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diARCh - UniCA Eprints

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d i ARCh<br />

dipartimento di architettura - università di cagliari<br />

dottorato di ricerca in architettura - xxiv ciclo<br />

infrastrutture, entrambe fanno uso della tecnica costruttiva<br />

migliore disponibile al momento della loro costruzione (intesa<br />

su un piano di rapporto tra costo e beneficio), entrambe<br />

sembrano tralasciare qualsiasi componete estetica in favore<br />

di una funzionalità estrema.<br />

Risulta chiara e ovvia l’opinione che una struttura quale un<br />

ponte di un acquedotto romano non possa essere messa in<br />

discussione anche se ha dismesso la sua funzione di veicolare<br />

l’acqua. La ragione più evidente è la storicizzazione del<br />

manufatto divenuto parte integrante di qualsiasi ambiente<br />

naturale o antropizzato che lo intersechi.<br />

Risulta assai poco chiaro se il medesimo approccio possa<br />

essere dedicato ad una diga quando essa esaurisce la sua<br />

funzione di sbarramento; ancora meno quando questa è in<br />

esercizio.<br />

Un caso di cui spesso si riutilizzerà la sua validità di esempio<br />

è la diga di Santa Chiara costruita sul Tirso (Sardegna) tra<br />

il 1918 e il 1924 con una struttura a voltine in calcestruzzo<br />

armato e speroni in muratura. Con i suoi 70 metri di<br />

altezza e i 400 milioni di mc invasati è stato a lungo il più<br />

esteso bacino artificiale d’Europa ed è tuttora la più alta<br />

struttura in riferimento al sistema costruttivo. Fu esempio e<br />

icona della operosità del Regime Fascista nelle politiche di<br />

bonifiche ambientali e della nascente industrializzazione del<br />

meridione d’Italia. Una diga dunque carica di significati in<br />

cui l’interazione tra la storicizzazione in quanto bene identitario<br />

di una intera regione ed una felice soluzione formale,<br />

la cui forma arche tipa dell’ acquedotto romano la rende<br />

parte integrante e familiare del paesaggio – come se fosse<br />

sempre stata in quei luoghi -, produce un oggetto che è in<br />

sé affettivo e architettonico, ovvero una icona. Tuttavia a<br />

seguito di lesioni manifestatesi sui contrafforti si è ritenuto<br />

di operare una dismissione della stessa dimezzandone la<br />

capacità di invaso nel 1970 ponendo in essere le condizioni<br />

perché la struttura perdesse interesse economico e la piena<br />

funzionalità. Si è ritenuta strategica la costruzione di una<br />

nuova diga più a valle detta “La Cantoniera” alta 120 metri<br />

e con una capacità di invaso di circa 792 milioni di mc. Attualmente<br />

risultano autorizzati per ragioni legate al collaudo<br />

circa 455 mc. Invasando circa il 61% del volume disponibile<br />

oggi la diga di Santa Chiara risulta quasi del tutto sommersa<br />

dalle acque del nuovo lago che di fatto l’ha cancellata dal paesaggio<br />

rimodellato del nuovo invaso. La struggente antinomia<br />

tra necessità e memoria raccontata da questa vicenda<br />

è stata affrontata a diversi livelli. Da una parte si riconoscela<br />

necessità strategica di conservare, se non ampliandolo, il<br />

bene acqua con una nuova infrastruttura capace di colmare,<br />

sostituendola in toto, i limiti della precedente. Dall’altra si<br />

riconosce altresì il valore storico della diga di Santa Chiara.<br />

Cosicché si decide di non demolirla ed attivare su essa un<br />

intenso programma documentale grazie a due lungometraggi:<br />

il primo “Adiosu Diga Addio” del regista Franco Taviani<br />

commissionato dall’Enel (il gestore della diga) e “La diga<br />

del Tirso” per la regia di Marco Kuveiller per SardegnaDigitalLibrary.<br />

Si tenta quindi un’operazione di fissaggio della<br />

memoria nelle immagini in movimento che raccontano le<br />

storie, i volti le parole e i suoni del microcosmo umano e<br />

tecnico gravante attorno lo diga anche raccogliendo le storie<br />

delle ultime testimonianze viventi della sua edificazione. Si<br />

opera quindi affinché resti un documento del bene perduto<br />

sotto le acque.

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