-quinquies, D.L. 24 marzo 2012, n. 29, convertito in L. 18 maggio
2012, n. 62.
266 Urbanistica e appalti 3/2013

novembre 2012, n. 24075 dell’AGCM (68) ha attuato
la disposizione prevedendo, tra l’altro, che l’iscrizione
in una white list costituisca titolo per l’attribuzione
di un punteggio maggiore.
Nell’art. 4, comma 13, D.L. n. 70/2011, inoltre, si
prevede l’acquisizione d’ufficio, anche per via telematica
e a titolo gratuito, della documentazione antimafia
a cura della stazione appaltante (69). Nonostante
si faccia riferimento solo alla documentazione
circa la sussistenza delle cause di decadenza,
sospensione o divieto previste dall’art. 10 L. n. 575/
1965 (l’attuale art. 67 del codice antimafia), pare
ragionevole ritenere trattarsi di una svista del legislatore
e che la gratuità e l’acquisizione anche per
via telematica siano regole valevoli per la documentazione
antimafia in genere.
Infine, un cenno meritano anche i patti o protocolli
di legalità, istituto sostanzialmente ignoto al diritto
degli appalti (70). Di regola, nei protocolli le
amministrazioni assumono l’obbligo di inserire nei
bandi di gara, quale condizione per la partecipazione,
l’accettazione preventiva da parte degli operatori
economici di determinate clausole che hanno come
scopo la prevenzione, il controllo e il contrasto
dei tentativi di infiltrazione mafiosa, nonché la verifica
della sicurezza e della regolarità dei luoghi di
lavoro. Si tratta, in altri termini, di stabilire obblighi
di condotta: tipico il caso dell’impegno a denunciare
tentativi di estorsione nei confronti dell’impresa
prima della gara o nel corso dell’esecuzione
del contratto.
L’Autorità di vigilanza, in un primo tempo, aveva
ritenuto che l’istituto non potesse essere preso in
considerazione per il bando tipo alla luce del principio
della tassatività delle clausole di esclusione
(71); la possibilità di condizionare la partecipazione
alla gara all’accettazione dei protocolli non
poteva avere un fondamento unilaterale. Ciò significava
che non poteva essere esclusa l’impresa che
non lo avesse accettato (72). Di recente, invece, la
delibera 10 ottobre 2012 n. 4 dell’Autorità, sui cd.
bando-tipo (73), ha fornito una soluzione opposta
(74), subito dopo confermata dall’art. 1, comma
17, L. n. 190/2012: «le stazioni appaltanti possono
prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito
che il mancato rispetto delle clausole contenute
nei protocolli di legalità o nei patti di integrità
costituisce causa di esclusione dalla gara».
Conclusioni
Il D.Lgs. n. 159/2011 aveva l’obiettivo dichiarato
di modificare e integrare la disciplina in materia di
Opinioni
Appalti e lavori pubblici
documentazione antimafia nonché di realizzare un
testo di riferimento valido e completo delle norme
antimafia, anche amministrative, e di semplificare
l’attività dell’interprete, evitando la necessità di utilizzare
nel testo riferimenti esterni a differenti atti
normativi (75).
A mio avviso, il D.Lgs. n. 159/2011 non raggiunge
questo obiettivo. I profili critici, le smagliature, il
mancato coordinamento con il codice degli appalti
trovano la loro ragione più profonda in un’impostazione
generale nella redazione del codice antimafia
nella quale è mancata, se non nell’intento almeno
nei risultati, la doverosa centra-lità del diritto amministrativo
per la lotta contro la criminalità organizzata.
In questo contesto il legislatore dovrebbe
superare la logica di una mera trasposizione e raccolta
di disposizioni antimafia, rendere effettivamente
centrale e organico il codice, adeguare le discipline
di settore (ivi compresa quella in materia
di appalti) al codice.
Note:
(68) In G.U. 18 dicembre 2012, n. 294.
(69) Su queste e su altre disposizioni contenute nel D.L. n. 70/
2011 cfr. R. De Nictolis, Le novità del D.L. 70/2011. Le novità
dell’estate 2011 in materia di pubblici appalti, in questa Rivista,
2011, 1012 ss.
(70) Sul rapporto tra i protocolli di legalità e le informative antimafia
v. R. Papania, Notazioni in tema di efficacia interdittiva,
cit., 336 ss.
(71) Cfr. l’art. 46, comma 1-bis, codice contratti.
(72) Documento di consultazione «Prime indicazioni sui bandi tipo:
tassatività delle cause di esclusione e costo del lavoro», 2
agosto 2011, § 6. In questo quadro, al più, l’accettazione del
protocollo da parte dei concorrenti avrebbe potuto essere inserita
tra i criteri di valutazione per l’aggiudicazione della gara. Diverso,
invece, è il possibile valore contrattuale del protocollo, relativo
cioè alla fase di esecuzione del contratto.
(73) «Indicazioni generali per la redazione dei bandi di gara ai
sensi degli articoli 64, comma 4-bis e 46, comma 1-bis, del codice
dei contratti pubblici». Su questa delibera e sulla tassatività
delle cause di esclusione nella giurisprudenza (in particolare alla
luce dell’orientamento espresso da Cons. Stato, Ad. Plen., 7
giugno 2012, n. 21, in questa Rivista, 2012, 954) cfr. R. De Nictolis,
La riforma del Codice appalti, in questa Rivista, 2012,
1229 ss.
(74) «Deve ritenersi che la previsione dell’accettazione dei protocolli
di legalità e dei patti di integrità quale possibile causa di
esclusione sia tuttora consentita, in quanto tali mezzi sono posti
a tutela di interessi di rango sovraordinato e gli obblighi in tal
modo assunti discendono dall’applicazione di norme imperative
di ordine pubblico, con particolare riguardo alla legislazione in
materia di prevenzione e contrasto della criminalità organizzata
nel settore degli appalti.» (p. 38). Cfr. anche Cons. Stato, sez.
VI, 8 maggio 2012, n. 2657; sez. V, 9 settembre 2011, n. 5066,
entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
(75) È quanto espresso nella relazione illustrativa. Sulle disposizioni
in tema di appalti pubblici nella legge delega cfr. R. De Nictolis,
La nuova disciplina antimafia in tema di appalti pubblici, in
questa Rivista, 2010, 1129 ss.
Urbanistica e appalti 3/2013 267

Opinioni
Edilizia e urbanistica
Parcheggi
La nuova disciplina
dei parcheggi pertinenziali
di Lorenzo Ieva *
La disciplina dei parcheggi pertinenziali vede mutato il proprio assetto con il D.L. 9 febbraio 2012 conv., con
mod., nella L. 4 aprile 2012 n. 35, contenente ‘‘Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo’’.
Infatti il legislatore torna sul tema, sempre con scarsa chiarezza, ma questa volta con l’intento di ribadire
la natura giuridica di normale pertinenza urbanistica ex lege dei parcheggi costruiti nei plessi condominiali,
salvo poi introdurre un regime di parziale flessibilità per i parcheggi di cui alla legge Tognoli del 1989. Rilevante,
sul punto, è anche la riforma della disciplina del condominio, introdotta dalla L. 11 dicembre 2012 n.
220, che ora annovera espressamente, tra le parti comuni dell’edificio, le aree destinate a parcheggio, salvo
che il titolo non disponga diversamente. È comunque l’occasione utile per tentare una breve ricostruzione
sistematica dell’intera materia, con l’auspicio che norme più chiare possano sopravvenire, con maggiore
coordinamento sistematico rispetto a quanto già disciplinato.
La edificazione di idonei spazi parcheggio (1) per
autovetture et similia costituisce una avvertita esigenza
urbanistica a partire, in particolare, dagli anni
sessanta del Novecento, quando gli assetti sociali
ed economici degli anni del cd. boom economico e
della cd. motorizzazione di massa hanno imposto di
considerare la necessità urbanistica ed edilizia di
prevedere apposite aree (pubbliche e private) di sosta
e di parcheggio per ricoverare i sempre più numerosi
e diffusi mezzi di locomozione privata.
È in tal modo che il legislatore è giunto, nelle more
dell’approvazione di una nuova e più complessiva
anelata riforma urbanistica, nel contesto di altre disposizioni
di riforma generale della materia, a formulare
nella L. 6 agosto 1967 n. 765 (cd. legge
ponte) e, specificamente, all’art. 18, il nuovo art.
41-sexies, da inserire nella L. 17 agosto 1942, n.
1150 (cd. legge urbanistica fondamentale), che, claris
verbis, ha disposto, con precipuo riferimento all’esigenza
di prevedere ed incrementare posti parcheggio
privati, che: «Nelle nuove costruzioni ed
anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse,
debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi
[...]».
Dopo oltre vent’anni, l’indice di edificabilità è stato
elevato dalla L. 24 marzo 1989 n. 122 (cd. legge
Tognoli), il cui art. 2, comma 2, ha riformulato
l’attuale primo comma dell’art. 41-sexies L. n. 1150
cit. che, pertanto, ora dispone la riserva nelle nuo-
ve costruzioni di spazi parcheggi: «[...] in misura
non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci
metri cubi di costruzione».
La giurisprudenza ha, quasi subito, visto nell’art.
41-sexies L. n. 1150, già per come ab origine formulato,
la costituzione di un vero e proprio vincolo
giuridico inderogabile, a carattere pubblicistico, di
destinazione dello spazio parcheggio da ricavarsi obbligatoriamente
nelle nuove edificazioni, in un dato
rapporto percentuale rispetto alla cubatura complessiva,
quale peculiare forma di pertinenza tipicamente
prevista dal legislatore, fino a riconoscerne,
nelle note sentenze della Cassazione a Sezione Unite
del 1984 (nn. 6600, 6601 e 6602), la valenza di
una vera e propria norma imperativa operante anche
nei rapporti interprivati (2).
Note:
* Il commento è stato sottoposto alla valutazione anonima di un
referee.
(1) In materia, ex multis, essenzialmente, vedi: M. Ieva (a cura
di), La disciplina degli spazi per parcheggio, Milano, 1992; M. Ieva,
(voce) Condominio negli edifici. III) Parcheggio (destinazione
a), inEnc. Giur., vol. VIII, Treccani, Roma, 1993; A. Luminoso,
(voce) Parcheggio (aree obbligatorie), in Enc. Dir., vol. Agg. II,
Milano, 1998, 691 ss; M. Ieva, (voce) Condominio negli edifici.
III) Parcheggio (destinazione a), inEnc. Giur., vol. XVI Agg., Treccani,
Roma, 2007.
(2) In tal senso, per tutte, possono rammentarsi le sentenze della
Cass., Sez. Un., 17 dicembre 1984, nn. 6600, 6601 e 6602:
«L’art. 41-sexies della legge urbanistica 17 agosto 1942 n.
1150, introdotto dall’art. 18 della L. 6 agosto 1967 n. 765, il qua-
(segue)
268 Urbanistica e appalti 3/2013

La consacrazione del vincolo di pertinenza
Successivamente, con l’intento (astratto) di chiarire,
ma con il risultato (concreto) di aver complicato
l’interpretazione giuridica, è intervenuta la L. 28
febbraio 1985 n. 47, dettata essenzialmente in funzione
di condono edilizio, ma anche contenente ulteriori
disposizioni in materia di controllo edilizio
ed urbanistico, la quale all’art. 26 (‘‘Opere interne’’),
comma 5, ha previsto che: «Gli spazi di cui
all’art. 18 della L. 6 agosto 1967, n. 765, costituiscono
pertinenze delle costruzioni, ai sensi e per gli
effetti degli artt. 817, 818 e 819 del codice civile».
Le disposizioni richiamate sono appunto quelle riguardanti
la nozione di pertinenza, quale «cosa destinata
in modo durevole a servizio o ad ornamento
di un’altra cosa» (art. 817 c.c.), nonché il regime
giuridico di normale sequela della pertinenza rispetto
alla cosa principale, ma pure di separabilità della
stessa, se espressamente pattuito (art. 818 c.c.),
nonché i diritti dei terzi sulle pertinenze nelle vicende
traslative (art. 819 c.c.).
La qualificazione in senso espresso di ‘‘pertinenza’’,
come detto, in parte ha contribuito a recepire con
legge un concetto già enucleato dalla dottrina e
dalla giurisprudenza, ma in altra parte ha introdotto
elementi di perplessità ermeneutica. Difatti, mentre
la dottrina maggioritaria, poi sposata dalla giurisprudenza,
ha colto, nell’art. 26, comma 5, della L.
n. 47 cit., un riconoscimento espresso del vincolo
pubblicistico di immodificabilità della destinazione
a parcheggio, non sono mancati i fautori della tesi
della separabilità del parcheggio dal resto del compendio
edilizio, potendo per l’appunto, in base alle
regole civilistiche, la pertinenza essere alienata
svincolata dall’opus principale a cui è stata posta ad
ornamento o servizio.
Il contrasto è stato risolto dalla Cass. civ., Sez. Un.,
18 luglio 1989, n. 3363 (3) nel senso della funzione
meramente esplicativa dell’art. 26, ult. comma, della
L. 28 febbraio 1985 n. 47, peraltro ritenuto non
affatto necessario, in quanto il concetto di destinazione
vincolata, per interesse pubblico, degli spazi
parcheggio al fabbricato di cui costituiscono pertinenza
è in nuce contenuto nello stesso art. 41-sexies
della legge urbanistica, che per l’appunto ha imposto
la riserva di spazi parcheggio nelle «nuove costruzioni
ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni
stesse».
Superando ogni questione ermeneutica, è però sopraggiunto
l’art. 136, comma 2, lett. f), del D.P.R.
6 giugno 2001, n. 380 ‘‘Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edili-
zia’’, che ha preferito abrogare il discusso art. 18
della L. 6 agosto 1967 n. 765, lasciando alla giurisprudenza
di meglio precisare la natura del vincolo
(pubblicistico) di immodificabilità delle aree-parcheggio,
sganciandosi quindi dalla normativa civilistica.
In effetti, seppure può parlarsi, con riferimento all’area
parcheggio di un fabbricato, di pertinenza, ossia
di destinazione di un bene secondario a servizio
ed ornamento di un bene principale, cui resta avvinto
normalmente anche nelle vicende traslative,
è invece vero che, dato l’interesse pubblicistico sotteso,
l’alienazione espressa separata del bene pertinenziale
non è - in linea di principio - possibile.
I parcheggi incentivati dalla legge Tognoli
(L. 24 marzo 1989 n. 122)
La cd. legge Tognoli n. 122 del 1989 ha compiuto
un ulteriore passo in avanti ed è intervenuta, proprio
nel quadro più generale della programmazione
di opere nei centri urbani di maggiori dimensioni,
dettando una particolare disciplina finalizzata ad incentivare
la realizzazione di parcheggi nelle costruzioni,
che ne sono prive (o che hanno un basso numero
di spazi parcheggio), proprio al fine di rimediare
o quantomeno ‘‘alleggerire’’ in parte la cd.
Note:
(segue nota 2)
Opinioni
Edilizia e urbanistica
le dispone che nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di
pertinenza delle costruzioni stesse debbono essere riservati appositi
spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro
quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione, configura norma
imperativa ed inderogabile, in correlazione degli interessi
pubblicistici da essa perseguiti, che opera non soltanto nel rapporto
fra il costruttore o proprietario di edificio e l’autorità competente
in materia urbanistica, ma anche nei rapporti privatistici
inerenti a detti spazi, nel senso di imporre la loro destinazione
ad uso diretto delle persone che stabilmente occupano le costruzioni
o ad esse abitualmente accedono».
(3) Cfr. Cass. civ., Sez. Un., 18 luglio 1989, n. 3363: «L’art. 41sexies
della L. 17 agosto 1942 n. 1150, nel testo introdotto dall’art.
18 della L. 6 agosto 1967 n. 765, il quale prescrive che nelle
nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni
stesse debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi
in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni
venti metri cubi di costruzione, pone un vincolo pubblicistico di
destinazione, che non può subire deroga negli atti privati di disposizione
degli spazi stessi, le cui clausole difformi sono perciò
sostituite di diritto dalla norma imperativa. Tale principio resta
immutato anche dopo l’entrata in vigore della L. 28 febbraio
1985 n. 47, atteso che l’art. 26, ultimo comma, di detta legge,
nello stabilire che gli spazi di cui all’art. 18 della L. 6 agosto
1967 n. 765 costituiscono pertinenze delle costruzioni ai sensi
degli artt. 817, 818 ed 819 c.c., non ha portata innovativa, ma
assolve soltanto alla funzione di esplicitare la regola, già evincibile
nella norma interpretata, secondo cui i suddetti spazi possono
essere oggetto di atti o rapporti separati, fermo però rimanendo
quel vincolo pubblicistico».
Urbanistica e appalti 3/2013 269

Opinioni
Edilizia e urbanistica
congestione del traffico e l’inurbamento ‘‘selvaggio’’
dei centri cittadini.
Più specificamente, la legge de qua ha previsto due
fattispecie di parcheggi incentivati, una prima a
mera iniziativa dei proprietari condomini di un fabbricato,
su aree private, ed una seconda, in raccordo
con il Comune, di tipo convenzionale, su aree
pubbliche da tramutare in diritto di superficie a favore
del condominio.
La prima fattispecie (commi 1-2-3 dell’art. 9) prevista
dalla legge dà facoltà ai proprietari di fabbricati
condominiali di poter realizzare, nel sottosuolo o
nei locali siti al pian terreno, quindi, sostanzialmente
in aree di pertinenza del complesso edilizio
preesistente, parcheggi da destinare al servizio delle
singole unità immobiliari (4).
La disposizione è stata in parte riscritta dall’art. 17,
comma 90, della L. n. 127 del 1997 e poi anche
dall’art. 37, comma 1, della L. n. 472 del 1999, tal
da risultare attualmente formulata come segue: «I
proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo
degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno
dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza
delle singole unità immobiliari, anche in deroga
agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati,
ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo
di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché,
non in contrasto con i piani urbani del traffico,
tenuto conto dell’uso della superficie sovrastante
e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici.
Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla
legislazione in materia paesaggistica ed ambientale
ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle
regioni e ai Ministeri dell’ambiente e per i beni culturali
ed ambientali da esercitare motivatamente
nel termine di 90 giorni. I parcheggi stessi ove i
piani del traffico non siano stati redatti, potranno
comunque essere realizzati nel rispetto delle indicazioni
di cui al periodo precedente».
La seconda fattispecie (comma 4 dell’art. 9) prevista
dalla legge Tognoli, nel testo modificato dall’art.
10, comma 2-ter, D.L 30 dicembre 1997 n.
457 conv., con mod., nella L. 27 febbraio 1998 n.
30, invece, consente ai comuni, previa determinazione
dei criteri di cessione del diritto di superficie
e su richiesta dei privati interessati o di società anche
cooperative appositamente costituite tra gli
stessi, di poter prevedere, nell’ambito del programma
urbano dei parcheggi, la realizzazione di parcheggi
da destinare a pertinenza di immobili privati
su aree comunali o nel sottosuolo delle stesse (5).
In ordine al regime giuridico degli spazi parcheggio
cd. incentivati, l’art. 9, comma 5, della legge Tognoli,
secondo la formulazione originaria, prevedeva
un vincolo inderogabile di accessorietà degli
stessi all’immobile principale, sancendo che: «I parcheggi
realizzati ai sensi del presente articolo non
possono essere ceduti separatamente dall’unità immobiliare
alla quale sono legati da vincolo pertinenziale.
I relativi atti di cessione sono nulli» (6).
In sostanza, nella predetta L. n. 122, veniva meglio
formulato expressis verbis quanto la giurisprudenza
aveva raggiunto, nella sua articolata elaborazione, a
proposito dell’art. 41-sexies della L. n. 1150, esplicitando
la inseparabilità della pertinenza-parcheggio
dall’unità abitativa principale e la nullità espressa
degli atti di alienazione in violazione di siffatta norma
imperativa.
Il vincolo di pertinenza necessaria
non vale per i parcheggi costruiti
in eccedenza rispetto al minimo
dello standard urbanistico
Quanto alla portata del limite di trasferibilità degli
spazi parcheggio, con opportuna precisazione, la
sentenza della Cassazione, Sez. Un., 15 giugno
2005 n. 12793 (7) ha pure chiarito che nessun vin-
Note:
(4) L’esecuzione delle opere e degli interventi è soggetta ad
autorizzazione gratuita. Qualora si tratti di interventi conformi
agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, l’istanza
per l’autorizzazione del Sindaco ad eseguire i lavori di intende
accolta qualora il Sindaco stesso non si pronunci nel termine di
60 giorni dalla data della richiesta. In tal caso il richiedente può
dar corso ai lavori dando comunicazione al Sindaco del loro inizio.
Successivamente (ex D.P.R. n. 380 del 2001, cd. T.U. edilizia),
il regime autorizzativo è divenuto quello della denuncia di
inizi attività o, facoltativamente, del permesso di costruire.
(5) La costituzione del diritto di superficie, ai sensi dell’art. 9,
comma 4, ult. parte, L. n. 122 del 1989, è subordinata alla stipula
di una convenzione nella quale siano previsti: a) la durata dalla
concessione del diritto di superficie per un periodo non superiore
a novanta anni; b) il dimensionamento dell’opera ed il piano
economico-finanziario previsti per la sua realizzazione; c) i tempi
previsti per la progettazione esecutiva, la messa a disposizione
delle aree necessarie e la esecuzione dei lavori; d) i tempi e le
modalità per la verifica dello stato di attuazione nonché le sanzioni
previste per gli eventuali inadempimenti.
(6) Cfr. Cass. civ., sez. II, 21 maggio 2003, n. 7963: «In tema di
urbanistica, la L. n. 122 del 1989 - recante disposizioni in materia
di parcheggi e di aree urbane maggiormente popolate - che,
nel raddoppiare la superficie minima obbligatoria degli spazi da
destinare ad aree di parcheggio delle nuove costruzioni, contempla
l’inderogabilità del vincolo pubblicistico di destinazione
come connotazione necessaria del rapporto pertinenziale, deve
ritenersi meramente confermativa di un principio desumibile già
dall’art. 41-sexies della L. n. 1150 del 1942, sì come introdotto
dall’art. 18 della L. n. 765 del 1967».
(7) Cass., Sez. Un., 15 giugno 2005, n. 12793, in Corr. Giur.,
2005, 10, 1393 ss. (con commento di V. Mariconda, Le Sezioni
(segue)
270 Urbanistica e appalti 3/2013

colo inderogabile sussiste per gli spazi parcheggio
costruiti in eccedenza rispetto all’indice minimo
imposto dalla legge, ribadendo, dunque, a contrario,
che siffatto vincolo di destinazione, comunque sia
qualificato di tipo pertinenziale (in senso urbanistico-edilizio,
più che civilistico), continua a sussistere
sicuramente per gli spazi minimi inderogabili previsti
dalla normativa edilizia ed urbanistica.
La pronuncia, che si apprezza per la completa e minuziosa
ricostruzione del pensiero giurisprudenziale
in materia, ha avuto il merito di aver posto in chiara
luce la valenza pubblicistica del vincolo di destinazione
e l’avvenuta coniazione in diritto della nozione
di ‘‘pertinenza ex lege’’, ossia di pertinenza necessaria
(in senso urbanistico), che riguarda esclusivamente
lo spazio standard stabilito dalla legge da riservarsi
all’interno delle costruzioni.
La rottura del sistema da parte
della L. 246 del 2005 per i parcheggi
di cui alla cd. legge ‘‘ponte’’
Quando tutto il sistema sembrava oramai abbastanza
consolidato, in materia di parcheggi privati, il legislatore,
con l’art. 12 (‘‘Disposizioni in materia di
atti notarili’’), comma 9, della L. 28 novembre
2005 n. 246, (8) ha inteso aggiungere un secondo
comma all’art. 41-sexies della legge urbanistica n.
1150 del 1942, con ciò realizzando, quel che è stato
definito ‘‘un brusco cambio di rotta’’, nel momento
in cui ha disposto che: «gli spazi per parcheggi realizzati
in forza del primo comma non sono gravati
da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti d’uso a
favore dei proprietari di altre unità immobiliari e
sono trasferibili autonomamente da esse».
L’interpretazione datane dalla giurisprudenza (9) -
dopo alcune incertezze - è però stata di segno limitativo,
in quanto la nuova disposizione è stata ritenuta,
conformemente ai canoni di ermeneutica generali
(art. 11 cd. preleggi), valevole soltanto per il futuro,
non costituendo affatto detta profonda innovativa
disposizione una norma interpretativa con efficacia
rivolta anche al passato. D’altro canto, è pur vero
che venendo in rilievo diritti reali, sulla cui base si
sono consolidate posizioni giuridiche soggettive stabili
tra i soggetti privati, non è apparso possibile modificarne
retroattivamente il regime giuridico di conformazione
e di circolazione della proprietà del bene.
(Segue) La rottura del sistema da parte
della L. 35 del 2012 per i parcheggi di cui
alla cd. legge ‘‘Tognoli’’
L’art. 10, comma 1, della L. n. 35 del 2012 ha, da
ultimo, riscritto l’intero comma 5 dell’art. 9 della L.
n. 122 (cd. legge Tognoli), nel modo che segue:
«Fermo restando quanto previsto dall’art. 41-sexies,
della L. 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni,
e l’immodificabilità dell’esclusiva destinazione
a parcheggio [...]», ossia quanto dottrina e
giurisprudenza hanno potuto elaborare in materia
di vincolo inderogabile ed incedibile a proposito
degli spazi parcheggio costruiti ab origine unitamente
al plesso edilizio come disposto dalla cd. legge
ponte del 1967, «[...] la proprietà dei parcheggi realizzati
a norma del comma 1 [...]», ossia quelli ‘‘privati’’
realizzati in base alle legge Tognoli del 1989,
«[...] può essere trasferita, anche in deroga a quanto
previsto nel titolo edilizio che ha legittimato la costruzione
e nei successivi atti convenzionali, solo
con contestuale destinazione del parcheggio trasferito
a pertinenza di altra unità immobiliare sita nello
stesso comune». Continua la disposizione nel
senso che invece «[...] I parcheggi realizzati ai sensi
del comma 4 [...]», cioè quelli ‘‘convenzionati’’ su
aree pubbliche destinate ad usi privati, «[...] non
possono essere ceduti separatamente dall’unità im-
Note:
(segue nota 7)
Opinioni
Edilizia e urbanistica
Unite limitano il regime vincolato dei parcheggi allo spazio minimo
richiesto dalla legge): «I parcheggi realizzati in eccedenza rispetto
allo spazio minimo richiesto dalla legge (art. 18 L. 6 agosto
1967, n. 765) non sono soggetti a vincolo pertinenziale a favore
delle unità immobiliari del fabbricato, con la conseguenza
che l’originario proprietario-costruttore del fabbricato può legittimamente
riservarsi, o cedere a terzi, la proprietà di tali parcheggi,
nel rispetto del vincolo di destinazione nascente da atto d’obbligo».
(8) Cfr. V. Mariconda, I parcheggi non sono più vincolanti, in
Corr. Giur., 2006, 2, 159 ss.
(9) Ex multis: Cass civ., sez II,. 24 febbraio 2006, n. 4264:
«L’art. 12, comma 9, della L. n. 246/2005, che all’art. 41-sexies
della L. n. 1150/1942 e successive modificazioni ha aggiunto il
seguente comma «gli spazi per parcheggi realizzati in forza del
comma 1 non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da
diritti d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono
trasferibili autonomamente da esse» è una norma non interpretativa
che deve intendersi destinata ad operare solo per il futuro,
e cioè per le costruzioni non ancora realizzate oppure per
quelle già realizzate ma per le quali non siano iniziate le vendite
delle singole unità immobiliari»; Cass. civ., sez. II, 18 agosto
2008, n. 21003: «La L. 28 novembre 2005, n. 246, all’art. 12,
comma 9, ha, poi, modificato la L. n. 1150 del 1942, art. 41-sexies,
aggiungendovi il comma 2, per effetto del quale ‘‘Gli spazi
per parcheggi realizzati in forza del primo comma non sono gravati
da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti d’uso a favore
dei proprietari di altre unità immobiliari e sono trasferibili autonomamente
da esse’’. La norma richiamata - che, come già chiarito
da questa Corte, trova applicazione soltanto per il futuro, vale
a dire per le sole costruzioni non realizzate o per quelle per le
quali, al momento della sua entrata in vigore, non erano ancora
state stipulate le vendite delle singole unità immobiliari (Cass.
24 febbraio 2006, n. 4264) - liberalizza, infine, il regime delle
aree destinate a parcheggio».
Urbanistica e appalti 3/2013 271

Opinioni
Edilizia e urbanistica
mobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale
e i relativi atti di cessione sono nulli, ad
eccezione di espressa previsione contenuta nella
convenzione stipulata con il comune, ovvero quando
quest’ultimo abbia autorizzato l’atto di cessione».
Se ne ricava, dunque, una disposizione maggiormente
flessibile, che però - a quel che pare - mantiene,
quale regime giuridico di base, sempre e comunque,
il vincolo tra parcheggio e immobile principale
di tipo pertinenziale e l’immodificabilità
quantomeno naturale della stessa destinazione a
parcheggio, salvo patto contrario condizionato e limitato
alle possibilità consentite dal legislatore della
novella.
In dettaglio, fermo restando il regime giuridico di
immodificabilità della destinazione a parcheggio di
cui all’art. 41-sexies della legge urbanistica (su cui
torneremo di seguito), la proprietà dei parcheggi su
aree condominiali private di cui al comma 1 (art. 9
legge Tognoli) può essere trasferita solo con contestuale
destinazione del parcheggio trasferito a pertinenza
di altra unità immobiliare sita nello stesso comune,
diversamente opinando persiste il vincolo
pertinenziale inderogabile di destinazione; mentre, i
parcheggi realizzati in diritto di superfiche ed in
convenzione di cui al comma 4 (sempre, art. 9 legge
Tognoli) non possono essere ceduti separatamente
dall’unità immobiliare alla quale sono legati
da vincolo pertinenziale e i relativi atti di cessione
sono nulli, ad eccezione di espressa previsione contenuta
nella convenzione stipulata con il comune,
ovvero quando quest’ultimo abbia successivamente
autorizzato l’atto di cessione.
Sembra che il legislatore abbia, in pratica, previsto
una limitata possibilità di condizionata trasferibilità
del bene, a patto che evidentemente il carico stradale
di traffico automobilistico non comprometta il
tessuto urbanistico della zona e, per questo motivo,
la trasferibilità dello spazio parcheggio è limitato e
condizionato in maniera incisiva.
Qualificazione condominiale
del parcheggio nell’edificio
Una ulteriore precisazione, nella sistematica della
disciplina delle aree parcheggio, è quella secondo
cui la giurisprudenza prevalente e sicuramente quella
più recente qualifica detta tipologia di area quale
porzione interna dell’edificio rientrante nelle parti
comuni alla stregua degli ambienti citati in via
esemplificativa dall’art. 1117 c.c. (10).
Trattasi di presunzione valida iuris tantum, ogni
qual volta non si abbiano a disposizione elementi
concreti per sostenere il contrario, da rintracciarsi
nel titolo edilizio o nel titolo di proprietà del bene.
Tale conclusione è sicuramente vera ogni qual volta,
per l’appunto, dal titolo dell’atto non emerga
una specifica e diversa volontà di destinazione della
porzione di fabbricato (come quasi sempre avviene
per i cd. box-auto) a proprietà esclusiva e di pertinenza
(ossia a servizio) del bene principale (in genere,
un appartamento del complesso residenziale).
Laddove non soccorra chiaramente il titolo, invece,
l’area di parcheggio (come talvolta, ma non sempre,
accade per le autorimesse) è da ritenersi parte comune
insieme alle corsie di scorrimento e canalizzazione
dell’accesso all’area di parcheggio.
In tale direzione, si esprime oggi espressamente il
nuovo art. 1117, comma 1, lett. b), c.c., come novellato
dalla L. 11 dicembre 2012 n. 220, recante
‘‘Modifiche alla disciplina del condominio negli
edifici’’, che annovera specificamente «le aree destinate
a parcheggio» tra le parti oggetto di «proprietà
comune» dei proprietari delle singole unità
immobiliari dell’edificio «se non risulta il contrario
dal titolo».
Nel caso, invece, di edificazione di parcheggi pertinenziali
esterni al plesso condominiale, si parla frequentemente
di instaurazione di un diritto di servitù,
con asservimento dell’area esterna di parcheggio
al fabbricato condominiale viciniore.
Quanto alla maggioranza utile a deliberare, in ordine
alla realizzabilità di parcheggi pertinenziali, va
ricordato che, a sensi del comma 3 della L. n. 122
del 1989, le deliberazioni, che hanno per oggetto la
Nota:
(10) Così Cass. civ., sez. II, 28 gennaio 2000, n. 982: «Gli spazi
destinati a parcheggio, previsti per le nuove costruzioni dall’art.
18 della L. n. 765 del 1967, sono, in forza di un vincolo di destinazione
di natura pubblicistica, riservati all’uso diretto delle persone
che stabilmente occupano le singole unità immobiliari e
costituiscono parti comuni dell’edificio ai sensi dell’art. 1117
c.c., quando appartengono in comunione ai singoli condomini,
ovvero oggetto di un diritto reale d’uso spettante a ciascun condomino,
quando proprietari siano terzi o alcuni soltanto dei condomini;
qualora l’originario proprietario-costruttore abbia ceduto
a ciascun acquirente la comproprietà in comune con gli altri delle
aree destinate a parcheggio, il successivo acquisto di un’unità
immobiliare e della quota di comproprietà delle parti comuni, attribuisce
all’acquirente la qualità di condomino su tutte le stesse
e quindi anche il paritetico diritto d’usufruire dell’area di parcheggio,
a nulla rilevando l’eventuale insufficienza di questa rispetto
alle complessive esigenze del condominio, la quale può
dar luogo a un diritto al risarcimento del danno nei confronti del
costruttore ed è regolata dalle norme sull’uso della cosa comune
nei rapporti tra condomini». Nello stesso senso, ex multis,
cfr. Cass. civ., sez. II, 3 aprile 1998, n. 3422; Cass. civ., sez. II,
20 luglio 1987, n. 6365 e Cass., Sez. Un., 17 dicembre 1984,
nn. 6600-6601-6602.
272 Urbanistica e appalti 3/2013

ealizzazione di parcheggi sono approvate dall’assemblea
del condominio, in prima o in seconda
convocazione, con la maggioranza prevista dall’art.
1136, comma 2, c.c., ossia con una maggioranza
che rappresenti almeno la metà dei valori di proprietà
delle unità abitative e la maggioranza numerica
delle persone intervenute in assemblea, fermo
restando quanto disposto dagli artt. 1120, comma
2, e 1121, comma 3, c.c., in materia di divieto di
innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità
o alla sicurezza del fabbricato, o che ne alterino
il decoro architettonico, e di facoltà imperitura
a partecipare alla precedente innovazione, cui il
singolo condomino sia invece rimasto ab origine
escluso, previa contribuzione alle relative spese.
L’art. 17, comma 90, della L. n. 127 del 1997 (cd.
Bassanini bis) ha poi meglio precisato l’ambito di
applicabilità del decisum assembleare, aggiungendo
l’inciso «salvo che si tratti di proprietà non condominiale».
Mentre, l’art. 5 della L. 11 dicembre 2012 n. 220
ha introdotto, dopo il primo comma dell’art. 1120
c.c., ulteriori disposizioni, secondo le quali, i condomini,
con la maggioranza indicata dal comma 2
dell’art. 1136 c.c., ossia pari ad almeno la metà dei
valori di proprietà delle unità abitative, con la maggioranza
numerica delle persone intervenute in assemblea,
possono disporre le innovazioni, che hanno
ad oggetto, tra l’altro: «2) le opere e gli interventi
[...] per realizzare parcheggi destinati a servizio
delle unità immobiliari o dell’edificio [...]», con ciò
ribadendo, questa volta, in via generale per tutti i
casi, un regime semplificato per la costruzione di
aree parcheggio di tipo privato condominiale.
Vicende traslative inter vivos
e mortis causa degli spazi parcheggio
La giurisprudenza tradizionale, maturata sulla impostazione
originaria dei testi normativi in discussione,
è pacifica nel ritenere che l’atto di alienazione
del parcheggio separatamente dal bene principale
costituisca una violazione di legge inderogabile sanzionata
dalla nullità (virtuale) parziale, ai sensi dell’art.
1418 c.c., dell’atto traslativo, cui consegue
l’integrazione degli effetti, ai sensi dell’art. 1419,
comma 2, c.c., di questo con la costituzione automatica
perlomeno di un diritto reale d’uso a favore
del nuovo proprietario del bene principale, proprio
al fine di non rescindere l’immodificabile asservimento
del parcheggio derivante dal vincolo pubblicistico
di destinazione (11).
Inoltre, il vincolo di destinazione a parcheggio a
Opinioni
Edilizia e urbanistica
servizio del bene principale, già in virtù di quanto
dispone in linea generale l’art. 818 c.c., (12) rimane
fermo anche nel caso di stipulazione di altre tipologie
di contratto, come sovente avviene in ipotesi
di locazione del bene immobile. Sul punto, secondo
la giurisprudenza preferibile, (13) la locazione
del bene immobile secondario (lo spazio-parcheggio)
deve essere congiunta alla locazione del
bene principale (ossia l’appartamento di abitazione),
in quanto ne è necessaria pertinenza, pur se il
godimento del bene di pertinenza non sia stato
espressamente menzionato nel contratto di locazione.
Non è poi da dubitare che, in ipotesi di successione
mortis causa (anche testamentaria), l’area di parcheggio
segua l’immobile principale, ogni qual volta
non sussista una espressa disposizione in merito,
determinando una eventuale disposizione testamentaria
nella direzione della destinazione dell’area di
parcheggio alla proprietà di alcuno soltanto degli
eredi, per converso la costituzione di un diritto rea-
Note:
(11) Ex pluris, cfr. Cass. civ., sez. II, 18 aprile 2000 n. 4977: «In
tema di contratto di compravendita di immobili cui sia stata illegittimamente
sottratta la superficie destinata ‘‘ex lege’’ ad area
di parcheggio, l’integrazione del contratto di compravendita parzialmente
nullo - che si attua mediante il riconoscimento del diritto
d’uso in favore dell’acquirente, ed il corrispondente riconoscimento
del diritto al corrispettivo in favore dell’alienante - avviene,
quanto, in particolare, al riconoscimento del corrispettivo,
‘‘ope legis’’ quanto all’"an’’, ed ‘‘ope iudicis’’ con riferimento al
‘‘quantum’’ (ove sorga contestazione sul soggetto titolare dell’attribuzione
ovvero sull’ammontare della liquidazione), con la
conseguenza che, in quest’ultimo caso, il riequilibrio ‘‘ope iudicis’’
del corrispettivo originariamente pattuito ben può avvenire
in un separato giudizio»; Cass. civ., sez. II, 23 marzo 2004, n.
5755: «In tema di urbanistica, qualora il costruttore di un edificio
proceda alla vendita separata delle singole unità abitative rispetto
alle relative alle aree accessorie, la violazione o l’elusione del
vincolo pubblicistico di destinazione a parcheggio delle aree predette
(imposto dall’art. 18 della L. n. 765 del 1967) determina la
nullità delle relative clausole contrattuali, contenute negli atti di
vendita degli alloggi, la loro sostituzione con la disciplina legale,
il conseguente riconoscimento di un diritto reale d’uso a vantaggio
dei proprietari delle singole unità abitative».
(12) A norma dell’art. 818, comma 1, c.c.: «Gli atti e i rapporti
giuridici che hanno per oggetto la cosa principale comprendono
anche le pertinenze, se non è diversamente disposto».
(13) In tal senso, cfr. Cass. civ., sez. III, 3 ottobre 2005, n.
19308: «Il diritto del proprietario di una unità immobiliare all’uso
dell’area predisposta per il parcheggio degli autoveicoli, secondo
la disciplina dell’articolo 41-sexies della legge urbanistica e di
quella successiva (in particolare, art. 26, comma 4, della L. n. 47
del 1985) deve necessariamente essere trasferito, in caso di locazione,
al conduttore, alla stregua della stretta inerenza del diritto
stesso all’effettiva utilizzazione dell’immobile secondo la
sua destinazione, con la conseguenza - pertanto - che il contratto
di locazione il quale escluda tale trasferimento è affetto da
nullità parziale, determinandosi ope legis il trasferimento medesimo».
Urbanistica e appalti 3/2013 273

Opinioni
Edilizia e urbanistica
le d’uso a favore del coerede che abbia ereditato altra
porzione del fabbricato.
La posizione attuale della giurisprudenza
In generale, v’è da dire che, nei limiti della vigente
legislazione, l’interpretazione della prevalente giurisprudenza
(da ultimo, cfr. Cass. civ., sez. II, 27 gennaio
2012 n. 1214) (14) è rimasta sostanzialmente
ferma nel vedere negli spazi parcheggio, sia ex art.
41-sexies L. n. 1150 cit. come introdotto dalla cd.
legge ponte (cioè costruiti ab origine nel complesso
condominiale), che ex L. n. 122 cit. ossia cd. legge
Tognoli (cioè costruiti ex post), sempre è comunque
delle aree di tipo pertinenziale, (rectius di tipo ‘‘accessorio’’),
più in senso urbanistico-edilizio, che in
senso (solo) civilistico, all’immobile principale cui
sono destinate naturaliter a servizio ed ornamento
in maniera tendenzialmente immodificabile, comportando
comunque l’eventuale alienazione separata
a terzi, perlomeno la permanenza di un diritto
reale d’uso in capo al venditore titolare del bene
principale già utilizzatore delle predette aree.
Talché, con ottica parzialmente chiarificatrice, il
legislatore è nuovamente tornato in materia, con la
recente L. 4 aprile 2012, n. 35 di conversione, con
modificazioni, del D.L. 9 febbraio 2012 n. 5 recante
‘‘Disposizioni urgenti in materia di semplificazione
e di sviluppo’’, il cui art. 10 espressamente rubricato
non a caso ‘‘Parcheggi pertinenziali’’ ha previsto
che: «L’art. 9, comma 5, della L. 24 marzo 1989, n.
122, è sostituito dal seguente: ‘‘5. Fermo restando
quanto previsto dall’art. 41-sexies, della L. 17 agosto
1942, n. 1150, e successive modificazioni, e l’immodificabilità
dell’esclusiva destinazione a parcheggio
[...]’’».
Permane il vincolo pubblicistico
di destinazione
Seppure con lessico non impeccabile, che ha aperto
diverse divergenze interpretative (15), è però chiaro
l’intento, presente nella L. n. 35 del 2012, di voler
comunque ribadire l’esistenza di un vincolo inderogabile
pubblicistico, tendenzialmente immodificabile,
di pertinenza dell’area parcheggio nei confronti
dell’immobile principale. Deve poi ritenersi
che detto peculiare vincolo sussista in tutti i casi,
non avendo peraltro molto senso logico-giuridico
trattare in modo separato i parcheggi di cui alla legge
ponte (ossia edificati ab origine con la palazzina)
da quelli di cui alla legge Tognoli (ossia edificati ex
post a servizio di palazzine magari prive di parcheggi)
ed essendo chiara la ratio legis, sia della legge cd.
ponte del 1967, che della legge cd. Tognoli del
1989, di voler disciplinare l’impatto edilizio sul territorio,
in modo funzionale e coerente con le esigenze
sia di pianificazione razionale dell’assetto urbanistico,
sia di decongestionamento della circolazione
stradale.
Difatti, se l’esordio della nuova disposizione recita:
«Fermo restando quanto previsto dall’art. 41-sexies,
della L. 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni,
e l’immodificabilità dell’esclusiva destinazione
a parcheggio [...]», con riferimento ai cd. parcheggi
ab origine, ai sensi della legge ponte, la parte
seguente della stessa disposizione ha, invece, riguardo
ai parcheggi costruiti ex post disciplinati specificamente
dalla legge Tognoli e stabilisce che: «la
proprietà dei parcheggi realizzati a norma del comma
1», ossia in aree private «può essere trasferita,
anche in deroga a quanto previsto nel titolo edilizio
[...], solo con contestuale destinazione del parcheggio
trasferito a pertinenza di altra unità immobiliare
sita nello stesso comune»; mentre, «I parcheggi realizzati
ai sensi del comma 4», ossia in diritto di superficie
ed in convenzione con il comune: «non
possono essere ceduti separatamente dall’unità immobiliare
alla quale sono legati da vincolo pertinenziale
e i relativi atti di cessione sono nulli, ad
eccezione di espressa previsione contenuta nella
convenzione stipulata con il comune, ovvero quando
quest’ultimo abbia autorizzato l’atto di cessione».
Torna, in questa ultima parte, un richiamo espresso
al vincolo di pertinenza ed alla incedibilità assoluta
a pena di nullità. L’asimmetria delle due parti (iniziale
e finale) della disposizione è poco comprensibile,
oltreché sicuramente inopportuna.
Forse il legislatore ha ritenuto implicito il vincolo
di pertinenza o, comunque sia, di immodificabilità
per i parcheggi costruiti ab origine all’interno di un
compendio edilizio assentito nel suo complesso da
Note:
(14) Da ultimo, cfr. Cass. civ., sez. II, 27 gennaio 2012, n. 1214:
«La speciale normativa urbanistica, dettata dall’art. 41-sexies
della L. n. 1150 del 1942, introdotto dall’art. 18 della L. n. 765
del 1967, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione,
la destinazione obbligatoria di appositi spazi a parcheggi,
in misura proporzionale alla cubatura totale dell’edificio, determinando,
mediante tale vincolo di carattere pubblicistico, un diritto
reale d’uso sugli spazi predetti a favore di tutti i condomini dell’edificio,
senza imporre all’originario costruttore alcun obbligo di
cessione in proprietà degli spazi in questione».
(15) Sulle innumerevoli questioni interpretative, che si dischiudono,
a seguito del D.L. n. 5 del 2012, conv., con mod., nella L.
n. 35 del 2012, cfr. il commento di F. Magliulo, La nuova disciplina
degli atti di trasferimento dei parcheggi nel cd. ‘‘decreto
Semplificazioni’’, inIcontratti, Milano, 2012, 7, 600 ss.
274 Urbanistica e appalti 3/2013

un apposito permesso di costruire (già concessione
edilizia) dotato di certe caratteristiche, abbastanza
chiaro nel testo di cui al comma 1 dell’art. 41-sexies
della legge urbanistica, nei limiti in cui è stato interpretato
dalla giurisprudenza. Mentre, per i parcheggi
edificati ex post, che sono incentivati dalla
legge ponte, ha sentito il bisogno di apprestare un
maggior dettaglio nella proposizione normativa.
Si può allora ben parlare di vincolo pubblicistico, il
quale costituisce una fattispecie tipica di limitazione
legale al diritto di proprietà, che, come statuito
dalla nota nozione del codice civile (art. 832 c.c.),
consiste nel potere di godere e di disporre dei beni,
per l’appunto entro i limiti e con gli obblighi stabiliti
dall’ordinamento giuridico.
È per quest’ultima fondamentale regola che può
ben dirsi che i parcheggi di pertinenza dei complessi
immobiliari costituiscano pertinenza, nel senso di
spazi ad uso privato cd. secondari, sottoposti ad un
peculiare vincolo di accessorietà di indole pubblicistica,
funzionale al migliore godimento del bene cd.
principale, epperò nell’interesse non tanto e non
solo del privato, ma soprattutto nell’interesse pubblico
a non gravare, sotto il profilo dell’impatto urbanistico,
sugli spazi pubblici circostanti al predetto
compendio edilizio, motivo per cui è stato necessario
imporre il particolare regime vincolistico di circolazione
del bene di pertinenza in questione, elidendo
la facoltà di piena ed incondizionata disponibilità.
Tipologie di parcheggio
Per quanto finora detto, classificare le tipologie di
parcheggio esistenti nella normativa vigente non è
affatto facile, in quanto esiste una stratificazione delle
disposizioni normative poco esplicativa, a cui si è
accompagnata una giurisprudenza che ha sempre
cercato di mantenere ferma la ratio ispiratrice della
previsione normativa di obbligatoria riserva di appositi
spazi adibiti a parcheggio, che è quella data dalla
funzione pubblica regolatrice urbanistica ed edilizia.
Parte della dottrina ha proposto una tripartizione
tra: parcheggi liberi, quelli costruiti prima della legge
ponte del 1967, parcheggi obbligatori, sanciti per l’appunto,
nelle nuove costruzioni, dopo la legge ponte,
ed infine parcheggi facoltativi, introdotti dalla legge
Tognoli del 1989.
In virtù di quanto finora esposto e della evoluzione
(alquanto tortuosa) della normativa, appare preferibile
pensare ad una tripartizione di diverso tipo,
che descrive le seguenti categorie fondamentali di
parcheggi.
Opinioni
Edilizia e urbanistica
– Parcheggi pertinenziali liberi. Si tratta dei parcheggi
costruiti prima dell’entrata in vigore della legge
ponte n. 765 del 1967 (18 settembre 1967) per i
quali non sussistono vincoli di diritto pubblico alla
trasferibilità separata dal bene principale e il cui regime
è sicuramente quello di pertinenza in senso civilistico,
come disciplinata ai sensi degli artt. 817-
818-819 c.c. Per cui la destinazione del parcheggio
segue normalmente l’immobile principale, a meno
che nel titolo non venga disposto diversamente.
– Parcheggi pertinenziali necessari, con vincolo assoluto.
Sono i parcheggi disciplinati dall’art. 41-sexies
della L. n. 1150 del 1947, per come interpretata in
modo uniforme dalla giurisprudenza della Cassazione,
dal 18 settembre 1967 (entrata in vigore della
L. n. 765) al 16 dicembre 2005 (entrata in vigore
della L. n. 246), sulla cui base sono stati regolati
rapporti inerenti diritti reali, per i quali sussiste un
vincolo inderogabile di destinazione a pertinenza.
Rientrano pure in detta categoria tutti i parcheggi
costruiti, successivamente alla edificazione del fabbricato,
ai sensi dell’art. 9 legge Tognoli del 1989
(entrato in vigore il 7 aprile 1989), ante riforma
operata dal D.L. 9 febbraio 2012 n. 5 conv., con
mod., nella L. 4 aprile 2012, n. 35, ossia prima del
10 febbraio 2012 (entrata in vigore del D.L. n. 5
del 2012, conv. in L. n. 35 del 2012). In questi casi,
la destinazione dello spazio a parcheggio - a quel
che pare - segue sempre l’immobile principale e
non è possibile alcuna deroga, risultando peraltro
nulla ogni pattuizione contraria.
– Parcheggi pertinenziali necessari, con vincolo flessibile.
Sono i parcheggi costruiti ab origine, in regime di art.
41-sexies della legge urbanistica, però dopo l’art. 12,
comma 9, della L. 28 novembre 2005 n. 246 (entrato
in vigore il 16 dicembre 2005), nonché quelli di
cui alla cd. legge Tognoli, ossia quelli costruiti ad arricchimento
di un fabbricato già esistente, realizzati
però successivamente alla recente riforma di cui all’art.
10 del D.L. 9 febbraio 2012 n. 5 (entrato in vigore
il 10 febbraio 2012) conv., con mod., nella L.
4 aprile 2012, n. 35 (entrato in vigore il 7 aprile
2012), per i quali pure è stato introdotto un regime
di parziale flessibilità circa la commerciabilità nei
termini sopra esposti. La destinazione a parcheggio
dello spazio a ciò riservato è, in questa ultima ipotesi,
alienabile (parzialmente ed a determinate condizioni)
separatamente dal bene principale.
Criticità dell’attuale assetto normativo
È abbastanza evidente che il quadro alquanto complesso
e disorganico dell’attuale disciplina in mate-
Urbanistica e appalti 3/2013 275

Opinioni
Edilizia e urbanistica
ria di parcheggi privati, unitamente ad una pure
pessima formulazione dei testi normativi, aggravata
dall’assenza di un efficace regime di pubblicità, inducano
molte incertezze negli operatori, oltreché
facile confusione e fraintendimenti, circa il regime
di commerciabilità di una data tipologia di beni, i
parcheggi pertinanziali dei fabbricati, che getta non
poco sconcerto.
Non appare possibile far dipendere la commerciabilità
di un bene, a seconda del tempo della sua realizzazione,
e, soprattutto, a seconda dell’origine normativa
od autorizzativa della sua costruzione.
A sommesso parere di chi scrive, con reale intento
di semplificazione, è necessario tornare alle origini
e stabilire, per tutti i casi, un regime di nesso inscindibile,
di valenza pubblicistica, tra porzione di
fabbricato (in genere, l’unità abitativa) e la pertinenza
costituita dallo spazio-parcheggio a cui servizio
è stato realizzato, tendenzialmente stabile ed
univoco, per ragioni di disciplina dell’urbanizzazione
e di regolazione del traffico delle autovetture.
Queste essendo evidentemente le motivazioni poste
dal legislatore fin dal lontano 1967 con la legge
ponte che ha voluto inserire, non a caso, nella fondamentale
legge urbanistica del 1942 n. 1150, ancora
vigente, l’art. 41-sexies, comma 1, prevedendo
che in tutte le nuove costruzioni si provvedesse a
riservare, in un prefissato rapporto percentuale,
adeguati spazi parcheggio, fruibili evidentemente
proprio dai proprietari delle relative unità abitative.
Tale essendo - secondo la nostra opinione - ancora
la ratio legis, che l’art. 10, peraltro espressamente rubricato
‘‘Parcheggi pertinenziali’’, del D.L. 9 febbraio
2012 n. 5 conv., con mod., nella L. 4 aprile
2012, n. 35, sottende nel momento in cui, introducendo
il nuovo regime flessibile di condizionata e
parziale trasferibilità per i parcheggi ex lege Tognoli,
statuisce che resti fermo: «[...] quanto previsto dall’art.
41-sexies, della L. 17 agosto 1942, n. 1150, e
successive modificazioni, e l’immodificabilità dell’esclusiva
destinazione a parcheggio [...]», devesi procedere
ad un ridisegno complessivo della materia,
improntato a canoni di semplificazione e di chiarezza
del regime giuridico, che non può subire variazioni
in tema, a seconda della fonte normativa di
cognizione, oppure della circostanza che trattasi di
spazi parcheggio originari o susseguenti alla realizzazione
della costruzione.
De jure condendo, l’opzione che preferiamo è quella
nel senso di statuire, con una norma chiara ed univoca,
un vincolo di pertinenza necessaria tra l’unità
abitativa e lo spazio-parcheggio, sia per le nuove
costruzioni, sia in ipotesi di realizzazione successiva
di aree-parcheggio a servizio di unità abitative preesistenti.
La eventuale cessione separata della pertinenza
adibita a parcheggio (privato) deve essere
sempre sanzionata da nullità. Ciò in quanto permane
l’esigenza pubblicistica urbanistica ed edilizia
delle origini di non far gravare sulle pubbliche strade
l’eccessivo permanente posizionamento di automobili
o, comunque sia, di mezzi di trasporto privati.
In ultima analisi, val la pena osservare che, in simili
materie, l’opinione - tenendo conto del costrutto
normativo stratificatosi, della evoluzione laboriosa
della giurisprudenza e delle esigenze di impatto urbanistico
- deve necessariamente lasciare il campo
ad alquanto auspicabili chiare ed inequivocabili disposizioni
normative di facile fruizione da parte del
mercato; al contrario, la L. 4 aprile 2012 n. 35, pur
icasticamente intitolata ‘‘Disposizioni urgenti per la
semplificazione e lo sviluppo’’, sul punto, non appare
affatto aver né semplificato, né contribuito allo
sviluppo economico, il quale ultimo invece abbisogna
di fattori certi.
Certo è invece che si è persa, ancora una volta,
una occasione formidabile per fare nella materia
chiarezza definitiva, con univoche disposizione di
sistema, che sono, a questo punto, quanto mai indispensabili.
276 Urbanistica e appalti 3/2013

Responsabilità
Il nuovo quadro normativo
della responsabilità solidale
negli appalti pubblici
di Giuseppe Fabrizio Maiellaro
Il ‘‘mosaico’’ di norme chiamate a disciplinare la responsabilità solidale dei soggetti coinvolti a vario titolo
nel ciclo produttivo degli appalti ha conosciuto, nel corso del 2012, una ulteriore e sensibile evoluzione, addivenendo
ad un nuovo e mutato assetto che, se per alcuni versi appare maggiormente incisivo e congruente
sotto il profilo della tutela della sicurezza e delle condizioni sociali ed economici dei lavoratori, per
altri risulta di ancor più complessa e delicata interpretazione ed applicazione.
Ciò soprattutto in ragione delle modifiche ed integrazioni apportate alle norme principali e maggiormente
determinative della regolazione della materia dai provvedimenti di carattere urgente adottati negli scorsi mesi
dal Governo, in tema di semplificazione delle procedure, crescita e sviluppo del Paese nonché nell’ambito
della recente e dibattuta riforma del mercato del lavoro.
La presente indagine si propone dunque di offrire un primo ed organico sguardo d’insieme sul rinnovato
quadro normativo che allo stato attuale è chiamato a disciplinare la responsabilità solidale, con particolare
attenzione al settore dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, procedendo con l’esame delle
principali disposizioni in materia - dapprima partitamente e poi nel loro insieme coordinato - ed evidenziandone
origine, connotati, finalità ed operatività.
Brevi cenni introduttivi sulla materia
e sulle novità legislative del 2012
Come noto, in tema di sicurezza e tutela economica
e sociale dei lavoratori negli ultimi anni il legislatore
ha concentrato la propria attenzione sul settore
degli appalti, con l’intento di regolare e poi rafforzare
il coinvolgimento delle parti del rapporto trilatero
che sgorga dal vincolo contrattuale - sia con riguardo
al contratto principale di appalto che a
quello derivato di subappalto - assoggettandole ad
un regime di responsabilità solidale il quale si è via
via esteso su più fronti, a salvaguardia dei diritti dei
prestatori di lavoro coinvolti nel ciclo produttivo.
Ne è derivato un quadro normativo di riferimento
assai composito ed articolato che, a partire dal nucleo
della disciplina generale del codice civile, ha
poi conosciuto significative evoluzioni e modifiche
nel settore della contrattualistica pubblica fino a
quelle di più recente introduzione.
La materia, come anticipato, soltanto nell’ultimo
anno è stata difatti assoggettata ad ulteriori e numerose
modifiche legislative, che hanno conferito ancora
una volta una nuova sistemazione alla discipli-
Opinioni
Appalti e lavori pubblici
na di che trattasi, mutandone sensibilmente connotati
e riflessi operativi. Segnatamente, nel solo
2012 sono stati adottati i seguenti provvedimenti
di modifica ed integrazione delle norme in argomento:
– il D.L. 9 febbraio 2012, n. 5 - recante ‘‘Disposizioni
urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo’’,
e poi convertito con modificazioni in legge
4 aprile 2012, n. 35 - all’art. 21, comma 1, ha modificato
l’art. 29, comma 2, del D.Lgs. 10 settembre
2003, n. 276 (cd. ‘‘Legge Biagi’’);
– ancor più di recente, da ultimo, l’art. 4, comma
31, lett. a) e b), della L. 28 giugno 2012, n. 92 - recante
‘‘Disposizioni in materia di riforma del mercato
del lavoro in una prospettiva di crescita’’ (cd.
‘‘Riforma Fornero’’ del mercato del lavoro) - ha
modificato ulteriormente il citato art. 29, comma 2,
del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276;
– il D.L. 2 marzo 2012 n. 16 - recante ‘‘Disposizioni
urgenti in materia di semplificazioni tributarie,
di efficientamento e potenziamento delle procedure
di accertamento’’ poi convertito, con modificazioni,
in L. 26 aprile 2012, n. 44 - all’art. 2, comma 5-bis,
Urbanistica e appalti 3/2013 277

Opinioni
Appalti e lavori pubblici
ha modificato l’art. 35, comma 28, del D.L. 4 luglio
2006, n. 223 (convertito, con modificazioni, dalla
L. 4 agosto 2006, n. 248) (cd. ‘‘Decreto Bersani’’);
– da ultimo, il medesimo art. 35, comma 28, è stato
ulteriormente modificato ad opera dell’art. 13-ter
del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, recante ‘‘Misure urgenti
per la crescita del Paese’’, poi convertito con
modificazioni in L. 7 agosto 2012, n. 134 (segnatamente
l’articolo è stato inserito in sede di conversione
dall’art. 1, comma 1, della predetta L. n. 134/
2012).
Ciò posto, si provvederà in appresso a disaminare e
ricapitolare le disposizioni di legge che costituiscono
le ‘‘tessere’’ fondamentali di questo mosaico normativo,
al fine di comprenderne meglio ad oggi la
portata nonché i margini operativi ed eventualmente
critici.
L’art. 1676 codice civile
Va anzitutto rammentato, quale disciplina codicistica
di taglio generale, l’art. 1676 c.c. - rubricato ‘‘Diritti
degli ausiliari dell’appaltatore verso il committente’’
- il quale dispone che «coloro che, alle dipendenze
dell’appaltatore, hanno dato la loro attività
per eseguire l’opera o per prestare il servizio
possono proporre azione diretta contro il committente
per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla
concorrenza del debito che il committente ha verso
l’appaltatore nel tempo in cui essi propongono la
domanda».
Siffatta previsione, come si vede, non opera espressamente
un distinguo sulla natura dei soggetti cui si
riferisce, e perciò si ritiene applicabile nei confronti
di qualsiasi committente, di natura pubblica o privata,
anche ove questo non svolga attività di impresa.
Può altresì evidenziarsi che l’azione proponibile da
parte dei lavoratori dipendenti ivi disciplinata non
soffre specifiche limitazioni di tempo, bensì limiti
quantitativi, nella misura in cui essi possono far valere
le proprie pretese «(...) fino alla concorrenza
del debito che il committente ha verso l’appaltatore
nel tempo in cui essi propongono la domanda».
Deve poi segnalarsi, in proposito, che secondo recente
giurisprudenza tale azione di tutela è esperibile
anche da parte dei dipendenti del subappaltatore
nei confronti del sub committente (1).
Tale disposizione del codice civile costituisce in
materia, lo si è già accennato, una norma generale
e di chiusura, chiamata ad operare oggi nelle ipotesi
in cui non risultino applicabili le speciali previsioni
introdotte nel comparto degli appalti pubblici.
L’art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003
e s.m.i. (cd. ‘‘Legge Biagi’’)
Sempre nel solco della tutela dei lavoratori e dello
sviluppo normativo di specifiche ed idonee garanzie
a tale scopo, con l’avvento della riforma del mercato
del lavoro di cui al citato D.Lgs. n. 276/2003, è
stata altresì introdotta una specifica obbligazione di
garanzia posta a carico dei professionisti o delle società
committenti di opere o servizi per gli emolumenti
dovuti ai propri dipendenti dalle società appaltatrici.
Segnatamente, una volta abrogata la L. 23 ottobre
1960, n. 1369 recante disposizioni in materia di
‘‘Divieto di intermediazione ed interposizione nelle
prestazioni di lavoro, e nuova disciplina dell’impiego
della mano d’opera negli appalti di opere e servizi’’
(2), l’art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003 -
dopo aver chiarito all’uopo al comma 1 la distinzione
tra il contratto di appalto ex art. 1655 c.c. e
quello di somministrazione di lavoro (3) - ha sancito
la responsabilità in solido del committente imprenditore
o datore di lavoro con l’appaltatore per
gli adempimenti di legge circa il trattamento retributivo
e contributivo dei lavoratori - laddove per
‘‘lavoratori’’, come recentemente illustrato dal Ministero
del lavoro e delle politiche sociali, devono
intendersi non soltanto i lavoratori subordinati
strictu sensu «(...) ma anche altri soggetti impiegati
nell’appalto con diverse tipologie contrattuali (ad
Note:
(1) V. Cass., 19 marzo 2008, n. 7384, in A. Cianflone, M. Giovannini,
L’appalto di opere pubbliche, Milano, 2012, 1748.
(2) Si rammenta in proposito che l’art. 3 della citata previgente
L. n. 1369/1960 - abrogata dall’art. 85 del citato D.Lgs. n. 276/
2003 - conteneva un primo nucleo di previsioni in tema di tutela
dei lavoratori mediante la responsabilità solidale di che trattasi.
Con una portata assai più ampia rispetto all’art. 1676 c.c., difatti,
l’art. 3 in parola stabiliva che «gli imprenditori che appaltano
opere o servizi, compresi i lavori di facchinaggio, di pulizia e di
manutenzione ordinaria degli impianti, da eseguirsi nell’interno
delle aziende con organizzazione e gestione propria dell’appaltatore,
sono tenuti in solido con quest’ultimo a corrispondere ai lavoratori
da esso dipendenti un trattamento minimo inderogabile
retributivo e ad assicurare un trattamento normativo, non inferiore
a quelli spettanti ai lavoratori da loro dipendenti.(...). Gli imprenditori
sono altresì tenuti in solido con l’appaltatore, relativamente
ai lavoratori da questi dipendenti, all’adempimento di tutti
gli obblighi derivanti dalle leggi di previdenza ed assistenza».
(3) In particolare, il comma 1 del citato art. 29 oggi vigente stabilisce
che «ai fini della applicazione delle norme contenute nel
presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato
ai sensi dell’art. 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione
di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari
da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle
esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio
del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori
utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione, da parte
del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa».
278 Urbanistica e appalti 3/2013

es. collaboratori a progetto e associati in partecipazione)
(...) anche con riferimento ai lavoratori ‘‘in
nero’’, ossia i lavoratori ‘‘non risultanti dalle scritture
o altra documentazione obbligatoria’’» (4).
Tale norma, peraltro, nel corso degli anni è stata
soggetta a significative modifiche ed integrazioni da
parte del legislatore, tese precipuamente a specificare
e rafforzare il perimetro e le garanzie di tutela disposte
nell’ambito del ciclo produttivo di che trattasi,
che vale succintamente ricordare qui di seguito.
In origine tale norma disponeva infatti che «in caso
di appalto di servizi il committente imprenditore o
datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore,
entro il limite di un anno dalla cessazione dell’appalto,
a corrispondere ai lavoratori i trattamenti
retributivi e i contributi previdenziali dovuti».
A seguito di un primo intervento correttivo ad opera
dell’art. 6, comma 1, del D.Lgs. 6 ottobre 2004,
n. 251, il comma 2 menzionato veniva riformulato
nei seguenti termini: «Salvo diverse previsioni dei
contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da
associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente
più rappresentative, in caso di appalto
di opere o di servizi (5) il committente imprenditore
o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore,
entro il limite di un anno dalla cessazione
dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti
retributivi e i contributi previdenziali dovuti».
Tale riformulazione, tra l’altro, recava con sé la
significativa estensione del suo ambito di applicazione
anche agli appalti di lavori.
Successivamente, con le modifiche apportate dall’art.
1, comma 911, della L. 27 dicembre 2006, n.
296 (Finanziaria 2007), l’art. 29, comma 2, in questione
veniva ulteriormente rimodellato rafforzando
le garanzie ivi stabilite con l’esplicito riferimento
della sua applicazione anche nei confronti dei lavoratori
dei subappaltatori nonché con l’innalzamento
da 1 a 2 anni (dalla cessazione dell’appalto) del limite
temporale entro cui i lavoratori interessati
possono agire nei confronti del committente facendo
valere, per l’appunto, la suddetta responsabilità
solidale (6).
Come dianzi anticipato, l’articolo suddetto è stato
poi nuovamente revisionato ad opera dell’art. 21,
comma 1, del D.L. 9 febbraio 2012, n. 5 (poi convertito
con modificazioni in L. 4 aprile 2012, n. 35)
apportando modifiche di significativo tenore (7).
Con tale intervento, infatti, il legislatore tra l’altro
ha inteso specificare che il predetto diritto del lavoratore
impiegato nel contratto di appalto ricomprende
anche il pagamento delle quote di trattamento
di fine rapporto (cd. ‘‘TFR’’) ed i premi assi-
Opinioni
Appalti e lavori pubblici
curativi obbligatori per gli infortuni sul lavoro e le
malattie professionali dei lavoratori dipendenti (prima
invece non espressamente ricompresi in tale diritto).
A termini del nuovo assetto della norma de
qua, pertanto, il committente di cui sopra risulta
obbligato in solido nei confronti dell’appaltatore (e
dell’eventuale subappaltatore) anche per il mancato
pagamento delle quote di TFR e dei contributi assicurativi
nei confronti dei lavoratori impiegati nel
contratto di appalto.
Note:
(4) Cfr. circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali
11 febbraio 2011, n. 5 e circolare INPS 10 agosto 2012, n. 106.
Secondo quest’ultima circolare, segnatamente, «(...) atteso il tenore
della norma, sono tutelati tutti i lavoratori, ovvero non solo
i lavoratori subordinati ma anche quelli impiegati nell’appalto
con altre tipologie contrattuali (ed es. collaboratori a progetto),
nonché quelli in nero, purché impiegati direttamente nell’opera
o nel servizio oggetto dell’appalto».
(5) Giova segnalare che, con la circolare 11 luglio 2012 n. 17/
2012, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha di recente
fornito specifici chiarimenti in merito all’applicabilità del regime
di responsabilità di che trattasi, individuando elementi distintivi
delle diverse tipologie del contratto di appalti di servizi e del
contratto di trasporto.
In sostanza, tale circolare ha precisato che il contratto di trasporto
strictu sensu ex art. 1678 c.c. è di norma sottratto all’applicazione
della disciplina di responsabilità solidale qui considerata,
mentre, ove il contratto contempli, oltre alle caratteristiche ed
essenziali attività inerenti al mero trasporto, attività ulteriori ed
aggiuntive che esulano dal suo schema tipico, esso dovrebbe
più correttamente configurarsi come una diversa e più complessa
prestazione di servizi da ritenersi, invece, assoggettata a
quella disciplina di responsabilità solidale.
(6) Segnatamente la previsione de qua, così come riformulata
nel 2006, stabiliva che: «in caso di appalto di opere o di servizi il
committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido
con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali ulteriori
subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione
dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi
e i contributi previdenziali dovuti».
(7) In particolare la norma in parola è stata riformulata nei termini
seguenti: «In caso di appalto di opere o di servizi, il committente
imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore,
nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il
limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai
lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento
di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi
dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto
di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili
di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento. Ove convenuto
in giudizio per il pagamento unitamente all’appaltatore, il
committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella
prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio
dell’appaltatore medesimo. In tal caso il giudice accerta la responsabilità
solidale di entrambi gli obbligati, ma l’azione esecutiva
può essere intentata nei confronti del committente imprenditore
o datore di lavoro solo dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio
dell’appaltatore. L’eccezione può essere sollevata anche
se l’appaltatore non è stato convenuto in giudizio, ma in tal caso
il committente imprenditore o datore di lavoro deve indicare i beni
del patrimonio dell’appaltatore sui quali il lavoratore può agevolmente
soddisfarsi. Il committente imprenditore o datore di lavoro
che ha eseguito il pagamento può esercitare l’azione di regresso
nei confronti del coobbligato secondo le regole generali».
Urbanistica e appalti 3/2013 279

Opinioni
Appalti e lavori pubblici
In proposito, deve peraltro specificarsi che la responsabilità
solidale per i contributi assicurativi invero
era già prevista nell’originaria versione dell’art.
35, comma 28, del D.L. n. 223/2006, da cui è stata
poi rimossa e ricollocata nel vigente art. 29, comma
2, di che trattasi con le succitate modifiche del
2012; la previsione già contenuta in origine nel Decreto
Bersani, però, si riferiva al solo appaltatore e
non anche, come adesso, al committente imprenditore
o datore di lavoro, e non conosceva limiti di
tempo: in tal senso, quest’ultimo profilo di responsabilità
può perciò ritenersi, sotto questi aspetti soggettivi
e oggettivi, un elemento di novità.
Va peraltro evidenziato che il legislatore, nel ricomprendere
con menzione espressa tra gli adempimenti
coperti dalla responsabilità solidale anche le
quote di TFR ed i premi assicurativi, ha in ogni caso
chiaramente circoscritto tale copertura al periodo
di esecuzione dell’appalto.
Quanto al limite temporale della decorrenza dei
due anni dalla cessazione dell’appalto, il Ministero
del lavoro e delle politiche sociali ha precisato che
«(...) il riferimento al ‘‘limite dei due anni’’ contenuto
nel citato art. 29 indica l’appalto tra committente
e appaltatore il che - trasposto nell’ambito
dei rapporti tra appaltatore e subappaltatore - non
può che riferirsi al contratto di appalto tra questi
due soggetti. In altri termini i due anni, nel caso di
subappalto, non possono che decorrere dalla cessazione
dei lavori del subappaltatore (in forza del relativo
contratto di subappalto)» (8).
Il medesimo D.L. n. 5/2012 ha inoltre introdotto
nella norma in parola la esplicita esclusione della
responsabilità solidale del committente rispetto alle
sanzioni civili di cui, pertanto, risponde soltanto il
responsabile dell’inadempimento, e quindi l’appaltatore
o l’eventuale subappaltatore. Tale precisazione
ha fornito dunque un importante chiarimento
in ordine ad un aspetto che, in passato, aveva invece
sollevato incertezze ed era stato diversamente interpretato
e regolato in sede applicativa (9).
Di rilievo è poi il nuovo strumento di tutela giudiziale
introdotto all’ultimo periodo della norma (poi
ulteriormente affinato come in appresso), che consente
al committente imprenditore o datore di lavoro,
quale debitore solidale chiamato a rispondere
del pagamento unitamente al lavoratore, di richiedere
in giudizio all’organo giudicante la preventiva
escussione del patrimonio dell’appaltatore.
Tanto chiarito, si rammenta che il citato D.L. è stato
pubblicato sulla G.U. in data 9 febbraio 2012 e,
ai sensi dell’art. 63 del D.L. medesimo, le suesposte
modifiche sono entrate in vigore il giorno successi-
vo alla sua pubblicazione, ovverosia il 10 febbraio
2012 (10).
Da ultimo, si è già riferito che con una ulteriore
modifica ed integrazione apportata dall’art. 4, comma
31, lett. a) e b), della L. n. 92/2012 citata, il legislatore
è intervenuto ancora una volta a perfezionare
l’assetto dell’art. 29, comma 2, suddetto (11).
Note:
(8) V. nota n. 7140 del 13 aprile 2012, in riscontro ad un quesito
formulato dall’ANCE al riguardo.
(9) Cfr. Interpello del Ministero del lavoro e delle politiche sociali
n. 3/2010 del 2 aprile 2010, che aveva invece ritenuto sussistente
la responsabilità solidale anche per le sanzioni civili di che
trattasi.
A fronte di ciò, deve peraltro segnalarsi anche una recente pronuncia
del Tribunale civile di Bologna in data 18 giugno 2012
che, come rilevato dal comunicato ANCE del 9 luglio 2012, è intervenuta
proprio sugli effetti della novità legislativa dianzi riportata
circa l’espressa esclusione della responsabilità solidale
quanto alle sanzioni civili. In particolare, secondo questo Tribunale,
l’entrata in vigore della citata L. n. 35/2012 avrebbe determinato
una differenziazione tra la disciplina della responsabilità
solidale da applicarsi precedentemente al nuovo dettato normativo
e quella attualmente in vigore, determinando quindi che il
committente risponde in via solidale delle sanzioni civili in base
alla data in cui si colloca l’inadempimento dell’appaltatore.
Tale diversa disciplina, segnatamente, ha introdotto così un trattamento
assolutamente diverso di fattispecie analoghe tra loro,
a seconda del momento in cui si colloca l’inadempimento del
soggetto interessato, a prescindere da alcuna giustificazione e
motivazione ragionevole. Difatti l’inadempimento dell’appaltatore,
a seguito della entrata in vigore della L. n. 35/2012, grava oggi
esclusivamente su quest’ultimo, a fronte invece di un’irragionevole
attribuzione oggettiva di tale inadempimento in capo al
committente secondo la previgente normativa.
Di modo che il Tribunale di Bologna ha concluso rimettendo la
questione alla Corte Costituzionale e quindi sollevando la questione
di legittimità costituzionale della novella di che trattasi.
(10) La successiva conversione in legge 4 aprile 2012, n. 35 -
pubblicata sulla G.U. il 6 aprile 2012 ed entrata in vigore il giorno
successivo alla sua pubblicazione ex art. 1, comma 2, della medesima
legge - ha, come detto, apportato modificazioni al D.L.
ma senza interessare i profili qui esaminati e quindi ha lasciato
inalterate le disposizioni di che trattasi già entrate in vigore e rimaste
tali nella versione introdotta dal D.L.
(11) Tale ultima riforma ha modificato la norma nei termini seguenti:
«Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali
sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori
comparativamente più rappresentative del settore che possono
individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della
regolarità complessiva degli appalti, in caso di appalto di opere
o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato
in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli
eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione
dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi,
comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i
contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione
al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso
qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile
dell’inadempimento. Il committente imprenditore o
datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente
all’appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori.
Il committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire,
nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del
patrimonio dell’appaltatore medesimo e degli eventuali subappaltatori.
In tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di
(segue)
280 Urbanistica e appalti 3/2013

Anzitutto, è stato integrato l’incipit del comma 2 in
esame, precisando che il regime di responsabilità di
che trattasi si applica nei termini appena riportati
«salvo diversa disposizione dei contratti collettivi
nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro
e dei lavoratori comparativamente più rappresentative
del settore che possono individuare metodi
e procedure di controllo e di verifica della regolarità
complessiva degli appalti» (cfr. modifiche di
cui all’art. 4, lett. a), della L. n. 92/2012).
Ancora, i periodi dal secondo al quinto del medesimo
comma sono stati sostituiti incidendo sulla regolamentazione
dell’azione processuale di risarcimento
(cfr. modifiche di cui all’art. 4, lett. b), della
L. n. 92/2012) (12).
Dunque, siffatta ultima novella legislativa:
– da un lato, ha introdotto la possibilità di individuare
metodi e procedure di controllo e di verifica
della regolarità complessiva degli appalti da affidarsi
a diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali
sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro
e dei lavoratori comparativamente più rappresentative
del settore;
– dall’altro, è intervenuta sulla disciplina dell’azione
processuale di risarcimento, disponendo un’estensione
dei soggetti coinvolti dall’eventuale causa,
per cui il committente imprenditore o datore di
lavoro deve essere convenuto in giudizio per il pagamento
unitamente all’appaltatore e con gli eventuali
ulteriori subappaltatori.
Conseguentemente, in ogni caso, l’azione esecutiva
può essere intentata nei confronti del committente
imprenditore o datore di lavoro solo dopo l’infruttuosa
escussione del patrimonio dell’appaltatore e
degli eventuali subappaltatori.
La suddetta L. n. 92/2012 è stata pubblicata sulla
G.U. in data 3 luglio 2012, senza fornire indicazioni
specifiche in tema di diritto transitorio con riferimento
ai profili evidenziati.
Vale quindi evidenziare, conclusivamente, che le suesposte
modifiche ed integrazioni apportate sino ad
oggi al citato art. 29, comma 2, della Legge Biagi
hanno comportato, rispetto alla previgente disciplina:
– la specificazione che l’appaltatore ed il subappaltatore
rispondono in solido anche delle quote di
trattamento di fine rapporto nonché dei premi assicurativi
dovuti ai lavoratori impiegati;
– che, invece, appaltatore e subappaltatore non rispondono
delle sanzioni civili comminate all’inadempiente;
– che il debitore principale deve essere chiamato
in giudizio insieme all’appaltatore/subappaltatore
chiamato in solido;
– che il responsabile in solido (ove lo eccepisca
nella prima difesa) beneficia, in sede esecutiva, della
necessaria preventiva escussione del patrimonio
del debitore principale.
L’art. 35, comma 28, del D.L. 4 luglio 2006,
n. 223 e s.m.i. (cd. ‘‘Decreto Bersani’’)
Altro caposaldo normativo introdotto negli ultimi
anni, a migliore tutela sociale ed economica dei lavoratori
in materia di appalti, è rappresentato dall’art.
35, comma 28, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223
(convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto
2006, n. 248), il quale, nel suo originario assetto,
ha introdotto per i contratti di appalto e subappalto
di opere, forniture e servizi stipulati nell’ambito di
attività rilevanti ai fini IVA (e dunque in presenza
di committenti sia pubblici che privati) (13) la responsabilità
solidale tra l’appaltatore ed il subappaltatore
per l’effettuazione ed il versamento delle ritenute
fiscali sui redditi di lavoro dipendente, assieme
a quella parimenti solidale relativa al versamento
dei contributi previdenziali e dei contributi assicurativi
obbligatori per gli infortuni sul lavoro e le
malattie professionali dei dipendenti a cui è tenuto
il subappaltatore (14).
Tale norma è stata anch’essa oggetto di significative
modifiche nel corso del tempo, che ne hanno rimo-
Note:
(segue nota 11)
Opinioni
Appalti e lavori pubblici
tutti gli obbligati, ma l’azione esecutiva può essere intentata nei
confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo
dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio dell’appaltatore e
degli eventuali subappaltatori. Il committente che ha eseguito il
pagamento può esercitare l’azione di regresso nei confronti del
coobbligato secondo le regole generali».
(12) Le modifiche di che trattasi sono del seguente tenore letterale:
«Il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto
in giudizio per il pagamento unitamente all’appaltatore e con
gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il committente imprenditore
o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio
della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore medesimo
e degli eventuali subappaltatori. In tal caso il giudice accerta
la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l’azione
esecutiva può essere intentata nei confronti del committente
imprenditore o datore di lavoro solo dopo l’infruttuosa escussione
del patrimonio dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori.
Il committente che ha eseguito il pagamento può esercitare
l’azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole
generali».
(13) V. comma 34 del citato art. 35 di cui infra.
(14) In origine, il comma 28 del citato art. 35 era del seguente
tenore: «l’appaltatore risponde in solido con il subappaltatore
della effettuazione e del versamento delle ritenute fiscali sui
redditi di lavoro dipendente e del versamento dei contributi previdenziali
e dei contributi assicurativi obbligatori per gli infortuni
sul lavoro e le malattie professionali dei dipendenti a cui è tenuto
il subappaltatore».
Urbanistica e appalti 3/2013 281

Opinioni
Appalti e lavori pubblici
dellato incisivamente la portata ed il raggio di azione.
Nella fattispecie, più volte il legislatore è intervenuto
a regolare taluni rilevanti profili quali l’ambito
soggettivo di applicazione della norma, nonché gli
strumenti operativi offerti all’appaltatore per liberarsi
dal vincolo della responsabilità solidale di che
trattasi, mutando peraltro sensibilmente il suo indirizzo
normativo sino alle più recenti modifiche
dianzi accennate.
È utile perciò ripercorrere brevemente le tappe ed i
tratti salienti di siffatta evoluzione, per agevolare
una compiuta comprensione della norma e delle
varie sfaccettature che ne hanno caratterizzato l’assetto
sino ai nostri giorni.
Va anzitutto rammentato che i successivi commi da
29 a 34 del medesimo art. 35 specificavano una serie
di adempimenti finalizzati all’applicazione della
norma in questione, e in particolare i documenti
occorrenti a liberare l’appaltatore dalla predetta responsabilità,
così consentendogli di percepire il corrispettivo
dovutogli, facendo riferimento a tutti i
soggetti che stipulano i contratti di appalto e subappalto
di opere, forniture e servizi nell’ambito di
attività rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto.
Tali commi stabilivano nella specie che l’appaltatore
poteva essere esonerato da tale responsabilità acquisendo
e trasmettendo al committente idonea documentazione
comprovante il rispetto degli adempimenti
prescritti. Dal canto suo, il committente
non poteva dar corso al pagamento dei corrispettivi
all’appaltatore senza aver acquisito tale documentazione,
a pena di incorrere anche in sanzioni amministrative
assai rilevanti. Deve in ogni caso segnalarsi
che, per espressa previsione del comma 34, le
previsioni di che trattasi erano applicabili soltanto
successivamente all’adozione di un decreto ministeriale
teso ad individuare la documentazione relativa
a quegli adempimenti (15).
In attuazione di quanto sopra, la documentazione
in parola era stata perciò successivamente individuata
con il D.M. 25 febbraio 2008 n. 74 (16) ed
indicata, in sostanza, nei modelli F24 per le ritenute
fiscali e nel DURC per quelle previdenziali, ovvero,
in alternativa, nelle asseverazioni rilasciate da
professionisti o centri di assistenza fiscale (cfr. artt.
2, 3 e 4 del citato D.M.) (17).
Note:
(15) Segnatamente, i commi 29, 30, 31, 32, 33 e 34 del citato
art. 35 - successivamente abrogati, come si vedrà più avanti - disponevano
quanto segue: «29. La responsabilità solidale viene
meno se l’appaltatore verifica, acquisendo la relativa documentazione
prima del pagamento del corrispettivo, che gli adempimenti
di cui al comma 28 connessi con le prestazioni di lavoro
dipendente concernenti l’opera, la fornitura o il servizio affidati
sono stati correttamente eseguiti dal subappaltatore. L’appaltatore
può sospendere il pagamento del corrispettivo fino all’esibizione
da parte del subappaltatore della predetta documentazione.
30. Gli importi dovuti per la responsabilità solidale di cui al comma
28 non possono eccedere complessivamente l’ammontare
del corrispettivo dovuto dall’appaltatore al subappaltatore.
31. Gli atti che devono essere notificati entro un termine di decadenza
al subappaltatore sono notificati entro lo stesso termine
anche al responsabile in solido. La competenza degli uffici
degli enti impositori e previdenziali è comunque determinata in
rapporto alla sede del subappaltatore.
32. Il committente provvede al pagamento del corrispettivo dovuto
all’appaltatore previa esibizione da parte di quest’ultimo
della documentazione attestante che gli adempimenti di cui al
comma 28 connessi con le prestazioni di lavoro dipendente concernenti
l’opera, la fornitura o il servizio affidati sono stati correttamente
eseguiti dall’appaltatore.
33. L’inosservanza delle modalità di pagamento previste al comma
32 è punita con la sanzione amministrativa da euro 5.000 a
euro 200.000 se gli adempimenti di cui al comma 28 connessi
con le prestazioni di lavoro dipendente concernenti l’opera, la
fornitura o il servizio affidati non sono stati correttamente eseguiti
dall’appaltatore e dagli eventuali subappaltatori. Ai fini della
presente sanzione si applicano le disposizioni previste per la violazione
commessa dall’appaltatore. La competenza dell’ufficio
che irroga la presente sanzione è comunque determinata in rapporto
alla sede dell’appaltatore.
34. Le disposizioni di cui ai commi da 28 a 33 si applicano, successivamente
all’adozione di un decreto del Ministro dell’economia
e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e della
previdenza sociale, da emanare entro novanta giorni dalla data
di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto,
che stabilisca la documentazione attestante l’assolvimento
degli adempimenti di cui al comma 28, in relazione ai contratti
di appalto e subappalto di opere, forniture e servizi conclusi
da soggetti che stipulano i predetti contratti nell’ambito di attività
rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto di cui al D.P.R.
26 ottobre 1972, n. 633, con esclusione dei committenti non
esercenti attività commerciale, e, in ogni caso, dai soggetti di
cui agli artt. 73 e 74 del testo unico delle imposte sui redditi, di
cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917. Resta fermo quanto previsto
dall’art. 29, comma 2, del D.Lgs. 10 settembre 2003, n.
276, e successive modificazioni, che deve intendersi esteso anche
per la responsabilità solidale per l’effettuazione ed il versamento
delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente».
(16) Pubblicato in G.U. in data 16 aprile 2008, con la precisazione
che «le disposizioni di cui agli artt. da 1 a 4 si applicano ai
contratti di appalto e subappalto di opere, forniture e servizi di
cui all’art. 35, comma 34 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito,
con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, relativamente
alle prestazioni di lavoro dipendente rese decorsi sessanta
giorni dalla pubblicazione del presente decreto nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica italiana» (v. art. 5, comma 1).
(17) L’art. 2 del D.M. n. 74/2008, rubricato ‘‘Documentazione attestante
l’avvenuto versamento delle ritenute fiscali’’ e successivamente
anch’esso abrogato, prevedeva che:
«1. L’impresa subappaltatrice attesta l’avvenuto versamento
delle ritenute fiscali in relazione ai soggetti impiegati nell’esecuzione
dell’opera o nella prestazione della fornitura o del servizio,
mediante il rilascio all’impresa appaltatrice di una dichiarazione
sostitutiva dell’atto di notorietà, ai sensi degli artt. 2 e 47 del
D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, redatta in base al modello riportato
nell’allegato 1 del presente decreto e delle copie del
modello F24 di cui all’art. 3 corredate delle ricevute attestanti
l’avvenuto addebito, riferito al singolo subappalto.
2. L’attestazione dell’avvenuto versamento di cui al comma 1
(segue)
282 Urbanistica e appalti 3/2013

Detta normativa, e segnatamente i suddetti commi
da 29 a 34 dell’art. 35 nonché il D.M. n. 74/2008,
è stata però successivamente abrogata dall’art. 3,
comma 8, del D.L. 3 giugno 2008, n. 97 (18), convertito,
con modificazioni, nella L. 2 agosto 2008,
n. 129 - recante disposizioni urgenti in materia di
monitoraggio e trasparenza dei meccanismi di allocazione
della spesa pubblica, nonché in materia fiscale
e di proroga di termini - lasciando così in vigore
il solo principio di cui al citato art. 35, comma
28, ma senza le specificazioni attuative di cui ai predetti
commi abrogati, ivi comprese quelle afferenti
ai documenti utili ad esonerare l’appaltatore dalla
responsabilità solidale di che trattasi.
Sin qui dunque, sulla scorta dell’assetto normativo
appena descritto, non era dato rinvenire alcuna responsabilità
diretta del committente circa gli obblighi
contemplati nel citato art. 35 (salvo per la parentesi
di vigenza delle disposizioni attuative di cui
al predetto D.M. nei termini appena ricordati).
Ma, come anticipato, negli ultimi tempi il legislatore
è intervenuto ancora, e più di una volta, sulla
norma qui disaminata, modificandone significativamente
la portata sotto i profili evidenziati.
Infatti, dapprima l’art. 2, comma 5-bis, del D.L. 2
marzo 2012, n. 16, poi convertito, con modificazioni,
in L. 26 aprile 2012, n. 44, proprio in occasione
della conversione con modifiche del decreto aveva
riformulato il citato art. 35, comma 28, con entrata
in vigore di siffatte modifiche in data 29 aprile
2012, anche in questo caso tuttavia senza che le
previsioni appena menzionate abbiano fornito specifiche
indicazioni in ordine ad un regime transitorio
(cfr. la predetta legge di conversione 26 aprile
2012, n. 44, pubblicata sulla G.U. il 28 aprile 2012
ed entrata in vigore il giorno successivo alla sua
pubblicazione) (19).
Con tale modifica il legislatore in particolare aveva
conferito al predetto art. 35, comma 28, un assetto
più organicamente allineato con le altre disposizioni
che tutelano i lavoratori - anzitutto il menzionato
art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003 - ed
apportato rilevanti novità per ottenere regole più
chiare e certe nella materia. In particolare, con tale
riformulazione aveva:
– sancito una responsabilità solidale estesa a tutta la
filiera dell’appalto, interessando altresì il committente
imprenditore o datore di lavoro in modo affine a
quanto già stabilito nel citato art. 29, comma 2, del
D.Lgs. n. 276/2003 come da ultimo riformulato;
– circoscritto espressamente la sua applicazione agli
appalti e subappalti soltanto di lavori e servizi, non
menzionando invece quelli di forniture;
– ridefinito l’oggetto della responsabilità in questione,
individuandolo nelle ritenute sul lavoro dipendente
e nell’IVA relativa alle fatture emesse in relazione
ai lavori, dunque aggiungendo l’IVA e rimuovendo
invece i profili legati agli adempimenti previdenziali
ed assicurativi, oggi assorbiti nel predetto
art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003 (20);
– posto espressamente una limitazione temporale
in modo affine alla citata Legge Biagi, in quanto la
responsabilità avrà comunque termine decorsi due
anni dalla cessazione dell’appalto (21);
Note:
(segue nota 17)
Opinioni
Appalti e lavori pubblici
da parte dell’impresa subappaltatrice, può essere rilasciata mediante
una asseverazione dei soggetti di cui all’art. 35, comma
1, del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241 e dell’art. 3, comma 3, lett. a)
del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, sulla base del modello di cui
all’allegato 2 al presente decreto. L’asseverazione rilasciata ai
sensi del presente comma è alternativa alla dichiarazione sostitutiva
dell’atto di notorietà e all’utilizzo da parte dell’impresa subappaltatrice
del modello F24 riferito al singolo subappalto per il
versamento delle ritenute fiscali relative al personale impiegato
nell’esecuzione delle opere o dei servizi affidati in subappalto.
3. Il rilascio da parte del subappaltatore della dichiarazione e delle
copie del modello F24 riferito al singolo subappalto corredate
delle ricevute attestanti l’avvenuto addebito, di cui al comma 1,
ovvero della asseverazione di cui al comma 2 esonera l’impresa
appaltatrice dalla responsabilità solidale prevista dal comma 28
dell’art. 35 del citato D.L. n. 223 del 2006 con riferimento ai soggetti
impiegati nell’esecuzione dell’opera o nella prestazione della
fornitura o del servizio affidati risultanti dalla comunicazione di
cui all’articolo 1.
4. L’esibizione al committente nel momento del pagamento del
corrispettivo della documentazione prevista nel comma 3 da
parte dell’impresa appaltatrice, determina la non applicazione in
capo al committente stesso delle sanzioni amministrative previste
nel comma 33 dell’art. 35 del citato D.L. n. 223 del 2006 nel
caso di inosservanza delle modalità di pagamento previste al
comma 32 del medesimo art. 35 del D.L. n. 223 del 2006».
(18) Pubblicato sulla G.U. in data 3 giugno 2008 ed entrato in vigore
il giorno stesso della sua pubblicazione (v. art. 5, comma 1).
(19) A seguito di tali modifiche la norma risultava così riformulata:
«In caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore
o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore,
nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il
limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, al versamento all’erario
delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente e dell’imposta
sul valore aggiunto scaturente dalle fatture inerenti alle prestazioni
effettuate nell’ambito dell’appalto, ove non dimostri di
avere messo in atto tutte le cautele possibili per evitare l’inadempimento».
(20) Cfr. quanto in precedenza evidenziato con riguardo all’art.
29, comma 2, della Legge Biagi sotto tale specifico profilo.
(21) Con riguardo al limite temporale di due anni decorrenti dalla
cessazione dell’appalto, con la circolare 11 febbraio 2012 n. 5 il
Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha avuto modo di
chiarire che tale limite costituisce «(...) un termine di decadenza
per l’esercizio dei relativi diritti. Inoltre, trattandosi di diritti relativi
ad oneri sia retributivi che previdenziali, la decadenza opera
con riferimento all’esercizio dell’azione non solo da parte del lavoratore,
creditore delle somme dovute a titolo di retribuzione,
ma anche da parte degli istituti, creditori delle somme dovute a
titolo di contributi».
Urbanistica e appalti 3/2013 283

Opinioni
Appalti e lavori pubblici
– ribadito una limitazione oggettiva della responsabilità
predetta, concedendo all’impresa l’esonero da
tale responsabilità attraverso la dimostrata attuazione
di tutte le cautele possibili per evitare l’inadempimento.
Tale ultima precisazione, naturalmente,
confermava la previsione di esonero già contemplata
nella originaria versione della norma in favore
delle imprese, ma senza comunque fornire specifiche
indicazioni circa le misure da adottare in concreto
per consentire tale esonero nonché le relative
modalità di verifica e controllo, attesa anche la
menzionata abrogazione del D.M. n. 74/2008 (22).
Proprio sotto tale ultimo e significativo aspetto della
prospettata esimente, era peraltro stata rilevata
da subito dagli operatori del settore la macroscopica
difficoltà pratica di attuare la fattispecie di esonero
contemplata dalla norma de qua, soprattutto quanto
al versamento dell’IVA, atteso che come noto il
versamento di questa imposta è il risultato della liquidazione
IVA che comprende molte altre operazioni
e che anche il ricorso al cassetto fiscale dell’appaltatore
e del subappaltatore non è possibile,
essendo vietato l’accesso a soggetti non autorizzati
(23).
Tanto precisato, a brevissima distanza dalla menzionata
entrata in vigore delle nuove regole apportate
dalla L. n. 44/2012, le previsioni dell’art. 35, comma
28, sono state nuovamente modificate, e con
segno sensibilmente diverso, dal citato art. 13-ter
del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (come detto inserito
in sede di conversione del decreto stesso con modifiche
dall’art. 1, comma 1, della predetta L. n. 134/
2012) (24).
Note:
(22) Siffatta lacuna operativa era stata invero segnalata e contestata
dagli operatori di settore sin dal concepimento delle predette
novità legislative. A seguito di ciò, pertanto, nel corso della discussione
finale in Parlamento del testo di legge sopra riportato
ecosìpoi definitivamente approvato, era stato in ogni caso accolto
l’Ordine del Giorno n. 9/5109-AR/21 (relativo alla seduta
della Camera dei Deputati del 19 aprile 2012) che, nella sostanza,
prendeva atto delle difficoltà applicative di tali disposizioni
sotto i profili ricordati e, recependo le istanze avanzate dall’ANCE
sul tema, impegnava il Governo a valutare l‘opportunità di:
– posticipare l‘applicazione delle disposizioni sulla responsabilità
solidale fino all‘entrata in vigore di un decreto del Ministro dell’economia
e delle finanze che definisca le modalità per la verifica,
da parte del committente o appaltatore, del corretto adempimento
degli obblighi fiscali in tema di versamento delle ritenute
fiscali sui redditi di lavoro dipendente e dell’IVA inerenti gli appalti;
– evitare, in ogni caso, l’introduzione di nuovi obblighi documentali,
rispetto a quelli già previsti dalla normativa vigente per
l’attuazione della responsabilità solidale, anche ipotizzando un
Modello di versamento F24 ‘‘generale’’, accompagnato da un’eventuale
autodichiarazione dell‘appaltatore, o subappaltatore il
quale certifichi che, in tale modello, sono comprese le ritenute
fiscali e l’IVA relativi all’appalto;
– prevedere la possibilità, per i coobbligati in solido (committente
e appaltatore), di eccepire il beneficio della preventiva escussione
del patrimonio del responsabile dell’inadempimento e l’esclusione
della responsabilità solidale per il pagamento delle
sanzioni, per le quali resta obbligato il responsabile dell’inadempimento.
(23) Così G. P. Tosoni, Appalti, responsabilità estesa, su
www.ilsole24ore.com del 27 aprile 2012. In questo contributo è
stato altresì osservato, al riguardo, che «(...) in materia di Iva (e
non per le ritenute) il D.P.R. n. 633/72 prevede già per alcune
fattispecie la solidarietà nel pagamento dell’imposta. L’art. 60bis
stabilisce che il cessionario è solidamente obbligato al pagamento
dell’imposta non versata dal cedente. Tale regola opera
solo con riferimento alle operazioni di cessione individuate dal
D.M. 22 dicembre 2005 (auto, moto e rimorchi; prodotti di telefonia
e accessori; pc, componenti ed accessori; bovini, ovini e
suini vivi e loro carni fresche) ma solo nel caso in cui la cessione
sia avvenuta a un prezzo inferiore al valore normale.
La modifica introdotta dal decreto fiscale è molto più forte e sostituisce
il committente a un obbligo dell’appaltatore o subappaltatore
che potrebbe aver omesso il versamento anche per
gravi difficoltà finanziarie. La nuova disposizione ricalca le regole
previste per il versamento dei contributi previdenziali e dei contributi
assicurativi obbligatori per gli infortuni sul lavoro e le malattie
professionali dei dipendenti a cui sono tenuti in prima linea
l’appaltatore e l’eventuale subappaltatore.
Questi adempimenti sono stati più volte oggetto di chiarimenti
da parte del Ministero del lavoro e dell’Inps. La certificazione
del corretto adempimento previdenziale avviene mediante la
presentazione da parte del subappaltatore all’appaltante del modello
DURC».
(24) Quest’ultima modifica ha riformulato la disposizione in esame
nuovamente sostituito nei seguenti termini:
«28. In caso di appalto di opere o di servizi, l’appaltatore risponde
in solido con il subappaltatore, nei limiti dell’ammontare del
corrispettivo dovuto, del versamento all’erario delle ritenute fiscali
sui redditi di lavoro dipendente e del versamento dell’imposta
sul valore aggiunto dovuta dal subappaltatore all’erario in relazione
alle prestazioni effettuate nell’ambito del rapporto di subappalto.
La responsabilità solidale viene meno se l’appaltatore
verifica, acquisendo la documentazione prima del versamento
del corrispettivo, che gli adempimenti di cui al periodo precedente,
scaduti alla data del versamento, sono stati correttamente
eseguiti dal subappaltatore. L’attestazione dell’avvenuto
adempimento degli obblighi di cui al primo periodo può essere
rilasciata anche attraverso un’asseverazione dei soggetti di cui
all’art. 35, comma 1, del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, e all’art. 3,
comma 3, lett. a), del regolamento di cui al D.P.R. 22 luglio
1998, n. 322.
L’appaltatore può sospendere il pagamento del corrispettivo fino
all’esibizione della predetta documentazione da parte del subappaltatore.
Gli atti che devono essere notificati entro un termine
di decadenza al subappaltatore sono notificati entro lo
stesso termine anche al responsabile in solido.
28-bis. Il committente provvede al pagamento del corrispettivo
dovuto all’appaltatore previa esibizione da parte di quest’ultimo
della documentazione attestante che gli adempimenti di cui al
comma 28, scaduti alla data del pagamento del corrispettivo,
sono stati correttamente eseguiti dall’appaltatore e dagli eventuali
subappaltatori. Il committente può sospendere il pagamento
del corrispettivo fino all’esibizione della predetta documentazione
da parte dell’appaltatore. L’inosservanza delle modalità di
pagamento previste a carico del committente è punita con la
sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro
200.000 se gli adempimenti di cui al comma 28 non sono stati
correttamente eseguiti dall’appaltatore e dal subappaltatore. Ai
fini della predetta sanzione si applicano le disposizioni previste
per la violazione commessa dall’appaltatore.
28-ter. Le disposizioni di cui ai commi 28 e 28-bis si applicano in
relazione ai contratti di appalto e subappalto di opere, forniture
e servizi conclusi da soggetti che stipulano i predetti contratti
(segue)
284 Urbanistica e appalti 3/2013

La L. n. 134/2012 è stata pubblicata in G.U. in data
11 agosto 2012 ed è entrata in vigore il giorno
successivo alla sua pubblicazione, ovverosia il 12
agosto 2012, secondo quanto stabilito dall’art. 1,
comma 2, della legge stessa.
Con quest’ultima modifica, quindi, ancora una volta
si è cambiata la norma, variandola ulteriormente
e disponendo sostanzialmente, a mezzo del nuovo
ed attuale assetto:
– il ritorno all’esclusione della solidarietà del committente
(imprenditore o datore di lavoro) rispetto
all’appaltatore ed al subappaltatore nei confronti
del Fisco, e in particolare all’esclusione delle stazioni
appaltanti ai sensi del codice dei contratti pubblici
dal novero dei committenti soggetti al predetto
obbligo di pagamento subordinato alla verifica
dell’avvenuto assolvimento degli obblighi fiscali relativi
ai rapporti di lavoro;
– l’espressa applicazione della responsabilità solidale
di che trattasi non soltanto agli appalti e subappalti
di opere e servizi, bensì anche a quelli di forniture;
– la circoscrizione di tale responsabilità solidale
«nei limiti dell’ammontare del corrispettivo dovuto»,
dunque non più per specifici limitazioni di
tempo bensì per limiti quantitativi di profilo economico;
– l’obbligo, presidiato da una considerevole sanzione
amministrativa, per il committente di pagare
l’appaltatore solo dopo la verifica dell’adempimento
degli obblighi fiscali da parte di appaltatore medesimo
ed anche dei subappaltatori;
– la responsabilità di che trattasi è esclusa ove si
dimostri di aver messo in atto le misure richiamate
e specificate nella medesima norma.
L’ennesimo e più recente cambio di passo del legislatore
sembra perciò essere, con riguardo agli appalti
pubblici, un ripensamento - invero piuttosto
celere - in merito all’ambito di applicazione soggettivo
del regime di responsabilità e controllo incrociato
sulla regolarità fiscale relativa agli emolumenti
lavorativi, rivolgendosi ora la norma soltanto all’appaltatore
ed al subappaltatore, mentre per quanto
riguarda le amministrazioni pubbliche committenti
sembra sancirsi ora l’esonero dalle predette disposizioni
speciali finalizzate al monitoraggio sugli
adempimenti fiscali di tutela del lavoratore (25).
Il legislatore ha difatti riscritto in un lasso di tempo
davvero breve, per due volte, il predetto art. 35,
comma 28, nei termini appena chiariti, ritornando
sul restyling appena operato ad aprile 2012 e così
addivenendo oggi (con il rischio non peregrino di
complicare la comprensione ed l’applicazione dello
stesso) da un lato a rivedere ancora una volta il suo
profilo soggettivo ed oggettivo e, dall’altro, a tentare
di risolvere la spinosa questione - sin qui tormentata
e sostanzialmente insoluta - degli strumenti ed
adempimenti operativi posti a disposizione dell’impresa
per potersi liberare dal succitato vincolo della
responsabilità solidale.
Sotto tale ultimo profilo, occorre peraltro segnalare
che, di recente, la Agenzia delle Entrate ha specificato,
per l’appunto quanto alla documentazione da
produrre per svincolarsi dalla responsabilità solidale
di che trattasi, che «poiché la disposizione prevede
che l’attestazione dell’avvenuto adempimento degli
obblighi fiscali può essere rilasciata anche attraverso
l’asseverazione di un responsabile del centro di
assistenza fiscale o di un soggetto abilitato ai sensi
dell’art. 35, comma 1, del D.Lgs. 9 luglio 1997, n.
241, e dell’art. 3, comma 3, lett. a), del regolamento
di cui al D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, si può
ammettere il ricorso ad ulteriori forme di documentazione
idonee a tale fine. In particolare, si ritiene
valida, in alternativa alle asseverazioni prestate dai
CAF Imprese e dai professionisti abilitati, una dichiarazione
sostitutiva - resa ai sensi del D.P.R. n.
445 del 2000 - con cui l’appaltatore/subappaltatore
attesta l’avvenuto adempimento degli obblighi richiesti
dalla disposizione». Nella stessa circolare,
l’Agenzia ha quindi illustrato operativamente i contenuti
che tale dichiarazione sostitutiva dovrebbe
recare per risultare idonea allo scopo (26).
L’art. 26, comma 4,
del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e s.m.i.
Per completezza, va inoltre segnalato che il D.Lgs.
9 aprile 2008, n. 81 e s.m.i. - recante ‘‘Attuazione
dell’art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia
di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi
di lavoro’’ - proprio al fine di rafforzare la tutela
dei lavoratori coinvolti negli appalti ha stabilito al-
Note:
(segue nota 24)
Opinioni
Appalti e lavori pubblici
nell’ambito di attività rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto
e, in ogni caso, dai soggetti di cui agli artt. 73 e 74 del testo
unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre
1986, n. 917, e successive modificazioni. Sono escluse dall’applicazione
delle predette disposizioni le stazioni appaltanti di cui
all’art. 3, comma 33, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture, di cui al D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163».
(25) Cfr. F. Botteon, Solidarietà ‘‘speciale’’ tra committente e
appaltatore (nonché eventuale subappaltatore) per crediti lavorativi
nei contratti pubblici ? Non (più) per la stazione appaltante!,
in www.appaltiecontratti.it del 7 settembre 2012.
(26) Cfr. circ. 8 ottobre 2012, n. 40/E.
Urbanistica e appalti 3/2013 285

Opinioni
Appalti e lavori pubblici
l’art. 26, comma 4, in linea con il quadro normativo
sopra delineato, che «ferme restando le disposizioni
di legge vigenti in materia di responsabilità
solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni
e dei contributi previdenziali e assicurativi, l’imprenditore
committente risponde in solido con l’appaltatore,
nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori,
per tutti i danni per i quali il lavoratore,
dipendente dall’appaltatore o dal subappaltatore,
non risulti indennizzato ad opera dell’Istituto nazionale
per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro
(INAIL) o dell’Istituto di previdenza per il settore
marittimo (IPSEMA). Le disposizioni del presente
comma non si applicano ai danni conseguenza
dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese
appaltatrici o subappaltatrici».
In proposito, come sottolineato dallo stesso Ministero
del lavoro e delle politiche sociali, giova evidenziare
che «la disposizione è di particolare rilievo
proprio in quanto, in precedenza, in caso di inadempienza
del datore di lavoro a fronte dell’obbligo
risarcitorio, il lavoratore non poteva avere soddisfazione
del suo credito e ciò di fatto penalizzava i dipendenti
delle imprese di minori dimensioni e meno
strutturate» (27).
Anche siffatta norma, pertanto, giunge ad integrare
ed implementare la tutela sociale ed economica che
l’ordinamento riserva ai lavoratori nella specifica
materia della sicurezza sui luoghi di lavoro, strettamente
attinente al settore dei contratti pubblici in
questione, fornendo una specifica copertura sotto i
profili di cui sopra non tutelati dalle altre norme
menzionate.
Gli artt. 4 e 5 del D.P.R. 5 ottobre 2010,
n. 207 e s.m.i. (Regolamento di attuazione
del codice dei contratti pubblici)
Infine, deve rammentarsi che anche il D.P.R. 5 ottobre
2010, n. 207 - recante il nuovo Regolamento di
esecuzione ed attuazione del D.Lgs. 12 aprile 2006,
n. 163 e s.m.i., ovverosia il codice dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture - contempla
in materia di tutela dei lavoratori e regolarità contributiva
speciali previsioni, regolando l’intervento sostitutivo
della stazione appaltante in caso di inadempienza
contributiva e retributiva dell’esecutore e del
subappaltatore rispettivamente agli artt. 4 e 5.
Queste norme regolamentari infatti, riprendendo
quanto già previsto dagli artt. 4 e 13 del previgente
Capitolato generale per i lavori pubblici di cui al
D.M. 19 aprile 2000 n. 145, hanno implementato e
soprattutto esteso anche ai contratti aventi ad og-
getto servizi e forniture la precedente disciplina che
era applicabile soltanto al settore dei lavori pubblici
(28).
Siffatta disciplina attuativa del codice dei contratti
pubblici, nella fattispecie, ribadisce in generale
l’obbligo gravante sui contraenti pubblici di rispettare
integralmente le norme di legge e di contrattazione
collettiva in tema di sicurezza sul lavoro, contribuzione
e retribuzione e costituisce al riguardo
una specifica obbligazione accessoria che in capo ai
committenti pubblici si traduce in determinati
compiti di vigilanza su tali adempimenti (analogamente
a quanto previsto dall’art. 118, comma 6,
del codice predetto).
Con procedimenti affini, tali norme del regolamento
stabiliscono dunque che, in caso di inadempienza di
uno dei soggetti impiegati nell’esecuzione del contratto
rilevata sotto il profilo contributivo e/o retributivo,
il responsabile unico del procedimento è
chiamato ad operare le trattenute di legge ed il pagamento
delle somme oggetto di inadempienza viene
effettuato dal committente direttamente agli enti
previdenziali ed assicurativi. Parimenti, anche con
riferimento alla retribuzione del personale dipendente
di esecutori del contratto e subappaltatori, il committente,
sempre nella persona del RUP, è chiamato
a vigilare ed a contestare formalmente eventuali inadempienze,
con facoltà di provvedere direttamente
al pagamento dei lavoratori stessi (29).
Note:
(27) V. circ. Ministero del lavoro e delle politiche sociali 11 febbraio
2011, n. 5, cit.
(28) Sull’argomento cfr. R. Garofoli, G. Ferrari, Il nuovo regolamento
appalti pubblici, Roma, Tomo I, 2011, 29 ss.
(29) Nella fattispecie, l’art. 4 - rubricato ‘‘Intervento sostitutivo
della stazione appaltante in caso di inadempienza contributiva
dell’esecutore e del subappaltatore’’ - stabilisce:
«1. Per i contratti relativi a lavori, servizi e forniture, l’esecutore,
il subappaltatore e i soggetti titolari di subappalti e cottimi di cui
all’art. 118, comma 8, ultimo periodo, del codice devono osservare
le norme e prescrizioni dei contratti collettivi nazionali e di
zona stipulati tra le parti sociali firmatarie di contratti collettivi
nazionali comparativamente più rappresentative, delle leggi e
dei regolamenti sulla tutela, sicurezza, salute, assicurazione assistenza,
contribuzione e retribuzione dei lavoratori.
2. Nelle ipotesi previste dall’art. 6, commi 3 e 4, in caso di ottenimento
da parte del responsabile del procedimento del documento
unico di regolarità contributiva che segnali un’inadempienza
contributiva relativa a uno o più soggetti impiegati nell’esecuzione
del contratto, il medesimo trattiene dal certificato di
pagamento l’importo corrispondente all’inadempienza. Il pagamento
di quanto dovuto per le inadempienze accertate mediante
il documento unico di regolarità contributiva è disposto dai
soggetti di cui all’art. 3, comma 1, lett. b), direttamente agli enti
previdenziali e assicurativi, compresa, nei lavori, la cassa edile.
3. In ogni caso sull’importo netto progressivo delle prestazioni è
operata una ritenuta dello 0,50 per cento; le ritenute possono
essere svincolate soltanto in sede di liquidazione finale, dopo
(segue)
286 Urbanistica e appalti 3/2013

In particolare, l’intervento sostitutivo di che trattasi
è riferito in capo ai soggetti di cui all’art. 3, comma
1, lett. b), del D.P.R. n. 207/2010, ovverosia ad
una serie di soggetti committenti comunque di natura
pubblica (30).
Il citato D.P.R. n. 207/2010 è stato pubblicato in
G.U. in data 10 dicembre 2010 ed ai sensi dell’art.
359, comma 1, dello stesso D.P.R. le nuove norme
regolamentari appena ricordate sono entrate in vigore
180 giorni dopo la sua pubblicazione, ovverosia
in data 8 giugno 2011.
Poiché nessuna disposizione transitoria del predetto
regolamento concerne le norme della parte I, tra cui
per l’appunto i citati artt. 4 e 5, siffatte norme hanno
trovato con l’entrata in vigore immediata applicabilità,
in tutta la loro nuova estensione (31).
Il regime transitorio delle norme
Sulla scorta delle argomentazioni sin qui spiegate,
possono formularsi talune prime riflessioni di sintesi
con particolare attenzione alla individuazione dei
profili di applicazione delle norme succitate, siccome
modificate ed integrate negli ultimi mesi, in
punto di diritto transitorio.
Con riguardo all’art. 29, comma 2, del D.Lgs. n.
276/2003 e s.m.i., così come modificato prima dal
D.L. 9 febbraio 2012 n. 5 e poi dalla L. 28 giugno
2012 n. 92, in assenza di specifiche ed espresse indicazioni
di diritto transitorio, ai fini dell’applicazione
delle innovazioni apportate alla norma appena
citata, vale osservare quanto segue:
– la specificazione che nell’ambito dei trattamenti
retributivi è espressamente ricompreso il trattamento
di fine rapporto può essere considerata una interpretazione
(e non una estensione) della precedente
normativa, essendo pacificamente ritenuto il trattamento
di fine rapporto una retribuzione posticipata
(32), e pertanto può reputarsi tale profilo di immediata
applicazione a tutti i contratti, ivi compresi
quelli in corso;
– quanto alla inclusione dei premi assicurativi, la
norma ha carattere innovativo ed integrativo della
responsabilità solidale, come d’altra parte evidenziato
dalla differente formulazione rispetto al trattamento
di fine rapporto («trattamenti retributivi
comprese le quote» e «contributi previdenziali e
premi assicurativi»), nella misura in cui nell’un caso
si utilizza la dizione ‘‘comprese’’ e nell’altro si ricorre
ad una ‘‘e’’ disgiuntiva.
Ciò peraltro pone un delicato problema di diritto
transitorio, potendosi tuttavia ritenere che la norma
vada applicata alle contribuzioni il cui obbligo
sia stato evaso dopo l’entrata in vigore della legge,
indipendentemente dalla data di stipula del contratto
di appalto/subappalto, che determina l’insorgere
della soggezione alla obbligazione solidale. A
favore di tale interpretazione depone il fatto che la
responsabilità non sia recata dal contratto, ma dalla
legge, con evidente finalità di pubblico interesse (la
tutela del creditore debole). Non si modificano,
cioè, le condizioni contrattuali precedentemente vigenti,
bensì si pone, per legge, un obbligo al contraente
in quanto tale;
– quanto alla norma che esclude la responsabilità
solidale per le sanzioni civili, essa in realtà potrebbe
apparire come norma interpretativa, applicabile
perciò anche per il passato. Diversa, tuttavia, è la
valutazione del Ministero del lavoro e delle politiche
sociali (33), secondo cui (in passato) la respon-
Note:
(segue nota 29)
Opinioni
Appalti e lavori pubblici
l’approvazione da parte della stazione appaltante del certificato
di collaudo o di verifica di conformità, previo rilascio del documento
unico di regolarità contributiva».
A sua volta, l’art. 5 - rubricato ‘‘Intervento sostitutivo della stazione
appaltante in caso di inadempienza retributiva dell’esecutore
e del subappaltatore’’ - prevede che:
«1. Per i contratti relativi a lavori, servizi e forniture, in caso di ritardo
nel pagamento delle retribuzioni dovute al personale dipendente
dell’esecutore o del subappaltatore o dei soggetti titolari
di subappalti e cottimi di cui all’art. 118, comma 8, ultimo
periodo, del codice, impiegato nell’esecuzione del contratto, il
responsabile del procedimento invita per iscritto il soggetto inadempiente,
ed in ogni caso l’esecutore, a provvedervi entro i
successivi quindici giorni. Decorso infruttuosamente il suddetto
termine e ove non sia stata contestata formalmente e motivatamente
la fondatezza della richiesta entro il termine sopra assegnato,
i soggetti di cui all’art. 3, comma 1, lett. b), possono pagare
anche in corso d’opera direttamente ai lavoratori le retribuzioni
arretrate detraendo il relativo importo dalle somme dovute
all’esecutore del contratto ovvero dalle somme dovute al subappaltatore
inadempiente nel caso in cui sia previsto il pagamento
diretto ai sensi degli artt. 37, comma 11, ultimo periodo e 118,
comma 3, primo periodo, del codice.
2. I pagamenti, di cui al comma 1, eseguiti dai soggetti di cui all’art.
3, comma 1, lett. b), sono provati dalle quietanze predisposte
a cura del responsabile del procedimento e sottoscritte dagli
interessati.
3. Nel caso di formale contestazione delle richieste di cui al
comma 1, il responsabile del procedimento provvede all’inoltro
delle richieste e delle contestazioni alla direzione provinciale del
lavoro per i necessari accertamenti».
(30) Segnatamente, l’art. 3, coma 1, lett. b), del regolamento
predetto si riferisce ad «amministrazioni aggiudicatrici, organismi
di diritto pubblico, enti aggiudicatori, altri soggetti aggiudicatori,
soggetti aggiudicatori e stazioni appaltanti: i soggetti indicati
rispettivamente dall’art. 3, commi 25, 26, 29, 31, 32 e 33, del
codice».
(31) V. G. Caselli in AA.VV., Regolamento di attuazione dei contratti
pubblici, Roma, 2011, 377.
(32) Cfr. Cass., sez. lav., 22 settembre 2011, n. 19291.
(33) V. Interpello del Ministero del lavoro e delle politiche sociali
2 aprile 2010, n. 3/2010 cit.
Urbanistica e appalti 3/2013 287

Opinioni
Appalti e lavori pubblici
sabilità solidale si estendeva alle sanzioni civili; sostanzialmente
conforme a tale indirizzo del Ministero
è anche la menzionata pronuncia del Tribunale
di Bologna (34), che ha ritenuto incostituzionale -
con rinvio alla Corte - questo punto della norma,
ma presupponendo in tal modo la interpretazione
estensiva data dal Ministero. Una risposta a definitiva
chiarezza potrebbe venire dalla Corte Costituzionale,
invocata sul punto dal suddetto Tribunale
di Bologna;
– in ogni caso, di recente l’INPS ha chiarito che
«in merito alle somme per le quali il committente
viene chiamato a rispondere in solidarietà, il Ministero
del lavoro, con parere del 21 marzo u.s., ha
precisato che, anche a seguito della modifica legislativa
intervenuta, il regime di solidarietà permane
sulle somme dovute a titolo di interesse moratorio
sui debiti previdenziali (sia contributivi e assistenziali
che assicurativi), nascenti sul debito contributivo
una volta raggiunta l’entità massima prevista della
sanzione civile, considerata la portata generale
dell’art.1294 c.c. ed in mancanza, sul punto, di una
previsione contraria della legge. Nel citato parere
viene, altresì, chiarito che il dies a quo a partire dal
quale il committente, ex art. 21 D.L. semplificazioni,
non risponde dell’obbligo relativo alle somme
aggiuntive, nel quadro di una lettura sistematica
della nuova disposizione, coincide con tutti gli obblighi
contributivi la cui scadenza del versamento è
successiva al 10 febbraio 2012, data di entrata in vigore
del predetto decreto. Il vincolo della solidarietà
viene meno dopo due anni dalla cessazione dell’appalto
(ovvero, in presenza di subappaltatori, dopo
due anni dalla cessazione del subappalto)» (35);
– quanto alle norme di carattere processuale - la
cui efficacia è conseguente alla entrata in vigore,
indipendentemente dalla data in cui è sorta l’obbligazione
che si vuole fare valere - esse stabiliscono
un logico principio di tutela del coobbligato in solido,
che, per la supposta maggiore solvibilità, in costanza
della previgente disciplina poteva essere oggetto
di ingiusta aggressione giudiziale, prima ancora
della escussione del debitore principale.
Altresì, con riguardo al nuovo e più recente riassetto
dell’art. 35, comma 28 del D.L. 4 luglio 2006 n.
223, modificato prima dall’art. 2, comma 5-bis del
D.L. 2 marzo 2012 n. 15, come convertito con modificazioni
dalla L. n. 44/2012, e poi dall’art. 13-ter
del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, poi convertito con
modificazioni in L. 7 agosto 2012, n. 134, sotto il
profilo del diritto transitorio, vale infine segnalare
che l’Agenzia dell’Entrate ha chiarito di recente
che «(...) le disposizioni contenute nell’art. 13-ter
del D.L. n. 83 del 2012 debbano trovare applicazione
solo per i contratti di appalto/subappalto stipulati
a decorrere dalla data di entrata in vigore della
norma, ossia dal 12 agosto 2012» e che «(...) tali
adempimenti siano esigibili a partire dal sessantesimo
giorno successivo a quello di entrata in vigore
della norma, con la conseguenza che la certificazione
deve essere richiesta solamente in relazione ai
pagamenti effettuati a partire dall’11 ottobre 2012,
in relazione ai contratti stipulati a partire dal 12
agosto 2012» (36).
Il rapporto sistematico tra le disposizioni
in tema di responsabilità solidale
Ripercorsi l’evoluzione normativa e l’attuale assetto
delle disposizioni in questione, così come i relativi
profili operativi e di regime transitorio, a questo
punto pare utile altresì evidenziare la loro portata
sul versante sistematico, e dunque verificare come
esse si rapportano tra loro nel perimetro della normazione
di settore qui considerata, con particolare
riguardo alla disciplina applicabile agli appalti pubblici.
In primis, giova focalizzare l’attenzione sugli effettivi
margini di applicazione del citato art. 29, comma 2,
del D.Lgs. n. 276/2003, nella sua odierna vigenza,
rispetto alla previsione generale di cui al menzionato
art. 1676 c.c.
Va detto preliminarmente al riguardo che le due
previsioni appena citate, pur operando nel medesimo
settore degli affidamenti ed al medesimo scopo
di tutela economica e sociale dei lavoratori, non si
sovrappongono in toto, giacchépossiedono margini
di operatività differenti, sotto taluni peculiari profili.
Difatti, in primo luogo, come detto, l’art. 1676 c.c.
conosce in tema di appalti pubblici una applicazione
de residuo quale norma generale, operando laddove
non vi è il presidio della norma speciale, che
nella fattispecie è costituita per gli aspetti sopra indicati
dall’art. 29, comma 2, citato.
Altresì si evidenzia che, sin dalla sua entrata in vigore,
la tutela offerta dal suddetto art. 29, comma 2,
diversamente da quella sancita ai sensi della menzionata
previsione codicistica generale di cui al 1676
c.c. non soffre limitazioni di tipo quantitativo - dunque
riferite all’ammontare delle pretese economiche
eventualmente avanzate - bensì in questo caso di ti-
Note:
(34) Trib. Bologna, 18 giugno 2012, cit.
(35) Cfr. circ. INPS 10 agosto 2012, n. 106, cit.
(36) Cfr. circ. 8 ottobre 2012, n. 40/E.
288 Urbanistica e appalti 3/2013

po temporale, limitando a due anni il periodo concesso
ai lavoratori per far valere il loro diritto.
Sempre nel solco del raffronto tra il citato art. 29
ed il citato art. 1676 c.c., va poi rammentato che
altro distinguo di assoluto rilievo è che il primo
non contempla le committenze pubbliche, riferendosi
espressamente al ‘‘committente imprenditore o
datore di lavoro’’ (37), mentre l’art. 1676 c.c. non
reca analoga specificazione e può ritenersi applicabile
perciò nei confronti di qualsiasi committente,
sia pubblico che privato.
A conferma di quanto appena rimarcato, è d’uopo
ricordare d’altronde che l’art. 1, comma 2, del citato
D.Lgs. n. 276/2003 precisa letteralmente che il
decreto «non trova applicazione per le pubbliche
amministrazioni e per il loro personale», così parendo
rafforzare l’esclusione dal campo di applicazione
soggettivo della normativa di tutti i committenti
pubblici, ove non diversamente ed espressamente
stabilito (38).
Tanto precisato, occorre tuttavia segnalare che, nonostante
il dato letterale delle disposizioni appena
riportate, l’esclusione dell’applicabilità del suddetto
art. 1, comma 2, a tali soggetti non è univocamente
condivisa. Taluni giudici di merito difatti hanno
avuto modo di affermare anche di recente l’applicabilità
del principio solidaristico della responsabilità
anche nei confronti dei soggetti pubblici (39).
Per completezza di disamina, si rileva infine che in
ogni caso l’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003
esclude dall’applicazione del decreto suddetto le
‘‘pubbliche amministrazioni’’, senza fornire tuttavia
alcuna specifica definizione delle stesse.
Ai fini dell’interpretazione della norma, quindi, si
potrebbe utilmente fare riferimento alle norme generali
previste dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 -
recante le ‘‘Norme generali sull’ordinamento del lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche’’
- che, all’art. 1, fornisce un’elencazione di
‘‘amministrazioni pubbliche’’ (40).
Ciò posto, da tale quadro complessivo può dunque
ricavarsi che tra le due norme non sussiste alcuna
incompatibilità logica o giuridica: l’art. 29, comma
2, della Legge Biagi potrebbe trovare applicazione
nella sua veste di norma speciale e tutela più incisiva
qualora ricorrano i presupposti oggettivi e soggettivi
ivi contemplati, come detto diversi da quelli
previsti dall’art. 1676 c.c.
Anzi, alla luce dei rispettivi termini di applicazione
oggettivi e soggettivi di cui sopra, è stato ritenuto
ammissibile che i lavoratori utilizzati nell’appalto
possano ricorrere alternativamente - laddove naturalmente
ne sussistano i presupposti giuridici - all’a-
Opinioni
Appalti e lavori pubblici
zione ex art. 1676 c.c. e a quella ai sensi del predetto
art. 29, comma 2 (41).
Infatti, l’art. 1676 c.c. come detto mantiene sempre
la propria funzione di norma generale di chiusura a
Note:
(37) Il comma 3-ter del medesimo art. 29 chiarisce peraltro che
«(...) le disposizioni di cui al comma 2 non trovano applicazione
qualora il committente sia una persona fisica che non esercita
attività di impresa o professionale».
(38) Cfr. in tal senso l’art. 86, comma 9, del predetto D.Lgs. n.
276/2003, che estende l’applicazione della disciplina ivi delineata
alla materia di somministrazione di lavoro a tempo determinato
(T.A.R. Piemonte, 27 giugno 2006, n. 2711).
(39) V. Trib. Novara, 3 marzo 2011; Trib. di Busto Arsizio, 29
marzo 2010; Trib. Milano, sez. lav., 22 gennaio 2010, n. 317;
Trib. Pavia, 29 aprile 2006.
Queste pronunce hanno in particolare ricordato, con riferimento
a quanto previsto dall’art. 1, comma 2, citato, che invero la legge
delega n. 30/2003 (sulla cui base è stato emanato il D.Lgs.
n. 276/2003), all’art. 6, comma 1, dispone che le disposizioni relative
alla delega al governo per l’emanazione di norme concernenti
i rapporti di lavoro non si applicano al ‘‘personale delle
pubbliche amministrazioni’’. La legge delega suddetta dunque
non si occupa delle pubbliche amministrazioni in quanto enti,
ma solo del loro personale, di modo che l’art. 1 comma 2 in parola,
quando contempla le pubbliche amministrazioni, va inteso
come riferito alle stesse solo in quanto datori di lavoro, con l’unico
scopo di escludere da parte delle stesse amministrazioni
l’utilizzo delle forme flessibili di lavoro previste dalla legge Biagi:
«(...) posto che dunque il legislatore poteva escludere dalla disciplina
dei decreti attuativi la p.a., altrettanto non poteva fare
nei confronti della p.a. in relazione all’attività esercitata nel suo
ruolo istituzionale non potendosi rinvenire alcuna giustificazione
in una differenziazione di trattamento tra imprenditore privato e
p.a. che opera non come datore di lavoro diretto ma come datore
di lavoro committente in appalto di servizi: pertanto il regime
di responsabilità solidale previsto dall’art. 29, comma 2, D.Lgs.
n. 276 del 2003 trova applicazione anche nel caso in cui il committente
sia una p.a.» (così Trib. Milano, sez. lav., 22 gennaio
2010, n. 317, cit.).
Alla stregua di tale interpretazione delle normativa de qua, perciò,
l’art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003 risulterebbe applicabile
anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni per
gli appalti da queste conferiti, in quanto in tal caso non viene in
rilievo la costituzione di un rapporto di lavoro.
Diversamente opinando, secondo detto orientamento, il D.Lgs.
n. 276/2003 dovrebbe ritenersi illegittimo in quanto eccederebbe
i limiti posti dalla legge delega.
Tale interpretazione potrebbe peraltro trovare suffragio nello
stesso dato letterale dell’art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/03
che prevede la responsabilità solidale non solo del ‘‘committente
imprenditore’’ ma anche del ‘‘committente datore di lavoro’’
nella cui definizione può rientrare certamente anche una pubblica
amministrazione.
(40) Ai sensi dell’art. 1 comma 2, del citato D.Lgs. n. 165/2001,
per amministrazioni pubbliche si intendono «tutte le amministrazioni
dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e
grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni
dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i
Comuni, le Comunità montane e loro consorzi e associazioni, le
istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere
di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni,
tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali
e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario
nazionale».
(41) Cfr. V. Speziale, Appalti e trasferimento d’azienda, in W.P.
C.S.D.L.E. ‘‘Massimo D’Antona’’.IT-41/2006, p. 18.
Urbanistica e appalti 3/2013 289

Opinioni
Appalti e lavori pubblici
tutela del credito dei lavoratori subordinati impiegati
negli appalti, ed è sempre consentito farvi ricorso
in tutte quelle circostanze in cui la norma
speciale di cui al citato art. 29, comma 2 non possa
essere applicata (42). Ad esempio:
– sotto il profilo oggettivo, l’art. 1676 c.c. potrebbe
essere utilizzato per ottenere il pagamento di somme
o trattamenti non inclusi tra quelli oggetto della responsabilità
solidale regolata dall’art. 29, comma 2;
– sotto il profilo temporale, il lavoratore potrebbe
sempre ricorrere all’azione diretta di cui all’art.
1676 c.c., il quale non pone alcun termine di decadenza,
una volta decorso il termine di decadenza di
due anni posto invece dall’art. 29, comma 2.
Fermo quanto sopra, in ordine al nuovo assetto del
citato art. 35, comma 28, del Decreto Bersani può
concludersi sotto il profilo sistematico, raccordandosi
alle riflessioni appena esposte sui margini di
applicazione delle succitate disposizioni di cui all’art.
1676 c.c. ed all’art. 29, comma 2, del D.Lgs.
n. 276/2003, che il citato art. 35, comma 28, integra
in modo organico la disciplina sulla responsabilità
solidale quanto al differente oggetto delle ritenute
sul lavoro dipendente e dell’IVA relativo alle
fatture emesse in relazione ai lavori e, in tal modo,
non si sovrappone all’operatività della Legge Biagi,
offrendo una tutela diversa e complementare, così
come tiene ferma la funzione di norma generale di
chiusura del succitato art. 1676 c.c.
Con riferimento infine al rapporto intercorrente tra
le citate norme della Legge Biagi e del Decreto Bersani
e gli artt. 4 e 5 del D.P.R. n. 207/2012, può osservarsi
che queste ultime disposizioni regolamentari
paiono evidentemente porsi in un rapporto di
species a genus rispetto alle prime, quanto al coinvolgimento
dei committenti pubblici, giacché l’art.
29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003 e s.m.i. e l’art.
35, comma 28, del D.L. n. 223/2006 e s.m.i., come
detto, non risultano invece applicabili a tali soggetti
- l’una rivolgendosi in tal senso soltanto al ‘‘committente
imprenditore o datore di lavoro’’, l’altra
avendo escluso espressamente i committenti ai sensi
del suo comma 28-ter.
Analogamente a quanto dianzi rilevato a proposito
del citato art. 35, comma 28, tuttavia, in dottrina
vi è chi ha opportunamente rimarcato che la disciplina
regolamentare di che trattasi desta talune
perplessità da un lato, sul versante dei contributi,
per non aver codificato e specificato le modalità di
verifica e controllo degli adempimenti e, dall’altro,
sul versante delle retribuzioni, per aver posto in
capo alla committenza una mera facoltà e non un
preciso obbligo di pagamento diretto dei lavorato-
ri, rendendo poco incisiva la tutela all’uopo disposta
(43).
L’applicabilità delle norme di che trattasi
al settore delle forniture
Da ultimo, occorre completare la disamina di che
trattasi rilevando che le suesposte disposizioni, e in
particolare quelle di cui ai citati art. 1676 c.c. e art.
29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003, sono espressamente
riferite agli appalti di ‘‘opere’’ e ‘‘servizi’’,
mentre l’art. 35, comma 28, del D.L. n. 223/2006 e
s.m.i., nella sua più recente versione, nonché le
norme regolamentari di cui ai citati artt. 4 e 5 del
D.P.R. n. 207/2010 sono esplicitamente applicabili
non soltanto ai contratti pubblici di lavori e servizi
bensì anche a quelli di forniture.
Ciò posto, per quel che più interessa in questa sede
occorre porsi il problema dell’applicabilità della disciplina
di cui ai menzionati art. 29, comma 2, della
Legge Biagi ed art. 1676 c.c. anche ai contratti di
fornitura, e in particolare a quelli connessi agli affidamenti
di contratti pubblici di lavori.
Invero, su tale specifico profilo va in primo luogo
avvisato che non è dato rinvenire significative indicazioni
di taglio normativo e giurisprudenziale, né
tanto meno alcuna riflessione specifica della dottrina.
Tanto precisato, non può che muoversi dal dato
letterale e sistematico delle disposizioni considerate.
In relazione all’art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/
2003, è d’uopo difatti osservare che, come detto, in
origine l’assetto della norma contemplava esclusivamente
l’espresso riferimento agli appalti di servizi, e
successivamente, a seguito dell’intervento correttivo
dell’art. 6, comma 1, del D.Lgs. n. 251/2004 citato,
nel medesimo art. 29, comma 2, è stato introdotto
anche il riferimento espresso agli appalti di
lavori (sino ad oggi sempre mantenuto, nonostante
le ulteriori successive modifiche apportate all’articolo),
mentre non è stato introdotto analogo riferimento
per gli appalti di forniture.
Seppur di conio precedente, altresì la norma generale
di chiusura di cui all’art. 1676 c.c. succitato è
espressamente riferita ai soli appalti di opere e servizi,
senza nessun richiamo anche alle forniture.
Note:
(42) L. Imberti, La disciplina delle responsabilità solidali negli appalti
e nei subappalti: lo stato dell’arte in continuo movimento
(aggiornato al D.L. 97/2008), in WP C.S.D.L.E. ‘‘Massimo D’Antona’’.IT-72/2008,
p. 29.
(43) Così G. Caselli in AA.VV., Regolamento di attuazione dei
contratti pubblici, Roma, 2011, 19-20 cit.
290 Urbanistica e appalti 3/2013

Di modo che, atteso anche l’approdo comune delle
due disposizioni succitate alla esclusione delle forniture
dal novero espresso degli appalti interessati
dallo loro applicazione, è possibile reputare che il
legislatore, in materia di responsabilità solidale negli
appalti - quanto meno per gli aspetti della tutela
contributiva e retributiva (in via generale) di cui
alle disposizioni appena richiamate - abbia ritenuto
di delimitare l’applicazione delle disposizioni stesse
ai soli appalti di lavori e servizi, non estendendo la
disciplina in parola anche agli appalti di forniture
(44).
Ma soprattutto oggi, alla luce delle ultime modifiche
apportate all’art. 35, comma 28 ss. di cui sopra,
il dato che nel medesimo settore normativo - la responsabilità
solidale - talune norme abbiano esplicitamente
fatto riferimento ai contratti di forniture
ed altre invece non contemplino anche tali contratti
pare dirimente al fine di circoscrivere l’applicazione
di siffatto vincolo soltanto laddove i contratti
di forniture siano esplicitamente contemplati
dalla norma.
Ciò posto, può concludersi che i succitati art. 1676
c.c. e art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003 e
s.m.i. non dovrebbero trovare applicazione in caso
di contratti aventi ad oggetto appalti di forniture
anche connessi ad appalti di lavori.
Sono invece applicabili anche agli appalti di forniture
i predetti art. 35, comma 28, del D.L. n. 223/
2006 e s.m.i. nonché artt. 4 e 5 del D.P.R. n. 207/
2010, i quali contengono espressi riferimenti agli
appalti sia di lavori che di servizi e forniture, coerentemente
con la ratio organica ed unitaria sottesa
alla compilazione del codice dei contratti pubblici.
Fermo quanto sopra, può tuttavia ragionarsi in modo
differente in presenza di quelle forniture con posa
in opera assimilabili ai lavori ai sensi dell’art.
118,comma 12, del D.Lgs. n. 163/2006 e s.m.i. (45)
In tal caso infatti, ad avviso di chi scrive, la assimilabilità
delle attività di che trattasi ai lavori potrebbe
implicare la loro conseguente riconducibilità al
novero degli appalti di lavori e quindi l’assoggettamento
delle stesse alle citate previsioni in tema di
responsabilità solidale, secondo una logica organica
e di coerenza di cui deve ritenersi pervasa la materia
trattata, anche alla luce del tenore cogente dei
principi che la presidiano.
Prospetto di sintesi sugli adempimenti
e sull’operatività delle norme vigenti
in tema di responsabilità solidale
Alla luce del quadro normativo appena delineato e
Opinioni
Appalti e lavori pubblici
disaminato e nei termini sin qui specificati, le differenti
declinazioni della responsabilità solidale di
che trattasi - come ridisegnate dalle più recenti modifiche
legislative sopra ricordate - possono dunque
sinteticamente ricapitolarsi come in appresso, tenendo
conto della natura e delle funzioni assegnate
ai soggetti coinvolti a vario titolo nel ciclo produttivo
degli appalti:
Il committente pubblico con riguardo ai contratti
di appalto di lavori e servizi:
– ai sensi dell’art. 1676 c.c. risponde in solido con
l’appaltatore, nei termini e nei limiti ivi specificati,
nei confronti dei dipendenti di quest’ultimo per i
trattamenti retributivi agli stessi dovuti;
– ai sensi dell’art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/
2003 e s.m.i., non risponde in solido con l’appaltatore
o con gli eventuali subappaltatori, nei termini
e nei limiti ivi specificati, in relazione ai trattamenti
retributivi, comprese le quote di trattamento di
fine rapporto, nonché ai contributi previdenziali ed
ai premi assicurativi dovuti in relazione al periodo
di esecuzione del contratto di appalto;
– ai sensi dell’art. 35, comma 28, del D.L. n. 223/
Note:
(44) Del resto in un primo momento - ovverosia allorquando la
disciplina di entrambe le specifiche tipologie di responsabilità
solidale ai sensi dei citati art. 29, comma 2, e art. 35, comma
28, era stata modificata menzionando espressamente solo gli
appalti di lavori e servizi - si era addivenuti a privilegiare il dato
letterale anche sulla base del ragionamento secondo cui avendo
il contratto di fornitura ad oggetto l’acquisizione di un bene mobile
o di un prodotto (sulla nozione di fornitura cfr. S. Sorrentino,
R. Saraceni, Forniture e servizi pubblici, Rimini, 2002, 23 ss.),
dunque essendo la relativa prestazione connotata fondamentalmente
da un dare e non da un facere (proprio invece delle attività
oggetto degli appalti di lavori e servizi), non può escludersi
che, a livello legislativo, per quegli specifici profili sia stato ritenuto
non necessario approntare una tutela quale quella in esame
rispetto allo svolgimento di attività nelle quali di norma non
assume rilievo preponderante una prestazione personale, ma
piuttosto la consegna e acquisizione di un bene.
(45) L’art. 118 citato, rubricato ‘‘Subappalto, attività che non costituiscono
subappalto e tutela del lavoro’’, stabilisce al comma
11 che «ai fini del presente articolo è considerato subappalto
qualsiasi contratto avente ad oggetto attività ovunque espletate
che richiedono l’impiego di manodopera, quali le forniture con
posa in opera e i noli a caldo, se singolarmente di importo superiore
al 2 per cento dell’importo delle prestazioni affidate o di importo
superiore a 100.000 euro e qualora l’incidenza del costo
della manodopera e del personale sia superiore al 50 per cento
dell’importo del contratto da affidare. Il subappaltatore non può
subappaltare a sua volta le prestazioni salvo che per la fornitura
con posa in opera di impianti e di strutture speciali da individuare
con il regolamento; in tali casi il fornitore o subappaltatore,
per la posa in opera o il montaggio, può avvalersi di imprese di
propria fiducia per le quali non sussista alcuno dei divieti di cui
al comma 2, numero 4). È fatto obbligo all’affidatario di comunicare
alla stazione appaltante, per tutti i sub-contratti stipulati per
l’esecuzione dell’appalto, il nome del sub-contraente, l’importo
del contratto, l’oggetto del lavoro, servizio o fornitura affidati».
Urbanistica e appalti 3/2013 291

Opinioni
Appalti e lavori pubblici
2006 e s.m.i., non risponde in solido con l’appaltatore
o con gli eventuali subappaltatori, nei termini
e nei limiti ivi specificati, in relazione al versamento
all’erario delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente
e dell’IVA scaturente dalle fatture inerenti
alle prestazioni effettuate nell’ambito dell’appalto;
– ai sensi dell’art. 26, comma 4, D.Lgs. n. 81/2008
e s.m.i., non risponde in solido con l’appaltatore,
nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori,
nei termini e nei limiti ivi specificati, in relazione
a tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente
dell’appaltatore o del subappaltatore, non risulti
indennizzato dall’INAIL o dall’IPSEMA;
il committente pubblico con riguardo ai contratti
di appalto di lavori, servizi e forniture:
– ai sensi degli artt. 4 e 5 del D.P.R. n. 207/20010
e s.m.i., è chiamato ad operare un intervento sostitutivo
in caso di inadempienza dell’appaltatore e
degli eventuali subappaltatori rispetto agli adempimenti
contributivi e/o retributivi nei confronti dei
dipendenti di questi, provvedendo al versamento
diretto di quanto dovuto rispettivamente agli enti
competenti ed ai lavoratori stessi.
Il committente privato imprenditore con riguardo
ai contratti di appalto di lavori e servizi:
– ai sensi dell’art. 1676 c.c. risponde in solido con
l’appaltatore, nei termini e nei limiti ivi specificati,
nei confronti dei dipendenti di quest’ultimo per i
trattamenti retributivi agli stessi dovuti;
– ai sensi dell’art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/
2003 e s.m.i., risponde in solido con l’appaltatore o
con gli eventuali subappaltatori, nei termini e nei
limiti ivi specificati, in relazione ai trattamenti retributivi,
comprese le quote di trattamento di fine
rapporto, nonché ai contributi previdenziali ed ai
premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di
esecuzione del contratto di appalto;
– ai sensi dell’art. 35, comma 28, del D.L. n. 223/
2006 e s.m.i., non risponde in solido con l’appaltatore
o con gli eventuali subappaltatori, nei termini
e nei limiti ivi specificati, in relazione al versamento
all’erario delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente
e dell’IVA scaturente dalle fatture inerenti
alle prestazioni effettuate nell’ambito dell’appalto;
– ai sensi dell’art. 26, comma 4, D.Lgs. n. 81/2008
e s.m.i., risponde in solido con l’appaltatore, nonché
con ciascuno degli eventuali subappaltatori,
nei termini e nei limiti ivi specificati, in relazione a
tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente
dell’appaltatore o del subappaltatore, non risulti indennizzato
dall’INAIL o dall’IPSEMA.
L’appaltatore con riguardo ai contratti di appalto
di lavori e servizi:
– ai sensi dell’art. 29, comma 2, del D.Lgs. n. 276/
2003 e s.m.i., risponde in solido con gli eventuali
subappaltatori, nei termini e nei limiti ivi specificati,
in relazione ai trattamenti retributivi, comprese
le quote di trattamento di fine rapporto, nonché ai
contributi previdenziali ed ai premi assicurativi dovuti
in relazione al periodo di esecuzione del contratto
di appalto;
– ai sensi dell’art. 35, comma 28, del D.L. n. 223/
2006 e s.m.i., risponde in solido con gli eventuali
subappaltatori, nei termini e nei limiti ivi specificati,
in relazione al versamento all’erario delle ritenute
sui redditi di lavoro dipendente e dell’IVA scaturente
dalle fatture inerenti alle prestazioni effettuate
nell’ambito dell’appalto;
– ai sensi dell’art. 26, comma 4, D.Lgs. n. 81/2008
e s.m.i., risponde in solido con ciascuno degli eventuali
subappaltatori, nei termini e nei limiti ivi specificati,
in relazione a tutti i danni per i quali il lavoratore,
dipendente dell’appaltatore o del subappaltatore,
non risulti indennizzato dall’INAIL o dall’IPSEMA.
L’appaltatore con riguardo ai contratti di appalto
di forniture
– ai sensi dell’art. 35, comma 28, del D.L. n. 223/
2006 e s.m.i., risponde in solido con gli eventuali
subappaltatori, nei termini e nei limiti ivi specificati,
in relazione al versamento all’erario delle ritenute
sui redditi di lavoro dipendente e dell’IVA scaturente
dalle fatture inerenti alle prestazioni effettuate
nell’ambito dell’appalto.
Il subappaltatore con riguardo ai contratti di appalto
di lavori, servizi e forniture:
– risponde nei confronti dei dipendenti impiegati
nell’appalto e degli istituti previdenziali ed assicurativi,
nel limite ordinario di 5 anni di prescrizione ai
sensi di legge, dei trattamenti retributivi, contributivi
ed assicurativi.
292 Urbanistica e appalti 3/2013

Pubblica amministrazione
Le novità della legge
anticorruzione
LEGGE 6 novembre 2012, n. 190
Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione
(G.U. n. 265, 13 novembre 2012)
Il contributo analizza la L. n. 190 del 2012, la cui faticosa approvazione mira a prevenire e reprimere la corruzione
e l’illegalità nella p.a. e nel settore pubblico allargato. Il rinvio alla legislazione delegata ed a fonti regolamentari
è destinato a completare un quadro di adempimenti di pianificazione e di organizzazione che avverranno
sotto la regía della CIVIT, nuova Autorità nazionale anticorruzione, nel rispetto delle intese raggiunte
in Conferenza unificata per le autonomie territoriali. Sono analizzate in particolare le misure volte alla trasparenza
dell’attività amministrativa, compresa l’attività relativa agli appalti pubblici ed al ricorso ad arbitri,
oltre alle misure per l’assolvimento di obblighi informativi ai cittadini. La cultura dell’integrità non si impone
soltanto mediante la definizione dei nuovi codici di comportamento dei dipendenti pubblici, ma richiede efficacia
in tutta la filiera degli adempimenti previsti dal legislatore: l’individuazione delle attività a rischio, la pianificazione
preventiva, la formazione e la rotazione del personale, il costante monitoraggio sugli uffici ed
una totale trasparenza dei flussi informativi ai cittadini.
Omissis.
Il contesto internazionale e la ‘‘cultura
dell’integrità’’
La legge in commento si iscrive nel più ampio
quadro dei provvedimenti normativi finalizzati alla
lotta alla corruzione, in adempimento agli obblighi
imposti dal diritto internazionale. Affianca in tale
quadro sistematico la L. 3 agosto 2009, n. 116, di
ratifica della Convenzione dell’Organizzazione delle
Nazioni Unite contro la corruzione del 31 ottobre
2003 (1), e le leggi 28 giugno 2012, nn. 110 e 112,
che hanno ratificato due convenzioni del Consiglio
d’Europa siglate a Strasburgo nel 1999 (2). Riprende
inoltre i documenti OCSE sulla ‘‘cultura dell’integrità’’
(3).
Con la L. n. 110 del 2012 è stata ratificata la
Convenzione penale sulla corruzione, che impegna
gli Stati a prevedere l’incriminazione di fatti di corruzione
attiva e passiva tanto di funzionari naziona-
Normativa
Atti della pubblica amministrazione
IL COMMENTO
di Sergio Foà
li quanto stranieri; di corruzione attiva e passiva
nel settore privato; del cosiddetto traffico di in-
Note:
(1) Gandini, Iuzzolino, Decalogo dell’Onu contro la corruzione -
Convenzione di Merida al via, l’Italia deve allinearsi: ecco come,
in Dir. e Giust., 2006, 7, 104.
(2) Pocar, Convenzioni del Consiglio d’Europa sulla corruzione:
ora l’Italia completi il cammino con norme adeguate, inGuida al
Diritto, 2012, 36, 8; Marzuoli, Fenomeni corruttivi e pubblica amministrazione:
più discipline, un unico obiettivo, inDir. Pen. e
Proc., 2011, 1045.
(3) Il documento Ocse ‘‘Government at a Glance’’ (2009) richiama
la ‘‘culture of integrity’’, e alla stessa riconduce «(...) coherent
efforts to update standards, provide guidance, and monitor
and enforce them in daily practice». Anche la ‘‘OECD Recomendation
for Enhanced Access and More Effective Use of Public
Sector Information’’ (2008) contiene una dettagliata definizione
di integrità in rapporto alla disciplina della trasparenza. Con specifico
riferimento alla materia degli appalti pubblici, cfr. la raccomandazione
‘‘On Enhancing Integrity in Public Procurement’’
(2008).
Urbanistica e appalti 3/2013 293

Normativa
Atti della pubblica amministrazione
fluenze; dell’autoriciclaggio. Dal provvedimento di
ratifica sono state espunte le disposizioni di diretto
adeguamento dell’ordinamento interno, confluite
appunto nella legge anticorruzione che qui si esamina.
Con la L. n. 112 del 2012 è stata ratificata la
Convenzione civile sulla corruzione, diretta ad assicurare
che negli Stati aderenti siano garantiti rimedi
giudiziali efficaci in favore delle persone che
hanno subito un danno risultante da un atto di corruzione.
Per espressa previsione del suo primo articolo, la
legge in esame è stata approvata in attuazione dell’art.
6 della Convenzione ONU sopra richiamata e
degli artt. 20 e 21 della Convenzione penale sulla
corruzione (e rispettive leggi di ratifica) al fine di
individuare, in ambito nazionale, l’Autorità nazionale
anticorruzione e gli altri organi incaricati di
svolgere attività di controllo, di prevenzione e di
contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica
amministrazione.
La CIVIT quale Autorità nazionale
anticorruzione
Il testo della L. n. 190 del 2012, definitivamente
approvato dalla Camera il 31 ottobre 2012, discende
dalla riformulazione operata nella votazione al
Senato, ove il Governo ha posto la questione di fiducia.
Dei due soli articoli che costituiscono il
provvedimento, a fronte dei 27 approvati dalla Camera,
l’intera disciplina sostanziale è dettata dagli
83 commi dell’art. 1, mentre l’art. 2 prevede la sola
clausola di invarianza finanziaria.
La legge interviene sostanzialmente su due fronti:
detta misure intese a prevenire e reprimere la
corruzione e l’illegalità nella p.a. (4); introduce nel
codice penale modifiche alla disciplina dei reati
contro la pubblica amministrazione (5). Delega
coerentemente il Governo all’adozione di un testo
unico in materia di incandidabiltà e di divieto di ricoprire
cariche elettive e di governo a seguito di
condanne definitive per delitti non colposi (6).
Nel dedicare attenzione al primo fronte di intervento,
il legislatore si preoccupa anzitutto di dare
attuazione alle richiamate convenzioni internazionali.
In attuazione della Convenzione ONU, l’art.
6 della L. n. 116 del 2009 designava quale Autorità
nazionale anticorruzione il Ministro per la pubblica
amministrazione e la semplificazione, riconoscendo
allo stesso la facoltà di delegare un sottosegretario
di Stato. La legge in commento, superando le perplessità
sulle garanzie di autonomia richieste dalla
Convenzione ONU (7), ha modificato tale previ-
sione ed ha individuato quale Autorità nazionale
anticorruzione la Commissione per la valutazione,
la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni
pubbliche (CIVIT, di seguito ‘‘Commissione’’) (8).
Note:
(4) La legge non contiene una definizione di ‘‘corruzione’’, che
viene quindi data per presupposta: cfr. in tali termini Presidenza
del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione pubblica,
circolare n. 1 del 25 gennaio 2013, ove è comunque precisato
che «il concetto di corruzione deve essere inteso in senso lato,
come comprensivo delle varie situazioni in cui, nel corso dell’attività
amministrativa, si riscontri l’abuso da parte di un soggetto
del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati. Le situazioni
rilevanti sono quindi evidentemente più ampie della fattispecie
penalistica (...)».
(5) Oltre ad un complessivo aumento delle pene, la legge rende
riferibile il reato di concussione (art. 317 c.p.) al solo pubblico ufficiale
(e non più anche all’incaricato di pubblico servizio) ed elimina
la fattispecie per induzione, che diventa oggetto di un autonomo
reato; il reato di cui all’art. 318 c.p., relativo alla cd. corruzione
impropria del pubblico ufficiale (Corruzione per un atto d’ufficio),
ora rubricato ‘‘Corruzione per l’esercizio della funzione’’,
viene riformulato in modo da rendere più evidenti i confini tra le
diverse forme di corruzione: da una parte, la corruzione propria di
cui all’art. 319, che rimane ancorata alla prospettiva del compimento
di un atto contrario ai doveri d’ufficio; dall’altra, l’accettazione
o la promessa di una utilità indebita, da parte del pubblico
ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, che prescinde dall’adozione
o dall’omissione di atti inerenti al proprio ufficio; è inserito
nel codice penale l’art. 319-quater, relativo al delitto di ‘‘Induzione
indebita a dare o promettere utilità’’ (cd. concussione
per induzione), che punisce sia il pubblico ufficiale o incaricato di
pubblico servizio che induce il privato a pagare (reclusione da 3 a
8 anni) sia il privato che dà o promette denaro o altra utilità (reclusione
fino a 3 anni); è inserito nel codice il delitto di ‘‘Traffico
di influenze illecite’’ (nuovo art. 346-bis) che sanziona con la reclusione
da 1 a 3 anni chi sfrutta le sue relazioni con il pubblico
ufficiale al fine di farsi dare o promettere denaro o altro vantaggio
patrimoniale come prezzo della sua mediazione illecita. La
condotta deve riguardare un atto contrario ai doveri d’ufficio o l’omissione
o il ritardo di un atto dell’ufficio e la stessa pena si applica
a chi indebitamente dà o promette; è riformulato l’art. 2635
del codice civile (Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità),
ora denominata ‘‘Corruzione tra privati’’ e riferita alle infedeltà
nella redazione dei documenti contabili societari. La fattispecie
è procedibile a querela, a meno che dall’illecito derivi una distorsione
della concorrenza; la responsabilità amministrativa da reato
delle persone giuridiche è adeguata alle nuove fattispecie.
(6) Il termine per l’esercizio della delega è fissato in 12 mesi ma
il Governo ha accolto al Senato un ordine del giorno che lo impegna
ad esercitare la delega entro un mese dall’entrata in vigore
della legge.
(7) Corte conti, sez. riun. controllo, 13 settembre 2011, n. 47, in
Giorn. Dir. Amm., 2012, 423 (m): La scelta di individuare nella
CIVIT, e non più nel dipartimento della funzione pubblica, l’autorità
nazionale anticorruzione supera in parte le perplessità manifestate
in precedenza dalla corte in relazione al grado di autonomia
e indipendenza preteso dalla convenzione Onu del 2003 sulla
anticorruzione; non coerenti con tale esigenza sono peraltro ritenute
le modalità di nomina dei componenti della commissione,
i cui requisiti di nomina meriterebbero comunque d’essere
rivisti in funzione dei nuovi compiti assegnati; si osserva inoltre
che la CIVIT è tenuta ad intrattenere con l’esecutivo forme di
stretta collaborazione.
(8) Cfr. art. 1, comma 2. Tomei, Sciancalepore, Commissione per
la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni
pubbliche [aggiornamento-2012], inDigesto Pubbl., Torino, 203.
294 Urbanistica e appalti 3/2013

Tale Commissione, istituita con L. n. 150 del
2009, assume ora in materia anticorruttiva funzioni
e compiti di amministrazione attiva, consultiva,
ispettiva e di controllo, in un quadro di collaborazione
con il Dipartimento della funzione pubblica e
con il Comitato interministeriale previsto dall’art.
1, comma 4, della legge.
Spetta alla Commissione approvare il Piano nazionale
anticorruzione predisposto dal Dipartimento
della funzione pubblica, sulla base degli indirizzi forniti
dal Comitato interministeriale costituito con
D.P.C.M. 16 gennaio 2013 (9), nonché analizzare
le cause ed i fattori della corruzione ed individuare
gli interventi di prevenzione e contrasto, anche mediante
la collaborazione con i paritetici organismi
stranieri e con le organizzazioni regionali ed internazionali
competenti (10).
In via consultiva, la Commissione esprime pareri
facoltativi agli organi dello Stato e a tutte le amministrazioni
pubbliche in materia di conformità di
atti e comportamenti dei funzionari pubblici alla
legge, ai codici di comportamento ed ai contratti,
collettivi e individuali, regolanti il rapporto di lavoro
pubblico. Esprime inoltre pareri facoltativi in
materia di autorizzazioni allo svolgimento di incarichi
esterni da parte dei dirigenti amministrativi dello
Stato e degli enti pubblici nazionali, con particolare
attenzione alle nuove preclusioni introdotte
dalla stessa legge, che vieta ai dipendenti che, negli
ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri
autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche
amministrazioni di svolgere, nei tre anni successivi
alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività
lavorativa o professionale presso i soggetti privati
destinatari dell’attività della pubblica amministrazione
svolta attraverso i medesimi poteri (11).
I poteri di vigilanza e controllo della Commissione
riguardano l’applicazione e l’efficacia delle misure
di prevenzione alla corruzione adottate dalle
pubbliche amministrazioni ed il rispetto delle nuove
regole sulla trasparenza dell’attività amministrativa
introdotte dalla legge (art. 1, commi da 15 a
36) e previste dalle altre vigenti disposizioni.
Nell’esercizio delle funzioni ispettive, la Commissione
può richiedere notizie, informazioni, atti e
documenti alle pubbliche amministrazioni, ed ordinare
l’adozione di atti o provvedimenti richiesti dai
piani di prevenzione alla corruzione e dalle regole
sulla trasparenza dell’attività amministrativa, ovvero
la rimozione di comportamenti o atti contrastanti
con i piani e le regole sulla trasparenza citati. La
Commissione e le amministrazioni interessate dan-
Normativa
Atti della pubblica amministrazione
no notizia, nei rispettivi siti web istituzionali, dei
provvedimenti conseguentemente adottati.
L’ampliamento dei poteri della CIVIT, nella sua
veste di autorità amministrativa indipendente (12),
si pone in linea di continuità con le funzioni e i
compiti già previsti dal D.Lgs. n. 150 del 2009:
emerge lo stretto legame funzionale, già evidenziato
dalla Commissione stessa con le deliberazioni n.
105 del 2010 e n. 2 del 2012 (13), tra trasparenza e
integrità per la prevenzione della corruzione, così
come riconosciuto anche a livello internazionale
(14).
Il Dipartimento della funzione pubblica opera
come soggetto promotore delle strategie di prevenzione
e come coordinatore della loro attuazione: a
tale fine definisce modelli standard delle informazioni
e dei dati occorrenti per il conseguimento degli
obiettivi previsti dalla legge, secondo modalità
che consentano la loro gestione ed analisi informatizzata.
Deve altresì definire criteri per assicurare la
rotazione dei dirigenti nei settori particolarmente
esposti alla corruzione e misure per evitare sovrap-
Note:
(9) Presieduto dal Presidente del Consiglio dei Ministri e composto
dal Ministro della giustizia, dal Ministro dell’Interno e dal Ministro
per la pubblica amministrazione e la semplificazione.
(10) È inoltre prevista una relazione annuale al Parlamento, entro
il 31 dicembre, sull’attività di contrasto della corruzione e dell’illegalità
nella pubblica amministrazione e sull’efficacia delle disposizioni
vigenti in materia (art. 1, comma 2, lett. g).
(11) Cfr. il comma 16-ter introdotto nel testo dell’art. 53 del
D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165. La stessa previsione sanziona
con la nullità i contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione
e vieta ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti
di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi
tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente
percepiti e accertati ad essi riferiti.
(12) Come espressamente riconosciuto da Cons. Stato, sez. I,
parere 22 marzo 2010, n. 1081.
(13) Nei due provvedimenti, recanti ‘‘Linee guida per il miglioramento
della predisposizione e dell’aggiornamento del Programma
triennale per la trasparenza e l’integrità’’, la Commissione ha
sottolineato che «gli obblighi di trasparenza sono correlati ai
principi e alle norme di comportamento corretto nelle amministrazioni
nella misura in cui il loro adempimento è volto alla rilevazione
di ipotesi di cattiva gestione e alla loro consequenziale
eliminazione» ed ha previsto che, per la selezione dei dati da
pubblicare, le amministrazioni devono considerare anche la «natura
dei propri settori di attività e dei propri procedimenti, al fine
di individuare le aree più esposte a rischio di corruzione o semplicemente
di cattiva gestione». D’Alterio, Il programma triennale
per la trasparenza e l’integrità (commento alla delibera della
commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e
l’integrità delle amministrazioni pubbliche [Civit], 14 ottobre
2010, n. 105), inGiorn. Dir. Amm., 2011, 440.
(14) Audizione al Senato della Prof. Romilda Rizzo, Presidente
della Commissione indipendente per la Valutazione, la trasparenza
e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (Disegno di
legge n. 2156-B), in www.senato.it.
Urbanistica e appalti 3/2013 295

Normativa
Atti della pubblica amministrazione
posizioni di funzioni e cumuli di incarichi nominativi
in capo ai dirigenti pubblici, anche esterni.
Gli adempimenti organizzativi
delle pubbliche amministrazioni
e le responsabilità
La legge prevede un’obbligatoria attività di pianificazione
per la prevenzione della corruzione, e
detta le modalità serventi. Le pubbliche amministrazioni
centrali definiscono e trasmettono al Dipartimento
della funzione pubblica un piano di prevenzione
della corruzione, nel quale deve essere valutato
il diverso livello di esposizione degli uffici al
rischio di corruzione (15), e debbono essere previsti
gli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo
rischio, anche mediante apposite procedure
di formazione del personale (16).
L’adozione di piani triennali di prevenzione della
corruzione è estesa a tutte le amministrazioni
(17) ed anche ai soggetti di diritto privato sottoposti
a controllo pubblico esercitanti funzioni
amministrative, attività di produzione di beni e
servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o
di gestione di servizi pubblici (18), rimettendo al
Prefetto, su richiesta, il compito di supporto tecnico
e informativo agli enti locali, anche al fine di
garantire la coerenza di tali atti rispetto alle linee
guida del Piano nazionale approvato dalla Commissione.
Per le regioni, le province autonome, gli enti locali,
gli enti pubblici ed i soggetti di diritto privato
sottoposti al loro controllo, è affidata alle intese in
sede di Conferenza unificata la definizione degli
adempimenti e dei relativi termini riguardo alla
predisposizione del piano triennale di prevenzione
della corruzione, a partire da quello relativo agli anni
2013-2015, ed alla sua trasmissione alla Regione
interessata ed al Dipartimento della funzione pubblica;
nonché all’adozione dei regolamenti per l’individuazione
degli incarichi vietati ai dipendenti
pubblici di cui all’art. 53, comma 3-bis, D.Lgs. n.
165 del 2001 (19).
Spetta all’organo di indirizzo politico individuare,
di norma tra i dirigenti amministrativi di ruolo
di prima fascia in servizio (20), il responsabile della
prevenzione della corruzione: negli enti locali tale
ruolo è assegnato al segretario generale, salva diversa
e motivata determinazione, evidentemente riferita
a profili organizzativi e dunque difficilmente sindacabile
nel merito.
Come chiarito in via interpretativa, considerati i
vincoli esistenti in materia di dotazioni organiche
(art. 2, comma 10-bis, L. n. 135 del 2012), l’incarico
di responsabile della prevenzione può configurarsi
come incarico aggiuntivo a dirigente già titolare
di incarico dirigenziale di livello generale. L’Amministrazione,
nei limiti dei richiamati vincoli, potrebbe
decidere di dedicare un apposito ufficio allo
svolgimento della funzione o di individuare distinti
referenti per centri di responsabilità, quali strutture
territoriali o dipartimentali (21).
Nel silenzio della legge riguardo al termine per la
nomina del responsabile per la prevenzione, il Dipartimento
della funzione pubblica e la CIVIT sollecitano
un immediato adempimento, per consentire
a tale soggetto di predisporre attività preparatorie
e iniziative concrete, in primo luogo, per l’indivi-
Note:
(15) L’art. 34-bis, comma 4, del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179,
conv. con L. 17 dicembre 2012, n. 221, ha differito al 31 marzo
2013 il termine di adozione del piano triennale di prevenzione
della corruzione da parte delle Amministrazioni centrali. Nella
seduta del 3 gennaio 2013 la Commissione ha segnalato al Ministro
per la pubblica amministrazione e la semplificazione ed al
Capo Dipartimento della funzione pubblica l’opportunità di adottare
le iniziative e i provvedimenti strumentali all’adozione del
detto piano.
(16) L’art. 1, comma 11, prevede che la Scuola superiore della
pubblica amministrazione, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza
pubblica e utilizzando le risorse umane, strumentali e finanziarie
disponibili a legislazione vigente, predisponga percorsi,
anche specifici e settoriali, di formazione dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni statali sui temi dell’etica e della legalità.
Con cadenza periodica e d’intesa con le Amministrazioni,
provvede alla formazione dei dipendenti pubblici chiamati ad
operare nei settori in cui è più elevato, sulla base dei piani adottati
dalle singole amministrazioni, il rischio che siano commessi
reati di corruzione.
(17) Nella seduta del 3 gennaio 2013 la Commissione ha ritenuto
che le disposizioni di prevenzione della corruzione di cui ai primi
57 commi dell’art. 1 della legge si applicano anche alle Università
e ha segnalato ai Rettori l’esigenza di nominare tempestivamente
il responsabile della prevenzione della corruzione.
(18) Art. 1, commi 49, 59, 60 e 61, legge in esame. Con deliberazione
18 dicembre 2012, n. 34, la Commissione ha ritenuto
applicabile la legge nei confronti delle istituzioni pubbliche di assistenza
e beneficenza, anche in attesa della trasformazione in
soggetto di diritto privato prevista dall’art. 10 della L. 8 novembre
2000, n. 328 ‘‘Legge quadro per la realizzazione del sistema
integrato di interventi e servizi sociali’’.
(19) Art. 1, comma 60, legge in esame, che prevede il termine
di 120 giorni dall’entrata in vigore per la definizione delle intese
in Conferenza unificata.
(20) Il Dipartimento della Funzione pubblica accorda preferenza
alla scelta di un dirigente che si trovi in una ‘‘posizione di relativa
stabilità’’, in ogni caso escludendo i dirigenti inseriti nell’ufficio
di diretta collaborazione per la particolarità del vincolo fiduciario
che li lega all’autorità di indirizzo politico e all’Amministrazione.
Suggerisce di evitare la designazione di dirigenti con incarico
di studio e consulenza: circ. 25 gennaio 2013, n. 1 punto
2.1.
(21) Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della
funzione pubblica, circ. 25 gennaio 2013, n. 1, punti 2.1 e 2.2.
296 Urbanistica e appalti 3/2013

duazione delle aree a rischio e per l’avvio di formazione
specifica del personale (22).
Spetta al responsabile proporre all’organo di indirizzo
politico il piano triennale di prevenzione
della corruzione, da approvare entro il 31 gennaio
di ogni anno e da trasmettere al Dipartimento della
funzione pubblica. Premesso il divieto di affidare
l’attività di elaborazione del piano a soggetti estranei
all’Amministrazione, la legge è particolarmente
attenta alle procedure per la selezione e la formazione
del personale destinato ad operare in settori particolarmente
esposti alla corruzione. La mancata
predisposizione del piano e la mancata adozione
delle procedure per la selezione e la formazione dei
dipendenti costituiscono elementi di valutazione
della responsabilità dirigenziale (23).
Il comma 12 del medesimo articolo 1 prevede
inoltre una generale forma di responsabilità dirigenziale,
disciplinare ed amministrativa (per il danno
erariale e all’immagine della pubblica amministrazione)
in capo alla figura in esame in caso di commissione,
all’interno dell’Amministrazione, di un
reato di corruzione accertato con sentenza passata
in giudicato. La predisposizione del piano di prevenzione
prima della commissione del fatto, unitamente
alla prova di aver vigilato sul funzionamento
e sull’osservanza del piano consentono l’esonero dai
connessi profili di responsabilità (escludendo il profilo
della culpa in vigilando, ma potendo sollevare
dubbi sulla bontà delle scelte pianificatorie effettuate).
Si tratta di un profilo di responsabilità a confine
tra imputazione oggettiva, connessa al ruolo rivestito,
e responsabilità colposa per difettosa capacità
prognostica in termini di prevenzione.
Tali compiti di controllo, ed i connessi profili di
responsabilità, si estendono alla verifica dell’efficace
attuazione del piano e della sua idoneità, con
l’obbligo di proporne la modifica quando sono accertate
‘‘significative violazioni delle prescrizioni’’ o
quando intervengono mutamenti nell’organizzazione
o nell’attività dell’Amministrazione. Sul piano
organizzativo, il responsabile deve altresì verificare,
d’intesa con il dirigente competente, l’effettiva rotazione
degli incarichi negli uffici preposti allo svolgimento
delle attività ove è più elevato il rischio di
fenomeni corruttivi (24).
La sanzione disciplinare a carico del responsabile
non può essere inferiore alla sospensione dal servizio
con privazione della retribuzione da un minimo
di un mese ad un massimo di sei mesi. Ulteriore
profilo di responsabilità disciplinare ex art. 21
D.Lgs. n. 165 del 2001 si configura per «ripetute
violazioni delle misure di prevenzione previste dal
Normativa
Atti della pubblica amministrazione
piano», cui consegue altresì sul piano disciplinare
la responsabilità «per omesso controllo».
Anche per i dipendenti dell’Amministrazione
costituisce illecito disciplinare la violazione delle
misure di prevenzione previste dal piano.
I risultati dell’attività svolta dal responsabile devono
essere pubblicati entro il 15 dicembre di ogni
anno sul sito web dell’Amministrazione, mediante
una relazione trasmessa all’organo di indirizzo politico,
cui il responsabile, su richiesta o di propria
iniziativa, riferisce.
Sotto altro profilo, la legge ha reso più incisivo
il giudizio di responsabilità amministrativa nei confronti
del dipendente pubblico che ha causato un
danno all’immagine della p.a. Per effetto dell’art. 1,
comma 1-sexies, introdotto nella L. 14 gennaio
1994, n. 20, è previsto che l’entità del danno all’immagine
della pubblica amministrazione derivante
dalla commissione di un reato contro la stessa
pubblica amministrazione accertato con sentenza
passata in giudicato si presume, salva prova contraria,
pari al doppio della somma di denaro o del valore
patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita
dal dipendente.
L’inversione dell’onere della prova era stata sollecitata
in sede d’esame del d.d.l. dalla Camera, che
aveva impegnato il Governo con specifico ordine
del giorno a valutare gli effetti della modificazione
normativa nel senso auspicato (25).
La norma presume l’esistenza del danno all’immagine,
ed il relativo quantum, per effetto della
Note:
(22) Dipartimento della funzione pubblica, circ. 25 gennaio
2013, n. 1 cit., punto 2.1 deduce dal silenzio della legge sui termini
un obbligo per tutte le Amministrazioni di provvedere tempestivamente.
CIVIT, con nota 29 novembre 2012, ha chiesto ai
Ministri ed agli enti pubblici nazionali di nominare il responsabile
della prevenzione ed ha invitato le stesse Amministrazioni a segnalare
le iniziative già assunte in materia di prevenzione della
corruzione.
(23) Art. 1, comma 8, legge in esame.
(24) Art. 1, comma 10, legge in esame.
(25) Nella seduta del 31 ottobre 2012, la Camera, premesso
che «(...) è di notevole momento, inoltre, che l’onere della prova
del danno all’immagine alla pubblica amministrazione, nei predetti
giudizi, sia invertito, ponendolo a carico del convenuto, sul
quale, dunque, dovrebbe incombere la dimostrazione che il danno
non ci sia stato o che sia stato risarcito, al fine di introdurre
nell’ordinamento un incisivo e significativo deterrente, utilmente
concorrente alla prevenzione dei reati di corruzione, concussione,
abuso e quant’altri ancora enumerabili, consumati in vista di
un profitto personale» (...) impegna il Governo a valutare gli effetti
applicativi dell’art. 1, comma 62, al fine di adottare eventuali
ulteriori iniziative normative volte ad introdurre modifiche nel
senso indicato nelle premesse, anche relativamente ai soggetti
privati coinvolti nel giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte
dei conti.
Urbanistica e appalti 3/2013 297

Normativa
Atti della pubblica amministrazione
sentenza di condanna passata in giudicato per i reati
previsti.
Come già evidenziato nei primi commenti, tale
disposizione produce effetti anche sull’applicazione
dell’art. 7 della L. n. 97 del 2001, nella parte in cui
stabilisce che la sentenza irrevocabile di condanna
pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati
nell’art. 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione
è comunicata al competente procuratore
regionale della Corte dei conti affinché promuova
entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità
per danno erariale nei confronti del
condannato (26).
Se il danno in esame, valutabile in termini patrimoniali
(27), è presunto, la procura contabile muoverà
dalla sentenza penale di condanna passata in
giudicato, e qualora la condotta illecita non sia sufficientemente
acclarata in tale sede, dovrà accertare
i fatti limitatamente al profilo rilevante, con una
valutazione parzialmente autonoma.
Le nuove misure sulla trasparenza
dell’attività amministrativa
La legge detta specifiche misure volte alla trasparenza
dell’attività amministrativa, compresa l’attività
relativa agli appalti pubblici ed al ricorso ad arbitri,
e relative all’attribuzione di posizioni dirigenziali,
oltre a misure per l’assolvimento di obblighi informativi
ai cittadini da parte delle pubbliche amministrazioni.
Le relative disposizioni trovano applicazione, oltre
alle pubbliche amministrazioni, anche alle società
da queste partecipate ed alle loro controllate,
ai sensi dell’art. 2359 c.c., limitatamente alla loro
attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto
nazionale o dell’Unione europea (28).
In primo luogo la legge conferma la riconduzione
della trasparenza dell’attività amministrativa a livello
essenziale delle prestazioni concernenti i diritti
sociali e civili ai sensi dell’art. 117, secondo comma,
lett. m), Cost. (29).
Per l’effetto, l’art. 1, comma 9. lett. f) della legge
stabilisce che il piano di prevenzione della corruzione
individui ‘‘specifici obblighi di trasparenza ulteriori
rispetto a quelli previsti da disposizioni di legge’’.
Tale previsione implica un collegamento tra il
piano di prevenzione ed il programma triennale per
la trasparenza, che le Amministrazioni debbono
adottare ai sensi dell’art. 11 del D.Lgs. n. 150 del
2009 (30).
Per quanto specificamente riguarda le informazioni
sui costi di realizzazione delle opere pubbliche
e di produzione dei servizi erogati ai cittadini, la
legge rinvia ad uno schema tipo redatto dall’Autorità
per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture, cui è altresì affidata la raccolta e
la pubblicazione nel proprio sito web istituzionale
al fine di consentirne una comparazione (31).
I livelli essenziali delle prestazioni riferiti alla trasparenza
riguardano in particolare i procedimenti di
autorizzazione o concessione; di scelta del contraente
per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, anche
con riferimento alla modalità di selezione prescelta
ai sensi del codice dei contratti pubblici relativi
a lavori, servizi e forniture; di concessione ed
erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili
finanziari, nonché attribuzione di vantaggi economici
di qualunque genere a persone ed enti pubblici
e privati; di concorsi e prove selettive per l’assunzione
del personale e progressioni di carriera di cui
all’art. 24 D.Lgs. n. 150 del 2009.
Rivendicando la competenza statale in materia,
sia riferita all’individuazione del livello essenziale
delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche
a fini di trasparenza, prevenzione, contrasto
della corruzione e della cattiva amministrazione, sia
Note:
(26) Atelli, An e quantum del danno all’immagine della p.a., in
Dir. e Pratica Amm., n. 11, 2012.
(27) C.E. Gallo, Passato, presente e futuro del danno all’immagine
della pubblica amministrazione, (nota a Corte cost., 15 dicembre
2010, n. 355), in questa Rivista, 2011, 412.
(28) Art. 1, comma 34, legge in esame.
(29) Come già previsto in materia di diritto di accesso dall’art.
22 della L. n. 241 del 1990, novellato dalla L. n. 15 del 2005. In
generale, sugli adempimenti procedimentali nel quadro dei livelli
essenziali delle prestazioni, Cocconi, Il giusto procedimento fra i
livelli essenziali delle prestazioni, inLe regioni, 2010, n. 2.
(30) Lo stesso art. 1, comma 15, della legge qui in esame prevede
che «Ai fini della presente legge, la trasparenza amministrativa
(...) secondo quanto previsto all’art. 11 del D.Lgs. 27 ottobre
2009, n. 150, è assicurata mediante la pubblicazione, nei
siti web istituzionali delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni
relative ai procedimenti amministrativi, secondo criteri
di facile accessibilità, completezza e semplicità di consultazione,
nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di
segreto d’ufficio e di protezione dei dati personali. Nei siti web
istituzionali delle amministrazioni pubbliche sono pubblicati anche
i relativi bilanci e conti consuntivi, nonché i costi unitari di
realizzazione delle opere pubbliche e di produzione dei servizi
erogati ai cittadini. Sulla necessità di raccordare, anche sul piano
organizzativo, le serventi attività coordinando le figure deputate
a svolgerle, cfr. Dipartimento della funzione pubblica, circ. 25
gennaio 2013, n. 1 cit., punto 2.5. Sui contenuti e sulle modalità
di redazione dei programmi triennali per la trasparenza, si rinvia
alle già richiamate Linee guida approvate dalla CIVIT con deliberazioni
n. 105/2010 e n. 2/2012.
(31) In data 6 novembre 2012 CIVIT e AVCP hanno siglato un
protocollo d’intesa per lo svolgimento di attività di interesse comune,
il cui contenuto è di carattere generale.
298 Urbanistica e appalti 3/2013

la funzione di coordinamento informativo statistico
e informatico dei dati dell’amministrazione statale,
regionale e locale (art. 117, comma 2, lett. r),
Cost.), la legge delega il Governo ad adottare entro
sei mesi un decreto legislativo per il riordino della
disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza
e diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni, mediante la modifica o
l’integrazione delle disposizioni vigenti, o mediante
la previsione di nuove forme di pubblicità.
Lo schema di decreto legislativo in materia di
pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni
da parte della p.a. è già stato predisposto. Secondo
il Ministero della funzione pubblica, il provvedimento
intende attuare il principio di trasparenza
come total disclosure, cioè «accessibilità totale delle
informazioni su ogni aspetto dell’organizzazione e
dell’attività amministrativa, del perseguimento delle
funzioni istituzionali e dell’utilizzo delle risorse
pubbliche» (32). Modello d’ispirazione è il Freedom
of Information Act statunitense (33).
In attuazione dei principi e criteri direttivi della
legge si possono evidenziare i seguenti contenuti
(34):
1) i documenti e le informazioni oggetto di pubblicazione
obbligatoria devono essere disponibili in
formato aperto e possono essere conosciuti, fruiti,
utilizzati e riutilizzati da parte di chiunque;
2) accesso civico: chiunque ha il diritto di chiedere
ed ottenere gratuitamente dalle pubbliche amministrazione
gli atti, i documenti e le informazioni
di cui è obbligatoria la pubblicazione ma che, per
qualsiasi motivo, le amministrazioni non hanno
provveduto a rendere pubbliche sui propri siti istituzionali;
3) per agevolare l’accesso ai documenti e ai dati
oggetto di pubblicazione i siti istituzionali delle
pubbliche amministrazioni devono prevedere una
apposita sezione denominata ‘‘Amministrazione trasparente’’
e, per rendere maggiormente utilizzabili
le informazioni in essa contenute, non potranno essere
usati filtri e altre soluzioni tecniche atte ad impedire
ai comuni motori di ricerca web di indicizzare
i dati ed effettuare ricerche (35);
4) tutte le informazioni necessarie ai cittadini
per ottenere atti documenti o servizi da parte della
amministrazioni devono essere disponibili on line.
Deve essere garantita trasparenza sugli atti contabili
e di spesa delle amministrazioni ivi inclusi quelli di
trasferimento di fondi pubblici ad altri soggetti pubblici
e privati;
5) sono ridefiniti in modo organico i profili di
responsabilità e le sanzioni a carico dei funzionari
Normativa
Atti della pubblica amministrazione
per il mancato, ritardato o inesatto adempimento
degli obblighi di pubblicazione;
6) è prevista l’inefficacia dei provvedimenti di
conferimento di incarichi adottati, ma non pubblicati,
con il conseguente divieto di corrispondere la
retribuzione prevista, sicché la pubblicazione assurge
ad elemento integrativo dell’efficacia.
Per quanto riguarda la pubblicità della situazione
reddituale e patrimoniale dei titolari di incarichi
politici, è prevista la pubblicazione di tutti i compensi
percepiti dal soggetto in relazione a qualsiasi
incarico e si è estesa a tutti la disciplina prevista
per l’anagrafe patrimoniale dei parlamentari: dovrà
essere resa pubblica la situazione patrimoniale (proprietà
immobiliari, quote di società, ecc.) e sarà
consentito a chiunque di verificare se, e in che misura,
l’espletamento dell’incarico sia stato occasione
di arricchimento personale (36).
Con riferimento agli incarichi dirigenziali e di
diretta collaborazione, è prevista la pubblicazione
degli estremi dell’atto di conferimento, dei compensi
percepiti, nonché dei dati relativi allo svolgimento
di altri incarichi o di attività professionali.
La pubblicazione degli estremi dell’atto di conferimento
dell’incarico a dirigenti e consulenti esterni
è condizione per la liquidazione del compenso; qua-
Note:
(32) Sulla total disclosure cfr. raccomandazione del Comitato dei
Ministri del Consiglio d’Europa 21 febbraio 2002, n. 2. Carloni,
La trasparenza «totale» delle amministrazioni pubbliche, in
Astrid, 2011.
(33) Cfr. Comunicato Ministero della funzione pubblica 23 gennaio
2013 ‘‘Trasparenza: un elemento essenziale in tema di lotta
alla corruzione e alla illegalità’’.
(34) I principi e criteri direttivi sono elencati all’art. 1, comma 35,
lett. a)-h), della legge in esame.
(35) Il contenuto minimo dei siti web istituzionali delle pubbliche
amministrazioni è oggi definito dall’art. 54 del D.Lgs. 7 marzo
2005, n. 82, recante ‘‘Codice dell’Amministrazione digitale’’. Riguardo
alla tutela della riservatezza, cfr. Garante per la protezione
dei dati personali, provvedimento 7 luglio 2011, n. 282 ‘‘Linee
guida dei siti web delle pubbliche amministrazioni del Ministro
per la pubblica amministrazione e l’innovazione’’ e le Linee
guida emanate dal Garante in data 2 marzo 2011, in materia di
‘‘Trattamento di dati personali contenuti anche in atti e documenti
amministrativi, effettuato anche da soggetti pubblici per
finalità di pubblicazione e diffusione sul web’’, in www.garanteprivacy.it.
(36) L’art. 1, comma 35, lett. c) della legge prevede «precisazione
degli obblighi di pubblicità di dati relativi ai titolari di incarichi
politici, di carattere elettivo o comunque di esercizio di poteri di
indirizzo politico, di livello statale, regionale e locale. Le dichiarazioni
oggetto di pubblicazione obbligatoria di cui alla lett. a) devono
concernere almeno la situazione patrimoniale complessiva
del titolare al momento dell’assunzione della carica, la titolarità
di imprese, le partecipazioni azionarie proprie, del coniuge e dei
parenti entro il secondo grado di parentela, nonché tutti i compensi
cui dà diritto l’assunzione della carica».
Urbanistica e appalti 3/2013 299

Normativa
Atti della pubblica amministrazione
lora sia stata omessa e il pagamento comunque effettuato
sono inoltre previste sanzioni pecuniarie e
disciplinari a carico dei dirigenti responsabili.
Procedimenti amministrativi e servizi online
Per i procedimenti ad istanza di parte è prevista
la pubblicazione dell’elenco di tutti i documenti da
produrre a corredo dell’istanza ed è vietato l’uso di
moduli e formulari che non siano stati pubblicati
online; devono essere pubblicati i recapiti telefonici
e le caselle di posta elettronica cui rivolgersi per
ciascun procedimento nonché del titolare dei poteri
sostitutivi da attivare in caso di mancata di risposta.
Oltre al rinvio alla legislazione delegata, la definizione
delle modalità di assolvimento degli obblighi
di pubblicità è affidata ad uno o più decreti del
Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione,
da adottarsi sentita la Conferenza unificata,
che debbono individuare ‘‘le informazioni rilevanti’’
e le ‘‘relative modalità di pubblicazione’’,
nonché le indicazioni generali sull’utilizzo della casella
di posta elettronica certificata e sull’accesso
documentale (37).
Resta fermo l’obbligo per ogni amministrazione
pubblica di rendere noto, mediante il sito web istituzionale,
almeno un indirizzo di posta elettronica
certificata cui il cittadino possa rivolgersi per trasmettere
istanze ex art. 38 D.P.R. n. 445 del 2000,
e ricevere informazioni circa i provvedimenti e i
procedimenti amministrativi che lo riguardano
(38). È altresì obbligatorio rendere accessibile
in ogni momento agli interessati, tramite strumenti
di identificazione informatica, le informazioni relative
ai provvedimenti ed ai procedimenti amministrativi
che li riguardano, ivi comprese quelle relative
allo stato della procedura, ai relativi tempi e allo
specifico ufficio competente in ogni singola fase.
È infine previsto l’obbligo di periodico monitoraggio
del rispetto dei tempi procedimentali e di
conseguente ‘‘tempestiva eliminazione delle anomalie’’,
estendendo la pubblicità sul sito web di ciascuna
Amministrazione ai risultati del monitoraggio.
In merito al rispetto dei tempi procedimentali, la
legge conferisce un’altra delega al Governo per l’adozione,
entro sei mesi, di un decreto legislativo
per la disciplina organica degli illeciti, e relative
sanzioni disciplinari, correlati al superamento dei
termini, secondo un principio di omogeneità degli
illeciti, superando ‘‘le logiche specifiche’’ dei differenti
settori delle pubbliche amministrazioni; garantendo
altresì omogeneità ai controlli da parte dei
dirigenti, volti a evitare ritardi ed omogeneità, certezza
e cogenza del sistema delle correlate sanzioni
(39).
In materia di procedimento amministrativo, la
legge rafforza l’applicazione ai soggetti privati preposti
all’esercizio di attività amministrative dei
princípi di cui all’art. 1 della L. n. 241 del 1990,
prevedendo la relativa applicazione «con un livello
di garanzia non inferiore a quello cui sono tenute le
pubbliche amministrazioni in forza delle disposizioni
di cui alla presente legge» (40).
Introduce inoltre una conclusione del procedimento
in forma semplificata, in evidente assonanza
con la disciplina processuale, modificando l’art. 2,
comma 1, della legge sul procedimento, con la previsione
di un provvedimento la cui motivazione
può consistere in un sintetico riferimento al punto
di fatto o di diritto ritenuto risolutivo, quando
l’Amministrazione procedente ravvisi la manifesta
irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza
della domanda.
L’ultima situazione contemplata, che attiene al
merito, presuppone comunque lo svolgimento di
un’attività istruttoria, dalla quale emerga ictu oculi
un punto di diritto o una situazione di fatto risolutivi,
che rendano inutile la prosecuzione dell’istruttoria.
La semplificazione pare attenere alla sola redazione
del provvedimento, sicché resta impregiudicata
l’applicazione delle disposizioni sulla partecipazione
procedimentale tra cui la comunicazione di
avvio e, nei casi pertinenti, la comunicazione del
preavviso di rigetto, ai sensi dell’art. 10-bis, salva la
relativa dequotazione per valutazione che l’Amministrazione
riterrà eventualmente sostenibile in sede
giurisdizionale.
Anche gli accordi tra Amministrazione e privati
Note:
(37) Il rinvio alla decretazione ministeriale è previsto dall’art. 1,
comma 31, legge in esame che ne prevede l’adozione entro sei
mesi dall’entrata in vigore.
(38) Sulle conseguenze dell’inadempimento, T.A.R. Basilicata,
23 settembre 2011, n. 478, in Foro Amm. TAR, 2011, 4098, n.
Zampetti, secondo cui la mancata pubblicazione, da parte di una
Regione, dell’indirizzo di posta elettronica certificata sulla pagina
web iniziale del sito istituzionale e l’impossibilità di utilizzo, per i
privati, della posta elettronica certificata per le comunicazioni
con tale ente rappresentano inerzia rispetto all’obbligo in tema
di adozione della Pec, derivante da più norme e gravante su
quel soggetto pubblico, e costituisce quindi, ai fini dell’art. 1
D.Lgs. n. 198 del 2009, «mancata adozione di atti amministrativi
generali obbligatori e non aventi contenuto normativo».
(39) Art. 1, comma 48, legge in esame.
(40) Così il nuovo testo dell’art. 1, comma 1-ter, della L. n. 241
del 1990, come modificato dall’art. 1, comma 37, della legge in
esame.
300 Urbanistica e appalti 3/2013

di cui all’art. 11 della L. n. 241 del 1990 debbono
ora essere motivati ai sensi dell’art. 3 della L. n.
241 del 1990, confermandone in tal modo la piena
riconduzione all’esercizio dell’attività amministrativa
ed evitando che il richiamo alla disciplina dei
contratti dettata dal codice civile possa favorire un
utilizzo inappropriato ed insindacabile della discrezionalità
amministrativa (41).
Le novità in materia di appalti
In materia di appalti, ferme restando le disposizioni
in materia di pubblicità previste dal D.Lgs. 12
aprile 2006, n. 163, la legge prevede un contenuto
minimo della pubblicità sui siti istituzionali delle
stazioni appaltanti (42): la struttura proponente;
l’oggetto del bando; l’elenco degli operatori invitati
a presentare offerte; l’aggiudicatario; l’importo di
aggiudicazione; i tempi di completamento dell’opera,
servizio o fornitura; l’importo delle somme liquidate.
Ogni anno, entro il 31 gennaio, le stesse informazioni,
relative all’anno precedente, debbono
essere pubblicate in tabelle riassuntive, liberamente
scaricabili in formato digitale standard aperto che
consenta di analizzare e rielaborare i dati informatici
(43).
Spetta all’AVCP pubblicare le informazioni così
obbligatoriamente ricevute nel proprio sito web all’interno
di una sezione liberamente consultabile da
tutti i cittadini, catalogate in base alla tipologia di
stazione appaltante e per Regione (44). L’elenco
delle Amministrazioni inadempienti è trasmesso
dall’AVCP alla Corte dei conti entro il 30 aprile di
ogni anno ed in ogni caso l’inadempimento comporta
a carico della stazione appaltante l’irrogazione
della sanzione prevista per la mancata ottemperanza
alla richiesta di dati ed informazioni formulata dall’AVCP
(45).
Sotto altro profilo, la mancata o incompleta
pubblicazione, da parte delle pubbliche amministrazioni,
delle informazioni sopra elencate costituisce
violazione degli standard qualitativi ed economici
ai sensi dell’art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 198 del
2009, in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni
e dei concessionari di servizi pubblici
(cd. class action pubblica) (46), oltre ad integrare in
capo al soggetto inadempiente gli estremi della responsabilità
dirigenziale. Ulteriore addebito sanzionatorio
è previsto a carico dei responsabili del servizio
che ritardino nell’aggiornamento dei contenuti
sugli strumenti informatici.
Quanto alle procedure di gara, la legge sottolinea
l’ampiezza dei poteri negoziali della stazione
Normativa
Atti della pubblica amministrazione
appaltante, consentendo la previsione, già confermata
dalla giurisprudenza, negli avvisi, bandi e lettere
di invito che il mancato rispetto delle clausole
contenute nei protocolli di legalità oneipatti
di integrità costituisca causa di esclusione dalla gara.
I cd. protocolli di legalità e/o patti di integrità
sanciscono un comune impegno ad assicurare la legalità
e la trasparenza nell’esecuzione di un contratto
pubblico, in particolar modo per la prevenzione,
il controllo ed il contrasto dei tentativi di infiltrazione
mafiosa, nonché per la verifica della sicurezza
e della regolarità dei luoghi di lavoro (47). Nei protocolli
le Amministrazioni assumono, di regola,
l’obbligo di inserire nei bandi di gara, quale condizione
per la partecipazione, l’accettazione preventiva,
da parte degli operatori economici, di determinate
clausole che rispecchiano le finalità di prevenzione
indicate. Secondo l’AVCP la previsione dell’accettazione
dei protocolli di legalità e dei patti di
integrità quale possibile causa di esclusione è tuttora
consentita, anche in un quadro di tassatività legislativa,
in quanto tali mezzi sono posti a tutela di
interessi di rango sovraordinato e gli obblighi in tal
modo assunti discendono dall’applicazione di norme
imperative di ordine pubblico, con particolare
riguardo alla legislazione in materia di prevenzione
Note:
(41) Art. 1, comma 47, legge in esame.
(42) Attualmente, con riferimento al dettaglio sulle sezioni bandi
di gara e bilanci, si deve fare riferimento al D.P.C.M. 26 aprile
2011 relativo alla pubblicazione di atti e provvedimenti concernenti
procedure ad evidenza pubblica o di bilanci, adottato ai
sensi dell’art. 32 della L. n. 69 del 2009.
(43) Art. 1, comma 32, legge in esame.
(44) Spetta all’AVCP individuare con propria deliberazione le informazioni
rilevanti e le relative modalità di trasmissione.
(45) Art. 6, comma 11, D.Lgs. n. 163 del 2006: «Con provvedimento
dell’Autorità, i soggetti ai quali è richiesto di fornire gli
elementi di cui al comma 9 sono sottoposti alla sanzione amministrativa
pecuniaria fino a euro 25.822 se rifiutano od omettono,
senza giustificato motivo, di fornire le informazioni o di
esibire i documenti, ovvero alla sanzione amministrativa pecuniaria
fino a euro 51.545 se forniscono informazioni od esibiscono
documenti non veritieri». Sui poteri sanzionatori dell’Autorità,
giàIannotta, Autorità di vigilanza sui lavori pubblici: ruolo,
funzione e poteri sanzionatori, inContr. Stato e enti pubbl.,
2002, 576; Fratini (a cura di), Le sanzioni delle autorità amministrative
indipendenti, Padova, 2011 ed ivi l’introduzione di Clarich.
(46) Su cui, da ultimo, Fidone, L’azione per l’efficienza nel processo
amministrativo: dal giudizio sull’atto a quello sull’attività,
Torino, 2012, spec. 150 ss.; Patroni Griffi, Class action e ricorso
per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari pubblici,
inFederalismi, 2011.
(47) I protocolli di legalità sono previsti, in via generale, dalla direttiva
del Ministero degli Interni del 23 giugno 2010.
Urbanistica e appalti 3/2013 301

Normativa
Atti della pubblica amministrazione
e contrasto della criminalità organizzata nel settore
degli appalti (48).
Mediante l’accettazione delle clausole sancite
nei protocolli di legalità al momento della presentazione
della domanda di partecipazione e/o dell’offerta,
infatti, l’impresa concorrente accetta regole
che rafforzano comportamenti già doverosi per coloro
che sono ammessi a partecipare alla gara e che
prevedono, in caso di violazione di tali doveri, sanzioni
di carattere patrimoniale, oltre alla conseguenza,
comune a tutte le procedure concorsuali,
della estromissione dalla gara (49). Si tratta quindi
di un onere, consistente nella sottoscrizione per
adesione delle regole contenute nel Patto d’integrità,
conformi a principi già considerati dall’ordinamento
e già assistiti da responsabilità patrimoniale
(quale la buona fede e la correttezza nelle trattative
contrattuali). In tale quadro rientra anche l’escussione
della cauzione provvisoria, che vale ad identificare
e a quantificare fin dall’origine la conformazione
e la misura della responsabilità patrimoniale
del partecipante alla gara conseguente all’inadempimento
dell’obbligo assunto con la sottoscrizione del
patto d’integrità (50).
La legge interviene anche sulla disciplina degli
arbitrati, dettando regole per la nomina dell’arbitro
da parte della p.a. in chiave di trasparenza e limitazione
dei costi per l’apparato pubblico (51). Le disposizioni
in materia di arbitrato si applicano anche
alle controversie relative a società partecipate da
pubbliche amministrazioni o ad esse collegate che
comunque abbiano ad oggetto prestazioni finanziate
con risorse pubbliche. Non si applicano agli arbitrati
conferiti o autorizzati prima dell’entrata in vigore
della legge in esame.
Mediante una modifica all’art. 241 del codice
dei contratti pubblici, il deferimento ad arbitri di
controversie, relative all’esecuzione dei contratti di
lavori, servizi o forniture, può avvenire solo previa
autorizzazione motivata da parte dell’organo di governo
dell’Amministrazione. È inoltre prevista la
nullità della clausola compromissoria priva di autorizzazione
preventiva o del «ricorso all’arbitrato,
senza preventiva autorizzazione». L’organo di governo
dell’Amministrazione, quindi, deve deliberare
l’inserimento nel contratto della clausola che prevede
il deferimento al collegio arbitrale per le controversie
nascenti dall’esecuzione del contratto;
inoltre, una volta prevista in contratto la clausola
compromissoria autorizzata, è necessaria un’ulteriore
specifica autorizzazione ogni volta che si intenda
far ricorso alla clausola stessa.
Le regole sulla nomina dell’arbitro da parte del-
l’Amministrazione: vietano la partecipazione ai collegi
arbitrali ai magistrati ordinari, amministrativi,
contabili e militari, agli avvocati e procuratori dello
Stato e ai componenti delle commissioni tributarie;
nelle controversie tra pubbliche amministrazioni,
gli arbitri sono individuati esclusivamente tra dirigenti
pubblici; nelle controversie tra pubblica amministrazione
e privati, l’arbitro è nominato dall’amministrazione
preferibilmente tra i dirigenti
pubblici. Nell’ipotesi in cui ciò non sia possibile,
l’arbitro viene scelto, secondo le disposizioni del
Codice, tra soggetti di particolare esperienza nella
materia oggetto del contratto; la nomina deve avvenire
nel rispetto dei principi di pubblicità e rotazione;
all’atto della nomina l’amministrazione stabilisce,
a pena di nullità, l’importo massimo spettante
al dirigente pubblico quale compenso per l’attività
arbitrale.
L’eventuale differenza rispetto all’importo spettante
agli arbitri nominati è acquisita al bilancio
dell’Amministrazione.
La legge in commento amplia infine il novero
dei reati che giustificano la risoluzione del contratto
ai sensi dell’art. 135 del D.Lgs. n. 163 del 2006,
Note:
(48) In tal senso, AVCP, determinazione 10 ottobre 2012, n. 4
recante ‘‘Bando-tipo. Indicazioni generali per la redazione dei
bandi di gara ai sensi degli articoli 64, comma 4-bis e 46, comma
1-bis, del codice dei contratti pubblici’’, spec. parte II, punto
3 (accettazione delle condizioni generali di contratto).
(49) Cons. Stato, sez. VI, 8 maggio 2012, n. 2657; Cons. Stato,
sez. V, 9 settembre 2011, n. 5066, in Foro Amm. CdS, 2011,
2782 (m); Cons. Stato, sez. V, 9 novembre 2010, n. 7963, in Foro
Amm. CdS, 2010, 2357 (m).
(50) Corte cost., ord., 13 luglio 2011, n. 211, in Riv. Amm. App.,
2011, 207, con nota di Brunetti, ha chiarito che l’escussione della
cauzione provvisoria prevista dall’art. 48, comma 1, D.Lgs. n.
163 del 2006, risulta coerente sia rispetto ala circostanza che
essa «si profila come garanzia del rispetto dell’ampio patto d’integrità
cui si vincola chi partecipa a gare pubbliche»; sia rispetto
alla funzione di garantire la serietà e l’affidabilità dell’offerta,
sanzionando la violazione dell’obbligo di diligenza gravante sull’offerente,
mediante l’anticipata liquidazione dei danni subìti
dalla stazione appaltante, tenuto conto che l’operatore, con la
domanda di partecipazione, sottoscrive e si impegna ad osservare
le regole della relativa procedura, delle quali ha, dunque,
contezza. In giurisprudenza, sulla escussione della cauzione
provvisoria per violazione del patto di integrità, Cons. Stato, sez.
V, 24 marzo 2005, n. 1258; Id., sez. V, 8 febbraio 2005, n. 343.
In senso contrario, precedentemente, Cons. Stato, sez. V, 4
maggio 2004 n. 2722, che ha ritenuto illegittimo il provvedimento
di incameramento della cauzione provvisoria con il richiamo
alla violazione del cd. patto di integrità, in quanto tale estensione
dei presupposti normativi per l’esercizio del relativo potere
sanzionatorio non sarebbe consentita. A ben vedere, nel caso di
specie, il patto di integrità prevedeva l’incameramento della cauzione
solo con riferimento alla violazione degli impegni ‘‘anti-corruzione’’
ivi precisati, che nella specie non erano stati contestati.
(51) Art. 1, commi 18-25, legge in esame.
302 Urbanistica e appalti 3/2013

estendendola alle fattispecie richiamate dall’art. 51,
comma 3-bis e3-quater del codice di procedura penale
(associazione per delinquere diretta ad effettuare
la tratta di persone, o favorire l’immigrazione
illegale, o lo sfruttamento della prostituzione minorile,
o la violenza sessuale su minori; associazione
allo scopo di contraffazione o commercio di prodotti
falsi o di sequestro di persona; delitti commessi
nell’ambito di associazione di tipo mafioso; associazione
finalizzata al traffico degli stupefacenti o al
contrabbando di tabacchi; attività organizzata per il
traffico illecito di rifiuti; delitti con finalità di terrorismo),
nonché alle seguenti tipologie di reati: peculato;
malversazione a danno dello Stato; concussione;
corruzione; induzione indebita a dare o promettere
utilità.
Le cd. white list prefettizie per le imprese
a rischio di infiltrazione mafiosa
La legge ha introdotto in via generale l’istituto
delle cd. white list, ossia degli elenchi da istituire
presso le prefetture di imprese operanti in settori di
attività particolarmente esposti all’azione della malavita
organizzata, conseguentemente da sottoporre
a controlli periodici.
Gli elenchi prefettizi erano già stati previsti da
discipline di settore (52) e dall’art. 4, comma 13
del D.L. 13 maggio 2011, n. 70, che rimetteva la
definizione delle modalità di istituzione e dei controlli
delle prefetture ad un regolamento attuativo
che non è stato emanato (53).
L’istituzione obbligatoria presso ogni prefettura
di elenchi di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori
di lavori, riguarda i settori di attività maggiormente
esposti a rischio di infiltrazione mafiosa, tassativamente
indicati dall’art. 1, comma 53, della
legge in commento. Si tratta di attività ‘‘a valle’’
dell’aggiudicazione degli appalti e che interessano
in particolare il ciclo delle cave, del calcestruzzo e
del bitume, i cottimi, i noli a caldo e a freddo, lo
smaltimento in discarica. La situazione di monopolio
naturale che spesso caratterizza l’attività degli
operatori di settore condiziona inevitabilmente la
scelta del subcontraente da parte dell’appaltatore
(54).
Agli elenchi sono iscritti gli operatori economici
che dalle verifiche prefettizie non risultano soggetti
a tentativo di infiltrazione mafiosa: la verifica è assimilabile
a quella prevista per il rilascio dell’informazione
antimafia dall’art. 10, comma 7, D.P.R. 3
giugno 1998, n. 252 e dall’art. 86 del D.Lgs. 6 set-
Normativa
Atti della pubblica amministrazione
tembre 2011, n. 159, codice antimafia, non ancora
in vigore.
L’iscrizione negli elenchi della prefettura in cui
l’impresa ha sede soddisfa i requisiti per l’informazione
antimafia per l’esercizio della relativa attività:
gli accertamenti utili all’iscrizione nelle white list
hanno infatti già completato la necessaria attività
istruttoria (si pensi ai casi in cui i protocolli di legalità
estendono l’obbligo di acquisire l’informazione
prefettizia per i subcontratti relativi alle attività
maggiormente esposte a rischio di infiltrazione mafiosa,
indipendentemente dall’importo del subcontratto
stesso).
La comunicazione prefettizia può essere sostituita
dall’iscrizione alle white list per tutte le attività economiche
il cui esercizio richiede la comunicazione
antimafia e cioè l’attestazione prefettizia dell’insussistenza
delle cause di decadenza o di divieto di cui
all’art. 67 del codice antimafia (assenza di provvedimenti
o procedimenti per l’irrogazione di misure
di prevenzione e assenza di sentenze di condanna
per alcune tipologie di reati) (55).
La verifica viene rinnovata periodicamente e, in
caso di esito negativo circa l’insussistenza del rischio
di infiltrazione mafiosa, viene disposta la cancellazione
dell’impresa dall’elenco.
Ai fini delle verifiche, l’impresa iscritta nell’elenco
deve comunicare alla prefettura qualsiasi modifica
dell’assetto proprietario e dei propri organi
sociali, entro trenta giorni dall’avvenuta modifica.
La mancata comunicazione comporta la cancellazione
dell’iscrizione.
Anche la disciplina in esame, come quella precedente,
rinvia ad un D.P.C.M. di attuazione, da
adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata
Note:
(52) Si ricordano i provvedimenti per la ricostruzione post-terremoto
in Abruzzo (art. 16, D.L. 28 aprile 2009, n. 39, e D.P.C.M.
18 ottobre 2011), per i lavori relativi all’Expo 2015 (art. 3-quinquies
D.L. 25 settembre 2009, n. 135 e D.P.C.M. 18 ottobre
2011), per il Piano straordinario carceri (art. 17-ter D.L. 30 dicembre
2009, n. 195) e per i lavori di ricostruzione delle zone
colpite dal sisma in Emilia Romagna, Lombardia e Veneto (art.
5-bis, D.L. 6 giugno 2012, n. 74, come modificato dall’art. 11
D.L. 10 ottobre 2012, n. 174).
(53) La norma richiamata prevede che presso ogni prefettura
venga istituito l’elenco di fornitori e prestatori di servizi non soggetti
a rischio di inquinamento mafioso, ai quali possono rivolgersi
gli esecutori di lavori, servizi e forniture. La prefettura effettua
verifiche periodiche circa la perdurante insussistenza dei
suddetti rischi e, in caso di esito negativo, dispone la cancellazione
dell’impresa dall’elenco.
(54) Cfr. direttiva del Ministro dell’Interno del 23 giugno 2010.
(55) La norma corrisponde all’art. 10 della legge 31 luglio 1965,
n. 575.
Urbanistica e appalti 3/2013 303

Normativa
Atti della pubblica amministrazione
in vigore della legge, che deve definire le modalità
per l’istituzione e l’aggiornamento degli elenchi e
per l’attività di verifica. Dall’entrata in vigore di tale
decreto di attuazione, è previsto un ulteriore termine
di sessanta giorni entro il quale le prefetture
dovranno istituire gli elenchi.
Tra le prime critiche alla disposizione in esame è
stata lamentata la carenza della obbligatorietà dell’iscrizione
negli elenchi ai fini dell’esercizio dell’attività
stessa: le cd. white list costituite su base volontaria
attualmente esistenti, come quelle per la ricostruzione
dell’Abruzzo e per l’Expo 2015, sono infatti
risultate inefficaci e percepite dagli operatori
economici come aggravamento procedimentale
(56). La più recente normativa sulla ricostruzione
delle zone colpite dal sisma in Emilia Romagna,
Lombardia e Veneto ha mutato rotta ed ha previsto
per l’affidamento e l’esecuzione, anche nell’ambito
di subcontratti, delle attività maggiormente esposte
al rischio di infiltrazione mafiosa (corrispondenti a
quelle indicate dalla legge anticorruzione) è necessario
comprovare quantomeno l’avvenuta presentazione
delle domande di iscrizione negli elenchi
presso almeno una delle prefetture delle province
interessate (57).
Imparzialità dei funzionari pubblici: conflitto
di interesse e codici di comportamento
La legge detta disposizioni che mirano a rafforzare
l’imparzialità dei funzionari pubblici e la trasparenza
del conferimento di incarichi agli stessi.
Sotto il primo profilo è introdotto nella L. n.
241 del 1990 l’art. 6-bis, dedicato al conflitto di interessi,
che obbliga il responsabile del procedimento
ed i titolari degli uffici competenti ad adottare pareri,
valutazioni tecniche, atti endoprocedimentali
ed il provvedimento finale ad astenersi in caso di
conflitto di interessi ed a segnalare ogni situazione
di conflitto, anche potenziale.
Le situazioni di conflitto d’interesse, nell’ambito
dell’ordinamento pubblicistico, non sono tassative,
ma possono essere rinvenute volta per volta, in relazione
alla violazione dei principi di imparzialità e
buon andamento sanciti dall’art. 97 Cost., quando
esistano contrasto ed incompatibilità, anche solo
potenziali, fra il soggetto e le funzioni che gli vengono
attribuite (58). Tali principi devono ispirare
tutta l’attività della p.a. e non solo quella vincolata:
compito dell’azione amministrativa è infatti
quello, in ogni caso, di perseguire l’interesse pubblico
e quest’ultimo non può essere assicurato senza il
rispetto dei principi fondamentali che impongono,
tra l’altro, l’astensione nel caso in cui sussista una
situazione di conflitto di interessi (59). L’obbligo di
astensione dal partecipare a decisioni o attività in
situazioni di conflitto di interesse, e quello di comunicare
tale situazione all’amministrazione di appartenenza
è previsto dal D.P.C.M. 28 novembre
2000, recante il codice di comportamento dei dipendenti
delle pubbliche amministrazioni: l’art. 1,
comma 2, prescrive, come principio generale, che il
dipendente mantiene una posizione di indipendenza,
al fine di evitare di prendere decisioni o svolgere
attività inerenti alle sue mansioni in situazioni, anche
solo apparenti, di conflitto di interessi; ciò non
solo per evitare situazioni e comportamenti che
possano nuocere agli interessi della pubblica amministrazione,
ma anche per salvaguardarne l’immagine.
La previsione di carattere generale poi si specifica,
senza esaurirsi, nel combinato disposto dei successivi
artt. 5 e 6, che prevedono rispettivamente la
comunicazione da parte del dipendente di potenziali
situazioni di conflitto di interesse e l’obbligo di
astensione allorché il conflitto di interessi si attualizzi
in possibili decisioni o attività che il dipendente
sia chiamato ad adottare o compiere (60).
Anche sul punto è intervenuta la legge qui in
commento, che ha riscritto l’art. 54 del D.Lgs. n.
Note:
(56) Auspica l’obbligatorietà dell’iscrizione negli elenchi ai fini
dell’esercizio dell’attività ANCE (Associazione nazionale costruttori
edili), Audizione presso le Commissioni riunite Affari costituzionali
e Giustizia del Senato, 25 luglio 2012, in www.senato.it.
(57) Cfr. art. 5-bis D.L. n. 74 del 2012, cit.
(58) Cons. Stato, sez. II, 20 ottobre 2004, n. 8487/04, in Cons.
Stato, 2004, I, 2288.
(59) Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003, n. 2826, in Giur. It.,
2003, 2183. L’accertamento della situazione di conflitto di interessi
deve essere effettuato caso per caso: ad es. in materia di
appalti, Cons. Stato, sez. VI, 21 luglio 2011, n. 4438, in Foro
Amm. CdS, 2011, 2545 (m), ha ritenuto che un rapporto professionale,
solo indiretto, con la stazione appaltante non preclude
la partecipazione ad una gara d’appalto indetta da quest’ultima,
in quanto la labilità del medesimo rapporto - fatta salva, ovviamente,
l’ipotesi dell’interposizione fittizia del terzo, nella specie
non ricorrente - non crea un autentico conflitto di interessi ovvero
una disparità di trattamento tra i concorrenti.
(60) Cass. civ., sez. lav., 3 marzo 2010, n. 5113, in Foro It.,
2010, I, 2783 e in Riv. Critica Dir. Lav. Privato e Pubbl., 2010,
607 (m), n. Cerana, ha ritenuto legittimo il licenziamento del dirigente
pubblico che abbia ripetutamente violato l’obbligo, contemplato
dal codice di comportamento dei dipendenti della p.a.,
di astenersi dal partecipare a decisioni o attività in situazioni di
conflitto di interesse. Il precedente codice di comportamento
dei dipendenti pubblici, D.P.C.M. 31 marzo 1994, conteneva un
analogo obbligo di comunicazione a carico del dirigente in termini
più generici (art. 5: «Il dirigente comunica all’amministrazione
le partecipazioni azionarie e gli altri interessi finanziari che possano
porlo in conflitto di interessi con la funzione pubblica che
svolge, nonché le successive modifiche»).
304 Urbanistica e appalti 3/2013

165 del 2001, affidando al Governo la definizione
di un nuovo codice di comportamento dei dipendenti
delle pubbliche amministrazioni, il cui contenuto
necessario, compresa una specifica sezione dedicata
ai doveri dei dirigenti, articolati in relazione
alle funzioni attribuite, è specificato dalla legge al fine
di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione
dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali
di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio
esclusivo alla cura dell’interesse pubblico (61).
Il codice comprende i doveri relativi al piano di
prevenzione della corruzione: la sua violazione da
parte del dipendente, che lo sottoscrive all’atto dell’assunzione,
è fonte di responsabilità disciplinare
ed assume rilievo ai fini della responsabilità civile,
amministrativa e contabile ogniqualvolta le stesse
responsabilità siano collegate alla violazione di doveri,
obblighi, leggi o regolamenti. Violazioni gravi
o reiterate del codice comportano l’applicazione
della sanzione del licenziamento disciplinare: la legge
richiama l’art.55-quater, comma 1, D.Lgs. n. 165
del 2001, ma l’ipotesi in esame non rientra tra
quelle enumerate da tale disposizione, sicché essa è
da ricondursi a giusta causa o giustificato motivo, o
alle ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo,
qualora questo faccia richiamo alla violazione
del codice di comportamento.
A parte le specifiche previsioni per la magistratura
e l’Avvocatura dello Stato, per le quali la redazione
del codice etico è rimessa alle associazioni di categoria
o, in difetto, all’organo di autogoverno (62),
l’obbligo di adottare il codice di comportamento è
esteso a tutte le pubbliche amministrazioni.
Ogni Amministrazione ha l’obbligo di definire
tale codice con contenuto integrativo e di specificazione
rispetto al codice governativo, mediante
una ‘‘procedura aperta alla partecipazione’’ e previo
parere obbligatorio del proprio organismo indipendente
di valutazione. L’autonomia delle singole
Amministrazioni è temperata dalla prevista definizione
di criteri, linee-guida e modelli uniformi per
singoli settori o tipologie di amministrazione rimessa
alla CIVIT.
Anche in tal caso, atteso il termine di sei mesi
dalla data di entrata in vigore della legge per l’approvazione
dei codici, entro centoventi giorni, apposite
intese in sede di Conferenza unificata debbono
definire i serventi adempimenti, delle regioni,
delle province autonome e degli enti locali, nonché
degli enti pubblici e dei soggetti di diritto privato
sottoposti al loro controllo.
In termini organizzativi la vigilanza sull’applicazione
dei codici è affidata ai dirigenti responsabili
Normativa
Atti della pubblica amministrazione
di ciascuna struttura, alle strutture di controllo interno
ed agli uffici di disciplina, fermo restando che
ogni Amministrazione è tenuta ogni anno a verificarne
‘‘lo stato di applicazione’’ e ad organizzare attività
di formazione dedicate.
Quanto alla trasparenza degli incarichi, la legge
è intervenuta integrando il D.Lgs. n. 165 del 2011
su più fronti.
Ha rinviato ad appositi regolamenti l’individuazione
degli incarichi vietati ai dipendenti della pubblica
amministrazione; ha introdotto l’obbligo per
le pubbliche amministrazioni che conferiscono incarichi
ai propri dipendenti di comunicarlo entro
quindici giorni al Dipartimento per la funzione
pubblica indicando le ragioni del conferimento ed i
criteri di scelta del dipendente.
Ha esteso e rimodulato gli obblighi di pubblicità
relativi a consulenze ed incarichi, tanto a dipendenti,
quanto a soggetti esterni, prevedendone la
pubblicazione in tabelle riassuntive liberamente
scaricabili ed analizzabili anche a fini statistici.
Le amministrazioni inadempienti sono segnalate
alla Corte dei conti dal Dipartimento per la funzione
pubblica.
La legge interviene anche sulla formazione delle
commissioni e sulle assegnazioni degli uffici, vietando
a coloro che sono stati condannati, anche con
sentenza non passata in giudicato, per reati contro
la p.a.: la partecipazione, anche con compiti di segreteria,
a commissioni per l’accesso o la selezione a
pubblici impieghi; l’assegnazione, anche con funzioni
direttive, agli uffici preposti alla gestione delle risorse
finanziarie, all’acquisizione di beni, servizi e
forniture, nonché all’attribuzione di vantaggi econo-
Note:
(61) Il Codice è approvato con decreto del Presidente della Repubblica,
previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta
del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione,
previa intesa in sede di Conferenza unificata. In letteratura,
Durante, I doveri di fedeltà alla repubblica, disciplina e onore,
inFederalismi, 2012; Merloni, Cavallo Perin (a cura di), Al
servizio della Nazione. Etica e statuto dei funzionari pubblici, Milano,
2009, passim. Sul rapporto tra regole giuridiche e regole
‘‘etiche’’, Merloni, Introduzione, op. ult. cit., 29 ss. Sulla natura
giuridica e l’efficacia del Codice di comportamento dei dipendenti
pubblici, Carloni, Ruolo e natura dei cosiddetti ‘‘codici etici’’
delle amministrazioni pubbliche, inDir. Pubb., 2002, secondo
cui il codice etico, anche se non recepito dai contratti collettivi,
è comunque fonte normativa che dispiega direttamente i
suoi effetti. Cfr. anche Racca, Disciplina e onore nell’attuazione
costituzionale dei codici di comportamento, in Merloni, Cavallo
Perin (a cura di), Al servizio della Nazione, cit., 250 ss. Cfr. inoltre
Mattarella, Controllo della corruzione amministrativa e regole
di etica pubblica, inRiv. It. Dir. Pubb. Com., 2002, 1029 ss.
(62) Sul tema, in precedenza, Ponti, L’etica dei magistrati, in
Merloni, Cavallo Perin (a cura di), Al servizio della Nazione, cit.,
295 ss.
Urbanistica e appalti 3/2013 305

Normativa
Atti della pubblica amministrazione
mici a soggetti pubblici e privati; la partecipazione a
commissioni per la scelta del contraente per l’affidamento
di lavori, forniture e servizi, per l’attribuzione
di vantaggi economici di qualunque genere (63).
Infine appare innovativa la disposizione che introduce
nel decreto legislativo sul rapporto di lavoro
con la pubblica amministrazione alcune forme di
tutela per il dipendente pubblico che denunci all’autorità
giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero
segnali al proprio superiore gerarchico, una condotta
illecita di cui sia venuto a conoscenza per motivi
legati al rapporto di lavoro: la norma stabilisce che
il dipendente non possa essere sanzionato o licenziato
per motivi collegati alla denuncia e che eventuali
misure discriminatorie assunte nei suoi confronti
possano essere segnalate al Dipartimento della
funzione pubblica dallo stesso dipendente o dalle
organizzazioni sindacali. La norma si preoccupa
inoltre di proteggere l’identità del segnalante, che
non può essere rilevata senza il suo consenso nell’ambito
del procedimento disciplinare contro il
presunto autore dell’illecito (64).
La protezione dell’identità del segnalante pare
utile a non esporlo a forme di intimidazione da parte
dell’autore dell’illecito. Analoghe garanzie di
anonimato dovrebbero assistere le imprese che denunciano
di essere state offese da condotte di tipo
mafioso, in modo da sottrarre al controllo delle organizzazioni
criminali tali momenti di esposizione.
Note:
(63) In tali termini dispone l’art. 35-bis D.Lgs. n. 165 del 2001,
introdotto dalla legge in esame, ove è previsto che la stessa disposizione
normativa «integra le leggi e regolamenti che disciplinano
la formazione di commissioni e la nomina dei relativi segretari».
(64) In tali termini dispone l’art. 54-bis D.Lgs. n. 165 del 2001,
introdotto dalla legge in esame. Per una prima critica, Clarich,
Sulle resistenze all’interno dell’amministrazione si gioca il successo
della legge anticorruzione, inGuida al Diritto, 2012, n. 47,
secondo cui «più dubbia è l’efficacia del sistema di delazione
(whistleblowing), cioè di esenzione da responsabilità disciplinare
del dipendente che denunci condotte illecite di cui sia venuto a
conoscenza in ambito lavorativo. Non è chiaro infatti quale incentivo
avranno i dipendenti a denunciare i propri colleghi».
306 Urbanistica e appalti 3/2013

In house providing
In house: il controllo analogo
congiunto degli enti soci
CORTE DI GIUSTIZIA UE, sez. III, 29 novembre 2011, cause riunite C-182/11 e C-183/11 - Pres.
(f.f.) de Lapuerta - Rel. Juhàsz - pronuncia pregiudiziale ex art 267 TFUE, su richiesta del Consiglio
di Stato italiano, nell’ambito dei procedimenti tra Econord s.p.a. ed i comuni di Cagno e Varese
e Solbiate e Varese
Quando più autorità pubbliche, nella loro veste di amministrazioni aggiudicatrici, istituiscono in comune un’entità
incaricata di adempiere compiti di servizio pubblico ad esse spettanti, oppure quando un’autorità pubblica
aderisce ad un’entità siffatta, la condizione enunciata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione
europea, secondo cui tali autorità, per essere dispensate dal loro obbligo di avviare una procedura di aggiudicazione
di appalto pubblico in conformità alle norme del diritto dell’Unione, debbono esercitare congiuntamente
sull’entità in questione un controllo analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi, è soddisfatta qualora
ciascuna delle autorità stesse partecipi sia al capitale sia agli organi direttivi dell’entità suddetta.
Omissis.
Fatti all’origine della controversia
e questione pregiudiziale
9 Risulta dal fascicolo sottoposto alla Corte che il Comune
di Varese, al fine di gestire servizi pubblici nel suo
territorio, segnatamente quello di igiene urbana, ha costituito
la ASPEM, quale prestatore di servizi «in house».
All’epoca dei fatti, il Comune di Varese deteneva la
quasi totalità del capitale di tale società, ciò che gli garantiva
il controllo di quest’ultima.
10 Mediante una serie di deliberazioni adottate nel corso
dell’anno 2005, il Comune di Cagno e il Comune di
Solbiate hanno scelto quale forma preferenziale di gestione
del servizio di igiene urbana, e più in particolare
del servizio di eliminazione dei rifiuti solidi urbani, quella
della gestione coordinata con altri comuni ai sensi degli
artt. 30 e 113, comma 5, lett. c), del D.Lgs. n. 267/
2000 e, a questo scopo, hanno approvato la conclusione
di una convenzione con il Comune di Varese per l’affidamento,
a titolo oneroso, dei loro servizi di igiene urbana
alla ASPEM, aderendo a tale società in qualità di
azionisti pubblici, mediante la partecipazione al capitale
sociale attuata attraverso l’acquisizione, da parte dei suddetti
comuni, di un’azione ciascuno.
11 Risulta dal fascicolo presentato alla Corte che il capitale
sociale della ASPEM ammonta ad EUR 173 785,
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme Corte Giust. Ce, 13 novembre 2008, C-324/07; Cons. Stato, sez. V, 29 dicembre 2009, n. 8979; Cons.
Stato, sez. V, 28 settembre 2009, n. 5808; Cons. Stato, sez. V, 26 agosto 2009, n. 5082; Cons. Stato,
sez. V, 30 aprile 2009, n. 2675; Cons. Stato, sez. V, 24 settembre 2010, n. 7092; Cons. Stato, sez. V,
9 marzo 2009, n. 1365; Cons. Stato, sez. V, 8 marzo 2011, n. 1447
Difforme Non sono stati rinvenuti precedenti in materia
Comunitaria
Giurisprudenza
rappresentato da altrettante azioni del valore nominale
di EUR 1 ciascuna. Il Comune di Varese detiene la maggioranza
del capitale in virtù del possesso di 173 467
azioni. Le restanti 318 azioni sono suddivise tra 36 comuni
della provincia di Varese, con partecipazioni individuali
che variano da 1 a 19 azioni.
12 Parallelamente all’acquisizione di tale partecipazione,
il Comune di Cagno e il Comune di Solbiate hanno
proceduto, insieme con altri comuni interessati, alla sottoscrizione
di un patto parasociale tra azionisti, il quale
prevedeva il loro diritto di essere consultati, di nominare
un membro del collegio sindacale e di designare, in accordo
con gli altri comuni partecipanti al patto di sindacato,
un consigliere di amministrazione.
13 In tale contesto, i due comuni suddetti hanno ritenuto
che esistessero i presupposti per un affidamento «in
house» del servizio di interesse pubblico in questione, dal
momento che la ASPEM era controllata congiuntamente
da vari enti locali. Essi hanno pertanto affidato direttamente
tale appalto alla ASPEM. La Econord s.p.a. ha
contestato tale affidamento diretto, facendo valere che,
nella fattispecie, il controllo dei due comuni sulla
ASPEM non era garantito e che, di conseguenza, l’attribuzione
dell’appalto avrebbe dovuto essere effettuata in
conformità alle norme del diritto dell’Unione.
14 Il Consiglio di Stato rileva che la sentenza del 18 novembre
1999, Teckal (C-107/98, in Racc. pag. I-8121),
ha costituito il punto di partenza della successiva elabo-
Urbanistica e appalti 3/2013 307

Comunitaria
Giurisprudenza
razione giurisprudenziale volta a precisare i presupposti
che giustificano l’affidamento diretto di un appalto pubblico.
A mente del punto 50 di tale sentenza, l’attribuzione
diretta di un appalto è giustificata - anche se effettuata
a favore di un soggetto formalmente e giuridicamente
distinto dall’amministrazione aggiudicatrice - nel
caso in cui, nel contempo, l’ente locale eserciti sul soggetto
in questione un controllo analogo a quello da esso
esercitato sui propri servizi e tale soggetto realizzi la parte
più importante della propria attività con l’ente o con gli
enti locali che lo controllano. Infatti, in un simile caso,
non può ritenersi che il soggetto in questione rivesta la
qualità di terzo rispetto all’amministrazione aggiudicatrice.
Il Consiglio di Stato sottolinea che, nei procedimenti
principali, delle due condizioni cumulative enunciate al
punto 50 della citata sentenza Teckal, a venire in discussione
è soltanto quella relativa all’esercizio di un «controllo
analogo».
15 Il Consiglio di Stato rileva che, nella sentenza del 13
ottobre 2005, Parking Brixen (C-458/03, in Racc. pag. I-
8585), la Corte ha stabilito delle condizioni assai restrittive
per il riconoscimento dell’esistenza di un «controllo
analogo» ed ha enucleato al riguardo un numero rilevante
di indicatori concreti.
16 Tuttavia, nelle successive sentenze del 19 aprile
2007, Asemfo (C-295/05, in Racc. pag. I-2999); del 17
luglio 2008, Commissione/Italia (C-371/05), e del 13 novembre
2008, Coditel Brabant (C-324/07, in Racc. pag. I-
8457), la Corte avrebbe mostrato maggiori aperture e
mitigato le condizioni che devono essere soddisfatte per
arrivare a ritenere sussistente l’esercizio di un «controllo
analogo». Il Consiglio di Stato ricava più in particolare
da quest’ultima sentenza la conclusione secondo cui è lecito
ritenere sussistente una società «in house» in caso di
controllo congiunto esercitato su quest’ultima da più enti
pubblici e secondo cui è irrilevante la situazione individuale
di ciascuno di tali enti pubblici per quanto riguarda
il controllo esercitato sulla società suddetta.
17 Il giudice del rinvio fa osservare che, nel caso di specie,
il Comune di Varese esercita il pieno controllo sulla
ASPEM, mentre ciò non vale per il Comune di Cagno
ed il Comune di Solbiate. Infatti, l’acquisizione di una
sola azione ed un patto parasociale singolarmente debole
non darebbero luogo ad alcun controllo congiunto effettivo
sulla società in questione, poiché i due comuni ultimi
citati non potrebbero influire sulle decisioni della
ASPEM, e gli elementi di cui sopra non varrebbero a
soddisfare il criterio del «controllo analogo». Tuttavia,
alla luce della citata sentenza Coditel Brabant, la situazione
di ciascuno degli enti pubblici partecipanti singolarmente
considerati, per quanto riguarda l’esercizio del
controllo, sarebbe irrilevante.
18 Alla luce di tali considerazioni, il Consiglio di Stato
ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre
alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se il principio di irrilevanza della situazione del singolo
ente pubblico partecipante alla società strumentale debba
applicarsi anche nel caso in cui, come nella fattispecie,
uno dei Comuni associati possegga una sola azione
della società strumentale ed i patti parasociali intercorsi
fra enti pubblici non siano idonei a dare alcun controllo
effettivo della società al Comune partecipante, sicché la
partecipazione societaria possa considerarsi solo la veste
formale di un contratto di prestazione di servizi».
Sulla questione pregiudiziale
Osservazioni preliminari
19 Il Comune di Cagno e il Comune di Solbiate fanno
valere che, successivamente ai fatti all’origine delle presenti
domande di pronuncia pregiudiziale, essi hanno avviato
procedure di gara aperte, all’esito delle quali l’appalto
in questione è stato aggiudicato a titolo definitivo
alla ASPEM. Tale sviluppo successivo influirebbe sull’utilità
di una risposta della Corte alla questione sollevata
dal giudice del rinvio.
20 Il governo italiano sostiene che la questione pregiudiziale
è irricevibile per mancanza di una descrizione sufficiente
del contesto di fatto e di diritto dei procedimenti
principali.
21 A questo proposito occorre ricordare che, secondo
una costante giurisprudenza, nell’ambito di un procedimento
ex art. 267 TFUE, basato sulla netta separazione
di funzioni tra i giudici nazionali e la Corte, l’accertamento
e la valutazione dei fatti costituenti l’oggetto della
controversia principale, nonché l’interpretazione e
l’applicazione del diritto nazionale, rientrano nella competenza
esclusiva del giudice nazionale. Parimenti, spetta
esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta
la controversia e che deve assumersi la responsabilità
dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce
delle particolari circostanze del caso, sia la necessità
sia la rilevanza delle questioni che esso sottopone alla
Corte. Di conseguenza, se le questioni sollevate vertono
sull’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte, in
via di principio, è tenuta a statuire (sentenza del 25 ottobre
2012, Rintisch, C-553/11, non ancora pubblicata
nella Raccolta, punto 15 e la giurisprudenza ivi citata).
22 Pertanto, il rigetto, da parte della Corte, di una domanda
di pronuncia pregiudiziale proposta da un giudice
nazionale è possibile soltanto qualora appaia in modo
manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta
non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o
con l’oggetto del procedimento principale, qualora il
problema sia di natura ipotetica, o anche quando la Corte
non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari
per rispondere in modo utile alle questioni che le
sono sottoposte (sentenza Rintisch, cit., punto 16 e la
giurisprudenza ivi citata).
23 Orbene, tali ipotesi non si realizzano nel caso di specie.
Infatti, il giudice del rinvio invita la Corte a chiarire
la propria giurisprudenza in merito al controllo esercitato
congiuntamente da più amministrazioni aggiudicatrici su
un’entità affidataria posseduta in comune da queste ultime,
nonché in ordine ai presupposti in presenza dei quali
deve ritenersi che, in un caso siffatto, venga esercitato
un «controllo analogo», questione che è innegabilmente
in rapporto con l’oggetto dei procedimenti principali.
Inoltre, la Corte reputa che i dati normativi e fattuali
contenuti nella presente domanda siano sufficienti affin-
308 Urbanistica e appalti 3/2013

ché essa sia in grado di rispondere utilmente al quesito
sollevato.
24 Ne consegue che le domande di pronuncia pregiudiziale
sono ricevibili.
Nel merito
25 Secondo una giurisprudenza consolidata, un’amministrazione
aggiudicatrice, come ad esempio un ente locale,
è dispensata dall’avviare una procedura di aggiudicazione
di un appalto pubblico nel caso in cui essa eserciti
sull’entità affidataria un controllo analogo a quello da
essa esercitato sui propri servizi e tale entità realizzi la
parte più importante della propria attività con l’amministrazione
o le amministrazioni aggiudicatrici che la controllano
(sentenza Teckal, cit., punto 50). È pacifico che
questa giurisprudenza, inizialmente adottata ai fini dell’interpretazione
e dell’applicazione della direttiva 93/36/
CEE del Consiglio, del 14 giugno 1993, che coordina le
procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture
(G.U. L 199, pag. 1), è altresì applicabile alle
procedure di attribuzione degli appalti pubblici di lavori
e di servizi.
26 Occorre altresì rilevare che, ai sensi della giurisprudenza
della Corte, la questione se si tratti di una concessione
di servizi o di un appalto pubblico di servizi - e, in
quest’ultimo caso, se il valore dell’appalto raggiunga la
soglia prevista dalle norme dell’Unione - è priva di rilevanza
ai fini della risposta che la Corte deve dare alla
questione pregiudiziale, dal momento che l’eccezione all’applicazione
delle norme del diritto dell’Unione, ove
siano soddisfatte le condizioni attinenti all’esercizio di
un «controllo analogo», è applicabile in tutte le situazioni
suddette (v., in tal senso, sentenza del 10 settembre
2009, Sea, C-573/07, in Racc. pag. I-8127, punti 31-40).
27 Secondo una costante giurisprudenza, sussiste un
«controllo analogo» quando l’entità di cui trattasi è assoggettata
a un controllo che consente all’amministrazione
aggiudicatrice di influenzare le decisioni dell’entità
medesima. Deve trattarsi di una possibilità di influenza
determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni
importanti di tale entità (citate sentenze Parking
Brixen, punto 65; Coditel Brabant, punto 28, e Sea, punto
65). In altri termini, l’amministrazione aggiudicatrice deve
essere in grado di esercitare su tale entità un controllo
strutturale e funzionale (sentenza Commissione/Italia,
cit., punto 26). La Corte esige altresì che tale controllo
sia effettivo (sentenza Coditel Brabant, cit., punto 46).
28 Ai sensi della giurisprudenza, nel caso in cui venga
fatto ricorso ad un’entità posseduta in comune da più
autorità pubbliche, il «controllo analogo» può essere
esercitato congiuntamente da tali autorità, senza che sia
indispensabile che detto controllo venga esercitato individualmente
da ciascuna di esse (v., in tal senso, citate
sentenze Coditel Brabant, punti 47 e 50, nonché Sea,
punto 59).
29 Da ciò consegue che, se un’autorità pubblica diventa
socia di minoranza di una società per azioni a capitale
interamente pubblico al fine di attribuirle la gestione di
un servizio pubblico, il controllo che le autorità pubbli-
Comunitaria
Giurisprudenza
che associate nell’ambito di tale società esercitano su
quest’ultima può essere qualificato come analogo al controllo
che esse esercitano sui propri servizi, qualora esso
venga esercitato congiuntamente dalle autorità suddette
(sentenza Sea, cit., punto 63).
30 Date tali premesse, non vi è dubbio che, ove più
autorità pubbliche facciano ricorso ad un’entità comune
ai fini dell’adempimento di un compito comune di servizio
pubblico, non è indispensabile che ciascuna di esse
detenga da sola un potere di controllo individuale su tale
entità; ciononostante, il controllo esercitato su quest’ultima
non può fondarsi soltanto sul potere di controllo
dell’autorità pubblica che detiene una partecipazione
di maggioranza nel capitale dell’entità in questione, e
ciò perché, in caso contrario, verrebbe svuotata di significato
la nozione stessa di controllo congiunto.
31 Infatti, l’eventualità che un’amministrazione aggiudicatrice
abbia, nell’ambito di un’entità affidataria posseduta
in comune, una posizione inidonea a garantirle la
benché minima possibilità di partecipare al controllo di
tale entità aprirebbe la strada ad un’elusione dell’applicazione
delle norme del diritto dell’Unione in materia di
appalti pubblici o di concessioni di servizi, dal momento
che una presenza puramente formale nella compagine di
tale entità o in un organo comune incaricato della direzione
della stessa dispenserebbe detta amministrazione
aggiudicatrice dall’obbligo di avviare una procedura di
gara d’appalto secondo le norme dell’Unione, nonostante
essa non prenda parte in alcun modo all’esercizio del
«controllo analogo» sull’entità in questione (v., in tal
senso, sentenza del 21 luglio 2005, Coname, C-231/03,
in Racc. pag. I-7287, punto 24).
32 Ne consegue che, nei procedimenti principali, spetta
al giudice del rinvio verificare se la sottoscrizione, da
parte del Comune di Cagno e del Comune di Solbiate,
di un patto parasociale che conferisce loro il diritto di
essere consultati, di nominare un membro del collegio
sindacale e di designare un consigliere di amministrazione
in accordo con gli altri enti interessati dal patto suddetto
sia idonea a consentire a tali comuni di contribuire
effettivamente al controllo della ASPEM.
33 Alla luce delle considerazioni sopra svolte, occorre rispondere
alla questione sollevata dichiarando che, quando
più autorità pubbliche, nella loro veste di amministrazioni
aggiudicatrici, istituiscono in comune un’entità
incaricata di adempiere compiti di servizio pubblico ad
esse spettanti, oppure quando un’autorità pubblica aderisce
ad un’entità siffatta, la condizione enunciata dalla
giurisprudenza della Corte, secondo cui tali autorità, per
essere dispensate dal loro obbligo di avviare una procedura
di aggiudicazione di appalto pubblico in conformità
alle norme del diritto dell’Unione, debbono esercitare
congiuntamente sull’entità in questione un controllo
analogo a quello da esse esercitato sui propri servizi, è
soddisfatta qualora ciascuna delle autorità stesse partecipi
sia al capitale sia agli organi direttivi dell’entità suddetta.
Urbanistica e appalti 3/2013 309

Comunitaria
Giurisprudenza
IL COMMENTO
di Francesco Leggiadro *
La Corte di giustizia va consolidando il proprio indirizzo giurisprudenziale sul corretto significato da attribuire
al concetto di ‘‘controllo analogo’’, condizione essenziale di conformità ai principi del Trattato europeo della
procedura di affidamento diretto in house, dettata dalla primigenia notissima sentenza Teckal. Questo particolare
tipo di controllo delle amministrazioni pubbliche nei confronti del soggetto da queste incaricato di gestire
servizi pubblici, che viene equiparato a quello che le amministrazioni medesime esercitano sui propri
servizi, è da ritenere sussistente anche laddove il soggetto esterno, pur avendo forma di società di capitali,
sia costituito dalle partecipazioni al capitale di tutti gli enti pubblici che l’abbiano istituito, o vi abbiano successivamente
aderito, e gli enti medesimi siano effettivamente rappresentati negli organi direttivi aziendali.
Il fatto
La Terza Sezione della Corte di giustizia, nelle
cause riunite C-182/11 e C-183/11, è stata chiamata
a pronunciarsi sulla corretta interpretazione del
diritto dell’UE in materia di presupposti di applicabilità
dell’eccezione ai principi di concorrenzialità
nelle procedure di aggiudicazione dei contratti, costituita
dall’affidamento diretto di un servizio pubblico,
ad una società appositamente costituita da
autorità pubbliche che la controllano, cosiddetto
affidamento a società ‘‘in house’’ (1).
In particolare, il Consiglio di Stato italiano, con
decisioni del 23 febbraio 2011, ha proposto alla citata
Corte due domande di pronuncia pregiudiziale,
ai sensi dell’art. 267 TFUE, nell’ambito di giudizi
che vedevano contrapposti la società Econord s.p.a.
e i comuni di Varese, Cagno e Solbiate, aventi ad
oggetto la regolarità dell’affidamento diretto (effettuato
da parte dei due comuni ultimi citati), di un
appalto di servizi di igiene urbana ad altra società
(la ASPEM s.p.a.), secondo appunto il modello
procedimentale «in house», senza cioè l’organizzazione
di una procedura di aggiudicazione di tale appalto
in conformità alle norme del diritto dell’Unione.
Più nello specifico, il Comune di Cagno e il Comune
di Solbiate avevano approvato la conclusione
di una convenzione con il Comune di Varese - che
aveva costituito la società in house e ne possedeva
l’assoluto controllo societario - per l’affidamento, a
titolo oneroso, dei servizi di smaltimento dei rifiuti
solidi urbani, aderendo a tale società in qualità di
azionisti pubblici, mediante una partecipazione al
capitale sociale pressoché simbolica (un’azione ciascuno
del valore nominale di 1 euro) (2).
Il Comune di Cagno e il Comune di Solbiate
avevano tuttavia sottoscritto un patto parasociale
tra azionisti, il quale prevedeva il loro diritto di essere
consultati, di nominare un membro del collegio
sindacale e di designare, in accordo con gli altri
comuni partecipanti al patto di sindacato, un consigliere
di amministrazione.
Il pronunciamento della Corte sulla
domanda pregiudiziale
La ‘‘res litigiosa’’ del giudizio in sede amministrativa
si incentrava sulla possibilità di sostenere che
sulla società affidataria del servizio si potesse ritenere
o meno sussistente, da parte dei comuni di Cagno
e Solbiate, quell’effettivo penetrante controllo,
nella veste del cd. controllo analogo, che la giurisprudenza
della Corte di giustizia richiede come primo
essenziale elemento per giustificare la mancata
apertura della concorrenza nel caso di affidamenti a
società ‘‘in house’’ (3).
Note:
* Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione
di un referee.
(1) Si parla anche, forse più propriamente, di ‘‘gestione in house’’,
sottolineando con ciò l’elemento più caratteristico del fenomeno
e l’aspetto sostanziale di ‘‘autoproduzione’’ dei servizi di
interesse pubblico. La materia del resto soffre dell’utilizzo, da
parte del legislatore e degli operatori del diritto in genere, di
espressioni con significato polisenso. Per un tentativo di fissare,
almeno nell’inquadramento generali degli istituti, alcune differenze
eziologiche, sia consentito rinviare a F. Leggiadro, La distinzione
tra appalto in house e affidamento in house della gestione
di servizi pubblici, inLa disciplina dei contratti pubblici,
Collana diretta da F. Caringella e G. De Marzo, 2007,1563.
(2) Il capitale sociale della ASPEM ammontava ad EUR 173.785,
rappresentato da altrettante azioni del valore nominale di 1 euro
ciascuna. Il Comune di Varese deteneva la maggioranza del capitale
in virtù del possesso di 173.467 azioni. Le restanti 318 azioni
risultavano suddivise tra 36 comuni della provincia di Varese,
con partecipazioni individuali che variavano da 1 a 19 azioni.
(3) Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea ed, in primis,
dalla famosa sentenza ‘‘Teckal’’ del 2000 (Corte Giust. CE,
18 novembre 1999, causa C-197/98, Teckal s.r.l. c. Comune di
Aviano, in questa Rivista, 2000, 227) si è tratto il principio secondo
il quale non è obbligatorio procedere alla gara per un’autorità
pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, per gli affidamenti
in favore di un ente distinto da essa, nell’ipotesi in cui
l’autorità eserciti sull’ente in questione un controllo analogo a
quello che essa esercita sui propri servizi, purché tale ente realizzi
con essa o con altri enti locali che lo detengono la parte più importante
della propria attività (v., sentenza Teckal, punto 50).
310 Urbanistica e appalti 3/2013

Al riguardo, va chiarito subito che la Corte non
entra nel merito della verifica in concreto dei poteri
di ‘‘controllo’’ esercitabili, da parte dei comuni di
Cagno e Solbiate, in qualità di azionisti, nei confronti
della società affidataria ASPEM; tale verifica
viene riservata al giudice nazionale (4).
Il giudice interno deve operare detta indagine
analizzando gli strumenti e le prerogative che gli
enti pubblici possono esercitare sulla base delle effettive
attribuzioni ad essi assegnati in virtù della
loro qualifica privatistica di soci partecipanti alla
compagine societaria, in base ai principi e alle norme
del codice civile e a quelle desumibili dalla normativa
societaria in genere, a nulla rilevando - secondo
i dettami della giurisprudenza in materia - la
natura pubblica del singolo azionista (5). I giudici
di Lussemburgo, infatti, sono ben consapevoli del
fatto che ove un’amministrazione aggiudicatrice abbia,
nell’ambito di un’entità affidataria posseduta in
comune, una posizione inidonea a garantirle la benché
minima possibilità di partecipare al controllo di
tale entità ciò «aprirebbe la strada ad un’elusione
dell’applicazione delle norme del diritto dell’Unione
in materia di appalti pubblici o di concessioni di
servizi, dal momento che una presenza puramente
formale nella compagine di tale entità o in un organo
comune incaricato della direzione della stessa
dispenserebbe detta amministrazione aggiudicatrice
dall’obbligo di avviare una procedura di gara d’appalto
secondo le norme dell’Unione, nonostante essa
non prenda parte in alcun modo all’esercizio del
‘‘controllo analogo’’ sull’entità in questione (v., in
tal senso, sentenza del 21 luglio 2005, Coname, C-
231/03, in Racc. pag. I-7287, punto 24)».
Ciononostante, la Corte giunge ad affermare che
ove una pluralità di autorità pubbliche abbiano istituito
una società per la gestione in house di servizi
pubblici ovvero vi abbiano successivamente aderito,
qualora le medesime autorità partecipino tutte
al capitale ed agli organi direttivi della medesima
società, esercitando così, sia pur congiuntamente,
un controllo sull’entità societaria che possa assumersi
analogo a quello esercitabile sui propri servizi
da parte delle autorità medesime, è possibile affidare
alla società partecipata la gestione di servizi pubblici,
senza l’obbligo di rispettare la normativa in
materia di procedura di aggiudicazione di appalti
pubblici.
Il controllo analogo congiunto effettivo
Nei tempi più recenti, del resto, la giurisprudenza
europea, cui ha fatto eco quella in sede naziona-
Comunitaria
Giurisprudenza
le, aveva già maturato un orientamento interpretativo
secondo il quale la particolare relazione tra il
soggetto pubblico che attribuisce il compito di gestire
un determinato servizio pubblico al di fuori
della propria diretta interna organizzazione e la società
che beneficia di detta attribuzione, può assumere
i caratteri del ‘‘controllo analogo’’ anche laddove
il soggetto pubblico affidante eserciti detto
controllo congiuntamente ad altre amministrazioni,
che detengono ciascuna una parte, anche minima,
del capitale sociale.
In sostanza, dopo aver chiarito che è possibile
adottare modelli associativi commerciali, anche in
forma di società speciali, per la gestione in house e
che detti modelli non alterano di fatto in alcun
modo i meccanismi di controllo e di vigilanza propri
dei rapporti tra soggetti pubblici in senso stretto
(6), si è giunti a ritenere coerenti con la logica
delle gestione in house, anche società pubbliche
pluripartecipate dove è possibile che singoli enti soci,
singolarmente considerati, siano nella condizione
di esercitare un’influenza indiretta sulla gestione
e sulle scelte della società affidataria, tramite anche
forme di vigilanza sull’andamento societario, nella
veste di soci di minoranza.
Note:
(4) La sentenza sottolinea che «nei procedimenti principali,
spetta al giudice del rinvio (il Consiglio di Stato italiano n.d.r.) verificare
se la sottoscrizione, da parte del Comune di Cagno e del
Comune di Solbiate, di un patto parasociale che conferisce loro
il diritto di essere consultati, di nominare un membro del collegio
sindacale e di designare un consigliere di amministrazione in
accordo con gli altri enti interessati dal patto suddetto sia idonea
a consentire a tali comuni di contribuire effettivamente al controllo
della ASPEM» (punto 32).
(5) Come ricordato infatti da una recente sentenza del massimo
organo della giurisdizione civile, (V. Cass. civ., sez. I, 6 dicembre
2012, n. 21991), la società per azioni con partecipazione pubblica
non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché
lo Stato o gli enti pubblici (Comune, Provincia, etc.) ne posseggano
le azioni, in tutto o in parte, non assumendo rilievo alcuno,
per le vicende della medesima, la persona dell’azionista,
dato che tale società, quale persona giuridica privata, opera nell’esercizio
della propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento
con l’ente pubblico. Il rapporto tra la società e l’ente locale
è di assoluta autonomia, sicché non è consentito al detto
ente incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto
medesimo e sull’attività della società per azioni mediante l’esercizio
di poteri autoritativi o discrezionali. Ove anche la posizione
dell’ente locale all’interno della società sia quella di socio di
maggioranza, derivante dalla ‘‘prevalenza’’ del capitale da esso
conferito soltanto in tale veste l’ente pubblico potrà influire sul
funzionamento della società, avvalendosi non già dei poteri pubblicistici
che non gli spettano ma dei soli strumenti previsti dal
diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina
comunale presenti negli organi della società (v. art. 2459 c.c.).
(6) Su questa particolare fattispecie di controllo si segnala, tra i
vari commenti, A. Nicodemo, Il controllo analogo congiunto nell’in
house providing, in www.astrid-online.it.
Urbanistica e appalti 3/2013 311

Comunitaria
Giurisprudenza
Con la rilevante sentenza Coditel Brabant SA (7)
(di seguito ‘‘sentenza Coditel’’) si è espressamente
affermata, per la prima volta, la possibilità di considerare
‘‘controllo analogo’’ anche il controllo esercitato,
non individualmente, ma congiuntamente
da parte di più autorità socie. La sentenza precisa
come sia importante che il controllo esercitato sull’ente
concessionario sia effettivo, «pur non risultando
indispensabile che sia individuale».
D’altra parte, la Corte di giustizia aveva lasciato
qualche apertura verso un’estensione del significato
di controllo analogo, laddove aveva specificato che
il controllo esercitato sull’ente concessionario dall’autorità
pubblica concedente è necessario sia analogo
a quello che la medesima autorità esercita sui
propri servizi, «ma non identico ad esso in ogni elemento»
(8).
La sentenza Coditel ha affermato che per valutare
se un’autorità pubblica concedente eserciti sull’ente
concessionario un controllo analogo a quello esercitato
sui propri servizi è necessario tener conto di
tutte le disposizioni normative e delle circostanze
pertinenti. Da quest’esame deve risultare che l’ente
concessionario è soggetto a un controllo che consente
all’autorità pubblica concedente di influenzarne
le decisioni. Deve trattarsi di una «possibilità di
influenza determinante sia sugli obiettivi strategici
che sulle decisioni importanti di detto ente».
Anche la giurisprudenza amministrativa nazionale
ha aderito, senza sostanziali riserve, alla nuova
impostazione interpretativa. Il Consiglio di Stato,
con la sentenza 1447 del 2011, ha confermato come
«nel caso di affidamento in house, conseguente
all’istituzione da parte di più enti locali di una società
di capitali da essi interamente partecipata per
la gestione di un servizio pubblico, il controllo,
analogo a quello che ciascuno di essi esercita sui
propri servizi, deve intendersi assicurato anche se
esercitato non individualmente ma congiuntamente
dagli enti associati, deliberando se del caso anche a
maggioranza, ma a condizione che il controllo sia
effettivo. Il requisito del controllo analogo deve essere
quindi verificato secondo un criterio sintetico
e non atomistico, sicché è sufficiente che il controllo
della mano pubblica sull’ente affidatario, purché
effettivo e reale, sia esercitato dagli enti partecipanti
nella loro totalità, senza che necessiti una verifica
della posizione di ogni singolo ente» (9).
L’in house come semplice modello
organizzativo
Tale orientamento giurisprudenziale ha avuto il
merito di chiarire, e rendere sempre più evidente,
come l’istituto dell’in house possa senz’altro essere
inquadrato nell’ambito delle formule organizzative
dell’agire amministrativo che promuovono e valorizzano
la gestione in forma associata dei servizi di
interesse pubblico (10).
Si tratta di modelli di gestione che, se correttamente
orientati verso logiche di effettivo efficientamento
e contenimento dei costi, beneficiando sul
piano teorico di intuitive economie di scala, dovrebbero
assumere sempre maggiore interesse nei
settori delle public utilities e nella legislazione di riferimento
(11).
Il fenomeno si colloca all’interno del più ampio
concetto di autoproduzione di servizi, inteso come
modello di gestione che si avvale di articolazioni
organizzative prive di una effettiva autonomia, giuridica
e commerciale, rispetto all’ente (o agli enti)
che beneficiano dei servizi autoprodotti (12).
Note:
(7) Pubblicata in questa Rivista, 2009, 285 con commento di F.
Leggiadro, Affidamento in house della concessione per la gestione
di una rete di distribuzione: controllo analogo e controllo
pubblico.
(8) V. punto 62 sentenza del 13 ottobre 2005, Parking Brixen, C-
458/03, in Racc. pag. I-8585.
(9) V. Cons. Stato, sez. V, 8 marzo 2011, n. 1447 con nota di F.
Leggiadro, Gli affidamenti in house alle società pubbliche pluripartecipate,
in questa Rivista, 2011, 957.
(10) Nella sentenza n. 1447/2011, il Consiglio di Stato, evidenzia
come l’impostazione interpretativa discendente da nuovi orientamenti
del Giudice europeo «trova riscontro nelle esperienze
positive di molti Stati membri e, per quel che qui interessa, anche
nel diritto amministrativo italiano che annovera diverse forme
associative tra enti pubblici, anche per finalità di gestione in
comune di pubblici servizi (ad esempio, i consorzi di cui all’art.
31 del D.Lgs. n. 267/2000), in cui il controllo da parte del singolo
ente sull’attività svolta, nell’interesse comune, dalla specifica
forma associativa non è ‘‘individuale’’, ma intermediato e, quindi,
inevitabilmente attenuato dall’applicazione delle regole sul
funzionamento interno dell’istanza associativa».
(11) L’attenzione del legislatore per le forme associate di gestione
dei servizi pubblici è testimoniata, ad esempio, del D.L. 31
maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione
finanziaria e di competitività economica) che al comma 28, dell’art.
14 (Patto di stabilità interno ed altre disposizioni sugli enti
territoriali), prevede che i servizi considerati funzioni fondamentali
dei comuni ai sensi dell’art. 21, comma 3 della L. n. 42 del
2009, devono essere ‘‘obbligatoriamente’’ gestiti in forma associata,
attraverso ‘‘convenzione o unione’’, da parte dei comuni
con popolazione fino a 5.000 abitanti. Lo stesso provvedimento,
sempre al successivo comma del citato art. 14, specifica che i
comuni non possono svolgere singolarmente le funzioni fondamentali
svolte in forma associata e che la medesima funzione
non può essere svolta da più di una forma associativa.
(12) Sul fenomeno dell’autoproduzione di servizi attraverso strumenti
organizzativi ulteriori rispetto a quelli tipici del diritto amministrativo
V. M. Libertini, Le società di autoproduzione in mano
pubblica: controllo analogo, destinazione prevalente dell’attività
ed autonomia statutaria, in www.federalismi.it (19-04-
2010).
312 Urbanistica e appalti 3/2013

Le politiche europee sullo sviluppo del territorio
promuovo e valorizzano, del resto, la coesione, l’integrazione
delle risorse ed il coordinamento tra i
soggetti istituzionalmente deputati alla messa a disposizione
di servizi di interesse generale
Anche la legislazione nazionale è orientata ad
un favor verso le più ampie forme di collaborazione
tra enti pubblici per la gestione di attività di comune
pubblico interesse (13). Le istituzioni europee,
d’altro canto, non hanno mai inteso precludere agli
Stati membri il potere di organizzare i propri servizi
pubblici secondo modelli equiparabili all’autoproduzione
o in forma consortile e cooperativa tra
autorità pubbliche. La scelta se esternalizzare o meno
la gestione dei servizi pubblici, ha avuto modo
di ribadire la Commissione europea, «compete (...)
esclusivamente alle autorità. Infatti, il diritto comunitario
degli appalti pubblici e delle concessioni
non si esprime riguardo l’opzione degli Stati membri
se garantire un servizio pubblico attraverso i
propri stessi servizi o se affidarli invece ad un terzo»
(14). La giurisprudenza della Corte di giustizia
ha poi precisato come «il diritto comunitario non
impone in alcun modo alle autorità pubbliche di ricorrere
ad una particolare forma giuridica per assicurare
in comune le loro funzioni di servizio pubblico»
(15).
Le istituzione europee sono consapevoli che il
principio della parità di trattamento sancito dal
Trattato e di cui sono attuazione le direttive in materia
di affidamenti pubblici, non può dirsi violato
quando «nessuna impresa privata viene posta in
una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti»
(16).
La gestione in house e le convenzioni
per la cooperazione tra enti pubblici
La Corte di giustizia UE (Grande Sezione, 19 dicembre
2012, C-159/11) ha poi di recente confermato
che vi sono due tipi di appalti conclusi da enti
pubblici che non rientrano nell’ambito di applicazione
del diritto dell’Unione in materia di appalti
pubblici: i contratti conclusi dalle autorità con un
società che rientrano nei canoni della gestione in
house ed i contratti che comunque istituiscono una
cooperazione tra enti pubblici, purché detta cooperazione
possa dirsi effettivamente finalizzata a garantire
l’adempimento di una funzione di servizio
pubblico.
Il giudice europeo ha evidenziato, infatti, come
il diritto dell’UE in materia di appalti esclude che
una norma nazionale possa autorizzare la stipulazio-
Comunitaria
Giurisprudenza
ne tra enti pubblici, senza previa gara, di contratti
di cooperazione qualora questi non siano intesi all’adempimento
di una funzione di servizio pubblico
comune agli enti medesimi oppure siano tali da
porre un prestatore privato in una situazione privilegiata
rispetto ai suoi concorrenti, in contrasto con
il fondamentale principio di diritto comunitario
della libera concorrenza.
Al riguardo, giova ricordare, che può accadere
come nell’ambito della conclusione di un accordo
tra pubbliche amministrazioni, una delle amministrazioni
interessate possa essere considerata un
operatore economico. Tale qualità, secondo una
nota pronuncia della Corte di giustizia europea, è
da riconoscere ad ogni ente pubblico che offra servizi
sul mercato, indipendentemente dal perseguimento
di uno scopo di lucro, dalla dotazione di una
organizzazione di impresa o dalla presenza continua
sul mercato (17).
Note:
(13) L’art. 15, comma 1, della L. n. 241 del 7 agosto 1990, recante
nuove norme in materia di procedimento amministrativo
e di diritto di accesso ai documenti amministrativi (in G.U.R.I. n.
192, del 18 agosto 1990, pag. 7), prevede che: «le amministrazioni
pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per
disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse
comune».
(14) Libro verde relativo al partenariati pubblico-privati ed al diritto
comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni del 30
aprile 2004, COM(2004) 327.
(15) Corte Giust. CE, Grande Sezione, 9 giugno 2009, causa C-
480/06, Commissione CE c. Repubblica Federale di Germania,
47, in Racc. pag. I-4747, punto 47, ove si stabilisce che: «(...) il
diritto comunitario non impone in alcun modo alle autorità pubbliche
di ricorrere ad una particolare forma giuridica per assicurare
in comune le loro funzioni di servizio pubblico. Dall’altra, una cooperazione
del genere tra autorità pubbliche non può rimettere in
questione l’obiettivo principale delle norme comunitarie in materia
di appalti pubblici, vale a dire la libera circolazione dei servizi e
l’apertura alla concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri,
poiché l’attuazione di tale cooperazione è retta unicamente da
considerazioni e prescrizioni connesse al perseguimento di obiettivi
d’interesse pubblico e poiché viene salvaguardato il principio
della parità di trattamento degli interessati di cui alla direttiva 92/
50, cosicché nessun impresa privata viene posta in una situazione
privilegiata rispetto ai suoi concorrenti». Si vedano anche i
precedenti pronunciamenti in materia della Corte Giust. CE nelle
sentenze Stadt Halle e RPL Lochau, punti 50 e 5.1.
(16) V. per un commento alla sentenza Corte Giust. CE, Grande
Sezione, 9 giugno 2009 causa C-480/06, C. E. Gallo, Affidamenti
diretti e forme di collaborazione tra enti locali, in questa Rivista,
2009, 10, 1176.
(17) V. Corte Giust. CE, 23 dicembre 2009, CoNISMa, C-305/08,
in Racc. pag. I-12129, in questa Rivista, 2010, 5, 551 con nota
di De Pauli. Il caso CoNisma riguardava l’esclusione di un consorzio
interuniversitario (formato da 24 Università italiane e tre
Ministeri) dalla gara indetta dalla Regione Marche per l’affidamento
di un servizio sull’acquisizione di rilievi marini sismostratigrafici,
l’esecuzione di carotaggi e il prelievo di campioni in mare.
I giudici europei, nel rispondere alla domande di pronunce
pregiudiziali proposte dal Consiglio di Stato italiano, hanno chia-
(segue)
Urbanistica e appalti 3/2013 313

Comunitaria
Giurisprudenza
Conclusioni
La sentenza commentata non introduce sostanziali
elementi di novità rispetto agli orientamenti
interpretativi in materia di ‘‘controllo analogo’’ assunti
in precedenza dallo stesso giudice dell’Unione.
L’assimilabilità tra il concetto di controllo analogo
- elemento imprescindibile di conformità al
Trattato degli affidamenti diretti alle società in house
fissato originariamente dalla ‘‘sentenza Teckal’’ -
ed il controllo esercitato congiuntamente, purché
effettivo, da parte di tutti gli enti pubblici soci della
società affidataria, era stato infatti già ritenuto ammissibile
dall’importante ‘‘sentenza Coditel’’.
Si sente ora però l’esigenza che l’assunto interpretativo
sia compiutamente recepito dalla giurisprudenza
amministrativa nazionale, definendo, con
criteri il più possibile oggettivi, quale sia il confine
tra un controllo congiunto ‘‘effettivo’’ ed un controllo
congiunto ‘‘debole’’, e quindi potenzialmente
elusivo dei principi comunitari che impongono
l’applicazione delle regole concorrenziali e di trasparenza
negli affidamenti di contratti pubblici.
Tale esigenza si avverte con maggiore intensità
in una congiuntura come l’attuale, nella quale l’oramai
cronica diffidenza del legislatore nazionale e degli
organi di controllo della spesa pubblica verso l’istituto
dell’in house providing - in parte invero giustificata
dall’utilizzo improprio e spesso antieconomico
del medesimo da parte degli enti locali - rischia di
scoraggiare l’applicazione di un modello organizzati-
vo dell’agire pubblico che, in prospettiva, potrebbe
consentire di valorizzare quelle istanze di tipo associativo/cooperativo
tra enti di minori dimensioni e
organizzazioni amministrative più complesse, promosse
in sede nazionale e comunitaria, con l’obiettivo
virtuoso di ottenere dalla gestione maggiori risparmi
nella spesa pubblica e, nel contempo, offrire
servizi pubblici di qualità per i cittadini.
Nota:
(segue nota 17)
rito come, alla luce della direttiva 2004/18/CE, non può negarsi
la possibilità per gli organismi di diritto pubblico di partecipare alle
gare, in quanto la definizione di operatore economico riportata
nella citata direttiva (art. 1, comma 8) comprende ogni ente pubblico
(nonché eventuali raggruppamenti) che offra servizi sul
mercato. Secondo le direttive europee, spiega il giudice di Lussemburgo,
possono quindi partecipare alle gare tutti i soggetti
«indipendentemente dal fatto di essere soggetti di diritto privato
o di diritto pubblico e di essere attivi sul mercato in modo sistematico
oppure soltanto occasionale, o, ancora, dal fatto di essere
sovvenzionato tramite fondi pubblici o meno». Né v’è l’obbligo
di eseguire direttamente le prestazioni ... «risultando sufficiente
la possibilità di farle eseguire a terzi e fornendo le garanzie
necessarie a tal fine» (pt. 41-42). Il nuovo orientamento ha
trovato poi conferma nella sentenza del Consiglio di Stato del
16 giugno 2009 n. 3897: «i soggetti economici senza scopo di
lucro, quali le fondazioni, possono soddisfare i requisiti necessari
per essere qualificati come operatori economici, attese la personalità
giuridica che le fondazioni vantano e la loro capacità di
esercitare anche attività di impresa, qualora funzionali ai loro
scopi e sempre che quest’ultima possibilità trovi riscontro nella
disciplina statutaria del singolo soggetto giuridico». Anche l’Autorità
di Vigilanza ha successivamente recepito l’indirizzo interpretativo
europeo, nel parere n. 119 del 22 ottobre 2009 in materia
di partecipazione alle gare delle imprese sociali per l’affidamento
di servizi.
314 Urbanistica e appalti 3/2013

Osservatorio
costituzionale
a cura di MARIA TERESA SEMPREVIVA
SENTENZE DELLA CORTE
EDILIZIA E URBANISTICA -DISTANZE TRA COSTRUZIONI
Corte Costituzionale, 23 gennaio 2013, n. 6 - Pres. Quaranta
- Red. Cartabia
L’art. 1, comma 2, della L.R. Marche 4 settembre 1979,
n. 31 (Interventi edificatori nelle zone di completamento
previste dagli strumenti urbanistici generali comunali) è
costituzionalmente illegittimo, in quanto eccede la competenza
regionale concorrente del «governo del territorio»,
violando il limite dell’«ordinamento civile», di competenza
legislativa esclusiva dello Stato.
La regolazione delle distanze tra i fabbricati è tematica afferente
alla materia «ordinamento civile», di competenza legislativa
esclusiva dello Stato. Infatti, tale disciplina attiene in
via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi
e ha la sua collocazione innanzitutto nel codice civile. La regolazione
delle distanze è poi precisata in ulteriori interventi
normativi, tra cui rileva, in particolare, il D.M. n. 1444 del
1968. Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha altresì
chiarito che, poiché «i fabbricati insistono su di un territorio
che può avere rispetto ad altri - per ragioni naturali e storiche
- specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda - ed in
particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso - esorbita
dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi
pubblici», la cui cura è stata affidata alle Regioni, in
base alla competenza concorrente in materia di «governo
del territorio», ex art. 117, comma 3, Cost. Per queste ragioni,
in linea di principio la disciplina delle distanze minime tra
costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e,
quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni
è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime
stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga
sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici
legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato
non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa
regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa,
interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta
dal suo scopo - il governo del territorio - che ne detta
anche le modalità di esercizio. Pertanto, la legislazione regionale
che interviene in tale ambito è legittima solo in quanto
persegue chiaramente finalità di carattere urbanistico, rimettendo
l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici
funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate
zone del territorio». Le norme regionali che, disciplinando
le distanze tra edifici, esulino da tali finalità, ricadono illegittimamente
nella materia «ordinamento civile», riservata,
come sopra detto, alla competenza legislativa esclusiva dello
Stato. L’art. 9, ultimo comma, del citato D.M. 2 aprile
1968, n. 1444, consente che siano fissate distanze inferiori
a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso
di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati
o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
Le deroghe all’ordinamento civile delle distanze
tra edifici sono, dunque, consentite se inserite in strumenti
urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo
e unitario di determinate zone del territorio. È quindi illegittimo
l’art. 1, comma 2, della L.R. Marche 4 settembre 1979,
n. 31 (Interventi edificatori nelle zone di completamento previste
dagli strumenti urbanistici generali comunali), il quale
consente che gli edifici aventi impianto edilizio preesistente,
con evidenti caratteristiche di non completezza, compresi
nelle zone di completamento con destinazione residenziale
previste dagli strumenti urbanistici generali comunali approvati,
siano ampliati anche in deroga alle distanze e/o al volume
stabiliti dal D.M. 2 aprile 1968, n. 1444. Tale norma, infatti,
travalica la competenza regionale concorrente in materia
di «governo del territorio», ex art. 117, comma 3, Cost.,
interferendo con la disciplina delle distanze tra le costruzioni,
che rientra nella materia «ordinamento civile», di competenza
legislativa esclusiva statale ex art. 117, comma 2, lett. l),
Cost. Ha osservato in particolare la sentenza in rassegna
che la norma regionale censurata infrange i principi generali
in materia, in quanto consente espressamente ai Comuni di
derogare alle distanze minime fissate nel D.M. n. 1444 del
1968, senza rispettare le condizioni stabilite dall’art. 9, ultimo
comma, del medesimo decreto ministeriale, che esige che
le deroghe siano inserite in appositi strumenti urbanistici, a
garanzia dell’interesse pubblico relativo al governo del territorio.
La disposizione regionale impugnata, al contrario, autorizza
i Comuni ad «individuare gli edifici» dispensati dal rispetto
delle distanze minime. La deroga non risulta, dunque,
ancorata all’esigenza di realizzare la conformazione omogenea
dell’assetto urbanistico di una determinata zona, ma
può riguardare singole costruzioni, anche individualmente
considerate.
ATTI DI PROMOVIMENTO DEL GIUDIZIO DELLA CORTE
AMBIENTE
Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
Presidente del Consiglio dei Ministri - Ricorso 21 dicembre
2012, n. 193
Piaccia alla Ecc.ma Corte dichiarare illegittimo l’art. 1,
comma 1, della L.R. Sardegna 12 ottobre 2012, n. 20,
perché in contrasto con l’art. 117, comma 2, lett. s),
Cost., con le norme interposte, di fonte ordinaria, direttamente
attuative degli artt. 9 e 117 Cost., contenute
nel codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al
D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, concernenti la pianificazione
paesaggistica congiunta (artt. 135 e 143), e con la
stessa disciplina di statuto speciale, nonché, infine, con
il canone di leale collaborazione.
Urbanistica e appalti 3/2013 315

Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
Ad avviso della ricorrente la legge della Regione Sardegna n.
20 del 2012, recante ‘‘Norme di interpretazione autentica in
materia di beni paesaggistici’’, è illegittima laddove all’art.1,
comma 1, stabilisce che: «La Giunta regionale, nel rispetto
della norma fondamentale di riforma economico-sociale di
cui all’art. 142 del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei
beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’art. 10 della L. 6
luglio 2002, n. 137), e successive modifiche ed integrazioni,
ed in particolare in applicazione di quanto disposto alle lettere
a) e b) di detto articolo, assume una deliberazione di interpretazione
autentica dell’art. 17, comma 3, lettera g), delle
norme di attuazione del Piano paesaggistico regionale nel
senso che la fascia della profondità di 300 metri dalla linea
di battigia è da riferirsi esclusivamente, come in tali disposizioni
già stabilito, ai laghi naturali e agli invasi artificiali, e non
si applica alle zone umide». Tale disposizione contrasterebbe,
innanzitutto, con l’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., con
le norme interposte, di fonte ordinaria, direttamente attuative
degli artt. 9 e 117 Cost., contenute nel codice dei beni
culturali e del paesaggio di cui al D.Lgs. 22 gennaio 2004, n.
42, concernenti la pianificazione paesaggistica congiunta
(artt. 135 e 143), con la stessa disciplina di statuto speciale
(attributiva, si, alla Regione Sardegna di una potestà legislativa
regionale propria in materia di tutela del paesaggio, ma
nei limiti del rispetto delle norme statali di «grande riforma
economico sociale» di cui all’art. 3, comma 1, della legge costituzionale
26 febbraio 1948, n. 3), nonché, infine, con il canone
di leale collaborazione.
Il principio della pianificazione necessariamente congiunta
(Stato-Regione) sui beni paesaggistici, contenuto negli artt.
135 e 143 del codice dei beni culturali e del paesaggio, costituendo
una norma fondamentale di riforma economico-sociale
della Repubblica, si impone, come tale, uniformemente
su tutto il territorio nazionale, in tutte le Regioni, ivi incluse
quelle che, come la Sardegna, godono di autonomia speciale.
La disposizione che si censura attribuisce alla sola Giunta
regionale, senza alcun coinvolgimento (né preventivo, né
successivo) dei competenti organi statali, il compito di «interpretare»
unilateralmente l’art. 17, comma 3, lett. g), delle
norme di attuazione del vigente piano paesaggistico regionale,
che individua tra le categorie di beni paesaggistici, tipizzati
ed individuati nella propria cartografia, le «zone umide, laghi
naturali ed invasi artificiali e territori contermini compresi
in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia,
anche per i territori elevati sui laghi», predeterminando,
per altro, il contenuto di tale delibera regionale nel senso, riduttivo
dell’ambito di protezione, che la tutela paesaggistica
della fascia di rispetto di 300 metri dalla linea di battigia non
si applica per le suddette zone umide.
PAESAGGIO
Presidente del Consiglio dei Ministri - Ricorso 6 novembre
2012, n. 178
Voglia l’Ecc.ma Corte Costituzionale dichiarare l’illegittimità
della legge della Regione Abruzzo n. 46 del 10 agosto
2012 recante «Modifiche alla legge regionale 13 febbraio
2003, n. 2, recante ‘‘Disposizioni in materia di beni
paesaggistici e ambientali, in attuazione della Parte terza
del D.Lgs 22 gennaio 2004, n. 42 (codice dei beni culturali
e del paesaggio’’» per contrasto con l’art. 117,
comma 2, lett. s), della Costituzione.
La legge regionale che modifica la L.R. 13 febbraio 2003, n.
2 recante ‘‘Disposizioni in materia di beni paesaggistici e
ambientali, in attuazione della Parte Terza del D.Lgs. 22 gennaio
2004, n. 42’’ è censurabile, ad avviso dei ricorrenti, relativamente
alla disposizione contenuta nell’art. 2, che sostituisce
l’art. 2-bis della L.R. n. 2 del 2003. La citata norma regionale
detta disposizioni di coordinamento della pianificazione
paesaggistica con gli altri strumenti di pianificazione. Il
nuovo comma 1 dell’art. 2-bis, nel dettare norme procedimentali
finalizzate alla verifica di compatibilità degli strumenti
di pianificazione delle amministrazioni locali al Piano Regionale
Paesistico, pur richiamando «il rispetto dei principi fissati
dall’art. 145 del D.Lgs. n. 42/2004», in realtà estrometterebbe
totalmente gli organi ministeriali dal procedimento di
verifica. La norma censurata, infatti, disciplina analiticamente
le fasi del procedimento senza fare menzione di alcun intervento
dell’Amministrazione dello Stato, così contravvenendo
all’art. 145 del codice dei beni culturali e del paesaggio, che,
al comma 5, dispone: «La regione disciplina il procedimento
di conformazione ed adeguamento degli strumenti urbanistici
alle previsioni della pianificazione, assicurando la partecipazione
degli organi ministeriali al procedimento medesimo».
Inoltre, il citato art. 2-bis prevede che le amministrazioni
locali possano «proporre aggiustamenti perimetrali e circoscritte
varianti», che la Regione approva qualora ravvisi
«la conformità delle previsioni proposte agli usi consentiti
dal PRP». Sembra all’odierno ricorrente che detti ‘‘aggiustamenti’’
e ‘‘varianti’’ sono suscettibili di incidere sugli obiettivi
e sui contenuti della pianificazione paesaggistica e, pertanto,
devono essere definiti in forma condivisa con lo Stato, in applicazione
degli artt. 135, 143 e 156 del codice. La disposizione
censurata, dunque, si porrebbe in contrasto con l’art.
117, comma 2, lett. s), della Costituzione, che riserva allo
Stato la competenza esclusiva in materia di tutela dell’ambiente
e dell’ecosistema e con le norme interposte, di fonte
ordinaria, direttamente attuative degli artt. 9 e 117 cit. Cost.,
contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio
(D.Lgs n. 42 del 2004, artt. 135, 143 e 156).
316 Urbanistica e appalti 3/2013

Giurisdizione
Il riparto di giurisdizione in tema
di acquisizione sanante anche
dopo l’art. 42-bis T.U. 327/2001
CASSAZIONE CIVILE, Sez. Un., 12 ottobre 2012, n. 17405 - Pres. Preden - Est. Rordorf - Comune
di Montecatini Terme c. Pucci via Veneto s.p.a.
Non è possibile rimettere in discussione la questione di giurisdizione sul risarcimento del danno arrecato dalla
p.a. laddove questa, come nel caso in esame, sia stata già decisa in una fase pregressa del medesimo giudizio
(in sede di regolamento preventivo di giurisdizione).
Non esorbita dalla sua giurisdizione il g.a. di secondo grado che, nel riformare la sentenza del primo giudice
(che aveva ritenuto essersi prescritto il diritto al risarcimento del danno subito a seguito della cd. ‘‘occupazione
acquisitiva’’), affermi trattarsi di illecito permanente - come tale non soggetto a prescrizione -, svolgendo
argomenti a sostegno di tale assunto e volti a quantificare l’entità del danno da liquidare.
Il fatto che il g.a. non abbia, nel decidere, tenuto conto del sopravvenire di una nuova norma volta a ridisciplinare
la fattispecie della cd. ‘‘accessione invertita’’ (dopo Corte cost. n. 293/2010), pubblicata fra la decisione in
camera di consiglio e la pubblicazione della sentenza, non configura un’indebita invasione nella sfera riservata
al legislatore.
Diritto
1. Il comune ricorrente lamenta il superamento, nell’impugnata
pronuncia, dei limiti esterni della giurisdizione
amministrativa, limiti che non avrebbero consentito al
Consiglio di Stato di affermare - come ha fatto - che la
proprietà delle aree di cui si discute nel caso in esame
non è stata acquisita dalla pubblica amministrazione e
che una tale acquisizione può avvenire solo per effetto
di un accordo negoziale da stipulare con la società Pucci
o all’esito di un regolare procedimento espropriativo.
Così decidendo il giudice amministrativo avrebbe, per
un verso, inteso colmare la lacuna normativa verificatasi
a seguito della declaratoria d’illegittimità costituzionale
del D.Lgs. n. 327 del 2001, art. 43, pronunciata dalla
Corte costituzionale con la sentenza n. 293 del 2010, interferendo
però in tal modo indebitamente con la sfera
delle attribuzioni proprie del legislatore, e, per altro verso,
avrebbe invaso la sfera di competenza giurisdizionale
del giudice ordinario, cui spetterebbe valutare l’eventua-
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Civile
Giurisprudenza
Conforme Cass., Sez. Un., 25 giugno 2010, n. 15327, in questa Rivista, 2010, 11, 1303 ss.; Cons. Stato, sez. IV,
n. 4833, e n. 4834, in Giur. Amm., 2011, I, 7/8, 1343, le due sentenze sono solo citate, con l’avvertenza,
però, che esse ‘‘riaffermano giurisprudenza consolidata in tema di risarcimento del danno da occupazione
illegittima’’
Difforme Cass., Sez. Un., 13 febbraio 2007, n. 3043; Cass., Sez. Un., 29 agosto 2008, n. 21929 (che è da considerare,
tuttavia, non assolutamente difforme, siccome riferita a fattispecie processuale iniziata anteriormente
al 10 agosto 2000, come si avverte in testa alla nota a sent. pubblicata in questa Rivista,
2010, 11, 1303)
lità dell’acquisto della proprietà delle aree da parte del
comune per effetto di usucapione.
2. Il ricorso non è fondato.
Giova anzitutto ricordare che non è più possibile mettere
in discussione la competenza giurisdizionale del giudice
amministrativo a conoscere della domanda di risarcimento
del danno proposta dalla società Pucci nella presente
causa, essendo stata tale questione già risolta dalle ordinanze
(n. 19608 e 19609 del 2008) con le quali questa
corte si è pronunciata in sede di regolamento preventivo.
Ciò premesso, è agevole rilevare come l’impugnata sentenza
del Consiglio di Stato, nel riformare la decisione
del Tribunale amministrativo che aveva rigettato la domanda
di risarcimento del danno per intervenuta prescrizione
e nell’accogliere invece siffatta domanda, determinando
il criterio di liquidazione del danno da risarcire,
si è mossa nel medesimo alveo giurisdizionale nel
quale era precedentemente intervenuta la riformata pronuncia
di primo grado. In entrambi i casi il giudizio ha
avuto ad oggetto il diritto della società Pucci di ottenere
Urbanistica e appalti 3/2013 317

Civile
Giurisprudenza
il risarcimento del danno subito in conseguenza dell’illegittimo
protrarsi dell’occupazione di aree di sua proprietà
senza l’intervento di alcun successivo provvedimento
espropriativo (quella che un tempo si era soliti definire
‘‘occupazione acquisitiva’’): diritto che il primo giudice
ha reputato fosse ormai estinto e che, viceversa, il giudice
d’appello ha considerato ancora in vita, procedendo
perciò a definire i criteri di liquidazione del danno.
Gli argomenti che il Consiglio di Stato ha adoperato per
giustificare tale decisione - in particolare quelli concernenti
le diverse possibili modalità di acquisto legittimo
della proprietà delle aree in contestazione da parte della
pubblica amministrazione, su cui si appuntano le censure
del comune ricorrente - sono null’altro che passaggi motivazionali,
volti a chiarire come il giudice di secondo
grado ha individuato gli estremi del danno risarcibile, a
spiegare la ragione per la quale egli ha reputato quel
danno permanente ed il relativo diritto non ancora prescritto
ed a definire i criteri in base ai quali il medesimo
danno è destinato ad essere liquidato.
Anche a voler ammettere, per mera esigenza dialettica,
che quegli argomenti siano errati e che, come il comune
ricorrente insiste nel sostenere, si sarebbe dovuto tener
conto della possibilità che le aree delle quali si parla fossero
state già da alcun tempo usucapite dall’amministrazione
che le aveva occupate per realizzarvi dei parcheggi
pubblici, si tratterebbe di eventuali errores in iudicando,
ma non certo di uno sconfinamento dai limiti della giurisdizione
del giudice amministrativo, quali già accertati
nelle precedenti ordinanze di questa corte sopra citate.
Né altrimenti è a dirsi per il fatto che il Consiglio di
Stato, formulando le argomentazioni cui s’è fatto cenno,
non abbia tenuto conto della sopravvenuta emanazione
da parte del legislatore, dopo la declaratoria d’illegittimità
costituzionale del D.Lgs. n. 327 del 2001, art. 43, di
un novello art. 42-bis del medesimo decreto (articolo introdotto
dal D.L. 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella
L. 15 luglio 2011, n. 111, nell’intervallo di tempo compreso
tra la data della decisione in camera di consiglio e
quella della pubblicazione della sentenza qui impugnata);
circostanza, questa, che, a tutto concedere, potrebbe
assumere rilievo in termini di eventuale violazione di
legge, ma non vale certo a configurare un’indebita invasione
del giudice nella fera riservata al legislatore.
3. In una vicenda in cui la corretta ricostruzione dei lineamenti
giuridici è stata non poco complicata dal succedersi
nel tempo di interventi del legislatore e di pronunce
sia della Corte costituzionale sia della Corte Europea
dei diritti dell’uomo, non appaiono configurabili gli
estremi della responsabilità processuale aggravata, invocata
dalla difesa della società controricorrente.
4. Il comune ricorrente, essendo rimasto soccombente,
dovrà però rifondere alla controparte le spese del giudizio
di legittimità, che vengono liquidate come in dispositivo,
in applicazione dei criteri stabiliti D.M. 20 luglio
2012, n. 140.
A tale ultimo riguardo giova ricordare che, a norma del
D.M. 20 luglio 2012, n. 140, art. 41, che ha dato attuazione
alla prescrizione contenuta nel D.L. 24 gennaio
2012, n. 1, art. 9, comma 2, convertito dalla L. 24 marzo
2012, n. 271, le disposizioni con cui detto decreto ha determinato
i parametri ai quali devono esser commisurati
compensi dei professionisti, in luogo delle abrogate tariffe
professionali, sono destinate a trovare applicazione
quando, come nella specie, la liquidazione sia operata da
un organo giurisdizionale in epoca successiva all’entrata
in vigore del medesimo decreto.
Reputa il collegio che, per ragioni di ordine sistematico
e dovendosi dare al citato art. 41 del decreto ministeriale
un’interpretazione il più possibile coerente con i principi
generali cui è ispirato l’ordinamento, la citata disposizione
debba essere letta nel senso che i nuovi parametri
siano da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale
intervenga in un momento successivo alla data di
entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al
compenso spettante ad un professionista che, a quella
data, non abbia ancora completato la propria prestazione
professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio
e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando
ancora erano in vigore le tariffe professionali abrogate.
Vero è che il D.L. n. 1 del 2012, art. 9, comma 3 stabilisce
che le abrogate tariffe continuano ad applicarsi, limitatamente
alla liquidazione delle spese giudiziali, sino all’entrata
in vigore del decreto ministeriale contemplato
nel comma precedente; ma da ciò si può trarre argomento
per sostenere che sono quelle tariffe - e non i parametri
introdotti dal nuovo decreto - a dover trovare ancora
applicazione qualora la prestazione professionale di cui si
tratta si sia completamente esaurita sotto il vigore delle
precedenti tariffe.
Non potrebbe invece condividersi l’opinione di chi, con
riferimento a prestazioni professionali (iniziatesi prima,
ma) ancora in corso quando detto decreto è entrato in
vigore ed il giudice deve procedere alla liquidazione del
compenso, pretendesse di segmentare le medesime prestazioni
nei singoli atti compiuti in causa dal difensore,
oppure di distinguere tra loro le diverse fasi di tali prestazioni,
per applicare in modo frazionato in parte la precedente
ed in parte la nuova regolazione. Osta ad una
tale impostazione il rilievo secondo cui - come anche
nella relazione accompagnatoria del più volte citato decreto
ministeriale non si manca di sottolineare - il compenso
evoca la nozione di un corrispettivo unitario, che
ha riguardo all’opera professionale complessivamente
prestata; e di ciò non si è mai in passato dubitato, quando
si è trattato di liquidare onorari maturati all’esito di
cause durante le quali si erano succedute nel tempo tariffe
professionali diverse, giacché sempre in siffatti casi si
è fatto riferimento alla tariffa vigente al momento in cui
la prestazione professionale si è esaurita (cfr., ad esempio,
Cass. n. 5426 del 2005, e Cass. n. 8160 del 2001).
L’attuale unificazione di diritti ed onorari nella nuova
accezione omnicomprensiva di ‘‘compenso’’ non può
non implicare l’adozione del medesimo principio alla liquidazione
di quest’ultimo, tanto più che alcuni degli
elementi dei quali l’art. 4 del decreto ministeriale impone
di tener conto nella liquidazione (complessità delle
questioni, pregio dell’opera, risultati conseguiti, ecc.) sarebbero
difficilmente apprezzabili ove il compenso dovesse
esser riferito a singoli atti o a singole fasi, anziché
318 Urbanistica e appalti 3/2013

alla prestazione professionale nella sua interezza. Né varrebbe
obiettare che detti elementi di valutazione attengono
alla liquidazione del compenso dovuto al professionista
dal proprio cliente, sembrando inevitabile che essi
IL COMMENTO
di Italo Franco
siano destinati a riflettersi anche sulla liquidazione giudiziale
effettuata per determinare il quantum delle spese
processuali di cui la parte vittoriosa può pretendere il
rimborso nei confronti di quella soccombente.
L’Autore trae spunto dalla sentenza annotata per ricostruire a tratti rapidi - sulla scorta della medesima - la
vicenda giuridica dell’‘‘accessione invertita’’, nozione di creazione giurisprudenziale poi riconosciuta e sancita
legislativamente, con esiti difformi. Ripercorsi sia i passaggi giurisprudenziali sia quelli legislativi indotti
dagli interventi della CEDU e della Corte costituzionale, viene presa in considerazione la nuova versione normativa
dell’istituto (l’art. 42-bis del T.U. espropriazioni), e quindi, sommariamente, la prima sua disamina da
parte della giurisprudenza del g.a., con esiti non del tutto appaganti.
Rilevanza della sentenza e breve excursus
sulla vicenda giuridica
La pronuncia delle S.U. della S.C. che si annota,
rileva non tanto per la novità del dictum in essa
contenuto, quanto, in primis, per il fatto (ad avviso
di chi scrive) di fornire un’occasione per svolgere
qualche considerazione sulla tormentata vicenda
del riparto di giurisdizione in merito all’istituto, di
origine giurisprudenziale, della c.d. ‘‘accessione invertita’’
(ed espressioni contigue, infra menzionate),
nonché sulla sostanza dell’istituto medesimo. (Sul
criterio di riparto - vale la pena di annotare - proprio
la sentenza in rassegna, e le due ordinanze delle
medesime S.U. rese sul regolamento preventivo
di giurisdizione che l’hanno preceduta, sembra sancire
con il crisma della definitività la soluzione dei
problemi legati alla questione) (1).
Al tempo stesso, la sentenza rileva sotto il profilo
del merito specifico della vicenda normativa sottostante,
e del (vero o presunto) vuoto normativo determinato
dagli interventi sia della Corte costituzionale
che della Corte di Strasburgo, vuoto, del resto,
verificatosi per effetto delle contrastanti pronunce
che si andavano susseguendo, e dell’intenzione del
legislatore di porre rimedio al contrasto, senza però
mai pervenire ad una sistemazione normativa tranquillizzante
e soddisfacente sotto tutti i profili.
Si premette che precipuo interesse presenta l’assunto
circa l’asserito carattere di illecito permanente
dell’acquisizione dell’opera realizzata in assenza
di legittima espropriazione, assunto risalente tuttavia
al Consiglio di Stato, anche nella sentenza oggetto
del ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione
e che per le S.U. (qui annotata) pare pressoché
scontato, e che in effetti appare consolidato.
Civile
Giurisprudenza
Sotto altro profilo, intanto, in ordine alla questione
del riparto di giurisdizione tra i giudici ordinario e
amministrativo vale la pena di osservare -nel rinviare
alla letteratura prodottasi al riguardo (2) -,
che i conflitti verificatisi in passato si sono avviati
a soluzione a seguito della determinazione del legislatore
di imboccare la strada di sancire la giurisdizione
del giudice amministrativo in materia di risarcimento
del danno prodottosi in conseguenza dell’illegittimità
di atti o comportamenti della p.a.
(ferma restando la giurisdizione del g.o. nei casi di
carenza di potere in astratto ovvero di comportamento
senza potere della p.a.).
I precedenti giurisdizionali in materia, tanto sul-
Note:
(1) Già, in verità, in precedenza le Sezioni Unite si erano pronunciate
per la spettanza della giurisdizione al g.a., in materia di acquisizione
sanante, sulla domanda di restituzione del fondo ove
fosse stata realizzata un’opera pubblica illegittimamente (ma in
presenza di una regolare dichiarazione di pubblica utilità), ovvero
di risarcimento del danno: cfr, ad es., Cass. civ., Sez. Un. 25 giugno
2010, n. 15327, in questa Rivista, 2010, 11, 1303 ss., con
nota di L. Maccari, Occupazione acquisizione: quale giudice?
Una storia infinita.
(2) Tra gli ultimi scritti riguardanti specificamente il tema dell’irreversibile
trasformazione del bene mediante realizzazione su di
esso di un’opera pubblica (acquisizione sanante), si vedano gli
scritti, riferiti alla pronuncia della Corte cost. n. 293/2010: E. Napolitano,
Corte costituzionale, sentenza 8 ottobre 2010 n. 293:
dichiara l’illegittimità costituzionale della c.d. acquisizione sanante
ex art. 43 D.P.R. 327/2001, inwww.ildirittoamministrativo.it;
D. Tomassetti, La sentenza della Corte costituzionale n. 293/
2010: conseguenza della declaratoria di illegittimità costituzionale
della norma sulla cd. acquisizione sanante, inwww.gazzettaamministrativa.it,
2/2011, G. Virga, Una possibile ‘‘exit strategy
‘‘ dopo la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 43 del
T.U. espropriazione per p.u., in www.lexitalia.it, 11/2010 (nota a
Corte cost. n. 293/2010, su questione di costituzionalità sollevata
da T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, con ordinanze del 9 ottobre
2008, nn. 114, 115 e 116 reg. ricorsi).
Urbanistica e appalti 3/2013 319

Civile
Giurisprudenza
lo specifico problema dell’accessione invertita (o
occupazione appropriativa o usurpativa, ecc.), tanto,
più ancora, in tema di risarcimento del danno
arrecato da atti e comportamenti illegittimi della
p.a. (con tutte le circonvoluzioni logico-giuridiche
connesse), sono troppo noti per doverli qui richiamare.
In sintesi, si può ricordare, preliminarmente,
che tutta la tematica dei criteri di ripartizione della
giurisdizione tra i giudici amministrativo e ordinario
(e lo svolgimento della relativa vicenda negli ultimi
anni) si nutrivano - specialmente prima che, come
già accennato, il legislatore si avviasse a dare una
soluzione normativa più chiara e scevra da interpretazioni
equivocabili - della distinzione teorica operata
dalle S.U. in merito alla distinzione tra carenza
di potere, in astratto o in concreto (3), e cattivo
esercizio del potere (4) e, sul piano processuale, tra
ipotesi di intervenuta previa impugnazione, o meno,
del provvedimento illegittimo (5).
Tuttavia, accadeva che -al di là della fissazione
di schemi logico-giuridici mentali più o meno validi
in astratto -, la soluzione, nel caso concreto, del
quesito circa l’appartenenza della giurisdizione al
giudice amministrativo oppure a quello ordinario in
ipotesi di instaurazione di controversia avverso amministrazioni,
organi o enti della p.a. variava ben
spesso (nelle soluzioni individuate dalle S.U. quale
giudice della giurisdizione), di volta in volta in funzione
della qualificazione del provvedimento o
comportamento dell’organo pubblico e della considerazione
di altri fattori, non sempre convincenti e
coerenti con gli assunti teorici appena richiamati.
Tanto accadeva più frequentemente in tema di risarcimento
del danno formulata dal privato nei
confronti della p.a.
Venendo al più specifico tema della cd. accessione
invertita (6) (vale appena la pena di ricordare
che, mentre l’antica regola classica così suona: quod
solo inaedificatur, solo cedit, nella fattispecie di realizzazione
illegittima di opera pubblica su suolo privato
si inverte, con l’istituto in esame, il principio -
nel senso che qui è la proprietà del suolo che viene
ad essere acquisita da chi ha realizzato la costruzione
su di esso -, in considerazione dell’incombenza
dell’interesse pubblico), va ricordato che anche in
materia erano vivi (in anni, in verità più risalenti,
ma non remoti) i contrasti di giurisdizione tra giudici
ordinari e giudici amministrativi; si ricorda, altresì,
che una parola nell’intentio legis definitiva era
stata posta in sede di redazione del T.U. sull’espropriazione
per pubblica utilità (approvato con D.Lgs.
n. 327/2001), con l’art. 43, sotto la spinta proveniente
dalla Corte di Strasburgo (CEDU).
Recenti pronunce della Corte costituzionale
e della CEDU in materia di acquisizione
sanante ex art. 43 T.U. espropriazioni
Con le note sentenze ‘‘Belvedere’’ del 30 maggio
2000, infatti, la Corte di Strasburgo era intervenuta
sul tema, enunciando il contrasto della teoria dell’occupazione
appropriativa (e, a maggior ragione,
quella usurpativa) con la tutela del diritto di proprietà
sancito nella CEDU, vale a dire dell’acquisizione
della proprietà del fondo da parte della p.a.
in mancanza di una norma che giustificasse un siffatto
tipo di potere in presenza di avvenuto annullamento
giurisdizionale degli atti del procedimento
di espropriazione. «Viola l’art. 1 del primo protocollo
aggiuntivo (7) alla convenzione Europea per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo l’appropriazione
da parte della p.a. di un fondo, causa l’intervenuta
irreversibile sua trasformazione, a dispetto del fatto
che il giudice amministrativo avesse annullato in
quanto illegittimi e contrari al pubblico interesse
gli atti di una procedura espropriativa» (8).
Note:
(3) Nel qual caso la giurisdizione sulle controversie in tema di risarcimento
del danno si dichiarava appartenere al g.o.
(4) In tale ipotesi la giurisdizione viene attribuita al g.a.. Sulle nozioni
(e implicazioni) delle nozioni di carenza di potere in astratto
e in concreto, ci sia consentito rinviare a I. Franco, Manuale del
nuovo diritto amministrativo, Padova, 2012, in particolare pag.
684.
(5) Ci riferiamo alla ben nota e travagliata vicenda della cd. pregiudiziale
amministrativa, che ha caratterizzato in anni recenti i
contrasti tra Sezioni Unite della Cassazione da un lato e Consiglio
di Stato (con la più parte dei TAR) dall’altro. Per le Sezioni
Unite quale giudice della giurisdizione - fino a che non è intervenuta
la soluzione legislativa dettata prima nel D.Lgs. n. 53/2010
e poi nel c.p.a. (D.Lgs. n. 104/2010) - solo nell’ipotesi di avvenuta
impugnazione del provvedimento la giurisdizione sul risarcimento
del danno poteva dirsi appartenere al g.a. In caso contrario
la giurisdizione veniva, dalle Sezioni Unite, dichiarata in favore
del g.o.
(6) In verità, l’espressione accessione invertita (o anche occupazione
appropriativa) veniva riservata all’ipotesi caratterizzata dall’esistenza
di vizi negli atti del procedimento di espropriazione,
ma anche dalla presenza di una valida dichiarazione di pubblica
utilità, poi divenuta inefficace, laddove la c.d. occupazione acquisitiva
veniva riferita dalla S.C. all’ipotesi di esistenza di valida ed
efficace dichiarazione di p.u.: cfr. D. Tomassetti, La sentenza
della Corte costituzionale n. 293/2010, cit., 77 (che richiama, in
particolare, Cass. civ., Sez. Un., 26 febbraio 1983, n. 1464).
(7) Articolo 1 - Protezione della proprietà
Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni.
Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa
di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai
principi generali del diritto internazionale.
Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli
Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare
l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale
o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi
o delle ammende.
(8) Così la massima riportata in www.dejure.giuffre.it.
320 Urbanistica e appalti 3/2013

Al riguardo è stato anche detto: «Il 30 maggio
del 2000 la CEDU con le sentenze Belvedere ha affermato
che la figura dell’occupazione appropriativa
violerebbe l’art. 1 del protocollo 1 della Convenzione
Europea dei diritti dell’uomo giacché prevede la
perdita della proprietà in assenza di norme che la
legittimano» (9). Ad ogni modo, ciò che rileva ai
fini del discorso che andiamo svolgendo, fu proprio
a seguito dell’intervento della Corte europea che il
legislatore italiano provvide, in sede di redazione
del T.U. sull’espropriazione (D.Lgs. n. 327/2001)
ad inserirvi l’istituto poi denominato ‘‘acquisizione
sanante’’ con l’articolo 43. Successivamente, la
Corte ha riaffermato a più riprese il suo orientamento
(divenuto, così, principio consolidato nella
sua giurisprudenza) con altre pronunce (10). (Ma,
si veda, al riguardo, cosa ne pensa il g.a. nell’unica
sentenza pronunciata sull’art. 42-bis: cfr. infra).
Cosa disponeva la norma appena richiamata?
Certo, non è il caso di riportarne, qui, il testo; basti
richiamarne gli snodi principali (così come interpretati
dalla giurisprudenza), al fine, da un lato, di
comprendere le ragioni in base alle quali Corte
cost. n. 293/2010 ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale,
dall’altro, di operare un raffronto con
l’art 42-bis, introdotto (in suo luogo), onde affacciare
una valutazione prognostica circa la capacità di
tenuta della nuova norma, nell’eventualità di ulteriori
richieste di intervento delle due Corti su nominate.
L’istituto introdotto da detto art. 43 è stato
poi denominato ‘‘acquisizione sanante’’ (11).
Nel comma 1 si sanciva che la p.a. che utilizzi
«un bene immobile per scopi di interesse pubblico
modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento
di esproprio o dichiarativo della pubblica
utilità può disporre che esso vada acquisito al suo
patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano
risarciti i danni». Ovviamente, occorrevano
chiarimenti e dati sulle circostanze dell’indebita utilizzazione
dell’area. Nel comma secondo si chiariva
(elencando contenuto, effetti del provvedimento di
detta acquisizione sanante, e adempimenti connessi),
oltre all’obbligo della p.a. di dare atto delle circostanze
che avevano condotto all’indebita utilizzazione
dell’area e della decorrenza di questa, del che
si è appena detto, che ciò poteva avvenire anche in
caso di avvenuto annullamento degli atti fondamentali
del procedimento espropriativo (apposizione
del vincolo preordinato all’esproprio; dichiarazione
di p.u. dell’opera; decreto di esproprio).
Per l’ipotesi che pendesse giudizio avverso uno
di tali atti o provvedimenti, ovvero in ordine alla
domanda di restituzione del bene (restitutio in inte-
Civile
Giurisprudenza
grum), il comma 3 stabiliva che «l’amministrazione
che ne ha interesse o chi utilizza il bene può chiedere
che il giudice amministrativo, nel caso di fondatezza
del ricorso o della domanda, disponga la
condanna al risarcimento del danno, con esclusione
della restituzione del bene senza limiti di tempo».
Si trattava, come si vede, di una soluzione tranchant
che sottintendeva la decisa prevalenza dell’interesse
pubblico - evidenziato, più che dalla realizzazione
illegittima di un’opera pubblica, dalla sua
utilizzazione per scopi di interesse pubblico - su
quello del privato titolare del diritto di proprietà
(con il quale sempre, secondo i principi, va contemperato
il primo, allorquando essi vengono in
conflitto), in sostanza frustrando in ogni caso la
possibilità per il proprietario del suolo di ottenerne
la restituzione (ciò che poteva apparire eccessivo
specialmente nelle ipotesi di trasformazione non
veramente irreversibile del bene) in conseguenza di
quello che viene dalla giurisprudenza considerato
un illecito permanente (risarcimento in forma specifica,
o restituito in integrum).
Se era, tuttavia, efficace una scelta normativa
siffatta, essa si poneva certamente in contrasto, più
che con i principi del nostro ordinamento (caratterizzato
pur sempre dalla prevalenza dell’interesse
pubblico e, di conseguenza, dal fatto che è ammesso
il sacrificio dell’interesse privato allorquando esso si
ponga in contrasto con l’interesse pubblico specifico,
a condizione che il sacrificio avvenga mediante
un legittimo provvedimento e previo apposito procedimento
aperto alla partecipazione dell’interessato),
con il diritto internazionale sancito dalla convenzione
europea per i diritti dell’uomo. È per questo
che la Corte costituzionale, investita nuovamente
della questione (avuto riguardo al fatto che,
da qualche anno, i principi del diritto comunitario
e internazionale sono, ormai, costituzionalizzati)
(12), non ha potuto che giudicare in contrasto
con la Costituzione la disciplina dettata dall’art. 43
citato.
Vero è che la Corte non ha fulminato la norma
Note:
(9) Così si esprime E. Napolitano, op. cit., 3.
(10) Cfr., ad es., CEDU, sez. V, 22 giugno 2006, n. 213.
(11) Come è stato osservato (D. Tomassetti, op. cit., 78), si tratta
di istituto non coincidente con la cd. accessione invertita, il
che sarebbe dimostrato, tra l’altro, dalla sua dichiarata applicabilità
anche alle servitù (in virtù del comma 6-bis, introdotto con
l’art. 1, comma 1, lett. ll) D.Lgs. 27 dicembre 2002, n. 302), cosa
in precedenza esclusa dalla giurisprudenza quanto ai diritti
parziari.
(12) Cfr. art. 117.1 Cost.
Urbanistica e appalti 3/2013 321

Civile
Giurisprudenza
per il suo contenuto, in quanto essa si è limitata a
dichiarare l’illegittimità costituzionale sotto il profilo
dell’eccesso di delega, in violazione dell’art. 76
Cost., in certo senso, con una pronuncia in rito, su
questione preliminare assorbente. Tuttavia, bisogna
dire che il Collegio ha fatto capire che comunque
avrebbe dichiarato incostituzionale la norma, se
avesse dovuto pronunciarsi nel merito.
Infatti, è stato osservato (13): «Al riguardo, non
tragga in inganno che l’illegittimità costituzionale
sia stata dichiarata per eccesso di delega e violazione
dell’art. 76 Cost., in quanto il giudice delle leggi
ha formulato un giudizio sulla sostanza dell’art. 43
cit., definendolo un inaccettabile strumento di sanatoria
dall’esterno di procedimenti amministrativi
intrinsecamente viziati».
Il vuoto normativo seguito a Corte cost.
n. 293/2010
Si veniva, così, a creare, con la declaratoria di
incostituzionalità dell’art. 43 del T.U. espropriazione,
indubbiamente, un vuoto normativo, specie
con riguardo alla finalità perseguita dal legislatore
con tale norma, con la conseguente esigenza di individuare
una soluzione alla penosa fattispecie inerente
alle varie ipotesi di occupazione illegittima.
[D’altra parte, che ci si trovasse effettivamente al
cospetto di un vuoto normativo - ma si ricorda che
l’ordinamento, secondo tesi autorevoli, non tollera
lacune (14) -, era lecito dubitare, ed in effetti c’è
chi ha sostenuto una soluzione differente, in epoca
di poco anteriore a Corte cost. n. 293/2010: per
T.A.R. Lazio, sez. II-bis, 18 maggio 2010 n.
11984 (15) - relativa, però, a fattispecie intertemporale,
in relazione alla quale detto giudice, premettendo
che in presenza di norme nazionali in
contrasto con il diritto comunitario e internazionale,
il giudice nazionale è tenuto a disapplicarle, si
era pronunciato per l’applicazione dell’art. 43 (evidentemente
ritenuto non in contrasto con la CE-
DU), anche a fattispecie anteriori alla sua entrata
in vigore in quanto norma ricognitiva di un principio
sancito da essa CEDU].
Mentre taluno, al cospetto di tale lacuna (apparente,
dobbiamo per coerenza ribadire: cfr. nota 14)
prospettava semplicemente un ritorno al passato -
quando la giurisprudenza aveva, appunto, individuato
le soluzioni inerenti all’accessione invertita,
et similia -, altri auspicava un pronto intervento del
legislatore, soggiungendo che questi «dovrà contemperare
il pubblico interesse con il diritto dominicale
del privato, nella considerazione che non
può esservi, nel contatto che interviene tra privato
espropriando e p.a. espropriante, un automatico trasferimento
della proprietà nel momento in cui avviene
la irreversibile trasformazione del fondo (cd.
accessione invertita), ma che, conformemente al
diritto comunitario ed internazionale, allorquando
vi sia un’occupazione illegittima, il trasferimento
della proprietà deve tornare nella esclusiva disponibilità
del privato, libero di accettare, dietro risarcimento
del danno, un sacrificio del proprio diritto
di proprietà» (16).
Quest’ultimo assunto attiene all’importante discrimine,
segnato già dall’orientamento giurisprudenziale
più recente del Consiglio di Stato cui si
accennava più addietro ed avallato dalla sentenza
delle S.U. in rassegna, secondo il quale l’acquisizione
della proprietà da parte della p.a., anche in ipotesi
di realizzazione (e/o utilizzazione) dell’opera
non può avvenire che mediante regolare provvedimento
di espropriazione, ovvero mediante accordo
-anche ex art. 11 della L. n. 241/1990 -, accordo da
non confondere con quello concernente la cessione
bonaria del bene, previsto dalla legge quale alternativa
all’espropriazione (che è, dunque, uno strumento
‘‘fisiologico’’ nell’ambito della disciplina dell’espropriazione
per pubblica utilità e del relativo
procedimento). Non solo, in altri termini, in assenza
di uno degli strumenti indicati non si può verificare
il passaggio di proprietà del fondo in capo all’amministrazione
pubblica; nemmeno, ove l’acquisto
avvenga secondo uno dei modi indicati (decreto
di espropriazione o accordo), l’effetto acquisitivo si
produce automaticamente, a titolo originario. (Da
ciò consegue, inoltre, il carattere permanente dell’illecito).
Note:
(13) D. Tomassetti, op. cit., 77-78.
(14) Per tutti si veda R. Quadri, Diritto internazionale pubblico,
NA 1968 (ristampa 1981), 212-213 ss. e passim (che parla di
completezza dell’ordinamento, in verità, in primo luogo con riguardo
al diritto internazionale: ma è chiaro che il senso dell’asserita
completezza - id est: mancanza di lacune - fa riferimento
all’obbligo del giudice investito di una determinata questione e
che non rintracci una norma ad hoc nell’ordinamento, di individuare
egli la regula juris, sulla base dei principi dell’ordinamento
medesimo).
(15) Leggila in questa Rivista, 2010, 12, 1477 ss., con nota critica
di R. Conti, Occupazione acquisitiva: rilettura dei rapporti fra
ordinamento interno e CEDU dopo il Trattato di Lisbona (che ha
elevato i principi fondamentali della CEDU al rango di principi interni
al diritto dell’Unione europea).
(16) Tomassetti, La sentenza della Corte costituzionale n, 293/
2010: conseguenze della declaratoria di incostituzionalità, cit.,
79.
322 Urbanistica e appalti 3/2013

La soluzione normativa ex art. 42-bis
da ultimo individuata dal legislatore
Il legislatore, a distanza di non troppo tempo
dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 293/
2010, dichiarativa dell’incostituzionalità dell’art.
43, ha inteso porre rimedio al menzionato ‘‘vuoto’’,
introducendo, nel T.U. approvato con D.P.R. n.
327/2001, l’art. 42-bis (con l’art. 34, comma 1 del
D.L. 6 luglio 2011 n. 98 convertito in L. n. 111/
2011).
La rubrica della nuova disposizione legislativa
(‘‘Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di
interesse pubblico’’), se pure meno ridondante, corrisponde
in toto a quella preposta all’ormai incostituzionale
art. 43. Ed infatti, la ratio legis si può dire
la stessa. Peraltro, non solo la rubrica, ma anche la
sostanza della ‘‘nuova’’ disciplina parrebbe ictu oculi
non discostarsi molto dalla vecchia norma, inserendo
in punti strategici differenti previsioni onde evitare
il rischio di future declaratorie di incostituzionalità
(o, ancora prima, di trovarsi in contrasto con
la CEDU), e questo getta un’ombra (ci pare), sulla
conformità della nuova norma alla CEDU e alla
Costituzione.
Vediamo, brevemente, di seguito, di confrontare
la nuova (art. 42-bis) con la vecchia disposizione
(art. 43).
Ferma restando la sostanziale identità della più
secca rubrica dell’art. 42-bis con la rubrica - nonché
con il nucleo essenziale del vecchio disposto normativo
- dell’art. 43, osserviamo in primis che il disposto
di cui all’art. 1, nella parte iniziale, pare
pressoché coincidere con l’analoga disposizione dell’ex
art. 43 («1. Valutati gli interessi in conflitto,
l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi
di interesse pubblico, modificato in assenza di un
valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo
della pubblica utilità, può disporre che
esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio
indisponibile e che al proprietario sia corrisposto
un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale
e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente
liquidato nella misura del dieci per cento del
valore venale del bene)». Notiamo, en passant, che,
ancora oggi, l’istituto de quo può denominarsi ‘‘acquisizione
sanante’’.
A parte l’introduzione della (singolare?) (17) risarcibilità
anche del danno non patrimoniale,
quantificato nel dieci per cento del valore venale
del bene, si osserva che un elemento di novità è costituito
dal fattore temporale, cioè dalla previsione
di non retroattività dell’acquisizione, che, infatti,
Civile
Giurisprudenza
ha efficacia ex nunc. Detta novella sembra rispondere
al rilievo, evidenziato dalla giurisprudenza, che
l’acquisizione sanante non può, in ogni caso, coincidere
con il trasferimento automatico della proprietà
in capo alla p.a. (cui si è accennato più addietro)
(18). Quanto al risarcimento del danno subito
nel periodo intertemporale (fino a che, cioè, il
bene è stato detenuto sine titulo dalla p.a.), stabilisce
il comma 3 che, salvo dimostrazione di un danno
di maggiore entità, lo stesso è calcolato sul valore
venale del bene (cui va ragguagliato l’indennizzo
per il pregiudizio subito per lo spoglio della proprietà)
e va commisurato al tasso di interesse del cinque
per cento annuo. Comunque sia, ad una valutazione
complessiva del primo comma, a parte il
più pingue compenso economico (e la dicitura ‘‘indennizzo’’
in luogo di risarcimento del danno: infra),
non vi si ravvisano significativi contenuti atti
a superare i contrasti già evidenziati dalla CEDU e
dalla Corte costituzionale.
Più problematico si presenta, peraltro, il comma
2, che testualmente recita: «2. Il provvedimento di
acquisizione può essere adottato anche quando sia
stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo
preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato
la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio.
Il provvedimento di acquisizione può essere
adottato anche durante la pendenza di un giudizio
per l’annullamento degli atti di cui al primo periodo
del presente comma, se l’amministrazione che
ha adottato l’atto impugnato lo ritira. In tali casi, le
somme eventualmente già erogate al proprietario a
titolo di indennizzo, maggiorate dell’interesse legale,
sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente
articolo».
Qui il contrasto con l’orientamento della CEDU
e con la Corte cost. 293/2010 (nella lettura ‘‘sostanzialistica’’,
sopra richiamata) non potrebbe essere
più netto, ed anzi clamoroso. Infatti, si riafferma
apertis verbis che il provvedimento di acquisizione
sanante può essere assunto anche in presenza di avvenuto
annullamento giudiziale dei provvedimenti
significativi sui quali si innerva il procedimento di
espropriazione (atto di imposizione del vincolo
Note:
(17) In questa come in altre materie, per così dire, ‘‘amministrative’’
ci sembra una novità la previsione di un danno non patrimoniale
e, a maggior ragione, della sua risarcibilità. Qualcosa di
simile è ravvisabile, forse, nella configurazione del danno all’immagine
della p.a. (dunque, sul versante opposto, essendo qui
l’amministrazione pubblica la parte lesa), elaborato dalla giurisprudenza
della Corte dei conti.
(18) Retro, par. 3, in fine.
Urbanistica e appalti 3/2013 323

Civile
Giurisprudenza
espropriativo, decreto di esproprio, ecc.). Non si
vede, invero, come tale disposto normativo possa
conciliarsi con la posizione assunta e ribadita dalla
Corte di Strasburgo, che ha intravvisto un vulnus
significativo nel potere, riconosciuto alla p.a., di disporre
l’acquisizione sanante in contrasto con il giudicato
di un giudice amministrativo (viene da pensare
che, in tal modo, ci si pone in contrasto non
solo con la tutela costituzionale del diritto dominicale
del privato, ma anche si produce, virtualmente,
un conflitto fra poteri dello Stato ...).
Per giunta, il comma 2 prosegue statuendo che,
anche in ipotesi di giudizio pendente avverso uno
dei menzionati provvedimenti, l’amministrazione
può adottare il provvedimento di acquisizione sanante,
aggiungendo, tuttavia, la condizione che la
p.a. parte in causa abbia ritirato l’atto impugnato.
In siffatta ipotesi il vulnus parrebbe ancora più grave,
poiché, se il ritiro dell’atto in autotutela (in
pendenza di giudizio) almeno apparentemente non
può significare altro che la p.a. parte in causa intende
rinunciare a difendere la sua posizione, e, a
fortiori, all’esproprio, il riconoscerle un potere di disporre,
poi, l’acquisizione sanante suona - oltre che
come potenzialmente contraddittorio con detta manifestazione
di volontà della stessa amministrazione
- come lesivo del potere giurisdizionale già in via
preventiva (nel senso che, ancora prima che la causa
‘‘vada a sentenza’’, si sancisce che la p.a. parte in
causa possa inficiare la sentenza medesima nel caso
che questa risultasse favorevole al ricorrente, con
l’annullamento del decreto di esproprio o dell’atto
dichiarativo della pubblica utilità dell’opera).
Insomma, anche se, in astratto e in generale, affatto
giustificabile appare l’orientamento del sistema
ordinamentale tendente a dare prevalenza all’interesse
pubblico sull’interesse privato, in questo
caso appare effettivamente troppo preponderante
l’interesse all’utilizzazione dell’opera costruita illegittimamente
sull’interesse del soggetto espropriato
a riavere indietro il terreno (specialmente se si tiene
conto del fatto che, appunto, l’opera è stata realizzata
senza il crisma della legalità). Mentre una disposizione
del genere potrebbe comprendersi e giustificarsi,
forse, nelle ipotesi di annullamento dell’atto
per vizi formali, e dell’intenzione, più o meno
esplicita, dell’amministrazione di reiterare l’atto annullato
(19), difficilmente la stessa può giustificarsi
in caso di annullamento per vizi sostanziali.
La vera novità nella nuova disciplina dell’acquisizione
sanante ex art. 42-bis - che in qualche modo
va ad attenuare lo sbilanciamento appena denunciato
- risiede nel quarto comma, dove si prescrive
che il provvedimento di acquisizione sanante, oltre
a recare «l’indicazione delle circostanze che hanno
condotto all’indebita utilizzazione dell’area» e, ove
possibile, la data di inizio (tanto era già previsto
nell’art. 43), deve essere «specificamente motivato
in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di
interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione,
valutate comparativamente con i contrapposti interessi
privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli
alternative alla sua adozione».
Questo onere di motivazione, ovvero di ostensione
delle ragioni che inducono l’amministrazione ad
avvalersi del potere di avulsione del bene in mancanza
di un legittimo provvedimento, che potremmo
definire straordinario (extra ordinem), costituisce
il novum della nuova disciplina, e la legittimità del
provvedimento di acquisizione, riteniamo, si giocherà
tutta attorno alla capacità di tale motivazione
di dare pienamente e realmente conto delle ragioni
fattuali e giuridiche di una simile determinazione
(di acquisizione sanante) assunta a seguito del comportamento
contra legem della p.a., e specialmente
della mancanza di ragionevoli alternative (bisogna
ricordare pur sempre che ci si trova al cospetto di
una costruzione o struttura preordinata a servire
l’interesse collettivo o generale che si presuppone
ormai completata, e anzi già utilizzata).
È da segnalare anche l’ulteriore statuizione, pure
contenuta nel comma 4, circa l’onere della p.a. di
pagare entro breve l’indennizzo con gli accessori,
tanto che si stabilisce che il trasferimento della proprietà
è disposto sub condicione dell’avvenuto pagamento
delle somme dovute entro il termine di trenta
giorni, ovvero dal loro deposito ai sensi dell’art.
20.14 [vale a dire, una volta scaduto inutilmente il
termine di trenta giorni dalla notifica del provvedimento
di esproprio (equivalente a mancata accettazione
della somma offerta)].
Da segnalare, ancora, in primo luogo, l’abbandono
della dicitura ‘‘risarcimento del danno’’ (usata
nell’incostituzionale art. 43) a favore di: ‘‘indennizzo
per il pregiudizio patrimoniale’’, e simili (di ciò
si vedranno le conseguenze che ne ha tratto - in
termini di riparto della giurisdizione sulle controversie
concernenti le relative somme - la più recente
giurisprudenza: infra). Si consideri, inoltre, la sta-
Nota:
(19) Ma è chiaro che, in simile eventualità, la p.a. dovrebbe, più
correttamente, rinnovare l’atto annullato (a meno che non intenda
ricorrere allo strumento più agile e veloce del provvedimento
di acquisizione sanante, che non costringe a reiterare il procedimento
dal punto in cui esplica effetti l’annullamento).
324 Urbanistica e appalti 3/2013

tuizione concernente l’acquisizione di un terreno
utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica,
agevolata o convenzionata, o da attribuire «per
finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti
privati», per le quali ipotesi l’entità del danno
(la norma dice: ‘‘pregiudizio’’) non patrimoniale
viene elevata dal dieci al venti per cento del valore
venale del bene. Si possono tralasciare, qui, considerazioni
in ordine alle ulteriori disposizioni dell’art.
42-bis, di non grande rilievo ai fini che ne occupa.
Considerazioni sulle implicazioni
dell’art. 42-bis ed i suoi probabili effetti
Cosa dire, in conclusione, di una simile disciplina,
sotto il profilo patrimoniale certamente più favorevole
al proprietario del bene espropriato, ma
all’apparenza in contrasto (più nettamente rispetto
all’ex art. 43) con l’orientamento assunto dalla CE-
DU (affatto conforme all’art. 1 del 18 protocollo aggiuntivo)
e dalla stessa Corte costituzionale italiana?
Quali potranno essere le conseguenze di provvedimenti
di acquisizione sanante emessi da questa
o quell’amministrazione, in sede giurisdizionale? Si
può asserire, in merito che (come già poco addietro
rilevato), al fine di una lettura della nuova norma
alla stregua di una sua possibile conformità con i
principi dell’ordinamento, la chiave di volta sia costituita
dalla motivazione che dovrà figurare nei
provvedimenti assunti ai sensi dell’art. 42-bis: tutto
si giocherà sulla legittimità e accettabilità di essa
motivazione..
Occorre a questo punto richiamare l’attenzione
sul fatto che, a differenza della lettura critica che
ne abbiamo qui fatta (del resto, sulla scorta del dato
testuale della nuova norma), d’altronde, c’è chi ragiona
(ha ragionato) in modo diverso, sulla scorta
di una rilettura dell’orientamento della CEDU, nelle
pronunce che si sono susseguite nel tempo. Ed
invero, l’art. 42-bis è già pervenuto al vaglio del
giudice amministrativo e questi, in secondo grado,
ha dato un’interpretazione di compatibilità di tale
norma con l’asserito nuovo orientamento della
Corte e, contestualmente, ha dato una lettura della
medesima di conformità alla Costituzione.
In una recente pronuncia (20), invero, il Consiglio
di Stato - nel contesto di un giudizio iniziato
alla stregua della previgente normativa, e poi pervenuto
all’emissione di ulteriori provvedimenti della
p.a. parte in causa sulla scorta del sopravvenuto art.
42-bis - ha sgomberato a piè pari il campo dai timori
che si potevano nutrire nei riguardi delle nuove
Civile
Giurisprudenza
disposizioni (21), dichiarando, oltre alla sua non
incompatibilità con la CEDU, manifestamente infondata
la questione di costituzionalità dell’art. 42bis
(al tempo stesso asserendo che il sopravvenuto
provvedimento assunto ex art. 42-bis, che ha determinato
l’improcedibilità della domanda di restituzione
del fondo, potrà essere impugnato ‘‘in sede di
cognizione’’).
In relazione all’assunta assenza di contrasto con
la nuova giurisprudenza della CEDU, nella sentenza
citata si afferma, in maniera piuttosto sfuggente:
«Al riguardo, ritiene la Sezione che, successivamente
alla sentenza del 12 gennaio 2006 della Sez.
III della CEDU, resa sul ricorso n. 14793/02 (e citata
nella sentenza della Corte costituzionale n.
293 del 2010), che aveva incidentalmente formulato
critiche all’art. 43 del testo unico in occasione di
una condanna riguardante una occupazione sine titulo,
la Corte di Strasburgo non si è pronunciata
più in senso critico, nei confronti dell’istituto originariamente
disciplinato dal medesimo art. 43, oggetto
della dichiarazione di incostituzionalità per
eccesso di delega e reintrodotto nell’ordinamento
nazionale (con significative modifiche) dall’art. 42bis
sopra richiamato», e ciò sulla premessa che il
Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, nella
seduta del 13-14 febbraio 2007, aveva manifestato
il suo compiacimento per la via legale prescelta dall’Italia
onde risolvere l’annosa questione di quella
che la Corte chiama espropriazione indiretta, rappresentato
dall’art. 43, ora reintrodotto nell’ordinamento
sub specie di art. 42-bis, sia pure con significative
modifiche (si dà, così, per scontato che, se la
Corte di Strasburgo dovesse essere investita della
questione della conformità, o meno, alla convenzione
dell’art. 42-bis, essa si pronuncerebbe a favore
della norma che ha sostituito l’art. 43).
Quanto alla prospettata incostituzionalità, esplicitamente
nella medesima sentenza si dice, nella
parte conclusiva: «Per tali ragioni, ritiene la Sezione
che, per quanto rileva nel giudizio, le dedotte
questioni di costituzionalità vadano dichiarate manifestamente
infondate, poiché l’art. 42-bis risulta
Note:
(20) Cons. Stato, sez. VI, 15 marzo 2012, n. 1438, in www.ildirittoamministrativo.it.
(21) Ove si fossero mantenuti i dubbi di costituzionalità già prospettati
alla Corte costituzionale riguardo all’art. 43 (cfr. supra,
nel testo), si poteva prospettare - diciamo qui, brevemente - un
richiamo della pregressa giurisprudenza del medesimo Consiglio
di Stato circa l’obbligo per la p.a. di pervenire ad un accordo con
il proprietario per l’acquisizione del terreno (v. supra, par. 3, in fine).
Urbanistica e appalti 3/2013 325

Civile
Giurisprudenza
conforme alle disposizioni della CEDU e alla giurisprudenza
della Corte di Strasburgo che ha più volte
condannato la Repubblica Italiana proprio perché
i giudici nazionali avevano riscontrato la perdita
della proprietà in assenza di un provvedimento
motivato, previsto da una specifica previsione di
legge» (22). Alla base di siffatta conclusione sta,
palesemente, l’argomento costituito dal rilievo che
la pronuncia di incostituzionalità dell’art. 43 era avvenuta
(solo) per eccesso di delega, asserto che si
pone in contrasto con l’interpretazione dominante
datane in precedenza, come si è visto più addietro.
(Insomma, in merito al nuovo orientamento della
CEDU, nonché del Consiglio di Stato, si potrebbe
chiosare con una battuta, riguardo alla vicenda
così come si è delineata nell’arco di almeno un decennio:
‘‘tanto rumore per nulla’’).
Non è da escludere, peraltro, che l’istituto dell’acquisizione
sanante, nella nuova veste insita nell’art.
42-bis, venga sottoposto sia al vaglio di costituzionalità,
sia a quello della conformità alla CE-
DU. Sarà interessante, in tal caso, vedere quali ne
saranno gli esiti.
Un’ultima osservazione occorre fare in merito al
tema del riparto di giurisdizione così come si evince
dal (nuovo) dato normativo. La sentenza qui annotata
riafferma pacificamente la spettanza della giurisdizione
sul risarcimento del danno da accessione
invertita al g.a. In proposito bisogna prendere atto,
tuttavia, dell’avvenuto mutamento della giurisdizione
con riguardo alla pretesa delle relative somme
formulata nei confronti dell’amministrazione resistente,
e ciò per l’interversione del titolo, che, da
risarcimento del danno ingiusto subito in conseguenza
dell’emissione di atti illegittimi (o comportamenti
del pari illegittimi tenuti dalla p.a.), diviene
indennizzo dovuto a motivo dell’espropriazione.
Infatti -sulla base del già rilevato abbandono della
dicitura risarcimento del danno nell’art. 42-bis (in
favore di ‘‘indennizzo per il pregiudizio subito’’) -,
l’appena richiamata decisione del Consiglio di Stato
dichiara che la giurisdizione sulle controversie
inerenti a detto indennizzo appartiene (non più al
giudice amministrativo, bensì) al giudice ordinario,
trattandosi di controversia avente ad oggetto indennità,
canoni et similia.
La sentenza così si esprime sul punto: «Nella
specie, nel corso del secondo grado del giudizio non
si è verificato un mutamento della normativa sulla
giurisdizione (mutamento che sarebbe stato di per
sé irrilevante, in applicazione del principio della
perpetuatio iurisdictionis), ma va constatato un mutamento
(disposto dalla legge) della causa petendi del-
la pretesa, riferibile non più ad un fatto illecito del
soggetto occupante, ma alla corresponsione dell’indennizzo
a fronte del provvedimento che - adeguando
la situazione di fatto a quella di diritto - ha
qualificato il possessore come titolare del diritto di
proprietà».
La decisione sul punto appare affatto conforme
ai criteri in fatto di ripartizione della giurisdizione
(risalenti nel tempo, ma ribaditi a più riprese in
epoca recente, a partire specialmente da Corte cost.
n. 204/2004) - ad onta delle statuizioni normative
che hanno attribuito al g.a. le controversie aventi
ad oggetto il risarcimento del danno da atti e comportamenti
illegittimi - da ultimo nell’art. 133 del
c.p.a. (D.Lgs. 2 luglio 2010 n. 104), in vari punti, e
precipuamente, per quanto attiene alla determinazione
e corresponsione dell’indennità dovuta in
conseguenza di atti espropriativi e ablativi, alla lettera
g).
Detto criterio di riparto appare senz’altro criticabile
in quanto ormai desueto e superato dall’evoluzione
delle stesse regole sul riparto di giurisdizione
(oltre che, nei fatti, foriero di frammentazione dei
contenziosi nell’assieme pressoché unitari, senza
che se ne possa individuare una valida ragione).
Ma, a tutt’oggi, le norme dispongono in tal senso.
Nota:
(22) Quest’ultimo assunto, in verità, vale soltanto per la sentenza
del 2000. Le successive sentenze per lo più sono di epoca
successiva all’emanazione del T.U. n. 327/2001, dunque, in vigenza
dell’art. 43.
326 Urbanistica e appalti 3/2013

Osservatorio
civile
a cura di ANTONELLA FERRERO
APPALTI E LAVORI PUBBLICI
ASSOCIAZIONE TEMPORANEA DI IMPRESE E LEGITTIMAZIONE
AD AGIRE
Cassazione civile, sez. I, 9 gennaio 2013, n. 342 - Pres. Vitrone
- Est. Di Amato
Il solo soggetto legittimato a stare in giudizio dal lato
attivo, per i giudizi aventi ad oggetto crediti derivanti
dagli appalti conclusi dalle associazioni temporanee di
imprese, è la società capogruppo, in qualità anche di
rappresentante delle imprese associate, che non sono,
quindi, terze nel rapporto processuale, nel quale le loro
posizioni sostanziali devono essere gestite, per legge,
dalla loro capogruppo mandataria.
In presenza di un’associazione temporanea di imprese,
l’impresa capogruppo può agire soltanto congiuntamente
in proprio e in rappresentanza delle altre imprese e
non dispone della legittimazione ad agire per far valere,
soltanto in proprio e non anche quale impresa mandataria
capogruppo, un proprio diritto riferibile al contratto
di appalto concluso dal Comune con la medesima associazione
temporanea di imprese.
La Corte di Cassazione affronta, nella vicenda in esame, la
questione della legittimazione ad agire in presenza di un’associazione
temporanea di imprese.
Il caso ha origine dalla pretesa avanzata dal titolare di una
impresa edile volta ad ottenere il pagamento delle somme,
da accertarsi in corso di causa, dovute a saldo del corrispettivo
dei lavori appaltati all’associazione temporanea di imprese
della quale la ditta in questione era capogruppo.
In primo grado veniva dichiarato il difetto di legittimazione
dell’attore ad agire.
Successivamente, rigettando l’appello proposto dall’imprenditore
in questione, la Corte di Appello osservava, per quanto
di interesse in questa sede, che, in ossequio a quanto
previsto dall’art. 23 del D.Lgs. 19 dicembre 1991, n. 406, il
credito di appalto poteva essere fatto valere soltanto dall’associazione
temporanea e per essa dall’impresa capogruppo,
non anche ‘‘iure proprio’’ da quest’ultima.
Avverso tale pronuncia il titolare dell’impresa capogruppo ha
proposto ricorso per cassazione deducendo la violazione dell’art.
24 Cost. e lamentando che la Corte di Appello ha escluso
erroneamente la sua legittimazione, dato che egli intendeva
far valere un proprio diritto e non un diritto facente capo
all’associazione temporanea di imprese, la cui figura, peraltro,
rileverebbe soltanto in sede di partecipazione alle gare
e non anche in fase di pagamento.
Tale tesi non convince la Suprema Corte, la quale rigetta il ricorso,
osservando che, ai sensi dell’art. 23, comma 9,
D.Lgs. 19 dicembre 1991, n. 406, il solo soggetto legittimato
a stare in giudizio dal lato attivo, per i giudizi aventi ad ogget-
to crediti derivanti dagli appalti conclusi dalle associazioni
temporanee di imprese, è la società capogruppo, in qualità
anche di rappresentante delle imprese associate, le cui posizioni
sostanziali devono essere gestite, per legge, dalla loro
capogruppo mandataria (sul punto, cfr. Cass. civ., sez. III, 9
agosto 1997, n. 7413; sez. I, 30 agosto 2004, n. 17411; sez.
I, 17 ottobre 2008, n. 25368).
Da ciò consegue, secondo la Corte, non solo che le imprese
mandanti non possono agire direttamente a tutela di un loro
diritto, ma che ciò non è consentito neppure alla mandataria
impresa capogruppo, che può agire soltanto congiuntamente
in proprio e in rappresentanza delle altre imprese.
Giova ricordare che secondo la giurisprudenza, il potere di
rappresentanza spetta all’impresa capogruppo esclusivamente
nei confronti della stazione appaltante, per le operazioni
e gli atti dipendenti dall’appalto, e non si estende anche
nei confronti dei terzi estranei a quel rapporto (cfr. ad esempio
Cass. civ., sez. II, 20 maggio 2010, n. 12422).
ACCESSIONE DI IMMOBILE ABUSIVO
Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
Cassazione civile, sez. II, 14 dicembre 2012, n. 23019 -
Pres. Rovelli - Est. Piccialli
In tema di appalto di terzo su suolo altrui, e quindi di accessione,
l’illecito edilizio rende nullo il rapporto e, quindi,
illecita l’opera eseguita, impedendo, agli eredi dell’appaltatore,
il riconoscimento economico dell’eventuale
obbligazione assunta e, comunque, posta in essere
dal dante causa. È pertanto legittima la sentenza con
cui, accertata la natura abusiva dell’immobile realizzato
su terreno altrui oggetto di contratto preliminare di
compravendita, vengano respinte le azioni di indennizzo
ex artt. 936 e 2041 c.c.
La Cassazione si pronuncia, con la sentenza in commento,
in merito alla configurabilità di un diritto all’indennità ex art.
936 c.c., o, in subordine, a quella per indebito arricchimento
ex art. 2041 c.c., a favore degli eredi di un appaltatore, in
presenza della realizzazione, da parte di questi, di un immobile
su terreno altrui, immobile successivamente qualificato
come abusivo.
Il caso ha origine negli anni ’60, epoca in cui un soggetto
prometteva, mediante contratto preliminare (poi giudizialmente
risoluto con sentenza passata in giudicato), di acquistare
il fondo di un altro individuo; veniva in seguito realizzato,
sulla base di un contratto di appalto, sul terreno oggetto
del contratto preliminare, un fabbricato, successivamente
colpito da un’ordinanza comunale di demolizione, in quanto
abusivo. Gli eredi dell’appaltatore agivano in giudizio proponendo,
per quanto ci interessa, l’azione di cui all’art. 936 c.c.
a carico degli eredi della proprietaria del fondo, e, in subordine,
l’azione per ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello, che rigettava sia
la domanda di pagamento dell’indennità di cui all’art. 936
Urbanistica e appalti 3/2013 327

Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
c.c., sia quella per indebito arricchimento, gli eredi dell’appaltatore
proponevano ricorso per cassazione, rilevando, in particolare,
che il comportamento del materiale costruttore fosse
ingiustamente sanzionato, anche a fronte della facoltà del
proprietario di provvedere alla sanatoria dell’intera opera.
La Suprema Corte ha tuttavia rigettato il ricorso; nell’osservare
che il fabbricato realizzato dall’appaltatore costituiva un
organismo edilizio del tutto diverso da quello previsto nel
progetto approvato, e dunque totalmente abusivo, sia per
strutturale diversità della destinazione d’uso, sia per consistenza
volumetrica, la Cassazione richiama la costante giurisprudenza
penale di legittimità secondo cui l’accertamento
di tali difformità ed eccedenze comporta la configurabilità
dell’ipotesi di reato di costruzione in difformità ‘‘essenziale’’
o totale rispetto al titolo edificatorio, dando luogo, conseguentemente,
in sede civile, al rigetto sia della domanda di
indennizzo ex art. 936 c.c., sia, di riflesso, a quella ex art.
2041 c.c.
La Cassazione non si discosta pertanto dalla giurisprudenza
ormai consolidata, secondo cui non solo in considerazione
della giuridica incommerciabilità di siffatti beni, ma anche e
soprattutto per la contrarietà all’ordine pubblico delle attività
di realizzazione degli stessi, concretanti illeciti a carattere penale,
oltre che amministrativo, qualsiasi pretesa economica
derivante dalle stesse non può ricevere tutela dall’ordinamento
(cfr. Cass. civ., sez. II, 29 gennaio 1997, n. 888; 26
gennaio 1998, n. 713; 17 maggio 2001, n. 6777; 22 agosto
2003, n. 12347; 16 maggio 2007, n. 11300; 15 dicembre
2008, n. 29340; 25 febbraio 2011, n.4731).
Per quanto riguarda in particolare la domanda di ingiustificato
arricchimento, la Corte ha considerato che la pretesa economica,
anche sotto tale qualificazione, risulta immeritevole
di tutela, in quanto derivante da attività illecite e, comunque,
tenuto conto della natura residuale dell’azione prevista dall’art.
2041 c.c. nei casi di arricchimento di un soggetto in
pregiudizio dell’altro, la cui esperibilità è data soltanto nei casi
in cui l’ordinamento non preveda un’azione tipica, ma non
anche in quelli in cui la stessa, sia pur astrattamente prevista,
non sia stata esercitata o, se esercitata, come nel caso
di specie ex art. 936 c.c., sia risultata infondata.
ESPROPRIAZIONE PER P.I.
REALIZZAZIONE DI OPERA PUBBLICA E RIMOZIONE
DI MATERIALI DELL’ESPROPRIANDO DAL FONDO OCCUPATO
Cassazione civile, sez. III, 8 gennaio 2013, n. 193 - Pres.
Amatucci - Est. Travaglino
A seguito del decreto di occupazione, al proprietario dell’immobile
è attribuita la sola scelta se abbandonare
ogni suo bene sul fondo, senza poter pretendere alcuna
indennità aggiuntiva, ovvero asportare a sue spese materiali
e tutto ciò che può essere tolto senza pregiudizio
dell’opera di pubblica utilità da eseguirsi; ne consegue
che laddove il proprietario lasci materiali giacenti sul
fondo, la rimozione da parte della pubblica Amministrazione
non costituisce un’ingiustizia risarcibile.
La decisione trae spunto da una controversia che contrapponeva
il proprietario di un terreno, adibito ad attività di frantumazione
della ghiaia, alla Provincia di Trento e alla società incaricata
dei lavori. Il terreno dell’attore era stato oggetto di
un provvedimento di occupazione temporanea da parte del-
l’ente territoriale per lo svolgimento di alcuni lavori ferroviari.
L’attore lamentava che nel corso dei lavori la società avesse
illegittimamente prelevato materiale giacente sul fondo e
quindi chiedeva il risarcimento del danno subito.
L’azione era respinta sia in primo che in secondo grado.
L’attore ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo che
la collocazione di un bene dell’espropriando su un fondo oggetto
di procedura di espropriazione e il successivo invito
della pubblica Amministrazione a rimuovere il bene medesimo
non possano giustificare, nemmeno ai sensi dell’art.
1227 c.c., l’appropriazione del bene da parte dell’amministrazione
o dell’impresa appaltatrice.
La Suprema Corte respinge il ricorso, affermando che in seguito
al provvedimento ablatorio al proprietario dell’immobile
è attribuita la sola scelta se abbandonare ogni suo bene sul
fondo senza poter pretendere alcuna indennità aggiuntiva
oppure asportare a sue spese i materiali e tutto ciò che può
essere tolto senza pregiudizio dell’opera di pubblica utilità da
eseguirsi. La sentenza fa riferimento ad un precedente della
Corte di Cassazione, in cui, sulla base dello stesso presupposto,
si escludeva la sussistenza di un obbligo della pubblica
Amministrazione di consegnare i beni mobili abbandonati
sul fondo, riconducendo il protrarsi della eventuale permanenza
sul fondo di detti mobili a mera tolleranza dell’amministrazione
(Cass. civ., sez. I, 8 giugno 2005, n. 12007).
IRREVERSIBILE TRASFORMAZIONE DEL FONDO
PER REALIZZAZIONE DI OPERA PUBBLICA E TERMINE
DI PRESCRIZIONE DELL’AZIONE DA PARTE DEL PRIVATO
Cassazione civile, sez. I, 3 gennaio 2013, n. 27 - Pres. Vitrone
- Est. Mercolino
La irreversibile trasformazione di un fondo di proprietà
privata per effetto della realizzazione di un’opera pubblica
comporta l’acquisizione del relativo diritto a titolo
originario da parte dell’ente costruttore, secondo le
schema della cd. accessione invertita.
Tale vicenda si configura al tempo stesso come un fatto
illecito e abilita il privato a chiedere il risarcimento del
danno subito per la perdita del proprio diritto, nel termine
quinquennale di prescrizione previsto dall’art. 2947
c.c., il quale decorre dalla scadenza dell’occupazione legittima
o, se successiva, dalla data in cui ha avuto luogo
la predetta trasformazione, che segnano il momento
della consumazione dell’illecito.
Nel caso deciso dalla Suprema Corte, i proprietari di un fondo
agivano nei confronti dell’Enel s.p.a., autorizzata, con decreto
del Presidente della Giunta regionale, all’occupazione
d’urgenza per la realizzazione di un elettrodotto, al fine di ottenere
la condanna al ripristino dello stato dei luoghi, il pagamento
dell’indennità dovuta per il periodo di occupazione legittima
ed il risarcimento dei danni derivanti dall’occupazione
illegittima in quanto successiva alla scadenza del termine di
efficacia del decreto.
La domanda veniva respinta sia in primo che in secondo grado.
La fattispecie era ritenuta qualificabile come occupazione
appropriativa, in quanto l’opera realizzata era stata dichiarata
di pubblica utilità da parte della Giunta Regionale. La domanda
di risarcimento dei danni è stata considerata tardiva,
in quanto l’atto di citazione era stato notificato oltre la scadenza
del quinquennio successivo alla cessazione dell’occupazione
legittima.
328 Urbanistica e appalti 3/2013

Avverso la sentenza della Corte d’Appello i proprietari del
fondo proponevano ricorso per cassazione.
La Cassazione, nel decidere la controversia, richiama l’orientamento
consolidato che, facendo discendere l’acquisto a titolo
originario da parte della pubblica Amministrazione da un
comportamento illecito, consistente nella realizzazione dell’opera
pubblica in violazione delle norme di legge, configura
la pretesa del privato come un credito risarcitorio per fatto illecito,
come tale sottoposto al termine quinquennale di prescrizione
di cui all’art. 2947 c.c. (cfr., ad esempio, Cass. civ.,
sez. I, 30 marzo 2007, n. 7981; 28 maggio 2008, n. 14050;
28 luglio 2008, n. 20543).
Anche con riguardo al termine di decorrenza la sentenza si
uniforma all’orientamento precedente della Suprema Corte
(cfr. in particolare Cass. civ., Sez. Un., 2 maggio 2003, n.
6853; sez. I, 30 marzo 2007, n. 7981; sez. I, 5 novembre
2012, n. 18936).
Viene dunque respinta la tesi, accolta da alcune pronunce di
legittimità piuttosto risalenti, che escludeva l’applicabilità del
termine breve di cui all’art. 2947 c.c. in favore dell’ordinario
termine decennale ex art. 2946 c.c., sulla base dell’assunto
secondo cui l’obbligazione della pubblica Amministrazione
avrebbe natura non già risarcitoria ma indennitaria, svolgendo
una funzione riequilibriatrice rispetto ad un ingiustificato trasferimento
di ricchezza (cfr. Cass. civ., sez. I, 11 luglio 1990, n.
7210; 17 luglio 1991, n. 7952; 20 novembre 1991, n. 12432).
CORRESPONSABILITÀ DI ENTI
Cassazione civile, sez. I, 21 dicembre 2012, n. 23711 -
Pres. Vitrone - Est. Salvago
In tema di concorso di più enti nella realizzazione dell’opera
pubblica, è responsabile dell’occupazione appropriativa
non solo l’autore materiale della stessa ma altresì
l’Ente delegante laddove al concessionario venga
conferita una delega al mero compimento degli atti della
procedura espropriativa, da eseguirsi in nome e per
conto del concedente, e quest’ultimo non eserciti correttamente
un potere di controllo o di stimolo dei comportamenti
del delegato.
La Cassazione torna ad occuparsi, nella pronuncia in esame,
della titolarità delle responsabilità relative allo svolgimento
della procedura espropriativa, nell’ipotesi di concorso di più
enti nell’attuazione dell’opera pubblica.
La vicenda processuale trae origine dalla condanna di un
Consorzio, delegato dalla Provincia alla costruzione di un’opera
pubblica, per l’illegittima espropriazione di un terreno di
proprietà privata.
In primo grado, il Consorzio veniva condannato al risarcimento
del danno e all’indennità per l’occupazione temporanea;
venivano invece rigettate le domande promosse dal privato
nei confronti della Provincia, ritenuta priva di legittimazione
passiva in quanto aveva affidato, con convenzione-concessione,
la realizzazione dell’opera al Consorzio, incaricandolo
altresì di eseguire le necessarie espropriazioni.
La Corte d’Appello, nel rigettare l’appello incidentale promosso
dal Consorzio, osservava, per quanto qui di interesse,
che quest’ultimo ente, a seguito del provvedimento concessorio,
aveva avuto trasferite dalla Provincia le funzioni
pubbliche già appartenenti all’amministrazione concedente
ed era subentrato nella titolarità di tutti gli atti della procedura
ablativa, perciò acquistando, dal lato passivo, anche quella
delle relative obbligazioni risarcitorie ed indennitarie.
Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
Nel decidere la questione, la Suprema Corte richiama la consolidata
giurisprudenza di legittimità secondo cui l’illecito in
cui consiste l’occupazione appropriativa, comportante la perdita
della proprietà del privato, atteso il carattere personale
della relativa responsabilità, èascrivibile anzitutto e comunque
al soggetto che ne sia stato autore materiale, indipendentemente
dalle inadempienze dell’Ente delegante e/o concedente
nell’esercizio dei poteri conservati per lo svolgimento
della procedura ablatoria, essendo decisiva, per configurare
la responsabilità nei confronti del proprietario, la definitiva
sottrazione illecita del suo bene (cfr., ad esempio, Cass. civ.,
Sez. Un., 23 novembre 2007, n. 24397; sez. I, 4 giugno
2010, n. 13615).
Tuttavia, la Corte ha cura di precisare che può sussistere
una corresponsabilità solidale dell’Ente delegante, il quale,
con il conferimento del mandato, non si spoglia delle responsabilità
relative allo svolgimento delle procedura espropriativa,
ma conserva l’obbligo di sorvegliarne il corretto
svolgimento, anche in ragione del fatto che questa si svolge
non solo in nome e per conto dell’amministrazione, ma altresì
di intesa con essa.
È pertanto da ritenere, secondo la Corte, che l’Ente delegante,
il più delle volte beneficiario dell’opera, come nella fattispecie,
conservi un potere di controllo o di stimolo dei comportamenti
del delegato, il cui mancato o insufficiente esercizio
obbliga lo stesso delegante, in presenza di tutti i presupposti,
al relativo risarcimento. Anche in ciò la Suprema
Corte si adegua a una consolidata giurisprudenza (cfr. ad
esempio Cass. civ., Sez. Un., 20 ottobre 1995, n. 10922;
sez. I, 27 ottobre, 2006, n. 23279; 2 luglio, 2007, n. 14959; 4
giugno 2010, n.13615).
Fermo restando che il Consorzio non può risultare esente da
responsabilità, in quanto autore materiale dell’occupazione
appropriativa, la Cassazione dichiara la Provincia responsabile
in solido dell’illegittima ablazione, per non avere quest’ultima
adottato atti di controllo o di stimolo affinché il Consorzio
si adoperasse per concludere in modo rituale la procedura di
espropriazione.
Urbanistica e appalti 3/2013 329

Amministrativa
Giurisprudenza
Offerta
Il RUP cardine del procedimento
di verifica dell’anomalia
dell’offerta
CONSIGLIO DI STATO, Ad. Plen., 29 novembre 2012, n. 36 - Pres. Coraggio - Est. Greco -Consorzio
Stabile Finedil Soc. cons. a r.l. e altri c. Azienda Sanitaria della Provincia Autonoma di Bolzano
- Comprensorio Sanitario di Bressanone e Seeste Bau s.p.a. e F.lli Baraldi s.p.a.
Per le gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, il responsabile unico del
procedimento può procedere alla verifica dell’anomalia dell’offerta, anche da prima dell’entrata in vigore dell’art.
121 del D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207.
Nel procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta il concorrente, per dimostrare la congruità della propria
offerta, può fornire giustificazioni anche su voci per le quali non sono stati richiesti chiarimenti.
Diritto
Omissis.
1.1. Nel caso di specie, parte appellante assume l’illegittimità
della verifica compiuta dal responsabile unico del
procedimento (il quale era stato a tanto delegato dal dirigente
di settore competente a esprimere la volontà della
stazione appaltante), in quanto, trattandosi di gara
d’appalto da aggiudicare col criterio dell’offerta economicamente
più vantaggiosa, le valutazioni sulla congruità
dell’offerta avrebbero dovuto necessariamente essere
svolte dalla commissione aggiudicatrice.
1.2. Nell’ordinanza di rimessione, senza prendere espressa
posizione sul punto controverso, la Sezione Sesta ha
evidenziato la possibile esistenza su di esso di un contrasto
di giurisprudenza.
Infatti, la tesi dell’odierno appellante sembrerebbe trovare
conforto nel noto e copioso indirizzo che, con riguardo
alle gare da aggiudicare col criterio dell’offerta più
vantaggiosa, individua in capo alla commissione aggiudicatrice
costituita ai sensi dell’art. 84 del D.Lgs. 12 aprile
2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture in attuazione delle direttive
2004/17/CE e 2004/18/CE), la competenza esclusiva a
ogni attività avente carattere valutativo.
Da tale arresto discende, nelle decisioni che hanno esaminato
specificamente la questione della competenza all’effettuazione
della verifica, l’affermazione dell’illegittimità
di una verifica che non coinvolga la commissione
in modo concreto e sostanziale, venendo essa o esclusa
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme Cons. Stato, sez. III, 16 marzo 2012, n. 1467, in questa Rivista, 2012, 5, 599
Difforme Cons. Stato, sez. V, 10 settembre 2012, n. 4772
del tutto ovvero chiamata semplicemente a prendere atto
delle conclusioni raggiunte dalla stazione appaltante o
dal RUP (omissis).
L’opposto avviso si rinviene in pronunce (cfr., ad esempio,
Cons. Stato, sez. III, 16 marzo 2012, n. 1467) relative a vicende
più recenti, successive alle modifiche apportate all’art.
88 del citato D.Lgs. n. 163 del 2006 dal D.L. 18 luglio
2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di
termini), convertito con modificazioni nella L. 3 agosto
2009, n. 102, e soprattutto all’entrata in vigore del D.P.R.
5 ottobre 2010, n. 207 (Regolamento di esecuzione ed attuazione
del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante
‘‘Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi
e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/
18/CE’’), il cui art. 121 - come meglio appresso si chiarirà -
ha inciso in modo decisivo sulla questione de qua.
2. Ciò premesso, questa Adunanza Plenaria ritiene che
la risoluzione della questione di diritto sottoposta dalla
Sezione Sesta non possa prescindere da una preliminare
ricostruzione del quadro normativo di riferimento, anche
sotto il profilo della sua evoluzione degli ultimi anni.
2.1. Nella sua versione originaria, il comma 3 del già citato
art. 88 del Codice così recitava: «... La stazione appaltante,
se del caso mediante una commissione costituita
secondo i criteri fissati dal regolamento di cui all’art.
5, esamina gli elementi costitutivi dell’offerta tenendo
conto delle giustificazioni fornite, e può chieder per
iscritto ulteriori chiarimenti, se resi necessari o utili a seguito
di tale esame, assegnando un termine non inferiore
a cinque giorni lavorativi».
330 Urbanistica e appalti 3/2013

2.1.1. A seguito dell’intervento operato dal legislatore
col D.L. n. 78 del 2009, è stato introdotto nella norma
il nuovo comma 1-bis, secondo cui: «...La stazione appaltante,
ove lo ritenga opportuno, può istituire una commissione
secondo i criteri stabiliti dal regolamento per
esaminare le giustificazioni prodotte; ove non le ritenga
sufficienti ad escludere l’incongruità dell’offerta, richiede
per iscritto all’offerente le precisazioni ritenute pertinenti».
Correlativamente, il comma 3 è stato così modificato:
«... La stazione appaltante, ovvero la commissione di cui
al comma 1-bis, ove istituita, esamina gli elementi costitutivi
dell’offerta tenendo conto delle precisazioni fornite».
2.2. Più di recente, la disciplina è stata arricchita dal pure
citato art. 121 del D.P.R. n. 207 del 2010.
3. Dal tenore letterale della norma regolamentare risulta
evidente che il legislatore ha inteso attribuire al RUP facoltà
di scelta in ordine allo svolgimento della verifica
di anomalia, potendo egli alternativamente:
– per le gare da aggiudicare col criterio del prezzo più
basso, provvedere personalmente, avvalendosi degli uffici
e organismi tecnici della stazione appaltante, ovvero
delegare la commissione di gara, ove costituita, o ancora
istituire la speciale commissione di cui al comma 1-bis
dell’art. 88;
– per le gare da aggiudicare col criterio dell’offerta economicamente
più vantaggiosa, provvedere personalmente
ovvero delegare la commissione aggiudicatrice (sempre
esistente in questo tipo di procedure ai sensi dell’art.
84 del codice).
4. Nel caso di specie, la previsione regolamentare non è
applicabile ratione temporis, trattandosi di gara il cui bando
è stato pubblicato anteriormente all’entrata in vigore
del D.P.R. n. 207 del 2010; è invece applicabile l’art. 88
del codice nella versione novellata nel 2009, essendo il
medesimo bando successivo al menzionato intervento riformatore.
La tesi dell’odierno appellante è che, prima e indipendentemente
dalle specificazioni introdotte in sede regolamentare,
il comma 1-bis dell’art. 88 sia applicabile unicamente
alle gare da aggiudicare con il criterio del prezzo
più basso, e non anche a quelle da aggiudicare col criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa: per
queste ultime, sarebbe prevalente il già richiamato principio
che individua nella commissione aggiudicatrice
l’organo competente in via esclusiva per qualsiasi attività
valutativa (e, quindi, anche per quelle connesse alla
verifica di congruità delle offerte).
5. L’Adunanza Plenaria ritiene di non condividere tale
impostazione.
5.1. Innanzi tutto, non può non convenirsi con il rilievo
dell’Amministrazione appellata secondo cui nella formulazione
testuale della disposizione di cui al comma 1-bis
non è dato rinvenire traccia espressa di un’ipotetica circoscrizione
della previsione alle sole gare da aggiudicare
col criterio del prezzo più basso, o comunque di una loro
differenziazione di regime per quanto qui interessa rispetto
alle gare da aggiudicare col prezzo economicamente
più vantaggioso.
Amministrativa
Giurisprudenza
5.1.1. È solo nella norma regolamentare, per vero, che
viene introdotta una disciplina diversificata per le due
tipologie di procedure, essendo limitato il possibile ricorso
alla speciale commissione di cui al comma 1-bis, in alternativa
alle altre opzioni rimesse al RUP, alle sole gare
da aggiudicare col criterio del prezzo più basso; mentre
per quelle da aggiudicare col criterio dell’offerta economicamente
più vantaggiosa il legislatore, evidentemente
per ragioni di economicità dell’azione amministrativa,
ha ritenuto che, laddove il RUP non ritenga di procedere
direttamente alla verifica, debba sempre essere incaricata
la commissione di cui all’art. 84.
5.1.2. Tuttavia, non può ritenersi che il regolamento abbia
in parte qua carattere innovativo, non essendo ragionevole
ipotizzare - come sembrerebbe volere l’odierna
appellante - che la norma primaria ex art. 88 contemplasse
un minor margine di discrezionalità in capo al
RUP, non consentendogli di procedere direttamente alla
verifica di anomalia dell’offerta nelle gare di cui all’art.
83 del codice, e che solo la norma secondaria ne abbia
ampliato i poteri, conferendogli ex novo la facoltà di procedere
anche in tali casi a verifica diretta.
A fronte di tale ricostruzione, la quale ipotizza un originario
trattamento differenziato fra le due tipologie di gare
(che, però, la norma primaria non contempla espressamente),
per poi attribuire alla sopravvenuta norma regolamentare
un carattere innovativo e ampliativo rispetto
alla stessa previsione legislativa, è ben più ragionevole
ritenere che la facoltà di scelta tra le due opzioni (procedere
direttamente alla verifica di anomalia o delegare la
commissione) spettasse ab initio al RUP per tutte le tipologie
di gare, e che l’art. 121 del D.P.R. n. 207 del 2010
abbia inteso soltanto specificare le diverse modalità con
cui tale scelta può esplicarsi nelle due diverse categorie
di procedure.
5.2. Al di là degli argomenti testuali e sistematici fin qui
esaminati, la soluzione interpretativa che qui si ritiene di
preferire appare, da un lato, maggiormente coerente col
ruolo del RUP quale vero e proprio ‘‘motore’’ della procedura
selettiva, e, per altro verso, non necessariamente
in contraddizione con il tradizionale insegnamento che,
con riferimento alle gare da aggiudicare col criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, individua in
capo alla commissione una sorta di ‘‘monopolio’’ delle valutazioni
tecniche.
5.2.1. Innanzi tutto, non è fuori luogo rilevare che, a
norma del comma 5 dell’art. 10 del codice, lo stesso
RUP deve necessariamente possedere competenze adeguate
in relazione ai compiti cui è deputato, fra i quali
vi è indubbiamente anche il controllo dell’attività della
commissione aggiudicatrice (e in determinati casi, come
per i lavori e i servizi attinenti all’ingegneria e all’architettura,
deve essere egli stesso un tecnico).
Inoltre, alla stregua dello stesso art. 10, è al RUP che è
affidata la gestione integrale della procedura di gara,
svolgendo egli il fondamentale ruolo di fornire alla stazione
appaltante ogni elemento informativo idoneo a
una corretta e consapevole formazione della volontà
contrattuale dell’Amministrazione committente; pertanto,
nelle gare da aggiudicare col criterio dell’offerta eco-
Urbanistica e appalti 3/2013 331

Amministrativa
Giurisprudenza
nomicamente più vantaggiosa, non v’è dubbio che spetti
al RUP in ogni caso il ruolo di ‘‘filtro’’ tra le valutazioni
tecniche della commissione di cui all’art. 84 del codice e
le scelte della stazione appaltante.
5.2.2. Per converso, la commissione aggiudicatrice è come
noto un organo straordinario, cui ai sensi dell’art. 84
sono devolute le valutazioni sulle offerte sul presupposto
che, in considerazione del peso preponderante che in
questo tipo di gare è attribuito alle offerte tecniche, si
ravvisa la necessità che le predette valutazioni siano
compiute da soggetti in possesso di più specifiche cognizioni
e competenze in relazione all’oggetto dell’appalto.
Non è però contestabile che la discrezionalità valutativa
della commissione si esplichi in modo massimo nella fase
di valutazione dell’offerta tecnica, laddove di regola l’attribuzione
dei punteggi alle offerte economiche avviene
sulla base di meccanismi matematici di tipo sostanzialmente
automatico, con ovvio ridimensionamento dell’apporto
ritraibile dalle competenze di cui è in possesso
la commissione.
5.3. Ciò che più rileva in questa sede, allorché si apre la
fase di verifica delle offerte anormalmente basse, la commissione
aggiudicatrice ha ormai esaurito il proprio compito,
essendosi in tale momento già proceduto alla valutazione
delle offerte tecniche ed economiche, all’assegnazione
dei relativi punteggi ed alla formazione della
graduatoria provvisoria tra le offerte; una possibile riconvocazione
della commissione, di regola, è ipotizzabile solo
laddove in sede di controllo sulle attività compiute
emergano errori o lacune tali da imporre una rinnovazione
delle valutazioni (oltre che nell’ipotesi di regressione
della procedura a seguito di annullamento giurisdizionale,
come previsto dal comma 12 dell’art. 84).
Pertanto, è del tutto fisiologico che sia il RUP, che in
tale fase interviene ad esercitare la propria funzione di
verifica e supervisione sull’operato della commissione, il
titolare delle scelte, e se del caso delle valutazioni, in ordine
alle offerte sospette di anomalia.
5.4. Ai rilievi che precedono può aggiungersi anche che,
come evidenziato dall’Amministrazione odierna appellata,
ben diverse sono le valutazioni da compiersi nell’ambito
del subprocedimento di verifica di anomalia, rispetto
a quelle compiute dalla commissione aggiudicatrice in
sede di esame delle offerte.
Infatti, mentre alla stregua dell’art. 84 del codice la commissione
è chiamata - come già evidenziato - soprattutto
a esprimere un giudizio sulla qualità dell’offerta, concentrando
pertanto la propria attenzione soprattutto sugli
elementi tecnici di essa, il giudizio di anomalia si concentra
invece sull’offerta economica, e segnatamente su
una o più voci di prezzo considerate non in linea con i
valori di mercato o comunque con i prezzi ragionevolmente
sostenibili; inoltre, mentre la valutazione delle offerte
tecniche dei concorrenti è compiuta dalla commissione
su base comparativa, dovendo i punteggi essere attribuiti
attraverso la ponderazione di ciascun elemento
dell’offerta come previsto dall’art. 83 del codice, al contrario
il giudizio di congruità o non congruità di un’offerta
economica è formulato in assoluto, avendo riguardo
all’affidabilità dei prezzi praticati ex se considerati.
5.4.1. Naturalmente, è ben possibile che la verifica delle
offerte a rischio di anomalia chiami in causa anche
l’apprezzamento di elementi dell’offerta tecnica, e quindi
richieda anch’essa il possesso di determinate cognizioni
e competenze: ciò si ricava dalla disciplina dell’art.
87, D.Lgs. n. 163 del 2006, laddove è previsto
che le giustificazioni fornite dal concorrente possano riguardare
anche ‘‘le soluzioni tecniche adottate’’ (comma
2, lett. b).
Per questo, il legislatore ha rimesso al RUP ogni valutazione
innanzi tutto in ordine al soggetto cui affidare la
verifica, non escludendo che, a seconda dei casi, possa
ritenere sufficienti e adeguate le competenze degli uffici
e organismi della stazione appaltante, o invece concludere
nel senso della necessità di un nuovo coinvolgimento
della commissione aggiudicatrice anche per la fase
de qua.
5.5. In definitiva, l’opzione interpretativa qui accolta risulta
maggiormente in linea con la logica complessiva
del sistema normativo in subiecta materia: è il giudizio
sulla complessiva attendibilità dell’offerta economica
meno agganciato a valutazioni di natura tecnico-scientifica
e più direttamente connesso con scelte rimesse alla
stazione appaltante, quale espressione di autonomia negoziale
in ordine alla convenienza dell’offerta ed alla serietà
e affidabilità del concorrente che dell’Amministrazione
è destinato a divenire l’interlocutore contrattuale.
Quanto sopra induce l’Adunanza Plenaria ad escludere
che, nel caso che occupa, l’aver proceduto direttamente
il RUP alla verifica di anomalia possa costituire ex se un
vizio di legittimità della procedura, e quindi a respingere
il primo motivo di impugnazione.
6. Una volta risolta la questione di diritto che ha determinato
la rimessione alla Plenaria, può passarsi all’esame
del secondo motivo di appello, col quale vengono riproposte
le critiche già articolate in primo grado sui risultati
della verifica eseguita sull’offerta economica del Consorzio
odierno istante, e quindi sulla sua esclusione dalla
procedura per supposta anomalia dell’offerta.
In estrema sintesi, si assume da parte appellante:
– che erroneamente il RUP si sarebbe limitato a richiedere
le giustificazioni per le sole voci di prezzo sospette
di anomalia, e non anche per quelle ritenute congrue;
– che, laddove in tal senso si fosse proceduto, sarebbe
stato possibile apprezzare come l’offerta nel suo complesso
risultava del tutto congrua e affidabile, essendo le voci
sospette pienamente compensate dalle economie e
utilità che connotavano altre voci di prezzo.
6.1. Il motivo è infondato.
6.2. Al riguardo, giova innanzi tutto richiamare il consolidato
indirizzo che circoscrive il sindacato giurisdizionale
sulle valutazioni compiute in sede di verifica di anomalia
delle offerte ai soli casi di manifesta e macroscopica
erroneità o irragionevolezza, in considerazione della
discrezionalità che connota dette valutazioni, come tali
riservate alla stazione appaltante cui compete il più ampio
margine di apprezzamento (omissis).
Tanto premesso, nel caso che occupa sono palesemente
insussistenti quei profili di travisamento ed erroneità, ictu
oculi rilevabili, che alla stregua del richiamato orienta-
332 Urbanistica e appalti 3/2013

mento legittimerebbero una valutazione critica dell’organo
giurisdizionale.
6.2.1. In primo luogo, pur senza disconoscere l’altrettanto
pacifico indirizzo giurisprudenziale secondo cui la valutazione
di congruità deve essere globale e sintetica, e
non concentrarsi esclusivamente e in modo ‘‘parcellizzato’’
sulle singole voci di prezzo, dal momento che l’obiettivo
dell’indagine è accertare l’affidabilità dell’offerta nel
suo complesso, e non delle sue singole componenti
(omissis), non può condividersi l’assunto di parte appellante
secondo cui nella specie il subprocedimento di verifica
sarebbe viziato nella sua legittimità per il solo fatto
che il RUP si limitò a chiedere le giustificazioni per le
sole voci sospette di anomalia, e non anche per le altre.
Ed invero, è pacifico che il concorrente, al fine di illustrare
la propria offerta e dimostrarne la congruità, èammesso
a fornire spiegazioni e giustificazioni su qualsiasi
elemento dell’offerta, e quindi anche su voci non direttamente
additate dalla stazione appaltante siccome incongrue:
tanto si ricava, oltre che da quanto appena rilevato
in ordine al carattere globale e sintetico del giudizio,
dallo stesso dato testuale ex art. 87, comma 1, del
codice, laddove si precisa che le giustificazioni possono
riguardare non solo le «voci di prezzo che concorrono a
formare l’importo complessivo posto a base di gara» ma
anche, in caso di aggiudicazione col criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, gli «altri elementi di
valutazione dell’offerta».
All’evidenza, ciò non vuol dire affatto che il concorrente
in sede di verifica debba intendersi rigidamente limitato
dalle specifiche voci indicate dalla stazione appaltante
nella richiesta di giustificazioni, e non possa sponte
fornire elementi informativi anche in ordine a qualsiasi
altra voce o elemento costitutivo dell’offerta.
Pertanto, se un concorrente non è in grado di dimostrare
l’equilibrio complessivo della propria offerta attraverso il
richiamo di voci ed elementi diversi da quelli individuati
nella richiesta di giustificazioni, in via di principio ciò
non può essere mai ascritto a responsabilità della stazione
appaltante per erronea o inadeguata formulazione
della richiesta di giustificazioni.
6.3. Alla stessa stregua della subcensura a carattere ‘‘formale’’
appena esaminata, sono del pari infondate le ulteriori
doglianze articolate nel merito del giudizio di anomalia
formulato dal RUP, il quale si appalesa immune
da evidenti vizi logici.
Al riguardo, le argomentazioni sviluppate nell’appello
non aggiungono molto ai rilievi già sviluppati in prime
cure, e complessivamente non riescono a inficiare le opposte
conclusioni cui è pervenuto il TRGA.
6.3.1. Innanzi tutto, non risulta contestato in fatto che
le voci di prezzo sospette di anomalia, ed in ordine alle
quali il RUP ha ritenuto insufficienti le giustificazioni
fornite dall’offerente, avessero un peso decisivo nell’equilibrio
complessivo dell’offerta economica (ciò vale,
specificamente, per le opere definite come ‘‘Principali’’,
in ordine alle quali si registrava il maggior ribasso): ciò
che, anche a voler ipoteticamente seguire l’impostazione
dell’appellante, rende ben poco verosimile che le incongruenze
rilevate in dette voci potessero trovare una inte-
Amministrativa
Giurisprudenza
grale compensazione nelle voci residue, la cui incidenza
sull’offerta era del tutto marginale.
6.3.2. Del pari assente è una specifica critica alle argomentazioni
spese dal primo giudice a sostegno della piena
coerenza ed esaustività della modalità seguita dal
RUP per l’effettuazione della verifica, attraverso il confronto
tra le voci di prezzo risultanti dall’offerta e quelle
corrispondenti riportate sui prezziari provinciali di Trento
e Bolzano.
Sul punto, l’appellante si limita a ribadire la censura di
erroneità del confronto così operato, in quanto i prezzi
risultanti dai predetti listini - al contrario di quelli offerti
dal Consorzio istante - comprendevano anche le percentuali
di ricarico per utile e spese generali, ma omette
ogni osservazione su quanto rilevato dal TRGA, secondo
cui, anche a voler ripetere il confronto tra le voci di
prezzo de quibus aumentando quelle offerte dal Consorzio
del 2% per utile e del 5% per spese generali, la differenza
tra i valori resterebbe ‘‘smisurata’’, non facendo quindi
affatto venir meno i profili di anomalia rilevati dalla stazione
appaltante.
7. L’infondatezza delle censure attoree, per le ragioni appena
esposte, comporta la reiezione dell’istanza risarcitoria
riproposta in coda all’appello.
8. In conclusione, s’impone una decisione di reiezione
dell’appello con la conseguente conferma della sentenza
impugnata.
9. Con riguardo poi alla questione sottoposta all’Adunanza
Plenaria, viene enunciato il seguente principio di
diritto:
«Nelle gara d’appalto da aggiudicare col criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa è legittima la verifica
di anomalia dell’offerta eseguita, anziché dalla
commissione aggiudicatrice, direttamente dal responsabile
unico del procedimento avvalendosi degli uffici e organismi
tecnici della stazione appaltante. Infatti, anche
nel regime anteriore all’entrata in vigore dell’art. 121
del D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, è attribuita al responsabile
del procedimento facoltà di scegliere, a seconda
delle specifiche esigenze di approfondimento richieste
dalla verifica, se procedere personalmente ovvero affidare
le relative valutazioni alla commissione aggiudicatrice».
Omissis.
Urbanistica e appalti 3/2013 333

Amministrativa
Giurisprudenza
IL COMMENTO
di Francesco De Lucia *
Nelle gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, l’art. 121 del D.P.R. 5
ottobre 2010, n. 207 stabilisce espressamente che la verifica dell’anomalia dell’offerta competa al responsabile
unico del procedimento, che può avvalersi o degli organi tecnici della stazione appaltante o, in alternativa,
della commissione giudicatrice.
L’Adunanza Plenaria, con la sentenza qui in esame, ha chiarito che ciò vale anche da prima dell’entrata in vigore
dell’art. 121 cit. - ossia quando era vigente il solo art. 88 del D.Lgs. n. 163/2006 - in considerazione
non solo dell’interpretazione letterale delle norme via via succedutesi, ma anche delle differenti funzioni e finalità
delle attività svolte dal RUP e dalla commissione giudicatrice. Nella medesima sentenza viene ribadito
che il concorrente, per dimostrare la congruità della propria offerta, può fornire giustificazioni anche in relazione
a voci per le quali non sono stati richiesti chiarimenti.
In base al sistema illustrato dall’Adunanza Plenaria, emerge la possibilità che i vari soggetti coinvolti nella
verifica dell’anomalia (commissione giudicatrice o organi interni della stazione appaltante, RUP, vertici della
stazione appaltante) esprimano valutazioni contrastanti. Ove ciò si verifichi, è necessario che la motivazione
del provvedimento finale consenta di comprendere il percorso logico-giuridico seguito.
In relazione ad una gara da aggiudicare con il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
l’Adunanza Plenaria, con la sentenza qui in
esame, ha ritenuto sussistente in capo al responsabile
unico del procedimento il potere di valutare
l’anomalia dell’offerta, anche nel regime antecedente
all’entrata in vigore - avvenuta, come noto,
a giugno 2011 - dell’art. 121 («Offerte anomale»)
del D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207 («Regolamento
di esecuzione ed attuazione del D.Lgs. 12 aprile
2006, n. 163, recante ‘‘Codice dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione
delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/
CE’’»).
La valutazione dell’Adunanza Plenaria, infatti, è
stata effettuata in relazione ad una gara indetta con
bando pubblicato il 25 agosto 2009, quindi poche
settimane dopo l’entrata in vigore del D.L 18 luglio
2009, n. 78, «Provvedimenti anticrisi, nonché proroga
di termini e della partecipazione italiana a missioni
internazionali», convertito con modificazioni
nella L. 3 agosto 2009, n. 102.
In particolare, ai fini che qui rilevano, occorre
considerare che la gara d’appalto indetta ad agosto
2009 - oggetto dell’analisi dell’Adunanza Plenaria
- è soggetta alla disciplina dettata dall’art. 88
(«Procedimento di verifica e di esclusione delle offerte
anormalmente basse») del D.Lgs. 12 aprile
2006, n. 163 («Codice dei contratti pubblici relativi
a lavori, servizi e forniture in attuazione delle
direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE»), come appena
modificato dall’art. 4-quater del D.L. n. 78/
2009, in modo da prevedere espressamente la facoltà
per il RUP di procedere alla verifica dell’anomalia
dell’offerta, anche in relazione a gare da
aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente
più vantaggiosa.
Per altro, l’Adunanza Plenaria sottolinea chiaramente
la competenza e la centralità del RUP nel
procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta,
sia nel regime attualmente vigente, sia in quello
previgente; e, a tal fine, effettua un accurato excursus
sul succedersi delle norme - art. 88 del D.Lgs. n.
163/2006, nella versione originaria del 2006; art.
88 cit., nella versione modificata da D.L. n. 78/
2009; art. 121 del D.P.R. n. 107/2010 - in base alle
quali si è originato il contrasto giurisprudenziale
che ha reso necessario il suo intervento, con la sentenza
qui in esame.
La fattispecie processuale
Con bando pubblicato in data 25 agosto 2009,
l’Azienda sanitaria della Provincia autonoma di
Bolzano - Comprensorio sanitario di Bressanone ha
indetto una procedura aperta per l’affidamento di
lavori di ristrutturazione e ampliamento dell’ospedale
di Bressanone, da aggiudicare col criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa.
Il costituendo raggruppamento temporaneo di
imprese con capogruppo il Consorzio Stabile Finedil
Soc. cons. a r.l. ha partecipato alla gara d’appalto
e, all’esito delle operazioni svolte dalla commissione
di gara, è risultato primo in graduatoria, con
un’offerta che tuttavia superava la soglia di anomalia.
In presenza di un’offerta sospetta di anomalia, il
Nota:
* Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione
di un referee.
334 Urbanistica e appalti 3/2013

esponsabile unico del procedimento, a seguito del
mandato conferitogli dal Direttore del Comprensorio
sanitario, ha richiesto al costituendo RTI Consorzio
Stabile Finedil le giustificazioni sul ribasso offerto,
in relazione a diverse categorie di lavori.
Non ritenendo sufficienti le giustificazioni prodotte
dal concorrente, il RUP lo ha convocato ai
sensi dell’art. 88 del codice appalti.
Tuttavia, anche dopo l’audizione del concorrente,
il responsabile unico del procedimento ha giudicato
anomala la sua offerta, con valutazioni fatte
proprie dalla stazione appaltante.
Conseguentemente, il Direttore del Comprensorio
sanitario di Bressanone, con determinazione del
12 febbraio 2010 ha escluso il costituendo RTI
Consorzio Stabile Finedil e affidato l’appalto al
concorrente secondo classificato, il RTI Seeste Bau
s.p.a. e F.lli Baraldi s.p.a.
Il Consorzio Stabile Finedil ha quindi proposto
ricorso innanzi al Tribunale regionale di giustizia
amministrativa del Trentino Alto Adige, sezione
di Bolzano, deducendo che: 1) la verifica dell’anomalia
dell’offerta avrebbe dovuto essere effettuata
dalla commissione di gara e non dal responsabile
unico del procedimento; 2) con il richiedere giustificazioni
solo su alcuni voci di prezzo, il RUP
avrebbe effettuato un’analisi parziale dei prezzi e
delle giustificazioni, senza considerare che la valutazione
di anomalia riguarda l’affidabilità globale
dell’offerta.
Il Tribunale regionale di giustizia amministrativa,
sezione autonoma di Bolzano, con sentenza del
6 luglio 2010, n. 193 ha respinto (1) il ricorso presentato
dal Consorzio stabile Finedil, che quindi ha
proposto appello innanzi al Consiglio di Stato per
non aver considerato il giudice di primo grado: 1)
la differenza tra gare aggiudicate con il criterio del
prezzo più basso e gare aggiudicate con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ai fini
della sussistenza o meno in capo al responsabile
unico del procedimento della competenza sul procedimento
di verifica dell’anomalia dell’offerta, ai
sensi dell’art. 88 del codice appalti, come modificato
dal D.L. n. 78/2009; 2) che il procedimento di
verifica dell’anomalia sarebbe stato in ogni caso viziato,
poiché il responsabile unico del procedimento
aveva richiesto giustificazioni solo per alcune voci
di prezzo.
All’esito dell’udienza di merito del 10 luglio
2012, il Consiglio di Stato, sez. VI, con ordinanza
n. 5270 del 2012 ha rimesso all’Adunanza Plenaria
la questione dell’individuazione del soggetto competente
ad eseguire la verifica dell’anomalia.
Amministrativa
Giurisprudenza
La versione ‘‘originaria’’ dell’art. 88
del codice appalti
Con la sentenza qui in esame l’Adunanza Plenaria,
evidenzia che, anche prima della modifiche apportate
dal D.L. n. 78/2009, l’art. 88 del codice appalti,
nella sua versione originaria (2) (in vigore
Note:
(1) Il T.R.G.A. Bolzano con la sentenza n. 193/2010 ha effettuato
una valutazione che risulterà pienamente conforme al principio
di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria con la sentenza qui in
esame; il T.R.G.A. ha infatti affermato che «è necessario puntualizzare
che con D.L. 18 luglio 2009, n. 78 è stato aggiunto all’art.
88 del D.Lgs. n. 163/2006 l’art. 1-bis che testualmente dispone:
‘‘La stazione appaltante, ove lo ritenga opportuno, può
istituire una commissione secondo i criteri stabiliti dal regolamento
per esaminare le giustificazioni prodotte; ove non le ritenga
sufficienti ad escludere l’incongruità dell’offerta, richiede
per iscritto all’offerente le precisazioni ritenute pertinenti’’. Dopo
la modifica predisposta con il D.L. sopra richiamato, il comma 3,
sempre dello stesso articolo 88, invocato anche dalla ricorrente,
ora dispone: ‘‘La stazione appaltante, ovvero la commissione di
cui al comma 1-bis, ove istituita, esamina gli elementi costitutivi
dell’offerta tenendo conto delle precisazioni fornite’’. Il comma
3 prima di tale modifica disponeva: ‘‘La stazione appaltante, se
del caso mediante una commissione costituita secondo i criteri
fissati dal regolamento di cui all’art. 5, esamina gli elementi costitutivi
dell’offerta tenendo conto delle giustificazioni fornite, e
può chiedere per iscritto ulteriori chiarimenti, se resi necessari o
utili a seguito di tale esame, assegnando un termine non inferiore
a cinque giorni lavorativi’’. È ben vero che prima delle modifiche
ed integrazioni sopra indicate esistevano talune incertezze
in relazione alla competenza dell’esame delle giustificazioni e
delle precisazioni delle offerte ritenute anormalmente basse,
cioè se tale incombenza fosse comunque affidata alla commissione
(tecnica) giudicatrice, all’autorità di gara ovvero alla stazione
appaltante stessa. Ciò, in presenza del fatto che non era (e
non lo è tutt’ora) ancora stato varato il regolamento di cui all’art.
5 del codice in esame. Con l’inserimento nell’art. 88 di un nuovo
comma 1-bis il legislatore è intervenuto per fornire chiarezza in
merito all’esame delle offerte ritenute anormalmente basse, attribuendo
tale facoltà alla stazione appaltante, la quale può istituire
(e servirsi), (ma solo) ove lo ritenga opportuno, una commissione,
secondo i criteri stabiliti dal regolamento per esaminare
le giustificazioni prodotte dagli offerenti. Dalla lettura di tale
norma chiarificatrice può essere desunto che l’istituzione della
commissione è comunque facoltativa (ove lo ritenga opportuno)
e, se istituita, non è necessariamente identica alla commissione
giudicatrice (tecnica) di cui all’art. 84 prevista per la valutazione
delle offerte economicamente più vantaggiose, visto che la
composizione di questa è regolamentata con il predetto articolo,
mentre quella dell’art. 88, comma 1-bis sarebbe da istituire secondo
i criteri stabiliti nel regolamento (non ancora varato). La
valutazione della giustificazioni delle presunte anomalie (scritte
ed orali) prodotte dagli offerenti è deferita alla stazione appaltante,
la quale è libera di scegliere i procedimenti più opportuni per
arrivare ad una decisione definitiva. Nel caso di specie la stazione
appaltante, la quale è investita in base all’art. 88 di decidere
le anomalie delle offerte, si è avvalsa della collaborazione tecnica
del responsabile del procedimento ed ha assunto la decisione
condividendo ed dichiarando proprio l’esito al quale l’incaricato
era giunto».
(2) Qui di seguito il testo dei primi tre commi dell’art. 88 in argomento,
nella loro formulazione ‘‘originaria’’: art. 88 «Procedimento
di verifica e di esclusione delle offerte anormalmente
basse: 1. La richiesta di giustificazioni è formulata per iscritto e
può indicare le componenti dell’offerta ritenute anormalmente
(segue)
Urbanistica e appalti 3/2013 335

Amministrativa
Giurisprudenza
dal 18 luglio 2006), dettava una disciplina del procedimento
di verifica dell’anomalia che non prevedeva
alcuna distinzione espressa tra appalti da aggiudicare
con il criterio del prezzo più basso (art. 82
D.Lgs. n. 163/2006) e appalti da aggiudicare con il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa
(art. 83 D.Lgs. n. 163/2006).
L’Adunanza Plenaria, pertanto, stabilisce che, a
prescindere dal criterio di aggiudicazione, la stazione
appaltante, anche ai sensi dell’originario art. 88
del codice appalti - ossia nella versione antecedente
alle modifiche apportate dal D.L. n. 78/2009 - aveva
in ogni caso il potere di procedere alla verifica
dell’anomalia o direttamente o tramite apposita
commissione.
In tal modo, l’Adunanza Plenaria effettua una
valutazione difforme a quella svolta dal Consiglio
di Stato, sez. III, con sentenza 10 settembre 2012,
n. 4772 (3), peraltro in relazione ad una procedura
aperta indetta con bando pubblicato in data 6 febbraio
2009, quando cioè il D.L. 18 luglio 2009, n.
78 non era stato ancora emanato e quindi l’art. 88
in argomento non era stato ancora modificato.
Le modifiche del 2009 all’art. 88 del codice
appalti
Il D.L. n. 78/2009 ha modificato i primi tre commi
dell’art. 88 del codice appalti ed inserito il comma
1-bis; la norma, così modificata, è tuttora vigente;
ad essa fa riferimento l’Adunanza Plenaria per
decidere sulla fattispecie oggetto della sentenza in
commento (4), sottolineando che, anche in tale
versione, l’art. 88 in commento non contiene alcuna
differenziazione del procedimento di verifica dell’anomalia
in base al criterio di aggiudicazione della
gara.
Infetti anche nella versione del 2009 e tuttora vigente,
l’art. 88 del codice appalti prevede in ogni caso
- offerta da aggiudicare o con il criterio del prezzo
più basso oppure con quello dell’offerta economicamente
più vantaggiosa - che la stazione appaltante, e
quindi anche il responsabile unico del procedimento
da questa incaricato, possa provvedere direttamente
alla verifica dell’anomalia dell’offerta.
L’art. 121 del D.P.R. n. 207/2010
L’Adunanza Plenaria rileva che una differenziazione
nella valutazione dell’anomalia tra offerte da
aggiudicare con il prezzo più basso e offerte da aggiudicare
con il criterio dell’offerta economicamente
più vantaggiosa si è effettivamente avuta
con l’entrata in vigore dell’art. 121 (5) del regola-
Note:
(segue nota 2)
basse, ovvero, alternativamente o congiuntamente, invitare l’offerente
a dare tutte le giustificazioni che ritenga utili. 2. All’offerente
è assegnato un termine non inferiore a dieci giorni per
presentare, per iscritto, le giustificazioni richieste. 3. La stazione
appaltante, se del caso mediante una commissione costituita
secondo i criteri fissati dal regolamento di cui all’art. 5, esamina
gli elementi costitutivi dell’offerta tenendo conto delle giustificazioni
fornite, e può chiedere per iscritto ulteriori chiarimenti, se
resi necessari o utili a seguito di tale esame, assegnando un termine
non inferiore a cinque giorni lavorativi».
(3) Con Stato, sez. III, n. 4772/2012 ha infatti stabilito che «è invece
fondato ed assorbente (...) il quinto motivo di appello, con
cui è stato sostenuto che illegittimamente la valutazione dell’anomalia
delle offerte era stata compiuta dal responsabile unico
del procedimento invece che dalla commissione di gara, unica
competente in tal senso. (...) come evidenziato dalla giurisprudenza
(Cons. Stato, sez. V, 22 giugno 2008, n. 3108; 5 luglio
2006, n. 4267; 13 maggio 2002, n. 2579), sussiste effettivamente
il dedotto vizio di incompetenza, atteso che non risulta che la
commissione abbia operato alcun proprio, diretto apprezzamento
della relazione tecnica redatta dal RUP e degli specifici contenuti
della stessa: se è vero infatti che l’ufficio ed il RUP ben
possono dare pareri tecnici, ragguagli o altri elementi utili alla
valutazione delle offerte presentate in sede di gara, agli stessi
non è invece rimesso il giudizio definitivo sulla congruità dell’offerta
in presenza di un’apposita commissione di gara, non essendo
sufficiente del resto neppure una mera presa d’atto dell’operato
dell’ufficio o del RUP; del resto, diversamente opinando
dovrebbe concludersi per la stessa inutilità della nomina di
una commissione giudicatrice dell’appalto, essendo irragionevole
ed irrazionale che l’attività valutativa della commissione debba
arrestarsi al momento dell’aggiudicazione provvisoria, senza
poter valutare le successive giustificazioni e i pareri tecnici a tal
fine forniti dal RUP o dall’ufficio dell’amministrazione appaltante
incaricata di supportare l’attività della commissione stessa
(Cons. Stato, sez. V, 13 ottobre 2010, n. 7470; sez. III, 15 luglio
2011, n. 4331)».
(4) Art. 88 cit., commi 1-3, nel testo vigente: «1. La stazione appaltante
richiede, per iscritto, assegnando al concorrente un termine
non inferiore a quindici giorni, la presentazione, per iscritto,
delle giustificazioni. 1-bis. La stazione appaltante, ove lo ritenga
opportuno, può istituire una commissione secondo i criteri
stabiliti dal regolamento per esaminare le giustificazioni prodotte;
ove non le ritenga sufficienti ad escludere l’incongruità
dell’offerta, richiede per iscritto all’offerente le precisazioni ritenute
pertinenti. 2. All’offerente è assegnato un termine non inferiore
a cinque giorni per presentare, per iscritto, le precisazioni
richieste. 3. La stazione appaltante, ovvero la commissione di
cui al comma 1-bis, ove istituita, esamina gli elementi costitutivi
dell’offerta tenendo conto delle precisazioni fornite».
(5) Per i profili che rilevano ai fini della presente analisi, si riporta
qui di seguito uno stralcio delle previsioni di cui all’art. 121 del
D.P.R. n. 207/2010: «art. 121 Offerte anomale: (...) 2. Nel caso
di lavori da aggiudicare con il criterio del prezzo più basso (...), il
soggetto che presiede la gara chiude la seduta pubblica e ne dà
comunicazione al responsabile del procedimento, che procede
alla verifica delle giustificazioni presentate dai concorrenti ai
sensi dell’art. 87, comma 1, del codice avvalendosi degli uffici o
organismi tecnici della stazione appaltante ovvero della commissione
di gara, ove costituita. (...) 3. Il soggetto che presiede la
gara, in seduta pubblica, dichiara l’anomalia delle offerte che, all’esito
del procedimento di verifica, sono risultate non congrue
e dichiara l’aggiudicazione provvisoria in favore della migliore offerta
risultata congrua. 4. Il responsabile del procedimento, oltre
ad avvalersi degli uffici o organismi tecnici della stazione appaltante
o della stessa commissione di gara, ove costituita, qualora
lo ritenga necessario può richiedere la nomina della specifica
(segue)
336 Urbanistica e appalti 3/2013

mento d’attuazione del codice appalti (8 giugno
2011). Infatti, ferma restando la competenza del
RUP - che, anzi, nell’art. 121 in argomento viene
espressamente affermata in modo da superare qualunque
dubbio interpretativo al riguardo - l’art.
121 prevede che nel caso di gare da aggiudicare
con il criterio del prezzo più basso, il RUP possa
provvedere alla verifica dell’anomalia, avvalendosi
degli uffici o organismi tecnici della stazione appaltante,
oppure delegando la commissione giudicatrice,
oppure ancora istituendo la speciale commissione
di cui all’art. 88, comma 1-bis, del codice
appalti. Nel caso, invece, di gare da aggiudicare
con il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, il RUP può sempre provvedere alla
verifica dell’anomalia, avvalendosi degli uffici o
organismi tecnici della stazione appaltante, oppure
delegando la commissione giudicatrice, ma non
anche istituendo la commissione di cui all’art. 88,
comma 1-bis, citato. Tale differenza è giustificata
dall’Adunanza Plenaria da ragioni di economicità
dell’azione amministrativa: in presenza di una
commissione giudicatrice già istituita e munita necessariamente
di competenze idonee a valutare l’anomalia
dell’offerta, non è necessario costituire
una commissione ad hoc.
Val la pena di ricordare che il sistema sopra descritto
di cui all’art. 121 del D.P.R. n. 207/2010 si
applica oltre che ai lavori ‘‘ordinari’’ anche alle forniture
ed ai servizi ‘‘ordinari’’ ed ai settori ‘‘speciali’’,
in virtù dei richiami operati rispettivamente dagli
artt. 284 e 339 del medesimo D.P.R. n. 207/
2010.
Le differenti funzioni della commissione
giudicatrice e del RUP
Oltre che sulla base del dato normativo sopra
descritto, l’Adunanza Plenaria evidenzia che il ruolo
del RUP di cardine dell’intera procedura selettiva
e anche del sub-procedimento di verifica dell’anomalia
non confligge in alcun modo con il ‘‘tradizionale
insegnamento’’ in base al quale, nelle gare
da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente
più vantaggiosa, la commissione giudicatrice
abbia una competenza ‘‘esclusiva’’ nelle valutazioni
tecniche; infatti è proprio tale ‘‘organo
straordinario’’ che procede alla valutazione ed all’attribuzione
di punteggi alle offerte tecniche (oltre
che alle offerte economiche, in tal caso in base a
criteri di fatto ‘‘automatici’’); ed è solo dopo che la
commissione giudicatrice ha completato le proprie
attività che il responsabile unico del procedimento
valuta l’operato della commissione e le offerte anomale
eventualmente presenti (6). Invece, nella valutazione
delle offerte sospette di anomalia, il responsabile
del procedimento incentra la propria
analisi non sull’offerta tecnica, ma sull’offerta economica
e sulle voci di prezzo che appaiono ‘‘fuori
mercato’’.
Inoltre, mentre le offerte tecniche vengono valutate
dalla commissione giudicatrice ‘‘in via comparativa’’,
attraverso la loro comparazione con i
punteggi previsti negli atti di gara, nel procedimento
di verifica dell’anomalia, l’offerta economica
viene valutata dal RUP ‘‘di per sé’’ come affidabile
o meno.
Nella valutazione dell’affidabilità possono rilevare
anche aspetti tecnici (‘‘le soluzioni tecniche
adottate’’ di cui all’art. 87, comma 2, lett. d, del codice
appalti) e perciò è prevista la possibilità per il
RUP di affidare tale analisi anche alla stessa commissione
giudicatrice; d’altro canto allo stesso RUP
sono richieste competenze tecniche, ai sensi dell’art.
10, comma 5, del codice appalti.
Conseguentemente, l’Adunanza Plenaria risolve
la questione di diritto ad essa rimessa stabilendo il
principio che, per le gare da aggiudicare con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
il responsabile unico del procedimento ha la possibilità
di procedere alla verifica dell’anomalia dell’offerta;
ciò anche da prima dell’entrata in vigore
dell’art. 121 del D.P.R. n. 207/2010, in coerenza
Note:
(segue nota 5)
Amministrativa
Giurisprudenza
commissione prevista dall’art. 88, comma 1-bis, del codice. 5.
La specifica commissione di cui al comma 4 è nominata utilizzando
in via prioritaria personale interno alla stazione appaltante,
fatte salve motivate situazioni di carenza di organico o di specifiche
competenze tecniche non rinvenibili all’interno della stazione
appaltante stessa, attestate dal responsabile del procedimento
sulla base degli atti forniti dal dirigente dell’amministrazione
aggiudicatrice preposto alla struttura competente. 6. Nei
casi di cui al comma 5 si procede secondo quanto previsto all’art.
84, comma 8, del codice. (...) 10. Nel caso di lavori da aggiudicare
con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
qualora il punteggio relativo al prezzo e la somma dei
punteggi relativi agli altri elementi di valutazione delle offerte
siano entrambi pari o superiori ai limiti indicati dall’art. 86, comma
2, del codice, il soggetto che presiede la gara chiude la seduta
pubblica e ne dà comunicazione al responsabile del procedimento,
che procede alla verifica delle giustificazioni presentate
dai concorrenti ai sensi dell’art. 87, comma 1, del codice avvalendosi
degli uffici o organismi tecnici della stazione appaltante
ovvero della commissione di gara, ove costituita. Si applicano
le disposizioni di cui ai commi da 3 a 6».
(6) L’Adunanza Plenaria ricorda che la commissione potrebbe
essere riconvocata (1) ove emergessero errori o lacune tali da
imporre una rinnovazione delle valutazioni; (2) oppure a seguito
di annullamento giurisdizionale ai sensi dell’art. 84, comma 12,
del codice appalti.
Urbanistica e appalti 3/2013 337

Amministrativa
Giurisprudenza
con quanto già previsto dall’art. 88 del codice appalti.
Le giustificazioni relative a voci
non richieste
La sentenza in commento, oltre che per la questione
di diritto sopra descritta - che aveva determinato
la rimessione all’Adunanza Plenaria -, presenta
profili di particolare interesse anche in relazione al
secondo motivo di appello proposto dal Consorzio
Stabile Finedil, con cui si contesta che il RUP del
Comprensorio sanitario di Bressanone abbia richiesto
giustificazioni solo su alcune voci di prezzo. Il
consorzio ricorrente sostiene infatti che, agendo in
tal modo, il RUP avrebbe effettuato un’analisi parziale
dei prezzi e delle giustificazioni, senza considerare
che, da una valutazione ‘‘globale’’, la propria
offerta sarebbe risultata congrua e affidabile, in
quanto le voci di prezzo ‘‘sospette’’ sarebbero state
compensate dalle economie e utilità di altre voci
‘‘non anomale’’ (su cui il RUP non ha richiesto
chiarimenti).
Al riguardo, l’Adunanza Plenaria nel condividere
la valutazione del giudice di primo grado in ordine
alla correttezza del giudizio di anomalia espresso
dal RUP (7), evidenzia che, pur in presenza di richieste
di giustificazioni in ordine solo ad alcune
voci, il consorzio avrebbe comunque potuto fornire
chiarimenti anche in ordine a qualsiasi altro elemento
della propria offerta; il non averlo fatto non
può quindi in alcun modo essere imputato alla richiesta
del RUP di giustificazioni solo su alcune
voci.
Le differenti valutazioni dei soggetti
coinvolti nella verifica dell’anomalia
In conclusione, appare utile evidenziare che, in
base alla ricostruzione effettuata dall’Adunanza Plenaria,
il responsabile unico del procedimento può
procedere alla verifica dell’offerta anomala, avvalendosi
degli uffici tecnici della stazione appaltante
oppure della commissione giudicatrice, oppure ancora
- ma solo per le gare da aggiudicare al prezzo
più basso - della speciale commissione di cui all’art.
88, comma 1-bis, del codice appalti.
È tuttavia possibile che il RUP non condivida le
conclusioni raggiunte da uno di tali soggetti. Analogamente,
è possibile che la stazione appaltante
non condivida il giudizio espresso dal RUP. Proprio
in riferimento a tale ipotesi, di recente il Consiglio
di Stato ha evidenziato la necessità di una motivazione
della decisione finale particolarmente appro-
fondita, che consenta di comprendere in quale modo
siano stati risolti i ‘‘contrasti’’ sorti tra i vari soggetti
coinvolti nel procedimento di verifica dell’anomalia.
Ciò vale sia nel caso di esclusione dell’offerta
anomala, sia ove l’offerta anomala abbia poi
superato il giudizio di congruità, poiché è necessario
far comprendere ai soggetti interessati l’iter logico
seguito dalla stazione appaltante per l’adozione
del provvedimento (8).
Nota:
(7) Il T.R.G.A. Bolzano con la citata sentenza n. 193/2010 ha
infatti stabilito che «il Responsabile di procedimento non ha
provveduto ad un’analisi parziale come sostiene la ricorrente,
ma ha effettuato una valutazione globale come risulta per tabulas
dalla relazione del 8 febbraio 2010 dimessa anche dalla
stessa ricorrente (...). La relazione descrittiva del RUP è peraltro
ben motivata e risulta molto articolata anche perché prende
posizione puntualmente sulle osservazioni presentate dalla
CFS, basandosi sui prezziari provinciali di Trento e Bolzano
(...). Il Collegio concorda inoltre con le parti resistenti che non
rileva se la media dei ribassi delle gara di appalto del 2008 in
Provincia di Trento è stata pari al 19,48%, mentre la ricorrente
ha offerto un ribasso del 16,90%. Una volta superata la soglia
di anomalia, fatto non contestato da controparte, si applica il
procedimento di cui all’art. 52 L.P. n .6/1998 e dell’art. 88
D.Lgs. n. 163/08. Qualora, come nel caso di specie, l’offerta
risulta anomala, l’esclusione è doverosa in quanto imposta
per legge. (...) la stazione appaltante, dichiarando propria la relazione
del responsabile del procedimento ha accertato, inoltre,
dopo un’analisi effettuata in contraddittorio con la ricorrente,
che l’offerta nel suo complesso era inattendibile e non
dava, dunque, serio affidamento circa la corretta esecuzione
dell’appalto. È pacifico in giurisprudenza che il relativo giudizio
della stazione appaltante costituisce espressione di un potere
tecnico-discrezionale di per sé insindacabile in sede di legittimità,
salva l’ipotesi in cui le valutazioni siano manifestamente
illogiche o fondate su insufficiente motivazione o affette da
errori di fatto. Nel caso in esame, quindi, il giudizio della stazione
appaltante è ragionevole e ben motivato per cui appare
immune da censure e non pare possa essere censurato in
questa sede».
(8) Cons. Stato, sez. III, 16 marzo 2012, n. 1467 (in relazione ad
un’offerta ritenuta congrua dalla stazione appaltante, pur a seguito
del giudizio contrario del RUP): «A giudizio del Collegio l’orientamento
giurisprudenziale che nel caso di positiva valutazione
di congruità dell’offerta sospettata di anomalia ritiene sufficiente
la motivazione per relationem, non esclude che vada comunque
garantita la possibilità ai soggetti interessati di ricostruire
l’iter logico giuridico seguito dalla stazione appaltante per l’adozione
del provvedimento. In altri termini, per un verso, non
v’è dubbio che il richiamo alle giustificazioni fornite dall’operatore
economico può essere utilmente effettuato per spiegare le
ragioni della valutazione di congruità; tuttavia, per altro verso, tale
facilitazione non esonera la stazione appaltante dall’obbligo di
mettere la parte interessata in condizione di apprezzare l’iter logico
giuridico seguito dall’amministrazione. (...) Nel caso di specie,
in presenza di giustificazioni e di una relazione negativa da
parte del RUP, sarebbe stato necessario una motivazione più
approfondita del giudizio di congruità perché: a) la motivazione
in generale deve avere un’ampiezza maggiore o minore a seconda
delle acquisizioni istruttorie, in ogni caso deve fare comprendere
il percorso logico-giuridico compiuto dall’amministrazione;
b) il richiamo per relationem può anche assolvere all’obbligo
di motivazione, nel caso di decisione di congruità, ma non
per questo esime l’amministrazione da una valutazione complessiva
di tutto ciò che è emerso nella fase istruttoria del pro-
(segue)
338 Urbanistica e appalti 3/2013

Nota:
(segue nota 8)
cedimento; c) deve trovare, anche solo in via analogica, applicazione
l’art. 6, comma 1, lett. e) L. 7 agosto 1990 n. 241 a tenore
del quale ‘‘l’organo competente per l’adozione del provvedimento
finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non
può discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta dal responsabile
del procedimento se non indicandone la motivazione
Amministrativa
Giurisprudenza
nel provvedimento finale’’; con riferimento all’odierna fattispecie,
l’atto di aggiudicazione, certamente di competenza di soggetto
diverso dal RUP, non poteva ignorare, senza motivare,
quanto rappresentato da quest’ultimo proprio in vista della scelta
relativa all’aggiudicazione o meno; d) ragionando diversamente
il controinteressato non verrebbe posto in condizione di capire
la ragione per cui la stazione appaltante abbia valutato positivamente
le giustificazioni e non favorevolmente quelle espresse
dal RUP».
Urbanistica e appalti 3/2013 339

Amministrativa
Giurisprudenza
Offerta
La struttura trifasica
del procedimento di verifica
dell’anomalia
CONSIGLIO DI STATO, sez. V, 19 novembre 2012, n. 5846 - Pres. Baccarini - Est. Gaviano -Tidiemme
s.r.l. c. Unione dei Comuni dell’Alta Valle Camonica e Comune di Ponte di Legno e altri
La stazione appaltante deve necessariamente seguire la procedura trifasica di verifica della congruità dell’offerta
delineata dall’art. 88 del Codice, a garanzia della efficienza del contraddittorio con l’offerente e al fine di porre
questi in condizione di giustificare adeguatamente l’offerta, e non può supplire al mancato espletamento di
alcune fasi del procedimento con la maggiore ampiezza di altre.
Diritto
Omissis.
L’appello è fondato, in quanto merita adesione il primo,
assorbente motivo a base dell’originario ricorso di prime
cure, in questa sede riproposto.
1a Il mezzo verte sulla violazione da parte dell’Amministrazione
della procedura trifasica prevista dall’art. 88,
commi 1, 1-bis e 4, del D.Lgs. n. 163/2006, e da questo
modulata nei tre stadi successivi delle giustificazioni, delle
precisazioni e della convocazione, per essere stato nello
specifico omesso il passaggio intermedio, relativo alla
richiesta di precisazioni. La ricorrente, dopo l’iniziale richiesta
di giustificazioni, è stata difatti direttamente convocata
per la fase orale finale.
1b È utile riportare, in proposito, la motivazione con la
quale il primo Giudice ha disatteso la censura: «la struttura
trifasica della verifica di congruità ex art. 88 commi
1, 1-bis, 4 del D.Lgs. n. 163/2006 (richiesta di giustificazioni,
richiesta di precisazioni, convocazione del concorrente)
non costituisce una regola assoluta, in quanto l’eventuale
omissione di uno dei passaggi a monte può essere
superata dalla maggiore estensione di quelli a valle.
All’interno del subprocedimento di verifica si deve infatti
riconoscere alla stazione appaltante un margine di discrezionalità
nella valutazione delle esigenze istruttorie,
purché sia rispettato un duplice vincolo: (1) che sia permesso
ai concorrenti di spiegare esattamente il contenuto
delle proprie offerte e (2) che sia raccolta la maggiore
quantità possibile di informazioni utili in un tempo ragionevole.
Nello specifico, pur non avendo inoltrato un
formale invito a esporre precisazioni, la stazione appal-
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme Non sono stati rinvenuti precedenti in materia
Difforme Non sono stati rinvenuti precedenti in materia
tante ha concesso un pieno contraddittorio alla ricorrente
in sede di convocazione ammettendo all’audizione
non solo il legale rappresentante ma anche un tecnico
di fiducia (arch. C.O.) e soffermandosi su tutte le criticità
riscontrate nelle singole voci di spesa (v. verbale della
riunione del 26 gennaio 2011). Non si può quindi ritenere,
né è stato dimostrato in giudizio, che la stazione
appaltante a causa del salto procedimentale abbia impedito
alla ricorrente di illustrare la propria offerta o abbia
perso contenuti istruttori rilevanti ai fini della decisione
finale».
1c L’appellante ha persuasivamente contestato queste
considerazioni.
Va ricordato, invero, che l’art. 88 comma 3 cit. stabiliva,
prima della riformulazione operata dall’art. 4-quater D.L.
18 luglio 2009 n. 78 (convertito con la L. n. 102 del
1999), quanto segue: «La stazione appaltante ... esamina
gli elementi costitutivi dell’offerta tenendo conto delle
giustificazioni fornite, e può chiedere per iscritto ulteriori
chiarimenti, se resi necessari o utili a seguito di tale
esame ...».
La norma era quindi manifesta nel configurare come facoltativo
il passaggio procedurale intermedio. L’Amministrazione,
semplicemente, ‘‘poteva’’ chiedere chiarimenti,
ove reputati - in definitiva - utili.
Con l’innovazione del 2009 nell’art. 88 è stato però inserito
un nuovo, incisivo comma 1-bis, alla stregua del
quale la stazione appaltante, «ove non ... ritenga sufficienti»
le giustificazioni prodotte «ad escludere l’incongruità
dell’offerta, richiede per iscritto all’offerente le
precisazioni ritenute pertinenti».
Il confronto tra i due testi rende sufficientemente chiaro,
340 Urbanistica e appalti 3/2013

dunque, il ripudio della precedente configurazione della
fase di cui si discute in termini puramente facoltativi
(‘‘può chiedere’’), e la riqualificazione del passaggio intermedio
tra giustificazioni e convocazione in termini di
vero e proprio dovere giuridico (beninteso, qualora le
perplessità sulla sostenibilità economica dell’offerta non
siano state già subito dissipate dalle giustificazioni).
L’effettività dell’innovazione è scolpita anche nel nuovo
testo dello stesso comma 3 dell’art. 88. Questo stabiliva,
prima, che la stazione appaltante dovesse esaminare essenzialmente
«gli elementi costitutivi dell’offerta tenendo
conto delle giustificazioni fornite», salvo successiva -
ma solo facoltativa - richiesta di chiarimenti; la riforma
del 2009, di contro, ha riposizionato il baricentro della
valutazione di congruità, individuandolo nell’esame de
«gli elementi costitutivi dell’offerta tenendo conto delle
precisazioni fornite».
1d La ratio dell’intervento riformatore del 2009 è stata
inequivocabilmente quella di accrescere il tasso garantistico
della procedura in esame attraverso un più pieno
contraddittorio, con l’imposizione del passaggio intermedio
in discussione.
Il focalizzarsi dell’attenzione legislativa sul profilo procedurale
della delicata materia della verifica di congruità
delle offerte ha una sua precisa ragione d’essere.
L’esame delle giustificazioni presentate dal soggetto richiesto
di dimostrare la non anomalia della propria offerta
chiama difatti in causa la discrezionalità tecnica
dell’Amministrazione, per cui il Giudice della legittimità
può intervenire soltanto in caso di macroscopiche illogicità,
vale a dire di errori di valutazione evidenti e gravi,
oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di fatto
(Cons. Stato, sez. V, 18 agosto 2010, n. 5848; 23 novembre
2010, n. 8148; 22 febbraio 2011, n. 1090). La
giurisprudenza è infatti saldamente orientata nel senso
che, nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di
anomalia dell’offerta economica presentata in una pubblica
gara, il Giudice amministrativo possa sindacare le
valutazioni compiute dall’Amministrazione sotto il profilo
della loro logicità e ragionevolezza e della congruità
dell’istruttoria, ma non possa, invece, operare autonomamente
la verifica della congruità dell’offerta, sovrapponendo
così la propria idea tecnica al giudizio - non erroneo
né illogico - formulato dall’organo amministrativo
cui la legge attribuisce la tutela dell’interesse pubblico
nell’apprezzamento del caso concreto, atteso che diversamente
il Giudice invaderebbe una sfera propria della
p.a. (Cons. Stato, sez. IV, 27 giugno 2011, n. 3862; V,
28 ottobre 2010, n. 7631).
1e A seguito della riforma legislativa illustrata, l’andamento
del subprocedimento di verifica della congruità
dovrebbe pertanto svilupparsi - almeno tendenzialmente
- secondo un iter di progressivo approfondimento.
Il passaggio intermedio reso obbligatorio ha la duplice
funzione pratica di attribuire all’impresa un’ulteriore occasione
di meditata interlocuzione scritta, e di permetterle
di preparare in tutta consapevolezza la decisiva fase
conclusiva della convocazione.
Più articolatamente: la richiesta di precisazioni da parte
dell’Amministrazione vale a far conseguire nitidezza di
Amministrativa
Giurisprudenza
contorni alle perplessità da essa nutrite sulla sostenibilità
economica dell’offerta; la resa delle precisazioni, a sua
volta, attribuisce all’impresa una possibilità in più di vedere
favorevolmente definita la propria posizione, potendo
essa inoltre rimediare anche alle mancanze e ai possibili
difetti d’impostazione delle giustificazioni già presentate;
questo passaggio intermedio, infine, permette anche
la migliore preparazione dell’eventuale fase orale finale.
L’offerente viene così posto nelle migliori condizioni per
approntare e svolgere i propri argomenti difensivi, avuto
riguardo agli esatti specifici profili della propria offerta
rivelatisi effettivamente critici.
1f Quanto esposto impedisce alla Sezione di condividere
la posizione del primo Giudice, qui coltivata dalle appellate,
secondo la quale l’omissione della predetta fase intermedia
potrebbe essere compensata/sanata da una presunta
‘‘maggiore estensione’’ della fase conclusiva.
Quanto a quest’ultima, è in realtà perfino scontato che
debba esservi «permesso ai concorrenti di spiegare esattamente
il contenuto delle proprie offerte»; come pure
che all’impresa debba essere garantito, in sede di convocazione,
‘‘un pieno contraddittorio’’.
Sicché la circostanza che in concreto sia stato ammesso
all’audizione, su richiesta, oltre al legale rappresentante
della società, anche un suo tecnico di fiducia, nulla toglie
al vulnus arrecato alle garanzie procedurali prescritte
dalla legge impedendo al concorrente di avvalersi dello
strumento preventivo delle precisazioni.
Senza dire che, se il legislatore avesse davvero reputato
sufficiente un ampio contraddittorio nella fase orale,
non avrebbe allora avvertito, nel 2009, il bisogno di imporre
l’obbligatorietà della precedente fase intermedia.
1g La difesa dell’Amministrazione obietta inoltre che, allorché
l’esigenza di domandare chiarimenti debba essere
esclusa dal tenore complessivo dell’offerta e dalle giustificazioni
presentate (tali da rendere evidente l’anomalia
dell’offerta), una richiesta di precisazioni non avrebbe in
tal caso, anche alla luce del generale divieto di aggravare
i procedimenti, né utilità né senso logico.
L’obiezione non si fa però carico del dato normativo dell’incondizionata
obbligatorietà del passaggio procedimentale
di cui si tratta in funzione di maggior garanzia
dell’impresa sottoposta a verifica, adempimento procedurale
la cui utilità è stata quindi valutata già in astratto e
una volta per tutte dal legislatore.
Inoltre, il momento delle precisazioni serve anche a permettere
all’impresa di rimediare alle manchevolezze delle
giustificazioni inizialmente presentate. La relativa richiesta
da parte della stazione appaltante ha, tra le altre, anche
la funzione di attirare l’attenzione del concorrente
sulle zone d’ombra che le sue giustificazioni non hanno
ancora chiarito, segnalando gli eventuali difetti d’impostazione
delle giustificazioni stesse, affinché queste possano
essere integrate.
Alla luce di tanto, le risultanze disponibili non consentono
al Collegio in alcun modo di ritenere che la verifica
oggetto di causa fosse destinata ineluttabilmente a
concludersi in senso sfavorevole all’offerente. E questi,
d’altra parte, non ha mancato di denunziare che la violazione
procedurale emersa presentava un aspetto anche
Urbanistica e appalti 3/2013 341

Amministrativa
Giurisprudenza
sostanziale, non avendogli permesso di specificare meglio
i complessi aspetti economici della propria offerta.
1h Da tutto ciò discende la fondatezza dell’illustrato
mezzo d’appello.
2 Il motivo riveste valenza logicamente preliminare rispetto
alle censure dedotte sul merito della medesima
verifica di anomalia: a causa della radicale illegittimità
procedurale riscontrata, e delle sue immancabili ripercussioni
sul merito della verifica, tali censure finiscono superate,
e non possono quindi trovare esame.
Il motivo accolto ha valore parimenti assorbente rispetto
ai restanti mezzi, alla cui trattazione non vi è pertanto
luogo.
Solo per maggior chiarezza si fa notare che la possibilità di
sottoporre a verifica di anomalia l’offerta della TIDIEM-
ME, essendo già assicurata dalla regola generale posta dall’art.
86, comma 3, del D.Lgs. n. 163/2006, non dipendeva
dall’aspetto - pur esso controverso - della legittimità ed
opponibilità (o meno) alla ricorrente della modifica della
lex specialis realizzata mediante la precisazione n. 1 del 24
novembre 2010; e neppure dipendeva, per quanto testé
detto, dal diverso problema della legittimità dell’applicazione
al caso concreto della previsione dell’art. 88, comma
7, secondo periodo, del codice dei contratti pubblici.
IL COMMENTO
di Andrea Manzi *
3 Anche la domanda risarcitoria articolata dall’appellante
merita accoglimento.
Poiché l’opera è stata già realizzata (come comprova il
certificato di ultimazione dei lavori in atti), la domanda
non può essere valutata che nella sua variante per equivalente
monetario.
3a Ciò posto, la Sezione non ritiene di poter utilmente
affidare all’Amministrazione un riesame (a questo punto,
solo) virtuale dell’anomalia dell’offerta della TIDIEM-
ME, dal momento che la pendenza della domanda risarcitoria
spiegata nei suoi confronti pregiudicherebbe in
radice l’imparzialità di un suo nuovo pronunciamento
sul tema.
Né il Collegio potrebbe sostituirsi all’Amministrazione
nella relativa valutazione, stanti i principi sopra esposti
al paragr. 1d.
L’insuperabile dubbiezza dell’esito del subprocedimento
di verifica dell’anomalia si proietta, allora, inevitabilmente
sull’entità del risarcimento ottenibile dall’avente
diritto. Il risarcimento dovrà di riflesso essere ridotto nella
misura che si può determinare equitativamente, sin
d’ora, nel 50% della somma che l’impresa avrebbe potuto
ottenere qualora si fosse potuto invece accertare il
suo pieno diritto all’aggiudicazione. Omissis.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, sottolinea l’importanza del rispetto della scansione procedimentale
trifasica (giustificazioni - precisazioni - convocazione) - introdotta attraverso le modifiche apportate
all’art. 88 del codice dei contratti dalla L. 3 agosto 2009, n. 102 - ai fini della effettività del contraddittorio e
delle garanzie partecipative per i concorrenti nel procedimento di verifica delle offerte anomale, e afferma la
inderogabilità della procedura ai fini della completezza della stessa e della legittimità del provvedimento conclusivo,
anche considerati i limiti del sindacato successivo esercitabile dal giudice amministrativo sulle valutazioni
operate in ordine alla congruità delle offerte.
Premessa: la disciplina delle offerte
anormalmente basse nel delicato equilibrio
tra gli interessi coinvolti
Con la sentenza in esame il Consiglio di Stato
sottolinea l’importanza del rigoroso rispetto delle
regole procedimentali fissate dalla legge (e nel tempo
evolute) relativamente alla scansione delle operazioni
di verifica della congruità delle offerte sospette
d’anomalia, al fine della effettività delle garanzie
di contraddittorio per i concorrenti assoggettati
a detta verifica.
La soluzione adottata dal Consiglio di Stato è
particolarmente preziosa perché precisa la assoluta
cogenza di una regola, pur chiaramente declinata
nella norma (art. 88 del codice dei contratti pubblici),
che potrebbe altrimenti risultare indebolita, se
non elusa, da interpretazioni meno rigorose - come
la soluzione seguita dal TAR nella sentenza riformata
- e sostanzialmente disapplicative della trama
degli adempimenti tracciati dalla legge, e perciò di
fatto lesive delle esigenze tenute in considerazione
nella specifica materia.
Anticipando quanto si vedrà ancora più avanti,
e riprendendo quanto già scritto in questa Rivista
(1), va ricordato che nella materia di cui ci occupiamo,
trattandosi - in estrema sintesi - di individuare
l’offerta più conveniente per l’amministrazio-
Note:
* Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione
di un referee.
(1) Manzi, Le novità in materia di offerte anomale, in questa Rivista,
2010, 270 ss.
342 Urbanistica e appalti 3/2013

ne conciliando la convenienza e il risparmio con
l’affidabilità dell’offerta, vengono in rilievo delicati
e fondamentali principi e diritti quali il principio di
uguaglianza e il divieto di disparità di trattamento,
la libertà d’impresa e d’iniziativa economica, il
buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione,
i canoni di economicità, efficacia e tempestività
delle procedure di gara per la selezione del miglior
contraente e il principio di libera concorrenza, tanto
per richiamare i principali. Anche per questa ragione
l’istituto ha tradizionalmente impegnato gli
organi comunitari e il legislatore nazionale, dovendosi
necessariamente conciliare forze apparentemente
contrarie e trovare soluzioni di compromesso
tra esigenze in qualche misura incompatibili (2).
Particolare attenzione hanno suscitato, com’è
ovvio, i problemi relativi al contraddittorio e le garanzie
da riconoscersi in favore degli offerenti sospetti
d’anomalia (3).
La sentenza in commento si concentra su questi
profili, a definizione di una controversia che è utile
riepilogare nei suoi tratti essenziali per apprezzare le
indicazioni rivenienti dalla sua soluzione.
La vicenda concreta risolta dalla sentenza
La controversia concerneva l’affidamento di un
appalto di lavori al prezzo più basso determinato
mediante offerta a prezzi unitari. Per questa ragione
non era nominata una vera e propria commissione
ai sensi dell’art. 84 del codice dei contratti pubblici
(4).
Inizialmente la stazione appaltante aveva optato,
nel bando, per la facoltà di esclusione immeditata
delle offerte anomale (5), ma poi, con una precisazione
pubblicata sul sito internet e comunicata individualmente
alle singole concorrenti, tale modus
operandi veniva ripensato e si sceglieva di seguire la
procedura della richiesta di giustificazioni ai sensi
degli artt. 87 e 88 del codice dei contratti pubblici.
La ricorrente Impresa T, classificatasi terza in
graduatoria, veniva assoggettata a verifica di congruità
ancorché l’offerta non avesse superato i parametri
predefiniti dalla legge per il sospetto d’anomalia
(6). Peraltro, la stazione appaltante aveva optato
per la verifica contemporanea delle prime cinque
offerte, ai sensi dell’art. 88, comma 7, del codice
dei contratti. Sul punto era anche stata sollevata
una specifica censura, che il TAR Lombardia aveva
però respinto (7), e sulla quale il Consiglio di Stato
Note:
(2) In Manzi, Le novità, cit., 272, si è in particolare osservato
Amministrativa
Giurisprudenza
che alla base del ‘‘braccio di ferro’’ che si è instaurato tra il nostro
ordinamento e quello comunitario relativamente alla disciplina
dell’istituto, con ogni probabilità, oltre alla difficoltà obiettiva
di contemperare, con regole astratte, le garanzie procedimentali
con le esigenze di speditezza ed efficienza delle procedure
- esigenze, queste ultime, che suggerirebbero soluzioni
meno farraginose e più agili, anche se meno garantiste -, sta
una tradizionale diversità di ispirazione e di sensibilità a base
delle soluzioni adottate nei due ordinamenti: quello comunitario,
più sensibile alla tutela della concorrenza che si esplica con la
formulazione dei ribassi nelle offerte, e quello italiano più timoroso
degli eccessi legati all’indiscriminato ribasso sulle offerte e
più attento a contrastare elusioni e manovre utili a conseguire il
massimo risultato nella competizione anche a discapito della serietà
dell’offerta. Si consideri, infatti, che il sistema del controllo
delle offerte anomale può fungere da mitigatore della concorrenza
e, in un certo senso, limitarla, e per tale ragione è tradizionalmente
condiviso dalle stesse imprese, «che così vedono attenuata
quella concorrenza che fortemente temono pur affermando
di auspicare» (così Corsini, La legge quadro in materia di
lavori pubblici, a cura di Carullo e Clarizia, Padova, 2000, 671).
(3) Anche riguardo a questo tema, che ha dato luogo a quello
che può si è sopra definito un vero braccio di ferro fra il nostro
ordinamento e quello comunitario, si può rinviare a Manzi, Le
novità, cit., 272 ss.
(4) L’art. 84 del codice impone la nomina di una commissione
giudicatrice solo quando la scelta del contraente avviene secondo
il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. Nell’altro
caso - prezzo più basso - le operazioni possono essere gestite
da un ordinario seggio di gara, come nel caso concreto.
(5) Va ricordato che mentre per gli appalti di valore superiore alla
soglia di rilevanza comunitaria, l’art. 87 del codice dei contratti
chiarisce la regola generale secondo la quale il superamento
della soglia di anomalia rileva al solo fine della attivazione del
sub procedimento di verifica della congruità dell’offerta e non
consente l’immediata esclusione, relativamente ai contratti sotto
soglia comunitaria, gli artt. 122, comma 9, e 124, comma 8,
del codice, mantengono la possibilità per le stazioni appaltanti di
prevedere nei bandi - nel caso di aggiudicazione al prezzo più
basso - che si procederà alla esclusione automatica delle offerte
con ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia individuata
con il criterio matematico di cui all’art. 86, purché il numero delle
offerte ammesse non sia inferiore a dieci. La Corte di Giustizia
UE, con la sentenza 15 maggio 2008, C-147/06 e C-148/06,
sia pure pronunciandosi su un caso presentatosi nella vigenza
della Legge Merloni, ha tuttavia ritenuto che anche negli appalti
sotto soglia vadano comunque rispettati i principi del Trattato e
che pertanto l’esclusione automatica delle offerte anomale sia
in linea di massima in contrasto con il diritto comunitario, anche
se può giustificarsi negli appalti di modesto importo e che non
presentino particolare interesse transfrontaliero. Pertanto, con
l’art. 4, comma 2, lett. ll), n. 3) del D.L. 13 maggio 2011, n. 70
(decreto sviluppo), incidendo - con l’aggiunta di un comma 20bis
- nell’art. 253 (dedicato alla disciplina dell’operatività delle varie
norme del codice nel tempo), si è limitata la facoltà di applicare
ancora le regole non garantiste dell’esclusione automatica
sino al 31 dicembre 2013, perciò limitando nel tempo e avviando
a estinzione - in doverosa osservanza delle ultime indicazioni
comunitarie sopra ricordate - una disciplina altrimenti a regime.
(6) Ciò che è in ogni caso consentito dall’art. 86, comma 3 del
codice, allorché un’offerta appaia anormalmente bassa in base
ad elementi specifici.
(7) La ricorrente aveva dedotto che l’art. 88, comma 7, del codice
dei contratti, facoltizza la stazione appaltante a procedere alla
verifica contemporanea delle cinque migliori offerte solo se ciò
è previsto nel bando o nella lettera d’invito, il che nel caso concreto
non era. Il TAR ha tuttavia ritenuto che la precisazione n.
1, chiarendo che la stazione appaltante intendeva procedere ai
sensi degli artt. 87 e 88 del codice dei contratti, era idonea a
rendere edotti i concorrenti anche di tale eventualità.
Urbanistica e appalti 3/2013 343

Amministrativa
Giurisprudenza
è tornato solo fugacemente in quanto sostanzialmente
assorbita e superflua ai fini del decidere (8).
Nominata la commissione ad hoc (9) per la verifica
della congruità delle offerte ai sensi dell’art. 88,
comma 1-bis, del codice dei contratti, questa esaminava
le prime due offerte - collocatesi oltre la soglia
di anomalia - e le escludeva, dopodiché passava ad
esaminare l’offerta della ricorrente impresa T. Esaminate
le giustificazioni presentate dalla concorrente
in questione e ritenute queste ultime inadeguate
a fugare il sospetto di anomalia, convocava la concorrente
in audizione e, all’esito, qualificava come
inaffidabile la relativa offerta. Dopodiché esaminava
l’offerta della quarta classificata e, ritenutala
congrua, aggiudicava a questa la gara.
Seguiva il ricorso dell’Impresa T, che il TAR respingeva
ritenendo, in sintesi: che il procedimento
seguito dalla commissione costituita per l’esame
della congruità delle offerte fosse legittimo ancorché
non avesse rispettato la struttura trifasica tracciata
dalla legge (giustificazioni - precisazioni - convocazione),
poiché al concorrente era stato dato
comunque modo, in concreto, di giustificare l’offerta,
e l’istruttoria era stata completa e accurata; che
la scelta di assoggettare a verifica anche l’offerta
della ricorrente, ancorché a rigore non avesse superato
i parametri del sospetto d’anomalia previsti
dalla legge (10), era comunque giustificata dalla
opzione per lo speciale procedimento della contemporanea
verifica delle prime cinque offerte contemplato
in astratto dall’art. 88, comma 7, del codice
dei contratti pubblici, prescelto in concreto dalla
stazione appaltante con la già ricordata precisazione
pubblicata sul sito internet e comunicata individualmente
alle concorrenti (11); che il giudizio di
inaffidabilità dell’offerta della ricorrente risultava
nel merito corretto.
Con la decisione in commento, il Consiglio di
Stato ha accolto l’appello proposto dalla Impresa T,
per l’assorbente ragione della riscontrata violazione
della struttura trifasica del procedimento di verifica
di congruità dell’offerta, ritenendo in particolare
ineludibile la seconda fase della richiesta di precisazioni
(dopo la richiesta e l’esame delle giustificazioni
e prima della convocazione in audizione), che
era stata invece in concreto omessa.
Nell’ambito della decisione, e, più in generale,
nella controversia, oltre alle centrali e decisive problematiche
relative alla struttura del procedimento
e alla pienezza del contraddittorio, emergono anche
altre questioni (in particolare: questioni relative al
soggetto deputato a condurre la verifica d’anomalia;
i limiti del sindacato esercitabile dal giudice ammi-
nistrativo in ordine alle valutazioni sulla congruità
delle offerte) alle quali è opportuno accennare, sia
pure in massima sintesi, per completezza di inquadramento.
Cenni sulla competenza a condurre
la verifica d’anomalia (Cons. Stato,
Ad. Plen., 29 novembre 2012, n. 36)
Come si è accennato, la ricorrente aveva sollevato
censure anche in ordine alla composizione della
commissione nominata ai sensi dell’art. 88, comma
1-bis, del codice dei contratti pubblici, per l’esame
della congruità delle offerte, anche se dette censure,
esaminate e rigettate dal TAR, non sono state
affrontate dal Consiglio di Stato, ancorché riproposte
in appello, in quanto assorbite per effetto dell’accoglimento
del motivo di ricorso rivolto avverso
le modalità di espletamento del procedimento.
Le doglianze riguardavano la composizione della
commissione, per la partecipazione ad essa, in qualità
di professionista esterno, di un soggetto che risultava
incaricato della progettazione e della direzione
lavori e coordinamento della sicurezza, e
quindi concernevano la estensibilità anche ai commissari
nominati ai sensi dell’art. 88, comma 1-bis,
deputati alla sola verifica di congruità, delle ragioni
di incompatibilità stabilite dall’art. 84, comma 4, in
capo ai componenti la commissione giudicatrice
nominata ai sensi dell’art. 84.
La censura è stata risolta dal TAR nel senso
che la ragione di incompatibilità invocata, stabilita
espressamente solo per i componenti la commissione
giudicatrice nominata negli appalti da aggiudicarsi
all’offerta economicamente più vantaggiosa,
non si possa estendere ai commissari nominati
Note:
(8) V. nota n. 11.
(9) Anche sulla composizione della commissione è stata sollevata
censura, per la partecipazione ad essa, in qualità di professionista
esterno, di un soggetto che risultava incaricato della progettazione
e della direzione lavori e coordinamento della sicurezza.
Il tema della commissione per l’esame della congruità delle
offerte verrà ripreso più avanti, nel testo.
(10) Art. 86, comma 1, codice dei contratti pubblici.
(11) Sul punto, ancorché non rilevante ai fini del decidere poiché
assorbito dalla ritenuta fondatezza del primo motivo d’appello, il
Consiglio di Stato ha poi comunque correttamente osservato
che la possibilità di assoggettare a verifica l’offerta della impresa
T ancorché a rigore la stessa non fosse ex lege anomala, discendeva
dalla già ricordata regola di cui all’art. 86, comma 3,
del codice, che consente di attivare la verifica allorché un’offerta
appaia anormalmente bassa in base ad elementi specifici, e non
dalla esercitata opzione del procedimento di verifica contemporanea
delle prime cinque offerte (con i relativi problemi di opponibilità
della scelta stessa alla ricorrente).
344 Urbanistica e appalti 3/2013

ad hoc solo per l’esame della congruità delle offerte,
e ciò anche per il mancato richiamo del comma
4 dell’art. 84, che stabilisce detta regola di incompatibilità,
ad opera dell’art. 121, comma 6, del
D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207 (regolamento di
esecuzione del codice dei contratti pubblici), il
quale al contrario richiama il comma 8 dell’art. 84
che detta le ulteriori regole per la selezione dei
commissari.
La questione induce ad accennare a un tema,
quello della competenza a condurre la verifica di
congruità, molto dibattuto e da ultimo risolto dall’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato.
La questione della competenza a condurre la verifica
di congruità, che ha in passato dato luogo a
dubbi e contestazioni (12), doveva in realtà considerarsi
già risolta dall’art. 88, comma 3, con l’affermazione
che la stessa spetti alla stazione appaltante,
che può a tal fine istituire una commissione ad hoc
per l’esame delle giustificazioni prodotte, secondo i
criteri stabiliti dal regolamento (comma 1-bis); ed
era stata ulteriormente chiarita dal regolamento
(art. 121, commi 4 e 10), che ha investito del relativo
compito in particolare il responsabile del procedimento,
che può avvalersi degli uffici od organismi
tecnici della stazione appaltante o della stessa
commissione di gara, ove costituita, ovvero, se necessario,
nel solo caso degli appalti da aggiudicarsi
al prezzo più basso, può richiedere la nomina della
specifica commissione prevista dall’art. 88, comma
1-bis, del codice dei contratti pubblici (com’è stato
nel caso deciso).
Tuttavia il Consiglio di Stato aveva, con alcune
pronunce, proseguito nel precedente indirizzo che
affermava la competenza in via principale della
stessa commissione di gara (13).
Considerati i possibili contrasti di indirizzo (14),
la questione è stata rimessa all’Adunanza Plenaria,
la quale, con la sentenza 29 novembre 2012, n. 36,
ha affermato la competenza del RUP a condurre
detta verifica (ancorché con possibilità di avvalersi
degli uffici o organismi tecnici della stazione appaltante
ovvero della stessa commissione di gara, ove
costituita, ovvero ancora, se necessario, nel solo caso
degli appalti da aggiudicarsi al prezzo più basso,
di una commissione ad hoc), anche evidenziando le
peculiarità di tale attività e di tali valutazioni (esame
di talune voci di prezzo considerate non in linea
con i valori di mercato o comunque con i costi ragionevolmente
sostenibili) rispetto a quelle ordinariamente
espletabili dalla commissione giudicatrice
(giudizio sulla qualità dell’offerta considerando gli
elementi tecnici della stessa).
Amministrativa
Giurisprudenza
L’ineludibilità della scansione
procedimentale di cui all’art. 88 del codice
dei contratti pubblici
Come si è anticipato, le regole procedimentali
previste dalla legge per l’esame della congruità delle
offerte devono contemperare le contrapposte esigenze
di garantire la completezza dell’istruttoria e
del contraddittorio, e perciò anche le garanzie in favore
del concorrente sospetto d’anomalia, senza però
appesantire oltremodo la procedura di gara e menomarne
celerità, economicità e tempestività (15),
avendo sempre come riferimento la finalità del procedimento,
che è quella far sì che la selezione dell’offerta
più conveniente rinveniente dalla gara garantisca
al tempo stesso da un lato la convenienza e
il risparmio e, dall’altro lato, la sicura affidabilità
dell’offerta.
Nel perseguimento di tutte queste - apparentemente
inconciliabili - esigenze, la legge ha tracciato
delle regole procedimentali e degli schemi di comportamento
tanto più utili in quanto consentono di
imbrigliare le modalità di esercizio della discrezionalità
tecnica da parte dell’amministrazione, dinanzi
alla quale sono noti i limiti del sindacato esercitabile
da parte del giudice amministrativo. Il punto
è espressamente affrontato dal Consiglio di Stato
Note:
(12) Prima della unificazione della disciplina per lavori, servizi e
forniture, nel vigore del D.P.R. n. 554/1999, relativo agli appalti
di lavori, la competenza era del responsabile del procedimento,
se del caso avvalendosi di organismi tecnici della stazione appaltante;
mentre nei servizi e nelle forniture, pur registrandosi
pronunce di portata non sempre uniforme, si affermava principalmente
che «verificare l’attendibilità e la congruità delle offerte,
sulla base delle giustificazioni presentate dai concorrenti, è
compito che spetta alla Commissione giudicatrice e non ad un
ufficio dell’amministrazione appaltante», eventualmente con il
supporto di tecnici dell’amministrazione aggiudicatrice (fra le altre,
Cons. Stato, sez. V, 13 maggio 2002, n. 2579). In favore della
assegnazione di questo compito alla commissione militava
anche la considerazione della particolare e specifica capacità
che, ai sensi dell’art. 84, comma 2, del codice, devono possedere
i membri della commissione giudicatrice, nonché delle ulteriori
prescrizioni contenute nell’art. 84 quanto a incompatibilità,
probità, etc., sicché sembrava non sussistere alcuna seria obiezione
a che la stessa commissione venisse investita anche del
compito di valutare la congruità delle offerte (in tal senso Magaudda,
Le offerte anomale negli appalti comunitari, inIl nuovo
codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, a cura di
Saitta, Padova, 2008, 750; contra, Leozappa, Criteri di selezione
delle offerte, inCodice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi
e forniture, a cura di Rota e Rusconi, Torino, 2007, 742-743.
(13) Cons. Stato, sez. IV, 6 ottobre 2011, n. 5491. In senso analogo
Cons. Stato, sez. III, 15 luglio 2011, n. 4331 e 4332; idem,
sez. VI, 15 luglio 2010, n. 4584.
(14) Contra, Cons. Stato, sez. III, 16 marzo 2012, n. 1467.
(15) Tra i principi ispiratori delle regole delle procedure di gara,
ai sensi dell’art. 2, comma 1, del codice dei contratti pubblici.
Urbanistica e appalti 3/2013 345

Amministrativa
Giurisprudenza
nella decisione in esame, come momento particolarmente
qualificante della stessa.
Venendo, infatti, al nucleo centrale della motivazione
della sentenza in commento, va detto che
il Consiglio di Stato, ripudiando il ragionamento
seguito dal TAR nella sentenza così riformata (16),
ha fondato la propria decisione non solo su elementi
di carattere interpretativo letterale e storico-sistematico,
ma anche ed essenzialmente su ragioni legate
alla ratio dell’istituto, tenendo specifico conto
della natura dell’attività valutativa esercitata dall’amministrazione
nel frangente e della esigenza di
una sua accurata procedimentalizzazione.
Procedendo con ordine, la sentenza valorizza
dapprima la lettera e la ‘‘storia’’ della norma in esame,
ricordando anzitutto che nella sua versione originaria
l’art. 88, comma 3, del codice, stabiliva che
la stazione appaltante, esaminati gli elementi costitutivi
dell’offerta tenendo conto delle giustificazioni
fornite «può chiedere per iscritto ulteriori chiarimenti,
se resi necessari o utili a seguito di tale esame»,
evidenziando con ciò il carattere facoltativo
della richiesta di chiarimenti (oggi: precisazioni) ulteriori
rispetto alle prime giustificazioni (17).
Con la novella del 2009 il legislatore ha voluto
chiaramente affermare la obbligatorietà dei chiarimenti,
e tanto viene evidenziato dal Consiglio di
Stato ricordando che con l’art. 4-quater del D.L. 18
luglio 2009, n. 78, convertito con modificazioni
dalla L. 3 agosto 2009, n. 102, è stato anzitutto inserito
nella norma il comma 1-bis, alla stregua del
quale la stazione appaltante, «ove non ... ritenga
sufficienti» le giustificazioni prodotte «ad escludere
l’incongruità dell’offerta, richiede per iscritto all’offerente
le precisazioni ritenute pertinenti», ripudiando
perciò la precedente formula (‘‘può chiedere’’)
e configurando la fase dei chiarimenti come
passaggio intermedio tra giustificazioni e convocazione
ineluttabile e doveroso (‘‘richiede’’); in secondo
luogo, è stato modificato lo stesso comma 3,
precisandosi che la stazione appaltante - o la commissione
ad hoc deputata alla verifica di congruità -
esamina «gli elementi costitutivi dell’offerta tenendo
conto delle precisazioni fornite», e assegnando
ancora, perciò, centralità alle precisazioni nelle
operazioni di valutazione della congruità.
La ragione d’essere della inderogabilità
delle fasi procedimentali di cui all’art. 88
del codice
Ma, ciò che più conta, il Consiglio di Stato sottolinea
che questa modifica normativa soddisfa l’e-
sigenza di aumentare le garanzie in favore del concorrente
sospetto d’anomalia e risponde a una precisa
ratio, che viene ricostruita nella motivazione
della sentenza.
Anticipando i temi, la giustificazione sostanziale
della procedimentalizzazione in precise fasi delle
operazioni di verifica dell’anomalia è data per un
verso dalla esigenza di assicurare al concorrente la
piena consapevolezza del campo d’indagine e del
punto debole della propria offerta da giustificare, e
per altro verso dalla natura stessa dell’attività valutativa
in questione, che è soggetta a limitato sindacato
successivo da parte del giudice amministrativo.
La necessità di provocare il contraddittorio sui
punti deboli dell’offerta, prima dell’audizione
Anzitutto, la sentenza sottolinea che la fase delle
precisazioni è posta nell’interesse del concorrente, al
fine di porlo in condizioni di conoscere puntualmente
quali siano i punti deboli - sotto il profilo
della congruità - della propria offerta e su cosa debba
quindi concentrarsi e prepararsi, anche in vista
della successiva audizione. Il che, del resto, costituisce
anche specifica indicazione della giurisprudenza
comunitaria, che ha avuto modo di precisare che le
direttive comunitarie impongono all’amministrazione
aggiudicatrice, presa contezza delle offerte e prima
di adottare decisioni in ordine alla eventuale
anomalia delle stesse e all’aggiudicazione, «di chiedere
anzitutto per iscritto precisazioni sugli elementi
Note:
(16) Si ricorda che il TAR aveva in particolare ritenuto che la
struttura trifasica della verifica di congruità ai sensi dell’art. 88,
commi 1, 1-bis, e 4 del D.Lgs. n. 163/2006 (richiesta di giustificazioni,
richiesta di precisazioni, convocazione del concorrente)
non costituisca una regola assoluta, in quanto l’eventuale omissione
di uno dei passaggi a monte può essere superata dalla
maggiore estensione di quelli a valle; e che nel caso concreto,
pur non avendo inoltrato un formale invito a esporre precisazioni,
la stazione appaltante aveva concesso un pieno contraddittorio
alla ricorrente in sede di convocazione, ammettendo all’audizione
non solo il legale rappresentante ma anche un tecnico di
fiducia, e soffermandosi in tale sede su tutte le criticità riscontrate
nelle singole voci di spesa, senza perciò - a detta del TAR -
trascurare contenuti istruttori rilevanti ai fini della decisione finale.
(17) In realtà, la richiesta di chiarimenti era da ritenersi necessaria
ogni qual volta gli stessi fossero da considerarsi ‘‘necessari o
utili’’, e tale necessità poteva ritenersi sussistente allorché il
concorrente non fosse riuscito a convincere la stazione appaltante
della congruità dell’offerta già con le prime giustificazioni.
La giurisprudenza anteriore alla novella si era comunque pronunciata
per la facoltatività dell’adempimento: Cons. Stato, sez. V,
8 settembre 2008, n. 4253; sez. VI, 16 febbraio 2012, n. 843. E
così anche la dottrina: per tutte De Nictolis, Le offerte anomale
e i criteri di rilevazione della congruità dei prezzi, inTrattato sui
contratti pubblici, a cura di Sandulli, De Nictolis e Garofoli, Milano,
2008, 2295.
346 Urbanistica e appalti 3/2013

dell’offerta sospettata di anomalia che abbiano concretamente
dato luogo a dubbi da parte sua e di valutare
successivamente questa offerta in relazione alle
giustificazioni fornite dall’offerente interessato in
risposta a tale richiesta» (18). Ciò non toglie, peraltro,
che se il concorrente ritiene di giustificare i
punti deboli della propria offerta richiamando voci
o adducendo elementi diversi da quelli considerati
nelle richieste della stazione appaltante, è suo preciso
onere farlo, e non può addebitare all’amministrazione
di non aver richiamato o suggerito lei detti argomenti
nelle richieste di giustificazioni (19).
Normalmente, nel procedimento di verifica, la
stazione appaltante chiede per iscritto all’offerente
(ovvero agli offerenti, se siano più d’uno quelli sospetti
d’anomalia ed intenda procedere all’esame
contemporaneo ai sensi del secondo periodo del
comma 7) le giustificazioni dell’offerta, e le esamina.
Può darsi - anzi, dovrebbe senz’altro essere così
- che in questa prima fase (richiesta di giustificazioni)
la stazione appaltante (o la commissione ad
hoc) già evidenzi specifici profili di inaffidabilità
dell’offerta, ma ciò non è affatto scontato (20), anche
perché il campo d’indagine potrebbe essere
molto ampio, a seconda delle caratteristiche dell’appalto
e della molteplicità delle voci delle prestazioni
o dei costi.
A questo punto, se l’esame delle giustificazioni
non è immediatamente ritenuto persuasivo in ordine
all’affidabilità dell’offerta, è necessario che la
stazione appaltante segnali al concorrente gli specifici
punti critici ancora da approfondire, e che lo
faccia in questa fase, con la richiesta delle precisazioni,
prima di convocare il concorrente per la terza
fase dell’audizione, sia perché in questo modo fornisce
al concorrente una ulteriore chance di definire
la questione in senso a sé favorevole, sia perché lo
mette in condizione di prepararsi adeguatamente -
e sugli specifici punti critici - per quella che è l’ultima
sua possibilità di salvezza, data dalla convocazione
in audizione.
Trattandosi, ora, di mettere il concorrente in
condizione di superare un primo giudizio negativo
(insufficienza delle giustificazioni), si ritiene - anche
per la formulazione della norma, che parla di
richiesta di precisazioni - che questa seconda richiesta
debba essere quanto mai puntuale e specifica,
non potendosi poi escludere l’offerta per sua ritenuta
incongruità in relazione a «profili sui quali non
vi era stata specifica e puntuale contestazione e in
relazione ai quali, quindi, l’impresa interessata non
aveva potuto approntare in modo pertinente le proprie
giustificazioni» (21).
Amministrativa
Giurisprudenza
Per queste ragioni il Consiglio di Stato, nella
sentenza in commento, ha ritenuto senz’altro inappagante
la soluzione seguita dal TAR, il quale, affidandosi
ad argomenti di tipo esclusivamente quantitativo
e non qualitativo, aveva ritenuto che l’omissione
della predetta fase intermedia potesse essere
compensata o sanata da una presunta ‘‘maggiore
estensione’’ della fase conclusiva dell’audizione.
E, aggiunge il Consiglio di Stato, il vulnus arrecato
alle facoltà del concorrente e le risultanze disponibili
non consentivano nel caso concreto in alcun
modo al Collegio di ritenere che la verifica oggetto
di causa fosse destinata ineluttabilmente a
concludersi in senso sfavorevole all’offerente (22),
e quest’ultimo aveva in giudizio puntualmente dedotto
che la violazione procedurale aveva menomato
in via anche sostanziale la possibilità di specificare
al meglio i complessi aspetti economici della propria
offerta (23).
Il sindacato del giudice amministrativo
sulle valutazioni operate in sede di verifica
d’anomalia
Altra pregante ragione sostanziale per riconoscere
rilevanza e perciò assoluta cogenza alla scansione
procedimentale delineata dalla legge è data dalla
natura delle valutazioni operate in tale frangente
dall’amministrazione e dalla difficoltà di poterle
contrastare in sede giurisdizionale, attesi i ben noti
limiti alla sindacabilità della discrezionalità tecnica.
L’attività di valutazione è da ricondurre infatti
alla cd. discrezionalità tecnica (più che alla discre-
Note:
(18) Corte Giust. UE, sez. VI, 27 novembre 2011, cause C-285 e
C-286/99.
(19) Cons. Stato, Ad. Plen., n. 36/2012, cit.
(20) Così De Nictolis, Le offerte anomale, cit., 2294.
(21) Cons. Stato, sez. VI, 10 marzo 2009, n. 1417.
(22) Per completezza, va infatti detto che la stazione appaltante
aveva evidenziato la inattendibilità dell’offerta relativamente a diverse
voci: il costo del personale, il costo del nolo dell’escavatore,
il costo del nolo dell’autocarro, ulteriori voci minori, considerando
altresì irrilevante l’economia di spesa che la concorrente
legava alla disponibilità di materiale di cava a titolo gratuito.
(23) La precisazione operata dal Consiglio di Stato nella sentenza
in commento non è superflua, visto che di recente è stato affermato
che «il principio di derivazione comunitaria che richiede
l’attivazione del contraddittorio nel procedimento di verifica delle
offerte anomale (correttamente richiamato a pagina 10 della
memoria dell’appellante datata 16 aprile 2012) non deve essere
inteso in senso formale bensì, come statuito anche da questo
Consiglio, in un’accezione di tipo sostanziale, con la conseguenza
che eventuali omissioni di tipo formale, prive di lesività sostanziale,
non inficiano il giudizio (Cons. Stato, sez. V, 20 febbraio
2012 n. 875)»; così in Cons. Stato, sez. III, 13 settembre
2012, n. 4877.
Urbanistica e appalti 3/2013 347

Amministrativa
Giurisprudenza
zionalità amministrativa), venendo in rilievo non
tanto genericamente scelte e valutazioni di opportunità
dirette alla individuazione delle soluzioni più
utili al perseguimento del pubblico interesse, bensì
analisi su elementi e questioni di natura tecnica,
ancorché potenzialmente connotate, su alcuni profili,
di ampi magrini di opinabilità (24).
Al riguardo, si è anche osservato che «la discrezionalità
tecnica non è altro che un momento dell’esercizio
del potere discrezionale amministrativo.
La discrezionalità amministrativa è ponderazione di
interessi, valutazione dell’interesse pubblico, ma
presuppone l’accertamento del fatto e del rilievo
del fatto rispetto all’interesse da tutelare. La norma
tecnica può essere applicata per accertare l’esistenza
o l’inesistenza di un fatto, per ritenere soddisfacente
o meno una certa motivazione che abbia fatto riferimento
ad una norma tecnica (in un provvedimento
amministrativo) rispetto all’interesse pubblico
oppure per apprezzare direttamente l’effettiva
idoneità di una certo assetto di interessi a soddisfare
l’interesse pubblico. In questo ultimo senso la norma
tecnica è applicata in un ambito che appartiene
al puro merito amministrativo ed è l’ambito nel
quale la rinnovazione del giudizio tecnico nel processo
amministrativo si risolverebbe in una impropria
sostituzione del giudice all’amministrazione.
Ciò che si deve evidenziare è che la discrezionalità
tecnica è divenuta sindacabile poiché l’opinabilità
è diversa dall’opportunità, ma senza che il giudice
possa sostituire il proprio apprezzamento (o quello
del consulente tecnico) all’apprezzamento opinabile
dell’amministrazione: il controllo dell’iter logico seguito
dal provvedimento si può spingere fino a controllare
l’attendibilità delle valutazioni tecniche effettuate
dall’amministrazione, non certo a sostituirsi
all’apprezzamento dell’amministrazione e, conseguentemente,
ad ignorare che, nel campo dell’applicazione
delle norme tecniche, occorre permanentemente
distinguere - con rigore - fra legittimità e
merito» (25).
Come ricorda il Consiglio di Stato nella sentenza
in commento, dinanzi all’esercizio della discrezionalità
tecnica il giudice «può intervenire soltanto
in caso di macroscopiche illogicità, vale a dire di
errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni
abnormi o affette da errori di fatto (Cons.
Stato, sez. V, 18 agosto 2010, n. 5848; 23 novembre
2010, n. 8148; 22 febbraio 2011, n. 1090)»;
mentre in alcun modo può sostituirsi all’amministrazione,
operando il giudizio riservato a questa
(26). Peraltro, le Sezioni Unite della Cassazione
hanno chiarito che, attenendosi a questi limiti, ed
eventualmente anche fondando una propria valutazione
in detti termini a seguito di espletamento di
una CTU (27), il giudice amministrativo non esercita
la sua giurisdizione nella sfera riservata all’amministrazione,
non attenendo tale controllo al merito
dell’azione amministrativa bensì al sindacato
sulla discrezionalità tecnica, e perciò in questi casi
non è configurabile l’eccesso di potere giurisdizionale
censurabile in Cassazione (28). Nella giurisprudenza
amministrativa si sono infatti registrate
significative aperture sulla possibilità di affidare a
una CTU l’accertamento di elementi chiave del
giudizio di anomalia, quali i criteri in base ai quali
è stato determinato il valore di giustificazione utilizzato
dall’amministrazione, l’esame delle giustificazioni,
l’utile d’impresa, le spese generali (29); e si è
inoltre osservato, che, «tramontata l’equazione discrezionalità
tecnica - merito insindacabile a partire
dalla sentenza n. 601/99 della IV Sezione del Consiglio
di Stato, il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti
tecnici della p.a. può oggi svolgersi in
base non al mero controllo formale ed estrinseco
dell’iter logico seguito dall’autorità amministrativa,
bensì alla verifica diretta dell’attendibilità delle
operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza
quanto a criterio tecnico ed a procedimento
applicativo, potendo il giudice utilizzare per tale
controllo sia il tradizionale strumento della verificazione,
che la CTU» (30).
Nel ragionamento sotteso alla motivazione della
sentenza in commento, però, non potendo il giudice
procedere alla integrale ripetizione delle operazioni
valutative compiute dall’amministrazione
(31), «ciò comportando un’inammissibile violazione
del principio di separazione dei poteri» (32),
la soglia della tutela va necessariamente anticipata
alle garanzie procedimentali, quale strumento utile
Note:
(24) Cons. Stato, sez. VI, 11 dicembre 2001, n. 6217.
(25) Cons. Stato, sez. VI, 6 agosto 2002, n. 4094.
(26) Cons. Stato, sez. IV, 27 giugno 2011, n. 3862. Il principio è
stato peraltro da ultimo richiamato anche da Cons. Stato, Ad.
Plen., n. 36/2012 cit.
(27) Così nel caso deciso dalla Cassazione, Sez. Un., con ordinanza
10 agosto 2011, n. 17143.
(28) Cass., Sez. Un., 21 dicembre 2005, n. 28265.
(29) Cons. Stato, sez. VI, ord. 14 febbraio 2006, n. 904.
(30) Cons. Stato, sez. VI, 9 novembre 2006, n. 6608.
(31) Cons. Stato, sez. V, 12 novembre 2012, n. 5703; idem, sez.
VI, 7 settembre 2012, n. 4744; sez. V, 18 settembre 2008, n.
4494.
(32) Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2009, n. 3769.
348 Urbanistica e appalti 3/2013

a far sì che le valutazioni dell’amministrazione si
formino correttamente e nella pienezza degli apporti
istruttori e partecipativi.
Va inoltre detto che nella specifica materia di
cui si tratta un’attività valutativa da parte del giudice
amministrativo sostitutiva - o correttiva - di
quella operata dall’amministrazione sarebbe - oltreché
contraria ai principi fondamentali del nostro
ordinamento - particolarmente inopportuna, poiché
nello specifico si tratta di valutazioni certamente
tecniche ma con connotazioni in qualche misura
commerciali, trattandosi - come si è già detto - di
considerare tutti i profili di convenienza dell’offerta
e di soppesare l’opportunità di addivenire alla formazione
di un vincolo contrattuale con un concorrente
che abbia presentato un’offerta che dev’essere
certamente conveniente ma altresì seria e affidabile.
Le conseguenze risarcitorie sul caso deciso
Come emerge dalla succinta descrizione della
causa sopra operata, la ricorrente si sarebbe aggiudicata
la gara in questione se non fosse stata - illegittimamente
- esclusa per anomalia dell’offerta. O
meglio, sarebbe stata dichiarata aggiudicataria se, ripetendo
le valutazioni in osservanza del corretto
procedimento, la commissione avesse poi formulato
un giudizio di congruità dell’offerta. E, come si è visto,
il Consiglio di Stato ha ritenuto che non fosse
affatto da escludere che la verifica, se correttamente
condotta, potesse concludersi in senso favorevole
alla ricorrente.
Tuttavia, la dichiarata impossibilità da parte del
giudice amministrativo di sostituirsi alle valutazioni
operate dalla commissione sull’anomalia dell’offerta
impediva al Consiglio di Stato di pronunciarsi con
certezza sulla congruità dell’offerta della ricorrente
e perciò sulla spettanza o meno dell’aggiudicazione
a quest’ultima. Pertanto, risultando ormai già realizzata
l’opera e dovendo limitare la pronuncia risarcitoria
al solo equivalente monetario, occorreva stabilire
se andasse risarcito l’utile per la mancata aggiudicazione
- ciò che presupponeva però il giudizio
prognostico favorevole sulla congruità dell’offerta -
o la sola chance di aggiudicazione, o altro.
Né il Consiglio di Stato, nella impossibilità di
sostituirsi all’amministrazione, ha ritenuto di poter
affidare a questa un riesame virtuale dell’anomalia
dell’offerta della ricorrente. Infatti, il Collegio ha
ritenuto che la pendenza della domanda risarcitoria
formulata dalla ricorrente pregiudicasse in radice
l’imparzialità di un suo nuovo pronunciamento,
Amministrativa
Giurisprudenza
che sarebbe stato inevitabilmente condizionato dalla
tentazione di dichiarare nuovamente incongrua
l’offerta per evitare la condanna risarcitoria.
La questione riecheggia problematiche recentemente
affrontate e decise dall’Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato con la sentenza 26 luglio
2012, n. 30.
Con questa fondamentale pronuncia l’Adunanza
Plenaria, contemperando i princìpi di continuità
delle operazioni e di contestualità delle valutazioni,
il principio del mantenimento della segretezza delle
offerte economiche sino all’esaurimento delle valutazioni
tecniche, il principio di obiettività e imparzialità
dell’azione amministrativa e quello della conservazione
degli atti giuridici, della economicità ed
efficienza, ha affermato il seguente principio: «Nella
gara per l’affidamento di contratti pubblici l’interesse
fatto valere dal ricorrente che impugna la sua
esclusione è volto a concorrere per l’aggiudicazione
nella stessa gara; pertanto, anche nel caso dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, in presenza
del giudicato di annullamento dell’esclusione stessa
sopravvenuto alla formazione della graduatoria, il
rinnovo degli atti deve consistere nella sola valutazione
dell’offerta illegittimamente pretermessa, da
effettuarsi ad opera della medesima commissione
preposta alla procedura».
In altre parole, il supremo consesso giurisdizionale
amministrativo, affermando la possibilità di procedere
a valutazioni postume parziali nonostante la
già acquisita conoscenza (e valutazione) delle altre
offerte e perciò nonostante la consapevolezza delle
conseguenze concrete che dette nuove valutazioni
avrebbero sulla graduatoria di gara, ha ritenuto che
la rete di riferimenti e di vincoli gravanti sulla
commissione (costituiti dalla cristallizzazione delle
offerte dei concorrenti, dai criteri di valutazione fissati
nella lex specialis e dai metodi in concreto già
seguiti dalla commissione nelle altre valutazioni in
precedenza operate e ‘‘conservate’’) e la possibilità -
comunque - di sottoporre dette valutazioni postume
a ulteriore sindacato giurisdizionale ‘‘particolarmente
stringente’’ circa l’effettivo rispetto della par condicio
tra il soggetto ‘‘rivalutato’’ e quelli in precedenza
già valutati, consentano di procedere a tali
valutazioni postume o anche virtuali senza ledere i
contrapposti principi di imparzialità sopra ricordati
(33).
Nota:
(33) In senso conforme, si veda Cons. Stato, sez. VI, 8 marzo
2012, n. 1332, che ha affermato prima ancora della Plenaria che
«nelle gare d’appalto improntate al criterio dell’offerta economi-
(segue)
Urbanistica e appalti 3/2013 349

Amministrativa
Giurisprudenza
Nel caso qui in commento, invece, come si è
detto, il Collegio, forse per la già formulata ‘‘minaccia’’
risarcitoria gravante sull’amministrazione e perciò
per la prevedibile compromissione della imparzialità
o comunque serenità di giudizio, ha ritenuto
preclusa la rivalutazione virtuale della congruità
dell’offerta.
Dovendo, a questo punto, fare i conti con la impossibilità
di accertare la spettanza del diritto all’aggiudicazione,
ha adottato la soluzione di compromesso
consistente nel riconoscere comunque il danno
da mancato utile, ridotto però equitativamente
al 50% di quanto l’impresa avrebbe ottenuto qualora
si fosse potuto invece accertare il suo pieno diritto
all’aggiudicazione, per «l’insuperabile dubbiezza
dell’esito del subprocedimento di verifica dell’anomalia»,
come detto ritenuto non ripetibile.
Detta soluzione equitativa, certamente pragmatica
e funzionale, per un verso si pone però in controtendenza
rispetto all’attuale orientamento che,
anche a seguito dell’avvento dell’art. 124 del codice
del processo amministrativo (34), induce ad abban-
donare i metodi di liquidazione presuntivi e ad esigere
concreta prova del danno e perciò ancor prima
del nesso di causalità; per altro verso non tiene
conto della possibilità, nei limiti sopra indicati, di
affidare la verifica ‘‘virtuale’’ della congruità dell’offerta
a un organo terzo, quale potrebbe essere un
consulente affidatario di un incarico di CTU ai soli
fini della delibazione della domanda risarcitoria.
Note:
(segue nota 33)
camente più vantaggiosa al riscontro dell’illegittimità della valutazione
delle offerte tecniche non consegua necessariamente
l’annullamento dell’intera gara», e che «le offerte sono ormai
cristallizzate, per cui, non potendo mutare, ben è possibile apprezzarle
nuovamente senza violare la par condicio che è il valore
protetto dalla segretezza delle offerte medesime, mentre il rischio
di condizionamenti del giudizio della commissione è evitabile
mediante l’analiticità della motivazione e la compiutezza della
verbalizzazione, alle quali essa è chiamata nel rinnovare il giudizio».
(34) Comma 2: «Se il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto
dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito
e provato».
350 Urbanistica e appalti 3/2013

Osservatorio
amministrativo
a cura di GIULIA FERRARI e LUIGI TARANTINO (*)
APPALTI E LAVORI PUBBLICI
SUI CONTENUTI DEL CONTRATTO DI AVVALIMENTO AI FINI
DELL’AGGIUDICAZIONE
Consiglio di Stato, sez. V, 10 gennaio 2013, n. 90 - Pres.
Volpe - Est. Prosperi
È inidoneo il contratto di avvalimento formale con cui,
tramite l’assunzione di impegni assolutamente generici,
viene prestata dall’ausiliaria la certificazione posseduta
rinviando all’eventuale, nonché inammissibile, aggiudicazione
della procedura la regolazione degli impegni assunti,
senza, di conseguenza, una reale messa a disposizione
di risorse, mezzi o di altro elemento.
Nella fattispecie all’attenzione del Consiglio l’impresa aggiudicataria
di una gara d’appalto nella veste di controinteressata
propone ricorso incidentale, con doglianza che reitera in
sede d’appello, prospettando il difetto di legittimazione dell’originaria
ricorrente attesa la genericità dell’obbligo assunto
dall’impresa ausiliaria con il contratto di avvalimento. Con la
conseguenza che lo stesso sarebbe inidoneo a garantire la
stazione appaltante in ordine alla serietà ed effettività della
messa a disposizione delle risorse oggetto di avvalimento,
per cui, conseguentemente, l’appellante sarebbe stata in
ogni caso del tutto priva di un requisito posto a base della
gara. Al riguardo, la Sezione rileva come il contratto di avvalimento
in parola si limitava a stabilire che l’ausiliaria si obbligava
nei confronti dell’impresa ausiliata, nonché della stazione
appaltante, a norma dell’art. 49 comma 2 lett. f) D.Lgs. n.
163/06, a fornire il requisito di cui l’impresa ausiliata era carente,
nonché a mettere a disposizione i mezzi e attrezzature
necessarie, per tutta la durata dell’appalto, mentre la definizione
degli impegni assunti dall’ausiliaria a favore dell’impresa
ausiliata veniva rinviata ad una successiva regolazione da
effettuarsi, in caso di aggiudicazione della procedura.
Una simile formulazione a giudizio del Consiglio risulta far
sorgere un obbligo meramente formale ed appare contraria
alla ratio della norma che è quella di consentire la partecipazione
alla procedura a soggetti che non siano in possesso
dei requisiti ed al contempo di garantire l’affidabilità dei lavori,
dei servizi o delle forniture appaltati. In una situazione di
tal fatta vengono, inoltre, meno i presupposti per l’assunzione
di una responsabilità solidale da parte dell’impresa ausiliaria.
Pertanto, il Consiglio dichiara inammissibile l’appello
spiegato dalla originaria ricorrente.
SULLA DEFINIZIONE DEI LIMITI CHE INCONTRA IL G.A.
NELLA PRIVAZIONE DI EFFICACIA DEI CONTRATTI PUBBLICI
Consiglio di Stato, sez. III, ord. 7 gennaio 2013, n. 25 -
Pres. Lodi - Est. Simonetti
Va rimessa alla Corte di giustizia delle Comunità Euro-
pee, la questione pregiudiziale se l’art. 2-quinquies, par.
4, della direttiva n. 2007/66 vada interpretato nel senso
che, qualora un’amministrazione aggiudicatrice, prima
di affidare il contratto direttamente ad un operatore
economico determinato, scelto senza previa pubblicazione
del bando, abbia pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
dell’Unione europea l’avviso di trasparenza preventiva
e abbia atteso almeno dieci giorni per la stipulazione
del contratto, sia automaticamente precluso - sempre e
comunque - al giudice nazionale di pronunciare la privazione
di effetti del contratto, anche se ravvisi la violazione
delle norme che consentono, a determinate condizioni,
di affidare il contratto senza l’espletamento di una
gara.
Va rimessa alla Corte di giustizia delle Comunità Europee,
la questione pregiudiziale se l’art. 2-quinquies, par.
4, della direttiva n. 2007/66 - ove interpretato nel senso
di escludere la possibilità che a norma del diritto nazionale
(art. 122 c.p.a.) sia pronunciata l’inefficacia del contratto,
nonostante il giudice abbia accertato la violazione
delle norme che consentono, a determinate condizioni,
di affidare il contratto senza l’espletamento di una
gara - sia conforme ai principi di parità delle parti, di
non discriminazione e di tutela della concorrenza, nonché
assicuri il diritto ad un ricorso effettivo sancito dall’art.
47 della Carta dei diritti dell’Unione europea.
Una stazione appaltante, supponendo di poter ricorrere all’affidamento
diretto di un appalto di servizi, procedeva ai
sensi dell’art. 79-bis del citato D.Lgs. n. 163/2006, alla pubblicazione
dell’avviso volontario per la trasparenza sul supplemento
della Gazzetta Ufficiale Europea ed all’esito della
negoziazione sempre sulla GUE, anche dell’avviso di aggiudicazione
dell’appalto. Gli atti in questione venivano impugnati
da un’impresa di settore che censurava la scelta di
non bandire una procedura di gara, deducendo la violazione
dell’art. 28 della direttiva 2009/18/CE e dell’art. 57 del D.Lgs.
n. 163/2006, nonché il difetto di motivazione e l’eccesso di
potere, sul rilievo che non ricorrevano le condizioni per avviare
una procedura negoziata senza bando. Chiedeva, quindi,
l’annullamento dell’aggiudicazione e, ove già stipulato, la dichiarazione
di inefficacia del contratto. Il primo giudice riteneva
fondata la censura proposta dalla ricorrente secondo la
quale i dati e le circostanze indicati dall’Amministrazione non
integravano quelle ‘‘ragioni tecniche’’ che, ai sensi dell’art.
57 comma 2 lett. b) del D.Lgs. n. 163/2006, fanno si che il
contratto possa essere affidato unicamente ad un solo operatore
economico determinato, quanto piuttosto ragioni di
opportunità e difficoltà che potrebbero derivare dall’affida-
Nota:
Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
(*) La rassegna delle decisioni del Consiglio di Stato è curata da L. Tarantino;
la rassegna delle sentenze del TAR è curata da G. Ferrari.
Urbanistica e appalti 3/2013 351

Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
mento dei servizi ad operatori economici diversi da quello in
concreto individuato. Accolta la domanda di annullamento, il
Tribunale riteneva che nel caso di specie non fosse possibile
pronunciare l’inefficacia del contratto ai sensi dell’art. 121
c.p.a., dovendosi applicare il comma 5 di tale articolo, per effetto
dell’avviso volontario per la trasparenza ex art. 79-bis
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea; ma
che ciò non significava che il contratto non potesse essere
dichiarato pur sempre inefficace ai sensi dell’art. 122, ricorrendone
le condizioni. Negli appelli all’esame della Sezione
l’amministrazione appaltante e l’impresa beneficiaria sostengono
tra l’altro una non una corretta applicazione nella pronuncia
di primo grado della direttiva ricorsi 2007/66/CE, in
particolare di quanto previsto all’art. 2-quinquies, par. 4, vieterebbe
in questo caso di dichiararne comunque l’inefficacia.
Ciò quale conseguenza dell’avviso pubblicato sulla GUE, ai
sensi dell’art. 3-bis, dodici giorni prima della conclusione della
convenzione. Il Consiglio rilevando la corretta declaratoria
di illegittimità del provvedimento di aggiudicazione, affronta
la questione relativa ai limiti che incontra il g.a. nel dichiarare
l’inefficacia del contratto, richiamando il contenuto della direttiva
2007/66. La disciplina comunitaria, com’è noto, fatta
eccezione per alcune ipotesi nelle quali è obbligatoria la declaratoria
di inefficacia del contratto, rimette al legislatore nazionale
l’individuazione delle ipotesi nelle quali va rimessa al
giudicante una simile discrezionalità. Tra le ipotesi per le
quali la direttiva prevede la privazione di effetti vi è proprio il
caso in cui «l’amministrazione aggiudicatrice ha aggiudicato
un appalto senza previa pubblicazione del bando nella Gazzetta
Ufficiale dell’Unione europea senza che ciò sia consentito
a norma della direttiva 2004/18/CE» (art. 2-quinquies,
par. 1 lett. a). Sempre la direttiva prevede, peraltro, che il paragrafo
1, lett. a) dell’art. 2-quinquies non si applichi quando:
1) l’amministrazione aggiudicatrice ritiene che l’aggiudicazione
senza previa pubblicazione del bando sia consentita a
norma delle direttiva 2004/18/CE; 2) la stessa amministrazione
ha pubblicato sulla GUE un avviso preventivo con cui manifesta
l’intenzione di concludere il contratto; 3) il contratto
sia stato concluso non prima dello scadere di dieci giorni a
decorrere dal giorno successivo alla data di pubblicazione
dell’avviso. Il legislatore nazionale oltre a prevedere la declaratoria
di inefficacia del contratto nelle ipotesi di violazioni
più gravi conformemente a quanto prescritto dal legislatore
nazionale, ha esteso tale previsione ad altre ipotesi. I casi di
cd. inefficacia necessaria disciplinati dall’art. 121 c.p.a. incontrano
un’espressa deroga nel comma 5 dello stesso articolo
quando la stazione appaltante abbia: a) con atto motivato
anteriore all’avvio della procedura di affidamento, dichiarato
che la procedura senza previa pubblicazione del bando è
consentita dal D.Lgs. n. 163/2006; b) pubblicato un avviso
volontario per la trasparenza preventiva ai sensi dell’art. 79bis
del D.Lgs. n. 163/2006; c) concluso il contratto non prima
di dieci giorni civili dalla data di pubblicazione dell’avviso. Nei
casi di inefficacia meno grave si parla di inefficacia possibile,
nel senso che è il g.a. a stabilire se decretare l’inefficacia del
contratto. Tanto premesso il Consiglio invoca l’interpretazione
pregiudiziale della Corte di giustizia nei sensi di cui alle
massime sopra riportate.
FUNZIONE DELLA SOTTOSCRIZIONE DA APPORRE IN CALCE
ALLA DOCUMENTAZIONE TECNICA
T.A.R. Napoli, sez. VIII, 17 gennaio 2013, n. 343 - Pres.
Amodio - Est. Di Popolo
È legittima l’esclusione di una ditta da una gara di ap-
palto, motivata con riferimento al fatto che la sottoscrizione
è stata apposta solo sul frontespizio di un testo e/
o documento di più pagine presentato a corredo dell’offerta.
Un’impresa, partecipante ad una gara indetta da un Comune
per l’affidamento con il criterio dell’offerta economicamente
più vantaggiosa dei lavori di adeguamento e aggiornamento
della pubblica illuminazione, impugna innanzi al TAR il provvedimento
con il quale l’appalto è stato aggiudicato ad altra partecipante
e ne chiede l’annullamento unitamente agli atti presupposti.
La controinteressata si costituisce in giudizio e propone
ricorso incidentale, con il quale sostiene che la ricorrente
principale doveva essere esclusa dalla selezione avendo
presentato, a corredo della domanda, documenti tecnici sottoscritti
solo nel frontespizio della prima pagina, e non in calce a
tutte le pagine. Il Tribunale accerta che effettivamente i documenti
tecnici presentati dalla ricorrente principale portano solo
sul frontespizio la firma dei suoi legali rappresentati e accoglie
il ricorso incidentale. Premette che nelle procedure di affidamento
dei contratti pubblici l’offerta esprime l’impegno del
concorrente ad eseguire l’appalto con prestazioni conformi al
relativo oggetto, nonché con modalità tecniche e corrispettivo
economico che la qualificano agli effetti della valutazione comparativa
sottesa all’aggiudicazione. Aggiunge che in un simile
contesto, connotato dalla tassatività della forma scritta e dalla
vincolatività della dichiarazione unilaterale di impegno del concorrente,
la firma serve a rendere nota la paternità ed a vincolare
l’autore al contenuto del documento al quale detta dichiarazione
si riferisce; assolve, cioè, la funzione indefettibile di
assicurare provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità
dell’offerta e costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità,
sotto il profilo sia formale sia sostanziale, potendosi
solo ad essa riconnettere gli effetti propri della manifestazione
di volontà volta alla costituzione di un rapporto giuridico.
Data la premessa, da essa il Tribunale fa discendere una duplice
conseguenza: la clausola di gara, che imponga la sottoscrizione
anche della documentazione tecnica da parte del
soggetto concorrente, corrisponde all’esigenza che l’offerta
sia formalmente imputata al soggetto titolato ad assumere le
obbligazioni in essa contemplate per l’esecuzione dell’appalto;
la mancanza della sottoscrizione, pregiudicando un interesse
sostanziale pubblicistico, comporta quindi che l’offerta non
può essere accettata; non integra cioè una mera irregolarità
formale, sanabile nel corso del procedimento, ma inficia irrimediabilmente
la validità e la ricevibilità dell’offerta senza che,
all’uopo, sia necessaria una espressa previsione della lex specialis,
stante la diretta comminatoria di esclusione enunciata
dall’art. 46 comma 1-bis, D.Lgs. 12 aprile 2006 n. 163 con riferimento
ai «casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione». Aggiunge
che, per definizione, una ‘‘sottoscrizione’’ deve essere
apposta in calce al documento al quale si riferisce. Afferma,
sempre con puntuale richiamo a precedenti giurisprudenziali
in termini, che la sottoscrizione conclusiva della dichiarazione
di impegno non è surrogabile dalla sottoscrizione
solo parziale delle pagine precedenti ovvero dall’apposizione
della controfirma sui lembi sigillati della busta che la contiene
mirando, quest’ultima formalità, a garantire il principio
della segretezza dell’offerta e dell’integrità del plico piuttosto
che, come la firma in calce, l’imputazione della manifestazione
di volontà al concorrente. Aggiunge che la firma in calce
di un documento non è equiparabile a quella apposta solo in
apertura di esso (‘‘in testa’’) ovvero - come nel caso in esame
- sul solo frontespizio di un testo di più pagine, in quanto
352 Urbanistica e appalti 3/2013

unicamente con la firma in calce si manifesta la consapevole
assunzione della paternità di una dichiarazione e la responsabilità
in ordine all’intero suo contenuto né, tanto meno, alla
firma in calce di singoli ed autonomi documenti è equiparabile
la sottoscrizione dell’elenco riproduttivo della mera intitolazione
dei documenti medesimi, del cui contenuto rimane,
dunque, incerta l’imputabilità al soggetto offerente.
DOCUMENTAZIONE PRESENTATA IN COPIA INFORMALE
ANZICHÉ IN ORIGINALE O IN COPIA AUTENTICA
T.A.R. Napoli, sez. VIII, 17 gennaio 2013, n. 343 - Pres.
Amodio - Est. Di Popolo
Nella gara pubblica indetta per l’affidamento di un appalto
pubblico, per la cui partecipazione è chiesta la produzione
in originale o in copia autentica dei documenti,
un documento prodotto in copia informale è un documento
non prodotto.
Un’impresa, partecipante ad una gara indetta da una Provincia
per l’affidamento di lavori di ammodernamento di una strada
interpoderale, impugna innanzi al TAR il provvedimento con il
quale è stata esclusa dalla procedura comparativa e contestualmente
revocata l’aggiudicazione provvisoria già disposta
in suo favore. Il motivo addotto dalla stazione appaltante è
che i documenti ad essa richiesti erano stati presentati in copia
semplice. Il Tribunale rigetta il ricorso. Osserva che l’art.
17 del bando di gara (mai impugnato), dopo aver elencato i
documenti da produrre in caso di aggiudicazione provvisoria,
ai fini delle verifiche di cui all’art. 48, D.Lgs. 12 aprile 2006 n.
163, specificava che gli stessi dovevano essere prodotti in
originale o in copia autentica La circostanza, incontestata, che
la documentazione richiesta dalla stazione appaltante non era
stata depositata in originale o in copia autentica da parte dell’aggiudicataria
provvisoria è, ad avviso del Tribunale, di per
sé sufficiente a giustificarne l’esclusione. Afferma infatti che
un documento prodotto in copia informale, in un procedimento
che stabilisce la produzione in originale o in copia autentica,
è un documento non prodotto, senza che sia possibile,
per la stazione appaltante, indagare sulle ragioni di una tale
difformità rispetto al prefigurato paradigma. Questa conclusione
non risponde ad una concezione formalistica dell’esercizio
dei poteri pubblici, ma è imposta dalla particolare struttura dei
procedimenti concorsuali, che impedisce di accedere ad
un’impostazione partecipativa dell’azione amministrativa
(Cons. Stato, sez. V, 31 ottobre 2008, n. 5458). Né, nell’ipotesi
di produzione di copie informali, può trovare spazio l’obbligo
del cd. soccorso della stazione appaltante, in quanto la produzione
postuma di un documento nelle pubbliche gare non ha
l’effetto di sanare retroattivamente la causa di esclusione, ma
darebbe luogo ad una non consentita disapplicazione delle regole
poste a garanzia dell’imparzialità del procedimento e finirebbe
con lo snaturare la stessa fisionomia delle pubbliche
gare, alterando la par condicio dei concorrenti. In ogni caso l’istituto
dell’integrazione documentale non può trovare applicazione
in caso di documentazione mancante, come deve intendersi
quella prodotta in copia semplice, in violazione di quanto
prescritto dalla lex specialis di gara.
SCOSTAMENTO DALLE TABELLE MINISTERIALI SUL COSTO
DELLA MANODOPERA
T.A.R. Napoli, sez. I, 16 gennaio 2013, n. 337 - Pres. Mastrocola
- Est. Buonauro
Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
Nelle gare pubbliche indette per l’affidamento di servizi
le tabelle ministeriali, recanti il costo della manodopera
e formulate nell’ambito della contrattazione collettiva
non sono dati inderogabili, ma costituiscono indubbiamente
un parametro legale di congruità dell’offerta, con
la conseguenza che lo scostamento dalle stesse può essere
giustificato solo se accompagnato non da generiche
affermazioni, ma da dati probatori significativi.
Una società, partecipante ad una gara pubblica indetta da un
Comune con il sistema del massimo ribasso per l’affidamento
del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti solidi urbani e
la gestione dell’isola ecologica, e collocatasi al secondo posto
in graduatoria, avendo offerto un ribasso dell’8,98%, a
fronte del 18,65% dell’aggiudicataria, impugna tutti gli atti
del procedimento, compreso il provvedimento con il quale la
Commissione ha ritenuto congrua l’offerta dell’aggiudicataria.
Sostiene che questa doveva invece essere esclusa dalla
procedura comparativa atteso che la sua offerta conteneva
una determinazione del costo orario per il personale dipendente
inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale
vigente; aggiunge che la Commissione di gara, una
volta verificato che il costo della manodopera era inferiore a
quello minimo per garantire il pagamento del personale impiegato,
avrebbe dovuto dichiarare l’anomalia del ribasso
praticato, tenendo anche presente che la lex specialis di gara
obbligava l’impresa subentrante all’assunzione dei lavoratori
già in servizio. Nel costituirsi in giudizio l’aggiudicataria si
difende sostenendo che il costo derivante dall’applicazione
delle tabelle è stato ridotto alla luce delle statistiche aziendali
in punto di assenza per malattia e per infortuni (da 54 ore a
7), dell’eliminazione delle voci relative al lavoro domenicale
ed assenze per motivi di studio, formazione e permessi ex
lege n. 626 (ore ridotte da 12 a 6). Il Tribunale premette che
gli spazi ad esso riservati ai fini della valutazione dell’operato
dell’Amministrazione risentano del carattere tecnico-discrezionale
dell’operato della Commissione con la conseguenza
che, se il sindacato sulla discrezionalità tecnica, tipico della
valutazione dell’anomalia dell’offerta, non può sfociare nella
sostituzione dell’opinione del giudice a quella espressa dall’organo
dell’Amministrazione, è però compito del primo verificare
se il potere amministrativo è stato esercitato con l’utilizzo
di regole conformi a criteri di logicità, congruità e ragionevolezza.
Aggiunge che, nel subprocedimento di verifica
dell’anomalia dell’offerta, la stazione appaltante è obbligata a
motivare in maniera particolarmente approfondita solo nel
caso in cui esprima un giudizio negativo, e non anche nel caso
di esito positivo della verifica. Di conseguenza, nel caso
al suo esame, la verifica deve soffermarsi sulla ragionevolezza
del giudizio di sostenibilità complessiva dell’offerta dell’aggiudicataria,
alla luce delle giustificazioni dalla stessa offerte,
con particolare riguardo ai punti di criticità segnalati
dalla ricorrente e riguardanti anzitutto i costi per il personale,
in quanto sensibilmente inferiori a quelli necessari a garantire
il trattamento economico conforme al CCNL del 5 aprile
2008. Ciò premesso, e venendo al merito, il Tribunale osserva
che nella valutazione della congruità delle offerte presentate
nelle procedure di affidamento di servizi devono considerarsi
anormalmente basse le offerte che si discostino in
modo evidente dai costi medi del lavoro indicati nelle tabelle
periodicamente predisposte dal Ministero del lavoro in base
ai valori previsti dalla contrattazione collettiva e dalle norme
in materia. Essi costituiscono non parametri inderogabili, ma
indici del giudizio di adeguatezza dell’offerta, con la conseguenza
che è ammissibile l’offerta che da essi si discosti,
Urbanistica e appalti 3/2013 353

Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
purché lo scostamento non sia eccessivo e vengano salvaguardate
le retribuzioni dei lavoratori come stabilito in sede
di contrattazione collettiva. In sostanza dette tabelle non fissano
criteri rigidi e perentori, tali da dar luogo, nel caso di
mancato rispetto, all’esclusione automatica dell’offerta, dovendo
per contro, in caso di sensibile scostamento, la stazione
appaltante disporre la verifica delle anomalie ai sensi dell’art.
86, D.Lgs. 12 aprile 2006 n. 163 e in linea con il principio
codificato dall’art. 55 della direttiva 31 marzo 2004 n.
2004/18/CE. Dà atto che nel caso in esame a questa regola
si è attenuta l’Amministrazione che, lungi dall’escludere immediatamente
l’impresa ricorrente, ha richiesto a quest’ultima
giustificazioni in ordine all’offerta presentata, con particolare
riferimento all’indicazione del costo per la manodopera.
In sede di contraddittorio l’aggiudicataria ha sostenuto che
l’economia dell’offerta rispetto ai valori della tabella ministeriale
si spiega con il miglior utilizzo del personale, che è in
grado di offrire un numero di ore lavorate superiore a quelle
indicate in tabella. Ma ad avviso del Tribunale il rilievo non è
convincente atteso che è pacifico che, se per alcune voci le
tabelle espongono dati non inderogabili, è altrettanto incontestabile
che alle medesime è assegnata la funzione di parametro
legale, il che comporta che lo scostamento dalle voci
di costo, che nelle tabelle ministeriali risultano derogabili, in
tanto può esser accettato, in quanto risulti puntualmente
giustificato. Ed una tale dimostrazione deve essere particolarmente
rigorosa con riferimento alle cd. ore annue mediamente
lavorate dal personale, atteso che tale dato coinvolge
eventi (malattie, infortuni, maternità) che non rientrano nella
disponibilità dell’impresa e che quindi, per definizione, postulano
stime particolarmente prudenziali. La conseguenza è
che l’offerta, che si proponga di far conto su un numero di
assenze del personale minori rispetto a quelle assunte a livello
statistico e su un campione certamente rappresentativo
dalle tabelle ministeriali, per essere accettata come plausibile
deve essere accompagnata da significativi ed univoci
dati probatori che, al di là di generiche affermazioni, sono invece
mancati nella fattispecie considerata.
PROCESSO AMMINISTRATIVO
SUI PRESUPPOSTI PER L’AZIONE REVOCATORIA
Consiglio di Stato, Ad. Plen., 10 gennaio 2013, n. 1 - Pres.
Trovato - Est. Saltelli
L’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione
(ai sensi dell’art. 81 n. 4 del R.D. 17 agosto 1907,
n. 642, ora dell’art. 106 c.p.a., e dell’art. 395, comma 4,
c.p.c.) deve essere caratterizzato: a) dal derivare da una
pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto
meramente materiale degli atti del giudizio, la quale
abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base
di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere
un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente
un fatto documentalmente provato; b) dall’attenere ad
un punto non controverso e sul quale la decisione non
abbia espressamente motivato; c) dall’essere stato un
elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando
perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione
e la pronuncia stessa. Inoltre, l’errore deve
apparire con immediatezza ed essere di semplice rileva-
bilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini
ermeneutiche.
L’Adunanza Plenaria viene investita del ricorso per revocazione
della pronuncia n. 30/2012 con la quale il massimo organo
di giustizia amministrativa aveva affermato il seguente
principio di diritto: «Nella gara per l’affidamento di contratti
pubblici l’interesse fatto valere dal ricorrente che impugna la
sua esclusione è volto a concorrere per l’aggiudicazione nella
stessa gara; pertanto, anche nel caso dell’offerta economicamente
più vantaggiosa, in presenza del giudicato di annullamento
dell’esclusione stessa sopravvenuto alla formazione
della graduatoria, il rinnovo degli atti deve consistere
nella sola valutazione dell’offerta illegittimamente pretermessa,
da effettuarsi ad opera della medesima commissione
preposta alla procedura», respingendo uno dei motivi di
appello e rimettendo l’affare alla Sezione per la decisione sugli
ulteriori motivi di gravame. Le imprese appellanti, seconde
classificate nella gara d’appalto conclusasi con il provvedimento
di aggiudicazione impugnato, propongono revocazione
avverso la citata sentenza per errore di fatto a causa
della errata percezione delle peculiari modalità di svolgimento
della gara in questione, come definite dalla sua lex specialis,
ed in particolare della prescrizione secondo cui le offerte
dei concorrenti dovevano essere valutate con il sistema del
confronto a coppie.
La Plenaria coglie l’occasione per fare il punto sui presupposti
del rimedio revocatorio per errore di fatto, concludendo
per l’inammissibilità del ricorso per revocazione. Al riguardo,
i giudici di Palazzo Spada chiariscono i limiti che devono essere
osservati per evitare che il ricorso per revocazione si
traduca in un non consentito ulteriore grado di giudizio. L’errore
revocatorio sul quale fonda la fase rescindente del rimedio
deve essere caratterizzato da una pura e semplice errata
od omessa percezione del contenuto meramente materiale
degli atti del giudizio, dall’aver inciso su di un punto non controverso,
dal rappresentare un elemento fondante della pronuncia,
rimosso il quale viene a cadere il ragionamento logico-giuridico
che ne è alla base e deve, inoltre, essere immediatamente
rilevabile.
L’errore di fatto revocatorio si sostanzia quindi in una svista
o abbaglio dei sensi che ha provocato l’errata percezione del
contenuto degli atti del giudizio, determinando un contrasto
tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente
dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti
di causa: esso pertanto non può confondersi con quello che
coinvolge l’attività valutativa del giudice, costituendo il peculiare
mezzo previsto dal legislatore per eliminare l’ostacolo
materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione
che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa
della svista o abbaglio dei sensi.
Pertanto, mentre l’errore di fatto revocatorio è configurabile
nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli
atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al
significato letterale, esso non ricorre nell’ipotesi di erroneo,
inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali
ovvero di anomalia del procedimento logico di interpretazione
del materiale probatorio ovvero quando la questione
controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni
ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione
acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo
se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la
revocazione.
354 Urbanistica e appalti 3/2013

Lottizzazione abusiva
Trasformazione di sottotetto
in locale abitabile:
quando è lottizzazione abusiva?
CASSAZIONE PENALE, sez. III, 22 novembre 2012, n. 45732 - Pres. Squassoni - Rel. Lombardi -
P.M. in proc. P.
La trasformazione di un sottotetto in locale abitabile non è, di per sé, idonea a integrare il reato di lottizzazione
abusiva nel caso in cui l’edificio sia destinato a uso residenziale e ubicato in zona per la quale sono previsti
interventi di urbanizzazione, non rilevando in senso contrario la mera trasformazione a uso abitativo delle superfici
costituenti sottotetto dell’immobile, poiché attività inidonea a conferire un diverso assetto a una porzione
del territorio rispetto alla pianificazione originariamente prevista, né rendendo tale attività necessaria la
realizzazione di altre opere di urbanizzazione.
Fatto e diritto
Con la impugnata ordinanza il Tribunale di F. ha rigettato
l’appello proposto dal PM avverso il provvedimento
del GIP del medesimo Tribunale in data 7 febbraio
2012, con il quale era stata respinta la richiesta del PM
di sequestro preventivo di alcuni immobili. In sintesi, la
pubblica accusa ha ravvisato la fattispecie della lottizzazione
abusiva mista, negoziale e materiale, a seguito dell’accertamento
che cinque vani sottotetto, facenti parte
del medesimo fabbricato, destinati a ripostiglio a servizio
dell’appartamento sottostante, della superficie variabile
tra 24 e 39 mq. ciascuno, erano stati trasformati in immobili
ad uso abitativo autonomo, mediante la eliminazione
del collegamento con l’appartamento sottostante,
la realizzazione di un ingresso dal vano scale condominiale
e la dotazione di servizi, con successivo frazionamento
ed alienazione a terzi. Interventi eseguiti in base
a DIA. Altro vano sottotetto era stato destinato dai proprietari
ad uso abitativo, di camera da letto, mediante il
posizionamento del relativo arredo, senza l’esecuzione di
interventi edilizi. Il Tribunale della libertà ha escluso la
configurabilità, nel caso in esame, del reato di lottizzazione
abusiva, osservando che la modificazione della destinazione
d’uso di cinque unità destinate a servizi in unità
abitative non appare idonea a conferire un diverso assetto
alla pianificazione urbana, dato che le opere di urba-
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Penale
Giurisprudenza
Conforme Cass., sez. III, 10 gennaio 1997, n. 4021, in Ced Cass. 207277; Cass., sez. III, 19 febbraio 2001, n.
6581, ivi, 218702; Cass., sez. III, 8 maggio 2007, n. 17359, ivi, 236493; Cass., sez. III, 16 luglio 2010,
n. 27713, ivi, 247919; Cass., sez. III, 9 marzo 2011, n. 9282, ivi, 249756
Difforme Cass., sez. III, 23 febbraio 2011, n. 6892, in www.ambientediritto.it; Cass., sez. III, 13 marzo 2008, n.
11259 ivi
nizzazione erano già previste dai titoli originari e non
comportando la modificazione la necessità per la pubblica
amministrazione di realizzare ulteriori opere di urbanizzazione.
Le condotte poste in essere dovevano qualificarsi
esclusivamente come abuso edilizio. La sanzione
della confisca deve riferirsi ad ipotesi di lottizzazione di
terreni e delle opere su di essi costruite ovvero di un intero
edificio.
2. Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso il PM, che la
denuncia per carenza assoluta di motivazione in relazione
alle deduzioni formulate con l’atto di appello. Dopo
aver riportato l’atto di impugnazione la pubblica accusa,
in sintesi, deduce che il Tribunale ha erroneamente
escluso il reato di lottizzazione abusiva in base ad un criterio
quantitativo, considerata l’estensione complessiva
degli immobili di poco più di 150 mq. complessivi, trattandosi
di reato di pericolo. La lottizzazione accertata si
palesa inoltre idonea ad incidere sul cosiddetto carico
urbanistico. Si tratta di interventi che, al di là del formale
titolo abilitativo, non potrebbero mai essere autorizzati
e si pongono in contrasto con la destinazione programmata
del territorio. Peraltro, anche nell’ipotesi in
cui venisse configurata la sola violazione edilizia doveva
essere disposta la misura cautelare, essendo i lavori ancora
in corso di esecuzione in contrasto con le previsioni
del regolamento edilizio comunale. L’avv. (omissis), nell’interesse
di (omissis), (omissis) e(omissis), e l’avv. (omis-
Urbanistica e appalti 3/2013 355

Penale
Giurisprudenza
sis), nell’interesse di (omissis), hanno depositato memorie,
con le quali contestano la fondatezza del ricorso,
chiedendone il rigetto.
Il ricorso non e’ fondato.
2.1 Osserva preliminarmente la Corte che l’accertamento
dell’esistenza di una lottizzazione abusiva costituisce
questione di fatto, sicché ove il provvedimento impugnato
risulti correttamente motivato sul punto, mediante
l’applicazione dei principi di diritto da osservarsi in materia,
non è sindacabile il sede di legittimità. Orbene, il
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 30, comma 1, prevede due
ipotesi di lottizzazione abusiva a scopo edificatorio: 1) allorché
vengano iniziate opere che comportino trasformazione
urbanistica ed edilizia dei terreni in violazione delle
prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti o adottati
o comunque stabilite da leggi regionali o statali senza
la prescritta autorizzazione; 2) quando tale trasformazione
venga predisposta attraverso il frazionamento e la
vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che per le
loro caratteristiche, quali la dimensione in relazione alla
natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli
strumenti urbanistici, il numero l’ubicazione o la eventuale
previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto
ad elementi riferiti agli acquirenti denuncino in modo
non equivoco la destinazione a scopo edificatorio. Come
è noto a tali ipotesi l’elaborazione giurisprudenziale ha
aggiunto la fattispecie della lottizzazione mista, rilevante
ai fini della permanenza del reato, che si ravvisa allorché
al frazionamento del terreno faccia seguito l’attività edificatoria
su singoli lotti. È noto inoltre che il reato di
lottizzazione abusiva è stato ravvisato da questa Corte
anche nell’ipotesi di edifici già realizzati, quali alberghi o
strutture residenziali turistico alberghiere, allorché ne
venga predisposto il frazionamento e la vendita delle singole
unità ad uso esclusivamente residenziale in contrasto
con le previsioni dello strumento urbanistico (cfr.,
tra le tante, sez. III, sentenza n. 6396 del 2007 RV
236075). È evidente, infatti, che l’alienazione separata
delle singole unità immobiliari implica necessariamente
il frazionamento del sottostante terreno. Sul punto è stato,
peraltro, precisato da questa Corte che il reato di lottizzazione
abusiva è configurabile, nell’ipotesi in cui lo
strumento urbanistico generale consenta l’utilizzo della
zona ai fini residenziali, in due casi: a) quando il complesso
alberghiero sia stato edificato alla stregua di previsioni
derogatorie non estensibili ad immobili residenziali;
b) quando la destinazione d’uso residenziale comporti un
incremento degli ‘‘standards’’ richiesti per l’edificazione
alberghiera e tali ‘‘standards’’ aggiuntivi non risultino reperibili
ovvero reperiti in concreto (sez. III, 7 marzo
2008, n. 24096, P.M. in proc. Desimine, Rv. 240725).
La trasformazione urbanistica o edilizia del territorio, peraltro,
deve risultare di consistenza tale da incidere in
modo rilevante sull’assetto urbanistico della zona, sia nel
senso d’intervento innovativo sul tessuto urbanistico,
che sotto il profilo della necessità dell’esecuzione di nuove
opere d’urbanizzazione o di potenziamento di quelle
già esistenti, (sez. IV, sentenza 8 luglio 2008, n. 33150,
N. ed altri, RV 240970). Il reato di lottizzazione abusiva
deve, invece, escludersi con riferimento a zone comple-
tamente urbanizzate, mentre è configurabile con riferimento
a zone parzialmente urbanizzate, in cui sussista
un’esigenza di raccordo con il preesistente aggregato abitativo
e di potenziamento delle opere di urbanizzazione,
(sez. III, 26 giugno 2008, n. 37472, B. e altri RV
241097).
2.2 Orbene, l’ordinanza impugnata, al fine di escludere
nel caso in esame l’esistenza del fumus del reato di lottizzazione
abusiva, ha evidenziato che l’edificio è destinato
ad uso residenziale ed ubicato in zona per la quale erano
già previsti interventi di urbanizzazione, mentre ha
escluso che la trasformazione ad uso abitativo delle superfici
costituenti sottotetto dell’immobile sia idonea a
conferire un diverso assetto ad una porzione del territorio
rispetto alla pianificazione originariamente prevista o
renda necessaria la realizzazione di ulteriori opere di urbanizzazione.
La valutazione del giudice di merito in ordine
alla esclusione del fumus del reato di lottizzazione
abusiva non si palesa, pertanto, in contrasto con gli
enunciati principi di diritto. Quanto alla violazione edilizia,
ravvisabile invece nella predetta trasformazione
d’uso del sottotetto dell’edificio, il Tribunale del riesame
ha sostanzialmente escluso l’esistenza delle esigenze cautelari,
rilevando che attualmente non risulta l’esecuzione
di lavori in corso ed, anzi, vi sarebbe stato un ripristino
della destinazione d’uso non residenziale dei predetti locali,
con valutazione di merito che si sottrae anch’essa al
sindacato di legittimità. Il ricorso, pertanto, deve essere
rigettato.
356 Urbanistica e appalti 3/2013

IL COMMENTO
di Alessio Scarcella *
La Corte di Cassazione interviene opportunamente con la sentenza in esame sul tormentato reato di lottizzazione
abusiva, oggetto in questi ultimi anni di numerosi interventi esegetici da parte della giurisprudenza
di legittimità. Stavolta il tema affrontato dalla Corte è quello della possibile configurabilità dell’illecito lottizzatorio
nel caso, invero assai diffuso, della trasformazione di locali sottotetto di un appartamento in locali abitabili,
in assenza di qualsivoglia titolo abilitativo. La giurisprudenza tradizionale, com’è noto, ritiene che tale
attività di trasformazione costituisca un mutamento di destinazione d’uso per il quale è necessario il rilascio
preventivo del permesso di costruire, atteso che la variazione avviene tra categorie non omogenee. Parte
della giurisprudenza di legittimità, invece, con un’interpretazione più rigorosa, sostiene che in presenza di
un’attività non consentita di trasformazione urbanistica o edilizia del territorio, realizzata anche mediante
una forma di suddivisione fattuale dell’immobile, sia configurabile l’illecito lottizzatorio. Da qui, dunque, il
quesito: la trasformazione di un sottotetto in locale abitabile, realizzando una diversa suddivisione in fatto
dell’immobile, può astrattamente integrare la fattispecie di lottizzazione abusiva, o è necessario un quid pluris
affinché ciò si verifichi?
Sottotetti e mutamento di destinazione
d’uso: la giurisprudenza maggioritaria
La disciplina giuridica in materia di trasformazione
dei sottotetti, di regola, viene inquadrata giuridicamente,
secondo la giurisprudenza maggioritaria,
nel nuovo Testo Unico dell’edilizia all’art. 3. Il recupero
sottotetto è la trasformazione delle superfici
non abitabili situate nel sottotetto dei fabbricati
mono familiari e condominiali e solitamente adibite
a solaio. Queste superfici vengono, di regola, trasformate
in superfici residenziali anche modificando
le altezze di colmo e di gronda della costruzione; in
aggiunta, possono essere costruiti in falda anche abbaini,
terrazzi e posizionate finestre. La giurisprudenza
della Suprema Corte, in ciò assistita anche
dalla giurisprudenza amministrativa, di regola ha
sempre sostenuto che tale attività, ove svolta abusivamente,
rientri nella previsione della fattispecie
penale di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), del
D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380. La stessa giurisprudenza,
del resto, sotto la vigenza della legge urbanistica,
riteneva configurabile la contravvenzione di
cui all’art. 17, lett. b), della L. 28 gennaio 1977 n.
10 (1), in caso di trasformazione del ‘‘sottotetto’’ di
un edificio, originariamente destinato a ripostiglio
ed a lavanderia, in vani per abitazioni, completi di
servizi, osservando come, in tal caso, non si ha una
semplice difformità nella esecuzione di lavori, ma
un’opera del tutto nuova in quanto non prevista
nell’atto di concessione edilizia (2); dunque, escludeva
che potessero definirsi semplici difformità di
costruzione le opere edili di trasformazione (3), ritenendo
configurabile il reato di costruzione senza
licenza e non quello di costruzione in difformità
dalla licenza in caso di esecuzione di lavori che, pur
Penale
Giurisprudenza
non dando luogo ad una costruzione del tutto nuova,
implicassero una sostanziale alterazione del progetto
approvato, come per esempio nel caso di ampliamento
dell’edificio già esistente (4). Era quindi
da ritenersi pacifico che la trasformazione di sottotetto
in appartamento non costituiva una semplice
difformità nell’esecuzione dei lavori, ma un’opera
del tutto nuova in quanto non prevista nell’originaria
licenza (5). Sotto la vigenza della L. 28 febbraio
1985, n. 47 (6), era pacifico che la trasformazione
Note:
* Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione
di un referee.
(1) L. 28 gennaio 1977, n. 10, cd. legge Bucalossi, recante ‘‘Norme
per la edificabilità dei suoli’’ (in G.U. 29 gennaio 1977, n.
27).
(2) Così, Cass., sez. III, 5 gennaio 1983, n. 30, in Ced Cass., n.
156754. In via d’eccezione, peraltro, si riteneva applicabile la più
lieve sanzione della sola ammenda, prevista dall’art. 17, lett. a),
della L. n. 10 del 1977, soltanto per l’inosservanza delle modalità
esecutive, ossia in ipotesi del tutto marginali e lievi, che non
comportassero modifica delle caratteristiche strutturali ed estetiche
della costruzione come, ad es., per quanto qui di interesse,
in caso di lieve modifica dell’altezza dei singoli piani, senza
che questo comportasse sottotetti abitabili (in termini: Cass.
pen., sez. III, 18 febbraio 1983, n. 907, in Ced Cass., n. 157214).
(3) V., in termini: Cass. pen., sez. III, 15 luglio 1976, n. 7933, in
Ced Cass., n. 134104 (nella specie, il sottotetto di un immobile
era stato trasformato in appartamento autonomo, completo di
tutti i servizi).
(4) In tal senso, v. Cass. pen., sez. III, 15 luglio 1976, n. 7932, in
Ced Cass., n. 134103 (nella specie, l’imputato non solo aveva
rialzato senza necessità il cono del tetto, cosi modificando l’originaria
cubatura, ma aveva anche trasformato, con l’apertura di
abbaini, oltre alla struttura interna del sottotetto anche la stessa
facciata esterna).
(5) V., in termini: Cass. pen., sez. III, 11 luglio 1977, n. 9007, in
Ced Cass., n. 136423; conf., sez. III, 29 aprile 1980, n. 5494, in
Riv. Pen., 1981, 52.
(6) Recante ‘‘Norme in materia di controllo dell’attività urbanisti-
(segue)
Urbanistica e appalti 3/2013 357

Penale
Giurisprudenza
di una porzione di appartamento (in particolare, un
sottotetto) da destinazione non abitativa a destinazione
abitativa, costituisse mutamento della destinazione
d’uso dell’immobile, legittimando l’emissione
di un provvedimento di sequestro preventivo
(7). Faceva eccezione il caso in cui i lavori, consistenti
nella ristrutturazione di un sottotetto con
variazione della destinazione d’uso, fossero avvenuti
senza modificazioni di superficie o di volume. In tal
caso, infatti, si escludeva la necessità della concessione
edilizia, ritenendosi sufficiente l’autorizzazione
del sindaco, di talché, per effetto del comma 2 dell’art.
10 della L. 28 febbraio 1985, n. 47, la mancata
richiesta di autorizzazione non comportava l’applicazione
del successivo art. 20, cioè di sanzioni
penali, ma soltanto di una sanzione pecuniaria amministrativa
(8). Parte della giurisprudenza, analizzando
più approfonditamente il fenomeno sotto il
profilo giuridico, procedeva all’inquadramento fattuale
nella fattispecie della cd. difformità totale,
muovendo dalla considerazione per la quale doveva
ritenersi esistente un’ipotesi di totale difformità dalla
concessione edilizia nel concorso di quattro condizioni:
1) eccedenza volumetrica; 2) creazione di
un organismo edilizio o di parte di esso; 3) rilevanza
specifica dell’opera; 4) sua autonoma utilizzabilità.
Questi elementi secondo la giurisprudenza, dovevano,
per dare luogo ad una delle due ipotesi di difformità
legislativamente disciplinate, sussistere tutti
contemporaneamente. La ‘‘rilevanza specifica’’, più
precisamente, doveva essere interpretata nel senso
che non ogni superamento dei limiti volumetrici
configurasse il reato de quo, ma soltanto quella che
avesse una notevole consistenza. All’uopo, dunque,
il giudice era tenuto ad avvalersi di un duplice criterio,
e cioè sia di una valutazione assoluta ed oggettiva,
che di altra relativa alla struttura realizzata.
Quanto alla ‘‘autonoma utilizzabilità’’, poi, secondo
tale giurisprudenza, non voleva significare che il
corpo eseguito fosse fisicamente separato, ma soltanto
che desse luogo ad una eccedenza, la quale
non si stemperasse nella globalità dell’organismo,
ma conducesse alla creazione di una struttura precisamente
individuabile e suscettibile di un uso indipendente,
anche se l’accesso allo stesso fosse possibile
esclusivamente attraverso lo stabile principale:
ne derivava, quindi, per tale orientamento, che la
trasformazione di un sottotetto in mansarda integrasse
gli estremi della totale difformità (9). In tal
senso, dunque, ben si comprende perché la giurisprudenza
escludesse che tale tipologia d’intervento
potesse inquadrarsi nel cd. restauro conservativo,
dovendo avvenire quest’ultimo nel rispetto degli
elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio
originario (10). In definitiva, dunque, sotto la vigenza
della L. n. 47/1985 era pacifico che la trasformazione
di un sottotetto in mansarda costituisse
mutamento della destinazione d’uso dell’immobile
per il quale si riteneva necessario il rilascio della
concessione edilizia, in assenza della quale il fatto
integrava l’ipotesi di reato di cui all’art. 20, lett. b),
della L. 28 febbraio 1985 n. 47 (11). La rilevanza
della tipologia dell’intervento edilizio in esame, peraltro,
trascendeva anche la mera violazione urbanistica,
ritenendosi in giurisprudenza che tale intervento,
illecitamente posto in essere, fosse idoneo ad
integrare anche il reato paesaggistico. In tal senso,
infatti, si affermava che ai fini della configurabilità
della fattispecie di cui all’art. 1-sexies, della L. 8
agosto 1985, n. 431, la nozione di alterazione del
paesaggio dovesse essere valutata in relazione alle
modifiche, anche minime, ma apprezzabili (12).
L’impostazione giuridica improntata a qualificare
Note:
(segue nota 6)
co-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie.
Ecologia’’ (in G.U. 2 marzo 1985, n. 53, suppl. ord.).
(7) Così, Cass. pen., sez. III, 10 gennaio 1997, n. 4021, in Ced
Cass., n. 207277; faceva eccezione, si noti, un’isolata decisione
della Suprema Corte, che riteneva rientrare nel novero delle
opere interne non soggette a concessione o autorizzazione, non
integrando pertanto violazione della legge penale, la destinazione
a vani abitabili di locali originariamente utilizzati a fine di
sgombero, ottenuta mediante l’esecuzione di lavori che non determinano
aumento di cubatura o di superficie né mutamento
delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito. Al riguardo,
la Corte sosteneva come non fosse ipotizzabile la trasformazione
d’uso dell’immobile, atteso che la stessa si riteneva configurabile
allorquando l’unità immobiliare, e non i suoi singoli componenti,
fosse adibita ad utilizzazione diversa da quella per la
quale era stata rilasciata la licenza ad edificare (Cass. pen., sez.
III, 23 luglio 1994, n. 8332, in Ced Cass., n. 198780).
(8) Così, Cass. pen., sez. III, 10 dicembre 1987, n. 12660, in
Ced Cass., n. 177236; in senso conforme: Cass. pen., sez. III,
20 dicembre 1989, n. 17645, in Riv. Giur. Edil., 1991, I, 516.
(9) Così, Cass., sez. III, 23 aprile 1990, n. 5891, in Riv. Giur.
Edil., 1991, I, 1185.
(10) Nella specie, si noti, era stato escluso che potesse parlarsi
di restauro conservativo nel caso in cui un tetto a falde era stato
sostituito da un solaio parallelo al terreno ed innalzato lateralmente
al livello massimo d’impostazione del precedente tetto,
in quanto, così facendo, si era conseguito un aumento di volumetria
con l’introduzione di elementi diversi sotto i tre profili
menzionati (tipologici, formali e strutturali) rispetto alle caratteristiche
originali e consentendosi anche una diversa utilizzazione
del sottotetto (Cass. pen., sez. III, 11 novembre 1999, in Ced
Cass., n. 215635).
(11) Giurisprudenza costante: Cass. pen., sez. III, 19 febbraio
2001, n. 6581, in Ced Cass., n. 218702.
(12) Cass., sez. III, 3 marzo 2003, n. 9538, in Giust. Pen., 2004,
II, 168 (fattispecie nella quale le opere eseguite erano esterne e
utilizzate per rendere abitabili i sottotetti).
358 Urbanistica e appalti 3/2013

l’intervento edilizio in esame nella categoria del
mutamento di destinazione d’uso non muta con
l’entrata in vigore del nuovo Testo Unico dell’edilizia,
costituito dal D.P.R. 6 giugno 2001, n.
380 (13). La disciplina del Testo unico dell’edilizia
definisce, all’art. 3, comma 1, lett. d), gli interventi
di «ristrutturazione edilizia» come «... gli interventi
rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante
un insieme sistematico di opere che possono portare
ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso
dal precedente (14). Tali interventi comprendono
il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi
costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica
e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti».
Ne deriva che il mutamento di destinazione di
uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione
di opere edilizie, qualora venga realizzato dopo
l’ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza,
si configura sempre come una ristrutturazione
edilizia (secondo la definizione sopra richiamata),
in quanto l’esecuzione di lavori, anche se di entità
modesta, porta pur sempre alla creazione di «un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente».
Ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c),
del medesimo D.P.R. n. 380/2001, questi interventi
sono assoggettati al rilascio del permesso di costruire,
con pagamento del contributo di costruzione dovuto
per la diversa destinazione, qualora portino ad
un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente, ovvero comportino aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, della sagoma,
dei prospetti o delle superfici, ovvero, limitatamente
agli immobili compresi nelle zone omogenee A
(in linea di massima, i centri storici), comportino
mutamenti della destinazione d’uso (15). Tali interventi
possono essere realizzati, secondo l’art. 22,
comma 3, del Testo unico, anche mediante denuncia
di inizio attività, alternativa al permesso di costruire.
Integra, dunque, il reato di esecuzione dei
lavori in totale difformità dal permesso di costruire
(art. 44, comma 1, lett. b), D.P.R., 6 giugno 2001,
n. 380) la realizzazione di opere non rientranti tra
quelle autorizzate, per le diverse caratteristiche tipologiche
e di utilizzazione, aventi una loro autonomia
e novità, sia sul piano costruttivo che su quello
della valutazione economico sociale (16). L’accertamento
del mutamento di destinazione d’uso per
difformità totale rispetto al titolo abilitativo dev’essere,
peraltro, effettuato, nel caso di lavori in corso
d’opera, sulla base dell’individuazione di elementi
univocamente significativi, propri del diverso uso
cui l’opera è destinata e non coerenti con l’originaria
destinazione della medesima (17).
Penale
Giurisprudenza
Secondo la Corte di Cassazione, dunque, la corretta
interpretazione del combinato disposto delle
norme sopra illustrate è nel senso di ritenere consentiti
in base alla semplice denuncia di inizio attività
solo quei mutamenti che portino ad una destinazione
diversa ma compatibile, concetto preso in
considerazione anche dalla lett. c) dell’art. 3, comma
1. Questo in base al fondamentale principio
che la destinazione di un immobile non s’identifica
con l’uso che in concreto ne fa il soggetto che lo
utilizza, ma con quella impressa dal titolo abilitativo
assentito (ovviamente quando tale titolo sussista
e sia determinato sul punto). Ciò significa che il
concetto di uso urbanisticamente rilevante è ancorato
alla tipologia strutturale dell’immobile, quale
individuata nell’atto di concessione, senza che esso
possa essere influenzato da utilizzazioni difformi rispetto
al contenuto degli atti autorizzatori e/o pianificatori.
Note:
(13) Si tratta del ‘‘Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari
in materia edilizia’’ (in G.U. 20 ottobre 2001, n. 245,
suppl. ord. n. 239).
(14) Cfr. T.A.R. Lombardia, sez. II, 26 ottobre 1987, n. 372, in
Riv. Giur. Edil., 1988, I, 156. Sul punto Pallottino, Ancora perplessità
sul concetto di ristrutturazione di case di abitazione, in
Riv. Amm., 1984, 157; S. Bellomia, Appunti in tema di ordinaria
e straordinaria manutenzione, inRiv. Giur. Edil., 1980, II, 147.
Più di recente, Tanda, Interventi di ristrutturazione edilizia e di ristrutturazione
urbanistica: in particolare l’ipotesi di demolizione
e successiva ricostruzione, inRiv. Giur. Edil., 2012, 103.
(15) Si noti, peraltro, che secondo la giurisprudenza più recente,
la modifica di destinazione d’uso è integrata anche dalla realizzazione
di sole opere interne (Cass. pen, sez. III, 16 luglio 2010, n.
27713, in Ced Cass., n. 247919, relativa ad una fattispecie di
mutamento in abitazione del sottotetto mediante la predisposizione
di impianti tecnologici sottotraccia). In tal senso, è bene
però precisare che le cosiddette ‘‘opere interne’’ non sono più
previste nel D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, come categoria autonoma
d’intervento edilizio sugli edifici esistenti, e rientrano negli
interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento
di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle
superfici ovvero mutamento di destinazione d’uso (in tal senso,
si noti: Cass. pen., sez. III, 21 dicembre 2011, n. 47438, in Ced
Cass., n. 251637, fattispecie relativa alla realizzazione di un soppalco
all’interno di un’unità immobiliare nella quale la Corte ha
affermato che per la sua esecuzione è necessario il permesso
di costruire o, in alternativa, la denuncia di inizio attività).
(16) Così, Cass. pen., sez. III, 24 marzo 2011, n. 11956, in Ced
Cass., n. 249774, fattispecie nella quale l’intervento edilizio era
consistito nella trasformazione di locali, autorizzati come sottotetti
costituenti volumi tecnici in unità immobiliari residenziali, di
altezza più elevata rispetto alle previsioni progettuali e di superficie
corrispondente al piano sottostante, divise in ambienti separati,
muniti di aperture finestrate, dotati di impianti elettrico ed
idrico.
(17) V., sul punto: Cass. pen., sez. III, 9 marzo 2011, n. 9282, in
Ced Cass., n. 249756, fattispecie nella quale l’intervento edilizio
era consistito nella trasformazione ad uso abitativo dei sottotetti
di numerosi fabbricati in corso di realizzazione, in contrasto con
le NTA del PEEP comunale.
Urbanistica e appalti 3/2013 359

Penale
Giurisprudenza
Va da sé, peraltro, da un lato, che la buona fede
dell’acquirente di un immobile, realizzato in difformità
sostanziale dal titolo mediante mutamento
della destinazione d’uso del piano sottotetto, tale
da escludere l’elemento soggettivo, richiede un
comportamento positivo consistente nell’assumere,
anche presso gli uffici pubblici, tutte le necessarie
informazioni sulla sussistenza del titolo nonché sulla
compatibilità dell’immobile con gli strumenti urbanistici
(18); dall’altro, sotto il profilo processuale, è
pacifico che la mera presentazione della richiesta di
permesso di costruire in sanatoria non è, di per sé,
idonea ad escludere il pericolo che la libera disponibilità
dell’immobile abusivamente realizzato - come
nel caso di realizzazione di un piano sottotetto
eseguito difformemente dal titolo abilitativo - possa
aggravare o protrarre le conseguenze dell’illecito ovvero
agevolarne la commissione di altri (19).
Sottotetti e lottizzazione abusiva: la
giurisprudenza minoritaria (e rigorista)
Di segno opposto, invece, le argomentazioni offerte
dalla giurisprudenza di legittimità minoritaria
che qualifica la trasformazione del sottotetto in locale
abitabile come integrante la fattispecie della
lottizzazione abusiva, ex art. 44, comma 1, lett. c),
D.P.R. n. 380 del 2001.
La prima di tali decisioni, non ufficialmente
massimata (20), ritiene configurabile la fattispecie
della lottizzazione abusiva, quale conseguenza dello
stravolgimento del permesso di costruire e relativa
autorizzazione lottizzatoria a nulla rilevando che
l’intervento sia stato eseguito in zona già urbanizzata.
La decisione riguardava l’impugnazione avverso
alcuni decreti di convalida di sequestro (probatorio
e preventivo) di tre fabbricati in corso di costruzione,
nei confronti del socio accomandatario di una
s.a.s., indagato dei reati di cui all’art. 44, lett. b) e
c) del D.P.R. n. 380/2001. Il tribunale del riesame
aveva ritenuto sussistente il fumus dei predetti reati,
essendo emerso dalle indagini della polizia giudiziaria
che l’indagato aveva realizzato un numero di appartamenti
di gran lunga superiore a quello assentito
ed, in particolare, in un condominio 16 appartamenti
in più, di cui cinque nel sottotetto, in altro
condominio 17 appartamenti in più, di cui cinque
nel sottotetto e, infine, in un terzo condominio, 7
appartamenti in più, di cui uno nel sottotetto. Nel
proporre ricorso per cassazione, il difensore dell’indagato
censurava i provvedimenti per violazione di
legge ed, in particolare, dell’art. 44, lett. c), del
D.P.R. n. 380/2001, nonché delle norme extrape-
nali presupposte quali l’art. 30, comma 1, del citato
decreto, l’art. 28 della Legge urbanistica n. 1150/42
e l’art. 2 del D.M. n. 1444/1968. Per quanto qui di
interesse, la Cassazione, nel fornire la soluzione della
questione, l’ha ritenuta infondata con riferimento
al reato di lottizzazione abusiva ex art. 44, lett.
c), del D.P.R. n, 380/2001. A sostegno dell’inconsistenza
della tesi difensiva, la Corte ricorda che l’area
interessata dalle costruzioni era già urbanizzata,
sicché ben poteva trovare applicazione al caso in
esame la giurisprudenza di legittimità secondo cui il
reato di lottizzazione abusiva si integra non soltanto
in zone assolutamente inedificate, ma anche in
quelle parzialmente urbanizzate nelle quali si evidenzia
l’esigenza di raccordo con l’aggregato abitativo
preesistente o di potenziamento delle opere di
urbanizzazione pregresse, così che per escluderlo deve
essersi verificata una situazione di pressoché
completa e razionale edificazione della zona, tale da
rendere del tutto superfluo un piano attuativo (21).
In tal senso, per la Corte, non appare dubbio che
anche nelle aree già urbanizzate la costruzione di
nuovi edifici destinati ad uso residenziale o ad esso
equiparabile è destinata ad incidere sul carico che
devono sopportare le infrastrutture già esistenti o
comportare la necessità del loro adeguamento. Ciò
è sostenibile, per i giudici di legittimità, perché nella
nozione di lottizzazione abusiva rientra anche
quella che comporti una trasformazione urbanistica
od edilizia del territorio, realizzata in concreto con
modalità tali da non essere più riferibile al piano
inizialmente approvato con la convenzione all’uopo
stipulata, a causa degli stravolgimenti od integrali
modifiche apportate (22). Ad ulteriore sostegno
dell’affermazione, ancora, la Cassazione richiamando
la definizione di lottizzazione cosiddetta materiale
di cui all’art. 30, comma 1, del D.P.R. n. 380/
2001 (23), sostiene che ai fini della configurabilità
Note:
(18) V., in tal senso: Cass. pen, sez. III, 21 dicembre 2009, n.
48925, in Ced Cass., n. 245917.
(19) Così, Cass. pen., sez. III, 3 novembre 2011, n. 39731, in
Ced Cass., n. 251304.
(20) Si tratta di Cass. pen., sez. III, 13 marzo 2008, n. 11259, in
www.ambientediritto.it.
(21) Così, Cass. pen., sez. III, 30 aprile 2004, n. 20373, in Ced
Cass., n. 228447; in senso conforme: Cass. pen., sez. III, 2 ottobre
2008, n. 37472, in Ced Cass., n. 241097.
(22) In tal senso si è espressa Cass. pen., sez. III, 6 marzo
1996, n. 2408, in Ced Cass., n. 204711 e, successivamente,
Cass. pen., sez. III, 9 maggio 2011, n. 17834, in Ced Cass., n.
250138.
(23) L’art. 30, comma 1, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, così reci-
(segue)
360 Urbanistica e appalti 3/2013

del reato di lottizzazione abusiva a nulla rileva il
fatto che le opere che comportano la trasformazione
urbanistica o edilizia del territorio, nei sensi indicati
dalla norma, vengano realizzate in aree già
urbanizzate e che non sia richiesto uno strumento
attuativo della lottizzazione, essendo sufficiente che
la stessa sia stata realizzata in assenza della necessaria
autorizzazione. Orbene, in applicazione di tali
principi, nel caso in esame, la Cassazione osserva
come il permesso di costruire convenzionato contenesse
l’autorizzazione richiesta ai sensi della disposizione
citata, sicché lo stravolgimento del permesso
di costruire e della relativa autorizzazione lottizzatoria
mediante la realizzazione di edifici che per le loro
caratteristiche, numero di unite abitative o altro
non siano più riferibili a quelli approvati costituiva
fatto idoneo ad integrare la fattispecie della lottizzazione
senza la prescritta autorizzazione. Vi era stata,
dunque, la realizzazione di un maggior numero di
unità abitative, peraltro rilevante rispetto a quello
assentito, non solo mediante frazionamento di quelle
previste dalla concessione convenzionata, ma altresì
con un, sia pur modesto, aumento di superficie
dei singoli fabbricati e soprattutto mediante il cambio
di destinazione d’uso dei sottotetti. Proprio il riferimento
a quest’ultimo elemento (il cambio di destinazione
d’uso dei sottotetti) merita attenzione, in
quanto la Cassazione, muovendo da tale elemento
oggettivo, ha ritenuto giuridicamente corretta la
valutazione dei giudici di merito che avevano ritenuto
configurabile la fattispecie della lottizzazione
abusiva, quale conseguenza dello stravolgimento
del permesso di costruire e relativa autorizzazione
lottizzatoria, a nulla rilevando che l’intervento fosse
stato eseguito in zona già urbanizzata ed anzi, aggiungendo
i giudici di legittimità che l’aggravamento
del carico urbanistico si palesava astrattamente
configurabile quale conseguenza della realizzazione
di un numero di appartamenti superiore a quello assentito,
soprattutto allorché vi sia stata, come nella
specie, anche la modificazione della destinazione
d’uso di volumi non destinati ad abitazione.
L’altra decisione, anch’essa favorevole alla configurabilità
dell’illecito lottizzatorio in caso di trasformazione
di un sottotetto in locale abitabile, parimenti
non ufficialmente massimata (24), afferma
che rientra nel concetto giuridico di lottizzazione
abusiva materiale, anche l’esecuzione dei lavori che
determinano un mero mutamento della destinazione
d’uso di edifici, già esistenti, da cui derivi la necessità
di nuovi interventi di urbanizzazione. La vicenda
processuale si presenta sostanzialmente analoga
a quella oggetto di esame con la decisione in
commento, traendo origine dall’impugnazione del
provvedimento, assunto dal Tribunale del riesame,
con cui era stata rigettata l’istanza di due indagati
con cui si chiedeva la revoca del sequestro preventivo
avente ad oggetto n. 16 locali sottotetto, individuabili
in planimetria con le relative sigle, in relazione,
per quanto qui di interesse, all’ipotesi di
reato di lottizzazione abusiva ex art. 44, lett. c),
D.P.R. n.380/01. La difesa degli indagati aveva proposto
ricorso per cassazione, sostenendo che il gravato
provvedimento si fondava su inesatte e infondate
premesse di diritto, rilevato che i lavori di edificazione
effettuati dalla Cooperativa di cui uno degli
indagati era presidente, non solo erano stati realizzati
in conformità ai permessi di costruire, rilasciati
dall’ente territoriale, ma, soprattutto, agli
strumenti urbanistici vigenti. Peraltro, da un’attenta
lettura del regolamento edilizio comunale era
possibile rilevare una distinzione non solo concettuale,
ma anche giuridica tra volumi tecnici e sottotetti,
in quanto questi ultimi rappresentano volumi
di servizio e come tali non erano computabili. Inoltre,
sempre secondo la difesa, non poteva configurarsi
l’ipotizzato reato in questione perché non erano
stati realizzati nuovi volumi con la trasformazione
dei locali di sottotetto, in quanto la volumetria
residenziale era rimasta inalterata ed era quella assentita
con il permesso a costruire e successivi titoli
abilitativi. La Cassazione ha ritenuto infondato il
ricorso, rilevando come ben 16 sottotetti erano stati
interessati da interventi edilizi, che ne avevano determinato
il cambio di destinazione d’uso a mansarda,
cioè locali ad uso residenziale, con un incremento
di volume pari a mc 4.400, che rappresenta
oltre un terzo di quello assentito, determinante un
assoluto esubero della capacità edificatoria del lotto
già saturata in fase di progettazione. Conseguentemente,
per gli Ermellini, i giudici di merito aveva-
Nota:
(segue nota 23)
Penale
Giurisprudenza
ta: «Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio
quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni
degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque
stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta
autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta
attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti,
del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione
in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione
secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la
eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto
ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco
la destinazione a scopo edificatorio».
(24) Si tratta di Cass. pen., sez. III, 23 febbraio 2011, n. 6892, in
www.ambientediritto.it.
Urbanistica e appalti 3/2013 361

Penale
Giurisprudenza
no ritenuto configurabile il reato in questione, posto
che, con le opere in concreto edificate, erano
state ampliate le superfici residenziali degli appartamenti
sottostanti, ampliamento non assentibile per
le ragioni in precedenza evidenziate. Corretta, dunque,
per la Corte, era la contestazione della lottizzazione
abusiva materiale, in coerenza con quanto affermato
dalla giurisprudenza di legittimità che ha ricondotto
al concetto giuridico della lottizzazione
abusiva anche l’esecuzione dei lavori che determinano
un mero mutamento della destinazione d’uso
di edifici, già esistenti, da cui derivi la necessità di
nuovi interventi di urbanizzazione, come ravvisabile
nella fattispecie esaminata (25).
La (pregevole) soluzione offerta dalla Corte
nella vicenda in esame
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione
alla Corte di occuparsi della questione vedeva
indagate numerose persone cui era stata addebitata
la violazione dell’art. 44, comma 2, D.P.R. n. 380/
2001 (sub specie di lottizzazione abusiva mista, negoziale
e materiale), a seguito dell’accertamento
che cinque vani sottotetto, facenti parte del medesimo
fabbricato, destinati a ripostiglio a servizio
dell’appartamento sottostante, della superficie variabile
tra 24 e 39 mq. ciascuno, erano stati trasformati
in immobili ad uso abitativo autonomo,
mediante la eliminazione del collegamento con
l’appartamento sottostante, la realizzazione di un
ingresso dal vano scale condominiale e la dotazione
di servizi, con successivo frazionamento ed alienazione
a terzi (26).
I predetti interventi erano stati eseguiti in base a
DIA, mentre uno dei vani sottotetto era stato destinato
dai proprietari ad uso abitativo, di camera da
letto, mediante il posizionamento del relativo arredo,
senza l’esecuzione di interventi edilizi. In sede
cautelare, il Tribunale del riesame aveva rigettato
l’appello proposto dal PM avverso il provvedimento
del GIP con cui era stata respinta la richiesta del
PM di sequestro preventivo di alcuni immobili, in
particolare osservando che la modificazione della
destinazione d’uso di cinque unità destinate a servizi
in unità abitative non appariva idonea a conferire
un diverso assetto alla pianificazione urbana, dato
che le opere di urbanizzazione erano già previste
dai titoli originari, non comportando la modificazione
la necessità per la pubblica amministrazione
di realizzare ulteriori opere di urbanizzazione. In sostanza,
secondo i giudici del riesame, le condotte
poste in essere dovevano qualificarsi esclusivamente
come abuso edilizio. Contro l’ordinanza proponeva
ricorso per cassazione il PM, in sintesi sostenendo
che il Tribunale avesse erroneamente escluso il reato
di lottizzazione abusiva in base ad un criterio
quantitativo, considerata l’estensione complessiva
degli immobili di poco più di 150 mq. complessivi,
trattandosi di reato di pericolo. La lottizzazione accertata,
a giudizio della Pubblica Accusa, si palesava
inoltre idonea ad incidere sul cosiddetto carico
urbanistico, trattandosi di interventi che, al di là
del formale titolo abilitativo, non avrebbero potuto
mai essere autorizzati, peraltro ponendosi in contrasto
con la destinazione programmata del territorio.
Infine, concludeva il PM, anche nell’ipotesi in cui
fosse stata configurata la sola violazione edilizia,
avrebbe dovuto comunque essere disposta la misura
cautelare, essendo i lavori ancora in corso di esecuzione
in contrasto con le previsioni del regolamento
edilizio comunale.
La tesi è stata respinta dai giudici della Suprema
Corte che hanno condiviso, a nostro avviso correttamente,
le argomentazioni poste a sostegno
dell’ordinanza del Tribunale del riesame. In sintesi,
la Corte ha anzitutto osservato che il reato di
lottizzazione abusiva è configurabile, nell’ipotesi in
cui lo strumento urbanistico generale consenta l’utilizzo
della zona ai fini residenziali, in due casi: a)
quando il complesso alberghiero sia stato edificato
alla stregua di previsioni derogatorie non estensibili
ad immobili residenziali; b) quando la destinazione
d’uso residenziale comporti un incremento
degli ‘‘standards’’ richiesti per l’edificazione alberghiera
e tali ‘‘standards’’ aggiuntivi non risultino
reperibili ovvero reperiti in concreto (27). Ha,
poi, aggiunto che la trasformazione urbanistica o
edilizia del territorio, peraltro, deve risultare di
consistenzataledaincidereinmodorilevantesull’assetto
urbanistico della zona, sia nel senso d’intervento
innovativo sul tessuto urbanistico, che
sotto il profilo della necessità dell’esecuzione di
nuove opere d’urbanizzazione o di potenziamento
Note:
(25) Il richiamo è a Cass. pen., sez. III, 15 febbraio 2007, n.
6396, in Ced Cass., n. 236075; v., tra le tante, da ultimo: Cass.
pen., sez. III, 29 aprile 2009, n. 17865, in Ced Cass., n. 243748.
Le decisioni in questione, peraltro, sono tutte relative a ipotesi
di modifica di destinazione d’uso di residenze turistico alberghiere
in cui le singole unità perdono la originaria destinazione
d’uso alberghiera per assumere quella residenziale.
(26) V., per un primo commento alla sentenza, Piras, Lottizzazione
abusiva? Sì, ma solo se poi è necessaria un’ulteriore opera
di urbanizzazione, inDir. e Giust., 2012, 1038.
(27) Così Cass. pen., sez. III, 7 marzo 2008, n. 24096, in Ced
Cass., n. 240725.
362 Urbanistica e appalti 3/2013

di quelle già esistenti (28). Il reato di lottizzazione
abusiva deve, invece, escludersi - precisa la Cassazione
- con riferimento a zone completamente urbanizzate,
mentre è configurabile con riferimento
a zone parzialmente urbanizzate, in cui sussista
un’esigenza di raccordo con il preesistente aggregato
abitativo e di potenziamento delle opere di urbanizzazione
(29). Orbene, il Tribunale del riesame,
al fine di escludere nel caso in esame l’esistenza
del fumus del reato di lottizzazione abusiva, aveva
evidenziato che l’edificio è destinato ad uso residenziale
ed ubicato in zona per la quale erano già
previsti interventi di urbanizzazione, mentre ha
escluso che la trasformazione ad uso abitativo delle
superfici costituenti sottotetto dell’immobile fosse
idonea a conferire un diverso assetto ad una porzione
del territorio rispetto alla pianificazione originariamente
prevista o rendesse necessaria la realizzazione
di ulteriori opere di urbanizzazione.
Corretta, quindi, per gli Ermellini era la valutazione
del giudice di merito in ordine alla esclusione
del fumus del reato di lottizzazione abusiva (30).
Si tratta di argomentazione assolutamente condivisibile.
Non può, certo, revocarsi in dubbio la rilevanza
penale della trasformazione del sottotetto in
locale residenziale, comportando sicuramente tale
intervento un mutamento di destinazione d’uso.
Anzi, ad una più attenta analisi della questione, più
che di mutamento di destinazione d’uso, si è in presenza
di un vero e proprio conferimento di una destinazione
d’uso abitativa a locali che avevano una
destinazione a ripostiglio. Da ciò deriva che il conferimento
di destinazione d’uso a un locale, originariamente
con destinazione non abitativa, certamente
comporta il mutamento degli standards urbanistici
e l’aumento del carico urbanistico, con correlativa
necessità del preventivo rilascio del titolo abilitativo.
Ma, proprio per tale ragione, la tipologia
d’intervento in esame, mal si concilia con la nozione
di lottizzazione abusiva, sub specie materiale, che
per legge si ha «quando vengono iniziate opere che
comportino trasformazione urbanistica od edilizia
dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli
strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque
stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la
prescritta autorizzazione». È ben vero, però, che in
tale nozione può rientrare il mutamento di destinazione
d’uso di edifici già esistenti in contrasto con
gli strumenti urbanistici, purché tuttavia siano necessari
nuovi interventi di urbanizzazione.
Ed allora, conclusivamente, non ogni mutamento
di destinazione d’uso di un sottotetto in locale
abitabile può integrare, di per sé, una lottizzazione
Penale
Giurisprudenza
abusiva ma solo quell’intervento che, nel porre in
essere la trasformazione della destinazione originaria,
comporti anche un sostanziale aumento del carico
urbanistico rendendo, dunque, necessari nuovi
interventi di urbanizzazione. L’aumento del carico
urbanistico non può infatti, identificarsi con il solo
mutamento della destinazione d’uso, né essere presunto
da parte del giudice, dovendo quest’ultimo
argomentare in ordine all’incidenza dell’abitazione
sull’equilibrio urbanistico e sull’ordinato assetto e
sviluppo del territorio (31).
Note:
(28) Il richiamo è a Cass. pen., sez. IV, 8 luglio 2008, n. 33150,
in Ced Cass., n. 240970.
(29) V. Cass. pen., sez. III, 26 giugno 2008, n. 37472, in Ced
Cass., n. 241097.
(30) V. anche sull’argomento, Cass. pen., sez. III, 17 febbraio
2010, n. 16389, in questa Rivista 2010, 996, con nota di Bisori
Edilizia ed abuso edilizio (differenze).
(31) Così, Cass. pen., sez. II, 5 maggio 2010, n. 17170, in Ced
Cass., n. 246854.
Urbanistica e appalti 3/2013 363

Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
Osservatorio
penale
a cura di ALESSIO SCARCELLA
EDILIZIA E URBANISTICA
IRRILEVANZA DELLA SCIA IN CASO DI INTERVENTI
SU IMMOBILI ABUSIVI MAI SANATI O CONDONATI
Cassazione penale, sez. III, 9 gennaio 2013, n. 1169
In caso di immobile edificato abusivamente e mai sanato
o condonato, pur se i lavori successivamente realizzati
riguardino solo interventi manutentivi, sono irrilevanti,
agli effetti penali, sia l’eventuale presentazione della
cosiddetta SCIA che il tipo di intervento di conservazione
obiettivamente eseguito.
La questione oggetto di attenzione da parte della Suprema
Corte riguarda, nel caso in esame, l’eventuale rilevanza, in
chiave di esclusione della responsabilità penale, nel caso di
intervento non soggetto a permesso di costruire o a super-
DIA eseguito su immobile abusivo in precedenza mai sanato
o condonato. La vicenda processuale trae origine da una richiesta
di riesame avanzata avverso un decreto di sequestro
preventivo disposto su un immobile che si assume essere
stato edificato in assenza del prescritto titolo abilitativo ed in
violazione di vincoli ambientali ed idrogeologici. Contro l’ordinanza
di rigetto dell’istanza, proponeva ricorso per cassazione
l’indagato, sostenendo che il Tribunale non avrebbe minimamente
preso in considerazione la documentazione prodotta
dinanzi ad esso da cui era possibile evincere che - contrariamente
a quanto sostenuto dai giudici di merito - il fumus
commissi delicti non sussisteva perché le opere edilizie
poste in essere dall’indagato erano di mera manutenzione e
conservazione così come da SCIA inviata puntualmente al
Comune senza che, nei 30 giorni successivi, fossero intervenuti
rilievi da parte della p.a.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che, infatti, hanno
respinto il ricorso richiamando l’orientamento giurisprudenziale,
affermato a proposito dell’ormai scomparsa DIA, secondo
cui il regime di denuncia di inizio attività (DIA) non è
applicabile a lavori da eseguirsi su manufatti originariamente
abusivi che non risultino oggetto di condono edilizio o di sanatoria,
atteso che gli interventi ulteriori su immobili abusivi
ripetono le caratteristiche di illegittimità dall’opera principale
alla quale ineriscono strutturalmente (Cass. pen., sez. III, 19
gennaio 2009, n. 1810, in Ced Cass., n. 242269). Trattasi di
orientamento giurisprudenziale senz’altro estensibile alla
nuova SCIA (D.L. n. 78 del 31 maggio 2010, conv. in L. n.
122 del 30 luglio 2010), introdotta a seguito della modifica
dell’art. 19 della L. 241 del 7 agosto 1990 (che ha previsto,
appunto, la segnalazione certificata di inizio attività, che ha
poi sostituito la DIA per effetto del D.L. n. 70 del 13 maggio
2011, conv. in L. n. 106 del 12 luglio 2011).
Nel caso in esame, dunque, essendo emerso con certezza
non solo che l’indagato non aveva nel tempo seguito e sollecitato
l’ultimazione delle procedure di condono, ma anche
che i lavori da questi realizzati riguardavano solo interventi
manutentivi (nuova pavimentazione e reimpermeabilizzazione
della superficie interessata) il vizio originario dell’immobile
era però quello di essere stato edificato abusivamente e,
non essendo mai stato condonato, erano dunque irrilevanti
sia il fatto che egli avesse presentato la cd. SCIA sia il tipo
di intervento di conservazione obiettivamente eseguito.
INTERVENTI EDILIZI ‘‘PERTINENZIALI’’ E LORO (IR)RILEVANZA
PENALE
Cassazione penale, sez. III, 8 gennaio 2013, n. 519
Affinché un manufatto presenti il carattere della pertinenza,
è necessario che abbia una propria individualità,
che sia oggettivamente preordinato a soddisfare le esigenze
di un edificio principale legittimamente costruito,
che sia fornito di autonomo valore di mercato, che abbia
ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di destinazione
autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti
urbanistici vigenti.
La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi, con la sentenza
in commento, sulla natura giuridica del manufatto pertinenziale,
individuando i caratteri che ne consentono l’inquadramento
nella categoria degli interventi edilizi privi di rilevanza
penale. La vicenda processuale trae origine da un procedimento
penale per il reato di cui all’art. 44, lett. b), D.P.R. n.
380 del 2001, contestato all’imputato per avere questi, in assenza
di concessione edilizia, senza permesso di costruire,
abusivamente realizzato con più azioni esecutive di uno
stesso disegno criminoso in un edificio di sua proprietà un
magazzino garage in muratura di circa mq 14,05 e al primo
piano due vani ulteriori rispettivamente di circa mq 12,78 e
mq 18,47, nonché un balcone di metri quadri 12,00 collegato
con il tetto del locale abusivo costruito al piano terra. In sede
di merito, l’imputato, previa riqualificazione del fatto nel reato
di cui all’art. 44, lett. a), D.P.R. n. 380 del 2001, in luogo
dell’art. 44, lett. b) effettuata sul presupposto di realizzazione
di una pertinenza, era stato dichiarato colpevole e condannato
alla sola pena dell’ammenda. Contro la sentenza di condanna
proponeva ricorso per cassazione la Procura Generale
della Repubblica presso la Corte d’appello, adducendo quale
unico motivo l’erronea qualificazione della contravvenzione
contestata, non sussistendo pertinenza bensì ampliamento
volumetrico del precedente fabbricato, che pertanto richiede
il rilascio di permesso.
La prospettazione accusatoria è stata accolta dalla Corte di
Cassazione che ha, infatti, annullato con rinvio la sentenza
impugnata osservando che la dimensione e la conformazione
delle strutture costruite, tali da renderle parte integrante
dell’edificio e da aumentarne la volumetria, dimostravano
l’insussistenza dei presupposti per la loro qualificazione come
pertinenza, e quindi la necessità del rilascio di permesso,
come correttamente prospettato nel ricorso. La decisione
364 Urbanistica e appalti 3/2013

merita ampia e convinta condivisione, soprattutto tenuto
conto del fatto che la stessa si inserisce in un filone giurisprudenziale
di legittimità collaudato (e consolidato), secondo
cui in materia edilizia, affinché un manufatto presenti il
carattere della pertinenza si richiede che abbia una propria
individualità, che sia oggettivamente preordinato a soddisfare
le esigenze di un edificio principale legittimamente edificato,
che sia sfornito di autonomo valore di mercato, che abbia
ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di destinazione
autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti
urbanistici vigenti (v., da ultimo, in senso conforme: Cass.
pen., sez. III, 3 luglio 2012, n. 25669, in Ced Cass., n.
253064).
LE DIFFERENZE ‘‘ONTOLOGICHE’’ TRA IL CONDONO
E LA SANATORIA
Cassazione penale, sez. III, 8 gennaio 2013, n. 506
Gli istituti della sanatoria e del condono edilizio sono
tra loro differenti, in quanto la fattispecie penale estintiva,
oggi contemplata dall’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001,
presuppone l’accertamento dell’inesistenza del danno
urbanistico a mezzo della verifica della doppia conformità
agli strumenti urbanistici vigenti, sia al momento del
rilascio della concessione in sanatoria sia al momento
della realizzazione dell’opera; diversamente, l’istituto
del condono prescinde dal rilascio del provvedimento
concessorio essendo autonomo e di natura transitoria, e
fondandosi sul limite temporale da un lato e, sull’oblazione,
dall’altro.
La Corte Suprema coglie l’occasione, nell’esaminare la questione
sottoposta alla sua attenzione, per delimitare il campo
di applicazione dell’istituto del condono edilizio e di quello
della sanatoria edilizia, troppo spesso confusi nella pratica
applicazione. La vicenda processuale trae origine da una
sentenza di condanna per violazioni edilizie e antisismiche,
in particolare consistenti nell’aver realizzato una costruzione
edilizia abusiva, costituita da una ristrutturazione in totale difformità
di due manufatti a tre elevazioni fuori terra con la
struttura in cemento armato, trasformati in un’unica struttura
abitativa estesa circa 75 mq. e alta m. 9, senza il prescritto
permesso di costruire e, appunto in violazione delle norme
antisismiche, senza l’autorizzazione dell’Ufficio del Genio Civile,
con mancato rispetto delle prescrizioni tecniche per le
zone sismiche e con omessa denuncia dell’inizio dei lavori.
Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per Cassazione
la difesa del condannato, sostenendo che, avendo
egli presentato già prima della sentenza un’istanza di sanatoria,
i reati si sarebbero estinti e si sarebbe dovuto pronunciare
sentenza di non doversi procedere.
La tesi è stata respinta dai giudici di legittimità che, sul punto,
nel dichiarare inammissibile il ricorso per genericità, hanno
correttamente osservato come il ricorrente invoca in una
confusa commistione sia la sanatoria edilizia L. n. 47 del
1985, ex art. 13 - oggi D.P.R. n. 380 del 2001, art. 36 - sia il
condono di cui al D.L. n. 269 del 2003 convertito con modifiche
in L. n. 326 del 2003. Questi, infatti, sosteneva che «in
base al disposto della L. n. 326 del 2003, artt. 36 e ss., e L.
n. 47 del 1985, art. 38 il rilascio della concessione edilizia ai
sensi dell’art. 13 da parte della p.a. ... comporta l’estinzione
dei reati». In realtà, precisano condivisibilmente gli Ermellini,
trattasi di istituti differenti, in quanto la fattispecie penale
estintiva di cui al capo primo della L. 28 febbraio 1985, n.
Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
47, e in particolare di cui all’art. 13, come è noto ora riversato
nell’art. 36 del Testo Unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia, presuppone l’accertamento
dell’inesistenza del danno urbanistico a mezzo della verifica
della doppia conformità agli strumenti urbanistici vigenti sia
al momento del rilascio della concessione in sanatoria sia al
momento della realizzazione dell’opera (v., sul punto: Cass.
pen., sez. III, 18 dicembre 2003, n. 48499; Cass. pen., sez.
III, 18 marzo 2002, n. 11149) laddove l’istituto del condono
(previsto dal capo quarto della L. n. 47 del 1985, artt. 31 ss.,
e successivamente riproposto dalla L. n. 724 del 1994 e seguenti
modifiche nonché infine dalla già richiamata normativa
del 2003, a sua volta soggetta successive modifiche di
proroga del termine) prescinde dal rilascio del provvedimento
concessorio essendo autonomo e di natura transitoria, e
fondandosi sul limite temporale da un lato e sull’oblazione
dall’altro (cfr. Cass. pen., sez. III, 28 settembre 1988, n.
10307). Sanzione processuale conseguente all’ambiguità
evidente connotante tutto il motivo, privandolo di specificità
e chiarezza, è quella dell’inammissibilità per genericità.
PERTINENZE ED AGEVOLE AMOVIBILITÀ: NO AL CRITERIO
STRUTTURALE
Cassazione penale, sez. III, 7 gennaio 2013, n. 180
Ai fini del riscontro del connotato della precarietà e della
relativa esclusione della modifica dell’assetto del territorio,
non sono rilevanti le caratteristiche costruttive, i
materiali impiegati e l’agevole rimovibilità, ma le esigenze
temporanee alle quali l’opera eventualmente assolva.
Altra decisione della Corte sul tema della natura pertinenziale
dell’intervento edilizio, stavolta, però, applicata con riferimento
al regime di favore previsto dalla disciplina edilizia fissata
dalla regione Sicilia. La vicenda processuale vedeva imputati
del reato edilizio e antisismico due soggetti ai quali
era stato addebitato di avere realizzato, in qualità di committenti,
una trasformazione edilizia ed urbanistica in assenza di
concessione edilizia, con una sopraelevazione di un manufatto,
mediante innalzamento dell’esistente parapetto in muratura
di un lastrico solare con blocchi di pomicemento e
realizzazione di muri perimetrali e copertura in lamierino coibentato,
oltre a dodici pilastri, con violazione della disciplina
sulle opere in cemento armato. Contro la sentenza di condanna
proponeva ricorso per cassazione la difesa degli imputati,
sostenendo che i giudici di merito non avrebbero tenuto
conto del fatto che le opere realizzate rientravano in quelle
soggette ad autorizzazione ai sensi della L.R. siciliana n. 37
del 1985, art. 5 e della L.R. n. 4 del 2003, art. 20, ottenuta,
nel caso di specie, per il mantenimento della copertura del
lastrico solare con struttura precaria, oltre a lavori interni: l’opera
andava quindi considerata precaria attesa l’agevole
amovibilità, indipendentemente dall’uso della stessa.
La tesi difensiva, pur suggestiva, non ha però superato il rigoroso
vaglio dei giudici della Suprema Corte. Muovendo
dalla norma regionale invocata dai ricorrenti (L.R. Sicilia 16
aprile 2003, n. 4, art. 20), i giudici hanno osservato come
detta disposizione disciplina: a) la chiusura di terrazze di collegamento
e/o copertura di spazi interni con strutture precarie;
b) la realizzazione di verande, definite come «chiusure o
strutture precarie relative a qualunque superficie esistente
su balconi, terrazze e anche tra fabbricati»; c) la realizzazione
di altre strutture, comunque denominate (a titolo esemplifi-
Urbanistica e appalti 3/2013 365

Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
cativo si fa riferimento a tettoie, pensiline e gazebo), che
vengono assimilate alle verande, a condizione che ricadano
su aree private, siano realizzate con strutture precarie e siano
aperte da almeno un lato. Secondo la predetta norma gli
interventi descritti non sono considerati aumento di superficie
utile o di volume né modifica della sagoma della costruzione
e sono da considerare strutture precarie tutte quelle
realizzate in modo tale da essere suscettibili di facile rimozione.
Pertanto, nell’individuare alcune opere precarie non
soggette, in via di eccezione, a permesso di costruire la legge
regionale fa riferimento ad un ‘‘criterio strutturale’’ (la facile
rimovibilità) piuttosto che al ‘‘criterio funzionale’’ (l’uso
temporaneo e provvisorio). Orbene, osservano gli Ermellini
come tali disposizioni non possono essere applicate al di
fuori dei casi espressamente previsti e vanno interpretate in
modo restrittivo in ordine alla suscettibilità di facile rimozione
(v., ad es.: Cass. pen., sez. III, 27 maggio 2009, n.
22054, in Ced Cass., n. 243710). Nel caso di specie, dunque,
gli imputati avevano realizzato non già un’opera precaria,
ma un vero e proprio ampliamento di un manufatto preesistente
mediante innalzamento, sicché, tenuto conto della
tipologia dell’intervento e dei materiali utilizzati, non poteva
avere alcuna applicazione la richiamata disciplina regionale
relativa alla sufficienza dell’autorizzazione L.R. n. 4 del 2003,
ex art. 20.
REATI EDILIZI
INAPPLICABILITÀ DEL SEQUESTRO PREVENTIVO
PER L’ATTUAZIONE DI (FUTURE) MISURE RIPRISTINATORIE
Cassazione penale, sez. III, 10 gennaio 2013, n. 1262
In relazione a reati edilizi o paesaggistici, non è possibile
disporre un sequestro preventivo finalizzato solo alla futura
demolizione o rimessione in pristino dello stato dei
luoghi che potranno eventualmente essere disposte con
la sentenza di condanna.
La Corte Suprema si occupa, con la sentenza qui esaminata,
di una questione processuale di particolare rilievo, inerente
il possibile, lecito, utilizzo del provvedimento cautelare
rappresentato dal sequestro preventivo per finalità diverse
da quelle cautelari sue proprie. La vicenda processuale
trae origine dal sequestro preventivo di due edifici già ultimati
ed abitati, disposto in relazione al reato di lottizzazione
abusiva ed al delitto paesaggistico di cui all’art. 181, comma
1-bis, D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 ed ai sensi sia dell’art.
321 c.p.p., comma 2, in funzione della futura confisca
obbligatoria per il reato di lottizzazione abusiva, sia ai sensi
dell’art. 321, comma 1, stante l’esigenza cautelare di impedire
le conseguenze dannose del reato. Circa il fumus dei
reati, il GIP lo aveva ritenuto esistente perché gli immobili
erano stati realizzati con regolare permesso di costruire e
relativa variante, ma senza autorizzazione paesaggistica (la
quale era necessaria per essere la zona sottoposta a vincolo
perché situata entro 150 m. da un fiume) e senza un piano
di lottizzazione o un piano attuativo (che erano invece
necessari ai sensi della L. n. 1150 del 1942, art. 41-quinquies,
comma 6, perché la densità fondiaria della zona era
di 4,09 mc/mq, ossia superiore a tre metri cubi per metro
quadrato). Gli attuali proprietari degli appartamenti non erano
indagati e vennero nominati custodi dei beni sequestrati.
Contro il provvedimento di rigetto dell’istanza di riesa-
me, proponevano ricorso per cassazione i proprietari, terzi
di buona fede, censurando il provvedimento di rigetto, per
quanto qui di interesse, sotto il profilo della violazione dell’art.
321 c.p.p., in quanto il sequestro preventivo risultava
essere stato disposto, nella sostanza, per assicurare la futura
esecuzione dell’ordine di rimessione in pristino dello
stato dei luoghi, scopo estraneo alle finalità del provvedimento
cautelare.
La tesi è stata accolta dai giudici della Suprema Corte che,
sul punto, hanno annullato l’ordinanza impugnata. In particolare,
correttamente la Corte ha ritenuto illegittimo il sequestro
disposto in quanto finalizzato alla futura eventuale
demolizione o rimessione in pristino dei manufatti abusivi.
Sul punto, infatti, bene osservano i giudici di Piazza Cavour
che, in relazione a reati edilizi o paesaggistici, il sequestro
preventivo è funzionale al processo di merito e non può essere
utilizzato per anticipare le sanzioni amministrative accessorie
della demolizione o dell’acquisizione alla pubblica
amministrazione della porzione di manufatto (Cass. pen.,
sez. III, 6 luglio 2004, n. 29203, in Ced Cass., n. 229489;
contra, però, con riferimento ad un sequestro preventivo
disposto per impedire la perpetrazione dell’illecito amministrativo
sanzionato dall’art. 221 del T.U. delle leggi sanitarie:
Cass. pen., sez. III, 3 febbraio 2011, n. 3885, in Ced
Cass., n. 249166).
NECESSARIA L’AUTORIZZAZIONE UNICA REGIONALE
PER REALIZZARE ED ESERCIRE UN IMPIANTO ALIMENTATO
DA FONTI RINNOVABILI
Cassazione penale, sez. III, 10 gennaio 2013, n. 1260
L’autorizzazione unica regionale, prevista dall’art. 12,
comma 3, della L. 29 dicembre 2003, n. 387, è richiesta
non solo per la costruzione, ma anche per l’esercizio degli
impianti di produzione di energia elettrica da fonti
rinnovabili; ne consegue che la mancanza del titolo abilitativo
impedisce anche l’esercizio dell’impianto ed è
soggetta alla sanzione penale prevista dall’art. 44,
D.P.R. n. 380 del 2001 (Fattispecie relativa al sequestro
preventivo di impianto fotovoltaico).
Senza alcun dubbio di particolare interesse la questione affrontata
dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame,
relativa alla necessità o meno del titolo abilitativo per la realizzazione
e l’esercizio di un impianto di produzione di energia
elettrica alimentato da fonti rinnovabili. La vicenda processuale
trae origine dal sequestro preventivo di alcuni impianti
di produzione di energia elettrica tramite conversione
fotovoltaica, in relazione al reato di cui al D.P.R. n. 380 del
2001, art. 44, lett. c), in quanto i due impianti erano da considerarsi
in realtà un unico impianto di potenza nominale complessiva
di 2 MWe, realizzati in assenza della prescritta autorizzazione
unica regionale e del permesso di costruire, eludendo
il regime abilitativo richiesto dalla vigente normativa
mediante l’avvio di due distinte procedure semplificate e
due distinte denunzie di inizio attività. Gli interessati formularono
richiesta di riesame. Con una successiva ordinanza il tribunale
del riesame di Brindisi aveva però annullato il provvedimento,
disponendo la restituzione dei beni, per mancanza
del periculum in mora. Contro l’ordinanza proponeva ricorso
per Cassazione il Procuratore della Repubblica deducendo,
per quanto qui di interesse, la violazione della L. 29 dicembre
2003, n. 387 (art. 12, comma 3), sostenendo che l’autorizzazione
unica regionale è prevista non solo per la costru-
366 Urbanistica e appalti 3/2013

zione ma anche per l’esercizio degli impianti di produzione di
energia elettrica da fonti rinnovabili; in difetto di tale titolo
abilitativo, dunque, sarebbe impedito anche l’esercizio dell’impianto,
con conseguente configurabilità del reato di cui
all’art. 44, lett. c), del D.P.R. n. 380 del 2001, sussistendo
comunque il requisito del periculum in mora poiché la volontà
del legislatore è quella di sottoporre la realizzazione e l’esercizio
di tali impianti ad uno stringente controllo amministrativo
che non è limitato alla sola fase della costruzione
ma anche, e soprattutto, alla fase successiva del suo esercizio.
Tesi, questa, accolta dalla Suprema Corte che, sul punto, ha
dato ragione alla Pubblica Accusa, annullando con rinvio l’ordinanza
impugnata. In particolare, ha osservato la Corte,
l’art. 12, comma 3, del D.Lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione
della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione
dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili
nel mercato interno dell’elettricità), dispone che «La costruzione
e l’esercizio degli impianti di produzione di energia
elettrica alimentati da fonti rinnovabili ... nonché le opere
connesse e le infrastrutture indispensabili alla costruzione e
all’esercizio degli impianti stessi, sono soggetti ad una autorizzazione
unica, rilasciata dalla regione o altro soggetto istituzionale
delegato dalla regione, nel rispetto delle normative
vigenti in materia di tutela dell’ambiente, di tutela del paesaggio
e del patrimonio storico-artistico». Analoga disposizione
reca ora l’art. 5, comma 1, del D.Lgs. 3 marzo 2011, n.
28 (Attuazione della direttiva 2009/28/CE sulla promozione
dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e
successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/
30/CE). L’autorizzazione unica regionale, pertanto, secondo
gli Ermellini, è espressamente qualificata dalla disposizione
in esame come necessaria non solo per la costruzione degli
impianti e delle opere ed infrastrutture connesse, ma altresì
per l’esercizio degli impianti stessi. È evidente, infatti, la ratio
della norma, costituita dalla finalità che il controllo amministrativo
da parte dell’ente regionale competente venga assicurato
non solo nella fase della costruzione dell’impianto
fotovoltaico, ma anche e soprattutto nella fase del suo esercizio.
Da qui, dunque, la rilevanza anche sotto il profilo del
periculum in mora, che giustificava l’adozione del sequestro
con finalità cautelari (in precedenza, nel senso che per il
mantenimento del sequestro preventivo di impianti fotovoltaici
realizzati in zona agricola sono necessari la mancanza
del titolo abilitativo previsto dalla legge ed il pericolo di compromissione
della zona interessata dall’intervento, derivante
dal completamento e dall’attivazione delle attrezzature senza
verifica del rispetto delle prescrizioni urbanistiche e della
compatibilità ambientale, v. Cass. pen., sez. III, 15 novembre
2012, n. 44494, in Ced Cass., n. 253602).
LOTTIZZAZIONE ABUSIVA E MANCANZA DEL PIANO
DI LOTTIZZAZIONE
Cassazione penale, sez. III, 10 gennaio 2013, n. 1259
In tema di lottizzazione abusiva, non può essere considerato
legittimo un intervento urbanistico eseguito senza
un piano di lottizzazione, in mancanza di una rigorosa
prova della preesistenza e sufficienza delle opere di
urbanizzazione primaria, che rendano del tutto superfluo
lo strumento attuativo (In motivazione la Corte, investita
della questione in sede cautelare, ha, inoltre, affermato
che in relazione al fumus delicti del reato di lottizzazione
abusiva, la valutazione del grado di urbaniz-
Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
zazione di un’area costituisce questione di fatto, non
sindacabile in sede di legittimità).
La Corte Suprema torna a pronunciarsi, con la sentenza in
esame, sul reato di lottizzazione abusiva, soffermandosi sulla
configurabilità del predetto reato in presenza di un intervento
edilizio eseguito in assenza di piano di lottizzazione.
La vicenda processuale segue al provvedimento con cui il
Tribunale del riesame aveva rigettato il riesame proposto avverso
il decreto di convalida di sequestro preventivo emesso
dal GIP presso il medesimo Tribunale nell’ambito di un procedimento
penale nei confronti dell’amministratore di una
società immobiliare, indagato del reato di lottizzazione abusiva
per la realizzazione in corso di un complesso residenziale,
ricavato dalla demolizione e ricostruzione di due fabbricati
preesistenti, con ampliamento volumetrico del 35% di un
fabbricato e mutamento di destinazione d’uso del secondo
fabbricato da artigianale a residenziale senza idoneo permesso
a costruire e senza autorizzazione paesaggistica. Contro
l’ordinanza di rigetto proponeva ricorso per cassazione la difesa
dell’indagato sostenendo, per quanto qui di interesse,
quanto alla contestata lottizzazione abusiva, l’insussistenza
del reato e la conformità dell’intervento edilizio alla Legge
Regionale sul Piano casa, atteso che - secondo la prospettazione
difensiva -, in assenza di opere di urbanizzazione da
porre in essere, non sarebbe necessario il piano di lottizzazione,
in quanto o la p.a. ha verificato la sufficienza delle
opere di urbanizzazione già esistenti o è possibile monetizzare
per equivalente, come sarebbe avvenuto nel caso di specie.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che hanno, infatti,
respinto il ricorso affermando che non può essere considerato
legittimo un intervento urbanistico eseguito senza un piano
di lottizzazione, in mancanza di una rigorosa prova della
preesistenza e sufficienza delle opere di urbanizzazione primaria,
che rendano del tutto superfluo lo strumento attuativo.
Ricorda, sul punto, la Corte che il reato di lottizzazione
abusiva può essere realizzato «non soltanto in zone assolutamente
inedificate, ma anche in quelle parzialmente urbanizzate
nelle quali si evidenzia l’esigenza di raccordo con
l’aggregato abitativo preesistente o di potenziamento delle
opere di urbanizzazione pregresse, cosi che per escluderlo
deve essersi verificata una situazione di pressoché completa
e razionale edificazione della zona, tale da rendere del tutto
superfluo un piano attuativo» (cfr. Cass. pen., sez. III, 13 giugno
2011, n. 23646, in Ced Cass., n. 250521 e sez. III, 19
settembre 2008, n. 35880, in Ced Cass., n. 241031); inoltre,
ricorda la Corte, trattasi di reato a condotta libera, per cui
può realizzarsi con varie modalità mediante operazioni con
cui il suolo è abusivamente utilizzato per la realizzazione di
una pluralità d’insediamenti residenziali e, in particolare, sia
in presenza di un intervento sul territorio tale da comportare
una nuova definizione dell’assetto preesistente in zona non
sufficientemente urbanizzata - per cui esiste la necessità di
attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale attraverso
la redazione e la stipula di una convenzione lottizzatoria
adeguata alle caratteristiche dell’intervento di nuova
realizzazione - sia quando detto intervento non potrebbe in
nessun caso essere realizzato poiché, per le sue connotazioni
oggettive, si pone in contrasto con previsioni di zonizzazione
e/o di localizzazione dello strumento generale di pianificazione
che non possono essere modificate da piani urbanistici
attuativi (Cfr. Sez. Un., 8 febbraio 2002, n. 5115, in Ced
Cass., n. 220708; sez. III, 12 ottobre 2005, n. 36940, in Ced
Cass., n. 232188).
Urbanistica e appalti 3/2013 367

Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
REALIZZAZIONE DI UN IPPODROMO E CONFIGURABILITÀ
DELLA LOTTIZZAZIONE ABUSIVA
Cassazione penale, sez. III, 8 gennaio 2013, n. 526
Può senz’altro configurarsi il reato di lottizzazione abusiva
attraverso la modifica di destinazione d’uso di immobili
oggetto di un piano di lottizzazione mediante il
frazionamento di un complesso immobiliare in modo
che le singole unità perdano la originaria destinazione
d’uso per assumere quella residenziale: modificazione
che si pone in contrasto con lo strumento urbanistico
costituito dal piano di lottizzazione.
Del tutto particolare la questione affrontata dalla Suprema
Corte con la sentenza in esame, in cui i giudici di legittimità
si sono trovati di fronte ad una particolare forma di manifestazione
dell’illecito lottizzatorio attuato, nella specie, mediante
il mutamento della destinazione d’uso di numerosi locali
da adibire a foresteria, a fronte di un piano di lottizzazione
che assentiva la realizzazione di locali a servizio di un ippodromo.
La vicenda processuale trae origine dal sequestro
preventivo nei riguardi del legale rappresentante di una
s.p.a. per il reato di lottizzazione abusiva in relazione alla realizzazione,
all’interno di un ippodromo, di n. 167 locali da adibire
a foresterie. Il Tribunale del riesame, nel respingere l’istanza
proposta dall’indagato, dopo aver ricostruito sotto il
profilo storico fattuale le fasi salienti della vicenda processuale
sia con riferimento agli aspetti amministrativi-pubblicistici,
sia con riferimento agli aspetti più propriamente civilistici,
riteneva sussistente l’ipotesi del reato di lottizzazione
abusiva desumendola da tre contratti preliminari di vendita
aventi complessivamente ad oggetto la promessa di vendita
del diritto di superficie di 13 unità immobiliari indicate all’interno
dell’ippodromo in favore di alcuni soggetti. In particolare,
il nucleo fondante dell’abuso edilizio veniva individuato
nella modificazione della destinazione d’uso dei detti locali
promessi in vendita i quali, anziché essere destinati ad essere
utilizzati da soggetti funzionalmente collegati con le attività
del nuovo impianto, erano in realtà destinati ad essere utilizzati
da soggetti del tutto estranei a tali attività e come alloggi
privati. Contro l’ordinanza di rigetto, proponeva ricorso
per cassazione l’indagato, sostenendo, per quanto qui di interesse,
che il Tribunale aveva erroneamente qualificato la
condotta in quanto oggetto del presunto frazionamento - come
tale insussistente - non era la vendita del suolo, ma del
diritto di superficie, con conseguente materiale impossibilità
di configurare un frazionamento dei terreni sui quali quelle
costruzioni, da tempo esistenti, insistevano.
La censura non è stata ritenuto meritevole di pregio da parte
della Cassazione che ha, infatti, respinto il ricorso. In particolare,
secondo i giudici di legittimità, sièdi fronte ad una sostanziale
elusione del vincolo ad opera non solo del concessionario,
ma anche soggetti facenti parte dell’ambito comunale,
progredita nel tempo: con tale condotta, per la Corte,
si è realizzata quella modifica di destinazione d’uso coessenziale
all’ipotizzato reato di lottizzazione abusiva negoziale che
costituisce il nucleo del fumus commissi delicti. In altri termini,
la condotta di lottizzazione andava individuata nella attribuzione
di un regime giuridico di utilizzazione e commercializzazione
frazionata genericamente residenziale ad un
complesso immobiliare gravato da vincoli di natura pubblicistica
per la salvaguardia di un interesse pubblico cui quella
struttura era (ed è) destinata. In sintesi, l’intera manovra elusiva
posta in essere dall’indagato, sebbene mascherata da
una clausola che solo apparentemente appariva limitativa
della fruibilità indifferenziata dei locali da parte di terzi, in
realtà prevedeva (e prevede) una possibilità di fruizione indiscriminata,
al di fuori di ogni controllo e destinata anche ad
essere oggetto di negoziazioni. Da qui, dunque, la pacifica
applicabilità della giurisprudenza di legittimità che, sul punto,
afferma che può senz’altro configurarsi il reato di lottizzazione
abusiva attraverso la modifica di destinazione d’uso di immobili
oggetto di un piano di lottizzazione mediante il frazionamento
di un complesso immobiliare in modo che le singole
unità perdano la originaria destinazione d’uso per assumere
quella residenziale: modificazione che si pone in contrasto
con lo strumento urbanistico costituito dal piano di lottizzazione
(v., tra le tante, da ultimo: Cass. pen., sez. III, 29 aprile
2009, n. 17865, in Ced Cass., n. 243748).
368 Urbanistica e appalti 3/2013

INDICE DEGLI AUTORI
D’Angelo Giovanni
La documentazione antimafia nel D.Lgs. 6 settembre
2011, n. 159: profili critici ............................ 256
De Lucia Francesco
Il RUP cardine del procedimento di verifica dell’anomalia
dell’offerta ........................................... 334
De Nictolis Rosanna
La riforma del Codice appalti ............................ 253
Ferrari Giulia
Osservatorio amministrativo ............................. 351
Ferrero Antonella
Osservatorio civile ......................................... 327
Foà Sergio
Le novità della legge anticorruzione ....................
Franco Italo
Il riparto di giurisdizione in tema di acquisizione sa-
293
nante anche dopo l’art. 42-bis T.U. 327/2001 .........
Ieva Lorenzo
319
La nuova disciplina dei parcheggi pertinenziali .......
Leggiadro Francesco
In house: il controllo analogo congiunto degli enti so-
268
ci..............................................................
Maiellaro Giuseppe Fabrizio
Il nuovo quadro normativo della responsabilità soli-
310
dale negli appalti pubblici .................................
Manzi Andrea
La struttura trifasica del procedimento di verifica del-
277
l’anomalia ...................................................
Scarcella Alessio
342
Osservatorio penale ....................................... 364
Trasformazione di sottotetto in locale abitabile:
quando è lottizzazione abusiva? .........................
Sempreviva Maria Teresa
357
Osservatorio costituzionale ..............................
Tarantino Luigi
315
Osservatorio amministrativo ............................. 351
INDICE CRONOLOGICO
Legislazione
6 novembre 2012, L. n. 190 ............................. 293
Giurisprudenza
Corte UE
29 novembre 2011, sez. III, C-182/11 e C-183/11 .... 307
Corte costituzionale
6 novembre 2012, ric. Pres. Cons. Ministri n. 178 ... 316
21 dicembre 2012, ric. Pres. Cons. Ministri n. 193 .. 315
23 gennaio 2013, n. 6 ....................................
Consiglio di Stato
315
19 novembre 2012, sez. V, n. 5846 .................... 340
29 novembre 2012, Ad. Plen., n. 36 ................... 330
7 gennaio 2013, sez. III, ord. n. 25 ..................... 351
10 gennaio 2013, Ad. Plen., n. 1 ........................ 354
10 gennaio 2013, sez. V, n. 90 ..........................
Tribunali amministrativi regionali
351
16 gennaio 2013, Napoli, sez. I, n. 337 ................ 353
17 gennaio 2013, Napoli, sez. VIII, n. 343 .............
Corte di Cassazione civile
352,
353
12 ottobre 2012, Sez. Un., n. 17405 ................... 317
14 dicembre 2012, sez. II, n. 23019 .................... 327
21 dicembre 2012, sez. I, n. 23711 .................... 329
3 gennaio 2013, sez. I, n. 27 ............................ 328
8 gennaio 2013, sez. III, n. 193 ......................... 328
9 gennaio 2013, sez. I, n. 342 ...........................
Corte di Cassazione penale
327
22 novembre 2012, sez. III, n. 45732 .................. 355
7 gennaio 2013, sez. III, n. 180 ......................... 365
8 gennaio 2013, sez. III, n. 506 ......................... 365
8 gennaio 2013, sez. III, n. 519 ......................... 364
8 gennaio 2013, sez. III, n. 526 ......................... 368
9 gennaio 2013, sez. III, n. 1169 ........................ 364
10 gennaio 2013, sez. III, n. 1259 ...................... 367
10 gennaio 2013, sez. III, n. 1260 ...................... 366
10 gennaio 2013, sez. III, n. 1262 ...................... 366
INDICE ANALITICO
Appalti e lavori pubblici
Antimafia
La documentazione antimafia nel D.Lgs. 6 settembre
2011, n. 159: profili critici di G. D’Angelo ......... 256
Avvalimento
Cons. Stato, sez. V, 10 gennaio 2013, n. 90 (Oss.
amm.) ....................................................... 351
Efficacia dei contratti
Cons. Stato, sez. III, 7 gennaio 2013, ord. n. 25
(Oss. amm.) ................................................ 351
Gara
T.A.R. Napoli, sez. VIII, 17 gennaio 2013, n. 343
(Oss. amm.) ................................................ 352,
353
In house providing
Urbanistica e appalti
Indici
In house: il controllo analogo congiunto degli enti soci
(Corte UE, sez. III, 29 novembre 2011, C-182/11 e
C-183/11) il commento di F. Leggiadro ................ 307
Urbanistica e appalti 3/2013 369

Urbanistica e appalti
Indici
Offerta
T.A.R. Napoli, sez. I, 16 gennaio 2013, n. 337 (Oss.
amm.) ........................................................ 353
Offerte anomale
Il RUP cardine del procedimento di verifica dell’anomalia
dell’offerta (Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre
2012, n. 36) il commento di F. De Lucia .......... 330
La struttura trifasica del procedimento di verifica dell’anomalia
(Cons. Stato, sez. V, 19 novembre 2012,
n. 5846) il commento di A. Manzi ....................... 340
Raggruppamento temporaneo di imprese
Cass. civ., sez. I, 9 gennaio 2013, n. 342 (Oss. civ.) . 327
Responsabilità
Il nuovo quadro normativo della responsabilità solidale
negli appalti pubblici di G.F. Maiellaro ............ 277
Atti amministrativi
Anticorruzione
Le novità della legge anticorruzione (L. 6 novembre
2012, n. 190) il commento di S. Foà ................... 293
Edilizia e urbanistica
Distanze
Corte cost., 23 gennaio 2013, n. 6 (Oss. cost.) ....... 315
Parcheggi
La nuova disciplina dei parcheggi pertinenziali di L.
Ieva .......................................................... 268
Pertinenze
Cass. pen., sez. III, 7 gennaio 2013, n. 180 (Oss.
pen.) ......................................................... 365
Cass. pen., sez. III, 8 gennaio 2013, n. 519 (Oss.
pen.) ......................................................... 364
Sanatoria
Cass. pen., sez. III, 8 gennaio 2013, n. 506 (Oss.
pen.) ......................................................... 365
Titoli abilitativi
Cass. pen., sez. III, 9 gennaio 2013, n. 1169 (Oss.
pen.) ......................................................... 364
Espropriazione per p.i.
Decreto di occupazione
Cass. civ., sez. III, 8 gennaio 2013, n. 193 (Oss.
civ.) ........................................................... 328
Occupazione appropriativa
Il riparto di giurisdizione in tema di acquisizione sanante
anche dopo l’art. 42-bis T.U. 327/2001 (Cass.
civ., Sez. Un., 12 ottobre 2012, n. 17405) il commento
di I. Franco ......................................... 317
Cass. civ., sez. I, 21 dicembre 2012, n. 23711 (Oss.
civ.) ........................................................... 329
Cass. civ., sez. I, 3 gennaio 2013, n. 27 (Oss. civ.) .. 328
Processo amministrativo
Azione revocatoria
Cons. Stato, Ad. Plen., 10 gennaio 2013, n. 1 (Oss.
amm.) ....................................................... 354
Reati edilizi
Autorizzazione unica regionale
Cass. pen., sez. III, 10 gennaio 2013, n. 1260 (Oss.
pen.) .........................................................
Lottizzazione abusiva
366
Trasformazione di sottotetto in locale abitabile:
quando è lottizzazione abusiva? (Cass. pen., sez. III,
22 novembre 2012, n. 45732) il commento di A.
Scarcella ....................................................
Cass. pen., sez. III, 8 gennaio 2013, n. 526 (Oss.
355
pen.) ......................................................... 368
Cass. pen., sez. III, 10 gennaio 2013, n. 1259 (Oss.
pen.) ......................................................... 367
Sequestro preventivo
Cass. pen., sez. III, 10 gennaio 2013, n. 1262 (Oss.
pen.) ......................................................... 366
370 Urbanistica e appalti 3/2013