Letteratura italiana - pagina - L'Orientale
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “L’ORIENTALE”<br />
<strong>Letteratura</strong> <strong>italiana</strong><br />
Letture di testi<br />
per i corsi di <strong>Letteratura</strong> <strong>italiana</strong><br />
parte III<br />
da Foscolo a Caproni<br />
a cura di Annamaria Palmieri<br />
Classe L-12 / Mediazione linguistica e culturale<br />
a.a. 2011-2012<br />
1
INDICE<br />
Ugo Foscolo, Alla sera 3<br />
Da Le ultime lettere di Jacopo Ortis, parte I, 1-3 5<br />
Giacomo Leopardi, L’infinito 8<br />
A Silvia 11<br />
Giosue Carducci, Alla stazione una mattina d’autunno 15<br />
Giovanni Pascoli, Temporale 19<br />
Italy 21<br />
Gabriele D’Annunzio, La sera fiesolana 40<br />
La pioggia nel pineto 44<br />
Giovanni Verga, da I Malavoglia, cap XV 50<br />
Italo Svevo, da La coscienza di Zeno, 1-2 62<br />
Guido Gozzano, La più bella 65<br />
Giuseppe Ungaretti, Il porto sepolto 68<br />
I fiumi 70<br />
Amaro accordo 73<br />
Eugenio Montale, Cigola la carrucola 75<br />
La casa dei doganieri 77<br />
L’anguilla 79<br />
Salvatore Quasimodo, Vento a Tindari 82<br />
Umberto Saba, Trieste 84<br />
Città vecchia 86<br />
Dopo la tristezza 88<br />
Ulisse 90<br />
Giorgio Caproni, 1944 93<br />
Bibliografia – Testi di riferimento 95<br />
2
Ugo Foscolo, Alla sera<br />
[Foscolo, Poesie e prose d’arte, Sonetto XI , pp. 69-70]<br />
Il sonetto, famosissimo, pur essendo stato scritto tra gli ultimi, fu posto dal poeta ad apertura della<br />
raccolta del 1803. Celebra la sera come momento di pace, che permette una breve pausa<br />
ristoratrice alle pene dell’animo.<br />
Forse perché della fatal quïete<br />
tu sei l'immago, a me sì cara vieni,<br />
o Sera! E quando ti corteggian liete<br />
le nubi estive e i zeffiri sereni,<br />
e quando dal nevoso aere inquïete 5<br />
tenebre e lunghe all'universo meni,<br />
sempre scendi invocata, e le secrete<br />
vie del mio cor soavemente tieni.<br />
Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme<br />
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge 10<br />
questo reo tempo, e van con lui le torme<br />
delle cure, onde meco egli si strugge;<br />
e mentre io guardo la tua pace, dorme<br />
quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.<br />
1 fatal quiete: morte.<br />
2 immago: immagine.<br />
3-4 E quando… sereni: sia quando ti accompagnano lietamente le nuvole estive e i venti sereni (in estate).<br />
5-6 e quando… meni: sia quando (durante l’inverno) dal cielo carico di neve porti al mondo tenebre tempestose e<br />
lunghe.<br />
7-8 e le secrete… tieni: e invadi con dolcezza le vie segrete del mio cuore.<br />
9-10 Vagar… eterno: mi fai vagare con i miei pensieri sulle tracce che conducono all’idea della morte (nulla eterno).<br />
10-11 e intanto… tempo: e intanto passa questo tempo colpevole (nel senso di infausto); cfr. Inreparabile tempus in<br />
Virgilio, Georgiche, III.<br />
11-12 e van… strugge: e se ne vanno con lui i pensieri angosciosi nei quali esso (tempo) si consuma insieme con me.<br />
13 la tua pace: la pace della sera.<br />
14-15 dorme… rugge: riposa quell’animo tormentato (guerrier) che freme (rugge) dentro di me.<br />
SCHEDA METRICA<br />
Sonetto con schema rimico ABAB ABAB CDC DCD<br />
La sera come la morte: l’accostamento, che rende cara al poeta la prima perché egli desidera la<br />
seconda, costituisce il nucleo di questa lirica, una delle più intense scritte da Ugo Foscolo: siamo in<br />
un momento per lui particolarmente difficile, gli anni 1802-1803, divisi tra impegni militari, amori<br />
tormentati e dediti alla composizione di opere significative come appunto i sonetti cosiddetti<br />
maggiori, aggiunti nell’edizione del 1803 a quelli già editi l’anno prima.<br />
Le due quartine, dall’andamento ampio e disteso, presentano un tono descrittivo, impostato sul<br />
parallelismo tra due proposizioni coordinate (e quando… e quando), che spinge il lettore a intuire,<br />
attraverso la contrapposizione delle placide serate estive e di quelle tenebrose dell’inverno, i<br />
drammatici contrasti che saranno invece protagonisti delle terzine.<br />
3
Il ritmo, inizialmente discendente e ternario, accompagna la tendenza melodiosa, accentuata dai<br />
suoni aperti e dalle vocali chiare a, e, i; e l’ armonia tra significante e significato si evidenzia<br />
proprio grazie alla corrispondenza tra i suoni e le immagini: si guardi ad esempio ai vv.5-6<br />
(inquiete tenebre/ e lunghe) il ricorso alla dieresi, l’anastrofe, l’enjambement e ai suoni in u.<br />
È dunque nella seconda parte del sonetto che si rivela il significato simbolico della descrizione: la<br />
predilezione del poeta per la sera nasce dal fatto che essa gli appare una prefigurazione della morte,<br />
attraverso la quale spera che il suo cuore tormentato potrà conoscere una pace, che non è altro che il<br />
nulla, la cessazione di ogni sentire.<br />
La morte, infatti, non ha per Foscolo alcuna connotazione religiosa: è fatal quïete, pace eterna, cui<br />
l’uomo per la sua natura non può sottrarsi, ma anche nulla eterno: egli ribadisce qui la sua<br />
concezione assolutamente materialistica dell’esistenza che desumeva, tra l’altro, dal De rerum<br />
natura di Lucrezio e che ispira anche il celebre carme Dei Sepolcri. Sul piano extratestuale questo<br />
sonetto evidenzia la formazione lucidamente settecentesca dell’intellettuale veneziano. E non a<br />
caso, probabilmente, proprio tra le pagine di una copia del poema latino appartenuta a Foscolo è<br />
stata ritrovata una prima stesura autografa di questa lirica.<br />
Seguendo l’andamento del discorso, anche la sintassi, nelle terzine, evolve e si fa più spezzata e<br />
drammatica, con brevi frasi paratattiche ed una prevalenza di verbi di movimento (vagar, vanno,<br />
fugge, van). E compare prepotentemente l’istanza soggettivistica e autobiografica (sottolineata<br />
dall’invadente presenza dell’io : miei, mi, meco, io, spirto guerrier, mi). Ma soprattutto nel finale si<br />
chiarisce il contrasto tra la pace e la serenità cui il poeta aspira, rappresentata dalla sera, e le<br />
insanabili inquietudini e passioni da cui egli sente consumati sia il suo animo sia l’epoca in cui si<br />
trova a vivere (il reo tempo). Passioni sottolineate, anche stavolta dagli effetti fonici, stavolta aspri,<br />
come l’ allitterazione in r tra reo… torme …, rugge…strugge.<br />
Dal punto di visto compositivo il sonetto è uno straordinario esempio di equilibrio: le due quartine<br />
sono aggregate a formare un unico periodo e così anche le terzine. Frequentissimi sono poi gli<br />
enjambements che riguardano nella prima parte soprattutto il nesso aggettivo/sostantivo, quasi a<br />
dilatare la descrizione, e nella seconda quello verbo/complemento, quasi ad accentuare un senso di<br />
drammaticità. I verbi, quasi tutti di movimento, sempre collocati in rilievo, spesso in posizione di<br />
rima, nelle quartine rimandano alla percezione della sera (vieni, meni, tieni), mentre nelle terzine<br />
segnalano l’effetto rasserenatore della sera (fugge… dorme) sui moti inquieti dell’animo e<br />
dell’epoca (strugge… rugge).<br />
Profonde reminiscenze classiche segnano la linea di dialogo intertestuale, specie nel rapporto con il<br />
reo tempo: “dum loquimur/fugerat invida aetas” cantava Orazio nelle sue Odi. E, per tornare alle<br />
opere coeve, va sottolineato il legame tra questo sonetto e il romanzo autobiografico Le ultime<br />
lettere di Iacopo Ortis, in cui la necessità di fuggire i tempi rei e il desiderio di morte si accampano<br />
da protagonisti. Inoltre è particolarmente significativo il confronto con la concezione titanica<br />
dell’uomo che Foscolo ricavava dall’ Alfieri, nonché il tema della corrispondenza tra natura e stato<br />
d’animo che di certo gli veniva dallo “spirito del tempo” romantico.<br />
Ritroveremo la metafora della sera come morte e come pace di lì a poco in Leopardi, e resterà<br />
molto duratura e vitale: basti pensare, ad esempio, alla elogiata sera pascoliana.<br />
4
Foscolo, da Le ultime Lettere di Iacopo Ortis<br />
Al lettore, Parte Prima, (lettere del 11 e del 13 ottobre 1797)<br />
[Foscolo, Poesie e prose d’arte, pp. 371-75]<br />
AL LETTORE<br />
Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta; e di<br />
consecrare 1 alla memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta di spargere su la<br />
sua sepoltura. E tu, o Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell'eroismo di cui<br />
non sono eglino stessi 2 capaci, darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai<br />
forse trarre esempio e conforto.<br />
LORENZO ALDERANI 3<br />
PARTE PRIMA<br />
Da' colli Euganei, 11 Ottobre 1797<br />
Il sacrificio della patria nostra è consumato 4 : tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa,<br />
non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia 5 . Il mio nome è nella lista di<br />
proscrizione 6 , lo so: ma vuoi tu ch'io per salvarmi da chi m'opprime mi commetta 7 a chi mi ha<br />
tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho obbedito, e ho lasciato Venezia per<br />
evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine<br />
antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese 8 , posso ancora sperare qualche<br />
giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo; quanti sono dunque gli sventurati 9 ? E noi,<br />
purtroppo, noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl'italiani. Per me segua che può.<br />
Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio<br />
cadavere almeno non cadrà fra le braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da'<br />
pochi uomini 10 , compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de' miei padri.<br />
13 Ottobre<br />
Ti scongiuro, Lorenzo; non ribattere più. Ho deliberato di non allontanarmi da questi colli. È vero<br />
ch'io aveva promesso a mia madre di rifuggirmi 11 in qualche altro paese; ma non mi è bastato il<br />
cuore 12 : e mi perdonerà, spero. Merita poi questa vita di essere conservata con la viltà, e con<br />
l'esilio? Oh quanti de' nostri concittadini gemeranno pentiti, lontani dalle loro case! perché, e che<br />
potremmo aspettarci noi se non se indigenza 13 e disprezzo; o al più, breve e sterile compassione,<br />
solo conforto che le nazioni incivilite offrono al profugo straniero? Ma dove cercherò asilo? in<br />
Italia? terra prostituita premio sempre della vittoria 14 . Potrò io vedermi dinanzi agli occhi coloro<br />
che ci hanno spogliati, derisi, venduti, e non piangere d'ira? Devastatori de' popoli 15 , si servono<br />
della libertà come i Papi si servivano delle crociate 16 . Ahi! sovente disperando di vendicarmi mi<br />
caccerei un coltello nel cuore per versare tutto il mio sangue fra le ultime strida 17 della mia patria.<br />
E questi altri 18 ? - hanno comperato la nostra schiavitù, racquistando con l'oro quello che<br />
stolidamente e vilmente hanno perduto con le armi. - Davvero ch'io somiglio 19 un di que'<br />
malavventurati che spacciati morti furono sepolti vivi, e che poi rinvenuti, si sono trovati nel<br />
sepolcro fra le tenebre e gli scheletri, certi di vivere, ma disperati del dolce lume della vita, e<br />
costretti a morire fra le bestemmie e la fame. E perché farci vedere e sentire la libertà, e poi<br />
ritorcerla per sempre? e infamemente!<br />
5
1 consecrare: consacrare.<br />
2 eglinostessi: essi stessi<br />
3 Lorenzo Alderani: amico e confidente di Jacopo, il protagonista del romanzo.<br />
4 Il sacrificio … è consumato: il riferimento è al trattato di Campoformio, con il quale Venezia è seduta da Napoleone<br />
all’Austria e Jacopo considera questo un tradimento.<br />
5 infamia: disonore; i patrioti non hanno difeso fino all’ultimo con le armi Venezia e Jacopo sente il peso di questa<br />
colpa.<br />
6 Il mio nome … di proscrizione: il nome è nella lista di coloro che saranno perseguitati, in quanto fautori del governo<br />
democratico proclamato dalla Repubblica veneta.<br />
7 mi commetta: mi consegni.<br />
8 senza … paese: senza rinunciare alla vista di questa mia sfortunata patria; ovvero senza andare all’estero, ma<br />
correndo così più gravi pericoli in caso di arresto.<br />
9 sventurati: perseguitati, di cui gli ha parlato Lorenzo facendolo inorridire.<br />
10 pochi uomini: pochi patrioti, degni di essere considerati uomini.<br />
11 rifuggirmi: rifugiarmi.<br />
12 non … il cuore: non ne ho avuto la forza, il coraggio.<br />
13 indigenza: povertà, vita di stenti.<br />
14 terra … vittoria: terra data sempre agli stranieri in premio di una qualche vittoria.<br />
15 Devastatori de' popoli: Invasori e conquistatori.<br />
16 si servono … delle crociate: riferito ai Francesi, si servono della libertà come i Papi delle crociate, come alibi e<br />
giustificazione ideale a guerre di conquista e oppressione.<br />
17 ultime strida: ultime grida, lamenti.<br />
18 E questi altri: e (che dire) di questi altri, gli Austriaci?<br />
19 somiglio: sembro.<br />
L’allocuzione al destinatario, “Al lettore”, ad apertura del libro, introduce immediatamente al fine<br />
dell’opera: celebrare una virtù sconosciuta e un eroismo che non è diffuso tra i contemporanei<br />
dell’estensore-narratore. Quale virtù, quale eroismo? Quello di un amico caduto, di cui si<br />
pubblicano le lettere. E del quale si vuole preservare la memoria e l’esempio, non avendo potuto<br />
piangere sulla sua tomba.<br />
Tomba, memoria, eroismo, virtù, esempio: le parole-chiave del romanzo Le ultime lettere di Iacopo<br />
Ortis sono tutte in queste righe. Le pagine successive le declineranno in una storia, fatta di<br />
passione amorosa e patriottica, ovvero degli ingredienti essenziali della poetica foscoliana ed<br />
europea di quegli anni, tra fine Settecento e Ottocento, in cui si consuma il sogno della liberazione<br />
da parte dei Francesi e la delusione della restaurazione di un potere straniero con Napoleone.<br />
Il romanzo, che è una delle prime prove di questo genere letterario in Italia, ispirato nella forma<br />
epistolare a precedenti europei come La nouvelle Héloise di Rousseau e I dolori del giovane<br />
Werther di Goethe, ha una profonda matrice alfieriana: Alfieri aveva scritto un trattato, Della virtù<br />
sconosciuta, il cui titolo è ripreso nella dedica e che celebrava la virtù di un amico, rimasta<br />
sconosciuta per disdegno di ogni forma volgare di diffusione. E molto di alfieriano nelle pose<br />
tragiche di Jacopo, nei suoi furori, nella prosa enfatica e ad alto contenuto retorico delle lettere.<br />
La prima lettera, dell’11 ottobre 1797, ci introduce alla vicenda storica in cui il protagonista si trova<br />
immerso, cercando rifugio sui colli Euganei per fuggire da una situazione politicamente<br />
inaccettabile. Dopo il trattato di Campoformio, sentito dai patrioti veneziani come un tradimento di<br />
Napoleone, egli - alter ego dell’autore che ha realmente partecipato a quegli eventi storici - è<br />
testimone e interprete della delusione storica di tutta una generazione, quella che aveva vissuto le<br />
speranze dell’Illuminismo e coltivato l’illusione di collaborare con il potere, di istituire un fecondo<br />
rapporto tra l’intellettuale e la società.<br />
La frase iniziale introduce seccamente il lettore nel mezzo del dramma, senza lasciare spazio alla<br />
speranza: “Il sacrificio della patria nostra è consumato”, Venezia è stata ceduta all’Austria. E’ un<br />
dramma che Jacopo vive sia a livello collettivo che individuale: infatti la patria è chiamata nostra,<br />
6
ma in tutta la lettera poi si impone il richiamo all’io e la stessa cessione di Venezia è sentita come<br />
un tradimento personale, perpetrato da un padre crudele.<br />
Dramma individuale e dramma collettivo dunque coesistono, ma Jacopo, con il suo amore<br />
disperato, per la patria prima e per la dolce Teresa poi (la fanciulla di cui si innamora e che è data in<br />
sposa ad un giovane borghese benestante), sa di non poter prendere alcuna iniziativa in grado di<br />
generare un cambiamento. Da questa situazione di totale impotenza deriva il tono enfatico, ricco di<br />
interrogazioni retoriche, di esclamazioni, della prosa di queste lettere.<br />
Sin dalla prima, infatti, il protagonista anticipa al lettore la sua morte. Per descriverla Foscolo<br />
utilizza, come poi farà nei sonetti e nei Sepolcri, un repertorio di immagini sentimentali, un lessico<br />
aulico e lussureggiante, metafore ad effetto come quella del “lavarsi le mani nel sangue” dei<br />
compatrioti.<br />
La lettera successiva, del 13 ottobre, aggiunge alla disperazione del primo istante l’analisi del<br />
contesto: Iacopo, riferisce all’amico Lorenzo di non voler accettare il consiglio della madre di<br />
andare lontano perché considera vile l’esilio. Ne deriva un confronto tra l’immiserimento delle<br />
condizioni degli italiani e il disprezzo, o al più la commiserazione, che le altre nazioni più civili<br />
potranno offrire ai profughi. Il ritratto del popolo italiano è ora impietoso, suddiviso tra chi vende e<br />
chi viene venduto, ma ancor più duro il giudizio sull’invasore austriaco che compra col denaro ciò<br />
che ha perso in battaglia. Non manca un’incursione nello stile “sepolcrale” caratteristico del gusto<br />
estetico tardo-settecentesco: l’immagine del sepolto vivo che brancola tra cadaveri, e che si<br />
accompagna a quella dell’italiano a cui si è dato sentore della libertà per poi togliergliela.<br />
L’interesse del romanzo di Foscolo è storico e letterario al tempo stesso: esso apre in Italia una<br />
stagione di scritture patriottiche che si chiuderà solo nella seconda metà del secolo: quel filone di<br />
romanticismo storico-patriottico che è noto a molti e troverà nel romanzo storico risorgimentale la<br />
sua più compiuta realizzazione. Sul piano letterario, invece l’esperienza di questa scrittura giovane,<br />
a tratti esageratamente enfatica, appare originalissima perché sottrae la prosa agli schemi<br />
dell’ordine e della misura che pure si stavano nuovamente imponendo con l’estetica neoclassica.<br />
Qui la misura, la compostezza dei versi, è spesso travalicata dall’oratoria, dal gusto per<br />
l’esclamazione, frutto di un entusiasmo giovanile e di una personalità prorompente che di lì a poco<br />
darà ottime prove di sé.<br />
7
Giacomo Leopardi, L’infinito<br />
[Leopardi, Le poesie e le prose, Canti XII, p. 43.]<br />
L'infinito non si trova nella realtà, è un naufragio della ragione; è un’illusione, gioco della mente e<br />
dell’immaginazione; è una finzione che, nata dallo stimolo sensoriale, si rivela però fonte di<br />
dolcissimo piacere.<br />
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,<br />
E questa siepe, che da tanta parte<br />
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.<br />
Ma sedendo e mirando, interminati<br />
Spazi di là da quella, e sovrumani 5<br />
Silenzi, e profondissima quiete<br />
Io nel pensier mi fingo; ove per poco<br />
Il cor non si spaura. E come il vento<br />
Odo stormir tra queste piante, io quello<br />
Infinito silenzio a questa voce 10<br />
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,<br />
E le morte stagioni, e la presente<br />
E viva, e il suon di lei. Così tra questa<br />
Immensità s’annega il pensier mio:<br />
E il naufragar m’è dolce in questo mare. 15<br />
1 ermo colle : colle solitario; l’aggettivo altamente letterario amplifica l’idea della lontananza e della vaghezza. Si<br />
riferisce al monte Tabor, presso Recanati<br />
2-3 che …esclude: che esclude la possibilità di guardare un così ampio tratto dell’orizzonte.<br />
4 Ma sedendo e mirando: il Ma avversativo suggerisce il passaggio dalla realtà psicologica all’immaginazione<br />
dell’infinito, che avviene mentre il poeta “siede” ( nel senso di sostare) e “mira” (cioè “contempla”, in senso interiore).<br />
7 mi fingo: mi rappresento nell’immaginazione. Il verbo è usato in senso etimologico (dal latino fingere).<br />
8 si spaura: si sgomenta.<br />
8-11 E come…comparando: e appena (come) odo stormire il vento tra queste piante io a questa voce del vento paragono<br />
quell’infinito silenzio.<br />
11 mi sovvien l’eterno : mi viene in mente l’eternità.<br />
12 e le morte stagioni e la presente : le epoche passate e quella presente<br />
13 e il suon di lei: il rumore (suono) dell’epoca presente<br />
14 immensità: nell’ autografo, si trova la variante infinità, scelta e poi cancellata; s’annega: si smarrisce.<br />
15 il naufragar…mare: il “naufragio” dell’animo, smarrito nella immaginazione dell’infinito, è dolce, perché<br />
corrisponde ad un’inclinazione naturale dell’uomo, il piacere illimitato, che risulta così appagata.<br />
SCHEDA METRICA<br />
Endecasillabi sciolti. E’ stato notato che il componimento dissimula la forma sonetto, attraverso il continuum<br />
sintattico e l’aggiunta di un verso. Si noti la ricca successione di enjambements, che rende il ritmo più intenso.<br />
Quando nel 1819 Leopardi compone questo idillio, la sua visione del rapporto tra la felicità umana,<br />
il piacere e l’infinito è già chiarita: egli infatti nello Zibaldone scriveva che<br />
l'anima, amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l'estensione immaginabile di questo<br />
sentimento, senza poterla neppure concepire, perché non si può formare idea chiara di una cosa che<br />
ella desidera illimitatamente. [Leopardi, Zibaldone, 165, v. I, p. 182]<br />
E, sempre negli stessi anni, affermava che<br />
8
L'infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra<br />
superbia […] l'infinito è un'idea, un sogno, non una realtà: almeno niuna prova abbiamo noi<br />
dell'esistenza di esso, neppur per analogia. [Leopardi, Zibaldone, 4178, v. II, p. 1006]<br />
Come è possibile allora per l’uomo l’esperienza dell’illimitato, del non finito?<br />
Esso può essere solo un viaggio del desiderio, per compiere il quale il soggetto, l’io, ha bisogno di<br />
stimoli: l’esperienza visiva della siepe e del monte, che ostacolano lo sguardo, è il limite che<br />
conduce il soggetto ad attivare il processo immaginativo. Così, proprio di contro al limite, si<br />
compie il processo di astrazione dal piano della realtà a quello dell’immaginazione e l’io<br />
concepisce (nel pensier mi fingo) l’infinità spaziale, fatta “di interminati spazi, sovrumani silenzi e<br />
profondissima quiete”. La visione mentale dello spazio infinito genera come prima conseguenza<br />
uno stato d’animo di smarrimento (il cor…si spaura). Il processo è sottolineato sintatticamente dal<br />
ma avversativo e dai due gerundi sedendo e mirando, che si riferiscono ad operazioni mentali, più<br />
che ad azioni materiali.<br />
Nella prima parte della lirica domina il tempo del ricordo, il passato remoto, che è tempo<br />
dell’affettività (“sempre caro mi fu”), e che acquista esso stesso dimensione indeterminata (come<br />
sottolinea il sempre iniziale). Dal v. 8, però, il soggetto ritorna dal piano dell’immaginazione a<br />
quello della realtà, tramite un’altra esperienza sensoriale: non la vista, questa volta, ma l’udito (“e<br />
come il vento odo stormir tra queste piante”) segna il passaggio dall’immaginazione dell’infinità<br />
spaziale a quella temporale (“e mi sovvien l’eterno”…) : ancora una volta l’opposizione tra<br />
l’esperienza materiale e limitata del paesaggio e quella immaginativa del pensiero si sostanzia in<br />
una triade : prima erano spazi, silenzi e quiete, accompagnati da aggettivi accrescitivi, ora, in un<br />
climax discendente, il soggetto concepisce, all’inverso, il graduale ritorno dal tempo infinito alla<br />
realtà del presente (dall’eterno alle morte stagioni, alla presente e viva). La conclusione di questa<br />
“immersione” però, è diversa: non l’angoscia del cor che si spaura, bensì il naufragio dell’io e del<br />
pensiero che appare dolce (v.15) , perché il mare è la metafora di un momento di temporaneo<br />
abbandono del pensiero razionale.<br />
La costruzione di questa lirica appare anche al lettore non esperto di una sapienza assoluta: per<br />
quanto riguarda le relazioni significato-struttura-significante, la disposizione delle parole, il loro<br />
potere semantico, le ripartizioni interne, le corrispondenze circolari contribuiscono a rendere la<br />
poesia un "viaggio interiore" tutto centrato sull’io (che ricorre continuamente: cfr. io ai vv. 7 e 9 e<br />
mi ai vv., 1, 7, 11, 15.<br />
Alcuni elementi vanno assolutamente messi in rilievo: primo fra tutti, il rapporto di circolarità tra il<br />
verso iniziale e quello finale, in cui risulta centrale la presenza del soggetto e la sua disposizione<br />
affettiva: al “sempre caro mi fu quest’ermo colle” del v.1 corrisponde “E il naufragar m’è dolce in<br />
questo mare” del v.15 . In entrambi i versi va notato l’uso del deittico questo che consente di<br />
evidenziare come strutturalmente l’intero periodo iniziale sia in corrispondenza simmetrica con<br />
quello finale: entrambi sono netti, perentori, si presentano isolabili, unici senza enjambements e<br />
contengono riferimenti ad entità paesistiche sottolineate dai deittici “questo/questa”. Ma mentre nel<br />
primo periodo gli elementi paesistici sono reali (questo colle, questa siepe), nell’ultimo sono<br />
metaforici (questa immensità, questo mare). La simmetria tra i due periodi sottolinea però che è<br />
avvenuto un percorso, dal definito all’indefinito, dal piano della realtà a quello dell’immaginazione.<br />
I due periodi centrali (vv. 4-8, 8-13) sono invece molto diversi ma anch’essi speculari: ipotattici,<br />
ricchi di enjambements e di congiunzioni, anche laddove non ce ne sarebbe necessità, essendo la<br />
pausa sintattica sottolineata dalla virgola e dal punto. Al loro interno si dipanano sempre<br />
specularmente da un lato il processo di sempre più profonda contemplazione dell’infinito spaziale,<br />
sottolineato dagli aggettivi di grado superlativo; dall’altro, all’inverso, il graduale processo di<br />
ritorno al presente. Anche in questi periodi, i dimostrativi svolgono un ruolo semanticamente<br />
fondamentale: mentre questo (questa voce, queste piante) si riferisce a entità reali, quello (quello<br />
infinito silenzio) richiama entità immaginative.<br />
9
Per quanto riguarda inoltre il rapporto significante-significato, spiccano nella lingua moltissimi<br />
elementi lessicali che esprimono il senso dell’infinità: nello Zibaldone Leopardi individuava come<br />
poetiche le parole “profondo”, “lontano”. Qui ricorrono anche ermo, eterno, ultimo, e spiccano le<br />
parole polisillabe che pure danno corpo all’immensità: orizzonte, sovrumani, interminati,<br />
profondissima, infinito, immensità, naufragar. Si noti , infine, ad accrescere il senso dell’illimitato,<br />
la preferenza accordata ai plurali, ai superlativi (profondissima) e agli aggettivi o sostantivi in<br />
forma accrescitiva o negativa (sovr-umani, in-terminati, in-finito).<br />
Non può stupirci, a questo punto, se ci spostiamo sul piano intertestuale, che L’infinito si collochi<br />
in una sorta di crocevia lirico: rinnovando totalmente il genere dell’idillio classico, di cui Leopardi<br />
volle dare una interpretazione del tutto soggettivistica (quali avventure e affezioni del suo animo) ,<br />
esso richiama innanzitutto il contesto romantico europeo, nel quale si colloca con tutti gli elementi<br />
tematici (rapporto io-paesaggio, indagine degli stati d’animo, aspirazione all’infinito). Tra i<br />
confronti poetici e sentimentali più immediati possiamo pensare al Werther di Goethe, o agli<br />
Sciolti a Sigismondo Chigi di Vincenzo Monti. In secondo luogo, ci rimanda alla tradizione lirica<br />
nostrana, primo fra tutti a Petrarca, dal quale provengono molti degli elementi stilistici, che sono<br />
però diversamente interpretati e totalmente rinnovati (anzitutto lo stesso topos del rapporto iopaesaggio).<br />
Infine, esso costituisce un attraversamento ineludibile per comprendere tanta<br />
produzione lirica del Novecento (si pensi anche solo all’Allegria dei naufragi di Ungaretti).<br />
10
Giacomo Leopardi, A Silvia<br />
[Leopardi, Le poesie e le prose, Canti XXI, pp. 73-4.]<br />
Il ricordo di una fanciulla morta in giovanissima età è l’occasione per riflettere sulla caducità<br />
delle aspirazioni umane e sul crudele destino che la Natura assegna agli uomini.<br />
Silvia, rimembri ancora<br />
Quel tempo della tua vita mortale,<br />
Quando beltà splendea<br />
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,<br />
E tu, lieta e pensosa, il limitare 5<br />
Di gioventù salivi?<br />
Sonavan le quiete<br />
Stanze, e le vie dintorno,<br />
Al tuo perpetuo canto,<br />
Allor che all'opre femminili intenta 10<br />
Sedevi, assai contenta<br />
Di quel vago avvenir che in mente avevi.<br />
Era il maggio odoroso: e tu sole<br />
Così menare il giorno.<br />
Io gli studi leggiadri 15<br />
Talor lasciando e le sudate carte,<br />
Ove il tempo mio primo<br />
E di me si spendea la miglior parte,<br />
D'in su i veroni del paterno ostello<br />
Porgea gli orecchi al suon della tua voce, 20<br />
Ed alla man veloce<br />
Che percorrea la faticosa tela.<br />
Mirava il ciel sereno,<br />
Le vie dorate e gli orti,<br />
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte. 25<br />
Lingua mortal non dice<br />
Quel ch'io sentiva in seno.<br />
Che pensieri soavi,<br />
Che speranze, che cori, o Silvia mia!<br />
Quale allor ci apparia 30<br />
La vita umana e il fato!<br />
Quando sovviemmi di cotanta speme,<br />
Un affetto mi preme<br />
Acerbo e sconsolato,<br />
E tornami a doler di mia sventura. 35<br />
O natura, o natura,<br />
Perché non rendi poi<br />
Quel che prometti allor? perché di tanto<br />
Inganni i figli tuoi?<br />
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno, 40<br />
Da chiuso morbo combattuta e vinta,<br />
11
Perivi, o tenerella. E non vedevi<br />
Il fior degli anni tuoi;<br />
Non ti molceva il core<br />
La dolce lode or delle negre chiome, 45<br />
Or degli sguardi innamorati e schivi;<br />
Né teco le compagne ai dì festivi<br />
Ragionavan d'amore.<br />
Anche peria fra poco<br />
La speranza mia dolce: agli anni miei 50<br />
Anche negaro i fati<br />
La giovanezza. Ahi come,<br />
Come passata sei,<br />
Cara compagna dell'età mia nova,<br />
Mia lacrimata speme! 55<br />
Questo è quel mondo? questi<br />
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi<br />
Onde cotanto ragionammo insieme?<br />
Questa la sorte dell'umane genti?<br />
All'apparir del vero 60<br />
Tu, misera, cadesti: e con la mano<br />
La fredda morte ed una tomba ignuda<br />
Mostravi di lontano.<br />
1 Silvia: il nome, che proviene dall’Aminta del Tasso, è probabilmente uno pseudonimo per coprire l’identità di una<br />
fanciulla realmente conosciuta dal poeta; secondo molti si tratterebbe di Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa<br />
Leopardi e morta di tisi nel 1818. rimembri: ricordi, precedentemente era sovvienti.<br />
2 quel tempo…mortale: il tempo della tua giovinezza; mortale è aggettivo volto a sottolineare la fugacità del tempo di<br />
tutti i mortali, non per richiamare idealmente una vita eterna a cui il poeta non crede.<br />
3 beltà: bellezza.<br />
4 ridenti e fuggitivi: allegri e allo stesso tempo timidamente schivi.<br />
5 lieta e pensosa: è una coppia di aggettivi di origine petrarchesca, volta a sottolineare una gioia trepidante, ansiosa.<br />
6 il limitar…salivi: ti avviavi alla soglia della gioventù. Si noti che nel gioco delle corrispondenze foniche salivi è<br />
anagramma di Silvia.<br />
7 Sonavan: risuonavano.<br />
10 all’opre femminili intenta: dedita ai lavori femminili (il telaio).<br />
11 assai contenta: abbastanza (assai è un arcaismo) appagata.<br />
12 vago avvenir: futuro indeterminato e dolce (l’aggettivo vago va inteso in entrambi i sensi).<br />
14 menare: trascorrere.<br />
15 gli studi leggiadri: i graditi studi.<br />
16 sudate carte: carte scritte con fatica.<br />
17 il tempo mio primo: la mia adolescenza.<br />
18 e di me…parte: e le mie migliori risorse si consumavano.<br />
19 veroni: balconi; ostello: casa.<br />
23 Mirava : guardavo.<br />
25 e quinci…monte: e da una parte il mare in lontananza e dall’altra la montagna.<br />
26 lingua mortal non dice: nessuna lingua umana può esprimere.<br />
29 che cori: che sentimenti.<br />
30 quale…apparia: come ci apparivano belli allora.<br />
31 la vita umana e il fato: la vita e il destino futuro.<br />
32 sovviemmi: mi ricordo.<br />
33 un affetto mi preme: mi opprime un sentimento.<br />
37 non rendi: non restituisci (dal latino reddere).<br />
40 Tu …verno: tu, prima che l’inverno inaridisse i prati.<br />
41 da chiuso…vinta: consumata e vinta da un male nascosto.<br />
12
42 tenerella: poverina; l’aggettivo allude anche alla “tenera” età della giovane.<br />
43 il fior…tuoi: la pienezza della tua gioventù.<br />
44 non ti molceva: non ti lusingava.<br />
47 teco: con te.<br />
49 fra poco: dopo poco tempo. Il poeta allude all’anno 1819, che egli descrive come passaggio alla consapevolezza del<br />
vero.<br />
50 agli anni miei: alla mia vita<br />
51 negaro i fati: il destino negò.<br />
54 cara compagna…nova: cara compagna della gioventù; si riferisce alla speranza, la speme del verso successivo.<br />
61 Tu: si rivolge alla speranza, ma ambiguamente allude anche a Silvia, che insieme alla speranza è caduta all’apparir<br />
del vero.<br />
62 la fredda morte ed una tomba ignuda: la speranza che indica, come unica meta della vita, la morte e la tomba è<br />
una sorta di cruda visione allegorica; la personificazione della speranza però si confonde qui anche con l’immagine di<br />
Silvia stessa.<br />
SCHEDA METRICA<br />
Canzone libera, composta da sei stanze di varia lunghezza, di endecasillabi e settenari sciolti e liberamente<br />
alternati.<br />
“Ricordi, Silvia?” Con un’allocuzione al destinatario ideale, Leopardi apre una lirica interamente<br />
costruita su un’analogia e una contraddizione.<br />
L’analogia è condotta tra la vicenda della fanciulla e la propria, che si dipanano in parallelo nelle<br />
prime tre strofe, riferite al ricordo di una primavera lontana e ai sentimenti di attesa trepidante che<br />
accomunavano i due adolescenti riguardo al futuro, e nelle strofe V e VI, in cui il parallelo è tra i<br />
tragici destini di entrambi, segnato il primo, quello di Silvia, dalla morte, il secondo, quello del<br />
poeta, dall’infelicità senza rimedio.<br />
La contraddizione è tra il desiderio di felicità insito nell’uomo e provato dai due giovani e la legge<br />
inesorabile della natura che costringe invece all’infelicità e alla morte. Il passaggio nevralgico<br />
dall’illusione alla dura realtà è segnato dalla IV strofa, che contrappone il ricordo delle speranze,<br />
messo in rilievo dalle numerose esclamazioni, al dolore e alla protesta contro la natura, che non<br />
mantiene le sue promesse, e illude e inganna i suoi figli.<br />
Il passaggio dall’esclamazione all’interrogazione rivolta alla natura costituisce dunque l’acme del<br />
componimento, e viene ripreso nell’ultima strofa, quando ancora una volta si alternano<br />
esclamazioni e interrogative, segnate però non più dalla protesta ma dalla consapevole<br />
accettazione del vero. Potentissima appare l’ immagine visiva con cui il componimento si conclude:<br />
Silvia e la speranza, indistinte e fuse nella personificazione di una donna che indica con la mano,<br />
come unica meta della vita di ognuno, la fredda morte ed una squallida tomba.<br />
All’armoniosa costruzione simmetrica della poesia collabora la scelta dei tempi verbali: il presente<br />
è il tempo dell’improvvisa felicità del ricordo, nei primi versi, e del dolore del disinganno nella IV<br />
strofa; l’imperfetto è il tempo della durata, del ricordo del passato, che si prolunga e diventa anche<br />
doloroso quando viene rievocata la fine della vita di Silvia e delle illusioni. Il tempo della caduta,<br />
della perdita delle illusioni e della catastrofe non a caso è il passato remoto (v. 61: tu, misera,<br />
cadesti), opposto all’imperfetto del ricordo.<br />
In un’annotazione dello Zibaldone di poco posteriore alla lirica, del 30 giugno 1828, Leopardi<br />
scriveva :<br />
Una giovane dai sedici ai diciotto anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci (…) un non so<br />
che di divino che niente può agguagliare; (…) quell’aria di innocenza, d’ignoranza completa del<br />
male, delle sventure, de’ patimenti, quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte<br />
queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione così<br />
viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardare quel viso. (…) Del resto se a<br />
13
quel che ho detto, nel vedere o contemplare una giovane di sedici o diciotto anni, si aggiunga il<br />
pensiero dei patimenti che l’aspettano, delle sventure che vanno ad oscurare e a spegner ben tosto<br />
quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze, della indicibile fugacità di quel fiore, di<br />
quello stato, di quelle bellezze; si aggiunga il ritorno sopra noi medesimi; e quindi un sentimento<br />
di compassione per quell’angelo di felicità, per noi medesimi, per la sorte umana, per la vita (tutte<br />
cose che non possono mancare di venire alla mente) ne segue un effetto il più vago e sublime che<br />
possa immaginarsi. [Leopardi, Zibaldone, 4310-11, v. II, p. 1144]<br />
Questo passo ci chiarisce indirettamente come nella lirica che stiamo leggendo non viva solo il<br />
ricordo di una passione amorosa giovanile: la Silvia che ritorna qui come persona concreta, ricordo<br />
di un passato irripetibile possiede infatti anche una sua verità simbolica, poiché è associata al<br />
sentimento delle speranze destinate a cadere, che costituisce nella visione leopardiana il fato<br />
comune a tutti gli uomini.<br />
Ma è dal punto di vista formale che la lirica, rispetto al passo in prosa citato, evidenzia tutta la sua<br />
potenza: le scelte metriche, lessicali e ritmiche sembrano del tutto ispirate alla poetica del vago,<br />
dell’indefinito e della rimembranza che il poeta teorizzava sin dal 1819, all’epoca dei suoi primi<br />
componimenti, e nel contempo è densa di richiami letterari, primo fra tutti il nome della fanciulla di<br />
ispirazione tassiana.<br />
Il nucleo del canto è nella dimensione memoriale dell’io, che produce per prima l’immagine di<br />
Silvia, più evocata che descritta, attraverso gesti e sguardi, e tramite coppie di aggettivi vaghi e<br />
indefiniti (lieta e pensosa, occhi ridenti e fuggitivi): lo sguardo che ride sembra rimandare tra l’altro<br />
ad un’immagine topica della nostra tradizione letteraria, presente in Dante e in Petrarca. Quando<br />
all’immagine della fanciulla, nella terza strofa, si sostituisce quella dell’io, la specularità del<br />
soggetto con Silvia appare chiara: alle sensazioni visive si aggiungono qui quelle uditive (il suon<br />
della tua voce, al v.21), e compare anche il topos dell’ineffabilità dei sentimenti di matrice<br />
stilnovistica (Lingua mortal non dice…al V.26)<br />
Il ritorno al presente nella IV stanza, però, se è segnalato dalla frattura dei tempi verbali e delle<br />
interrogazioni, e dall’incedere delle negazioni che denotano l’assenza di Silvia (non…non …né ai<br />
vv. 42, 44, 47), non lo è dal punto di vista della lingua, che continua a utilizzare attributi dolci:<br />
tenerella al v.42, dolce lode al v. 45, sguardi innamorati e schivi al v. 46.<br />
Ulteriore elemento da sottolineare è l’assoluta semplicità della sintassi, fatta di periodi brevi con<br />
poche subordinate, all’interno della quale spicca l’uso sapiente e fluido delle pause, come ai vv. 7-<br />
8 (le quiete/stanze) dove dieresi e pausa operano per suggerire ancora una volta un senso di<br />
indefinito.<br />
A rendere scorrevole e musicale il ritmo contribuisce poi l’assoluta libertà della struttura metrica,<br />
che segue solo l’andamento del pensiero: Leopardi realizza una canzone libera da schemi fissi, sia<br />
nella lunghezza delle strofe che nella disposizione dei versi, delle rime, delle pause (e solo nel<br />
finale, ai vv.42-43, 51-52, 56-57, dominano gli enjambements, rarissimi nel resto della poesia).<br />
L’attenzione alla musicalità e ai valori fonosimbolici va però ben al di là delle rime e del ritmo, ed<br />
è anche nella scelta dei suoni: si guardi lo splendea al v.3 che sostituisce la prima versione<br />
splendeva, o le numerosissime vocali aperte e suoni lievi (sonavan, stanze, nella seconda strofa;<br />
mirava, mar, mortale, nella terza; e così via), che suggeriscono come nell’Infinito l’idea di una<br />
indeterminata e dolcissima vastità.<br />
14
Giosue Carducci, Alla stazione in una mattina d’autunno<br />
[Carducci, Odi barbare, p. 121]<br />
Il poeta accompagna l’amata Lidia alla stazione di Bologna in una giornata greve e piovosa: lo<br />
spunto occasionale è trasfigurato dal ricordo nostalgico di un felice momento del passato e dalla<br />
rappresentazione simbolica e “infernale” dei dettagli della realtà presente..<br />
Oh quei fanali come s’inseguono<br />
accidïosi là dietro gli alberi,<br />
tra i rami stillanti di pioggia<br />
sbadigliando la luce su ’l fango! 4<br />
Flebile, acuta, stridula fischia<br />
la vaporiera da presso. Plumbeo<br />
il cielo e il mattino d’autunno<br />
come un grande fantasma n’è intorno. 8<br />
Dove e a che move questa, che affrettasi<br />
a’ carri foschi, ravvolta e tacita<br />
gente? a che ignoti dolori<br />
o tormenti di speme lontana? 12<br />
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera<br />
al secco taglio dài de la guardia,<br />
e al tempo incalzante i begli anni<br />
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi. 16<br />
Van lungo il nero convoglio e vengono<br />
incappucciati di nero i vigili,<br />
com’ombre; una fioca lanterna<br />
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei 20<br />
freni tentati rendono un lugubre<br />
rintocco lungo: di fondo a l’anima<br />
un’eco di tedio risponde<br />
doloroso, che spasimo pare. 24<br />
E gli sportelli sbattuti al chiudere<br />
paion oltraggi: scherno par l’ultimo<br />
appello che rapido suona:<br />
grossa scroscia su’ vetri la pioggia. 28<br />
Già il mostro, conscio di sua metallica<br />
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei<br />
occhi sbarra; immane pe ’l buio<br />
gitta il fischio che sfida lo spazio. 32<br />
Va l’empio mostro; con traino orribile<br />
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.<br />
Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo<br />
salutando scompar ne la tenebra. 36<br />
15
O viso dolce di pallor roseo,<br />
o stellanti occhi di pace, o candida<br />
tra’ floridi ricci inchinata<br />
pura fronte con atto soave! 40<br />
Fremea la vita nel tepid’aere,<br />
fremea l’estate quando mi arrisero;<br />
e il giovine sole di giugno<br />
si piacea di baciar luminoso 44<br />
in tra i riflessi del crin castanei<br />
la molle guancia: come un’aureola<br />
piú belli del sole i miei sogni<br />
ricingean la persona gentile. 48<br />
Sotto la pioggia, tra la caligine<br />
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;<br />
barcollo com’ebro, e mi tocco,<br />
non anch’io fossi dunque un fantasma. 52<br />
Oh qual caduta di foglie, gelida,<br />
continua, muta, greve, su l’anima!<br />
io credo che solo, che eterno,<br />
che per tutto nel mondo è novembre. 56<br />
Meglio a chi ’l senso smarrí de l’essere,<br />
meglio quest’ombra, questa caligine:<br />
io voglio io voglio adagiarmi<br />
in un tedio che duri infinito. 60<br />
SCHEDA METRICA<br />
Ode alcaica costituita da 15 quartine: ciascuna quartina, priva di rime, è costituita da due doppi quinari, un novenario<br />
accentato in 2, 5 e 8 sillaba, e un decasillabo con accenti in 3, 6 e 9 sillaba. Nelle Odi barbare Carducci volle<br />
riprodurre il ritmo della versificazione classica attraverso la misurata trasposizione e combinazione dei versi della<br />
metrica romanza accentuativa.<br />
1 fanali: lampioni.<br />
2 accidiosi: pigri e svogliati.<br />
3 stillanti di pioggia: che fanno cadere gocce di pioggia.<br />
4 sbadigliando …fango: lasciando cadere una luce smorta sul terreno bagnato e fangoso.<br />
5 flebile: debole.<br />
6 Plumbeo: grigio, del colore del piombo.<br />
7-8 il mattino … n’è intorno: il mattino avvolge ogni cosa attorno a noi come una grande figura misteriosa.<br />
9-11 Dove … gente?: Dove si dirige e a quale scopo (a che) questa gente avvolta nei mantelli e silenziosa (tacita) che<br />
si affretta verso le scure carrozze del treno (carri foschi)?.<br />
11-12 a che … lontana?: verso quali dolori sconosciuti (ignoti) o affanni per qualche speranza (speme) lontana?<br />
13 pensosa: pensierosa, assorta; Lidia: nome di origine letteraria, che deriva da Orazio, che il poeta dà alla donna<br />
amata.<br />
13-14 la tessera … guardia: porgi il biglietto ferroviario (la tessera) al controllore (guardia) affinché lo fori (al secco<br />
taglio).<br />
15-16 e al tempo … ricordi: e consegni (dài) al tempo che corre senza sosta (incalzante) gli anni della giovinezza, gli<br />
istanti felici (gioiti), i ricordi.<br />
17 convoglio: serie delle carrozze del treno.<br />
16
18 vigili: ferrovieri addetti al controllo dei freni.<br />
19 fioca: (dalla luce) debole, pallida.<br />
21 tentati: colpiti, percossi.<br />
22-23 rendono … lungo: restituiscono un suono lungo e triste, quasi funereo (lugubre), come di campana.<br />
24 un’eco… pare: a quel suono risponde come se fosse un’eco la sensazione di una stanchezza interiore e dolorosa<br />
(tedio), che sembra un tormento, una sofferenza (spasimo pare).<br />
26 oltraggi: insulti.<br />
26-27 scherno … suona: l’ultima, rapida chiamata prima della partenza sembra una presa in giro (scherno).<br />
29-30 il mostro… anima: trasfigurazione fantastica della locomotiva a vapore, che appare una creatura mostruosa<br />
consapevole della sua anima di ferro.<br />
30 crolla, ansa: si scrolla, emette suoni come chi respira affannosamente per la fatica (ansa).<br />
31-32 i fiammei … sbarra: lancia in avanti la luce dei fanali accesi.<br />
31 immane: enorme, spaventoso.<br />
33 empio: crudele (perché gli porta via la donna amata); traino orribile: vagoni spietati, crudeli.<br />
34 sbattendo l’ale: nella trasfigurazione della locomotiva in mostro, gli stantuffi delle vecchie locomotiva a vapore<br />
appaiono come ali in movimento.<br />
35 la bianca faccia: il pallido viso.<br />
36 ne la tènebra: nel buio.<br />
38 stellanti… pace: occhi lucenti come stelle che trasmettono un senso di pace.<br />
39 floridi ricci: folti ricci dei capelli.<br />
40 atto soave: atteggiamento dolce.<br />
41 Fremea: Palpitava di passione; tepid’aere: nell’aria tiepida.<br />
42 mi arrisero: mi sorrisero; il soggetto sono gli occhi della donna amata (v. 38).<br />
43-46 il giovine… guancia: il sole primaverile (giovine) di giugno si compiaceva (si piacea) di inondare di luce (baciar<br />
luminoso) la guancia tenera (molle) tra i riflessi dei capelli (crin) castani.<br />
48 ricingean: cingevano, avvolgevano (il soggetto sono i sogni del poeta).<br />
49 tra la caligine: tra il fumo grigio.<br />
51 com’ebro: come ubriaco.<br />
54 greve: pesante.<br />
57 Meglio… l’essere: Tocca sorte migliore a chi ha perso il senso della vita.<br />
60 un tedio che duri infinito: una malinconia senza limiti.<br />
La prima immagine che si imprime nella mente del lettore di questa lirica è quella di una natura<br />
umanizzata: i fanali dei vagoni del treno che si avvicinano tra i rami, da cui come lacrime scende la<br />
pioggia, sono accidiosi (aggettivo dantesco) e sbadigliano la loro luce. Questo immerge chi legge<br />
immediatamente in un’atmosfera profondamente malinconica; tutto nella descrizione collabora a<br />
rendere il sentimento di tristezza e lamento: la locomotiva che suona flebile ma anche stridula, il<br />
cielo plumbeo, la similitudine tra il mattino nebbioso e un’ombra di fantasma. E allo stesso tempo<br />
tutti gli esseri che popolano la scena, tutti i dettagli descritti, partecipano di un’atmosfera infernale,<br />
se si eccettua Lidia che, pensosa, offre al taglio del controllore il proprio biglietto e, in quello<br />
stesso istante, però, nel sentimento del poeta, offre e sacrifica la gioia dei momenti vissuti<br />
all’incalzare del tempo che li porta via.<br />
Complessivamente, sia i lavoratori (rappresentati come vigili incappucciati di nero), sia le<br />
lanterne, sia i freni del treno che risuonano ferrei sono interpretati simbolicamente, per rendere il<br />
senso di tedio, di malinconia del presente. E lo sbattere degli sportelli diventa addirittura un<br />
oltraggio e uno scherno: a partire da questa immagine ancor meglio si compie la trasposizione<br />
dell’elemento descrittivo in materia psicologica e sentimentale.<br />
Così il treno, simbolo della modernità, vera e propria icona del positivismo, si trasfigura in un<br />
essere vivo, un empio mostro che sbuffa e fiammeggia dagli occhi. Allegoria della vita presente in<br />
cui tutto si muove senza meta e senz’anima, tutto è insensato, esso rapisce al soggetto “la bianca<br />
faccia e ‘l bel velo”, immagine classica e petrarchesca dell’amata.<br />
Il primo collegamento intertestuale che suggerisce questa poesia, come molte delle odi barbare, è<br />
con la contemporanea scuola francese: le suggestioni da sogno filtrate attraverso il ricordo, nella<br />
seconda parte del componimento (di cui i vv.37-48 costituiscono il nucleo antico) rimandano<br />
infatti da un lato all’estetica parnassiana con le sue ascendenze classiche, specie nel linguaggio,<br />
17
dall’altro anche alla tendenza ad una poesia visionaria e dei sensi quale quella decadente e di<br />
matrice baudeleriana: (si vedano i cromatismi che giocano sui colori della donna e sulla luce).<br />
Il registro torna ad essere invece quello cupo e malinconico nelle ultime tre quartine, nelle quali,<br />
però, il paesaggio appare ancora più interiorizzato e trasformato in riflessione esistenziale: la<br />
caligine, l’ombra, la nebbia non sono solo rappresentazioni dell’esterno, ma adombrano l’animo<br />
del soggetto. Così, allo stesso modo, le foglie che cadono suggeriscono che “ tutto “nel mondo è<br />
novembre”. E’ il soggetto, dunque, che riverbera sul paesaggio il suo disagio interiore, alludendo<br />
all’idea leopardiana che tutto muore e sfiorisce, o si trasforma in tedio.<br />
Si è detto che questa poesia è fatta di due nuclei distinti, fusi nel 1876 quando il poeta decide di<br />
rievocare un incontro con l’amata Lidia avvenuto a Bologna nel 1873. La divisione è segnalata da<br />
elementi cromatici. ovvero dalla sostanza luminosa che caratterizza il ricordo nelle tre strofe<br />
centrali (i vv.37-41, che risalgono al 1875) e che si contrappone alla caligine in cui si consuma il<br />
distacco e, attraverso il brusco ritorno al presente del v.49 (“sotto la pioggia, tra la caligine/torno<br />
ora”), si conclude la lirica.<br />
Il tema della partenza dell’amata non era certo nuovo, come non nuovo è quello del tedio, la<br />
malinconia dell’attesa e del ricordo, tipico dell’esperienza romantica ma anche di quella decadente:<br />
e per proporre un’analogia di situazione e di atteggiamento si può ricordare qui il novecentesco<br />
Eugenio Montale, che ne Le occasioni del 1939 compone il mottetto Addii, fischi nel buio, cenni,<br />
tosse, dedicato anch’esso ad un saluto in stazione. Ma un elemento che colpisce più di altri è<br />
l’osmosi lessicale e la raffinata ricerca espressiva con cui Carducci riesce a rendere poetabili gli<br />
elementi della modernità, come la stazione, il treno, attraverso scelte lessicali preziose e aggettivi<br />
aulici (speme, empio, velo, gentile, anima) che si accompagnano e mescolano a a termini moderni<br />
(guardia, sportelli sbattuti, fischio) . Alto il livello di musicalità suggerito dall’intenso gioco di<br />
allitterazioni, che sostituiscono la rima, dalla sonorità prodotta dalle disposizione in serie di<br />
termini (ad es. al v.30 sbuffa, crolla, ansa) e dalle numerose anafore (fremea la vita …fremea<br />
l’estate, ai vv.41-42; io voglio io voglio adagiarmi, al v.59).<br />
18
Giovanni Pascoli, Temporale<br />
[da Pascoli, Poesie, “Myricae”, p.86]<br />
La natura offre all’occhio umano un’immagine della propria potenza se si osserva e si ascolta la<br />
nascita di un temporale<br />
Un bubbolio lontano….<br />
Rosseggia l’orizzonte,<br />
come affocato, a mare:<br />
nero di pece a monte<br />
stracci di nubi chiare: 5<br />
tra il nero un casolare:<br />
un’ala di gabbiano<br />
1 bubbolio: termine onomatopeico che indica il rumore del tuono; Si richiama al nome di un uccello.<br />
2 Rosseggia: Si tinge di rosso.<br />
3 affocato: rosso come il fuoco; più raro di infuocato, il termine è usato in Dante, Purgatorio, VIII, v.26.<br />
4 pece: sostanza nera, densa, ottenuta dalla lavorazione dei catrami.<br />
5 stracci di nubi: le nubi appaiono frammentate e cosparse sull’orizzonte nero del cielo<br />
SCHEDA METRICA<br />
Ballata piccola di 7 versi settenari con schema a bcbcca<br />
A chi lo legge per la prima volta, Temporale appare dominato dalla rappresentazione del paesaggio<br />
di tipo impressionistico: un solo verbo, rosseggia al v.2, e tutte immagini naturali filtrate da una<br />
soggettività che le umanizza. Il poeta fa "vivere" le immagini come fossero entità sofferenti e<br />
angosciose: effetto tipico di una poetica che lega impressionismo a simbolismo, in cui ogni<br />
distinzione realistica fra io e mondo viene superata. E’ la poetica di Myricae, il primo libro di<br />
Pascoli (prima edizione del 1891, settima e definitiva nel 1905), nella cui III edizione, nella sezione<br />
“In campagna” (1894) questo componimento compare, insieme a Il lampo, a testimoniare<br />
l’evoluzione dal tema commemorativo e luttuoso (nel primo nucleo era centrale il ricordo<br />
traumatico della morte del padre, rottura del “nido” familiare) verso un soggettivismo che si amplia<br />
a leggere nelle diverse manifestazioni della natura e del paesaggio il senso del mistero della vita<br />
umana.<br />
Il fenomeno temporalesco ha dunque sostanza simbolica, ma la sua raffigurazione è totalmente<br />
affidata a suggestioni evocative: così l'iniziale bubbolìo (termine di cui va sottolineata la valenza<br />
onomatopeica) e le immagini dell'orizzonte che rosseggia, come infuocato, del nero di pece e degli<br />
stracci di nubi (due ipallagi di rara efficacia), dell'ala di gabbiano assimilata per analogia al<br />
casolare, nel quale è leggibile una traccia più o meno esplicita di presenza umana, rappresentano<br />
tutte, attraverso una giustapposizione di effetti prima uditivi (il rumore lontano del tuono) e poi<br />
visivi e cromatici (le macchie di rosso, nero, bianco), in apparenza naturalistici, le immagini di un<br />
temporale "interiore" e soggettivo.<br />
Per ottenere questo effetto evocativo, il poeta compie scelte sintattiche molto originali: un fraseggio<br />
spezzato, fatto di asindeti, frasi nominali, segmenti paratattici. In Temporale ci sono dieci sostantivi<br />
e un aggettivo sostantivato (ripetuto due volte: nero di..., il nero...), con un solo verbo (rosseggia,<br />
che oltretutto indica un colore più che un'azione) e soli tre aggettivi (lontano, affocato, chiare).<br />
La storia della composizione di questa lirica ci svela qualche altro interessante particolare: essa esce<br />
in questa forma, come si è detto, nel 1894, insieme a Il lampo, che fu contemporaneamente<br />
19
composta nel ’90, e che presenta lo stesso procedimento compositivo: in entrambi i testi ricorre<br />
l'antitesi profonda fra il nero della notte (la tempesta del mondo e della vita) e il bianco di una casa<br />
(la pace del nido): nel primo il nero di pece contro il casolare bianco come un'ala di gabbiano; nel<br />
secondo troviamo una casa bianca che si oppone alla notte nera. Ma Pascoli aveva l’abitudine di<br />
giungere alla versione definitiva dei testi attraverso abbozzi in prosa e in versi che modificava di<br />
continuo. La prima idea di questa lirica è in una lettera alle sorelle dello stesso anno: il poeta scrive<br />
di aver osservato “Da Poggibonsi a Siena, gran temporale nero con tuoni e lampi e scrosci terribili<br />
di pioggia”. Seguono due versioni o abbozzi:<br />
A)<br />
M’è davanti un rosseggiare<br />
Tetro come di vulcano<br />
Com’è nero alla sinistra: tutto sparso a fiocchi bianchi<br />
Una casa vi biancheggia come un cigno.<br />
B)<br />
Lontano il tuono rimbomba<br />
Rosseggia l’orizzonte<br />
Come affocato, a mare:<br />
nero di pece a monte<br />
con fiocchi grigi appare<br />
tra il nero un casolare<br />
[come] un’ala di colomba<br />
Come è evidente confrontando le versioni, la riduzione all’essenzialità visiva non è ottenuta senza<br />
sforzo: è frutto di un attentissimo procedimento formale, di progressiva “asciugatura” del<br />
componimento nel quale le similitudini si trasformano in analogie, i verbi scompaiono. Così,<br />
indebolendo la struttura logico-razionale della sintassi, la costruzione analogica finisce per<br />
sprigionare il significato sotteso: il volo del gabbiano, come il biancheggiare del casolare, sono una<br />
nota positiva, di speranza, rispetto agli oscuri presagi che provengono all’uomo dal grandioso e<br />
inquietante spettacolo della natura.<br />
20
Giovanni Pascoli, Italy<br />
[da Pascoli, Poesie, “Primi poemetti”, pp. 275 - 296]<br />
Nel 1904, traendo spunto da un episodio veramente accaduto nella famiglia di un piccolo<br />
agricoltore suo amico, Pascoli scrisse questo lungo poemetto che ha per sottotitolo Sacro all’Italia<br />
raminga, e racconta il fenomeno dell’emigrazione, osservato come perdita d’identità e sentimento<br />
di estraneità reciproca fra chi è partito e i parenti rimasti in patria a conservare le arcaiche<br />
abitudini di vita. Protagoniste dell’opera sono la piccola Maria-Molly, malata di tisi, riportata in<br />
Italia dal lontano Ohio per trovare aria buona e cure, e la nonna, che le si affeziona fino a morire,<br />
simbolicamente, in sua vece.<br />
I<br />
A Caprona, una sera di febbraio,<br />
gente veniva, ed era già per l’erta,<br />
veniva su da Cincinnati, Ohio.<br />
Canto primo<br />
La strada, con quel tempo, era deserta.<br />
Pioveva, prima adagio, ora a dirotto, 5<br />
tamburellando su l’ombrella aperta.<br />
La Ghita e Beppe di Taddeo lì sotto<br />
erano, sotto la cerata ombrella<br />
del padre: una ragazza, un giovinotto.<br />
E c’era anche una bimba malatella, 10<br />
in collo a Beppe, e di su la sua spalla<br />
mesceva giù le bionde lunghe anella.<br />
Figlia d’un altro figlio, era una talla<br />
del ceppo vecchio nata là: Maria:<br />
d’ott’anni: aveva il peso d’una galla. 15<br />
Ai ritornanti per la lunga via,<br />
già vicini all’antico focolare,<br />
la lor chiesa sonò l’Avemaria.<br />
Erano stanchi! Avean passato il mare!<br />
Appena appena tra la pioggia e il vento 20<br />
l’udiron essi or sì or no sonare.<br />
Maria cullata dall’andar su lento<br />
sembrava quasi abbandonarsi al sonno,<br />
sotto l’ombrella. Fradicio e contento<br />
veniva piano dietro tutti il nonno. 25<br />
Sacro all’Italia raminga<br />
21
II<br />
Salivano, ora tutti dietro il nonno,<br />
la scala rotta. Il vecchio Lupo in basso<br />
non abbaiò; scodinzolò tra il sonno.<br />
E tentennò sotto il lor piede il sasso<br />
d’avanti l’uscio. C’era sempre stato 30<br />
presso la soglia, per aiuto al passo.<br />
E l’uscio, come sempre, era accallato.<br />
Lì dentro, buio come a chiuder gli occhi.<br />
Ed era buia la cucina allato.<br />
La mamma? Forse scesa per due ciocchi... 35<br />
forse in capanna a mòlgere... No, era<br />
al focolare sopra i due ginocchi.<br />
Avea pulito greppia e rastrelliera;<br />
ora, accendeva... Udì sonare fioco:<br />
era in ginocchio, disse la preghiera. 40<br />
Appariva nel buio a poco a poco.<br />
«Mamma, perché non v’accendete il lume?<br />
Mamma, perché non v’accendete il fuoco?»<br />
«Gesù! Ché ho fatto tardi col rosume...»<br />
E negli stecchi ella soffò, mezzo arsi; 45<br />
e le sue rughe apparvero al barlume.<br />
E raccattava, senza ancor voltarsi,<br />
tutta sgomenta, avanti a sé, la mamma,<br />
brocche, fuscelli, canapugli, sparsi<br />
sul focolare. E si levò la fiamma. 50<br />
III<br />
E i figli la rividero alla fiamma<br />
del focolare, curva, sfatta, smunta.<br />
«Ma siete trista! siete trista, o mamma!»<br />
Ed accostando agli occhi, essa, la punta<br />
del pennelletto, con un fil di voce: 55<br />
«E il Cecco è fiero? E come va l’Assunta?»<br />
«Ma voi! Ma voi!» «Là là, con la mia croce.»<br />
I muri grezzi apparvero col banco<br />
vecchio e la vecchia tavola di noce.<br />
22
Di nuovo, un moro, con non altro bianco 60<br />
che gli occhi e i denti, era incollato al muro,<br />
la lenza a spalla ed una mano al fianco:<br />
roba di là. Tutto era vecchio, scuro.<br />
S’udiva il soffio delle vacche, e il sito<br />
della capanna empiva l’abituro. 65<br />
Beppe sedè col capo indolenzito<br />
tra le due mani. La bambina bionda<br />
ora ammiccava qua e là col dito.<br />
Parlava; e la sua nonna, tremebonda,<br />
stava a sentire, e poi dicea: «Non pare 70<br />
un luì quando canta tra la fronda?»<br />
Parlava la sua lingua d’oltremare:<br />
«...a chicken-house» «un piccolo luì...»<br />
«...for mice and rats» «che goda a cinguettare,<br />
zi zi» «Bad country, Ioe, your Italy!» 75<br />
IV<br />
ITALY, penso, se la prese a male.<br />
Maria, la notte (era la Candelora),<br />
sentì dei tonfi come per le scale...<br />
tre quattro carri rotolarono... Ora<br />
vedea, la bimba, ciò che n’era scorso! 80<br />
the snow! La neve, a cui splendea l’aurora.<br />
Un gran lenzuolo ricopriva il torso<br />
dell’Omo-morto. Nel silenzio intorno<br />
parea che singhiozzasse il Rio dell’Orso.<br />
Parea che un carro, allo sbianchir del giorno 85<br />
ridiscendesse l’erta con un lazzo<br />
cigolìo. Non un carro, era uno storno,<br />
uno stornello in cima del Palazzo<br />
abbandonato, che credea che fosse<br />
marzo, e strideva: marzo, un sole e un guazzo! 90<br />
Maria guardava. Due rosette rosse<br />
aveva, aveva lagrime lontane<br />
negli occhi, un colpo ad or ad or di tosse.<br />
La nonna intanto ripetea: «Stamane<br />
fa freddo!» Un bianco borracciol consunto 95<br />
mettea sul desco ed affettava il pane.<br />
23
Pane di casa e latte appena munto.<br />
Dicea: «Bimbina, state al fuoco: nieva!<br />
Nieva!» E qui Beppe soggiungea compunto:<br />
«Poor Molly! Qui non trovi il pai con fleva!» 100<br />
V<br />
Oh! No: non c’era lì né pie né flavour<br />
né tutto il resto. Ruppe in un gran pianto:<br />
«Ioe, what means nieva? Never? Never? Never?»<br />
Oh! No: starebbe in Italy sin tanto<br />
ch’ella guarisse: one month or two, poor Molly! 105<br />
E Ioe godrebbe questo po’ di scianto.<br />
Mugliava il vento che scendea dai colli<br />
bianchi di neve. Ella mangiò, poi muta<br />
fissò la fiamma con gli occhioni molli.<br />
Venne, sapendo della lor venuta, 110<br />
gente, e qualcosa rispondeva a tutti<br />
Ioe, grave: «Oh yes, è fiero... vi saluta...<br />
molti bisini, oh yes... No, tiene un frutti-<br />
stendo... Oh yes, vende checche, candi, scrima...<br />
Conta moneta! Può campar coi frutti... 115<br />
Il baschetto non rende come prima...<br />
Yes, un salone, che ci ha tanti bordi...<br />
Yes, l’ho rivisto nel pigliar la stima...»<br />
Il tramontano discendea con sordi<br />
brontoli. Ognuno si godeva i cari 120<br />
ricordi, cari ma perché ricordi:<br />
quando sbarcati dagli ignoti mari<br />
scorrean le terre ignote con un grido<br />
straniero in bocca, a guadagnar danari<br />
per farsi un campo, per rifarsi un nido... 125<br />
VI<br />
Un campettino da vangare, un nido<br />
da riposare: riposare, e ancora<br />
gettare in sogno quel lontano grido:<br />
24
Will you buy... per Chicago Baltimora.<br />
Buy images... per Troy, Memphis, Atlanta, 130<br />
con una voce che te stesso accora:<br />
cheap! Nella notte, solo in mezzo a tanta<br />
gente; cheap! cheap! tra un urlerìo che opprime;<br />
cheap!... Finalmente un altro odi, che canta...<br />
Tu non sai come, intorno a te le cime 135<br />
sono dell’Alpi, in cui si arrossa il cielo:<br />
chi canta, è il gallo sopra il tuo concime.<br />
«La mi’ Mèrica! Quando entra quel gelo,<br />
ch’uno ritrova quella stufa roggia<br />
per il gran coke, e si rià, poor fellow! 140<br />
va pur via, battuto dalla pioggia.<br />
Trova un farm. You want buy? Mostra il baschetto.<br />
Un uomo compra tutto. Anche, l’alloggia!»<br />
Diceva alcuno; ed assentiano al detto<br />
gli altri seduti entro la casa nera, 145<br />
più nera sotto il bianco orlo del tetto.<br />
Uno guardò la piccola straniera,<br />
prima non vista, muta, che tossì.<br />
«You like this country...» Ella negò severa:<br />
«Oh no! Bad Italy! Bad Italy!» 150<br />
VII<br />
ITALY allora s’adirò davvero!<br />
Piovve; e la pioggia cancellò dal tetto<br />
quel po’ di bianco, e fece tutto nero.<br />
Il cielo, parve che si fosse stretto,<br />
e rovesciava acquate sopra acquate! 155<br />
O ferraietto, corto e maledetto!<br />
Ghita diceva: «Mamma, a che filate?<br />
Nessuna fila in Mèrica. Son usi<br />
d’una volta, del tempo delle fate.<br />
Oh yes! Filare! Assai mi ci confusi 160<br />
da bimba. Or c’è la macchina che scocca<br />
d’un frullo solo centomila fusi.<br />
Oh yes! Ben altro che la vostra ròcca!<br />
E fila unito. E duole poi la vita<br />
25
e ci si sente prosciugar la bocca!» 165<br />
La mamma allora con le magre dita<br />
le sue gugliate traea giù più rare,<br />
perché ciascuna fosse bella unita.<br />
Vedea le fate, le vedea scoccare<br />
fusi a migliaia, e s’indugiava a lungo 170<br />
nel suo cantuccio presso il focolare.<br />
Diceva: «Andate a letto, io vi raggiungo.»<br />
Vedea le mille fate nelle grotte<br />
illuminate. A lei faceva il fungo<br />
la lucernina nell’oscura notte. 175<br />
VIII<br />
Pioveva sempre. Forse uscian, la notte,<br />
le stelle, un poco, ad ascoltar per tutto<br />
gemer le doccie e ciangottar le grotte.<br />
Un poco, appena. Dopo, era più brutto:<br />
piovea più forte dopo la quiete. 180<br />
O ferraiuzzo, piccolino e putto!<br />
Ghita diceva: «Madre, a che tessete?<br />
Là, può comprare, a pochi cents, chi vuole,<br />
cambrì, percalli, lustri come sete.<br />
E poi la vita dite che vi duole! 185<br />
C’è dei telari in Mèrica, in cui vanno<br />
ogni minuto centomila spole.<br />
E ce n’ha mille ogni città, che fanno<br />
ciascuno tanta tela in uno scatto,<br />
quanta voi non ne fate in capo all’anno.» 190<br />
Dicea la mamma: «Il braccio ch’io ricatto<br />
bel bello, vuole diventar rotello.<br />
O figlia, più non è da fare, il fatto».<br />
E tendeva col subbio e col subbiello<br />
altre fila. La bimba, lì, da un canto, 195<br />
mettea nello spoletto altro cannello.<br />
Stava lì buona come ad un incanto,<br />
in quel celliere dalla vòlta bassa,<br />
Molly, e tossiva un poco, ma soltanto<br />
26
tra il rumore dei licci e della cassa. 200<br />
IX<br />
Tra il rumore dei licci e della cassa<br />
tossiva, che la nonna non sentisse.<br />
La nonna spesso le dicea: «Ti passa?»<br />
Yes, rispondeva. Un giorno poi le disse:<br />
«Non venir qui!» Ma ella ci veniva, 205<br />
e stava lì con le pupille fisse.<br />
Godeva di guardare la giuliva<br />
danza dei licci, e di tenere in mano<br />
la navicella lucida d’oliva.<br />
Stava lì buona a’ piedi d’un soppiano; 210<br />
girava l’aspo, riempìa cannelli,<br />
e poi tossiva dentro sé pian piano.<br />
Un giorno che veniva acqua a ruscelli,<br />
fissò la nonna, e chiese: «Die?» La nonna<br />
le carezzava i morbidi capelli. 215<br />
La bimba allora piano per la gonna<br />
le salì, le si stese sui ginocchi:<br />
«Die?» «E che t’ho a dir io povera donna?»<br />
La bimba allora chiuse un poco gli occhi:<br />
«Die! Die!» La nonna sussurrò: «Dormire?» 220<br />
«No! No!» La bimba chiuse anche più gli occhi,<br />
s’abbandonò per più che non dormire,<br />
piegò le mani, sopra il petto: «Die!<br />
Die! Die!» La nonna balbettò: «Morire!"<br />
«Oh yes! Molly morire in Italy!» 225<br />
Italy allora n’ebbe tanta pena.<br />
Povera Molly! E venne un vento buono<br />
che spazzò l’aria che tornò serena.<br />
I<br />
Canto secondo<br />
Vieni, poor Molly! Vieni! Dove sono<br />
le nubi? In cielo non c’è più che poca 5<br />
nebbia, una pace, un senso di perdono,<br />
27
di quando il bimbo perdonato ha roca<br />
ancor la voce; all’angolo degli occhi<br />
c’era una stilla, e cade, mentre gioca.<br />
Vieni, poor Molly! Porta i tuoi balocchi. 10<br />
Dove sono le nubi nere nere?<br />
Qualche lagrima sgocciola dai fiocchi<br />
delle avellane, e brilla nel cadere.<br />
II<br />
Porta the doll, la bambola, che viene,<br />
povera Doll, anch’essa dal paese 15<br />
lontano, ed essa ti capisce bene.<br />
E quando tu le parli per inglese,<br />
presso le guancie pallide ti pone<br />
le sue color di rosa d’ogni mese.<br />
Dal suo lettino lucido, d’ottone, 20<br />
levala su, che l’uggia non la vinca.<br />
Non dorme, vedi. Vedi, dal cantone<br />
sgrana que’ suoi due fiori di pervinca.<br />
III<br />
O Moll e Doll, venite! Ora comincia<br />
il tempo bello. Udite un campanello 25<br />
che in mezzo al cielo dondola? È la cincia.<br />
O Moll e Doll, comincia il tempo bello.<br />
Udite lo squillar d’una fanfara<br />
che corre il cielo rapida? È il fringuello.<br />
Fringuello e cincia ognuno già prepara 30<br />
per il suo nido il mustio e il ragnatelo;<br />
e d’ora in ora primavera a gara<br />
cantano, uno sul pero, uno sul melo.<br />
IV<br />
Altre due voci ora dal monte al piano<br />
s’incontrano: uno scampanare a festa, 35<br />
con un altro più piano e più lontano.<br />
28
L’una tripudia, e i mille echi ridesta<br />
del monte, bianco ancora un po’ di neve.<br />
Di tanto in tanto ecco la voce mesta;<br />
ecco un rintocco, appena appena un breve 40<br />
colpo, che pare così lungo al cuore!<br />
No, non vorrebbe, o gente, no; ma deve.<br />
C’è là chi sposa, ma c’è qua chi muore.<br />
V<br />
Buoni villaggi che vivete intorno<br />
al verde fiume, e di comune intesa 45<br />
vi dite tutto ciò che fate il giorno!<br />
Si levano. Ora vanno tutti in chiesa,<br />
ora son tutti a desinare, ed ora<br />
c’è in ogni casa la lucerna accesa.<br />
Poi quando immersi ad aspettar l’aurora 50<br />
sembrano tutti, ecco più su più giù,<br />
più qua più là, le loro voci ancora.<br />
Pensano a quelli che non sono più...<br />
VI<br />
Lèvati, Molly. Gente odo parlare<br />
la tua parlata. Sono qui. Cammina, 55<br />
se vuoi vederle. Hanno passato il mare.<br />
Fanno un brusio nell’ora mattutina!<br />
Ma il vecchio Lupo dorme e non abbaia.<br />
È buona gente e fu già sua vicina.<br />
Vengono e vanno, su e giù dall’aia 60<br />
alla lor casa che da un pezzo è vuota.<br />
Oh! La lor casa, sotto la grondaia,<br />
non gli par brutta, ben che sia di mota!<br />
VII<br />
Sweet... Sweet... Ho inteso quel lor dolce grido<br />
dalle tue labbra... Sweet, uscendo fuori 65<br />
e sweet sweet sweet, nel ritornare al nido.<br />
29
Palpiti a volo limpidi e sonori,<br />
gorgheggi a fermo teneri e soavi,<br />
battere d’ali e battere di cuori!<br />
In questa casa che tu bad chiamavi, 70<br />
black, nera, sì, dal tempo e dal lavoro,<br />
son le lor case, là, sotto le travi,<br />
di mota sì, ma così sweet per loro!<br />
VIII<br />
O rondinella nata in oltremare!<br />
Quando vanno le rondini, e qui resta 75<br />
il nido solo, oh! Che dolente andare!<br />
Non c’è più cibo qui per loro, e mesta<br />
la terra e freddo è il cielo, tra l’affanno<br />
dei venti e lo scrosciar della tempesta.<br />
Non c’è più cibo. Vanno. Torneranno? 80<br />
Lasciano la lor casa senza porta.<br />
Tornano tutte al rifiorir dell’anno!<br />
Quella che no, di’ che non può; ch’è morta.<br />
IX<br />
Quando tu sei venuta, o rondinella,<br />
t’hanno pur salutata le campane; 85<br />
ti venne incontro il nonno con l’ombrella,<br />
ti s’è strusciato alle gambine il cane.<br />
Pioveva; ma tu, bimba eri coperta;<br />
trovasti in casa il latte caldo e il pane.<br />
Il tuo nonno ansimava su per l’erta, 90<br />
la tua nonna pregava al focolare.<br />
Brutta la casa, sì ma era aperta,<br />
o mia figliuola nata in oltremare!<br />
X<br />
Ha la pena da parte, oggi, e la vita<br />
gli sente, e il capo, alla tua nonna, e il cuore; 95<br />
30
e siede al focolare infreddolita.<br />
Ieri si colse malva ed erbe more.<br />
Oggi sta peggio. Ha due rosette rosse,<br />
che non le ha fatte il fuoco che rimuore.<br />
Molly, tu vieni e guardi. Ecco, ha la tosse 100<br />
che avevi tu. Tosse ogni tanto un po’.<br />
Sta lì nel canto come non ci fosse.<br />
E non tesse e non fila. Oggi non può.<br />
XI<br />
Ha tessuto e filato, anche ha zappato,<br />
anche ha vangato, anche ha portato, oh! tanto 105<br />
che adesso stenta a riavere il fiato!<br />
O dolce Molly, tu le porti accanto<br />
Doll nel lettino lucido, e tu resti<br />
con loro... Tanto faticato e pianto!<br />
Pianto in vedere i figli o senza vesti 110<br />
o senza scarpe o senza pane! Pianto<br />
poi di nascosto, per non far più mesti<br />
i figli che... diceano addio, col canto!<br />
XII<br />
Addio, dunque! Ed anch’essa, Italy, vede,<br />
Italy piange. Hanno un po’ più fardello 115<br />
che le rondini, e meno hanno di fede.<br />
Si muove con un muglio alto il vascello.<br />
Essi, in disparte, con lo sguardo vano,<br />
mangiano qua e là pane e coltello.<br />
E alcun li tende, il pane da una mano, 120<br />
l’altro dall’altra, torbido ed anelo,<br />
al patrio lido, sempre più lontano<br />
e più celeste, fin che si fa cielo.<br />
XIII<br />
Cielo, e non altro, cielo alto e profondo,<br />
cielo deserto. O patria delle stelle! 125<br />
31
O sola patria agli orfani del mondo!<br />
Vanno serrando i denti e le mascelle,<br />
serrando dentro il cuore una minaccia<br />
ribelle, e un pianto forse più ribelle.<br />
Offrono cheap la roba, cheap le braccia, 130<br />
indifferenti al tacito diniego;<br />
e cheap la vita, e tutto cheap; e in faccia<br />
no, dietro mormorare odono: Dego!<br />
XIV<br />
Ma senti, Molly? Dopo pioggie e brume<br />
e nevi e ghiacci, con la sua gran voce 135<br />
canta passando a piè dei monti il fiume.<br />
Passa sotto la gran Pania alla Croce<br />
cantando, ed una lunga nube appare,<br />
bianca di sole, al suo passar veloce.<br />
Passa cantando: Al mare! Al mare! Al mare! 140<br />
e l’Alpe azzurra ne rimbomba in cerchio,<br />
e il cielo azzurro vede là fumare<br />
l’alito che si lascia addietro il Serchio.<br />
XV<br />
O fiumi, o delle rupi e dei ghiacciai<br />
figli rubesti, che precipitate 145<br />
a pazza corsa senza posar mai,<br />
con l’eterno fragor delle cascate,<br />
ruzzando come giovani giganti,<br />
senza perché, per atterrir le fate<br />
delle montagne; e trascinate infranti 150<br />
boschi e tuguri, urtate le città,<br />
struggete i campi, sempre avanti, avanti,<br />
avanti, pieni di serenità...<br />
XVI<br />
Acqua perenne, ottima e pessima, ora<br />
morte ora vita, acqua, diventa luce! 155<br />
32
Acqua, diventa fiamma! Acqua, lavora!<br />
Lavora dove l’uomo ti conduce;<br />
e veemente come l’uragano,<br />
vigile come femmina che cuce,<br />
trasforma il ferro, il lino, il legno, il grano; 160<br />
manda i pesanti traini come spole<br />
labili; rendi l’operato umano<br />
facile e grande come quel del Sole!<br />
XVII<br />
La madre li vuol tutti alla sua mensa<br />
i figli suoi. Qual madre è mai, che gli uni 165<br />
sazia, ed a gli altri, a tanti, ai più, non pensa?<br />
Siedono a lungo qua e là digiuni;<br />
tacciono, tralasciati nel banchetto<br />
patrio, come bastardi, ombre, nessuni;<br />
guardano intorno, e quindi sé nel petto; 170<br />
sentono su la lingua arida il sale<br />
delle lagrime; alfine, a capo eretto,<br />
escono, poi fuggono, poi: - Sii male...<br />
XVIII<br />
Non maledite! Vostra madre piange<br />
su voi, che ai salci sospendete i gravi 175<br />
picconi, in riva all’Obi, al Congo, al Gange.<br />
Ma d’ogni terra ove è sudor di schiavi,<br />
di sottoterra ove è stridor di denti,<br />
dal ponte ingombro delle nere navi,<br />
vi chiamerà l’antica madre, o genti, 180<br />
in una sfolgorante alba che viene,<br />
con un suo grande ululo ai quattro venti<br />
fatto balzare dalle sue sirene.<br />
XIX<br />
Non piangere, poor Molly! Esci, fa’ piano,<br />
lascia la nonna lì sotto il lenzuolo 185<br />
33
di tela grossa ch’ella fece a mano.<br />
T’amava, oh! sì! Tu ne imparavi a volo<br />
qualche parola bella che balbetti:<br />
essa da te solo quel die, die solo!<br />
Lascia lì Doll, lasciali accosto i letti, 190<br />
piccolo e grande. Doll è savia, e tace,<br />
né dorme: ha gli occhi aperti e par che aspetti<br />
che li apra l’altra, ch’ora dorme in pace.<br />
XX<br />
Prima d’andare, vieni al camposanto,<br />
s’hai da ridire come qua si tiene. 195<br />
Stridono i bombi intorno ai fior d’acanto,<br />
ronzano l’api intorno le verbene.<br />
E qui tra tanto sussurrio riposa<br />
la cara nonna che ti volle bene.<br />
O Molly! O Molly! Prendi su qualcosa, 200<br />
prima d’andare, e portalo con te.<br />
Non un geranio né un boccio di rosa,<br />
prendi sol un NON-TI-SCORDAR-DI-ME!<br />
«Ioe, bona cianza!...» «Ghita, state bene!...»<br />
«Good bye» «L’avete presa la ticchetta?» 205<br />
«Oh yes» «Che barco?» «Il Prinzessin Irene»<br />
L’un dopo l’altro dava a Ioe la stretta<br />
lunga di mano. «Salutate il tale.»<br />
«Yes, servirò.» «Come partite in fretta!»<br />
Scendean le donne in zoccoli le scale 210<br />
per veder Ghita. Sopra il suo cappello<br />
c’era una fifa con aperte l’ale.<br />
«Se vedete il mi’ babbo... il mi’ fratello...<br />
il mi’ cognato...» «Oh yes.» «Un bel passaggio<br />
vi tocca, o Ghita. Il tempo è fermo al bello.» 215<br />
«Oh yes.» Facea pur bello! Ogni villaggio<br />
ridea nel sole sopra le colline.<br />
Sfiorian le rose da’ rosai di maggio.<br />
Sweet sweet... era un sussurro senza fine<br />
34
nel cielo azzurro. Rosea, bionda, e mesta, 220<br />
Molly era in mezzo ai bimbi e alle bambine.<br />
Il nonno, solo, in là volgea la testa<br />
bianca. Sonava intorno mezzodì.<br />
Chiedeano i bimbi con vocìo di festa:<br />
"Tornerai, Molly?" Rispondeva: – Sì! – 225<br />
_______________________________<br />
Nota a Italy scritta da Giovanni Pascoli<br />
Il lettore non ha certo bisogno dei miei lumi per leggere e interpretare il povero inglese de’ miei personaggi. Gioverà<br />
tuttavia ricordare la pronuncia netta in a o aa che hanno, nella bocca dei nostri reduci di Mèrica, le parole come<br />
flavour (pr. fléva), never (pr. néva), steamer (pr. stima) e simili. Il grido dei figurinai, Buy images (= comprate figure)<br />
suona, in bocca loro, bai imigìs. E cheap (pr. cip) vale: a buon mercato. Molte parole inglesi sono da loro accomodate<br />
a italiane: bisini (per business) = affari; fruttistendo (per fruitstand) = bottega di fruttaiolo; checche (per cakes) =<br />
paste, pasticci; candi (da candy) = canditi; scrima (per ice-cream) = gelato di crema; baschetto (per basquet) =<br />
paniere da metterci le figure; salone (per saloon) = trattoria, bettola; bordi (da board) = pensioni, abbonati; stima<br />
(per steamer) = piroscafo; ticchetta (per ticket) = biglietto; cianza (per chance) = sorte, occasione. Barco dicono per<br />
bastimento.<br />
Molly è vezzeggiativo casereccio per Mary o Maria; doll significa bambola, ed è anche vezzeggiativo di Dorothy.<br />
Sweet (pr. suìt) vale dolce, ed è, per dir così, consacrato a home. Casa mia! Casa mia!<br />
Brutta parola, dopo queste così dolci, è dego, così pronunciata. Deriva, mi pare, da dagger = pugnale.<br />
Quanto alle rime con Italy, mi difenda, se accade, Shelley che rima, per esempio, she con poesy e die con purity (The<br />
Witch of Atlas; 26, 36).<br />
Aggiungiamo alla nota linguistica di Pascoli alcune osservazioni: baschetto (il canestro tradizionale dei figurinai<br />
lucchesi che vendevano statuine di gesso) al v.142 del I canto è adattamento di basket e non di basquet come è detto<br />
nella Nota. L’etimo di dego (v.133 canto II) non è quello proposto da Pascoli: si tratta più probabilmente di una<br />
deformazione di Diego, nome proprio molto diffuso in Spagna. Per estensione, il termine indica in generale i maschi<br />
latini; ha una forte connotazione negativa.<br />
Canto primo<br />
raminga: Costretto a peregrinare senza sosta, migrante.<br />
1 Caprona: Caprona di Castelvecchio, paesino della Garfagnana.<br />
2 per l’erta: sulla salita.<br />
3 Ohio: si noti la rima fonica e non visiva con febbraio, basata sulla pronuncia della parola in inglese.<br />
12 bionde lunghe anella: biondi capelli inanellati.<br />
13 talla: ramo che si trapianta, appartiene al lessico agricolo toscano; qui si intende come germoglio (dell’antico<br />
nucleo familiare).<br />
15 galla: protuberanza, rigonfiamento vuoto, e dunque privo di peso.<br />
18 l’Avemaria: è un’indicazione temporale, l’ora in cui la campana suona l’Avemaria è il tramonto.<br />
27 il vecchio Lupo: è il cane di casa che, come nel topos letterario del nostos, cioè il ritorno a casa dell’eroe (si veda<br />
l’Odissea), riconosce il padrone e non abbaia.<br />
32 accallato : socchiuso, accostato (è vocabolo del lucchese e del contado di Pistoia).<br />
36 molgere: mungere (dialettale).<br />
44 rosume: resti del fieno (è lucchese, ma ha tradizione letteraria); la nonna giustifica il ritardo con il lavoro svolto<br />
nella stalla.<br />
49 canapugli : fusti della canapa (è voce toscana).<br />
55 pennelletto: grembiule (è dialetto lucchese).<br />
56 fiero : in buona salute, in gamba (accezione lucchese).<br />
58 banco: armadio per la biancheria.<br />
60 un moro: l’immagine di un pescatore di colore.<br />
64 sito: puzzo, odore di muffa (è voce toscana).<br />
65 abituro: la povera abitazione.<br />
71 un luì: un uccellino, il cui nome onomatopeico deriva dal suono del canto.<br />
35
72-73 «a chicken-house» «…for mice and rats» : espressioni in inglese usate dalla nipotina, che disprezza l’abitazione<br />
definendola «un pollaio per topi e ratti», mentre la nonna non capisce e la paragona ancora ad un uccellino canterino.<br />
75 «bad country, Ioe, your italy”: si noti l’estraneità della bambina che definisce l’Italia «terra cattiva» e soprattutto si<br />
rivolge a Joe chiamandola «la tua Italia».<br />
83 Omo-morto: è il nome attribuito dal popolo al monte Pania sulle Alpi Apuane.<br />
84 parea…Orso: il Rio dell’Orso, torrente di Caprona, scorre come singhiozzando.<br />
86-87 lazzo cigolìo: è una sinestesia, riferita al rumore stridente, ma lazzo è aggettivo adeguato al senso del gusto.<br />
95 borracciol : piccolo telo, tovagliolo (è diminutivo di borraccio, voce di origine emiliana).<br />
98 nieva: nevica (è forma lucchese).<br />
100 Pai con fleva: torta con gli aromi; compaiono qui le prime forme di inglese italianizzato dai termini inglesi pie e<br />
flavour<br />
103 «Ioe…never?»: La bambina non capisce e chiede «Ioe, che significa nieva? Mai? Mai? Mai?».<br />
105 «one month…Molly»: «un mese o due, povera Molly!»; la bambina è venuta in Italia per guarire.<br />
106 scianto: spasso e riposo dopo il lavoro (è lucchese).<br />
112-118 «Oh yes….la stima»: Joe risponde alle domande dei visitatori riportando notizie dei loro parenti in America.<br />
116 il baschetto: paniere (vedi note dell’autore).<br />
118 stima: nave a vapore (da steamer).<br />
123-124 con un grido…bocca: gridando parole straniere.<br />
134-135 un altro…che canta: sentire un altro emigrante che canta nella tua stessa lingua è un sollievo.<br />
135-137 Tu non sai…concime: la voce amica spinge alla fantasia di credere di essere tornati tra le Alpi Apuane, in<br />
patria al punto che sembra che a cantare sia il gallo di casa.<br />
138 La Mi’ Merica: gli emigranti che, incontrato il compaesano ricordano, sono presi dalla nostalgia del loro viaggio in<br />
America.<br />
139 coke: carbone.<br />
140 «si rià poor fellow»: «si riprende, povero diavolo!»<br />
149 «You like this country»: «Ti piace questo paese.»<br />
150 bad Italy: cattiva Italia.<br />
207-8 giuliva … licci: l’allegro movimento delle parti del telaio che si alzano e abbassano portando i fili dell’ordito del<br />
tessuto.<br />
209 navicella: navetta o spola, è lo strumento che contiene e permette di lavorare il filo facendolo passare tra i fili<br />
del’ordito.<br />
210 soppiano: madia per tenere il grano.<br />
211 aspo… cannelli: elementi della struttura del telaio.<br />
217 Die?: La bambina cerca di comunicare con la nonna per spiegarle di avere una malattia grave che conduce alla<br />
morte (die, morire). La comunicazione è complicata, ma riesce.<br />
Canto secondo<br />
13 avellane: noccioli.<br />
21 l’uggia: fastidio, inquietudine.<br />
26 cincia: tipo di uccello.<br />
31 mustio: muschio (variante popolare); ragnatelo: variante di ragnatela, tela del ragno.<br />
36 tripudia: esprime gioia e allegria.<br />
63 mota: fango.<br />
64 « Sweet... Sweet...»: «Dolce … Dolce…», ma per onomatopea è anche il suono degli uccelli che tornano al nido,<br />
immagine fondamentale nell’immaginario simbolico di Pascoli.<br />
99 rimuore: muore, si spegne.<br />
117 muglio: mugghio, muggito intenso e prolungato (variante popolare).<br />
121 torbido ed anelo: impuro e concitato, ansante.<br />
131 cheap: a buon mercato (vedi nota dell’autore).<br />
137 Pania della Croce: cima delle Alpi Apuane, di antica tradizione letteraria a partire da Dante, Inferno, XXXII.<br />
145 rubesti: gagliardi, impetuosi; è riferito ai fiumi, figli impetuosi delle rupi e dei ghiacciai.<br />
148 ruzzando: sbizzarendosi, giocando in modo spensierato.<br />
150-151 infranti boschi: boschi colpiti, frantumati; prosegue l’immagine dei fiumi che come giganti fanciulli<br />
distruggono il paesaggio nel loro impetuoso scendere a valle.<br />
161-162 manda … labili: trasporta (o muove) i carichi pesanti: è riferito all’azione dell’acqua e al lavoro umano che<br />
ne sfrutta la potenza<br />
36
Italy, inserito a conclusione della raccolta “Primi Poemetti” del 1904, si apre su una scena di<br />
ricongiungimento familiare: vi si racconta il ritorno a casa di un nucleo emigrato, Joe, Ghita e la<br />
piccola nipotina Maria, detta Molly, che rientrano a Caprona, in Lucchesia, nella casa paterna dove<br />
vivono i loro vecchi, una famiglia contadina.<br />
Procedono lentamente, in un’atmosfera uggiosa, mentre le campane suonano lontane: la bambina<br />
bionda (e il colore dei capelli è il primo tratto “straniero” che incontriamo) è in braccio all’uomo, le<br />
scale sono un po’ diroccate, l’uscio della casa buio come una grotta. C’è uno strano silenzio, e un<br />
palpabile disagio, dovuto non solo alla stanchezza del lungo viaggio oltreoceano.<br />
Il primo segnale esplicito di questo disagio è dato dall’incomprensione linguistica fra gli<br />
"americanizzati", che hanno quasi disimparato l’italiano, e la famiglia, che non conosce l’inglese.<br />
La cosa è complicata anche dalla trama dei diversi piani linguistici, in cui tra i due distanti poli<br />
dell’italiano e dell’ inglese, intervengono da un lato i termini e i modi di dire arcaici e dialettali<br />
(come accallato, scianto, rosume, nieva) e dall’altro il linguaggio misto degli italo-americani<br />
(checche, candi, scrima, fruttistendo, bisini) .<br />
Agli estremi di questo complesso mondo linguistico, come esempio eclatante della separatezza tra<br />
chi è andato via e chi è rimasto, stanno la nonna e la nipote, l’una che capisce solo il dialetto, l’altra<br />
che parla solo inglese: mentre quest’ultima esprime i suoi commenti negativi sulla casa (che le<br />
appare come a chicken house, cioè un pollaio) la nonna la vezzeggia e sente le sue parole come un<br />
dolce cinguettio di uccelli (un piccolo luì). Ma saranno proprio loro due, alla fine del primo canto,<br />
anche attraverso una goffa comunicazione di tipo onomatopeico e gestuale (si vedano i versi 214-<br />
225) a segnare il progressivo avvicinamento sentimentale fra i due mondi: tra la vecchia contadina<br />
e la bimba si realizza una forma di comprensione superiore e intuitiva, una sorta di empatia<br />
reciproca, che culmina nel reciproco comprendersi intorno al tema della morte. Simbolicamente,<br />
alla fine del poemetto, tra le due si realizzerà anche uno scambio di destini: la nonna assumerà su di<br />
sé i sintomi della malattia della piccola e morirà al suo posto.<br />
Intorno a questa relazione, che è centrale, se ne dipanano molte altre: l’incontro tra i due modelli di<br />
vita, quello chiuso e protettivo del paese, ancora legato ad usanze dure e arcaiche (dal pane nero<br />
fatto in casa al filare a mano) ma a stretto contatto con la natura e i suoi cicli (pioggia e primavera<br />
si alternano e impongono il ritmo alla vita quotidiana) e quello adottato e raccontato dagli<br />
emigranti, che insiste sul lavoro, sulle opportunità di successo, ma anche sullo spaesamento<br />
connesso all’ampiezza dei luoghi evocati , non è un incontro semplice: dura è la vita in paese, ma<br />
non meno dura è quella dell’emigrante, di quell’“Italia raminga” costretta brutalmente<br />
all’abbandono del “nido” familiare.<br />
Il tema centrale, politico, è qui. Pascoli vuole raccontare la sofferenza dovuta all’emigrazione:<br />
sofferenza e nostalgia di chi parte e di chi resta, ma anche di chi ritorna e lascia altri in America;<br />
significativo il continuo bisogno di notizie, di informazioni che la comunità garfagnina sente e<br />
richiede, quasi a voler mantenere quel filo di affetti che l’immensa lontananza ha spezzato.<br />
Pascoli si rivolge ad Italy, la nazione e la personifica: Italy, che all’offesa di essere mal giudicata<br />
dalla bambina, reagisce con la pioggia e il freddo (I, v.76), Italy che vede, Italy che piange (II, 114-<br />
115), ma che secondo il poeta non si occupa abbastanza dei suoi figli.<br />
È nel secondo canto, dopo che il lungo tempo piovoso ha ceduto a una primavera splendente e al<br />
ritorno delle rondini (intimamente assimilate a Molly), che si annuncia la tosse e la malattia della<br />
nonna; a questo punto la narrazione subisce una battuta d’arresto, e lascia spazio a una lunga<br />
digressione (II, sezioni XV-XVIII) affidata alla voce del poeta, dai toni sgomenti e nel contempo<br />
visionari, in cui i mali dell’emigrazione sono introdotti attraverso l’equazione fra l’immagine della<br />
madre, che vuole tutti i suoi figli accanto a sé nel nido, e quella della patria (l’"antica madre") che<br />
deve fare altrettanto: così l’Italia dovrebbe richiamare tutte le sue genti dalle terre lontane dove<br />
lavorano, in Africa, nelle Americhe o in India, in schiavitù, per riaccoglierle "in una sfolgorante<br />
alba che viene" (II,v. 180).<br />
37
Questa presa di posizione ben s’inquadra nelle convinzioni politiche che Pascoli andava elaborando<br />
in quegli anni, riassumibili nella teoria del "socialismo patriottico" e influenzate dall’acceso<br />
nazionalismo di Enrico Corradini: Pascoli dichiarava di sentirsi "profondamente socialista, ma<br />
socialista dell’umanità, non d’una classe"; egli passava così dall’ideologia del nido a quella<br />
nazionalista, spostando sostanzialmente i termini dell’analisi marxista dai rapporti di forza fra le<br />
classi sociali alla lotta fra le diverse nazioni.<br />
Di lì a poco, poiché l’Italia gli appare il più proletario tra i popoli, scriverà il discorso La grande<br />
proletaria si è mossa (1911), a favore della conquista coloniale della Libia: l’Italia, la nazione<br />
povera (il nido da cui le rondini si allontanano perché "non c’è più cibo", II, 80), non è<br />
condannabile secondo l’autore se cerca un riscatto attraverso le conquiste coloniali, che renda<br />
finalmente giustizia e metta fine alle miserie dell’emigrazione.<br />
Ma non avrebbe senso attribuire centralità al tema politico nel giudicare questo poemetto: è infatti<br />
nella resa stilistica di questi contenuti, nella capacità di inventare soluzioni linguistiche ed<br />
espressive assolutamente nuove che Italy si distingue, configurandosi come uno dei testi più<br />
originali che siano stati scritti prima delle sperimentazioni avanguardistiche.<br />
L’emigrazione è sentita dal Pascoli anche e soprattutto dal punto di vista linguistico, come perdita<br />
dell’idioma materno: e nei confronti del nuovo pastiche linguistico degli emigranti, Italy mostra<br />
una sorta di attrazione, che emerge a vari livelli: in sede di rima, fin dall’inizio del canto primo<br />
(febbraio che rima con Ohio, luì che rima con Italy), e in sede di trasgressione alla norma monolinguistica,<br />
attraverso soluzioni sperimentali come la mescolanza inglese-dialetto (si veda nel canto<br />
secondo, XX, 11, bona cianza, dal toscano bona e dall’inglese maccheronicamente italianizzato<br />
chance, ‘fortuna’). Introdurre nel linguaggio letterario parole straniere o termini dei gerghi (la<br />
lingua post-grammaticale), mescolandoli con la lingua tutta pre-grammaticale dell’onomatopea è<br />
quell’operazione che Gianfranco Contini giudicherà come capolavoro del pluristilismo e<br />
plurilinguismo pascoliano.<br />
A noi basti notare che non si tratta di un’operazione gratuita e puramente virtuosistica, ma che essa<br />
nasce per Pascoli da una necessità poetica profondamente sentita: testimoniare la lacerazione che il<br />
fenomeno migratorio produce e nel contempo la possibilità di ricostituzione del nido, sulla base del<br />
reciproco integrarsi degli affetti come dei linguaggi; ed è su questa speranza che si chiude il canto,<br />
con l’affermazione del profondo vincolo che ormai lega la piccola Molly alla terra dei suoi avi:<br />
«Tornerai, Molly» Rispondea: - Sì!-<br />
Il tema dell’emigrazione ritornerà con altrettanta vivezza in altri autori del Novecento: ci piace<br />
introdurre per confronto intertestuale un passo tratto da una delle più belle liriche-racconto di<br />
Cesare Pavese, Mari del sud .<br />
Camminiamo una sera sul fianco di un colle,<br />
in silenzio. Nell'ombra del tardo crepuscolo<br />
mio cugino è un gigante vestito di bianco,<br />
che si muove pacato, abbronzato nel volto,<br />
taciturno. Tacere è la nostra virtù.<br />
Qualche nostro antenato dev'essere stato ben solo<br />
- un grand'uomo tra idioti o un povero folle -<br />
per insegnare ai suoi tanto silenzio.<br />
Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto<br />
se salivo con lui: dalla vetta si scorge<br />
nelle notti serene il riflesso del faro<br />
lontano, di Torino. «Tu che abiti a Torino... »<br />
mi ha detto «...ma hai ragione. La vita va vissuta<br />
lontano dal paese: si profitta e si gode<br />
e poi, quando si torna, come me a quarant'anni,<br />
38
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono».<br />
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,<br />
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre<br />
di questo stesso colle, è scabro tanto<br />
che vent'anni di idiomi e di oceani diversi<br />
non gliel'hanno scalfito. E cammina per l'erta<br />
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,<br />
usare ai contadini un poco stanchi.<br />
[da Cesare Pavese, Poesie edite e inedite, a cura di Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1962, p.11]<br />
39
Gabriele D’Annunzio, La sera fiesolana<br />
[D’Annunzio, Versi d’Amore e di Gloria, “Alcyone”, pp. 575-7]<br />
La lode alla sera si dilata attraverso la molteplicità sensoriale e la natura si umanizza nella<br />
raccolta Alcyone (III libro delle “Laudi del cielo, del mare della terra e degli eroi”) di cui questa<br />
lirica costituisce il primo testo (composto nel 1899). E la descrizione letteraria del paesaggio<br />
serale, che il poeta indirizza alla donna amata, diventa immersione panica nello spettacolo<br />
grandioso della natura<br />
Fresche le mie parole ne la sera<br />
ti sien come il fruscío che fan le foglie<br />
del gelso ne la man di chi le coglie<br />
silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta<br />
su l'alta scala che s'annera 5<br />
contro il fusto che s'inargenta<br />
con le sue rame spoglie<br />
mentre la Luna è prossima a le soglie<br />
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo<br />
ove il nostro sogno si giace 10<br />
e par che la campagna già si senta<br />
da lei sommersa nel notturno gelo<br />
e da lei beva la sperata pace<br />
senza vederla.<br />
Laudata sii pel tuo viso di perla, 15<br />
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace<br />
l'acqua del cielo!<br />
Dolci le mie parole ne la sera<br />
ti sien come la pioggia che bruiva<br />
tepida e fuggitiva, 20<br />
commiato lacrimoso de la primavera,<br />
su i gelsi e su gli olmi e su le viti<br />
e su i pini dai novelli rosei diti<br />
che giocano con l'aura che si perde,<br />
e su 'l grano che non è biondo ancóra 25<br />
e non è verde,<br />
e su 'l fieno che già patì la falce<br />
e trascolora,<br />
e su gli olivi, su i fratelli olivi<br />
che fan di santità pallidi i clivi 30<br />
e sorridenti.<br />
Laudata sii per le tue vesti aulenti,<br />
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce<br />
il fien che odora!<br />
Io ti dirò verso quali reami 35<br />
d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti<br />
eterne a l'ombra de gli antichi rami<br />
parlano nel mistero sacro dei monti;<br />
40
e ti dirò per qual segreto 40<br />
le colline su i limpidi orizzonti<br />
s'incúrvino come labbra che un divieto<br />
chiuda, e perché la volontà di dire<br />
le faccia belle<br />
oltre ogni uman desire<br />
e nel silenzio lor sempre novelle 45<br />
consolatrici, sì che pare<br />
che ogni sera l'anima le possa amare<br />
d'amor più forte.<br />
Laudata sii per la tua pura morte<br />
o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare 50<br />
le prime stelle!<br />
1 fresche le mie parole: è una sinestesia.<br />
5 s’annera: diventa scura con l’arrivo della sera.<br />
6 s’inargenta: il fusto diventa alla luce della luna di un colore argenteo.<br />
8-9. soglie cerule: l’orizzonte (le soglie del cielo) azzurro.<br />
12. notturno gelo: citazione dantesca (Inferno II, 127: “Quali fioretti dal notturno gelo”).<br />
15 Laudata…o Sera: la formula deriva dal Cantico delle creature di Francesco d’Assisi e la sera, personificata (qui ha<br />
viso perlaceo, occhi umidi in cui si raccoglie la pioggia), sostituisce il Dio cristiano lì celebrato.<br />
19 bruiva: il verbo è onomatopeico e derivato dal francese “bruire”: fare rumore, picchiettare<br />
23 novelli rosei diti: i germogli appena spuntati, sottili e rosati, appaiono come dita.<br />
25-26 non è biondo…verde: il grano non è ancora maturo ma non è più acerbo, siamo in piena maturazione.<br />
27 patì la falce: è già stato tagliato.<br />
29-30 I fratelli olivi…clivi: ancora un riferimento al cantico di S.Francesco in cui gli elementi della natura erano<br />
chiamati “fratelli” e “sorelle”; i colli (clivi) acquistano un colore pallido e dunque vicino a quello dei volti ascetici dei<br />
santi. Forse il riferimento è anche all’ulivo come pianta sacra a Minerva.<br />
32-33 pel cinto…odora: per la cintura che ti cinge come il salice cinge il fieno raccolto in fasci.<br />
35-36 verso quali …fiume: il fiume Arno sembra indicare un percorso fiabesco verso il regno dell’amore.<br />
36-38 le cui fonti…dei monti: le fonti del fiume, antichissime e protette da alberi altrettanto antichi, sembrano emettere<br />
parole che si perdono nel mistero dei boschi fitti dell’Appennino. Lo scenario appare divinizzato e il mormorio della<br />
fonte è come una parola misterica.<br />
39 per qual segreto: per svelare chissà quale misterioso segreto.<br />
42 volontà di dire: l’ansia di svelare il segreto. Le colline di Fiesole sono umanizzate, come labbra dischiuse pronte a<br />
rivelare il loro messaggio nascosto.<br />
45-46 Sempre novelle consolatrici: anche se mute le colline trasmettono un messaggio di consolazione e pace sempre<br />
nuovo a chi le contempla.<br />
49 pura morte: il momento in cui la sera si fa notte; è un riferimento ulteriore al cantico che pure si concludeva con la<br />
lode di “sorella morte”.<br />
SCHEDA METRICA<br />
Tre strofe è di quattordici versi di varia lunghezza, che vanno dall’endecasillabo al quinario che conclude ogni<br />
strofa, caratterizzati da una fitta trama di rime che non segue uno schema fisso. Molto utilizzate le rime baciate,<br />
sia all’interno della strofa, sia come collegamento al primo verso della ripresa di tre versi in cui si ripete la<br />
formula “Laudata sii…/O Sera”. I tre versi svolgono la funzione di raccordo tra le parti e sono un<br />
endecasillabo che si lega in rima baciata al quinario di fine strofa precedente, un verso ipermetro formato da un<br />
endecasillabo e da un quinario (o due settenari) e infine un quinario.<br />
41
La sera fiesolana fu composta da Gabriele D’Annunzio il 17 giugno 1899 durante il soggiorno<br />
estivo nella residenza di Capponcina . E in genere tutte le liriche di “Alcione” si collocano<br />
nell’arco temporale dell’estate, e rappresentano una tregua, un ripiegamento intimo nell’abbraccio<br />
della Natura.<br />
La poesia si articola in tre momenti, che, secondo la stessa suddivisione proposta da D’Annunzio,<br />
in una prima stesura, avevano ciascuna un sottotitolo: “La natività della Luna”, “La pioggia di<br />
giugno”, “Le colline”.<br />
La ripresa della lode alla Sera, che separa i tre momenti, svolge dunque la funzione di raccordo tra<br />
le singole strofe nelle quali non si compie una vicenda, né c’è un centro narrativo preciso, bensì un<br />
fluire di immagini che generano una sorta di melodia musicale. Nelle prime due strofe domina il<br />
paragone sinestetico tra le qualità che le parole acquistano nel momento magico della Sera<br />
(fresche, dolci), e un secondo termine di paragone (il fruscio delle foglie, la pioggia) che si dilata<br />
nella descrizione dello spettacolo della Natura.<br />
Le parole del poeta, dunque, che si presenta come pura “voce”, sono fresche come il fruscio delle<br />
foglie del gelso, raccolte dal meticoloso contadino mentre la luce lunare, diffondendosi per la<br />
campagna, la sommerge in un’atmosfera di pace. Nella seconda strofa le parole sono dolci come la<br />
pioggia di giugno che cade sui campi e genera un “concerto” onomatopeico, reso con le numerose<br />
rime in -iva, -ivi e allitterazioni della vocale -i (olmi, viti pini, diti, ecc). Sono effetti sonori che<br />
alludono alla musica segreta delle cose, alla magia della sera come rivelazione.<br />
Al centro dell’ultima strofa vi è dunque la volontà del poeta di svelare i segreti racchiusi dalla<br />
natura stessa, umanizzata: in particolare, dal fiume Arno e dall’ondosa fisionomia dei colli<br />
fiorentini, che sembrano labbra chiuse nel cui silenzio il fascino si rinnova, riappacifica gli animi<br />
consolandoli e acquista sempre più vigore amoroso.<br />
In tutte le riprese, la sera è umanizzata e assume le sembianze di una donna amata, di cui si tesse la<br />
lode per il suo viso di perla, per il suo sguardo, per i vestiti profumati e per la cintura, per la<br />
suggestione dell’ attesa che essa comunica. Essa è, infatti, il momento magico che permette<br />
all’autore e all’amata, presenza indefinita che lo accompagna, di vivere l’esperienza di<br />
compenetrazione tra l’atto linguistico della parola e le spettacolari manifestazioni della Natura.<br />
Sono dunque due i protagonisti di questo testo: la sera e la parola poetica; la prima è il medium,<br />
senza il quale non sarebbe possibile alcuna opzione trasfigurativa della parola.<br />
La coppia costituita dal poeta e dall’amata è al contempo spettatrice e protagonista di<br />
quest’esperienza di trasfigurazione; e le parole, intese come espressione poetica in quanto “volontà<br />
di dire”, non solo sono punto di partenza, ma sono l’elemento portante dell’esperienza stessa,<br />
giacché in un rapporto di reciproco scambio l’espressione linguistica ricava dall’immersione nella<br />
Natura un ampliamento delle sue capacità connotative.<br />
La poesia, così, diviene capace di cogliere l’arcano, “il mistero sacro dei monti” e “il sacro delle<br />
colline”, diviene strumento rilevatore del mistero celato nella Natura, perché si è realizzata l’unione<br />
miracolosa tra uomo, poesia e natura.<br />
A sviluppare quanto si è detto, convergono tutta la struttura metrica, l’elaborazione stilistica, i<br />
campi lessicali e simbolici: tutto si traduce in una vera e propria trama musicale. Le suggestioni<br />
foniche che fanno da supporto alle rime sono infatti fittissime: allitterazioni come quella d’inizio<br />
lirica, con la ripetizione della lettera f che acquista un valore onomatopeico nel riprodurre la<br />
sensazione del fruscio delle foglie, simmetrie ritmiche come quelle offerte nella II strofa dal<br />
costrutto sintattico "bruiva su… e su… e su… e su…" e come l’utilizzo delle vocali ì ed e che si<br />
susseguono per tutta la strofa con i loro limpidi toni. Tutta la poesia è una sorta di laboratorio<br />
artistico, che si rinnoverà anche nel successivo capolavoro lirico di D’Annunzio: La pioggia nel<br />
pineto.<br />
42
Sotto l’aspetto lessicale troviamo nella lirica una lingua ricercata e colta, intessuta di citazioni:<br />
parole aristocratiche e forme arcaiche, forme rare al posto di quelle semplici (opra per “opera” o<br />
tepida per “tiepida") fino a parole del tutto lontane dalla lingua comune come cerule, o desire. Si<br />
noti poi, anche, la ripresa di stilemi propri della tradizione stilnovistica come il “viso di perla” (e<br />
gli stessi aggettivi fresche e dolci sono un richiamo alla celebre canzone petrarchesca Chiare<br />
fresche e dolci acque)<br />
In una poesia di tanta raffinatezza stilistica non può mancare un ampio campione di figure retoriche<br />
che ne ampliano il significato, coinvolgendo tutte le sfere sensoriali. Si è detto delle sinestesie, che<br />
poggiano sul confronto tra sensazioni che attengono a sfere sensoriali differenti, associando, ad<br />
esempio, una realtà acustica come le “parole” ad una sensazione tattile, “il fruscio delle foglie del<br />
gelso ne le mani”. Nessi metaforici invece sono nell’immagine della pioggia come pianto di<br />
congedo verso la primavera ormai passata, secondo un topos letterario tradizionale che si fondava<br />
sul parallelo tra le gocce e le lacrime. Giochi cromatici si susseguono poi per tutto il<br />
componimento: il nero della scala e l’argento del tronco che acquistano intensità col procedere della<br />
sera, il colore del grano a metà tra il biondo e il verde, l’azzurro del cielo che accoglie la soffusa<br />
luce lunare, il rosa delle dita nella personificazione dei germogli dei pini.<br />
E la personificazione è l’espediente retorico che ha maggiore rilevanza nell’economia del<br />
componimento: come la luna si fa donna, così la campagna prova il sentimento della speranza e la<br />
“beve”, i germogli dei pini sono dita che giocano con l’aria, le fonti parlano e i colli sorridono.<br />
L’analisi dei campi semantici e simbolici, infine, rimanda a due sfere solo all’apparenza<br />
contrapposte: in primis alla sfera del sacro (il contadino che si attarda sospeso in un’atmosfera<br />
magica e rituale, la Luna, che appare quasi come un’entità divina, il “mistero sacro dei monti”<br />
raccontato dalle sorgenti dell’Arno e i “fratelli ulivi” che richiamano il Cantico delle creature<br />
francescano) ; ma il sacro, svuotato d’ogni valenza mistica, è posto, per il puro piacere estetico, in<br />
contrasto con il profano della componente erotica che pervade la Natura: ad essa rimandano “i<br />
reami d’amor” ai quali il fiume invita, le labbra che si disegnano sulle curve dei colli, l’amore che<br />
cresce ogni giorno più forte. Così, moduli e immagini della poesia sacra concorrono ad esprimere<br />
un’esperienza che si colloca non nella sfera mistica ma nella sfera individuale ed umana, in uno<br />
slittamento di piani che acquista volutamente dimensione atemporale e mitica.<br />
43
Gabriele D’Annunzio, La pioggia nel pineto<br />
[D’Annunzio, Versi d’Amore e di Gloria, “Alcyone”, pp. 619-23]<br />
La pioggia nel pineto compare con il titolo Ermione nel piano strutturale della raccolta “Alcyone”<br />
nel 1902, e con quello definitivo nel 1903. Essa illustra una passeggiata nel bosco, senza meta, del<br />
poeta e della donna amata, che diventa occasione di comunione tra l’uomo e tutti gli esseri della<br />
natura<br />
Taci. Su le soglie<br />
del bosco non odo<br />
parole che dici<br />
umane; ma odo<br />
parole più nuove 5<br />
che parlano gocciole e foglie<br />
lontane.<br />
Ascolta. Piove<br />
dalle nuvole sparse.<br />
Piove su le tamerici 10<br />
salmastre ed arse,<br />
piove sui pini<br />
scagliosi ed irti,<br />
piove sui mirti<br />
divini, 15<br />
su le ginestre fulgenti<br />
di fiori accolti,<br />
sui ginepri folti<br />
di coccole aulenti,<br />
piove sui nostri volti 20<br />
silvani,<br />
piove sulle nostre mani<br />
ignude,<br />
sui nostri vestimenti<br />
leggieri, 25<br />
su i freschi pensieri<br />
che l'anima schiude<br />
novella,<br />
su la favola bella<br />
che ieri 30<br />
l'illuse, che oggi m'illude,<br />
o Ermione<br />
Odi? La pioggia cade<br />
su la solitaria<br />
verdura 35<br />
con un crepitio che dura<br />
e varia nell'aria<br />
secondo le fronde<br />
più rade, men rade.<br />
44
Ascolta. Risponde 40<br />
al pianto il canto<br />
delle cicale<br />
che il pianto australe<br />
non impaura,<br />
né il ciel cinerino. 45<br />
E il pino<br />
ha un suono, e il mirto<br />
altro suono, e il ginepro<br />
altro ancora, stromenti<br />
diversi 50<br />
sotto innumerevoli dita.<br />
E immersi<br />
noi siam nello spirto<br />
silvestre,<br />
d'arborea vita viventi; 55<br />
e il tuo volto ebro<br />
è molle di pioggia<br />
come un foglia,<br />
e le tue chiome<br />
auliscono come 60<br />
le chiare ginestre,<br />
o creatura terrestre<br />
che hai nome<br />
Ermione.<br />
Ascolta, ascolta. L'accordo 65<br />
delle aeree cicale<br />
a poco a poco<br />
più sordo<br />
si fa sotto il pianto<br />
che cresce; 70<br />
ma un canto vi si mesce<br />
più roco<br />
che di laggiù sale,<br />
dall'umida ombra remota.<br />
Più sordo e più fioco 75<br />
s'allenta, si spegne.<br />
Sola una nota<br />
ancora trema, si spegne,<br />
risorge, treme, si spegne.<br />
Non s'ode voce del mare. 80<br />
Or s'ode su tutta la fronda<br />
crosciare<br />
l'argentea pioggia<br />
che monda,<br />
il croscio che varia 85<br />
secondo la fronda<br />
più folta, men folta.<br />
Ascolta.<br />
La figlia dell'aria<br />
45
è muta; ma la figlia 90<br />
del limo lontana,<br />
la rana,<br />
canta nell'ombra più fonda,<br />
chi sa dove, chi sa dove!<br />
E piove su le tue ciglia, 95<br />
Ermione.<br />
Piove su le tue ciglia nere<br />
sì che par tu pianga<br />
ma di piacere; non bianca<br />
ma quasi fatta virente, 100<br />
par da scorza tu esca.<br />
E tutta la vita è in noi fresca<br />
aulente,<br />
il cuor nel petto è come pesca<br />
intatta, 105<br />
tra le palpebre gli occhi<br />
son come polle tra l'erbe,<br />
i denti negli alveoli<br />
son come mandorle acerbe.<br />
E andiam di fratta in fratta, 110<br />
or congiunti or disciolti<br />
(e il verde vigor rude<br />
ci allaccia i malleoli<br />
c'intrica i ginocchi)<br />
chi sa dove, chi sa dove! 115<br />
E piove su i nostri volti<br />
silvani,<br />
piove sulle nostre mani<br />
ignude,<br />
sui nostri vestimenti 120<br />
leggieri,<br />
su i freschi pensieri<br />
che l'anima schiude<br />
novella,<br />
su la favola bella 125<br />
che ieri<br />
m'illuse, che oggi t'illude,<br />
o Ermione<br />
1 Taci: Il poeta si rivolge direttamente alla donna amata per invitarla a tacere e ad ascoltare i suni della natura<br />
2 Su le soglie: Al limitare.<br />
3 non odo … umane: non sento le parole che dici essere umane.<br />
6 parlano: il verbo, usato in senso transitivo con soggetto gocciole e foglie, sta a indicare che i suoni della natura sono<br />
un linguaggio nuovo.<br />
8 Piove: di qui in poi il ripetersi del verbo servirà a scandire il ritmo regolare della pioggia.<br />
10 tamerici… arse: arbusti che crescono vicino al mare e sono quindi incrostate di sale (salmastre) e bruciate dal sole<br />
(arse).<br />
13 scagliosi ed irti: dalla corteggia a scaglie e dagli aghi pungenti (irti).<br />
14-15 mirti divini: piante di mirto, sacre a Venere dea della bellezza.<br />
16-17 fulgenti …accolti: che risplendono per i loro fiori (gialli) raccolti a grappolo.<br />
19 coccole aulenti: bacche profumate.<br />
46
20 volti silvani: visi silvestri, come se i volti fossero parte del bosco; inizia la trasfigurazione degli umani in elementi<br />
del paesaggio naturale.<br />
27-28 freschi pensieri … novella: l’anima (rinnovata dalla pioggia rigeneratrice) genera pensieri nuovi e freschi.<br />
29-31 la favola … illude: il sogno d’amore, l’illusione della felicità che ieri come oggi ci inganna .<br />
32 Ermione: alla fine della strofa compare il nome della donna, di origine mitologica (Ermione era una figlia di Elena<br />
e Menelao).<br />
35 verdura: vegetazione.<br />
36- 39 crepitio…rade: picchiettio delle gocce di pioggia sulle foglie che prosegue e il cui suono varia secondo la<br />
maggiore o minore densità del fogliame (fronde).<br />
41 pianto: la pioggia che si è fatta umana.<br />
43-44 il pianto … impaura: la pioggia portata dal vento del sud (australe) non spaventa (le cicale).<br />
45 né il ciel cinerino: e neppure il cielo coperto di nubi grigie.<br />
49-51 stromenti … dita: le varie piante sono come strumenti musicali diversi che variamente rispondono al cadere delle<br />
gocce di pioggia (innumerevoli dita).<br />
53-54 spirto silvestre: spirito della selva del bosco, in cui i due protagonisti si immergono.<br />
55 d’arborea … viventi: trasformati in vegetali in cui scorre la linfa vitale.<br />
56 ebro: inebriato (di felicità).<br />
60 auliscono: profumano.<br />
66 aeree cicale: come sospese nell’aria.<br />
71 si mesce: si mescola.<br />
72 più roco: più rauco; è il canto delle cicale.<br />
74 remota: lontana.<br />
80 Non … mare: Non si sente il suono del mare.<br />
84 che monda: che purifica.<br />
85 il croscio: lo scroscio.<br />
91 del limo: del fango, della palude.<br />
100 virente: verdeggiante.<br />
101 par … esca: sembra che tu esca dalla corteccia di un albero.<br />
103 aulente: odorosa del profumo del bosco.<br />
107 polle: laghetti d’acqua sorgiva.<br />
110 di fratta in fratta: nella macchia folta del bosco.<br />
111 or congiunti or disciolti: ora abbracciati ora separati.<br />
112 verde… ginocchi: i rami degli arbusti ruvidi e resistenti si avvolgono alle caviglie (malleoli) e s’intrecciano alle<br />
ginocchia.<br />
SCHEDA METRICA<br />
Quattro strofe di uguale lunghezza (32 versi), composte di versi che vanno dal ternario al novenario, con rime<br />
sparse e assonanze. La presenza di numerosi enjambements e l’alternarsi nella sintassi di frasi brevi, brevissime e<br />
lunghe favorisce l’interscambiabilità tra le misure metriche (così i tradizionali novenari o decasillabi risultano<br />
spesso spezzati e mascherati in senari e ternari).<br />
Insieme al poeta Gian Pietro Lucini, Gabriele D’Annunzio è tra i primi che abbiano importato in<br />
Italia un verso libero figlio dei verso-liberisti francesi di fine secolo come Mallarmè e Valery, dei<br />
quali egli coglie la lezione fondendola con quella dei cori della tragedia greca eschilea o di Pindaro.<br />
E come Valery aveva affermato nella sua Arte poetica, “la musica prima di tutto”, così il poeta<br />
pescarese modula la lunghezza dei versi sull’effetto fonico e musicale che vuole ottenere .<br />
Ma mentre la scrittura risulta spezzata dalla disposizione delle parole e degli spazi bianchi, il<br />
discorso poetico è un fluire continuo, che concorre a definire il tema chiave della lirica, ovvero la<br />
musica prodotta dalla pioggia che si abbatte sulle fronde della pineta, dove il poeta e la sua donna<br />
sono stati sorpresi. Essi si immergono nella natura fino a compenetrarsi e vivere l’esperienza della<br />
fusione panica, in un processo di vera e propria metamorfosi vegetale (descritta nei versi finali,.107-<br />
114).<br />
Se dunque la cifra del testo è la musicalità, centrale è il senso dell’udito, come sottolineano i<br />
ricorrenti verbi d’ascolto (Taci/ Ascolta/ Odi), rivolti sotto forma di imperativi o interrogativi alla<br />
donna. Essi creano un’atmosfera d’attesa, che predispone all’attenzione dei sensi. E verso l’udito<br />
del lettore come senso privilegiato convergono tutte le strategie poetiche utilizzate.<br />
47
D’Annunzio, a differenza del Pascoli, non usa parole onomatopeiche, ma soprattutto artifici tecnici:<br />
la melodia nasce sia dalla scelta delle parole (appartenenti ad un lessico raro e colto) sia dalla loro<br />
disposizione; le numerose pause forniscono il ritmo, gli enjambements producono rime isolando in<br />
versi ternari gli aggettivi (divini-silvani-ignude-leggieri-novella) ognuno dei quali rima con il verso<br />
dopo o con quello precedente.<br />
Un altro espediente è l’anafora, ovvero la ripetizione di vocaboli legati al silenzio o all’ascolto o<br />
alla pioggia. Piove si ripete ai vv. 8-10-12-14-20-22-95-97-116-118, pioggia ai vv. 33 e 57,<br />
crosciare e croscio ai vv. 82 e 85, parole e parlano ai vv.3-5-6. E ancora, musicale è l’effetto<br />
prodotto dalla ripetizione di singoli fonemi come la i di pini, irti, mirti, divini, oppure la g di<br />
ginestre, fulgenti, ginepri.<br />
Le molte rime interne a volte identiche (umane v.4 - lontane v.7; piove - piove vv. 20-22), le<br />
assonanze dentro il verso (arse/salmastre v.11, parole/nuove nel v.5, pini/irti, varia/aria v.37,<br />
rade/rade, v.39), le figure etimologiche (parole/che parlano, vita/viventi al v.55) sono gli altri<br />
espedienti che concorrono alla melodia.<br />
Non mancano poi ripetizioni di interi versi (Chi sa dove/ chi sa dove al v.94 e 115) o di un intero<br />
gruppo di versi come accade tra I e IV strofa : i vv. 20-32 sono identici ai vv. 116-128 con qualche<br />
inversione puramente virtuosistica (t’illude/mi illuse).<br />
L’intera lirica, dunque, è una descrizione naturale: e quel che si descrive è una natura umanizzata,<br />
un’orchestra i cui strumenti sono gli alberi che risuonano “sotto innumerevoli dita” (II strofa, versi<br />
49-51), le cicale e la rana (III strofa). Con procedimento inverso, progressivamente, anche gli<br />
esseri umani inoltrandosi nella natura si metamorfizzano: se nella I strofa i loro volti sono silvani ,<br />
nell’ultima Ermione, fatta virente, appare come una ninfa: esce dalla corteccia di un albero, i suoi<br />
occhi sono polle tra l’erbe, cioè sorgenti d’acqua, i denti mandorle acerbe.<br />
E nella conclusione, circolare rispetto all’inizio, torna il motivo della “favola bella” della vita:<br />
l’amore, che è reciproca illusione degli amanti, fluisce, come tutti gli altri momenti della vita, come<br />
la pioggia stessa.<br />
Il testo è esemplare di un D’Annunzio alla ricerca di una poesia stilizzata, colta, nella quale prevale<br />
il gusto della parola, il gusto per la sensualità, per il dionisiaco, per una visione della vita dove ciò<br />
che conta è solo il manifestarsi della bellezza. Una poesia, che contrapponendosi a quella del<br />
“nido” pascoliano, rifiuta la conversazione normale, la lingua normale, e si fa codice selettivo per<br />
un’élite di anime superiori.<br />
Attraversando D’Annunzio, molti poeti novecenteschi torneranno sul tema della pioggia,<br />
scrosciante e musicale. Tra i più celebri rifacimenti, ricca di richiami intertestuali a scopo<br />
antifrastico, ricordiamo Piove di Eugenio Montale, del 1969.<br />
Eugenio Montale, Piove<br />
Piove. È uno stillicidio<br />
senza tonfi<br />
di motorette o strilli<br />
di bambini.<br />
Piove 5<br />
da un ciclo che non ha<br />
nuvole.<br />
Piove<br />
sul nulla che si fa<br />
in queste ore di sciopero 10<br />
generale.<br />
Piove<br />
sulla tua tomba<br />
a San Felice<br />
a Ema 15<br />
e la terra non trema<br />
perché non c'è terremoto<br />
né guerra.<br />
48
Piove<br />
non sulla favola bella 20<br />
di lontane stagioni,<br />
ma sulla cartella<br />
esattoriale,<br />
piove sugli ossi di seppia,<br />
e sulla greppia nazionale. 25<br />
Piove<br />
sulla Gazzetta Ufficiale<br />
qui dal balcone aperto,<br />
piove sul Parlamento,<br />
piove su via Solferino, 30<br />
piove senza che il vento<br />
smuova le carte.<br />
Piove<br />
in assenza di Ermione<br />
se Dio vuole, 35<br />
piove perché l'assenza<br />
è universale<br />
e se la terra non trema<br />
è perché Arcetri a lei<br />
non l'ha ordinato. 40<br />
Piove sui nuovi epistèmi<br />
del primate a due piedi,<br />
sull'uomo indiato, sul cielo,<br />
ottimizzato, sul ceffo<br />
dei teologi in tuta 45<br />
o paludati,<br />
piove sul progresso<br />
della contestazione,<br />
piove sui works in regress,<br />
piove 50<br />
sui cipressi malati<br />
del cimitero, sgocciola<br />
sulla pubblica opinione.<br />
Piove, ma dove appari<br />
non è acqua né atmosfera, 55<br />
piove perché se non sei<br />
è solo la mancanza<br />
e può affogare.<br />
[Eugenio Montale, Opera completa, I, I Meridiani Mondadori, Milano, 1996]<br />
49
Giovanni Verga , da I Malavoglia, Capitolo XV<br />
[VERGA, Opere, I Malavoglia, pp. 386 e segg.]<br />
Parte del cosiddetto ciclo dei vinti, I Malavoglia si chiude con un capitolo “corale” nel quale<br />
moltissimi personaggi riempiono la scena e collaborano a dare notizia al lettore del destino della<br />
famiglia protagonista: sopra tutti, si stagliano però il vecchio Padron ’Ntoni, il patriarca, e suo<br />
nipote che ne ha ereditato il nome. Il primo apre il capitolo, il secondo lo chiude.<br />
La gente diceva 1 che la Lia era andata a stare con don Michele; già i Malavoglia non avevano<br />
più niente da perdere, e don Michele almeno le avrebbe dato il pane. Padron ’Ntoni adesso era<br />
diventato del tutto un uccellaccio di camposanto 2 , e non faceva altro che andare intorno, rotto in<br />
due 3 , e con quella faccia di pipa 4 , a dir proverbi senza capo e senza coda: «Ad un albero caduto<br />
accetta! accetta!» 5 - «Chi cade nell’acqua è forza che si bagni» 6 - «A cavallo magro, mosche» 7 . - E<br />
a chi gli domandava perché andasse sempre in giro, diceva che «la fame fa uscire il lupo dal bosco»,<br />
e «cane affamato non teme bastone» 8 ; ma di lui non volevano saperne, ora che era ridotto in quello<br />
stato. Ognuno gli diceva la sua, e gli domandava cosa aspettasse colle spalle al muro, lì sotto il<br />
campanile, che pareva lo zio Crocifisso quando aspettava d’imprestare dei denari alla gente, seduto<br />
a ridosso delle barche tirate in secco, come se ci avesse in mare la paranza 9 di padron Cipolla; e<br />
padron ’Ntoni rispondeva che aspettava la morte, la quale non voleva venire a prenderselo, perché<br />
«lo sfortunato ha i giorni lunghi» 10 . Della Lia nessuno parlava più in casa, nemmeno Sant’Agata 11 ,<br />
la quale se voleva sfogarsi andava a piangere di nascosto, davanti al lettuccio della mamma, quando<br />
in casa non c’era nessuno. Adesso la casa era grande come il mare, e ci si perdevano dentro. I denari<br />
se n’erano andati con ’Ntoni; Alessi era sempre lontano, per guadagnarsi il pane, di qua e di là; e la<br />
Nunziata faceva la carità 12 di venire ad accendere il fuoco, quando la Mena doveva andare a<br />
prendere il nonno per mano, verso l’avemaria 13 , come un bambino, perché di sera non ci vedeva<br />
più, peggio di una gallina.<br />
Don Silvestro, e gli altri del paese, dicevano che Alessi avrebbe fatto meglio a mandare il<br />
nonno all’Albergo dei poveri 14 , ora che non era più buono a nulla; ma questa era la sola cosa che<br />
facesse paura al poveraccio. Ogni volta che la Mena andava a metterlo al sole, conducendolo per<br />
mano, e ci stava per tutta la giornata ad aspettare la morte, credeva che lo portassero all’Albergo,<br />
talmente era diventato un cucco 15 , e balbettava: - La morte non viene mai! - tanto che certuni<br />
andavano a chiedergli ridendo dove fosse arrivata.<br />
Alessi tornava a casa il sabato, e gli veniva a contare i denari della settimana, come se il nonno<br />
avesse ancora il giudizio 16 . Egli rispondeva sempre di sì, col capo; e bisognava che andasse a<br />
nascondere il gruzzoletto sotto la materassa, e gli diceva, per farlo contento, che ci voleva poco a<br />
mettere insieme un’altra volta i denari della casa del nespolo 17 , e fra un anno o due ci sarebbero<br />
arrivati.<br />
Ma il vecchio scrollava il capo, colla testa dura, e ribatteva che adesso non avevano più<br />
bisogno della casa; e meglio che non ci fosse mai stata al mondo la casa dei Malavoglia, ora che i<br />
Malavoglia erano di qua e di là.<br />
Una volta chiamò in disparte la Nunziata, sotto il mandorlo, nel momento in cui non ci era<br />
nessuno, e pareva dovesse dirle qualcosa di grosso 18 ; però muoveva le labbra senza parlare, e stava<br />
cercando le parole guardando di qua e di là. - È vero quella cosa che hanno detto di Lia? 19 - chiese<br />
infine.<br />
- No! - rispondeva Nunziata, colle mani in croce 20 , - no! per la Madonna dell’Ognina, non è<br />
vero!<br />
Egli si mise a tentennare il capo, col mento sul petto. - Allora perché se n’è fuggita anche lei?<br />
perché se n’è fuggita?<br />
E l’andava cercando per la casa, fingendo di aver perso il berretto; toccava il letto e il<br />
canterano, e si metteva a sedere al telaio, senza dir nulla. - Lo sai? - chiese infine; - lo sai dove se<br />
n’è andata? - Ma alla Mena non disse nulla.<br />
La Nunziata non lo sapeva, in coscienza, né nessun altro del paese.<br />
50
Una sera si fermò nella strada del Nero 21 Alfio Mosca, col carro, che ci aveva attaccato il mulo<br />
adesso, e per questo aveva acchiappato le febbri alla Bicocca 22 , ed era stato per morire, tanto che<br />
aveva la faccia gialla e la pancia grossa come un otre; ma il mulo era grasso e col pelo lucente.<br />
- Vi rammentate quando sono partito per la Bicocca? - diceva lui, - che stavate ancora nella<br />
casa del nespolo? Ora ogni cosa è cambiata, ché «il mondo è tondo, chi nuota e chi va a fondo». -<br />
Stavolta non potevano dargli nemmeno un bicchiere di vino, pel ben tornato. Compar Alfio lo<br />
sapeva dov’era la Lia; l’aveva vista coi suoi occhi, ed era stato come se avesse visto comare Mena<br />
quando stavano a chiacchierare da una finestra all’altra. Perciò guardava di qua e di là i mobili e le<br />
pareti, come se ci avesse il carro carico sullo stomaco 23 , e sedette anche lui senza dire una parola<br />
accanto al desco dove non c’era nulla, e nessuno sedeva più a mangiare la sera.<br />
- Ora me ne vado, - ripeteva lui, vedendo che non gli dicevano nulla. - Quando uno lascia il suo<br />
paese è meglio che non ci torni più, perché ogni cosa muta faccia mentre egli è lontano, e anche le<br />
facce con cui lo guardano son mutate, e sembra che sia diventato straniero anche lui.<br />
Mena continuava a star zitta. Intanto Alessi gli raccontò che voleva pigliarsi la Nunziata,<br />
quando avrebbe raccolto un po’ di denari, ed Alfio gli rispose che faceva bene, se la Nunziata aveva<br />
un po’ di denari anche lei, ché era una buona ragazza, e tutti la conoscevano in paese. Così anche i<br />
parenti dimenticano quelli che non ci sono più, e ognuno a questo mondo è fatto per pensare a tirare<br />
la carretta che gli ha data Dio, come l’asino di compar Alfio, che adesso faceva chissà cosa, dopo<br />
che era andato in mano altrui.<br />
La Nunziata ci aveva la sua dote anche lei, dacché i suoi fratellini cominciavano a buscarsi<br />
qualche soldo, e non aveva voluto comprarsi né oro né roba bianca, perché diceva che quelle cose<br />
son fatte per i ricchi, e la roba bianca 24 non era bene di farsela intanto che cresceva ancora.<br />
Era cresciuta infatti una ragazza alta e sottile come un manico di scopa, coi capelli neri, e gli<br />
occhi buoni buoni, che quando si metteva a sedere sulla porta, con tutti quei monelli davanti, pareva<br />
che pensasse ancora a suo padre nel giorno che li aveva piantati, e ai guai in mezzo ai quali aveva<br />
sgambettato sino allora, coi suoi fratellini appesi alle gonnelle. Al vedere come se n’era tirata fuori<br />
dai guai, lei e i suoi fratellini, così debole e sottile al pari di un manico di scopa, ognuno la salutava<br />
e si fermava volentieri a far quattro chiacchiere con lei.<br />
- I denari ce li abbiamo, - disse a compar Alfio, il quale era quasi parente, da tanto che lo<br />
conoscevano. - A Ognissanti mio fratello entra garzone da massaro Filippo, e il minore prenderà il<br />
suo posto da padron Cipolla. Quando avrò collocato anche Turi, allora mi mariterò; ma bisogna<br />
aspettare che io abbia gli anni, e che mio padre mi dia il consenso.<br />
- O che tuo padre pensa più che sei al mondo! 25 - disse Alfio.<br />
- S’egli tornasse ora, - rispose Nunziata con quella voce dolce, e cosi calma, colle braccia sulle<br />
ginocchia, - ei non se ne andrebbe più, perché adesso i denari li abbiamo.<br />
Allora compar Alfio tornò a dire ad Alessi che faceva bene a prendersi la Nunziata, se ci aveva<br />
quel po’ di denari.<br />
Compreremo 26 la casa del nespolo, - aggiunse Alessi; - e il nonno starà con noi. Quando<br />
torneranno gli altri ci staranno pure; e se tornerà il padre della Nunziata ci sarà posto anche per lui.<br />
Di Lia non fecero parola; ma ci pensavano tutti e tre, mentre stavano a guardare il lume, colle<br />
braccia sui ginocchi.<br />
Finalmente compare Mosca si alzò per andarsene, perché il suo mulo scuoteva la sonagliera,<br />
quasi l’avesse conosciuta anch’esso colei che 27 compar Alfio aveva incontrata per la strada, e che<br />
adesso non l’aspettavano più nella casa del nespolo. […]<br />
Compare Alfio tornò a parlare ai Malavoglia 28 ; ma padron ’Ntoni ora scuoteva il capo e diceva<br />
di no. - Adesso della casa non abbiamo che farne, perché Mena non si può più maritare, e dei<br />
Malavoglia non ci è nessuno! Io ci sono ancora perché gli sfortunati hanno i giorni lunghi. Ma<br />
quando avrò chiuso gli occhi, Alessi piglierà la Nunziata e se ne andrà via dal paese.<br />
Anch’egli stava per andarsene. Il più del tempo lo passava in letto, come un gambero sotto i<br />
ciottoli, abbaiando peggio di un cane: - Cosa ci ho a far qui io? - balbettava; e gli pareva di rubare la<br />
minestra che gli davano. Invano Alessi e la Mena cercavano di dissuaderlo 29 . Ei rispondeva che<br />
51
ubava loro il tempo e la minestra, e voleva che gli contassero i denari messi sotto la materassa, e se<br />
li vedeva squagliare a poco a poco, borbottava: - Almeno se non ci fossi io non spendereste tanto.<br />
Ora non ho più niente da far qui, e potrei andarmene 30 .<br />
Don Ciccio, il quale veniva a tastargli il polso, confessava che era meglio lo portassero<br />
all’ospedale, perché lì dov’era si mangiava la carne sua e quella degli altri, senza utile. Intanto il<br />
poveraccio stava a vedere quello che dicessero gli altri, cogli occhi spenti, e aveva paura che lo<br />
mandassero all’Albergo. Alessi non voleva sentirne parlare di mandarlo all’Albergo, e diceva che<br />
finché ci era del pane, ce n’era per tutti; e la Mena dall’altra parte, diceva di no anch’essa, e lo<br />
conduceva al sole, nelle belle giornate, e si metteva accanto a lui colla conocchia 31 , a raccontargli<br />
delle fiabe, come ai bambini, e a filare, quando non aveva da andare al lavatoio. Gli parlava pure di<br />
quel che avrebbero fatto quando arrivava un po’ di provvidenza 32 , per fargli allargare il cuore; gli<br />
diceva che avrebbero comprato un vitellino a San Sebastiano 33 , ed ella bastava a procurargli l’erba e<br />
il mangime per l’inverno. A maggio si sarebbe venduto con guadagno; e gli faceva vedere pure le<br />
nidiate di pulcini che aveva messo, e venivano a pigolare davanti ai loro piedi, al sole, starnazzando<br />
nella polvere della strada. Coi denari dei pulcini avrebbe anche comperato un maiale, per non<br />
perdere le bucce dei fichidindia, e l’acqua che serviva a cuocere la minestra, e a fin d’anno sarebbe<br />
stato come aver messo dei soldi nel salvadanaio. Il vecchio, colle mani sul bastone, approvava del<br />
capo, guardando i pulcini. Ci stava così attento, poveretto, che arrivava fino a dire che se avessero<br />
avuto la casa del nespolo si poteva allevarlo nel cortile, il maiale, giacché quello era un guadagno<br />
sicuro con compare Naso. Nella casa del nespolo c’era pure la stalla pel vitello, e la tettoia pel<br />
mangime, e ogni cosa; se ne andava ricordando a poco a poco, cercando qua e là cogli occhi morti e<br />
col mento sul bastone. Poi domandava sottovoce alla nipote: - Cosa ha detto don Ciccio<br />
dell’ospedale? - Mena allora lo sgridava come si fa coi bambini, e gli rispondeva: - Perché pensate a<br />
quelle cose? - Egli stava zitto, e ascoltava cheto cheto tutto quello che diceva la ragazza. Ma poi<br />
tornava a ripetere: - Non mi ci mandare all’ospedale, perché non ci sono avvezzo.<br />
Infine non si alzava più dal letto, e don Ciccio disse che era proprio finita, e non ci era più<br />
bisogno di lui, ché là in quel letto dove era, poteva starci anche degli anni, e Alessi o la Mena ed<br />
anche la Nunziata dovevano perdere le loro giornate a far la guardia; se no se lo sarebbero mangiato<br />
i porci, come trovavano l’uscio aperto.<br />
Padron ’Ntoni intendeva benissimo quello che si diceva, perché guardava tutti in viso ad uno ad<br />
uno, con certi occhi che facevano male a vedere; ed appena il medico se ne fu andato, mentre stava<br />
a parlare ancora sull’uscio con Mena che piangeva, e Alessi il quale diceva di no e batteva i piedi,<br />
fece segno alla Nunziata di accostarsi al letto, e le disse piano:<br />
- Se mi mandate all’ospedale sarà meglio; qui ve li mangio io i denari della settimana.<br />
Mandami via quando non ci saranno in casa la Mena e Alessi. Direbbero di no perché hanno il buon<br />
cuore dei Malavoglia; ma io vi mangio i soldi della casa, e poi il medico ha detto che posso starci<br />
degli anni qui dove sono. E qui non ci ho più nulla da fare. Però non vorrei camparci degli anni,<br />
laggiù all’ospedale.<br />
La Nunziata si metteva a piangere anch’essa e diceva di no, tanto che tutto il vicinato sparlava<br />
di loro che volevano fare i superbi senza aver pane da mangiare. Si vergognavano di mandare il<br />
nonno all’ospedale, mentre ci avevano tutti gli altri di qua e di là, e dove poi 34 !<br />
[….]<br />
- Allora perché non lo mandano all’ospedale, quel vecchio? tornavano a dire gli altri, - e perché<br />
se lo tengono in casa a farselo mangiare dalle pulci?<br />
Tanto che, pesta e ripesta, il medico ripeteva che andava e veniva per niente, e faceva il viaggio<br />
del sale 35 , e allorché c’erano le comari davanti al letto del malato, comare Piedipapera, la cugina<br />
Anna o la Nunziata, predicava sempre che se lo mangiavano le pulci. Padron ’Ntoni non osava più<br />
fiatare, colla faccia bianca e disfatta. E come le comari cinguettavano fra di loro, e fino alla<br />
Nunziata cascavan le braccia, un giorno che Alessi non c’era, disse infine: - Chiamatemi compare<br />
Mosca, che lui me la farà la carità di portarmi all’ospedale sul suo carro.<br />
52
Così padron ’Ntoni se ne andò all’ospedale sul carro di Alfio Mosca, il quale ci aveva messo la<br />
materassa ed i guanciali, ma il povero malato, sebbene non dicesse nulla, andava guardando<br />
dappertutto, mentre lo portavano fuori reggendolo per le ascelle, il giorno in cui Alessi era andato a<br />
Riposto, e avevano mandato via la Mena con un pretesto, che se no non l’avrebbero lasciato partire.<br />
Sulla strada del Nero, nel passare davanti alla casa del nespolo, e nell’attraversare la piazza, padron<br />
’Ntoni continuava a guardare di qua e di là per stamparsi in mente ogni cosa. Alfio guidava il mulo<br />
da una parte, e Nunziata, la quale aveva lasciato in custodia a Turi il vitello, i tacchini, e le pollastre,<br />
veniva a piedi dall’altro lato, col fagotto delle camicie sotto il braccio. Al veder passare il carro<br />
ognuno si affacciava sulla porta, e stava a guardare; e don Silvestro disse che avevano fatto bene,<br />
per questo il Comune pagava la sua rata all’ospedale; e don Franco avrebbe anche spifferata la sua<br />
predica, che ce l’aveva in testa bella e fatta, se non ci fosse stato lì presente don Silvestro. - Almeno<br />
quel povero diavolo va a stare in pace, - conchiuse lo zio Crocifisso.<br />
- «Necessità abbassa nobiltà» 36 , - rispose padron Cipolla; e la Santuzza disse un’avemaria pel<br />
poveretto. Solo la cugina Anna e comare Grazia Piedipapera si asciugavano gli occhi col grembiule,<br />
come il carro se ne andava lentamente sobbalzando sui sassi. Ma compare Tino rimbeccò alla<br />
moglie: - O perché mi fai il piagnisteo? Che son forse morto io? A te che te ne importa?<br />
Alfio Mosca, mentre guidava il mulo, andava raccontando alla Nunziata come e dove avesse<br />
vista la Lia, ch’era tutta Sant’Agata, e ancora non gli pareva vero a lui stesso che l’avesse vista coi<br />
suoi occhi, tanto che la voce gli mancava nella gola, mentre ne parlava per ingannare la noia, lungo<br />
la strada polverosa. - Ah Nunziata! chi l’avrebbe detto, quando stavamo a chiacchierare da un uscio<br />
all’altro, e c’era la luna, e i vicini discorrevano lì davanti, e si udiva colpettare 37 tutto il giorno quel<br />
telaio di Sant’Agata, e quelle galline che la conoscevano soltanto all’aprire che faceva il rastrello, e<br />
la Longa che la chiamava pel cortile, che ogni cosa si udiva da casa mia come se fosse stato proprio<br />
là dentro! Povera Longa! Adesso, vedi, che ci ho il mulo, e ogni cosa come desideravo, che se fosse<br />
venuto a dirmelo l’angelo del cielo non ci avrei creduto, adesso penso sempre a quelle sere là,<br />
quando udivo la voce di voialtre, mentre governavo l’asino, e vedevo il lume nella casa del nespolo,<br />
che ora è chiusa, e quando son tornato non ho trovato più niente di quel che avevo lasciato, e<br />
comare Mena non mi è parsa più quella. Uno che se ne va dal paese è meglio non ci torni più. Vedi,<br />
ora penso pure a quel povero asino che ha lavorato con me tanto tempo, e andava sempre, sole o<br />
pioggia, col capo basso e le orecchie larghe. Adesso chissà dove lo cacciano, e con quali carichi, e<br />
per quali strade, colle orecchie più basse ancora, ché anch’egli fiuta col naso la terra che deve<br />
raccoglierlo, come si fa vecchio, povera bestia!<br />
Padron ’Ntoni, disteso sulla materassa, non udiva nulla, e ci aveva vano messo sul carro una<br />
coperta colle canne 38 , sicché sembrava che portassero un morto. - Per lui è meglio che non oda più<br />
nulla, seguitava compare Alfio. - L’angustia di ’Ntoni già l’ha sentita, e un giorno o l’altro gli<br />
toccherebbe anche di sentire come è andata a finire la Lia.<br />
- Me lo domandava spesso, quando eravamo soli, - rispose la Nunziata. - Voleva sapere dove<br />
fosse.<br />
- È andata dietro a suo fratello. Noi poveretti siamo come le pecore, e andiamo sempre con gli<br />
occhi chiusi dove vanno gli altri. Tu non glielo dire, né lo dire a nessuno del paese, dove ho visto la<br />
Lia, ché sarebbe un colpo di coltello per Sant’Agata. Ella mi riconobbe di certo, mentre passavo<br />
davanti all’uscio, perché si fece bianca e rossa nella faccia, ed io frustai il mulo per passare presto, e<br />
son certo che quella poveretta avrebbe voluto piuttosto che il mulo le fosse camminato sulla pancia,<br />
e la portassero distesa sul carro come portiamo adesso suo nonno. Ora la famiglia dei Malavoglia è<br />
distrutta, e bisogna rifarla di nuovo tu e Alessi.<br />
- I denari per la roba ci sono già; a San Giovanni 39 venderemo anche il vitello.<br />
- Bravi! così, quando ci avrete i denari da parte, non c’è pericolo che vi sfumino in un giorno,<br />
come accadrebbe se il vitello venisse a morire, Dio liberi! Ora siamo alle prime case della città, e tu<br />
potrai aspettami qui, se non vuoi venire sino all’ospedale.<br />
- No, voglio venire anch’io; così almeno vedrò dove lo mettono, ed egli pure mi vedrà sino<br />
all’ultimo momento.<br />
53
Padron ’Ntoni poté vederla sino all’ultimo momento, e mentre la Nunziata se ne andava via con<br />
Alfio Mosca, adagio adagio, pel camerone che pareva d’essere in chiesa al camminare 40 , li<br />
accompagnava cogli occhi; poi si voltò dall’altra parte e non si mosse più. Compar Alfio e la<br />
Nunziata risalirono sul carro, arrotolarono la materassa e la coperta, e se ne tornarono senza dir<br />
nulla, per la lunga strada polverosa.<br />
Alessi si dava i pugni nella testa e si strappava i capelli, come non trovò più il nonno nel suo<br />
letto, e vide che gli riportavano la materassa arrotolata; e se la prendeva colla Mena, quasi fosse<br />
stata lei a mandarlo via. Ma compar Alfio gli diceva: - Che volete? La casa dei Malavoglia ora è<br />
distrutta, e bisogna che la facciate di nuovo voi altri.<br />
Egli voleva tornare a fargli il conto della roba e del vitello, di cui avevano chiacchierato lungo<br />
la strada colla ragazza; ma Alessi e Mena non gli davano retta, colla testa nelle mani e gli occhi fissi<br />
e lucenti di lagrime, seduti sulla porta della casa dove oramai erano soli davvero. Compar Alfio in<br />
questo mentre cercava di confortarli col rammentar loro com’era prima la casa del nespolo, quando<br />
stavano a chiacchierare da un uscio all’altro, colla luna, e si udiva tutto il giorno il colpettare del<br />
telaio di Sant’Agata, e le galline che chiocciavano, e la voce della Longa che aveva sempre da fare.<br />
Adesso tutto era cambiato, e quando uno se ne va dal paese, è meglio che non ci torni più, perché la<br />
strada stessa non sembrava più quella, dacché non c’era più quel passeggio per la Mangiacarrubbe,<br />
e don Silvestro non si faceva veder nemmeno lui, aspettando che la Zuppidda cascasse coi suoi<br />
piedi, e lo zio Crocifisso s’era chiuso in casa a guardarsi la sua roba, o ad accapigliarsi colla Vespa,<br />
e persino non si udiva quistionar tanto nella spezieria 41 , dacché don Franco aveva visto la giustizia<br />
nel mostaccio 42 , ed ora andava a rincantucciarsi per leggere il giornale, e si sfogava a pestar nel<br />
mortaio tutto il giorno per passare il tempo. Anche padron Cipolla non ci stava più a schiacciare gli<br />
scalini davanti la chiesa 43 , dacché aveva perso la pace.<br />
[….]<br />
Giacché tutti si maritavano, Alfio Mosca avrebbe voluto prendersi comare Mena, che nessuno<br />
la voleva più, dacché la casa dei Malavoglia s’era sfasciata, e compar Alfio avrebbe potuto dirsi un<br />
bel partito per lei, col mulo che ci aveva; così la domenica ruminava fra di sé tutte le ragioni per<br />
farsi animo, mentre stava accanto a lei, seduto davanti alla casa, colle spalle al muro a sminuzzare<br />
gli sterpolini 44 della siepe per ingannare il tempo. Anche lei guardava la gente che passava, e così<br />
facevano festa la domenica: - Se voi mi volete ancora, comare Mena - disse finalmente; - io per me<br />
son qua.<br />
La povera Mena non si fece neppur rossa, sentendo che compare Alfio aveva indovinato che<br />
ella lo voleva, quando stavano per darla a Brasi Cipolla, tanto le pareva che quel tempo fosse<br />
lontano, ed ella stessa non si sentiva più quella.<br />
- Ora sono vecchia, compare Alfio, - rispose, - e non mi marito più.<br />
- Se voi siete vecchia, anch’io sono vecchio, ché avevo degli anni più di voi, quando stavamo a<br />
chiacchierare dalla finestra, e mi pare che sia stato ieri, tanto m’è rimasto in cuore. Ma devono esser<br />
passati più di otto anni. E ora quando si sarà maritato vostro fratello Alessi, voi restate in mezzo alla<br />
strada.<br />
Mena si strinse nelle spalle, perché era avvezza a fare la volontà di Dio, come la cugina Anna;<br />
e compare Alfio, vedendo cosi, riprese:<br />
- Allora vuol dire che non mi volete bene, comare Mena, e scusatemi se vi ho detto che vi avrei<br />
sposata. Lo so che voi siete nata meglio di me, siete figlia di padroni; ma ora non avete più nulla, e<br />
se si marita vostro fratello Alessi, rimarrete in mezzo alla strada. Io ci ho il mulo e il mio carro, e il<br />
pane non ve lo farei mancare giammai, comare Mena. Ora perdonatemi la libertà!<br />
- Non mi avete offesa, no, compare Alfio; e vi avrei detto di sì anche quando avevamo la<br />
Provvidenza e la casa del nespolo, se i miei parenti avessero voluto, che Dio sa quel che ci avevo in<br />
cuore quando ve ne siete andato alla Bicocca col carro dell’asino, e mi pare ancora di vedere quel<br />
lume nella stalla, e voi che mettevate tutta la vostra roba sul carretto, nel cortile; vi rammentate?<br />
- Sì, che mi rammento! Allora perché non mi dite di sì, ora che non avete più nulla, e ci ho il<br />
mulo invece dell’asino al carretto, e i vostri parenti non potrebbero dir di no?<br />
54
- Ora non son più da maritare; - tornava a dire Mena col viso basso, e sminuzzando gli<br />
sterpolini della siepe anche lei. - Ho ventisei anni, ed è passato il tempo di maritarmi.<br />
- No, che non è questo il motivo per cui non volete dirmi di sì! - ripeteva compar Alfio col viso<br />
basso come lei. - Il motivo non volete dirmelo! - E così rimanevano in silenzio a sminuzzare<br />
sterpolini senza guardarsi in faccia. Dopo egli si alzava per andarsene, colle spalle grosse e il mento<br />
sul petto. Mena lo accompagnava cogli occhi finché poteva vederlo, e poi guardava al muro<br />
dirimpetto e sospirava.<br />
Come aveva detto Alfio Mosca, Alessi s’era tolta in moglie la Nunziata, e aveva riscattata la<br />
casa del nespolo.<br />
- Io non sono da maritare, - aveva tornato a dire la Mena; - maritati tu che sei da maritare<br />
ancora; - e cosi ella era salita nella soffitta della casa del nespolo, come le casseruole vecchie, e<br />
s’era messo il cuore in pace, aspettando i figliuoli della Nunziata per far la mamma. Ci avevano<br />
pure le galline nel pollaio, e il vitello nella stalla, e la legna e il mangime sotto la tettoia, e le reti e<br />
ogni sorta di attrezzi appesi, il tutto come aveva detto padron ’Ntoni; e la Nunziata aveva ripiantato<br />
nell’orto i broccoli ed i cavoli, con quelle braccia delicate che non si sapeva come ci fosse passata<br />
tanta tela da imbiancare 45 , e come avesse fatti quei marmocchi grassi e rossi che la Mena si portava<br />
in collo pel vicinato quasi li avesse messi al mondo lei, quando faceva la mamma.<br />
Compare Mosca scrollava il capo, mentre la vedeva passare, e si voltava dall’altra parte, colle<br />
spalle grosse. - A me non mi avete creduto degno di quest’onore! - le disse alfine quando non ne<br />
poté più, col cuore più grosso delle spalle. - Io non ero degno di sentirmi dir di sì!<br />
- No, compar Alfio! - rispose Mena la quale si sentiva spuntare le lagrime. - Per quest’anima<br />
pura 46 che tengo sulle braccia! Non è per questo motivo. Ma io non son più da maritare.<br />
- Perché non siete più da maritare, comare Mena?<br />
- No! no! - ripeteva comare Mena, che quasi piangeva. - Non me lo fate dire, compare Alfio!<br />
Non mi fate parlare! Ora se io mi maritassi, la gente tornerebbe a parlare di mia sorella Lia, giacché<br />
nessuno oserebbe prendersela una Malavoglia, dopo quello che è successo. Voi pel primo ve ne<br />
pentireste. Lasciatemi stare, che non sono da maritare, e mettetevi il cuore in pace.<br />
- Avete ragione, comare Mena! - rispose compare Mosca; a questo non ci avevo mai pensato.<br />
Maledetta la sorte che ha fatto nascere tanti guai!<br />
Così compare Alfio si mise il cuore in pace, e Mena seguitò a portare in braccio i suoi nipoti<br />
quasi ci avesse il cuore in pace anche lei, e a spazzare la soffitta, per quando fossero tornati gli altri,<br />
che c’erano nati anche loro, - come se fossero stati in viaggio per tornare! - diceva Piedipapera.<br />
Invece padron ’Ntoni aveva fatto quel viaggio lontano, più lontano di Trieste e d’Alessandria<br />
d’Egitto 47 , dal quale non si ritorna più; e quando il suo nome cadeva nel discorso, mentre si<br />
riposavano, tirando il conto della settimana e facendo i disegni per l’avvenire, all’ombra del nespolo<br />
e colle scodelle fra le ginocchia, le chiacchiere morivano di botto, che a tutti pareva d’avere il<br />
povero vecchio davanti agli occhi, come l’avevano visto l’ultima volta che erano andati a trovarlo in<br />
quella gran cameraccia coi letti in fila, che bisognava cercarlo per trovarlo, e il nonno li aspettava<br />
come un’anima del purgatorio, cogli occhi alla porta, sebbene non ci vedesse quasi, e li andava<br />
toccando, per accertarsi che erano loro, e poi non diceva più nulla, mentre gli si vedeva in faccia<br />
che aveva tante cose da dire, e spezzava il cuore con quella pena che gli si leggeva in faccia e non la<br />
poteva dire. Quando gli narrarono poi che avevano riscattata la casa del nespolo, e volevano<br />
portarselo a Trezza di nuovo, rispose di sì, e di sì, cogli occhi, che gli tornavano a luccicare, e quasi<br />
faceva la bocca a riso 48 , quel riso della gente che non ride più, o che ride per l’ultima volta, e vi<br />
rimane fitto nel cuore come un coltello. Così successe ai Malavoglia quando il lunedì tornarono col<br />
carro di compar Alfio per riprendersi il nonno, e non lo trovarono più.<br />
Rammentando tutte queste cose lasciavano il cucchiaio nella scodella e pensavano e pensavano<br />
a tutto quello che era accaduto, che sembrava scuro scuro come ci fosse sopra l’ombra del nespolo.<br />
Ora, quando veniva la cugina Anna a filare un po’ con le comari, aveva i capelli bianchi, e diceva<br />
che aveva perso il riso della bocca, perché non aveva tempo di stare allegra, colla famiglia che<br />
aveva sulle spalle, e Rocco che tutti i giorni bisognava andare a cercare di qua e di là per le strade e<br />
davanti la bettola, e cacciarlo verso casa come un vitello vagabondo. Anche dei Malavoglia ce<br />
55
n’erano due vagabondi; e Alessi si tormentava il cervello a cercarli dove potevano essere, per le<br />
strade arse di sole e bianche di polvere, che in paese non sarebbero tornati più, dopo tanto tempo.<br />
Una sera, tardi, il cane si mise ad abbaiare dietro l’uscio del cortile, e lo stesso Alessi, che andò<br />
ad aprire, non riconobbe ’Ntoni il quale tornava colla sporta sotto il braccio, tanto era mutato,<br />
coperto di polvere, e colla barba lunga. Come fu entrato e si fu messo a sedere in un cantuccio, non<br />
osavano quasi fargli festa. Ei non sembrava più quello, e andava guardando in giro le pareti, come<br />
non le avesse mai viste; fino il cane gli abbaiava, ché non l’aveva conosciuto mai. Gli misero fra le<br />
gambe la scodella, perché aveva fame e sete, ed egli mangiò in silenzio la minestra che gli diedero,<br />
come non avesse visto grazia di Dio da otto giorni, col naso nel piatto; ma gli altri non avevano<br />
fame, tanto avevano il cuore serrato. Poi ’Ntoni, quando si fu sfamato e riposato alquanto, prese la<br />
sua sporta e si alzò per andarsene.<br />
Alessi non osava dirgli nulla, tanto suo fratello era mutato. Ma al vedergli riprendere la sporta,<br />
si senti balzare il cuore dal petto, e Mena gli disse tutta smarrita: - Te ne vai?<br />
- Sì! - rispose ’Ntoni.<br />
- E dove vai? - chiese Alessi.<br />
- Non lo so. Venni per vedervi. Ma dacché son qui la minestra mi è andata tutta in veleno. Per<br />
altro qui non posso starci, ché tutti mi conoscono, e perciò son venuto di sera. Andrò lontano, dove<br />
troverò da buscarmi il pane, e nessuno saprà chi sono.<br />
Gli altri non osavano fiatare, perché ci avevano il cuore stretto in una morsa, e capivano che<br />
egli faceva bene a dir così. ’Ntoni continuava a guardare dappertutto, e stava sulla porta, e non<br />
sapeva risolversi ad andarsene. - Ve lo farò sapere dove sarò; - disse infine e come fu nel cortile,<br />
sotto il nespolo, che era scuro, disse anche: - E il nonno?<br />
Alessi non rispose; ’Ntoni tacque anche lui, e dopo un pezzetto:<br />
- E la Lia, che non l’ho vista?<br />
E siccome aspettava inutilmente la risposta, aggiunse colla voce tremante, quasi avesse freddo:<br />
- È morta anche lei?<br />
Alessi non rispose nemmeno; allora ’Ntoni che era sotto il nespolo colla sporta in mano, fece<br />
per sedersi, poiché le gambe gli tremavano ma si rizzò di botto, balbettando:<br />
- Addio addio! Lo vedete che devo andarmene?<br />
Prima d’andarsene voleva fare un giro per la casa, onde vedere se ogni cosa fosse al suo posto<br />
come prima; ma adesso, a lui che gli era bastato l’animo di lasciarla, e di dare una coltellata a don<br />
Michele, e di starsene nei guai, non gli bastava l’animo di passare da una camera all’altra se non<br />
glielo dicevano. Alessi che gli vide negli occhi il desiderio, lo fece entrare nella stalla, col pretesto<br />
del vitello che aveva comperato la Nunziata, ed era grasso e lucente; e in un canto c’era pure la<br />
chioccia coi pulcini; poi lo condusse in cucina, dove avevano fatto il forno nuovo, e nella camera<br />
accanto, che vi dormiva la Mena coi bambini della Nunziata, e pareva che li avesse fatti lei. ’Ntoni<br />
guardava ogni cosa, e approvava col capo, e diceva - Qui pure il nonno avrebbe voluto metterci il<br />
vitello, qui c’erano le chiocce, e qui dormivano le ragazze, quando c’era anche quell’altra... - Ma<br />
allora non aggiunse altro, e stette zitto a guardare intorno, cogli occhi lustri. In quel momento<br />
passava la Mangiacarrubbe, che andava sgridando Brasi Cipolla per la strada, e ’Ntoni disse: -<br />
Questa qui l’ha trovato il marito; ed ora, quando avranno finito di quistionare, andranno a dormire<br />
nella loro casa.<br />
Gli altri stettero zitti, e per tutto il paese era un gran silenzio, soltanto si udiva sbattere ancora<br />
qualche porta che si chiudeva; e Alessi a quelle parole si fece coraggio per dirgli: - Se volessi anche<br />
tu ci hai la tua casa. Di là c’è apposta il letto per te.<br />
- No ! - rispose ’Ntoni. - Io devo andarmene. Là c’era il letto della mamma, che lei inzuppava<br />
tutto di lagrime quando volevo andarmene. Ti rammenti le belle chiacchierate che si facevano la<br />
sera, mentre si salavano le acciughe? e la Nunziata che spiegava gli indovinelli? e la mamma, e la<br />
Lia, tutti lì, al chiaro di luna, che si sentiva chiacchierare per tutto il paese, come fossimo tutti una<br />
famiglia? Anch’io allora non sapevo nulla, e qui non volevo starci, ma ora che so ogni cosa devo<br />
andarmene.<br />
56
In quel momento parlava cogli occhi fissi a terra, e il capo rannicchiato nelle spalle. Allora<br />
Alessi gli buttò le braccia al collo.<br />
- Addio, - ripeté ’Ntoni. - Vedi che avevo ragione d’andarmene! qui non posso starci. Addio,<br />
perdonatemi tutti.<br />
E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio; poi, quando fu lontano, in mezzo alla piazza scura<br />
e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta della casa del<br />
nespolo, mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al<br />
paese. Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai fariglioni 49 , perché il mare<br />
non ha paese nemmeno lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e<br />
muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al<br />
gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe e par la voce di un amico.<br />
Allora ’Ntoni si fermò in mezzo alla strada a guardare il paese tutto nero, come non gli bastasse<br />
il cuore di staccarsene, adesso che sapeva ogni cosa, e sedette sul muricciuolo della vigna di<br />
massaro Filippo.<br />
Così stette un gran pezzo pensando a tante cose, guardando il paese nero e ascoltando il mare<br />
che gli brontolava lì sotto. E ci stette fin quando cominciarono ad udirsi certi rumori ch’ei<br />
conosceva, e delle voci che si chiamavano dietro gli usci, e sbatter d’imposte, e dei passi per le<br />
strade buie. Sulla riva, in fondo alla piazza, cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a<br />
guardare i Tre Re che luccicavano, e la Puddara che annunziava l’alba, come l’aveva vista tante<br />
volte. Allora tornò a chinare il capo sul petto, e a pensare a tutta la sua storia. A poco a poco il mare<br />
cominciò a farsi bianco, e i Tre Re ad impallidire, e le case spuntavano ad una ad una nelle vie<br />
scure, cogli usci chiusi, che si conoscevano tutte, e solo davanti alla bottega di Pizzuto c’era il<br />
lumicino, e Rocco Spatu colle mani nelle tasche che tossiva e sputacchiava. - Fra poco lo zio<br />
Santoro aprirà la porta - pensò ’Ntoni, - e si accoccolerà sull’uscio a cominciare la sua giornata<br />
anche lui. - Tornò a guardare il mare, che s’era fatto amaranto, tutto seminato di barche che avevano<br />
cominciato la loro giornata anche loro, riprese la sua sporta, e disse:<br />
- Ora è tempo d’andarsene, perché fra poco comincerà a passar gente. Ma il primo di tutti a<br />
cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu.<br />
LA TRAMA<br />
Il romanzo narra le vicende della famiglia Toscano, detta i Malavoglia, che vive ad Acitrezza, un piccolo paese del<br />
catanese, in Sicilia. La famiglia - secondo la solida struttura tradizionale di tipo patriarcale - è composta dal vecchio<br />
capofamiglia padron ’Ntoni, dal figlio Bastiano detto Bastianazzo e dalla moglie Comare Maruzza detta la Longa, e<br />
dai loro quattro figli: ’Ntoni, Filomena, Mena soprannominata Sant’Agata perché sempre al lavoro sul filatoio, Luca,<br />
Rosalia detta Lia e Alessio detto Alessi. I Malavoglia vivono nella Casa del nespolo, di loro proprietà , e hanno come<br />
unica fonte di reddito la barca “la Provvidenza”, utilizzata per lo più per la pesca. L’intera vicenda è un susseguirsi di<br />
sventure di varia natura che colpiscono la famiglia, portandola via via alla rovina economica e al disfacimento.<br />
Il primo evento che altera la vita del nucleo familiare è la partenza di ’Ntoni per il militare. Venuto meno il sostegno<br />
del suo lavoro, il vecchio padron ’Ntoni decide di comperare una grossa partita di lupini da trasportare e rivendere a<br />
Riposto. Ma durante la navigazione la barca fa naufragio, muore Bastianazzo, il carico va perduto e “la Provvidenza”<br />
subisce seri danni. Il danno economico per i Malavoglia è pesantissimo e diventa insostenibile quando di lì a poco<br />
Luca, partito anch’egli militare, muore nella battaglia navale di Lissa. La crisi della famiglia porta alla rottura del<br />
fidanzamento di Mena con il figlio di Padre Cipolla e costringe padron ’Ntoni all’amaro sacrificio della vendita dalle<br />
Casa del nespolo.<br />
’Ntoni, che morto Bastianazzo dovrebbe assumere le redini della famiglia, lascia il paese per cercare fortuna altrove<br />
ma si lascia travolgere finendo coinvolto anche in vicende di contrabbando che lo portano in carcere. Lia, la sorella<br />
minore, vittima di una serie di dicerie di paese, lascia la famiglia e va a fare la prostituta a Catania. L’intero paese<br />
volta le spalle a chi è colpito dalla disgrazia.<br />
Ormai la dissoluzione della famiglia è completa. Toccherà ad Alessi, il più giovane dei nipoti, con i soldi della vendita<br />
della “Provvidenza”, riacquistare la Casa del nespolo e tentare di ridare una qualche continuità alla famiglia. Il vecchio<br />
’Ntoni, ormai fiaccato dal susseguirsi delle vicende dolorose, avrà la soddisfazione di avere dal nipote del riscatto<br />
della casa, ma morirà prima di poterci di nuovo far ritorno. Intanto ’Ntoni, uscito di galera, sente di non appartenere<br />
più a questa realtà e abbandona definitivamente il paese.<br />
57
Personaggi. Nel capitolo XV, l’ultimo, compaiono, oltre ai componenti della famiglia Malavoglia fin lì sopravvissuti,<br />
molti dei personaggi del romanzo: Nunziata, amica dei Malavoglia, li sostiene anche nei momenti più difficili e sposerà<br />
Alessi il più piccolo dei figli di Bastianazzo; Alfio Mosca, giovane carrettiere vicino di casa dei Malavoglia che ha a<br />
lungo corteggiato la Mena; Don Michele, il brigadiere delle guardie doganali presso cui va a vivere Lia e che sarà ferito<br />
da ‘Ntoni; Padron Cipolla, proprietario di una barca da pesca, prenderà i maschi di casa Malavoglia a giornata sulla sua<br />
barca dopo il naufragio; Zio Crocifisso, l’usuraio del paese con il quale i Malavoglia si indebitano acquistando da lui il<br />
carico di lupini; Don Silvestro, il segretario comunale; don Ciccio, il medico.<br />
1 la gente diceva: la gente parlava ma nessuno sapeva per certo dove vivesse la giovane.<br />
2 uccellaccio da camposanto: uccello che si aggira tra i morti, ovvero Padron ‘Ntoni che si aggira tra le rovine della<br />
famiglia.<br />
3 rotto in due: con la schiena piegata.<br />
4 faccia di pipa: espressione imbronciata.<br />
5 «Ad un albero … accetta!»: «Per l’albero caduto non resta che farne legna con l’accetta» poiché non può certo<br />
rinascere.<br />
6 «Chi cade … si bagni»: «Chi cade nell’acqua non può fare a meno di bagnarsi»<br />
7 «A cavallo … mosche»: Un cavallo dimagrito è destinato a diventare una carogna che attira le mosche.<br />
8 A chi … teme bastone»: A chi gli domandava perché fosse sempre in movimento il vecchio rispondeva con due<br />
proverbi che indicano come nulla possa frenare chi è veramente affamato.<br />
9 paranza: imbarcazione da pesca.<br />
10 lo sfortunato … lunghi: chi è sfortunato ha anche la sventura di vivere a lungo.<br />
11 Sant’Agata: è la Mena, rimasta da sola ad occuparsi della casa e del nonno.<br />
12 faceva la carità: faceva la cortesia.<br />
13 verso l’avemaria: verso sera, all’imbrunire.<br />
14 Albergo dei poveri: all’ospizio.<br />
15 cucco: cuculo, stupido.<br />
16 giudizio: la capacità di ragionare; Alessi testimonia così il rispetto per l’antico capofamiglia.<br />
17 la casa del nespolo: la casa di loro proprietà che i malavoglia hanno dovuto vendere per far fronte ai debiti.<br />
18 di grosso: di importante.<br />
19 cosa … Lia: le voci di paese che dicevano che avesse una relazione con il brigadiere don Michele.<br />
20 colle mani in croce: nell’atto di far giuramento.<br />
21 strada del Nero: è la via dove abitano i Malavoglia.<br />
22 aveva … le febbri: aveva preso la malaria alla bicocca, una località nei pressi.<br />
23 il carro … stomaco: un peso sullo stomaco, pesante come il suo carro.<br />
24 roba bianca: la biancheria del corredo da sposa.<br />
25 O che … mondo: Figurarsi se tuo padre si ricorda che sei al mondo.<br />
26 Compreremo…: con queste buone intenzioni Alessi tenta di immaginare un futuro di riscatto per i Malavoglia,<br />
nuovamente riuniti nella loro casa.<br />
27 anch’esso … che: come se anche il mulo avesse riconosciuto Mena che ora non li aspettava più come un tempo alla<br />
casa del nespolo.<br />
28 tornò … Malavoglia: su pressione di zio Crocifisso, Alfio tenta di convincere i Malavoglia a ricomprare la casa.<br />
29 cercavano di dissuaderlo: cercavano di convincerlo del contrario.<br />
30 potrei andarmene: potrei anche morire.<br />
31 conocchia: rocca per filare.<br />
32 di provvidenza: di buona sorte, di fortuna.<br />
33 san Sebastiano: santo molto venerato in tutta la zona, la cui festa si celebra in gennaio.<br />
34 e dove poi!: allusione al carcere e alla strada, dove stavano ‘Ntoni e Lia.<br />
35 la strada del sale: un viaggio lungo per uno scarso guadagno.<br />
36 «Necessità … nobiltà»: il bisogno ha piegato l’orgoglio del Malavoglia costringendoli a portare il vecchio<br />
all’ospizio.<br />
37 colpettare: il rumore del telaio.<br />
38 coperta colle canne: una coperta sostenuta da una grata di canne.<br />
39 san Giovanni: si celebra a giugno.<br />
40 pareva … camminare: camminava con attenzione come se fosse in chiesa.<br />
41 spezieria: farmacia.<br />
42 aveva … nel mostaccio: aveva visto la giustizia in faccia (il mostaccio è il mustacchio, il baffo che sta per la<br />
faccia).<br />
43 schiacciare chiesa: pestare gli scalini davanti l portone della chiesa, ovvero aspettare di sposarsi.<br />
44 sterpolini: rametti secchi.<br />
45 ci fosse … imbiancare: avessi potuto fare tanto lavoro.<br />
46 per … pura: in nome di questo bimbo.<br />
47 Trieste… Alessandria d’Egitto: luoghi lontani, che indicano un viaggio senza ritorno.<br />
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48 faceva,… a riso: sembrava forzasse la bocca a un sorriso.<br />
49 fariglioni: faraglioni, scogli isolati in mare, di grandi dimensioni.<br />
50 I Tre Re… Puddara: I Tre Re, ovvero i Re Magi, stelle della costellazione di Orione e la Puddara, in siciliano<br />
Stella polare.<br />
Siamo all’epilogo della vicenda del Malavoglia. Il seguito di sciagure che si è abbattuto sulla<br />
famiglia ha come piegato in due il vecchio padron ’Ntoni che si aggira per il paese cercando di<br />
trovare nella saggezza antica dei proverbi una qualche spiegazione alle avversità che lo hanno<br />
colpito. Ormai può solo più aspettare la morte, appoggiato al muro dove viene accompagnato a<br />
trascorrere l’intera giornata. Il nipote Alessi ancora gli porta rispetto e al sabato gli mostra la paga<br />
ricevuta anche se il vecchio ha perso la ragione. Ed è proprio il nipote più giovane quello su cui<br />
potrebbero fondarsi le speranze di riscatto della famiglia; egli infatti pensa di sposarsi, riacquistare<br />
la casa e riunire nuovamente quel che è rimasto dei Malavoglia. Di diversa opinione è padron<br />
‘Ntoni che, orami giunto alla fine dei suoi giorni, sente che ciò che è rovinato non si riaggiusta e<br />
pensa che anche Alesi dovrebbe lasciare il paese. Chi partirà invece è ’Ntoni che dopo tante<br />
sventure, alla morte del nonno, decide di cerca fortuna altrove.<br />
Dopo la morte di padron ’Ntoni tocca a chi resta dare un senso al futuro. Nelle scelte e nel destino<br />
dei due nipoti si condensa anche il senso della vicenda, in qualche misura aperta a una duplice<br />
interpretazione. Si può infatti pensare che la scelta di Alessi prefiguri una sorta di parziale lieto fine,<br />
in cui almeno l’ultimo dei nipoti ripercorre le orme paterne e del nonno, non abbandona la terra<br />
natale e ricompone ciò che ancora possibile della famiglia così duramente provata dagli venti. Ma si<br />
tratta di un lieto fine che guarda al passato, al nostalgico riproporsi di una storia, non solo<br />
individuale ma anche collettiva e storica, che è già stata vissuta e sconfitta dagli eventi. All’opposto<br />
la scelta di ’Ntoni di abbandonare il paese e cercare fortuna altrove può apparire come una resa di<br />
fronte alla successione di disgrazie che hanno colpito la famiglia e ne hanno fatto dei vinti, ovvero<br />
degli sconfitti dalla storia, costretti a vivere nei livelli inferiori e più sfortunati della gerarchia<br />
sociale. Si tratterebbe quindi di un finale amaro, che conferma e ridadisce lo sviluppo costante dei<br />
fatti. Ma è un finale che guarda al futuro, al destino inesorabile di quelle terre, dove il riscatto dalla<br />
miseria passa anche attraverso la rinuncia alle proprie tradizioni, l’abbandono delle proprie radici.<br />
D’altro canto non bisogna dimenticare che proprio nella “Prefazione” al romanzo, che costituisce<br />
uno dei testi più esemplari di poetica del realismo del secondo Ottocento, l’autore indica che il<br />
moto dei suoi personaggi e della storia che si appresta a narrare deve essere letto nella direzione del<br />
“progresso” e dei mutamenti, talvolta anche negativi, che l’ansia di migliorare la propria condizione<br />
può generare nell’animo umano.<br />
Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e<br />
svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione<br />
debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosìa<br />
dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.<br />
E Verga intende analizzare come ciò avvenga, a partire proprio da chi vive nelle condizioni più<br />
umili<br />
Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti,<br />
nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in<br />
quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione.<br />
Le disgrazie dei Malavoglia, dunque, hanno origine dalla volontà di migliorare la propria<br />
condizione e il “meccanismo” “nelle basse sfere” è relativamente semplice. La decisione di<br />
padron ‘Ntoni di acquistare un carico di lupini da vendere altrove per ricavarne un guadagno<br />
si rivela fatale. Il naufragio della Provvidenza (si noti il nome della barca che è interpretabile<br />
per antifrasi come una “derivazione manzoniana”) diviene il punto di partenza di una serie<br />
di disgrazie che anziché al riscatto economico e sociale portano la famiglia alla deriva.<br />
59
Quale morale dunque è legittimo trarne? La vicenda dei Malavoglia è la paradigmatica<br />
narrazione di una sconfitta o di un seppur travagliato moto ascensionale che asseconda il<br />
flusso della storia?<br />
Leggiamo ancora la risposta dell’autore:<br />
Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere<br />
la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce<br />
gloriosa che l’accompagna dileguandosi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni,<br />
tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le<br />
contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è<br />
di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a<br />
stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. […] Solo l’osservatore,<br />
travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi intorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che<br />
restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che<br />
levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sovravvegnenti, i vincitori<br />
d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani.<br />
Nella fiumana inesorabile del progresso, l’osservatore ha diritto di interessarsi alla sorte dei più<br />
deboli, dei vinti, ovvero di coloro che la storia si lascia alle spalle, per far posto ai vincitori. Una<br />
sorta di determinismo sociale a forte matrice pessimistica che si mescola con il conservatorismo<br />
politico di chi, come Verga, non crede in realtà che gli ultimi possano o debbano scalare la società<br />
per diventare primi: la loro difesa dalla sconfitta può essere solo l’attaccamento al proprio scoglio,<br />
come ostriche, alla terra e ai valori patriarcali. Di qui l’importanza della casa del nespolo,<br />
depositaria dei valori che Ntoni il giovane, andando via, aspirando al di sopra dei propri mezzi, ha<br />
tradito. E per questo egli non può far altro che andare via, solo, all’alba, mentre il tempo ciclico e<br />
premoderno dei luoghi d’origine è scandito dall’inizio della giornata di Rocco Spatu, che si ripete<br />
sempre uguale.<br />
Se la vicenda dei Malavoglia, la famiglia di padron ’Ntoni e i suoi nipoti, è il centro della vicenda e<br />
l’exemplum dell’ideologia dei vinti su esposta, intorno ad essa però si muovono secondo le regole<br />
del naturalismo francese, un infinito numero di personaggi: romanzo corale, questo, in cui i giudizi<br />
di valore, gli atteggiamenti, le azioni di un intero paese, il villaggio di Acitrezza, vanno ad<br />
intrecciarsi continuamente, animano le pagine, rendendo ogni aspetto della vita osservato e<br />
descritto dal punto di vista interno. Si entra così nella mentalità e nell’immaginario di un popolo,<br />
quello meridionale, che il lettore dell’Ottocento, come è intuibile, poteva conoscere solo<br />
superficialmente in via oleografica. Una mentalità a cui nessuno dei personaggi sfugge, anche il più<br />
innocente: come Mena, che rifiuta l’offerta di matrimonio di compare Alfio, perché ritiene di non<br />
essere più degna di maritarsi: lo scandalo familiare, causato dalla perdizione di Lia, la sorella<br />
minore, ricade infatti su di lei; e lo sguardo del paese, ottuso e arretrato, è interiorizzato da entrambi<br />
gli “innamorati”, in un dialogo drammatico e commovente.<br />
Per rappresentare tutto questo Verga si affida dunque alle regole importate dal naturalismo francese.<br />
Per narrare la verità oggettiva dei fatti, nei quali i comportamenti umani sono l’unica strada per<br />
giungere a cogliere l’essenza delle azioni, che sono mosse da bisogni primitivi e sono al contempo<br />
determinate dall’ambiente, è necessario uno sguardo straniato. L’autore deve fare un passo indietro:<br />
deve rinunciare a dare giudizi, a fare commenti, a prendere la parola. Egli deve limitarsi a osservare<br />
e descrivere: L’ “osservatore” può interessarsi ai casi dei vinti, ma non per parteggiare o dare<br />
giudizi, bensì per guardare, ascoltare e riferire. Verga stesso in una importante lettera a un amico,<br />
Salvatore Farina, teorizza e sostiene la necessità dell’ “eclissi” dell’autore, ovvero della sua capacità<br />
di oscurarsi, di ritrarsi dalla scena a esclusivo vantaggio dei personaggi. Non solo: l’autore deve<br />
annullare il proprio punto di vista, e in questo la rottura con la narrativa ottocentesca è totale, per<br />
adottare la prospettiva, la cultura, il modo d’intendere la vita e le cose dei suoi personaggi.<br />
60
E di quei personaggi, l’autore restituisce più che l’introspezione dei sentimenti, l’oggettività della<br />
azioni e soprattutto le parole, i gesti. E anche i personaggi, oltre che entità singole, uomini e donne<br />
ciascuno preso per sé, divengono entità collettive, simboli di situazioni e destini che li trascendono.<br />
Nella rappresentazione oggettiva che Verga fa della scena in cui si svolgono le vicende assume un<br />
ruolo significativo il linguaggio e con esso i proverbi, i modi di dire, il cantilenare sequenze di<br />
parole e immagini. La rappresentazione delle parole dei suoi personaggi più umili coincide però con<br />
la rinuncia all’uso del dialetto, che Verga compie per non rendere troppo ristretta la diffusione del<br />
suo romanzo. Egli vuole parlare all’Italia da poco unita (il romanzo è del 1881)e non può quindi<br />
affidarsi a una lingua che sarebbe incomprensibile per troppi. Ripropone allora le parole dei<br />
personaggi attraverso il discorso indiretto, adottando una soluzione linguistica, a livello di lessico e<br />
di sintassi, del tutto originale: con la sintassi si sforza di imitare il ritmo della parlata siciliana e per<br />
il lessico si affida ad “effetti” naturali, immediati, forti. Così il lettore dei Malavoglia – <strong>pagina</strong> dopo<br />
<strong>pagina</strong> - è trasportato in un mondo a lui nuovo: l’universo di Acitrezza, dentro le cose che<br />
accadono, ad assistere alla spesso spietata concatenazione di cause ed effetti fino all’epilogo finale.<br />
61
Italo Svevo , da La coscienza di Zeno, 1 - 2<br />
[SVEVO, Romanzi, La coscienza di Zeno, pp. 599-600]<br />
Il romanzo di Italo Svevo si apre con una Prefazione e un Preambolo: la prima del dottor S., lo<br />
psicanalista che tiene in cura il protagonista-narratore, Zeno Cosini, il secondo che contiene la<br />
presentazione che lo stesso Zeno fa di sé ai lettori, giustificando l’impresa di scrivere i propri<br />
ricordi in forma narrativa come ipotetica “terapia”. In entrambi i brani colpisce il distacco ironico<br />
con cui l’autore guarda alla psicanalisi, il grande portato della rivoluzione scientifica del nuovo<br />
secolo.<br />
1.<br />
PREFAZIONE<br />
Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di<br />
psico–analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia 1 che il paziente mi dedica.<br />
Di psico–analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di<br />
aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico–analisi arricceranno<br />
il naso a tanta novità 2 . Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si<br />
rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico–analisi. Oggi ancora la mia idea<br />
mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul<br />
più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di<br />
queste memorie.<br />
Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia 3 . Sappia però ch’io sono pronto di dividere con<br />
lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto<br />
curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante<br />
verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!...<br />
DOTTOR S.<br />
2.<br />
PREAMBOLO<br />
Vedere la mia infanzia? Più di dieci lustri 4 me ne separano e i miei occhi presbiti forse<br />
potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d’ogni genere,<br />
vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora.<br />
Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono<br />
preziose per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima. Ma un po’ d’ordine pur<br />
dovrebb’esserci e per poter cominciare ab ovo 5 , appena abbandonato il dottore che di questi giorni e<br />
per lungo tempo lascia Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psico–<br />
analisi. Non è difficile d’intenderlo, ma molto noioso.<br />
Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in<br />
mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi<br />
appare isolato da me. Io lo vedo. S’alza, s’abbassa... ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso<br />
è il pensiero e che sarebbe suo compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si<br />
corruga perché ogni parola è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il<br />
passato.<br />
Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L’esperimento finì nel sonno più profondo e non ne<br />
ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno<br />
qualche cosa d’importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre.<br />
62
Mercé la matita 6 che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini bizzarre<br />
che non possono avere nessuna relazione col mio passato: una locomotiva che sbuffa su una salita<br />
trascinando delle innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove vada e perché sia ora capitata<br />
qui!<br />
Nel dormiveglia ricordo che il mio testo asserisce che con questo sistema si può arrivar a<br />
ricordare la prima infanzia, quella in fasce. Subito vedo un bambino in fasce, ma perché dovrei<br />
essere io quello? Non mi somiglia affatto e credo sia invece quello nato poche settimane or sono a<br />
mia cognata e che ci fu fatto vedere quale un miracolo perché ha le mani tanto piccole e gli occhi<br />
tanto grandi. Povero bambino! Altro che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di<br />
avvisare te, che vivi ora la tua, dell’importanza di ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e<br />
della tua salute. Quando arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi mandare a mente la tua vita,<br />
anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? E intanto, inconscio, vai investigando il tuo<br />
piccolo organismo alla ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla<br />
malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È impossibile tutelare<br />
la tua culla. 7 Nel tuo seno fantolino! – si va facendo una combinazione misteriosa 8 . Ogni minuto<br />
che passa vi getta un reagente 9 . Troppe probabilità di malattia vi sono per te, perché non tutti i tuoi<br />
minuti possono essere puri. Eppoi – fantolino! – sei consanguineo di persone ch’io conosco. I<br />
minuti che passano ora possono anche essere puri, ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti<br />
prepararono.<br />
Eccomi ben lontano dalle immagini che precorrono il sonno. Ritenterò domani.<br />
1 antipatia: allude al possibile tansfert tra paziente e medico, in questo caso negativo, e mette in guardia il lettore.<br />
2 novità: la stesura di una autobiografia usciva dai canoni tradizionali di una cura psicanalitica.<br />
3 Le pubblico…dispiacca: l’affermazione è brutale e consente al lettore di prendere in parte le distanza anche dalle<br />
affermazioni del medico. Può mai un analista serio “vendicarsi” del proprio assistito?<br />
4 dieci lustri: cinquan’anni.<br />
5 ab ovo: dall’inizio.<br />
6 Mercé la matita: Grazie alla matita, ovvero alla scrittura.<br />
7 È impossibile …la tua culla: È impossibile salvaguardare la tua culla dal destino che attende.<br />
8 Nel tuo seno… misteriosa: Dentro di te, fanciullo, si va prefigurando il tuo destino che ti è ora sconosciuto.<br />
9 Ogni minuto… reagente: Ogni minuto che passa influisce su di te come se provocasse una reazione che prepara il<br />
futuro della tua vita.<br />
L’intera finzione narrativa del romanzo La coscienza di Zeno, fin dalle prime pagine, si basa sulla<br />
dottrina psicanalitica, ed in particolare su un rapporto: quello tra il dottor S. e il suo paziente, Zeno<br />
Cosini. Ben strano appare il dottor S., il cui nome puntato sembra voler rimandare allusivamente a<br />
Sigmund Freud, l’inventore della psicanalisi, o allo stesso Svevo, o forse, come alcuni hanno<br />
sostenuto, al Socrate maestro di maieutica e padre della filosofia greca.<br />
Egli spiega le ragioni del diario che di lì a poco i lettori conosceranno, e si scusa con essi di aver<br />
suggerito un metodo così poco ortodosso al suo paziente; ma confessa al tempo stesso di provare un<br />
sentimento di vendetta nei riguardi di quest’ultimo: l’edizione è una sorta di ritorsione, perché la<br />
terapia è stata interrotta, e S. spera di ottenere che Zeno ritorni sui suoi passi.<br />
Inutile negare che quando il medico confessa ciò, aggiungendo che nel diario sono accumulate<br />
“tante verità e bugie” avverte chi legge di una cosa essenziale, che costituisce la vera novità del<br />
romanzo sveviano, ed è un portato del mutamento del canone narrativo novecentesco: non c’è verità<br />
nel racconto che possa essere ritenuta oggettivamente valida. L’autobiografia di Zeno si muove su<br />
un terreno che mescola fantasia e realtà, menzogna e verità, esattamente come la psiche umana: il<br />
ricordo che noi abbiamo del nostro vissuto si lascia difatti sempre condizionare dalla selezione e<br />
rielaborazione successiva agìta dalla nostra mente.<br />
Relatività del racconto dunque, e incrinatura del rapporto di fiducia tra narratore e lettore.<br />
Cos’è dunque la “coscienza” di Zeno? Per rispondere a questa domanda ci aiuta il “Preambolo”: è<br />
l’acquisizione di consapevolezza che ogni vicenda umana è costruita in modo multistratico, che il<br />
63
tempo della coscienza non è quello oggettivo e lineare nel quale crediamo, che ripristinare questa<br />
linea per conoscersi e guarire dal malessere è impresa impossibile. Noi siamo più o meno malati o<br />
sani a seconda di come ci sentiamo.<br />
Il “Preambolo” di Zeno Cosini è anche un capolavoro di ironia: chi narra ha più di cinquant’anni, è<br />
curioso di psicanalisi, ha un presente complesso che offusca i ricordi. Il suo sguardo sulle cose è<br />
piuttosto scettico. Egli racconta di essersi prestato alla richiesta del medico in modo piuttosto<br />
perplesso, al punto da leggere un trattato di psicoanalisi per convincersene; convinzione non<br />
raggiunta di certo, come testimonia il primo esperimento che fa su di sé e che si conclude nel sonno.<br />
Con matita e carta cerca allora una maggiore concentrazione: ed ecco emergere due immagini,<br />
quella di una locomotiva che sbuffa in salita (l’immagine troverà la sua spiegazione “analitica” nel<br />
capitolo sulla morte del padre) e quella di un bambino: il piccolo Zeno in fasce? No, ci avverte il<br />
narratore, probabilmente il figlio della cognata, bimbo appena nato che viene apostrofato come<br />
“povero bambino” “fantolino”, e su cui si trasferisce il pessimismo di chi scrive sia riguardo alla<br />
possibilità di ricordare la vita sia di poterla condizionare in meglio.<br />
Ma il bimbo in fasce rappresenta in questa introduzione molto di più che un’occasione per mettere<br />
in discussione con ironia la riuscita dell’esperimento “terapeutico-narrativo”. Egli simboleggia la<br />
volontà dell’autore di toccare con l’opera i grandi temi della nascita e della morte, del significato<br />
della vita umana in relazione alla malattia del singolo uomo e al disagio della civiltà umana nel suo<br />
complesso.<br />
Si tratta di temi che verranno affrontati con una costruzione narrativa originalissima: Zeno, alter<br />
ego dell’autore, sorta di suo doppio, è un personaggio immaginario con tratti biografici attinti dalla<br />
vita reale di Svevo; nel racconto egli mette in moto uno dei procedimenti chiave che reggono il<br />
funzionamento della psicologia umana: la contaminazione dei ricordi con il presente vissuto e la<br />
mescolanza della realtà con contenuti liberamente inventati e ricreati dalla psiche stessa.<br />
Seguendo questo procedimento e trasformandolo in meccanismo narrativo, l’opera di Svevo<br />
abbandona il percorso del romanzo realista: non vi è più alcun interesse per la realtà oggettiva dei<br />
fatti, la cui restituzione fedele non fa parte delle finalità del racconto. Quel che conta è il modo<br />
complesso in cui la materia narrata, la vita, viene interpretata e assimilata dalla “coscienza” del<br />
personaggio. Che infatti si presenta come malato e finisce poi per negare la sua stessa malattia, non<br />
solo con le sue azioni, ma anche con le affermazioni finali del romanzo, in cui si dichiarerà<br />
“guarito”.<br />
Il dialogo tra voce del ricordo e voce del giudizio fa accostare quest’opera ai grandi romanzi del<br />
Novecento, l’Ulisse di Joyce o Alla ricerca del tempo perduto di Proust. Non è un caso che quando<br />
esso viene pubblicato nel 1923 non riscuote nessun successo in Italia, ma suscita l’interessamento<br />
dello stesso Joyce, di Eugenio Montale, di chi pone nel Novecento il relativismo soggettivo come<br />
uno dei fondamenti dell’opera artistica.<br />
Non molto si può dire sotto l’aspetto linguistico, in favore del romanzo: il triestino Ettore Schmitz,<br />
in arte Italo Svevo, adotta soluzioni linguistiche e sintattiche che talora deviano dalla norma<br />
dell’italiano letterario, periodi involuti o faticosi (ad esempio, al rigo …: “quando arriverai a<br />
sapere che sarebbe bene che tu sapessi mandare a mente la tua vita…?”); non mancano<br />
forestierismi e dialettalismi che sono stati definiti “preterintenzionali”, cioè non voluti: nel<br />
complesso una lingua piuttosto spoglia, che forse aiuta però a riprodurre linguisticamente il<br />
monologo interiore del personaggio, liberando gli eventi da eccessive connotazioni di natura<br />
emotiva.<br />
64
Guido Gozzano, La più bella<br />
[GOZZANO, Tutte le poesie, pp. 282-3]<br />
Pubblicata per la prima volta nel 1913 sulla rivista La Lettura, questa poesia è stata ripresa da una<br />
bellissima canzone di Francesco Guccini, L’isola non trovata.<br />
I<br />
Ma bella più di tutte l'Isola Non-Trovata:<br />
quella che il Re di Spagna s'ebbe da suo cugino<br />
il Re di Portogallo con firma sugellata<br />
e bulla del Pontefice in gotico latino.<br />
L'Infante fece vela pel regno favoloso, 5<br />
vide le fortunate: Iunonia, Gorgo, Hera<br />
e il Mare di Sargasso e il Mare Tenebroso<br />
quell'isola cercando... Ma l'isola non c'era.<br />
Invano le galee panciute a vele tonde,<br />
le caravelle invano armarono la prora: 10<br />
con pace del Pontefice l'isola si nasconde,<br />
e Portogallo e Spagna la cercano tuttora.<br />
II<br />
L'isola esiste. Appare talora di lontano<br />
tra Teneriffe e Palma, soffusa di mistero:<br />
“... l'Isola Non-Trovata!” Il buon Canarïano 15<br />
dal Picco alto di Teyde l'addita al forestiero.<br />
La segnano le carte antiche dei corsari.<br />
...Hifola da - trovarfi? ...Hifola pellegrina?...<br />
È l'isola fatata che scivola sui mari;<br />
talora i naviganti la vedono vicina... 20<br />
Radono con le prore quella beata riva:<br />
tra fiori mai veduti svettano palme somme,<br />
odora la divina foresta spessa e viva,<br />
lacrima il cardamomo, trasudano le gomme...<br />
S'annuncia col profumo, come una cortigiana, 25<br />
l'Isola Non-Trovata... Ma, se il pilota avanza,<br />
rapida si dilegua come parvenza vana,<br />
si tinge dell'azzurro color di lontananza...<br />
1 Non-Trovata: il nome dell’Isole immerge subito nel fantastico, nel paradosso.<br />
2 s’ebbe: ebbe per sé, ricevette.<br />
3 sugellata: suggellato, confermato e chiuso con sigilli, come avveniva per i contratti ufficiali e di rilievo.<br />
4 bulla: bolla, documento, scrittura ufficiale; (la forma è arcaica e assume una valenza ironica); gotico latino : caratteri<br />
usati per scritture ecclesiastiche<br />
5 Infante: la figlia del Re.<br />
6 le fortunate: sottinteso isole.<br />
65
7 Mare di Sargasso: mar dei Sargassi, nell’Oceano Atlantico, presso le Azzorre; Mare Tenebroso: antico nome<br />
dell’Oceano che si estendeva oltre lo stretto di Gibilterra.<br />
9 galee: navi militari a remi e a vele.<br />
10 caravelle: piccole navi generalmente a tre alberi; invano: inutilmente; armarono la prora: preparare la nave alla<br />
partenza.<br />
14 tra Teneriffe e Palma: tra Tenerife e Palma de Maiorca, isole dell’arcipelago delle Canarie.<br />
15 Canarïano: abitante delle Canarie.<br />
16 Picco alto di Teyde: vetta del Teide vulcano delle Canarie.<br />
18 Hifola da trovarfi? ...Hifola pellegrina?...: la grafia della s diventa f imitando il carattere antico, tipico delle carte<br />
geografiche<br />
21 Radono: sfiorano.<br />
22 somme: molto alte.<br />
24 lacrima … le gomme: il cardamomo, pianta dai cui semi si ricavano essenze, e gli alberi della gomma hanno la<br />
corteccia incisa da cui esce il lattice.<br />
25 cortigiana: donna che vive a corte, che spesso esercita la professione di prostituta.<br />
26 pilota: timoniere, il marinaio che guida la nave.<br />
27 parvenza vana: fantasma, essere dall’ aspetto evanescente<br />
SCHEDA METRICA<br />
Due sezioni composte la prima di tre strofe e la seconda di quattro strofe di endecasillabi a rima alternata.<br />
Un’atmosfera fiabesca, che rimanda alle leggende fantastiche di isole del tesoro e di avventure<br />
misteriose: con l'immagine dell'isola non trovata, ma continuamente cercata dagli uomini di tutti i<br />
tempi, il poeta richiama in modo leggero la propria immaginazione del viaggio, che di lì a poco si<br />
concretizzerà in Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India.<br />
Va precisato che tra il febbraio e l'aprile del 1912 Gozzano aveva compiuto un viaggio in India,<br />
visitando la città di Bombay e l'isola di Ceylon. Un itinerario modesto, dettato da motivi terapeutici<br />
(la tubercolosi) ma un'esperienza centrale nella produzione dello scrittore piemontese, poiché<br />
intorno al pellegrinaggio nella "culla del mondo" si catalizzano le sue rappresentazioni sull'Oriente,<br />
prima in prospettiva, e poi, con il ricordo e la trasfigurazione letteraria.<br />
La più bella, scritta nel 1911 nei “Quaderni di appunti per i Colloqui” fu accantonata per poi essere<br />
ripresa dopo il viaggio, e uscì non nella celebre raccolta, ma sulla stessa rivista “La Lettura” su<br />
cui, di lì a poco, compariva la prima delle lettere indiane, che è del 1914.<br />
Si può dire che la fantasia precede la realtà, anzi la informa, specie se leggiamo per confronto con la<br />
lirica il racconto del viaggio e l’incontro con l’isola di Elefanta:<br />
[…] d’improvviso come sospesa nello spazio, disegnata sopra una parete di cristallo, si profila<br />
l’isola di Elefanta […] il caldo provoca i miraggi, scompone l’aria, la fa vibrare, oscillare<br />
all’orizzonte, col tremolio del rivo sulla sabbia; l’isola di Elefanta, già prossima, s’addoppia, si<br />
riflette quadrupla, s’avvicina, si allontana, scompare. Quando riappare siamo giunti.<br />
Gozzano nella poesia sciorina immagini, come quella delle galee panciute o delle bolle regali e<br />
papali, reinventa realtà storiche, col riferimento alla competizione coloniale tra Spagna e Portogallo,<br />
suscita emozioni infantili con i nomi di luoghi e mari favolosi, che appaiono discendere<br />
dall’esperienza di viaggio e descrivono egregiamente un mondo favoloso nel momento stesso in cui<br />
la fantasia lo costruisce. Il lettore si sente proiettato lì, avvolto dalla capacità affabulatrice del poeta<br />
e non gli importa per nulla, ovviamente, di sapere se l’isola esista o no, come di fatto non conta,<br />
leggendo le Lettere dall’India di essere certi che il viaggio sia stato compiuto: l’avventura che<br />
Gozzano costruisce restando fedele al proprio tono di artista, musicale, ironico, che usa versi<br />
semplici, rime alternate e regolari, e maschera un questo modo una visione del mondo e della<br />
civiltà. Quale? Leggiamola nelle sue parole dall’India:<br />
Ancora una volta penso che i nostri sentimenti di fronte alle cose non sono che la magra fioritura di<br />
pochi semi deposti dal caso nel nostro povero cervello umano, nell’infanzia prima. Termina oggi il<br />
66
viaggio intrapreso a matita sull’atlante di venti anni orsono, termina a bordo di questa tejera<br />
sobbalzante, una caravella panciuta, lunga trenta metri, alla quale è stata senza dubbio aggiunta la<br />
prima caldaia a vapore che sia stata inventata. Ma tutto questo è indicibilmente poetico e mi<br />
ricompensa della vuota eleganza dei grandi vapori moderni dalle cabine e dalle sale presuntuose di<br />
specchi e di stucchi Impero e Luigi XV, dall’odore del volgarissimo hotel dove è assente ogni<br />
poesia marinaresca, ogni senso della cosa nuova e dell’avventura. Qui tutto è poetico, e la mia<br />
nostalgia può sognare di essere ai tempi di Vasco de Gama, di navigare alle Terrae Ignotae, alle<br />
Insulae non repertae…<br />
L’Insula non reperta, ovvero l’isola non trovata, ha tutte le caratteristiche esotiche dei mari del sud,<br />
e soprattutto la capacità di scomparire di fronte ai naviganti che la inseguono. Sicuramente per<br />
questo il cantautore Francesco Guccini la riprende in una sua bellissima canzone, per descrivere<br />
quella realtà misteriosa cui tutta l'esistenza rimanda e dunque ripropone con forza le grandi<br />
domande sul senso della vita. È dunque la canzone un'immagine dell'infinita ricerca dell'uomo di<br />
un significato ultimo delle cose. [P. Jachia, Francesco Guccini, Editori Riuniti, Roma 2002, p. 56].<br />
67
Giuseppe Ungaretti, Il porto sepolto<br />
[Ungaretti, Vita d'un uomo. Tutte le poesie, p. 23]<br />
Ecco come il poeta spiega il significato dei versi che seguono, che danno il titolo alla raccolta del<br />
1916 e alla sezione omonima nell'edizione definitiva de “L’Allegria” del 1931 : «Il porto sepolto è<br />
ciò che di segreto rimane in noi, indecifrabile».<br />
Mariano il 29 giugno 1916<br />
Vi arriva il poeta<br />
e poi torna alla luce con i suoi canti<br />
e li disperde.<br />
Di questa poesia<br />
mi resta 5<br />
quel nulla<br />
di inesauribile segreto<br />
1 Vi: al porto, avverbio di luogo.<br />
3 li disperde: li dissemina, diffonde.<br />
5 quel nulla: qualcosa di impercettibile<br />
SCHEDA METRICA<br />
Versi liberi<br />
Per decifrare il senso di questa lirica, leggiamo cosa scriveva lo stesso Ungaretti nelle sue note<br />
introduttive all’edizione completa delle sue poesie (Vita di un uomo, 1969).<br />
Verso i sedici anni, ho conosciuto due giovani ingegneri francesi i fratelli Thuile, Jean e Hanri<br />
Thuile. […] Mi parlavano di un porto, sommerso, che doveva precedere l’epoca tolemaica,<br />
provando che Alessandria era già un porto già prima d’Alessandro, che già prima di Alessandro era<br />
una città. Il titolo del mio primo libro deriva da quel porto: Il porto sepolto.<br />
Ma il porto non è solo un luogo, ha un significato profondamente introspettivo: questa lirica è<br />
infatti una dichiarazione di poetica. Il poeta, attraverso un processo di scavo, si avvicina e trae<br />
ispirazione per i suoi canti da ciò che vi è di segreto e indecifrabile nell’animo umano, da un<br />
mistero che, come un porto sepolto, egli non riuscirà mai a portare completamente in superficie.<br />
Egli ripete il gesto di Orfeo, di Dante, che attraversano i regni delle ombre prima di riemergere alla<br />
luce, e nella prima strofa la sua azione si esplica attraverso la discesa (il vi introduttivo, avverbio di<br />
luogo, si ricollega al titolo) e la successiva risalita che porta alla luce il canto e lo trasforma in<br />
dono per altri. La poesia rappresenta allora lo sbocco di un sofferto itinerario di ricerca della verità;<br />
ma di questa verità, racchiusa all’interno dell’uomo, si riesce a cogliere un’eco appena («quel nulla/<br />
d’inesauribile segreto»).<br />
Notevole, nel passaggio tra la prima e la seconda strofa, è la pregnanza dell’antitesi tra i verbi: il<br />
poeta disperde i canti, ma nel contempo a lui resta un’acquisizione di verità, un’ispirazione che è di<br />
per sé inesauribile. Così come, in una poesia senza rime né schema, diventa altamente significativo<br />
la quasi-rima poeta – segreto, in cui si cela il senso dell’intera poesia.<br />
68
I versi brevi e brevissimi, che furono poi detti “versicoli” e l’alta concentrazione del testo costruito<br />
su due brevi periodi, rimandano ad uno stile che si fonda sulla decostruzione metrica e sulla<br />
verticalizzazione sintattica. È il nome a farsi verso; la frase, frantumata in più versi, a farsi poesia e<br />
le parole, divenute oggetti sonori, a spiccare nel bianco della <strong>pagina</strong> semantizzato. Ungaretti si fa<br />
così interprete, tra i vari modi di intendere il ruolo e la funzione del poeta che si confrontano agli<br />
inizi del XX secolo, dopo le rotture del simbolismo e mentre insorgevano le avanguardie, di una<br />
tendenza all’ermetismo, ovvero a interpretare la poesia come qualcosa di sacro, di misterico, che<br />
non regredisce in una mitica fanciullezza come in Pascoli, ma attinge l’assoluto e l’inconoscibile<br />
spiegato per simboli e allusioni. E il gesto simbolico di immergersi per poi risalire fino alla luce è<br />
una specie di rito di purificazione da cui nasce quello stile che sarà detto della poesia "pura", ovvero<br />
depurata da determinazioni temporali, spaziali, da eccessi retorici ed estetizzanti.<br />
69
Giuseppe Ungaretti, I fiumi<br />
[Ungaretti, Vita d'un uomo. Tutte le poesie, p. 43-5]<br />
Un bagno nell’Isonzo diventa un viaggio attraverso il passato per ritrovare le proprie radici: il<br />
poeta rievoca, insieme ai propri ricordi personali, i fiumi che li hanno attraversati.<br />
Cotici il 16 agosto 1916<br />
Mi tengo a quest’albero mutilato<br />
abbandonato in questa dolina<br />
che ha il languore<br />
di un circo<br />
prima o dopo lo spettacolo 5<br />
e guardo<br />
il passaggio quieto<br />
delle nuvole sulla luna<br />
Stamani mi sono disteso<br />
in un’urna d’acqua 10<br />
e come una reliquia<br />
ho riposato<br />
L ’Isonzo scorrendo<br />
mi levigava<br />
come un suo sasso 15<br />
Ho tirato su<br />
le mie quattr’ ossa<br />
e me ne sono andato<br />
come un acrobata<br />
sull’acqua 20<br />
Mi sono accoccolato<br />
vicino ai miei panni<br />
sudici di guerra<br />
e come un beduino<br />
mi sono chinato a ricevere 25<br />
il sole<br />
questo è l’Isonzo<br />
e qui meglio<br />
mi sono riconosciuto<br />
una docile fibra 30<br />
dell’universo<br />
Il mio supplizio<br />
è quando<br />
non mi credo<br />
in armonia 35<br />
Ma quelle occulte<br />
mani<br />
70
che m’intridono<br />
mi regalano<br />
la rara 40<br />
felicità<br />
Ho ripassato<br />
le epoche<br />
della mia vita<br />
Questi sono 45<br />
i miei fiumi<br />
Questo è il Serchio<br />
al quale hanno attinto<br />
duemil’anni forse<br />
di gente mia campagnola 50<br />
e mio padre e mia madre.<br />
Questo è il Nilo<br />
che mi ha visto<br />
nascere e crescere<br />
e ardere d’inconsapevolezza 55<br />
nelle estese pianure<br />
Questa è la Senna<br />
e in quel suo torbido<br />
mi sono rimescolato<br />
e mi sono conosciuto 60<br />
Questi sono i miei fiumi<br />
contati nell’Isonzo<br />
Questa è la mia nostalgia<br />
che in ognuno<br />
mi traspare 65<br />
ora ch’è notte<br />
che la mia vita mi pare<br />
una corolla<br />
di tenebre<br />
1 mi tengo: mi appoggio.<br />
2 abbandonato: il participio può riferirsi all’albero, ma anche al poeta, per sottolineare lo stato di abbandono al<br />
ricordo; dolina: una formazione tipica del paesaggio carsico, cavità di forma circolare creata ad opera dell'acqua che<br />
erode la roccia calcarea.<br />
10 urna d’acqua: come nel verso successivo, in cui il poeta si paragona ad una reliquia, urna è termine attinto dal<br />
linguaggio sacro e rituale.<br />
19 come un acrobata: l’immagine richiama quella dei vv. 4-5 relativi al circo: in più l’acrobata è colui che cammina<br />
con precario equilibrio (sui sassi del fiume) e dunque simboleggia anche la precarietà della condizione umana.<br />
24 come un beduino: immagine memoriale dell’Africa, che anticipa la successiva evocazione del Nilo.<br />
27 Isonzo: fiume che scorre in territori dove si combatteva la prima guerra mondiale, attualmente in parte sloveni e in<br />
parte nel Friuli Venezia Giulia.<br />
30-31 Una docile fibra/dell’universo: in comunione con la natura, il poeta si sente come uno dei singoli elementi<br />
costitutivi di essa e a questa condizione sente di voler conformarsi.<br />
36-37 occulte mani: sono le acque del fiume, ma metaforicamente «le mani eterne che foggiano assidue il destino di<br />
ogni essere vivente» (così Ungaretti, nelle “Note introduttive” all’edizione del 1969).<br />
71
47 Serchio: il fiume che scorre in Lucchesia, luogo dell’origine contadine della famiglia di Ungaretti.<br />
52. Nilo: il poeta è nato ad Alessandria d’Egitto.<br />
55 ardere d’inconsapevolezza: si riferisce agli ardori adolescenziali, quando si è ancora inconsapevoli del mondo.<br />
57 Senna: il fiume di Parigi, dove Ungaretti ha studiato e ha preso coscienza di sé.<br />
62 contati nell’Isonzo: ritrovati nel ricordo mentre si bagna nel fiume Isonzo.<br />
63 nostalgia: il “dolore del ritorno”, che è il significato letterale del termine si coniuga con la consapevolezza di un<br />
presente tormentato (cfr. versi successivi).<br />
68-69 una corolla/di tenebre: immagine della precarietà e dell’oscurità del presente.<br />
SCHEDA METRICA<br />
Versi liberi, suddivisi in 15 strofe di varia lunghezza. Nel componimento mancano le rime, mentre sono frequenti<br />
allitterazioni e assonanze, specieafineverso.<br />
L’allegria di Naufragi è la presa di coscienza di sé, è la scoperta che prima adagio avviene, poi<br />
culmina d’improvviso in un canto scritto il 16 agosto 1916 in piena guerra, in trincea, e che<br />
s’intitola I Fiumi. Vi sono enumerate le quattro fonti che in me mescolavano le loro acque, i<br />
quattro fiumi il cui moto dettò i canti che scrissi allora. [Ungaretti, “Note introduttive” a<br />
“L’Allegria” in Vita d’un uomo, p. 517]<br />
Un uomo immerso in un fiume, presso una dolina: così si presenta il poeta in questa sua celebre<br />
lirica, una delle più lunghe. Bagnandosi nelle acque dell’Isonzo, il poeta ha la sensazione di essere<br />
in piena sintonia con l’universo e con se stesso. Ciò l'induce a recuperare la memoria del passato, di<br />
tutti i fiumi che ha conosciuto, ciascuno assurto a simbolo delle diverse tappe della sua vita: il<br />
Serchio, legato ai suoi avi, il Nilo, che lo ha visto crescere negli anni della giovinezza, la Senna, il<br />
fiume della sua maturazione durante il periodo parigino.<br />
A questo primo tema, già nei primi versi, se ne accompagna un altro, fondamentale: il ristabilirsi<br />
di un rapporto di armonia con il creato, che l’esperienza della guerra sembrava aver infranto.<br />
Affidato alle “mani” amorevoli dell’Isonzo, il poeta si riconosce parte dell’universo. Ecco il fiume<br />
che sfiora il suo corpo quasi a levigarlo come un sasso, ed ecco il riconoscersi come fragile fibra<br />
dell'universo.<br />
Poi, nei versi centrali, esattamente a metà del componimento, la confessione sofferta: il mio<br />
supplizio/ è quando/ non mi credo/ in armonia. Il dolore e la tristezza, ineludibili nella condizione<br />
umana, nascono infatti in chi si sente emarginato, in chi non riesce a coniugare le proprie<br />
aspirazioni con la realtà. E' un dolore privato, come testimonia l'aggettivo mio, riferito al supplizio.<br />
In questa circostanza è proprio il fiume ad aiutare il soggetto, regalandogli la “rara” felicità di una<br />
rinascita, e facendogli ripercorrere tutto lo scorrere dei suoi anni, in un flusso in cui il passato<br />
diviene presente: e l'Isonzo rappresenta tutti i fiumi, quello del paese d’origine della famiglia,<br />
quello d'Egitto, quello di Parigi, perché tutti i fiumi sono questo fiume, come testimonia l’iterazione<br />
dell’aggettivo dimostrativo questo e dell’avverbio qui.<br />
L’atto rituale e religioso dell’immersione (sottolineato dalle parole urna e reliquia) diventa così,<br />
attraverso la memoria, recupero di un’identità che la guerra con i suoi “sudici panni” da soldato ha<br />
sottratto. Anche la figura “cristologica” dell’acrobata che cammina sull’acqua finisce per<br />
collaborare ad un’atmosfera solenne e religiosa, che ad alcuni è parso richiamasse una sorta di<br />
“primordiale innocenza” della poesia.<br />
La lirica si chiude con il ritorno: un ritorno al presente, il ritorno della notte, il sentimento stesso del<br />
ritorno, che è la nostalgia. La notte allontana di nuovo la rinascita e la vita, non più chiara e in<br />
comunione, analogicamente è simboleggiata dalla corolla di tenebre: dopo tanta acqua, un fiore,<br />
oscuro, nero, vago e indefinito. Il segreto del cosmo, che si era dischiuso in un attimo di luce, si<br />
richiude ed è riassorbito dalle tenebre.<br />
72
Giuseppe Ungaretti, Amaro accordo<br />
[Ungaretti, Vita d'un uomo. Tutte le poesie, p. 214]<br />
È questa una delle poesie della raccolta “Il Dolore” dedicate al figlio morto all’età di nove anni,<br />
nella quale il poeta evoca scene di vita amaramente spezzate dal destino.<br />
Oppure in un meriggio d'un ottobre<br />
Dagli armoniosi colli<br />
In mezzo a dense discendenti nuvole<br />
I cavalli dei Dioscuri,<br />
Alle cui zampe estatico 5<br />
S'era fermato un bimbo,<br />
Sopra i flutti spiccavano<br />
(Per un amaro accordo dei ricordi<br />
Verso ombre di banani<br />
E di giganti erranti 10<br />
Tartarughe entro blocchi<br />
D'enormi acque impassibili:<br />
Sotto altro ordine d'astri<br />
Tra insoliti gabbiani)<br />
Volo sino alla piana dove il bimbo 15<br />
Frugando nella sabbia,<br />
Dalla luce dei fulmini infiammata<br />
La trasparenza delle care dita<br />
Bagnate dalla pioggia contro vento,<br />
Ghermiva tutti e quattro gli elementi. 20<br />
Ma la morte è incolore e senza sensi<br />
E, ignara d'ogni legge, come sempre,<br />
Già lo sfiorava<br />
Coi denti impudichi.<br />
1 meriggio: mezzogiorno.<br />
2 Dioscuri: sono i gemelli Castore e Polluce, eroi mitologici figli di Zeus, cui vennero spesso dedicate imponenti<br />
statue equestri.<br />
5 estatico: ammirato, come in estasi.<br />
8 amaro accordo: associazione, collegamento triste.<br />
10 erranti: in movimento perenne.<br />
13 sotto … astri: sotto altre stelle, in un altro emisfero.<br />
15 Volo: Mi trasferisco con il pensiero.<br />
20 Ghermiva … elementi: Afferrava (il soggetto è la trasparenza delle dita) il fuoco, la terra, l’aria e l’acqua, ovvero la<br />
totalità delle cose esistenti.<br />
24 impudichi: senza morale e sena pudore.<br />
SCHEDA METRICA<br />
Quattro strofe di versi liberi, con prevalenza di endecasillabi e settenari.<br />
Nella raccolta “Il Dolore”, da cui è tratta questa lirica, Ungaretti affronta tre grandi motivi di<br />
sofferenza: due privati, la morte del figlio e del fratello, e l’altro pubblico, le condizioni di Roma<br />
durante l’occupazione tedesca nella seconda guerra mondiale. Di fronte a questi temi egli<br />
abbandona il verso breve che era stata la sua cifra stilistica più propria, soprattutto ne “L’ Allegria”,<br />
73
e si affida al più classico dei versi della tradizione poetica <strong>italiana</strong>: l’endecasillabo, che qui si<br />
alterna con il settenario come accadeva nella canzone leopardiana, entrambi rivisitati reinventando<br />
nuove musicalità.<br />
In Amaro accordo il poeta dipana il suo dolore per la perdita del figlio attraverso il sovrapporsi dei<br />
ricordi, come in un monologo interiore che non ha pace: la lirica si apre con Oppure… come un<br />
discorso che prosegue, che espone solo un altro, ennesimo esempio di immagini comuni della vita,<br />
della quotidianità spezzata dalla morte. Un mezzogiorno qualunque di un qualunque ottobre, in un<br />
paesaggio dai contorni gradevoli, i cavalli delle statue degli eroi s’imponevano all’attenzione. E<br />
accanto alle zampe s’era fermato un bimbo ammirato.<br />
E la memoria impone allora la sua associazione di pensieri, amaro accordo dei ricordi, e il poeta<br />
evoca l’immagine di tartarughe che come giganti in movimento si spostavano dentro enormi vasche<br />
d’acqua. L’evocazione, vagamente inquietante, contrappone questo paesaggio estraneo e inusuale (è<br />
il Brasile, dove il poeta vive e il bambino si ammala e muore) al più mite paesaggio italiano<br />
caratterizzato dagli armoniosi colli. Anche in altre liriche dedicate al figlio Antonietto, morto per<br />
un’appendicite mal curata, il poeta contrappone i due mondi, quasi ad accusarsi di aver fatto morire<br />
il figlio conducendolo a vive in zone insalubri e in ospitabili.<br />
Ma nel frattempo il ricordo del bimbo si fa più preciso. Il poeta lo rivede mentre gioca frugando<br />
nella sabbia. Un fulmine illumina le dita ormai rese trasparenti, forse anche dalla magrezza e dalla<br />
malattia, che la luce improvvisa del fulmine sotto la pioggia rende diafane. Eppure quelle dita<br />
sembrano afferrare il segreto di tutte le cose e dominare gli elementi del creato. Ma la morte, che<br />
insensibile non rispetta alcuna legge, già si prepara a farne una propria vittima.<br />
Il contrasto fra la vita e la morte è reso paradossale dall’uso dei verbi in forte contrapposizione: alla<br />
trasparenza delle dita è attribuito un verbo proprio del’azione della morte: ghermiva; mentre alla<br />
morte stessa è attribuito un verbo tipico dell’azione delle dita: sfiorava. Nell’inversione semantica si<br />
consuma l’assurdo, l’inaccettabilità del rapporto fra vita e morte.<br />
74
Eugenio Montale, Cigola la carrucola del pozzo<br />
[ MONTALE, Tutte le poesie, p. 47]<br />
In Ossi di seppia, la sua prima raccolta (1925) il poeta tocca spesso il tema della memoria, che<br />
riemerge nutre e illude l’animo, rivelandosi alla fine crudele, per la dolorosa impossibilità di<br />
restituire davvero la vita.<br />
Cigola la carrucola del pozzo<br />
l'acqua sale alla luce e vi si fonde.<br />
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,<br />
nel puro cerchio un'immagine ride.<br />
Accosto il volto a evanescenti labbri: 5<br />
si deforma il passato, si fa vecchio,<br />
appartiene ad un altro...<br />
Ah che già stride<br />
la ruota, ti ridona all'atro fondo,<br />
visione, una distanza ci divide.<br />
3 ricolmo: pieno fino all’orlo.<br />
4 puro cerchio: il cerchio di acqua limpida.<br />
5 evanescenti labbri: le labbra dell’immagine hanno tratti incerti, sfuggenti, sia per il tremolio dell’acqua che perché<br />
appartengono al ricordo.<br />
6 si deforma il passato: quando il poeta vi si accosta l’immagine, che appartiene al passato, si deforma.<br />
7 stride la ruota: la ruota della carrucola ha un suono stridente mentre il secchio ridiscende.<br />
8 atro: oscuro e buio (termine dantesco).<br />
9 visione … ci divide: una distanza incolmabile divide il poeta dalla visione tornata nel fondo del pozzo, nel passato.<br />
SCHEDA METRICA<br />
Endecasillabi con rime e assonanze variamente disposte: il verso 7 è diviso in due emistichi<br />
Dalla profondità di un pozzo, correlativo oggettivo della memoria, una carrucola sale stridendo: lo<br />
stridio rimanda alla fatica del recupero che dalle pieghe profonde della psiche fa riemergere il<br />
ricordo di un volto caro, forse il volto del poeta o quello della donna amata.<br />
E quando la riappropriazione del ricordo avviene, essa si identifica con il cerchio, al v.4, forma<br />
geometricamente perfetta e perciò adatta alla magica rievocazione del passato (“nel puro cerchio<br />
un’immagine ride”).<br />
Sin dal principio, quel che colpisce nella lettura di questa lirica è la sua straordinaria musicalità:<br />
essa si configura come un’unica strofa di versi endecasillabi, intensa di fonosimbolismi, con rime<br />
che rimandano alla prima cantica dantesca (secchio-vecchio, ride-stride) e numerose assonanze<br />
(ricòrdo-ricòlmo), consonanze e iterazioni foniche che creano un effetto d’eco e rendono<br />
estremamente musicale anche il ritmo (ad esempio: trema un ricordo nel ricolmo secchio , o in<br />
seguito: la ruota, ti ridona all’atro fondo). Sul piano fonosimbolico si notino le parole piane<br />
(acqua-luce-sale-fonde) che accompagnano il momento di felicità ed il verbo ride al v. 4<br />
chiasticamente contrapposto al trema del verso precedente.<br />
Ma il recupero del ricordo, che affiora alla superficie dell’acqua e si illumina alla luce del sole, è<br />
evanescente ed effimero: esso arriva presto a dissolversi (evanescenti labbri al v.5) e il senso della<br />
precarietà, dato anche a livello fonosimbolico dal fonema /r/ allitterante, quando è accompagnato<br />
dalla dentale sorda consente di isolare il vero nodo: l’irrecuperabilità del passato. Quando il secchio<br />
75
viene portato in superficie l’acqua all’interno si muove e s’increspa, trema: in senso metaforico il<br />
tremito è l’instabilità dell’immagine che affiora alla memoria.<br />
L’intorbidirsi dell’immagine coincide con lo svanire del ricordo. La breve illusione di felicità<br />
accompagnata dalla perdita irreparabile della speranza è messa in evidenza dalla rima di ride del<br />
v.4 con stride al v 7.<br />
Sottotraccia sentiamo in questa lirica la suggestione di immagini mitologiche: da quella dell’acquaspecchio<br />
di Narciso a uno dei miti costitutivi della civiltà occidentale, il mito di Orfeo che riprende<br />
Euridice dal profondo pozzo degli Inferi e poi la smarrisce.<br />
“Il passato …. appartiene ad un altro” [v.7-8] è la conclusione che ribadisce la distanza che divide<br />
il poeta dalla visione . Nel pozzo della memoria, la ruota, simbolo del meccanismo inarrestabile che<br />
crea fratture, e del destino, ha trascinato non solo un volto, ma anche una parte dell’uomo.<br />
Va evidenziato, a livello intertestuale, che il tema della memoria, anche in Montale, come in<br />
Ungaretti, costituisce un nucleo fondante: in Ossi di seppia, la raccolta con cui egli inizia la sua<br />
attività poetica, essa si oggettiva in ricordi associati ad elementi del mondo circostante, oggetti della<br />
natura: è una scelta che ritornerà anche nelle liriche più celebri, come Spesso il male di vivere ho<br />
incontrato, e che hanno consentito di associare la poetica montaliana delle origini a quella del<br />
correlativo oggettivo di Eliot<br />
Sul piano lessicale le scelte operate da Montale privilegiano l’uso metaforico dei verbi che<br />
umanizzano le immagini mettendo in luce il senso della labilità (trema un ricordo... si deforma il<br />
passato). Non mancano termini colti come atro dantesco, accanto ad altri desunti invece dal<br />
linguaggio quotidiano come secchio, pozzo, ruota, tipici del vocabolario scabro ed essenziale<br />
proprio della raccolta Ossi di seppia, la cui poetica si caratterizzerà proprio per il distacco<br />
dall’eloquenza e dalla lingua aulica e dalla ricerca di immagini della natura, del paesaggio, della<br />
vita che rimandano alla negatività del male di vivere e nel contempo siano illusione di positività e<br />
riscatto.<br />
76
Eugenio Montale, La casa dei doganieri<br />
[ MONTALE, Tutte le poesie, p. 167]<br />
La memoria dei luoghi di Monterosso e la consapevolezza dell’ineluttabilità della perdita dei<br />
ricordi stessi sono il nucleo di questa poesia pubblicata per la prima volta nel 1930, e confluita<br />
nel primo fascicolo delle future Occasioni (1932).<br />
Tu non ricordi la casa dei doganieri<br />
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:<br />
desolata t’attende dalla sera<br />
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri<br />
e vi sostò irrequieto. 5<br />
Libeccio sferza da anni le vecchie mura<br />
e il suono del tuo riso non è più lieto:<br />
la bussola va impazzita all’avventura<br />
e il calcolo dei dadi più non torna.<br />
Tu non ricordi; altro tempo frastorna 10<br />
la tua memoria; un filo s’addipana.<br />
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana<br />
la casa e in cima al tetto la banderuola<br />
affumicata gira senza pietà.<br />
Ne tengo un capo; ma tu resti sola 15<br />
né qui respiri nell’oscurità.<br />
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende<br />
rara la luce della petroliera!<br />
Il varco è qui? (Ripullula il frangente<br />
ancora sulla balza che scoscende ...) 20<br />
Tu non ricordi la casa di questa<br />
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.<br />
1 Tu: Apertura vocativa, che si rivolge direttamente alla donna amata.<br />
2 casa dei doganieri: è la sede delle guardie costiere addette al controllo delle merci in transito.<br />
3 desolata t’attende: riferito alla casa, che attende il ritorno della donna, ma allude anche allo stato d’animo del poeta.<br />
4 lo sciame … pensieri: i pensieri della donna, in continuo movimento.<br />
6 Libeccio: vento di sud-ovest, caratterizzato da raffiche intense.<br />
7 il suono… lieto: il riso della donna, rivissuto nel ricordo, non è più lieto come un tempo.<br />
8-9 la bussola … torna: due immagini che indicano incertezza, impossibilità di far affidamento a sicuri strumenti di<br />
orientamento: la bussola che si muove impazzita e il calcolo dei dadi che non torna, per cui ogni azzardo, ogni ipotesi<br />
non è possibile<br />
10 altro tempo: altra condizione di vita, per la lontananza o forse la morte; frastorna: confonde, distrae.<br />
11 un filo … s’addipana: il filo della memoria si svolge.<br />
12 Ne tengo …un capo: Trattengo il filo dei ricordi; s’allontana: sfuma nella memoria.<br />
13 banderuola affumicata: figurina metallica posta sui tetti accanto ai comignoli (e per questo affumicata) che<br />
ruotando indica la direzione del vento.<br />
16 né qui … oscurità: non sei qui a respirare nell’oscurità della notte.<br />
17 orizzonte in fuga: anche la linea dell’orizzonte sembra sfumare, allontanarsi.<br />
18 rara: a tratti, non continua.<br />
19 il varco: il punto di passaggio, di uscita dalle contraddizioni dell’esistenza;<br />
19- 20 Ripullula … scoscende: l’onda continua a rifrangersi contro la scogliera (balza) a picco sul mare.<br />
77
SCHEDA METRICA<br />
Quattro strofe di versi di lunghezza variabile, prevalentemente endecasillabi o di poco allungati; la struttura rimica,<br />
nel complesso regolare, disegna un diverso schema metrico composto da cinque quartine, non del tutto regolari, a<br />
rima baciata o alternata, e da un distico finale a rima baciata.<br />
L’“occasione” che ispira la lirica è il ritorno, all’apparenza in visita, ma certamente in memoria,<br />
alla casa di Monterosso, dove il poeta trascorreva le vacanze in gioventù: il ricordo di essa si lega a<br />
quello della donna che fa da interlocutrice ideale, a cui ci si rivolge con l’allocuzione dell’esordio<br />
(Tu non ricordi). Si tratta di Arletta-Annetta, un amore giovanile, lontano: forse perduto o forse<br />
morto, non è dato saperlo. E questo perché a poesia ha significato universale, come lo stesso<br />
Montale sottolineò spiegando che la casa dei doganieri fu distrutta quando lui aveva sei anni e<br />
Arletta non potè conoscerla.<br />
La rievocazione del passato diventa dunque rievocazione del desiderio, provato un tempo di andare<br />
oltre il proprio ristretto destino.<br />
Ricca di citazioni, dall’allocuzione iniziale che rimanda alla Silvia leopardiana, al mito del filo di<br />
Arianna (il filo memoriale di cui il poeta tiene un capo mentre l’altro si perde nell’oscurità, come<br />
nel labirinto), la lirica è anche un esempio felicissimo dell’uso simbolico del linguaggio: bussola,<br />
dadi, banderuola, sono altrettanti correlativi oggettivi della percezione, o forse consapevolezza, di<br />
non poter dare, purtroppo, esito certo ad alcun progetto esistenziale.<br />
Non manca una buona dose di ambiguità, che rende in alcuni passaggi oscuri: la donna non ride più<br />
lieta a causa della morte o della situazione presente del poeta?<br />
E la sottolineatura di alcune espressione ripetute e scandite (Tu non ricordi ai vv.1, 10 e 21; Ne<br />
tengo [ancora] un capo ai vv.12 e 15) svolge allo stesso tempo una funzione musicale e ritmica e<br />
una funzione espressiva ribadendo l’assenza dell’altro, dell’interlocutrice,e lo sconcerto di chi<br />
comprende la confusione della vita.<br />
Funzione di chiusura svolge l’ultima strofa, la più complessa, che culmina nella desolata<br />
dichiarazione finale: “Ed io non so chi va e chi resta”, che circolarmente riprende l’incipit (nel<br />
confronto e nella confusione tra il Tu e l’io, tra la donna che non c’è e non ricorda, e il poeta che<br />
resta e ricorda ma senza illusioni). A fronte di una natura che appare ripetersi sempre uguale (eventi<br />
ciclici sono le onde che si rifrangono) alla luce che sembra offrire una via di fuga, un varco (una<br />
via di salvezza, oppure, come ha scritto e interpretato all’opposto Marchese, il passaggio tra vita e<br />
morte) la poesia testimonia il fallimento del desiderio che la memoria possa restituire nitidamente<br />
un senso esistenziale. La confusione, il non so che richiama anche il celebre “Non chiederci la<br />
parola”, si estende al non sapere se è più vivo chi è di qua o di là, oltre l’esistenza.<br />
78
Eugenio Montale, L’anguilla<br />
[ MONTALE, Tutte le poesie, p. 262]<br />
Il viaggio dell’anguilla dai mari freddi ai nostri più caldi per cercare l’ambiente adatto alla riproduzione diventa il<br />
simbolo della lotta per rinascere proprio nel momento in cui le cose si disgregano, come accade nell’orrore della<br />
guerra, a cui la raccolta La bufera e altro (pubblicata nel 1956: questa poesia, che risale al 1948, è nella quinta<br />
sezione, Silvae) è dedicata.<br />
L’anguilla, la sirena<br />
dei mari freddi che lascia il Baltico<br />
per giungere ai nostri mari,<br />
ai nostri estuari, ai fiumi<br />
che risale in profondo, sotto la piena avversa, 5<br />
di ramo in ramo e poi<br />
di capello in capello, assottigliati,<br />
sempre più addentro, sempre più nel cuore<br />
del macigno, filtrando<br />
tra gorielli di melma finché un giorno 10<br />
una luce scoccata dai castagni<br />
ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta,<br />
nei fossi che declinano<br />
dai balzi d’Appennino alla Romagna;<br />
l’anguilla, torcia, frusta, 15<br />
freccia d’Amore in terra<br />
che solo i nostri botri o i disseccati<br />
ruscelli pirenaici riconducono<br />
a paradisi di fecondazione;<br />
l’anima verde che cerca 20<br />
vita là dove solo<br />
morde l’arsura e la desolazione,<br />
la scintilla che dice<br />
tutto comincia quando tutto pare<br />
incarbonirsi, bronco seppellito; 25<br />
l’iride breve, gemella<br />
di quella che incastonano i tuoi cigli<br />
e fai brillare intatta in mezzo ai figli<br />
dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu<br />
non crederla sorella? 30<br />
2 Baltico: Mare del nord.<br />
4 estuari: ampia foce del fiume nella quale l’acqua marina si mescola all’acqua dolce e dove l’anguilla inizia la risalita<br />
del fiume alla ricerca di un luogo adatto alla riproduzione.<br />
5 in profondo … avversa: nuotando in profondità per evitare la corrente contraria del fiume.<br />
6 di ramo … capello: passando via via da un ramo all’altro del fiume, fino ai tatti più sottili, come un capello.<br />
8 più addentro: più su, dentro la terraferma.<br />
8-9 nel cuore … macigno: nella parte più interna delle montagne, dove i fiumi hanno origine.<br />
10 gorielli di melma: canaletti melmosi.<br />
11 una luce… dai castagni: una striscia di luce che filtra fra i rami come fosse una freccia scoccata dagli stessi<br />
castagni.<br />
12 ne accende… acqua morta: la luce illumina in modo vivace il guizzo delle anguille nelle pozze di acque ferme.<br />
13-14 nei fossi … Romagna: nei fossi che scendono dai ripiani montuosi (balzi) dell’Appennino verso le coste della<br />
Romagna.<br />
15-16 torcia… terra: la fiaccola, la frusta, la freccia sono i simboli di Cupido, dio dell’Amore cui l’anguilla viene<br />
assimilata.<br />
17 botri: fossati stretti e ripidi.<br />
17-18 disseccati … pirenaici: ruscelli poveri d’acqua nei Pirenei.<br />
79
19 paradisi di fecondazione: luoghi dove l’anguilla trova la gioia intensa dell’accoppiamento e della riproduzione.<br />
20-22 l’anima… desolazione: l’anguilla è l’anima vitale (verde) che si riproduce (cerca vita) solo dove la terra è come<br />
morsa dalla mancanza d’acqua e dalla desolazione.<br />
23-24 scintilla … inacarbonirsi: la scintilla che ridà vitalità alla fiamma quando sembra che tutto si stia spegnendo.<br />
24 bronco seppellito: il pezzo di legno del focolare bruciato e carbonizzato sarebbe come un ramo spoglio (bronco)<br />
ricoperto di terra<br />
26 iride breve… sorella: si chiude in modo assai complesso l’interrogativo aperto dal primo verso: puoi tu, donna, non<br />
credere a te sorella, accomunata dallo stesso destino,<br />
la breve iridescenza (qui l’anguilla è puro barlume di luce), simile (gemella) a quella dei tuoi occhi che i tuoi cigli<br />
incastonano e tu fai brillare pura e intatta in mezzo alla gente<br />
SCHEDA METRICA<br />
Un’unica lunga strofa composta di versi di varia natura (dai classici settenari ed endecasillabi al settenario doppio)<br />
con rime e assonanze, anche intenrne, distribuite liberamente .<br />
L’ intera poesia è un lungo unico periodo interrogativo, che si apre al primo verso e si chiude solo<br />
all’ultimo: un esempio di incredibile perizia tecnica e compositiva, se si considera che trenta versi<br />
si snodano in un tessuto di subordinate (alcune coordinate tra loro dalla punteggiatura) rette dal<br />
nome dell’anguilla e dai suoi appellativi-attributi: sirena, anima verde, scintilla, iride) . L’oggetto,<br />
il soggetto e il predicato della principale sono divisi tra il primo e gli ultimi due versi:<br />
l’anguilla….puoi tu / non crederla sorella? La struttura ci invita così ad una lettura veloce e a<br />
compiere un viaggio non meno tortuoso di quello dell’anguilla stessa.<br />
L’animale ha un’altissima pregnanza simbolica e viene trasfigurato metaforicamente non tanto in<br />
relazione alle sue caratteristiche figurative (zoologiche) ma sovrapponendovi caratteristiche<br />
dell’immaginario animale e fiabesco anche legate ad altri pesci (come il salmone che risale le<br />
correnti) o alla mitologia come la sirena.<br />
L’anguilla diventa simbolo d’Amore rivitalizzante, che nasce là dove la vita sembra riarsa o spenta,<br />
dopo una lunga ricerca, un viaggio di risalita esistenziale che la porta dalle fredde distese d’acqua<br />
del Nord ai rigagnoli disseccati delle alture dell’Appennino o dei Pirenei. Quando nelle pozze<br />
d’acqua la luce del sole filtrata fra i castagni ne rivela la presenza vitale, il guizzo luminoso, pare<br />
che il miracolo si sia compiuto o stia per compiersi: l’anguilla ha raggiunto il suo ambito paradiso<br />
di fecondazione e il ciclo della vita può riavere inizio. Essa, dunque, è simbolo della donna stessa,<br />
della sua forza procreatrice, dell’ostinazione con cui riconferma il ciclo dell’esistenza.<br />
Di qui l’analogia tra l’iride breve (i colori iridescenti) dell’anguilla e l’iride degli occhi della donna,<br />
il soggetto della poesia, che è la Clizia della raccolta, una sorta di donna-angelo. La caratteristica<br />
dell’anguilla, che la rende analogicamente simile a Clizia, a lei sorella, è di portare luce tra le<br />
tenebre: essa come scintilla porta fuoco, cioè vita, dove tutto è terra riarsa. Si guardi ai vv. 11 e 12,<br />
in cui l’immagine dell’animale che illuminata da un raggio di sole filtrato tra i castagni brilla<br />
guizzando tra le pozzanghere. Come non richiamare I limoni, la poesia manifesto programmatico<br />
della poetica montaliana? Lì il poeta scrive<br />
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi<br />
fossi dove in pozzanghere<br />
mezzo seccate agguantano i ragazzi<br />
qualche sparuta anguilla<br />
E come l’anguilla riluce nelle pozzanghere, così la donna brilla tra il fango in cui sono immersi<br />
gli uomini (vv.28-29). Si comprende così l’alto valore figurale di questa creatura in cui si<br />
mescolano e metamorfizzano i regni della natura, minerale vegetale e animale.<br />
Si è più volte notato come Montale rilegga e reinterpreti in questa raccolta il grande modello di<br />
Dante (secondo Luperini, in particolare nella sezione Silvae a cui appartiene questa poesia).<br />
Basso e alto, livello terreno e livello simbolico si mescolano difatti nel linguaggio come nel<br />
80
contenuto. Sul piano del contenuto l’animale incarna l’esperienza della rigenerazione, dopo la<br />
combustione, della rinascita dopo i deliri della guerra mondiale, che hanno ridotto l’intero<br />
mondo a massa desolata e informe. Sul piano del linguaggio, come Dante, Montale mescola i<br />
piani: ne deriva un linguaggio a tratti aulico e ricercato con richiami danteschi o dannunziani -<br />
gorielli al v. 10, che evoca la morta gora di Inferno, II, 31; bronco al v.25; botri al v. 17 - a<br />
tratti più semplice, che si affida a analogie come quella tra il ramificarsi filiforme dei corsi<br />
d’acqua e i capelli (al v.7).<br />
Un ultimo cenno va dedicato alle corrispondenze tra il livello semantico, quello sintattico e quello<br />
fonico: se la tortuosità, la continuità sinuosa caratterizza il viaggio dell’anguilla (sul piano del<br />
contenuto) e il periodare del poeta (sul piano della sintassi), non diversamente, nella partitura del<br />
testo, ritornano le consonanti liquide contenute nel nome dell’anguilla: capello, gorielli, scintilla,<br />
gemella, sorella. E fitta è la rete di assonanze e allitterazioni vicine e distanti che contribuiscono<br />
a rendere il testo sorprendentemente compatto.<br />
81
Salvatore Quasimodo, Vento a Tindari<br />
[QUASIMODO, Tutte le poesie, p. 28]<br />
Tindari, mite ti so<br />
fra larghi colli pensile sull’acque<br />
delle isole dolci del dio,<br />
oggi m’assali<br />
e ti chini in cuore. 5<br />
Salgo vertici aerei precipizi,<br />
assorto al vento dei pini,<br />
e la brigata che lieve m’accompagna<br />
s’allontana nell’aria,<br />
onda di suoni e amore, 10<br />
e tu mi prendi<br />
da cui male mi trassi<br />
e paure d’ombre e di silenzi,<br />
rifugi di dolcezze un tempo assidue<br />
e morte d’anima 15<br />
A te ignota è la terra<br />
Ove ogni giorno affondo<br />
E segrete sillabe nutro:<br />
altra luce ti sfoglia sopra i vetri<br />
nella veste notturna, 20<br />
e gioia non mia riposa<br />
sul tuo grembo.<br />
Aspro è l’esilio,<br />
e la ricerca che chiudevo in te<br />
d’armonia oggi si muta 25<br />
in ansia precoce di morire;<br />
e ogni amore è schermo alla tristezza,<br />
tacito passo al buio<br />
dove mi hai posto<br />
amaro pane a rompere. 30<br />
Tindari serena torna;<br />
soave amico mi desta<br />
che mi sporga nel cielo da una rupe<br />
e io fingo timore a chi non sa<br />
che vento profondo m’ha cercato. 35<br />
1 mite ti so: ti conosco dolce.<br />
2 pensile: sospesa nell’aria, Tindari è arroccata su un’altura.<br />
3 del dio: Tindari sta di fronte alle isole Eolie, dove la mitologia collocava la dimora di Eolo, dio dei venti.<br />
4 oggi m’assali: contrapposto al mite ti so.<br />
5 ti chini in cuore: ti ripieghi dentro il mio cuore.<br />
6 salgo… precipizi: salgo verso cime elevate fra precipizi. Esperienza reale o ricordo?<br />
7 assorto … pini: intento ad ascoltare il vento fra i pini.<br />
8 brigata: compagnia di amici.<br />
10 onda…amore: le persone, viste senza fisicità, corrispondono a un’eco (onda) di suoni, parole e sentimenti d’amore.<br />
11 tu mi prendi: m’assale il tuo ricordo. Di Tindari o, come è stato sostenuto, di una donna, una figura femminile che<br />
si confonde e sovrappone con il luogo perché altra fonte di dolorosa lacerazione<br />
82
12 da cui … mi trassi: tu, terra dalla quale con dolore mi allontanai (mi trassi)<br />
14-16 e paure…d’anima: e mi assalgono (tutti i sostantivi concordano a senso con prendi) le paure di ombre e di<br />
silenzi, le dolcezze nelle quali un tempo mi rifugiavo spesso, un senso di morte dell’anima<br />
17 affondo: sprofondo.<br />
18 segrete .. nutro: alimento segrete sillabe; è un riferimento all’attività dello scrivere poesie.<br />
19 – 20 altra luce … notturna: la luce che sfiora di notte le tue case è diversa da quella in cui vivo.<br />
21-22 gioia … grembo: la gioia che riposa in te non è mia, non la posso provare.<br />
24-26 ricerca… morire: la ricerca di armonia a cui miravo quando vivevo in te oggi si è mutata in ansia precoce di<br />
morire.<br />
27 ogni amore… tristezza: ogni amore è vissuto solo come riparo alla tristezza.<br />
28-30: ogni amore… rompere: è un avanzare silenzioso nel buio, dove mi hai mandato a spezzare un pane amaro, a<br />
vivere tristemente.<br />
32: soave … mi desta: un amico mi scuote dolcemente.<br />
33 che mi sporga … rupe: affiché mi sporga a guardare da una rupe.<br />
34-35 io fingo… cercato: io fingo di aver provato timore davanti a chi non sa quale sconvolgimento profondo ho<br />
provato (il vento = i ricordi).<br />
SCHEDA METRICA<br />
Versi sciolti di misure diverse.<br />
La lirica introduce sin dai primi versi il tema classico del nostos, il viaggio di ritorno in patria,<br />
evocato qui nel ricordo o, forse, nella realtà.<br />
La nostalgia per la terra natale abbandonata è un tema tipico della poesia di Quasimodo: in molte<br />
opere il rimpianto per il paesaggio e i luoghi della Sicilia dove ha vissuto l’infanzia lo assale mentre<br />
vive al Nord in una dimensione spesso rappresentata come fredda e ostile e contrapposta alla mitica<br />
solarità dei luoghi d’origine. In questa lirica, il poeta, nella prima strofa, è (o immagina di essere) a<br />
Tindari e gli echi mitologici del paesaggio (le isole dolci del dio) gli risuonano dentro, ispirando e<br />
intensificando il ricordo. Così con un’associazione emotivo-sensoriale, il vento che lo colpisce si<br />
contrappone alla dolcezza e provoca uno sconvolgimento interiore: egli si immerge nel ricordo e<br />
vive uno sdoppiamento tra esterno e interno. Mentre le prime due strofe evocano il paesaggio e le<br />
atmosfere della dolce Tindari, le due successive raccontano della terra dove vive il suo amaro esilio,<br />
tanto straniera alla sua natura originaria da esserle ignota. Tindari non può sapere quanto sia triste<br />
quel luogo dove al poeta non pare di vivere, ma di affondare. Da un lato la dolcezza del paesaggio,<br />
i ricordi mitici, l’allegra brigata di amici. L’aria intrisa dai suoni e dagli echi d’amore. Dall’altra<br />
tristezza, luoghi ostili, vita condotta a fatica.<br />
Le scelte lessicali, nelle due parti della lirica, non potrebbero essere più esemplari ed evocative:<br />
nella prima mite / dolci / cuore / lieve/ amore (in rima lontana con cuore) / dolcezze; dall’altra<br />
ignota / affondo / segrete / morire / tristezza/ buio / amaro .<br />
L’ultima strofa è il ritorno al presente, al disincanto. Un amico scuote il poeta che riemerge dal suo<br />
ricordo come da un pericolo scampato e invita Tindari a tornare serena, ignara di quale tristezza gli<br />
abbia pervaso e oscurato per un momento il cuore, immergendolo in un cupo presagio di morte<br />
La lirica ha i tratti tipici della poesia ermetica: il linguaggio metaforico, l’uso di analogie anche di<br />
difficile comprensione e una certa tendenza all’uso di espressioni vaghe, sospese, non facilmente<br />
decifrabili. I nessi logici sono ridotti al minimo, frequenti sono le inversioni (mite ti so; da cui male<br />
mi trassi) che tendono a porre in risalto massimo le parole-chiave.<br />
E grande cura viene dedicata alla musicalità del verso, che alterna in una sorta di monologo lirico<br />
interiore, l’io al tu e presenta frequenti allitterazioni in t e d o parole sdrucciole (pensile, vertici) che<br />
richiamano la misura e la sonorità del nome Tindari.<br />
Sul piano intertestuale, con Quasimodo ancora una volta ci troviamo, a ridosso degli anni Venti e<br />
Trenta (la poesia, composta agli inizi degli anni venti, è stata pubblicata in Acque e Terre nel 1930),<br />
ad evocare il tema della memoria, del ricordo, che costituisce una chiave dell’immaginario di<br />
quell’epoca, accanto alla riflessione sull’attività poetica: che appare, qui e altrove (si veda Montale,<br />
o Ungaretti), come una ricerca di armonia non ripagata dal successo (vv.24-26). Segrete sillabe, atto<br />
di consolazione e di rivalsa, per il poeta, più che soluzione esistenziale.<br />
83
Umberto Saba, Trieste<br />
[U.Saba, Tutte le poesie, p. 89]<br />
L’attaccamento di Saba alla sua città d’origine è variamente testimoniato nel Canzoniere: questa,<br />
come spiegherà l’autore stesso, è la prima poesia che testimonia «la sua volontà precisa di cantare<br />
Trieste proprio in quanto Trieste e non solo in quanto città natale».<br />
Ho attraversata tutta la città.<br />
Poi ho salita un'erta,<br />
popolosa in principio, in là deserta,<br />
chiusa da un muricciolo:<br />
un cantuccio in cui solo 5<br />
siedo; e mi pare che dove esso termina<br />
termini la città.<br />
Trieste ha una scontrosa<br />
grazia. Se piace,<br />
è come un ragazzaccio aspro e vorace, 10<br />
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi<br />
per regalare un fiore;<br />
come un amore<br />
con gelosia.<br />
Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via 15<br />
scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,<br />
o alla collina cui, sulla sassosa<br />
cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa.<br />
Intorno<br />
circola ad ogni cosa 20<br />
un'aria strana, un'aria tormentosa,<br />
l'aria natia.<br />
La mia città che in ogni parte è viva,<br />
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita<br />
pensosa e schiva. 25<br />
2 erta: salita.<br />
10 aspro e vorace: scontroso e affamato.<br />
13-14 amore con gelosia: una immagine che rimanda alla contraddizione, al tormento.<br />
16 ingombrata: affollata.<br />
25 pensosa e schiva: pensierosa e riservata, coppia di aggettivi di leopardiana memoria.<br />
SCHEDA METRICA<br />
Tre strofe di endecasillabi, settenari e quinari (unica eccezione il v.19, di tre sole sillabe), liberamente disposti e<br />
rimati. Spicca la presenza di rime baciate (vv.2-3, 9-10, 12-13, 14-15, 20-21)<br />
L’avvio della poesia è descrittivo, prosastico, riscattato solo dalle rime baciate dei vv. 2-3 e 4-5.<br />
Agli occhi del poeta-passante Trieste è città di contrasti, come evidenziano l’antinomia popolosa e<br />
deserta, al v.3, l’ossimoro scontrosa grazia (vv.8-9), la similitudine dell’amore con gelosia. Altre<br />
contraddizioni sono latenti, meno esplicite ma altrettanto significative: la città è sospesa tra mare e<br />
collina, la sua aria è strana e natia.<br />
84
Questi contrasti rimandano al tema chiave della lirica, ovvero il rapporto complesso, misto di odio e<br />
amore, che unisce il poeta alla sua città natale: egli da un lato la ama, perché la trova viva,<br />
attraente, dall’altro ne avverte l’inquietudine (vv. 20-21: “circola ad ogni cosa/ un’aria strana”), e<br />
prova il bisogno di contemplarla da un cantuccio isolato, che lo tenga al riparo da un’eccessiva<br />
aderenza alle cose.<br />
Lo stesso paragone centrale, fra la città e il ragazzaccio aspro e vorace, si alimenta di contrasti.<br />
Trieste emerge nei suoi tratti meno gradevoli e più contraddittori, come chi ha gli occhi del colore<br />
del mare accostati a mani troppo grandi, poco adatte a gesti gentili e delicati (regalare un fiore). Il<br />
ragazzo è l’incarnazione dell’ambiguità della città e del suo fascino misterioso.<br />
Contemperare l’elemento descrittivo e oggettivo con il lato soggettivo di quel che si descrive o<br />
racconta è, come in questa poesia, un tratto pregnante dell’intera esperienza poetica di Saba. Tra i<br />
pochi artifici retorici della lirica di Saba spicca l’uso sapiente dell’enjambement, che si carica di<br />
pregnanza semantica quando pone in evidenza attributi-chiave (solo al v. 5; pensosa e schiva al<br />
v.25). Ma la poesia è caratterizzata anche dal susseguirsi delle rime baciate e delle assonanze,<br />
alcune riprese a distanza per accentuarne la circolarità: per esempio le due parole-chiave scontrosa<br />
del v.8 che anticipa la rima baciata dei vv. 21 e 22 (cosa-tormentosa) e natia del v.22, che richiama<br />
la rima baciata dei vv. 14-15.<br />
Anche la semplicità prosastica, la ripetitività facile del lessico, la circolarità della struttura che<br />
torna, nella sentenza finale, sugli elementi e le immagini dell’inizio (ad esempio, il cantuccio) non<br />
tradisce quello che si può definire un atteggiamento eminentemente lirico: se consideriamo le<br />
notazioni paesistiche generiche, non connotate, come il muricciolo, l’erta, la collina, la sassosa<br />
cima, comprendiamo che Trieste è per il poeta soprattutto il modo per esprimere e rappresentare<br />
uno stato d’animo, un luogo interiore prima che geografico. Uno stato emotivo fatto di slancio e<br />
ritrosia, di entusiasmo e freddezza, di rispecchiamento e distanza.<br />
85
Umberto Saba, Città vecchia<br />
(Saba, Tutte le poesie, p.91)<br />
In una via della parte vecchia della città, quella che dà sul porto, l’umanità che sembra vivere ai<br />
margini dell’esistenza indica al poeta la sostanza vera dell’umiltà.<br />
Spesso, per ritornare alla mia casa<br />
prendo un'oscura via di città vecchia.<br />
Giallo in qualche pozzanghera si specchia<br />
qualche fanale, e affollata è la strada.<br />
Qui tra la gente che viene che va 5<br />
dall'osteria alla casa o al lupanare,<br />
dove son merci ed uomini il detrito<br />
di un gran porto di mare,<br />
io ritrovo, passando, l'infinito<br />
nell'umiltà. 10<br />
Qui prostituta e marinaio, il vecchio<br />
che bestemmia, la femmina che bega,<br />
il dragone che siede alla bottega<br />
del friggitore,<br />
la tumultuante giovane impazzita 15<br />
d'amore,<br />
sono tutte creature della vita<br />
e del dolore;<br />
s'agita in esse, come in me, il Signore.<br />
Qui degli umili sento in compagnia 20<br />
il mio pensiero farsi<br />
più puro dove più turpe è la via.<br />
6 lupanare: luogo dove le prostitute incontrano i clienti (termine colto).<br />
7 il detrito: il rifiuto, l’avanzo.<br />
12 bega: litiga.<br />
13 dragone: soldato di cavalleria.<br />
15 tumultuante: che si agita, che urla.<br />
SCHEDA METRICA<br />
Tre strofe di versi dispari (endecasillabi, settenari, quinari e ternari, liberamente disposti e rimati. Spicca la<br />
presenza di rime baciate<br />
Non dall’alto ma dalle profonde viscere di una strada della città vecchia, il poeta guarda a Trieste in<br />
questa lirica, che appare molto diversa dalla precedente, eppure complementare ad essa.<br />
Brulicante di vita e affollata di anime in pena, che abitano e animano i bassifondi, la città sembra<br />
uscita da una visione baudeleriana dell’esistenza, nella quale dominano i rifiuti, il detrito (v.7),<br />
rappresentati sia dalle merci che dagli uomini. Ma nei confronti di chi abita gli abissi, verso i<br />
86
derelitti, verso quella che appare una compagnia degli umili (v.20) , la vicinanza emotiva del poeta<br />
è altissima: una sorta di fratellanza nel dolore e nell’origine comune. A differenza di Baudelaire, la<br />
sua visione della vita non è senza speranza: anzi tra la gente che viene e che va, nelle vie più turpi,<br />
il poeta riscopre le ragioni più vere dell’esistenza: “sento ….il mio pensiero farsi più puro” (vv. 20-<br />
22).<br />
Anche in questo caso, come spesso avviene nelle poesie di Saba, la scelta delle parole e delle rime,<br />
la struttura dei versi, sembrano evocare una insistita semplicità, un elogio di ciò che è comune<br />
normalmente accessibile all’esperienza umana. I termini che rimandano ai mestieri (friggitore e<br />
marinaio ma anche prostituta, bottega), alle cose comuni (fanale, pozzanghera), così come quelli<br />
che evocano rabbia e dolore (bestemmia, bega, impazzita) tratteggiano una quotidianità nella quale<br />
il poeta ritrova però la traccia di valori intensi, estesi: “l’infinito nell’umiltà”, che consente appunto<br />
di attingere a una maggior purezza del pensiero.<br />
87
Umberto Saba, Dopo la tristezza<br />
[Saba, Tutte le poesie, p. 98]<br />
Questo pane ha il sapore d'un ricordo,<br />
mangiato in questa povera osteria,<br />
dov'è più abbandonato e ingombro il porto.<br />
E della birra mi godo l'amaro,<br />
seduto del ritorno a mezza via, 5<br />
in faccia ai monti annuvolati e al faro.<br />
L'anima mia che una sua pena ha vinta,<br />
con occhi nuovi nell'antica sera<br />
guarda un pilota con la moglie incinta;<br />
e un bastimento, di che il vecchio legno 10<br />
luccica al sole, e con la ciminiera<br />
lunga quanto i due alberi, è un disegno<br />
fanciullesco, che ho fatto or son vent'anni.<br />
E chi mi avrebbe detto la mia vita<br />
così bella, con tanti dolci affanni, 15<br />
e tanta beatitudine romita!<br />
9 pilota: timoniere, il marinaio che guida la nave.<br />
12 alberi: alberi della nave, le strutture che reggono le vele.<br />
16 romita: solitaria (termine letterario).<br />
SCHEDA METRICA<br />
Cinque terzine di endecasillabi con chiusa di endecasillabo isolato, con schema rimico a suo modo regolare:<br />
ABA, CBC, DED, FEF, GHG, H<br />
Ancora una lirica ambientata nella città natale e nella parte più umile e amata: le vie attorno al<br />
porto. Ma in questo caso ad animare la scena, a farsi protagonista di un rapporto con i luoghi, in<br />
parte diretto e vissuto e in parte mediato dal ricordo, è il poeta stesso. Superato un momento<br />
doloroso della vita, come evidenzia anche il titolo, egli guarda “con occhi nuovi” le cose e<br />
l’umanità che le animano. Ma è uno sguardo che, pur rinnovato, si alimenta del ricordo, che scatta<br />
in virtù del sapore del pane o della visione di un bastimento, che gli rammenta un disegno di<br />
quand’era fanciullo, vent’anni prima.<br />
E ritorna il tema della vita attraversata dal dolore, qui privato e lasciato alle spalle, mentre nella<br />
Città vecchia era diffuso fra la gente umile che affollava le vie del porto. In questo testo invece le<br />
uniche figure umane presenti sono portatrici di vita: il pilota e la moglie incinta, dove incinta rima<br />
magistralmente con la vittoria del poeta sul suo dolore: una sua pena … vinta. E così, tra passato e<br />
presente, la vita appare comunque bella, degna di essere vissuta e la chiusa della lirica condensa in<br />
due lievi ossimori le contraddizioni dell’esistenza che volgono comunque verso esiti positivi: dolci<br />
affanni e beatitudine romita.<br />
In questa lirica Saba utilizza il verso classico della poesia <strong>italiana</strong>, l’endecasillabo; non solo, ma lo<br />
distribuisce nel ritmo ternario della Commedia, anche se non ne rispetta la concatenazione delle<br />
88
ime. Rime e assonanze appaiono lievemente più complesse che altrove, ma non si allontanano<br />
molto da quel lavorio di semplificazione che caratterizza la poesia di Saba. Il poeta triestino, infatti,<br />
così come riscatta gli umili e le cose quotidiane, fa ampio uso di rime semplici, piane, che sono però<br />
spesso il frutto di una ricerca i cui esiti divengono uno dei tratti peculiari e dichiarati della sua<br />
poetica:<br />
Amai trite parole che non uno<br />
Usava. M’incantò la rima fiore<br />
Amore<br />
La più antica difficile del mondo<br />
89
Umberto Saba, Ulisse<br />
[ Umberto Saba, Tutte le poesie, p. 556]<br />
E’ il 1946, inserita nella raccolta Mediterranee questa poesia ne costituisce la conclusione: il poeta<br />
ha sessantacinque anni, e traccia un bilancio retrospettivo della sua vita, dominata dalla continua<br />
ricerca. Come Ulisse.<br />
Nella mia giovanezza ho navigato<br />
lungo le coste dalmate. Isolotti<br />
a fior d’onda emergevano, ove raro<br />
un uccello sostava intento a prede,<br />
coperti d’alghe, scivolosi, al sole<br />
belli come smeraldi. Quando l’alta<br />
marea e la notte li annullava, vele<br />
sottovento sbandavano più al largo,<br />
per sfuggirne l’insidia. Oggi il mio regno<br />
è quella terra di nessuno. Il porto<br />
accende ad altri i suoi lumi, me al largo<br />
sospinge ancora il non domato spirito,<br />
e della vita il doloroso amore.<br />
2 dalmate: della Dalmazia, nel Mare Adriatico.<br />
3 a fior d’onda: a pelo d’acqua.<br />
4 intento a prede: in caccia.<br />
5 scivolosi: umidi, continuamente bagnati dall’onda.<br />
6 belli come smeraldi: sempre riferito agli isolotti che ricoperti del verde elle alghe brillano al sole come smeraldi.<br />
7 li annullava: la marea li ricopriva, annullandoli alla vista.<br />
8 sottovento sbandavano: trovandosi dalla parte opposta alla direzione del vento si piegavano su un fianco; è posizione<br />
svantaggiosa e anche a rischio di ribaltamento.<br />
9 per sfuggirne l’insidia: per evitare di incagliarsi contro gi isolotti scomparsi alla vista<br />
10 terra di nessuno: sinonimo di zona pericolosa che è opportuno evitare; nel linguaggio militare la terra di nessuno è<br />
lo spazio tra le due linee di fuoco nemiche,<br />
11 il porto … lumi: il porto accende le sue luci per altri, che possono decidere di rientrare; largo: il mare aperto.<br />
12 non domato spirito: lo spirito non domato; richiamo foscoliano.<br />
13 della vita … amore: l’amore, la passione per la vita, doloroso come ogni esperienza, in parte fonte di inquietudine.<br />
SCHEDA METRICA<br />
Una sola strofa di endecasillabi scioltu, fortemente intrecciati da una ricca trama di enjambements.<br />
Chi dice io ? Ulisse o il poeta? Il titolo di questa poesia fa parte di essa intrinsecamente: Ulisse è<br />
l’eroe protagonista dell’Odissea, ma è anche il personaggio trasformato da Dante nel XXVI canto<br />
dell’Inferno nel simbolo della ricerca e dell’esplorazione umana.<br />
Lungo le coste della Dalmazia, isolotti luccicano come smeraldi e, insidiosi, quando l’alta marea li<br />
nasconde , costringono le barche a vela a tenere il largo: alla stessa maniera l’io-poeta, che da<br />
giovane viaggiò in quei luoghi, tiene al largo da porto, scegliendo la “terra di nessuno” : quella che<br />
chi ama la vita tranquilla rifugge, poiché cerca il porto e la quiete.<br />
Le immagini del porto e dei suoi lumi, come quella del mare aperto, sono topoi letterari che<br />
risalgono alle origini della nostra lirica, ben presenti in Petrarca. Mentre foscoliano è il non domato<br />
spirto (lo spirto guerrier di Alla sera) che tende al largo. L’ansia di conoscere, l’amore per il sapere<br />
e per la vita non privo di inquietudine per la sfida.<br />
In questo modo la poesia porta a compimento l’identificazione tra lìio lirico, il poeta e l’Ulusse<br />
dantesco, non omerico, con chi accetta la sfida dell’ignoto, non il ritorno. Sono versi che suonano<br />
come una chiusa, un approdo biografico.<br />
90
Dal punto di vista stilistico, la lirica sembra quasi avvolgere e spezzare la struttura metrica in un<br />
susseguirsi di inarcature (enjambement) che però, lungi dallo spezzare i versi, consentono il<br />
sovrapporsi di linee melodiche, come con evidenza risulta nel verso finale, addirittura perfetto da un<br />
punto di vista fonico e musicale (per la sua grande armonia di allitterazioni e accenti).<br />
Un cenno doveroso va fatto alla lunga serie di rappresentazioni poetiche del mito di Ulisse, di cui<br />
il componimento costituisce uno degli esemplari migliori: una linea che va dalle origini della nostra<br />
letteratura (Dante) a Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Primo Levi , fino a travalicare i confini<br />
nazionali come in questa splendida lirica di Kostantinos Petrou Kavafis, poeta e giornalista greco<br />
vissuto a cavallo di due secoli (1863 – 1933), intitolata Itaca:<br />
Quando inizierai il tuo viaggio verso Itaca,<br />
prega che la strada sia lunga,<br />
ricca di avventure, ricca di conoscenza.<br />
Lestrigoni e Ciclopi,<br />
Poseidone furioso – non averne timore:<br />
non ne incontrerai mai sul tuo cammino,<br />
se i tuoi pensieri rimarranno alti, se una gentile<br />
emozione accarezzerà il tuo spirito e il tuo corpo.<br />
Lestrigoni e Ciclopi,<br />
Poseidone selvaggio, non li incontrerai mai<br />
se già non li porti dentro la tua anima,<br />
se l’anima non li frapporrà ai tuoi passi.<br />
Prega che la strada sia lunga.<br />
Che le mattine d’estate siano molte, quando<br />
con grande piacere, con grande gioia,<br />
entrerai per la prima volta in porti mai visti;<br />
fermati ai mercati fenici,<br />
compra le merci migliori,<br />
di madreperla e corallo, ambra ed avorio,<br />
caldi profumi di ogni genere -<br />
profumi caldi quanti ne puoi portare.<br />
Visita molte città egizie,<br />
per imparare ancora ed ancora dai sapienti.<br />
Tieni sempre Itaca a mente:<br />
raggiungerla è il tuo ultimo scopo.<br />
Non affrettare però minimamente il viaggio,<br />
meglio lasciarlo durare molti anni;<br />
attraccare alfine all’isola quando sarai vecchio,<br />
ricco di tutto ciò che avrai raccolto per strada,<br />
senza pretendere che Itaca ti offra altri tesori.<br />
Itaca ti ha donato il Viaggio meraviglioso.<br />
Senza di lei tu non saresti mai partito per la tua via.<br />
Essa non ha null’altro da offrirti.<br />
Se la troverai povera, non credere che Itaca t’abbia ingannato.<br />
Saggio come sei diventato, con sì tanta esperienza,<br />
avrai già compreso cos’Itaca realmente rappresenti.<br />
91
Giorgio Caproni, 1944<br />
[CAPRONI, L’opera in versi, p. 126]<br />
Non facile da comprendere questo testo, descrittivo, alla cui interpretazione collabora il titolo: il 1944, anno<br />
di guerra, di morte e di macerie, nel quale il conflitto e l’odio rendono e triste anche l’alba degli innamorati.<br />
Le carrette del latte ahi mentre il sole<br />
sta per pungere i cani! Cosa insacca<br />
la morte sopra i selci nel fragore<br />
di bottiglie in sobbalzo? Sulla faccia<br />
punge già il foglio del primo giornale 5<br />
col suo afrore di piombo – immensa un’acqua<br />
passa deserta nel sangue a chi muove<br />
a un muro, e già a una scarica una latta<br />
ha un sussulto fra i cocci. O amore, amore<br />
che disastro è nell’alba! Dai portoni 10<br />
dove geme una prima chiave, o amore<br />
non fuggire con l’ultimo tepore<br />
notturno – non scandire questi suoni<br />
mentre ai miei denti il tuo tremito imponi!<br />
1 ahi: interiezione di dolore che sembra anticipare i contenuti più dolorosi della lirica.<br />
1-2 il sole .. cani: è l’alba e la luce sole sta per farsi più forte e infastidire i cani.<br />
3 selci: blocchetti di pietra usati per la pavimentazione delle strade.<br />
4 bottiglie in sobbalzo: le bottiglie di vetro del latte erano poste in contenitori metallici e producevano forti rumori al<br />
sobbalzare delle carrette sulla via irregolare.<br />
4 primo giornale : giornale del mattino, alla prima uscita.<br />
6 afrore di piombo: odore penetrante e sgradevole del piombo, che avevano i giornali appena usciti dalle rotative dove<br />
venivano stampati con i caratteri di piombo e ne conservavano l’odore.<br />
8 scarica: è la scarica del plotone di esecuzione.<br />
9 cocci: pezzi, frammenti di vasi rotti.<br />
11 geme una prima chiave: la chiave nella serratura al primo impiego mattutino stride e quasi si lamenta.<br />
13 non scandire: non sottolineare, non mettere in sequenza.<br />
14 ai miei denti …imponi: trasferisci il tuo tremore ai miei denti, quasi obbligandoli a loro volta a tremare.<br />
SCHEDA METRICA<br />
Quattordici versi endecasillabi che rimandano alla struttura del sonetto, ma in modo libero e irregolare nella<br />
struttura rimica.<br />
L’alba mi è sempre stata odiosa, e anche quand’ero a casa, dovendomi all’alzare all’alba per un<br />
viaggio o altro, tutto il giorno poi ne soffrivo allo stomaco. È l’ora bianca delle fucilazioni, quando<br />
si dice al condannato: «Vieni, il plotone ti aspetta».<br />
Così Giorgio Caproni, in un racconto partigiano, Il labirinto, rendeva esplicito e fortemente<br />
autobiografico il nesso fra l’alba, la morte e gli spari: tre temi che si intrecciano in questa lirica,<br />
dominandone il piano tematico attraverso percezioni fortemente evocative.<br />
Essa rimanda a uno scenario bellico, dichiarato per altro dal titolo-data, ovvero al periodo più duro<br />
delle seconda guerra mondiale, e si dipana attraverso immagini che riproducono percezioni<br />
sensoriali (tattili, visive, olfattive, uditive) che tutte risultano sgradevoli e alludono al tema della<br />
morte.<br />
Così, nei versi di apertura, il sole è pungente, quasi come una lama, un raggio tagliente di luce che<br />
sta per colpire i cani per strada; e punge il foglio di giornale, che sembra sbattere in faccia le sue<br />
notizie dall’odore acre del piombo dei caratteri. Allo stesso modo stridenti appaiono i suoni, sia<br />
quelli che rimandano allo scenario quotidiano, il fragore delle bottiglie che sobbalzano nelle<br />
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carrette del latte, sia quelli che evocano in modo allusivo e analogico il destino del condannato<br />
portato al muro all’alba: il sussulto di una latta fra i cocci che reagisce alla scarica della fucilazione.<br />
La funzione onomatopeica delle parole richiama i suoni dell’esecuzione., mentre sul piano<br />
semantico il sobbalzo delle bottiglie come il sussulto della latta attribuiscono reazioni quasi umane<br />
agli oggetti.<br />
E ancora, per ritornare all’aspetto fonico, si noti che i suoni aspri, con la costante allitterazione in r<br />
e t , anche raddoppiati o uniti (in rt di morte o in tr di tremito), fanno da sottofondo costante al tema<br />
tragico della lirica.<br />
Se il lessico rimanda a una quotidianità (latte, sole, cani, bottiglie, chiave, portoni, denti)<br />
attraversata e infranta dalla presenza della morte, in un’alba gelida, anche le interiezioni che aprono<br />
le due parti in cui si articola la struttura, sono esclamazioni di dolore: l’ahi del primo verso,<br />
esplicita dichiarazione in apertura, e l’invocazione O rivolta alla donna amata e ripetuta ai vv. 9 e<br />
10.<br />
La bipartizione strutturale appare abbastanza netta anche sotto l’aspetto metrico: la prima parte<br />
dominata dalle assonanze e dagli enjambements, e la seconda, che si apre con l’evocazione alla<br />
donna amata, dove le rime apparentemente semplici alternate e baciate danno un tono più cadenzato<br />
e ritmico al discorso.<br />
La figura femminile, la donna amata, compare al v. 9 a fare da controcanto alle immagini di morte<br />
con la sua presenza; tuttavia ella, ritratta come in fuga, non riesce a sconfiggere del tutto l’atmosfera<br />
tragica: “O amore, amore che disastro è nell’alba!”. Il poeta le implora di non andare, di non<br />
abbandonare il tepore caldo della notte. E di non assecondare i suoni lugubri dell’alba: “non<br />
scandire questi suoni”. Uscire, affrontare il gelo dell’inverno e della morte, esporsi al tremito dei<br />
denti.<br />
In molte altre poesie e nei racconti Caproni ha denunciato la sua insofferenza per l’alba, momento<br />
segnato nella sua biografia dalla tragica morte della prima fidanzata; ma a livello intertestuale vale<br />
la pena di rilevare che egli si riscatta da questa idiosincrasia in una delle sue liriche più famose,<br />
L’uscita mattutina grazie alla luminosa figura materna: la madre Annina, immaginata giovane che<br />
si muove al mattino e scende ammirata le scale:<br />
Come scendeva fina<br />
E giovane le scale Annina!<br />
[…]<br />
L’ora era di mattina<br />
Presto, ancora albina.<br />
Ma come s’illuminava<br />
la strada dove lei passava!<br />
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