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Studio di registrazione, Africulturban, Pikine, 2009<br />

“Che storia strana io e Matador. Sua moglie Aisha mi ha aperto le porte di casa solo<br />

quest'anno ed è stato uno dei più bei regali di questo 2010. Come darle torto? Il rapporto che<br />

si è instaurato tra me e suo marito è difficile da spiegare. Impossibile categorizzare il tipo di<br />

relazione che ci lega, un incrocio tra amicizia e legame di sangue.<br />

Alle volte chiudo gli occhi e penso che Luca, mio fratello maggiore, morto prima che io<br />

nascessi, si sia reincarnato in Matador, ad oggi la persona che più mi è vicina. Amico, fratello,<br />

parte di me. Solo chi ha la possibilità di conoscerci e di vederci assieme può capire la forza<br />

della nostra amicizia. E noi la capiamo quando incrociamo gli sguardi, gli occhi pieni di<br />

lacrime ad ogni partenza, ad ogni separazione. Poi penso alla mia infanzia, a Maserà, un<br />

piccolo paesino in provincia di Padova, dove sono cresciuta e mi dico: “Chi l'avrebbe mai<br />

detto che un giorno il mio migliore amico sarebbe stato un ragazzo cresciuto a Thiaroye, la<br />

periferia più problematica di Dakar?”.<br />

A volte provo ad immaginarlo ragazzino, cappellino rovesciato, girare per le strade polverose<br />

che costeggiano il mercato. Un ragazzino senegalese ed una ragazzina italiana. Un incontro<br />

già scritto nel destino. Entrambi cresciuti nell'hip hop, in quella cultura che ha dato speranza a<br />

tutti i figli del ghetto e delle periferie più lontane. E ce ne deve davvero aver data tanta di<br />

speranza per farci andare al di là di tutti i “non è possibile”. Quante porte sbattute in faccia,<br />

quante dita puntate, quanti sguardi di disapprovazione. Matador additato a sbandato, drogato,<br />

ai margini solo per aver deciso di fare il rapper. “Oh mio Dio! un giovane perduto” avranno<br />

pensato in tanti nel suo quartiere. “I genitori non volevano che le loro figlie mi<br />

frequentassero” mi racconta oggi ridendo “e solo perchè facevo rap”. E quante volte ho<br />

sentito parole taglienti come lame arrivare dietro le mie spalle a giudicare una ragazzina che<br />

in pochi conoscevano. “È strana” dicevano a mia madre, “Forza, coraggio”' la consolavano<br />

per aver avuto una figlia che nessuno riusciva a “raddrizzare”. No, non mi sono mai<br />

omologata e mentre i miei coetanei passavano le serate tra spritz e droga io preferivo il rap.<br />

L'unica mia vera droga. L'hip hop mi ha salvato due volte. E mi ha reso forte, testarda. Mi ha<br />

insegnato che, anche se non sei nessuno, puoi diventarlo, anche se non hai mezzi, puoi<br />

trasmettere il tuo messaggio, attraverso la scrittura, la musica, i graffiti, la danza. E caparbi lo<br />

siamo stati io e Matador. Gli dicevano che non avrebbe mai potuto vivere di rap. Ce l'ha fatta.<br />

Mi dicevano che non sarei mai riuscita a portare il rap all'università. Ce l'ho fatta.<br />

Dicono che la differenza crea lo scontro. Mentono. Noi siamo la dimostrazione che esiste<br />

l'incontro nella diversità e che è questa diversità che porta ad una crescita, ad un<br />

arricchimento, ad un miglioramento. Da soli non siamo nulla, è l'unione che fa la forza. Tanto<br />

banale quanto vero. Io e Matador veniamo da due paesi differenti, lui musulmano, io cristiana,<br />

lui uomo, io donna, lui nero, io bianca, due percorsi completamente diversi eppure siamo<br />

indivisibili, indispensabili l'uno all'altra, facce di una stessa medaglia. Ed è forse proprio<br />

questa la risposta, che le differenze esistono per completarsi vicendevolmente, per ritrovare<br />

quell'equilibrio che altrimenti da soli non potremmo mai raggiungere. Seduta nello studio di<br />

registrazione di Africulturban, <strong>Chiara</strong> intervista Matador per il documentario di un regista<br />

italiano. Ha voluto che fossi io a farlo. “La vostra storia è davvero straordinaria” mi ha detto<br />

quando ci ha incontrati. E lì, uno di fronte all'altro ci siamo guardati negli occhi e le nostre<br />

anime si sono specchiate, per la prima volta. E poi lui, le sue parole, “La cosa che mi fa male

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