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Letteratura italiana - pagina - L'Orientale

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “L’ORIENTALE”<br />

<strong>Letteratura</strong> <strong>italiana</strong><br />

Letture di testi<br />

per i corsi di <strong>Letteratura</strong> <strong>italiana</strong><br />

parte III<br />

da Foscolo a Caproni<br />

a cura di Annamaria Palmieri<br />

Classe L-12 / Mediazione linguistica e culturale<br />

a.a. 2011-2012<br />

1


INDICE<br />

Ugo Foscolo, Alla sera 3<br />

Da Le ultime lettere di Jacopo Ortis, parte I, 1-3 5<br />

Giacomo Leopardi, L’infinito 8<br />

A Silvia 11<br />

Giosue Carducci, Alla stazione una mattina d’autunno 15<br />

Giovanni Pascoli, Temporale 19<br />

Italy 21<br />

Gabriele D’Annunzio, La sera fiesolana 40<br />

La pioggia nel pineto 44<br />

Giovanni Verga, da I Malavoglia, cap XV 50<br />

Italo Svevo, da La coscienza di Zeno, 1-2 62<br />

Guido Gozzano, La più bella 65<br />

Giuseppe Ungaretti, Il porto sepolto 68<br />

I fiumi 70<br />

Amaro accordo 73<br />

Eugenio Montale, Cigola la carrucola 75<br />

La casa dei doganieri 77<br />

L’anguilla 79<br />

Salvatore Quasimodo, Vento a Tindari 82<br />

Umberto Saba, Trieste 84<br />

Città vecchia 86<br />

Dopo la tristezza 88<br />

Ulisse 90<br />

Giorgio Caproni, 1944 93<br />

Bibliografia – Testi di riferimento 95<br />

2


Ugo Foscolo, Alla sera<br />

[Foscolo, Poesie e prose d’arte, Sonetto XI , pp. 69-70]<br />

Il sonetto, famosissimo, pur essendo stato scritto tra gli ultimi, fu posto dal poeta ad apertura della<br />

raccolta del 1803. Celebra la sera come momento di pace, che permette una breve pausa<br />

ristoratrice alle pene dell’animo.<br />

Forse perché della fatal quïete<br />

tu sei l'immago, a me sì cara vieni,<br />

o Sera! E quando ti corteggian liete<br />

le nubi estive e i zeffiri sereni,<br />

e quando dal nevoso aere inquïete 5<br />

tenebre e lunghe all'universo meni,<br />

sempre scendi invocata, e le secrete<br />

vie del mio cor soavemente tieni.<br />

Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme<br />

che vanno al nulla eterno; e intanto fugge 10<br />

questo reo tempo, e van con lui le torme<br />

delle cure, onde meco egli si strugge;<br />

e mentre io guardo la tua pace, dorme<br />

quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.<br />

1 fatal quiete: morte.<br />

2 immago: immagine.<br />

3-4 E quando… sereni: sia quando ti accompagnano lietamente le nuvole estive e i venti sereni (in estate).<br />

5-6 e quando… meni: sia quando (durante l’inverno) dal cielo carico di neve porti al mondo tenebre tempestose e<br />

lunghe.<br />

7-8 e le secrete… tieni: e invadi con dolcezza le vie segrete del mio cuore.<br />

9-10 Vagar… eterno: mi fai vagare con i miei pensieri sulle tracce che conducono all’idea della morte (nulla eterno).<br />

10-11 e intanto… tempo: e intanto passa questo tempo colpevole (nel senso di infausto); cfr. Inreparabile tempus in<br />

Virgilio, Georgiche, III.<br />

11-12 e van… strugge: e se ne vanno con lui i pensieri angosciosi nei quali esso (tempo) si consuma insieme con me.<br />

13 la tua pace: la pace della sera.<br />

14-15 dorme… rugge: riposa quell’animo tormentato (guerrier) che freme (rugge) dentro di me.<br />

SCHEDA METRICA<br />

Sonetto con schema rimico ABAB ABAB CDC DCD<br />

La sera come la morte: l’accostamento, che rende cara al poeta la prima perché egli desidera la<br />

seconda, costituisce il nucleo di questa lirica, una delle più intense scritte da Ugo Foscolo: siamo in<br />

un momento per lui particolarmente difficile, gli anni 1802-1803, divisi tra impegni militari, amori<br />

tormentati e dediti alla composizione di opere significative come appunto i sonetti cosiddetti<br />

maggiori, aggiunti nell’edizione del 1803 a quelli già editi l’anno prima.<br />

Le due quartine, dall’andamento ampio e disteso, presentano un tono descrittivo, impostato sul<br />

parallelismo tra due proposizioni coordinate (e quando… e quando), che spinge il lettore a intuire,<br />

attraverso la contrapposizione delle placide serate estive e di quelle tenebrose dell’inverno, i<br />

drammatici contrasti che saranno invece protagonisti delle terzine.<br />

3


Il ritmo, inizialmente discendente e ternario, accompagna la tendenza melodiosa, accentuata dai<br />

suoni aperti e dalle vocali chiare a, e, i; e l’ armonia tra significante e significato si evidenzia<br />

proprio grazie alla corrispondenza tra i suoni e le immagini: si guardi ad esempio ai vv.5-6<br />

(inquiete tenebre/ e lunghe) il ricorso alla dieresi, l’anastrofe, l’enjambement e ai suoni in u.<br />

È dunque nella seconda parte del sonetto che si rivela il significato simbolico della descrizione: la<br />

predilezione del poeta per la sera nasce dal fatto che essa gli appare una prefigurazione della morte,<br />

attraverso la quale spera che il suo cuore tormentato potrà conoscere una pace, che non è altro che il<br />

nulla, la cessazione di ogni sentire.<br />

La morte, infatti, non ha per Foscolo alcuna connotazione religiosa: è fatal quïete, pace eterna, cui<br />

l’uomo per la sua natura non può sottrarsi, ma anche nulla eterno: egli ribadisce qui la sua<br />

concezione assolutamente materialistica dell’esistenza che desumeva, tra l’altro, dal De rerum<br />

natura di Lucrezio e che ispira anche il celebre carme Dei Sepolcri. Sul piano extratestuale questo<br />

sonetto evidenzia la formazione lucidamente settecentesca dell’intellettuale veneziano. E non a<br />

caso, probabilmente, proprio tra le pagine di una copia del poema latino appartenuta a Foscolo è<br />

stata ritrovata una prima stesura autografa di questa lirica.<br />

Seguendo l’andamento del discorso, anche la sintassi, nelle terzine, evolve e si fa più spezzata e<br />

drammatica, con brevi frasi paratattiche ed una prevalenza di verbi di movimento (vagar, vanno,<br />

fugge, van). E compare prepotentemente l’istanza soggettivistica e autobiografica (sottolineata<br />

dall’invadente presenza dell’io : miei, mi, meco, io, spirto guerrier, mi). Ma soprattutto nel finale si<br />

chiarisce il contrasto tra la pace e la serenità cui il poeta aspira, rappresentata dalla sera, e le<br />

insanabili inquietudini e passioni da cui egli sente consumati sia il suo animo sia l’epoca in cui si<br />

trova a vivere (il reo tempo). Passioni sottolineate, anche stavolta dagli effetti fonici, stavolta aspri,<br />

come l’ allitterazione in r tra reo… torme …, rugge…strugge.<br />

Dal punto di visto compositivo il sonetto è uno straordinario esempio di equilibrio: le due quartine<br />

sono aggregate a formare un unico periodo e così anche le terzine. Frequentissimi sono poi gli<br />

enjambements che riguardano nella prima parte soprattutto il nesso aggettivo/sostantivo, quasi a<br />

dilatare la descrizione, e nella seconda quello verbo/complemento, quasi ad accentuare un senso di<br />

drammaticità. I verbi, quasi tutti di movimento, sempre collocati in rilievo, spesso in posizione di<br />

rima, nelle quartine rimandano alla percezione della sera (vieni, meni, tieni), mentre nelle terzine<br />

segnalano l’effetto rasserenatore della sera (fugge… dorme) sui moti inquieti dell’animo e<br />

dell’epoca (strugge… rugge).<br />

Profonde reminiscenze classiche segnano la linea di dialogo intertestuale, specie nel rapporto con il<br />

reo tempo: “dum loquimur/fugerat invida aetas” cantava Orazio nelle sue Odi. E, per tornare alle<br />

opere coeve, va sottolineato il legame tra questo sonetto e il romanzo autobiografico Le ultime<br />

lettere di Iacopo Ortis, in cui la necessità di fuggire i tempi rei e il desiderio di morte si accampano<br />

da protagonisti. Inoltre è particolarmente significativo il confronto con la concezione titanica<br />

dell’uomo che Foscolo ricavava dall’ Alfieri, nonché il tema della corrispondenza tra natura e stato<br />

d’animo che di certo gli veniva dallo “spirito del tempo” romantico.<br />

Ritroveremo la metafora della sera come morte e come pace di lì a poco in Leopardi, e resterà<br />

molto duratura e vitale: basti pensare, ad esempio, alla elogiata sera pascoliana.<br />

4


Foscolo, da Le ultime Lettere di Iacopo Ortis<br />

Al lettore, Parte Prima, (lettere del 11 e del 13 ottobre 1797)<br />

[Foscolo, Poesie e prose d’arte, pp. 371-75]<br />

AL LETTORE<br />

Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta; e di<br />

consecrare 1 alla memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta di spargere su la<br />

sua sepoltura. E tu, o Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell'eroismo di cui<br />

non sono eglino stessi 2 capaci, darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai<br />

forse trarre esempio e conforto.<br />

LORENZO ALDERANI 3<br />

PARTE PRIMA<br />

Da' colli Euganei, 11 Ottobre 1797<br />

Il sacrificio della patria nostra è consumato 4 : tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa,<br />

non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia 5 . Il mio nome è nella lista di<br />

proscrizione 6 , lo so: ma vuoi tu ch'io per salvarmi da chi m'opprime mi commetta 7 a chi mi ha<br />

tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho obbedito, e ho lasciato Venezia per<br />

evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine<br />

antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese 8 , posso ancora sperare qualche<br />

giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo; quanti sono dunque gli sventurati 9 ? E noi,<br />

purtroppo, noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl'italiani. Per me segua che può.<br />

Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio<br />

cadavere almeno non cadrà fra le braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da'<br />

pochi uomini 10 , compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de' miei padri.<br />

13 Ottobre<br />

Ti scongiuro, Lorenzo; non ribattere più. Ho deliberato di non allontanarmi da questi colli. È vero<br />

ch'io aveva promesso a mia madre di rifuggirmi 11 in qualche altro paese; ma non mi è bastato il<br />

cuore 12 : e mi perdonerà, spero. Merita poi questa vita di essere conservata con la viltà, e con<br />

l'esilio? Oh quanti de' nostri concittadini gemeranno pentiti, lontani dalle loro case! perché, e che<br />

potremmo aspettarci noi se non se indigenza 13 e disprezzo; o al più, breve e sterile compassione,<br />

solo conforto che le nazioni incivilite offrono al profugo straniero? Ma dove cercherò asilo? in<br />

Italia? terra prostituita premio sempre della vittoria 14 . Potrò io vedermi dinanzi agli occhi coloro<br />

che ci hanno spogliati, derisi, venduti, e non piangere d'ira? Devastatori de' popoli 15 , si servono<br />

della libertà come i Papi si servivano delle crociate 16 . Ahi! sovente disperando di vendicarmi mi<br />

caccerei un coltello nel cuore per versare tutto il mio sangue fra le ultime strida 17 della mia patria.<br />

E questi altri 18 ? - hanno comperato la nostra schiavitù, racquistando con l'oro quello che<br />

stolidamente e vilmente hanno perduto con le armi. - Davvero ch'io somiglio 19 un di que'<br />

malavventurati che spacciati morti furono sepolti vivi, e che poi rinvenuti, si sono trovati nel<br />

sepolcro fra le tenebre e gli scheletri, certi di vivere, ma disperati del dolce lume della vita, e<br />

costretti a morire fra le bestemmie e la fame. E perché farci vedere e sentire la libertà, e poi<br />

ritorcerla per sempre? e infamemente!<br />

5


1 consecrare: consacrare.<br />

2 eglinostessi: essi stessi<br />

3 Lorenzo Alderani: amico e confidente di Jacopo, il protagonista del romanzo.<br />

4 Il sacrificio … è consumato: il riferimento è al trattato di Campoformio, con il quale Venezia è seduta da Napoleone<br />

all’Austria e Jacopo considera questo un tradimento.<br />

5 infamia: disonore; i patrioti non hanno difeso fino all’ultimo con le armi Venezia e Jacopo sente il peso di questa<br />

colpa.<br />

6 Il mio nome … di proscrizione: il nome è nella lista di coloro che saranno perseguitati, in quanto fautori del governo<br />

democratico proclamato dalla Repubblica veneta.<br />

7 mi commetta: mi consegni.<br />

8 senza … paese: senza rinunciare alla vista di questa mia sfortunata patria; ovvero senza andare all’estero, ma<br />

correndo così più gravi pericoli in caso di arresto.<br />

9 sventurati: perseguitati, di cui gli ha parlato Lorenzo facendolo inorridire.<br />

10 pochi uomini: pochi patrioti, degni di essere considerati uomini.<br />

11 rifuggirmi: rifugiarmi.<br />

12 non … il cuore: non ne ho avuto la forza, il coraggio.<br />

13 indigenza: povertà, vita di stenti.<br />

14 terra … vittoria: terra data sempre agli stranieri in premio di una qualche vittoria.<br />

15 Devastatori de' popoli: Invasori e conquistatori.<br />

16 si servono … delle crociate: riferito ai Francesi, si servono della libertà come i Papi delle crociate, come alibi e<br />

giustificazione ideale a guerre di conquista e oppressione.<br />

17 ultime strida: ultime grida, lamenti.<br />

18 E questi altri: e (che dire) di questi altri, gli Austriaci?<br />

19 somiglio: sembro.<br />

L’allocuzione al destinatario, “Al lettore”, ad apertura del libro, introduce immediatamente al fine<br />

dell’opera: celebrare una virtù sconosciuta e un eroismo che non è diffuso tra i contemporanei<br />

dell’estensore-narratore. Quale virtù, quale eroismo? Quello di un amico caduto, di cui si<br />

pubblicano le lettere. E del quale si vuole preservare la memoria e l’esempio, non avendo potuto<br />

piangere sulla sua tomba.<br />

Tomba, memoria, eroismo, virtù, esempio: le parole-chiave del romanzo Le ultime lettere di Iacopo<br />

Ortis sono tutte in queste righe. Le pagine successive le declineranno in una storia, fatta di<br />

passione amorosa e patriottica, ovvero degli ingredienti essenziali della poetica foscoliana ed<br />

europea di quegli anni, tra fine Settecento e Ottocento, in cui si consuma il sogno della liberazione<br />

da parte dei Francesi e la delusione della restaurazione di un potere straniero con Napoleone.<br />

Il romanzo, che è una delle prime prove di questo genere letterario in Italia, ispirato nella forma<br />

epistolare a precedenti europei come La nouvelle Héloise di Rousseau e I dolori del giovane<br />

Werther di Goethe, ha una profonda matrice alfieriana: Alfieri aveva scritto un trattato, Della virtù<br />

sconosciuta, il cui titolo è ripreso nella dedica e che celebrava la virtù di un amico, rimasta<br />

sconosciuta per disdegno di ogni forma volgare di diffusione. E molto di alfieriano nelle pose<br />

tragiche di Jacopo, nei suoi furori, nella prosa enfatica e ad alto contenuto retorico delle lettere.<br />

La prima lettera, dell’11 ottobre 1797, ci introduce alla vicenda storica in cui il protagonista si trova<br />

immerso, cercando rifugio sui colli Euganei per fuggire da una situazione politicamente<br />

inaccettabile. Dopo il trattato di Campoformio, sentito dai patrioti veneziani come un tradimento di<br />

Napoleone, egli - alter ego dell’autore che ha realmente partecipato a quegli eventi storici - è<br />

testimone e interprete della delusione storica di tutta una generazione, quella che aveva vissuto le<br />

speranze dell’Illuminismo e coltivato l’illusione di collaborare con il potere, di istituire un fecondo<br />

rapporto tra l’intellettuale e la società.<br />

La frase iniziale introduce seccamente il lettore nel mezzo del dramma, senza lasciare spazio alla<br />

speranza: “Il sacrificio della patria nostra è consumato”, Venezia è stata ceduta all’Austria. E’ un<br />

dramma che Jacopo vive sia a livello collettivo che individuale: infatti la patria è chiamata nostra,<br />

6


ma in tutta la lettera poi si impone il richiamo all’io e la stessa cessione di Venezia è sentita come<br />

un tradimento personale, perpetrato da un padre crudele.<br />

Dramma individuale e dramma collettivo dunque coesistono, ma Jacopo, con il suo amore<br />

disperato, per la patria prima e per la dolce Teresa poi (la fanciulla di cui si innamora e che è data in<br />

sposa ad un giovane borghese benestante), sa di non poter prendere alcuna iniziativa in grado di<br />

generare un cambiamento. Da questa situazione di totale impotenza deriva il tono enfatico, ricco di<br />

interrogazioni retoriche, di esclamazioni, della prosa di queste lettere.<br />

Sin dalla prima, infatti, il protagonista anticipa al lettore la sua morte. Per descriverla Foscolo<br />

utilizza, come poi farà nei sonetti e nei Sepolcri, un repertorio di immagini sentimentali, un lessico<br />

aulico e lussureggiante, metafore ad effetto come quella del “lavarsi le mani nel sangue” dei<br />

compatrioti.<br />

La lettera successiva, del 13 ottobre, aggiunge alla disperazione del primo istante l’analisi del<br />

contesto: Iacopo, riferisce all’amico Lorenzo di non voler accettare il consiglio della madre di<br />

andare lontano perché considera vile l’esilio. Ne deriva un confronto tra l’immiserimento delle<br />

condizioni degli italiani e il disprezzo, o al più la commiserazione, che le altre nazioni più civili<br />

potranno offrire ai profughi. Il ritratto del popolo italiano è ora impietoso, suddiviso tra chi vende e<br />

chi viene venduto, ma ancor più duro il giudizio sull’invasore austriaco che compra col denaro ciò<br />

che ha perso in battaglia. Non manca un’incursione nello stile “sepolcrale” caratteristico del gusto<br />

estetico tardo-settecentesco: l’immagine del sepolto vivo che brancola tra cadaveri, e che si<br />

accompagna a quella dell’italiano a cui si è dato sentore della libertà per poi togliergliela.<br />

L’interesse del romanzo di Foscolo è storico e letterario al tempo stesso: esso apre in Italia una<br />

stagione di scritture patriottiche che si chiuderà solo nella seconda metà del secolo: quel filone di<br />

romanticismo storico-patriottico che è noto a molti e troverà nel romanzo storico risorgimentale la<br />

sua più compiuta realizzazione. Sul piano letterario, invece l’esperienza di questa scrittura giovane,<br />

a tratti esageratamente enfatica, appare originalissima perché sottrae la prosa agli schemi<br />

dell’ordine e della misura che pure si stavano nuovamente imponendo con l’estetica neoclassica.<br />

Qui la misura, la compostezza dei versi, è spesso travalicata dall’oratoria, dal gusto per<br />

l’esclamazione, frutto di un entusiasmo giovanile e di una personalità prorompente che di lì a poco<br />

darà ottime prove di sé.<br />

7


Giacomo Leopardi, L’infinito<br />

[Leopardi, Le poesie e le prose, Canti XII, p. 43.]<br />

L'infinito non si trova nella realtà, è un naufragio della ragione; è un’illusione, gioco della mente e<br />

dell’immaginazione; è una finzione che, nata dallo stimolo sensoriale, si rivela però fonte di<br />

dolcissimo piacere.<br />

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,<br />

E questa siepe, che da tanta parte<br />

Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.<br />

Ma sedendo e mirando, interminati<br />

Spazi di là da quella, e sovrumani 5<br />

Silenzi, e profondissima quiete<br />

Io nel pensier mi fingo; ove per poco<br />

Il cor non si spaura. E come il vento<br />

Odo stormir tra queste piante, io quello<br />

Infinito silenzio a questa voce 10<br />

Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,<br />

E le morte stagioni, e la presente<br />

E viva, e il suon di lei. Così tra questa<br />

Immensità s’annega il pensier mio:<br />

E il naufragar m’è dolce in questo mare. 15<br />

1 ermo colle : colle solitario; l’aggettivo altamente letterario amplifica l’idea della lontananza e della vaghezza. Si<br />

riferisce al monte Tabor, presso Recanati<br />

2-3 che …esclude: che esclude la possibilità di guardare un così ampio tratto dell’orizzonte.<br />

4 Ma sedendo e mirando: il Ma avversativo suggerisce il passaggio dalla realtà psicologica all’immaginazione<br />

dell’infinito, che avviene mentre il poeta “siede” ( nel senso di sostare) e “mira” (cioè “contempla”, in senso interiore).<br />

7 mi fingo: mi rappresento nell’immaginazione. Il verbo è usato in senso etimologico (dal latino fingere).<br />

8 si spaura: si sgomenta.<br />

8-11 E come…comparando: e appena (come) odo stormire il vento tra queste piante io a questa voce del vento paragono<br />

quell’infinito silenzio.<br />

11 mi sovvien l’eterno : mi viene in mente l’eternità.<br />

12 e le morte stagioni e la presente : le epoche passate e quella presente<br />

13 e il suon di lei: il rumore (suono) dell’epoca presente<br />

14 immensità: nell’ autografo, si trova la variante infinità, scelta e poi cancellata; s’annega: si smarrisce.<br />

15 il naufragar…mare: il “naufragio” dell’animo, smarrito nella immaginazione dell’infinito, è dolce, perché<br />

corrisponde ad un’inclinazione naturale dell’uomo, il piacere illimitato, che risulta così appagata.<br />

SCHEDA METRICA<br />

Endecasillabi sciolti. E’ stato notato che il componimento dissimula la forma sonetto, attraverso il continuum<br />

sintattico e l’aggiunta di un verso. Si noti la ricca successione di enjambements, che rende il ritmo più intenso.<br />

Quando nel 1819 Leopardi compone questo idillio, la sua visione del rapporto tra la felicità umana,<br />

il piacere e l’infinito è già chiarita: egli infatti nello Zibaldone scriveva che<br />

l'anima, amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l'estensione immaginabile di questo<br />

sentimento, senza poterla neppure concepire, perché non si può formare idea chiara di una cosa che<br />

ella desidera illimitatamente. [Leopardi, Zibaldone, 165, v. I, p. 182]<br />

E, sempre negli stessi anni, affermava che<br />

8


L'infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra<br />

superbia […] l'infinito è un'idea, un sogno, non una realtà: almeno niuna prova abbiamo noi<br />

dell'esistenza di esso, neppur per analogia. [Leopardi, Zibaldone, 4178, v. II, p. 1006]<br />

Come è possibile allora per l’uomo l’esperienza dell’illimitato, del non finito?<br />

Esso può essere solo un viaggio del desiderio, per compiere il quale il soggetto, l’io, ha bisogno di<br />

stimoli: l’esperienza visiva della siepe e del monte, che ostacolano lo sguardo, è il limite che<br />

conduce il soggetto ad attivare il processo immaginativo. Così, proprio di contro al limite, si<br />

compie il processo di astrazione dal piano della realtà a quello dell’immaginazione e l’io<br />

concepisce (nel pensier mi fingo) l’infinità spaziale, fatta “di interminati spazi, sovrumani silenzi e<br />

profondissima quiete”. La visione mentale dello spazio infinito genera come prima conseguenza<br />

uno stato d’animo di smarrimento (il cor…si spaura). Il processo è sottolineato sintatticamente dal<br />

ma avversativo e dai due gerundi sedendo e mirando, che si riferiscono ad operazioni mentali, più<br />

che ad azioni materiali.<br />

Nella prima parte della lirica domina il tempo del ricordo, il passato remoto, che è tempo<br />

dell’affettività (“sempre caro mi fu”), e che acquista esso stesso dimensione indeterminata (come<br />

sottolinea il sempre iniziale). Dal v. 8, però, il soggetto ritorna dal piano dell’immaginazione a<br />

quello della realtà, tramite un’altra esperienza sensoriale: non la vista, questa volta, ma l’udito (“e<br />

come il vento odo stormir tra queste piante”) segna il passaggio dall’immaginazione dell’infinità<br />

spaziale a quella temporale (“e mi sovvien l’eterno”…) : ancora una volta l’opposizione tra<br />

l’esperienza materiale e limitata del paesaggio e quella immaginativa del pensiero si sostanzia in<br />

una triade : prima erano spazi, silenzi e quiete, accompagnati da aggettivi accrescitivi, ora, in un<br />

climax discendente, il soggetto concepisce, all’inverso, il graduale ritorno dal tempo infinito alla<br />

realtà del presente (dall’eterno alle morte stagioni, alla presente e viva). La conclusione di questa<br />

“immersione” però, è diversa: non l’angoscia del cor che si spaura, bensì il naufragio dell’io e del<br />

pensiero che appare dolce (v.15) , perché il mare è la metafora di un momento di temporaneo<br />

abbandono del pensiero razionale.<br />

La costruzione di questa lirica appare anche al lettore non esperto di una sapienza assoluta: per<br />

quanto riguarda le relazioni significato-struttura-significante, la disposizione delle parole, il loro<br />

potere semantico, le ripartizioni interne, le corrispondenze circolari contribuiscono a rendere la<br />

poesia un "viaggio interiore" tutto centrato sull’io (che ricorre continuamente: cfr. io ai vv. 7 e 9 e<br />

mi ai vv., 1, 7, 11, 15.<br />

Alcuni elementi vanno assolutamente messi in rilievo: primo fra tutti, il rapporto di circolarità tra il<br />

verso iniziale e quello finale, in cui risulta centrale la presenza del soggetto e la sua disposizione<br />

affettiva: al “sempre caro mi fu quest’ermo colle” del v.1 corrisponde “E il naufragar m’è dolce in<br />

questo mare” del v.15 . In entrambi i versi va notato l’uso del deittico questo che consente di<br />

evidenziare come strutturalmente l’intero periodo iniziale sia in corrispondenza simmetrica con<br />

quello finale: entrambi sono netti, perentori, si presentano isolabili, unici senza enjambements e<br />

contengono riferimenti ad entità paesistiche sottolineate dai deittici “questo/questa”. Ma mentre nel<br />

primo periodo gli elementi paesistici sono reali (questo colle, questa siepe), nell’ultimo sono<br />

metaforici (questa immensità, questo mare). La simmetria tra i due periodi sottolinea però che è<br />

avvenuto un percorso, dal definito all’indefinito, dal piano della realtà a quello dell’immaginazione.<br />

I due periodi centrali (vv. 4-8, 8-13) sono invece molto diversi ma anch’essi speculari: ipotattici,<br />

ricchi di enjambements e di congiunzioni, anche laddove non ce ne sarebbe necessità, essendo la<br />

pausa sintattica sottolineata dalla virgola e dal punto. Al loro interno si dipanano sempre<br />

specularmente da un lato il processo di sempre più profonda contemplazione dell’infinito spaziale,<br />

sottolineato dagli aggettivi di grado superlativo; dall’altro, all’inverso, il graduale processo di<br />

ritorno al presente. Anche in questi periodi, i dimostrativi svolgono un ruolo semanticamente<br />

fondamentale: mentre questo (questa voce, queste piante) si riferisce a entità reali, quello (quello<br />

infinito silenzio) richiama entità immaginative.<br />

9


Per quanto riguarda inoltre il rapporto significante-significato, spiccano nella lingua moltissimi<br />

elementi lessicali che esprimono il senso dell’infinità: nello Zibaldone Leopardi individuava come<br />

poetiche le parole “profondo”, “lontano”. Qui ricorrono anche ermo, eterno, ultimo, e spiccano le<br />

parole polisillabe che pure danno corpo all’immensità: orizzonte, sovrumani, interminati,<br />

profondissima, infinito, immensità, naufragar. Si noti , infine, ad accrescere il senso dell’illimitato,<br />

la preferenza accordata ai plurali, ai superlativi (profondissima) e agli aggettivi o sostantivi in<br />

forma accrescitiva o negativa (sovr-umani, in-terminati, in-finito).<br />

Non può stupirci, a questo punto, se ci spostiamo sul piano intertestuale, che L’infinito si collochi<br />

in una sorta di crocevia lirico: rinnovando totalmente il genere dell’idillio classico, di cui Leopardi<br />

volle dare una interpretazione del tutto soggettivistica (quali avventure e affezioni del suo animo) ,<br />

esso richiama innanzitutto il contesto romantico europeo, nel quale si colloca con tutti gli elementi<br />

tematici (rapporto io-paesaggio, indagine degli stati d’animo, aspirazione all’infinito). Tra i<br />

confronti poetici e sentimentali più immediati possiamo pensare al Werther di Goethe, o agli<br />

Sciolti a Sigismondo Chigi di Vincenzo Monti. In secondo luogo, ci rimanda alla tradizione lirica<br />

nostrana, primo fra tutti a Petrarca, dal quale provengono molti degli elementi stilistici, che sono<br />

però diversamente interpretati e totalmente rinnovati (anzitutto lo stesso topos del rapporto iopaesaggio).<br />

Infine, esso costituisce un attraversamento ineludibile per comprendere tanta<br />

produzione lirica del Novecento (si pensi anche solo all’Allegria dei naufragi di Ungaretti).<br />

10


Giacomo Leopardi, A Silvia<br />

[Leopardi, Le poesie e le prose, Canti XXI, pp. 73-4.]<br />

Il ricordo di una fanciulla morta in giovanissima età è l’occasione per riflettere sulla caducità<br />

delle aspirazioni umane e sul crudele destino che la Natura assegna agli uomini.<br />

Silvia, rimembri ancora<br />

Quel tempo della tua vita mortale,<br />

Quando beltà splendea<br />

Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,<br />

E tu, lieta e pensosa, il limitare 5<br />

Di gioventù salivi?<br />

Sonavan le quiete<br />

Stanze, e le vie dintorno,<br />

Al tuo perpetuo canto,<br />

Allor che all'opre femminili intenta 10<br />

Sedevi, assai contenta<br />

Di quel vago avvenir che in mente avevi.<br />

Era il maggio odoroso: e tu sole<br />

Così menare il giorno.<br />

Io gli studi leggiadri 15<br />

Talor lasciando e le sudate carte,<br />

Ove il tempo mio primo<br />

E di me si spendea la miglior parte,<br />

D'in su i veroni del paterno ostello<br />

Porgea gli orecchi al suon della tua voce, 20<br />

Ed alla man veloce<br />

Che percorrea la faticosa tela.<br />

Mirava il ciel sereno,<br />

Le vie dorate e gli orti,<br />

E quinci il mar da lungi, e quindi il monte. 25<br />

Lingua mortal non dice<br />

Quel ch'io sentiva in seno.<br />

Che pensieri soavi,<br />

Che speranze, che cori, o Silvia mia!<br />

Quale allor ci apparia 30<br />

La vita umana e il fato!<br />

Quando sovviemmi di cotanta speme,<br />

Un affetto mi preme<br />

Acerbo e sconsolato,<br />

E tornami a doler di mia sventura. 35<br />

O natura, o natura,<br />

Perché non rendi poi<br />

Quel che prometti allor? perché di tanto<br />

Inganni i figli tuoi?<br />

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno, 40<br />

Da chiuso morbo combattuta e vinta,<br />

11


Perivi, o tenerella. E non vedevi<br />

Il fior degli anni tuoi;<br />

Non ti molceva il core<br />

La dolce lode or delle negre chiome, 45<br />

Or degli sguardi innamorati e schivi;<br />

Né teco le compagne ai dì festivi<br />

Ragionavan d'amore.<br />

Anche peria fra poco<br />

La speranza mia dolce: agli anni miei 50<br />

Anche negaro i fati<br />

La giovanezza. Ahi come,<br />

Come passata sei,<br />

Cara compagna dell'età mia nova,<br />

Mia lacrimata speme! 55<br />

Questo è quel mondo? questi<br />

I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi<br />

Onde cotanto ragionammo insieme?<br />

Questa la sorte dell'umane genti?<br />

All'apparir del vero 60<br />

Tu, misera, cadesti: e con la mano<br />

La fredda morte ed una tomba ignuda<br />

Mostravi di lontano.<br />

1 Silvia: il nome, che proviene dall’Aminta del Tasso, è probabilmente uno pseudonimo per coprire l’identità di una<br />

fanciulla realmente conosciuta dal poeta; secondo molti si tratterebbe di Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa<br />

Leopardi e morta di tisi nel 1818. rimembri: ricordi, precedentemente era sovvienti.<br />

2 quel tempo…mortale: il tempo della tua giovinezza; mortale è aggettivo volto a sottolineare la fugacità del tempo di<br />

tutti i mortali, non per richiamare idealmente una vita eterna a cui il poeta non crede.<br />

3 beltà: bellezza.<br />

4 ridenti e fuggitivi: allegri e allo stesso tempo timidamente schivi.<br />

5 lieta e pensosa: è una coppia di aggettivi di origine petrarchesca, volta a sottolineare una gioia trepidante, ansiosa.<br />

6 il limitar…salivi: ti avviavi alla soglia della gioventù. Si noti che nel gioco delle corrispondenze foniche salivi è<br />

anagramma di Silvia.<br />

7 Sonavan: risuonavano.<br />

10 all’opre femminili intenta: dedita ai lavori femminili (il telaio).<br />

11 assai contenta: abbastanza (assai è un arcaismo) appagata.<br />

12 vago avvenir: futuro indeterminato e dolce (l’aggettivo vago va inteso in entrambi i sensi).<br />

14 menare: trascorrere.<br />

15 gli studi leggiadri: i graditi studi.<br />

16 sudate carte: carte scritte con fatica.<br />

17 il tempo mio primo: la mia adolescenza.<br />

18 e di me…parte: e le mie migliori risorse si consumavano.<br />

19 veroni: balconi; ostello: casa.<br />

23 Mirava : guardavo.<br />

25 e quinci…monte: e da una parte il mare in lontananza e dall’altra la montagna.<br />

26 lingua mortal non dice: nessuna lingua umana può esprimere.<br />

29 che cori: che sentimenti.<br />

30 quale…apparia: come ci apparivano belli allora.<br />

31 la vita umana e il fato: la vita e il destino futuro.<br />

32 sovviemmi: mi ricordo.<br />

33 un affetto mi preme: mi opprime un sentimento.<br />

37 non rendi: non restituisci (dal latino reddere).<br />

40 Tu …verno: tu, prima che l’inverno inaridisse i prati.<br />

41 da chiuso…vinta: consumata e vinta da un male nascosto.<br />

12


42 tenerella: poverina; l’aggettivo allude anche alla “tenera” età della giovane.<br />

43 il fior…tuoi: la pienezza della tua gioventù.<br />

44 non ti molceva: non ti lusingava.<br />

47 teco: con te.<br />

49 fra poco: dopo poco tempo. Il poeta allude all’anno 1819, che egli descrive come passaggio alla consapevolezza del<br />

vero.<br />

50 agli anni miei: alla mia vita<br />

51 negaro i fati: il destino negò.<br />

54 cara compagna…nova: cara compagna della gioventù; si riferisce alla speranza, la speme del verso successivo.<br />

61 Tu: si rivolge alla speranza, ma ambiguamente allude anche a Silvia, che insieme alla speranza è caduta all’apparir<br />

del vero.<br />

62 la fredda morte ed una tomba ignuda: la speranza che indica, come unica meta della vita, la morte e la tomba è<br />

una sorta di cruda visione allegorica; la personificazione della speranza però si confonde qui anche con l’immagine di<br />

Silvia stessa.<br />

SCHEDA METRICA<br />

Canzone libera, composta da sei stanze di varia lunghezza, di endecasillabi e settenari sciolti e liberamente<br />

alternati.<br />

“Ricordi, Silvia?” Con un’allocuzione al destinatario ideale, Leopardi apre una lirica interamente<br />

costruita su un’analogia e una contraddizione.<br />

L’analogia è condotta tra la vicenda della fanciulla e la propria, che si dipanano in parallelo nelle<br />

prime tre strofe, riferite al ricordo di una primavera lontana e ai sentimenti di attesa trepidante che<br />

accomunavano i due adolescenti riguardo al futuro, e nelle strofe V e VI, in cui il parallelo è tra i<br />

tragici destini di entrambi, segnato il primo, quello di Silvia, dalla morte, il secondo, quello del<br />

poeta, dall’infelicità senza rimedio.<br />

La contraddizione è tra il desiderio di felicità insito nell’uomo e provato dai due giovani e la legge<br />

inesorabile della natura che costringe invece all’infelicità e alla morte. Il passaggio nevralgico<br />

dall’illusione alla dura realtà è segnato dalla IV strofa, che contrappone il ricordo delle speranze,<br />

messo in rilievo dalle numerose esclamazioni, al dolore e alla protesta contro la natura, che non<br />

mantiene le sue promesse, e illude e inganna i suoi figli.<br />

Il passaggio dall’esclamazione all’interrogazione rivolta alla natura costituisce dunque l’acme del<br />

componimento, e viene ripreso nell’ultima strofa, quando ancora una volta si alternano<br />

esclamazioni e interrogative, segnate però non più dalla protesta ma dalla consapevole<br />

accettazione del vero. Potentissima appare l’ immagine visiva con cui il componimento si conclude:<br />

Silvia e la speranza, indistinte e fuse nella personificazione di una donna che indica con la mano,<br />

come unica meta della vita di ognuno, la fredda morte ed una squallida tomba.<br />

All’armoniosa costruzione simmetrica della poesia collabora la scelta dei tempi verbali: il presente<br />

è il tempo dell’improvvisa felicità del ricordo, nei primi versi, e del dolore del disinganno nella IV<br />

strofa; l’imperfetto è il tempo della durata, del ricordo del passato, che si prolunga e diventa anche<br />

doloroso quando viene rievocata la fine della vita di Silvia e delle illusioni. Il tempo della caduta,<br />

della perdita delle illusioni e della catastrofe non a caso è il passato remoto (v. 61: tu, misera,<br />

cadesti), opposto all’imperfetto del ricordo.<br />

In un’annotazione dello Zibaldone di poco posteriore alla lirica, del 30 giugno 1828, Leopardi<br />

scriveva :<br />

Una giovane dai sedici ai diciotto anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci (…) un non so<br />

che di divino che niente può agguagliare; (…) quell’aria di innocenza, d’ignoranza completa del<br />

male, delle sventure, de’ patimenti, quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte<br />

queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione così<br />

viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardare quel viso. (…) Del resto se a<br />

13


quel che ho detto, nel vedere o contemplare una giovane di sedici o diciotto anni, si aggiunga il<br />

pensiero dei patimenti che l’aspettano, delle sventure che vanno ad oscurare e a spegner ben tosto<br />

quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze, della indicibile fugacità di quel fiore, di<br />

quello stato, di quelle bellezze; si aggiunga il ritorno sopra noi medesimi; e quindi un sentimento<br />

di compassione per quell’angelo di felicità, per noi medesimi, per la sorte umana, per la vita (tutte<br />

cose che non possono mancare di venire alla mente) ne segue un effetto il più vago e sublime che<br />

possa immaginarsi. [Leopardi, Zibaldone, 4310-11, v. II, p. 1144]<br />

Questo passo ci chiarisce indirettamente come nella lirica che stiamo leggendo non viva solo il<br />

ricordo di una passione amorosa giovanile: la Silvia che ritorna qui come persona concreta, ricordo<br />

di un passato irripetibile possiede infatti anche una sua verità simbolica, poiché è associata al<br />

sentimento delle speranze destinate a cadere, che costituisce nella visione leopardiana il fato<br />

comune a tutti gli uomini.<br />

Ma è dal punto di vista formale che la lirica, rispetto al passo in prosa citato, evidenzia tutta la sua<br />

potenza: le scelte metriche, lessicali e ritmiche sembrano del tutto ispirate alla poetica del vago,<br />

dell’indefinito e della rimembranza che il poeta teorizzava sin dal 1819, all’epoca dei suoi primi<br />

componimenti, e nel contempo è densa di richiami letterari, primo fra tutti il nome della fanciulla di<br />

ispirazione tassiana.<br />

Il nucleo del canto è nella dimensione memoriale dell’io, che produce per prima l’immagine di<br />

Silvia, più evocata che descritta, attraverso gesti e sguardi, e tramite coppie di aggettivi vaghi e<br />

indefiniti (lieta e pensosa, occhi ridenti e fuggitivi): lo sguardo che ride sembra rimandare tra l’altro<br />

ad un’immagine topica della nostra tradizione letteraria, presente in Dante e in Petrarca. Quando<br />

all’immagine della fanciulla, nella terza strofa, si sostituisce quella dell’io, la specularità del<br />

soggetto con Silvia appare chiara: alle sensazioni visive si aggiungono qui quelle uditive (il suon<br />

della tua voce, al v.21), e compare anche il topos dell’ineffabilità dei sentimenti di matrice<br />

stilnovistica (Lingua mortal non dice…al V.26)<br />

Il ritorno al presente nella IV stanza, però, se è segnalato dalla frattura dei tempi verbali e delle<br />

interrogazioni, e dall’incedere delle negazioni che denotano l’assenza di Silvia (non…non …né ai<br />

vv. 42, 44, 47), non lo è dal punto di vista della lingua, che continua a utilizzare attributi dolci:<br />

tenerella al v.42, dolce lode al v. 45, sguardi innamorati e schivi al v. 46.<br />

Ulteriore elemento da sottolineare è l’assoluta semplicità della sintassi, fatta di periodi brevi con<br />

poche subordinate, all’interno della quale spicca l’uso sapiente e fluido delle pause, come ai vv. 7-<br />

8 (le quiete/stanze) dove dieresi e pausa operano per suggerire ancora una volta un senso di<br />

indefinito.<br />

A rendere scorrevole e musicale il ritmo contribuisce poi l’assoluta libertà della struttura metrica,<br />

che segue solo l’andamento del pensiero: Leopardi realizza una canzone libera da schemi fissi, sia<br />

nella lunghezza delle strofe che nella disposizione dei versi, delle rime, delle pause (e solo nel<br />

finale, ai vv.42-43, 51-52, 56-57, dominano gli enjambements, rarissimi nel resto della poesia).<br />

L’attenzione alla musicalità e ai valori fonosimbolici va però ben al di là delle rime e del ritmo, ed<br />

è anche nella scelta dei suoni: si guardi lo splendea al v.3 che sostituisce la prima versione<br />

splendeva, o le numerosissime vocali aperte e suoni lievi (sonavan, stanze, nella seconda strofa;<br />

mirava, mar, mortale, nella terza; e così via), che suggeriscono come nell’Infinito l’idea di una<br />

indeterminata e dolcissima vastità.<br />

14


Giosue Carducci, Alla stazione in una mattina d’autunno<br />

[Carducci, Odi barbare, p. 121]<br />

Il poeta accompagna l’amata Lidia alla stazione di Bologna in una giornata greve e piovosa: lo<br />

spunto occasionale è trasfigurato dal ricordo nostalgico di un felice momento del passato e dalla<br />

rappresentazione simbolica e “infernale” dei dettagli della realtà presente..<br />

Oh quei fanali come s’inseguono<br />

accidïosi là dietro gli alberi,<br />

tra i rami stillanti di pioggia<br />

sbadigliando la luce su ’l fango! 4<br />

Flebile, acuta, stridula fischia<br />

la vaporiera da presso. Plumbeo<br />

il cielo e il mattino d’autunno<br />

come un grande fantasma n’è intorno. 8<br />

Dove e a che move questa, che affrettasi<br />

a’ carri foschi, ravvolta e tacita<br />

gente? a che ignoti dolori<br />

o tormenti di speme lontana? 12<br />

Tu pur pensosa, Lidia, la tessera<br />

al secco taglio dài de la guardia,<br />

e al tempo incalzante i begli anni<br />

dài, gl’istanti gioiti e i ricordi. 16<br />

Van lungo il nero convoglio e vengono<br />

incappucciati di nero i vigili,<br />

com’ombre; una fioca lanterna<br />

hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei 20<br />

freni tentati rendono un lugubre<br />

rintocco lungo: di fondo a l’anima<br />

un’eco di tedio risponde<br />

doloroso, che spasimo pare. 24<br />

E gli sportelli sbattuti al chiudere<br />

paion oltraggi: scherno par l’ultimo<br />

appello che rapido suona:<br />

grossa scroscia su’ vetri la pioggia. 28<br />

Già il mostro, conscio di sua metallica<br />

anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei<br />

occhi sbarra; immane pe ’l buio<br />

gitta il fischio che sfida lo spazio. 32<br />

Va l’empio mostro; con traino orribile<br />

sbattendo l’ale gli amor miei portasi.<br />

Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo<br />

salutando scompar ne la tenebra. 36<br />

15


O viso dolce di pallor roseo,<br />

o stellanti occhi di pace, o candida<br />

tra’ floridi ricci inchinata<br />

pura fronte con atto soave! 40<br />

Fremea la vita nel tepid’aere,<br />

fremea l’estate quando mi arrisero;<br />

e il giovine sole di giugno<br />

si piacea di baciar luminoso 44<br />

in tra i riflessi del crin castanei<br />

la molle guancia: come un’aureola<br />

piú belli del sole i miei sogni<br />

ricingean la persona gentile. 48<br />

Sotto la pioggia, tra la caligine<br />

torno ora, e ad esse vorrei confondermi;<br />

barcollo com’ebro, e mi tocco,<br />

non anch’io fossi dunque un fantasma. 52<br />

Oh qual caduta di foglie, gelida,<br />

continua, muta, greve, su l’anima!<br />

io credo che solo, che eterno,<br />

che per tutto nel mondo è novembre. 56<br />

Meglio a chi ’l senso smarrí de l’essere,<br />

meglio quest’ombra, questa caligine:<br />

io voglio io voglio adagiarmi<br />

in un tedio che duri infinito. 60<br />

SCHEDA METRICA<br />

Ode alcaica costituita da 15 quartine: ciascuna quartina, priva di rime, è costituita da due doppi quinari, un novenario<br />

accentato in 2, 5 e 8 sillaba, e un decasillabo con accenti in 3, 6 e 9 sillaba. Nelle Odi barbare Carducci volle<br />

riprodurre il ritmo della versificazione classica attraverso la misurata trasposizione e combinazione dei versi della<br />

metrica romanza accentuativa.<br />

1 fanali: lampioni.<br />

2 accidiosi: pigri e svogliati.<br />

3 stillanti di pioggia: che fanno cadere gocce di pioggia.<br />

4 sbadigliando …fango: lasciando cadere una luce smorta sul terreno bagnato e fangoso.<br />

5 flebile: debole.<br />

6 Plumbeo: grigio, del colore del piombo.<br />

7-8 il mattino … n’è intorno: il mattino avvolge ogni cosa attorno a noi come una grande figura misteriosa.<br />

9-11 Dove … gente?: Dove si dirige e a quale scopo (a che) questa gente avvolta nei mantelli e silenziosa (tacita) che<br />

si affretta verso le scure carrozze del treno (carri foschi)?.<br />

11-12 a che … lontana?: verso quali dolori sconosciuti (ignoti) o affanni per qualche speranza (speme) lontana?<br />

13 pensosa: pensierosa, assorta; Lidia: nome di origine letteraria, che deriva da Orazio, che il poeta dà alla donna<br />

amata.<br />

13-14 la tessera … guardia: porgi il biglietto ferroviario (la tessera) al controllore (guardia) affinché lo fori (al secco<br />

taglio).<br />

15-16 e al tempo … ricordi: e consegni (dài) al tempo che corre senza sosta (incalzante) gli anni della giovinezza, gli<br />

istanti felici (gioiti), i ricordi.<br />

17 convoglio: serie delle carrozze del treno.<br />

16


18 vigili: ferrovieri addetti al controllo dei freni.<br />

19 fioca: (dalla luce) debole, pallida.<br />

21 tentati: colpiti, percossi.<br />

22-23 rendono … lungo: restituiscono un suono lungo e triste, quasi funereo (lugubre), come di campana.<br />

24 un’eco… pare: a quel suono risponde come se fosse un’eco la sensazione di una stanchezza interiore e dolorosa<br />

(tedio), che sembra un tormento, una sofferenza (spasimo pare).<br />

26 oltraggi: insulti.<br />

26-27 scherno … suona: l’ultima, rapida chiamata prima della partenza sembra una presa in giro (scherno).<br />

29-30 il mostro… anima: trasfigurazione fantastica della locomotiva a vapore, che appare una creatura mostruosa<br />

consapevole della sua anima di ferro.<br />

30 crolla, ansa: si scrolla, emette suoni come chi respira affannosamente per la fatica (ansa).<br />

31-32 i fiammei … sbarra: lancia in avanti la luce dei fanali accesi.<br />

31 immane: enorme, spaventoso.<br />

33 empio: crudele (perché gli porta via la donna amata); traino orribile: vagoni spietati, crudeli.<br />

34 sbattendo l’ale: nella trasfigurazione della locomotiva in mostro, gli stantuffi delle vecchie locomotiva a vapore<br />

appaiono come ali in movimento.<br />

35 la bianca faccia: il pallido viso.<br />

36 ne la tènebra: nel buio.<br />

38 stellanti… pace: occhi lucenti come stelle che trasmettono un senso di pace.<br />

39 floridi ricci: folti ricci dei capelli.<br />

40 atto soave: atteggiamento dolce.<br />

41 Fremea: Palpitava di passione; tepid’aere: nell’aria tiepida.<br />

42 mi arrisero: mi sorrisero; il soggetto sono gli occhi della donna amata (v. 38).<br />

43-46 il giovine… guancia: il sole primaverile (giovine) di giugno si compiaceva (si piacea) di inondare di luce (baciar<br />

luminoso) la guancia tenera (molle) tra i riflessi dei capelli (crin) castani.<br />

48 ricingean: cingevano, avvolgevano (il soggetto sono i sogni del poeta).<br />

49 tra la caligine: tra il fumo grigio.<br />

51 com’ebro: come ubriaco.<br />

54 greve: pesante.<br />

57 Meglio… l’essere: Tocca sorte migliore a chi ha perso il senso della vita.<br />

60 un tedio che duri infinito: una malinconia senza limiti.<br />

La prima immagine che si imprime nella mente del lettore di questa lirica è quella di una natura<br />

umanizzata: i fanali dei vagoni del treno che si avvicinano tra i rami, da cui come lacrime scende la<br />

pioggia, sono accidiosi (aggettivo dantesco) e sbadigliano la loro luce. Questo immerge chi legge<br />

immediatamente in un’atmosfera profondamente malinconica; tutto nella descrizione collabora a<br />

rendere il sentimento di tristezza e lamento: la locomotiva che suona flebile ma anche stridula, il<br />

cielo plumbeo, la similitudine tra il mattino nebbioso e un’ombra di fantasma. E allo stesso tempo<br />

tutti gli esseri che popolano la scena, tutti i dettagli descritti, partecipano di un’atmosfera infernale,<br />

se si eccettua Lidia che, pensosa, offre al taglio del controllore il proprio biglietto e, in quello<br />

stesso istante, però, nel sentimento del poeta, offre e sacrifica la gioia dei momenti vissuti<br />

all’incalzare del tempo che li porta via.<br />

Complessivamente, sia i lavoratori (rappresentati come vigili incappucciati di nero), sia le<br />

lanterne, sia i freni del treno che risuonano ferrei sono interpretati simbolicamente, per rendere il<br />

senso di tedio, di malinconia del presente. E lo sbattere degli sportelli diventa addirittura un<br />

oltraggio e uno scherno: a partire da questa immagine ancor meglio si compie la trasposizione<br />

dell’elemento descrittivo in materia psicologica e sentimentale.<br />

Così il treno, simbolo della modernità, vera e propria icona del positivismo, si trasfigura in un<br />

essere vivo, un empio mostro che sbuffa e fiammeggia dagli occhi. Allegoria della vita presente in<br />

cui tutto si muove senza meta e senz’anima, tutto è insensato, esso rapisce al soggetto “la bianca<br />

faccia e ‘l bel velo”, immagine classica e petrarchesca dell’amata.<br />

Il primo collegamento intertestuale che suggerisce questa poesia, come molte delle odi barbare, è<br />

con la contemporanea scuola francese: le suggestioni da sogno filtrate attraverso il ricordo, nella<br />

seconda parte del componimento (di cui i vv.37-48 costituiscono il nucleo antico) rimandano<br />

infatti da un lato all’estetica parnassiana con le sue ascendenze classiche, specie nel linguaggio,<br />

17


dall’altro anche alla tendenza ad una poesia visionaria e dei sensi quale quella decadente e di<br />

matrice baudeleriana: (si vedano i cromatismi che giocano sui colori della donna e sulla luce).<br />

Il registro torna ad essere invece quello cupo e malinconico nelle ultime tre quartine, nelle quali,<br />

però, il paesaggio appare ancora più interiorizzato e trasformato in riflessione esistenziale: la<br />

caligine, l’ombra, la nebbia non sono solo rappresentazioni dell’esterno, ma adombrano l’animo<br />

del soggetto. Così, allo stesso modo, le foglie che cadono suggeriscono che “ tutto “nel mondo è<br />

novembre”. E’ il soggetto, dunque, che riverbera sul paesaggio il suo disagio interiore, alludendo<br />

all’idea leopardiana che tutto muore e sfiorisce, o si trasforma in tedio.<br />

Si è detto che questa poesia è fatta di due nuclei distinti, fusi nel 1876 quando il poeta decide di<br />

rievocare un incontro con l’amata Lidia avvenuto a Bologna nel 1873. La divisione è segnalata da<br />

elementi cromatici. ovvero dalla sostanza luminosa che caratterizza il ricordo nelle tre strofe<br />

centrali (i vv.37-41, che risalgono al 1875) e che si contrappone alla caligine in cui si consuma il<br />

distacco e, attraverso il brusco ritorno al presente del v.49 (“sotto la pioggia, tra la caligine/torno<br />

ora”), si conclude la lirica.<br />

Il tema della partenza dell’amata non era certo nuovo, come non nuovo è quello del tedio, la<br />

malinconia dell’attesa e del ricordo, tipico dell’esperienza romantica ma anche di quella decadente:<br />

e per proporre un’analogia di situazione e di atteggiamento si può ricordare qui il novecentesco<br />

Eugenio Montale, che ne Le occasioni del 1939 compone il mottetto Addii, fischi nel buio, cenni,<br />

tosse, dedicato anch’esso ad un saluto in stazione. Ma un elemento che colpisce più di altri è<br />

l’osmosi lessicale e la raffinata ricerca espressiva con cui Carducci riesce a rendere poetabili gli<br />

elementi della modernità, come la stazione, il treno, attraverso scelte lessicali preziose e aggettivi<br />

aulici (speme, empio, velo, gentile, anima) che si accompagnano e mescolano a a termini moderni<br />

(guardia, sportelli sbattuti, fischio) . Alto il livello di musicalità suggerito dall’intenso gioco di<br />

allitterazioni, che sostituiscono la rima, dalla sonorità prodotta dalle disposizione in serie di<br />

termini (ad es. al v.30 sbuffa, crolla, ansa) e dalle numerose anafore (fremea la vita …fremea<br />

l’estate, ai vv.41-42; io voglio io voglio adagiarmi, al v.59).<br />

18


Giovanni Pascoli, Temporale<br />

[da Pascoli, Poesie, “Myricae”, p.86]<br />

La natura offre all’occhio umano un’immagine della propria potenza se si osserva e si ascolta la<br />

nascita di un temporale<br />

Un bubbolio lontano….<br />

Rosseggia l’orizzonte,<br />

come affocato, a mare:<br />

nero di pece a monte<br />

stracci di nubi chiare: 5<br />

tra il nero un casolare:<br />

un’ala di gabbiano<br />

1 bubbolio: termine onomatopeico che indica il rumore del tuono; Si richiama al nome di un uccello.<br />

2 Rosseggia: Si tinge di rosso.<br />

3 affocato: rosso come il fuoco; più raro di infuocato, il termine è usato in Dante, Purgatorio, VIII, v.26.<br />

4 pece: sostanza nera, densa, ottenuta dalla lavorazione dei catrami.<br />

5 stracci di nubi: le nubi appaiono frammentate e cosparse sull’orizzonte nero del cielo<br />

SCHEDA METRICA<br />

Ballata piccola di 7 versi settenari con schema a bcbcca<br />

A chi lo legge per la prima volta, Temporale appare dominato dalla rappresentazione del paesaggio<br />

di tipo impressionistico: un solo verbo, rosseggia al v.2, e tutte immagini naturali filtrate da una<br />

soggettività che le umanizza. Il poeta fa "vivere" le immagini come fossero entità sofferenti e<br />

angosciose: effetto tipico di una poetica che lega impressionismo a simbolismo, in cui ogni<br />

distinzione realistica fra io e mondo viene superata. E’ la poetica di Myricae, il primo libro di<br />

Pascoli (prima edizione del 1891, settima e definitiva nel 1905), nella cui III edizione, nella sezione<br />

“In campagna” (1894) questo componimento compare, insieme a Il lampo, a testimoniare<br />

l’evoluzione dal tema commemorativo e luttuoso (nel primo nucleo era centrale il ricordo<br />

traumatico della morte del padre, rottura del “nido” familiare) verso un soggettivismo che si amplia<br />

a leggere nelle diverse manifestazioni della natura e del paesaggio il senso del mistero della vita<br />

umana.<br />

Il fenomeno temporalesco ha dunque sostanza simbolica, ma la sua raffigurazione è totalmente<br />

affidata a suggestioni evocative: così l'iniziale bubbolìo (termine di cui va sottolineata la valenza<br />

onomatopeica) e le immagini dell'orizzonte che rosseggia, come infuocato, del nero di pece e degli<br />

stracci di nubi (due ipallagi di rara efficacia), dell'ala di gabbiano assimilata per analogia al<br />

casolare, nel quale è leggibile una traccia più o meno esplicita di presenza umana, rappresentano<br />

tutte, attraverso una giustapposizione di effetti prima uditivi (il rumore lontano del tuono) e poi<br />

visivi e cromatici (le macchie di rosso, nero, bianco), in apparenza naturalistici, le immagini di un<br />

temporale "interiore" e soggettivo.<br />

Per ottenere questo effetto evocativo, il poeta compie scelte sintattiche molto originali: un fraseggio<br />

spezzato, fatto di asindeti, frasi nominali, segmenti paratattici. In Temporale ci sono dieci sostantivi<br />

e un aggettivo sostantivato (ripetuto due volte: nero di..., il nero...), con un solo verbo (rosseggia,<br />

che oltretutto indica un colore più che un'azione) e soli tre aggettivi (lontano, affocato, chiare).<br />

La storia della composizione di questa lirica ci svela qualche altro interessante particolare: essa esce<br />

in questa forma, come si è detto, nel 1894, insieme a Il lampo, che fu contemporaneamente<br />

19


composta nel ’90, e che presenta lo stesso procedimento compositivo: in entrambi i testi ricorre<br />

l'antitesi profonda fra il nero della notte (la tempesta del mondo e della vita) e il bianco di una casa<br />

(la pace del nido): nel primo il nero di pece contro il casolare bianco come un'ala di gabbiano; nel<br />

secondo troviamo una casa bianca che si oppone alla notte nera. Ma Pascoli aveva l’abitudine di<br />

giungere alla versione definitiva dei testi attraverso abbozzi in prosa e in versi che modificava di<br />

continuo. La prima idea di questa lirica è in una lettera alle sorelle dello stesso anno: il poeta scrive<br />

di aver osservato “Da Poggibonsi a Siena, gran temporale nero con tuoni e lampi e scrosci terribili<br />

di pioggia”. Seguono due versioni o abbozzi:<br />

A)<br />

M’è davanti un rosseggiare<br />

Tetro come di vulcano<br />

Com’è nero alla sinistra: tutto sparso a fiocchi bianchi<br />

Una casa vi biancheggia come un cigno.<br />

B)<br />

Lontano il tuono rimbomba<br />

Rosseggia l’orizzonte<br />

Come affocato, a mare:<br />

nero di pece a monte<br />

con fiocchi grigi appare<br />

tra il nero un casolare<br />

[come] un’ala di colomba<br />

Come è evidente confrontando le versioni, la riduzione all’essenzialità visiva non è ottenuta senza<br />

sforzo: è frutto di un attentissimo procedimento formale, di progressiva “asciugatura” del<br />

componimento nel quale le similitudini si trasformano in analogie, i verbi scompaiono. Così,<br />

indebolendo la struttura logico-razionale della sintassi, la costruzione analogica finisce per<br />

sprigionare il significato sotteso: il volo del gabbiano, come il biancheggiare del casolare, sono una<br />

nota positiva, di speranza, rispetto agli oscuri presagi che provengono all’uomo dal grandioso e<br />

inquietante spettacolo della natura.<br />

20


Giovanni Pascoli, Italy<br />

[da Pascoli, Poesie, “Primi poemetti”, pp. 275 - 296]<br />

Nel 1904, traendo spunto da un episodio veramente accaduto nella famiglia di un piccolo<br />

agricoltore suo amico, Pascoli scrisse questo lungo poemetto che ha per sottotitolo Sacro all’Italia<br />

raminga, e racconta il fenomeno dell’emigrazione, osservato come perdita d’identità e sentimento<br />

di estraneità reciproca fra chi è partito e i parenti rimasti in patria a conservare le arcaiche<br />

abitudini di vita. Protagoniste dell’opera sono la piccola Maria-Molly, malata di tisi, riportata in<br />

Italia dal lontano Ohio per trovare aria buona e cure, e la nonna, che le si affeziona fino a morire,<br />

simbolicamente, in sua vece.<br />

I<br />

A Caprona, una sera di febbraio,<br />

gente veniva, ed era già per l’erta,<br />

veniva su da Cincinnati, Ohio.<br />

Canto primo<br />

La strada, con quel tempo, era deserta.<br />

Pioveva, prima adagio, ora a dirotto, 5<br />

tamburellando su l’ombrella aperta.<br />

La Ghita e Beppe di Taddeo lì sotto<br />

erano, sotto la cerata ombrella<br />

del padre: una ragazza, un giovinotto.<br />

E c’era anche una bimba malatella, 10<br />

in collo a Beppe, e di su la sua spalla<br />

mesceva giù le bionde lunghe anella.<br />

Figlia d’un altro figlio, era una talla<br />

del ceppo vecchio nata là: Maria:<br />

d’ott’anni: aveva il peso d’una galla. 15<br />

Ai ritornanti per la lunga via,<br />

già vicini all’antico focolare,<br />

la lor chiesa sonò l’Avemaria.<br />

Erano stanchi! Avean passato il mare!<br />

Appena appena tra la pioggia e il vento 20<br />

l’udiron essi or sì or no sonare.<br />

Maria cullata dall’andar su lento<br />

sembrava quasi abbandonarsi al sonno,<br />

sotto l’ombrella. Fradicio e contento<br />

veniva piano dietro tutti il nonno. 25<br />

Sacro all’Italia raminga<br />

21


II<br />

Salivano, ora tutti dietro il nonno,<br />

la scala rotta. Il vecchio Lupo in basso<br />

non abbaiò; scodinzolò tra il sonno.<br />

E tentennò sotto il lor piede il sasso<br />

d’avanti l’uscio. C’era sempre stato 30<br />

presso la soglia, per aiuto al passo.<br />

E l’uscio, come sempre, era accallato.<br />

Lì dentro, buio come a chiuder gli occhi.<br />

Ed era buia la cucina allato.<br />

La mamma? Forse scesa per due ciocchi... 35<br />

forse in capanna a mòlgere... No, era<br />

al focolare sopra i due ginocchi.<br />

Avea pulito greppia e rastrelliera;<br />

ora, accendeva... Udì sonare fioco:<br />

era in ginocchio, disse la preghiera. 40<br />

Appariva nel buio a poco a poco.<br />

«Mamma, perché non v’accendete il lume?<br />

Mamma, perché non v’accendete il fuoco?»<br />

«Gesù! Ché ho fatto tardi col rosume...»<br />

E negli stecchi ella soffò, mezzo arsi; 45<br />

e le sue rughe apparvero al barlume.<br />

E raccattava, senza ancor voltarsi,<br />

tutta sgomenta, avanti a sé, la mamma,<br />

brocche, fuscelli, canapugli, sparsi<br />

sul focolare. E si levò la fiamma. 50<br />

III<br />

E i figli la rividero alla fiamma<br />

del focolare, curva, sfatta, smunta.<br />

«Ma siete trista! siete trista, o mamma!»<br />

Ed accostando agli occhi, essa, la punta<br />

del pennelletto, con un fil di voce: 55<br />

«E il Cecco è fiero? E come va l’Assunta?»<br />

«Ma voi! Ma voi!» «Là là, con la mia croce.»<br />

I muri grezzi apparvero col banco<br />

vecchio e la vecchia tavola di noce.<br />

22


Di nuovo, un moro, con non altro bianco 60<br />

che gli occhi e i denti, era incollato al muro,<br />

la lenza a spalla ed una mano al fianco:<br />

roba di là. Tutto era vecchio, scuro.<br />

S’udiva il soffio delle vacche, e il sito<br />

della capanna empiva l’abituro. 65<br />

Beppe sedè col capo indolenzito<br />

tra le due mani. La bambina bionda<br />

ora ammiccava qua e là col dito.<br />

Parlava; e la sua nonna, tremebonda,<br />

stava a sentire, e poi dicea: «Non pare 70<br />

un luì quando canta tra la fronda?»<br />

Parlava la sua lingua d’oltremare:<br />

«...a chicken-house» «un piccolo luì...»<br />

«...for mice and rats» «che goda a cinguettare,<br />

zi zi» «Bad country, Ioe, your Italy!» 75<br />

IV<br />

ITALY, penso, se la prese a male.<br />

Maria, la notte (era la Candelora),<br />

sentì dei tonfi come per le scale...<br />

tre quattro carri rotolarono... Ora<br />

vedea, la bimba, ciò che n’era scorso! 80<br />

the snow! La neve, a cui splendea l’aurora.<br />

Un gran lenzuolo ricopriva il torso<br />

dell’Omo-morto. Nel silenzio intorno<br />

parea che singhiozzasse il Rio dell’Orso.<br />

Parea che un carro, allo sbianchir del giorno 85<br />

ridiscendesse l’erta con un lazzo<br />

cigolìo. Non un carro, era uno storno,<br />

uno stornello in cima del Palazzo<br />

abbandonato, che credea che fosse<br />

marzo, e strideva: marzo, un sole e un guazzo! 90<br />

Maria guardava. Due rosette rosse<br />

aveva, aveva lagrime lontane<br />

negli occhi, un colpo ad or ad or di tosse.<br />

La nonna intanto ripetea: «Stamane<br />

fa freddo!» Un bianco borracciol consunto 95<br />

mettea sul desco ed affettava il pane.<br />

23


Pane di casa e latte appena munto.<br />

Dicea: «Bimbina, state al fuoco: nieva!<br />

Nieva!» E qui Beppe soggiungea compunto:<br />

«Poor Molly! Qui non trovi il pai con fleva!» 100<br />

V<br />

Oh! No: non c’era lì né pie né flavour<br />

né tutto il resto. Ruppe in un gran pianto:<br />

«Ioe, what means nieva? Never? Never? Never?»<br />

Oh! No: starebbe in Italy sin tanto<br />

ch’ella guarisse: one month or two, poor Molly! 105<br />

E Ioe godrebbe questo po’ di scianto.<br />

Mugliava il vento che scendea dai colli<br />

bianchi di neve. Ella mangiò, poi muta<br />

fissò la fiamma con gli occhioni molli.<br />

Venne, sapendo della lor venuta, 110<br />

gente, e qualcosa rispondeva a tutti<br />

Ioe, grave: «Oh yes, è fiero... vi saluta...<br />

molti bisini, oh yes... No, tiene un frutti-<br />

stendo... Oh yes, vende checche, candi, scrima...<br />

Conta moneta! Può campar coi frutti... 115<br />

Il baschetto non rende come prima...<br />

Yes, un salone, che ci ha tanti bordi...<br />

Yes, l’ho rivisto nel pigliar la stima...»<br />

Il tramontano discendea con sordi<br />

brontoli. Ognuno si godeva i cari 120<br />

ricordi, cari ma perché ricordi:<br />

quando sbarcati dagli ignoti mari<br />

scorrean le terre ignote con un grido<br />

straniero in bocca, a guadagnar danari<br />

per farsi un campo, per rifarsi un nido... 125<br />

VI<br />

Un campettino da vangare, un nido<br />

da riposare: riposare, e ancora<br />

gettare in sogno quel lontano grido:<br />

24


Will you buy... per Chicago Baltimora.<br />

Buy images... per Troy, Memphis, Atlanta, 130<br />

con una voce che te stesso accora:<br />

cheap! Nella notte, solo in mezzo a tanta<br />

gente; cheap! cheap! tra un urlerìo che opprime;<br />

cheap!... Finalmente un altro odi, che canta...<br />

Tu non sai come, intorno a te le cime 135<br />

sono dell’Alpi, in cui si arrossa il cielo:<br />

chi canta, è il gallo sopra il tuo concime.<br />

«La mi’ Mèrica! Quando entra quel gelo,<br />

ch’uno ritrova quella stufa roggia<br />

per il gran coke, e si rià, poor fellow! 140<br />

va pur via, battuto dalla pioggia.<br />

Trova un farm. You want buy? Mostra il baschetto.<br />

Un uomo compra tutto. Anche, l’alloggia!»<br />

Diceva alcuno; ed assentiano al detto<br />

gli altri seduti entro la casa nera, 145<br />

più nera sotto il bianco orlo del tetto.<br />

Uno guardò la piccola straniera,<br />

prima non vista, muta, che tossì.<br />

«You like this country...» Ella negò severa:<br />

«Oh no! Bad Italy! Bad Italy!» 150<br />

VII<br />

ITALY allora s’adirò davvero!<br />

Piovve; e la pioggia cancellò dal tetto<br />

quel po’ di bianco, e fece tutto nero.<br />

Il cielo, parve che si fosse stretto,<br />

e rovesciava acquate sopra acquate! 155<br />

O ferraietto, corto e maledetto!<br />

Ghita diceva: «Mamma, a che filate?<br />

Nessuna fila in Mèrica. Son usi<br />

d’una volta, del tempo delle fate.<br />

Oh yes! Filare! Assai mi ci confusi 160<br />

da bimba. Or c’è la macchina che scocca<br />

d’un frullo solo centomila fusi.<br />

Oh yes! Ben altro che la vostra ròcca!<br />

E fila unito. E duole poi la vita<br />

25


e ci si sente prosciugar la bocca!» 165<br />

La mamma allora con le magre dita<br />

le sue gugliate traea giù più rare,<br />

perché ciascuna fosse bella unita.<br />

Vedea le fate, le vedea scoccare<br />

fusi a migliaia, e s’indugiava a lungo 170<br />

nel suo cantuccio presso il focolare.<br />

Diceva: «Andate a letto, io vi raggiungo.»<br />

Vedea le mille fate nelle grotte<br />

illuminate. A lei faceva il fungo<br />

la lucernina nell’oscura notte. 175<br />

VIII<br />

Pioveva sempre. Forse uscian, la notte,<br />

le stelle, un poco, ad ascoltar per tutto<br />

gemer le doccie e ciangottar le grotte.<br />

Un poco, appena. Dopo, era più brutto:<br />

piovea più forte dopo la quiete. 180<br />

O ferraiuzzo, piccolino e putto!<br />

Ghita diceva: «Madre, a che tessete?<br />

Là, può comprare, a pochi cents, chi vuole,<br />

cambrì, percalli, lustri come sete.<br />

E poi la vita dite che vi duole! 185<br />

C’è dei telari in Mèrica, in cui vanno<br />

ogni minuto centomila spole.<br />

E ce n’ha mille ogni città, che fanno<br />

ciascuno tanta tela in uno scatto,<br />

quanta voi non ne fate in capo all’anno.» 190<br />

Dicea la mamma: «Il braccio ch’io ricatto<br />

bel bello, vuole diventar rotello.<br />

O figlia, più non è da fare, il fatto».<br />

E tendeva col subbio e col subbiello<br />

altre fila. La bimba, lì, da un canto, 195<br />

mettea nello spoletto altro cannello.<br />

Stava lì buona come ad un incanto,<br />

in quel celliere dalla vòlta bassa,<br />

Molly, e tossiva un poco, ma soltanto<br />

26


tra il rumore dei licci e della cassa. 200<br />

IX<br />

Tra il rumore dei licci e della cassa<br />

tossiva, che la nonna non sentisse.<br />

La nonna spesso le dicea: «Ti passa?»<br />

Yes, rispondeva. Un giorno poi le disse:<br />

«Non venir qui!» Ma ella ci veniva, 205<br />

e stava lì con le pupille fisse.<br />

Godeva di guardare la giuliva<br />

danza dei licci, e di tenere in mano<br />

la navicella lucida d’oliva.<br />

Stava lì buona a’ piedi d’un soppiano; 210<br />

girava l’aspo, riempìa cannelli,<br />

e poi tossiva dentro sé pian piano.<br />

Un giorno che veniva acqua a ruscelli,<br />

fissò la nonna, e chiese: «Die?» La nonna<br />

le carezzava i morbidi capelli. 215<br />

La bimba allora piano per la gonna<br />

le salì, le si stese sui ginocchi:<br />

«Die?» «E che t’ho a dir io povera donna?»<br />

La bimba allora chiuse un poco gli occhi:<br />

«Die! Die!» La nonna sussurrò: «Dormire?» 220<br />

«No! No!» La bimba chiuse anche più gli occhi,<br />

s’abbandonò per più che non dormire,<br />

piegò le mani, sopra il petto: «Die!<br />

Die! Die!» La nonna balbettò: «Morire!"<br />

«Oh yes! Molly morire in Italy!» 225<br />

Italy allora n’ebbe tanta pena.<br />

Povera Molly! E venne un vento buono<br />

che spazzò l’aria che tornò serena.<br />

I<br />

Canto secondo<br />

Vieni, poor Molly! Vieni! Dove sono<br />

le nubi? In cielo non c’è più che poca 5<br />

nebbia, una pace, un senso di perdono,<br />

27


di quando il bimbo perdonato ha roca<br />

ancor la voce; all’angolo degli occhi<br />

c’era una stilla, e cade, mentre gioca.<br />

Vieni, poor Molly! Porta i tuoi balocchi. 10<br />

Dove sono le nubi nere nere?<br />

Qualche lagrima sgocciola dai fiocchi<br />

delle avellane, e brilla nel cadere.<br />

II<br />

Porta the doll, la bambola, che viene,<br />

povera Doll, anch’essa dal paese 15<br />

lontano, ed essa ti capisce bene.<br />

E quando tu le parli per inglese,<br />

presso le guancie pallide ti pone<br />

le sue color di rosa d’ogni mese.<br />

Dal suo lettino lucido, d’ottone, 20<br />

levala su, che l’uggia non la vinca.<br />

Non dorme, vedi. Vedi, dal cantone<br />

sgrana que’ suoi due fiori di pervinca.<br />

III<br />

O Moll e Doll, venite! Ora comincia<br />

il tempo bello. Udite un campanello 25<br />

che in mezzo al cielo dondola? È la cincia.<br />

O Moll e Doll, comincia il tempo bello.<br />

Udite lo squillar d’una fanfara<br />

che corre il cielo rapida? È il fringuello.<br />

Fringuello e cincia ognuno già prepara 30<br />

per il suo nido il mustio e il ragnatelo;<br />

e d’ora in ora primavera a gara<br />

cantano, uno sul pero, uno sul melo.<br />

IV<br />

Altre due voci ora dal monte al piano<br />

s’incontrano: uno scampanare a festa, 35<br />

con un altro più piano e più lontano.<br />

28


L’una tripudia, e i mille echi ridesta<br />

del monte, bianco ancora un po’ di neve.<br />

Di tanto in tanto ecco la voce mesta;<br />

ecco un rintocco, appena appena un breve 40<br />

colpo, che pare così lungo al cuore!<br />

No, non vorrebbe, o gente, no; ma deve.<br />

C’è là chi sposa, ma c’è qua chi muore.<br />

V<br />

Buoni villaggi che vivete intorno<br />

al verde fiume, e di comune intesa 45<br />

vi dite tutto ciò che fate il giorno!<br />

Si levano. Ora vanno tutti in chiesa,<br />

ora son tutti a desinare, ed ora<br />

c’è in ogni casa la lucerna accesa.<br />

Poi quando immersi ad aspettar l’aurora 50<br />

sembrano tutti, ecco più su più giù,<br />

più qua più là, le loro voci ancora.<br />

Pensano a quelli che non sono più...<br />

VI<br />

Lèvati, Molly. Gente odo parlare<br />

la tua parlata. Sono qui. Cammina, 55<br />

se vuoi vederle. Hanno passato il mare.<br />

Fanno un brusio nell’ora mattutina!<br />

Ma il vecchio Lupo dorme e non abbaia.<br />

È buona gente e fu già sua vicina.<br />

Vengono e vanno, su e giù dall’aia 60<br />

alla lor casa che da un pezzo è vuota.<br />

Oh! La lor casa, sotto la grondaia,<br />

non gli par brutta, ben che sia di mota!<br />

VII<br />

Sweet... Sweet... Ho inteso quel lor dolce grido<br />

dalle tue labbra... Sweet, uscendo fuori 65<br />

e sweet sweet sweet, nel ritornare al nido.<br />

29


Palpiti a volo limpidi e sonori,<br />

gorgheggi a fermo teneri e soavi,<br />

battere d’ali e battere di cuori!<br />

In questa casa che tu bad chiamavi, 70<br />

black, nera, sì, dal tempo e dal lavoro,<br />

son le lor case, là, sotto le travi,<br />

di mota sì, ma così sweet per loro!<br />

VIII<br />

O rondinella nata in oltremare!<br />

Quando vanno le rondini, e qui resta 75<br />

il nido solo, oh! Che dolente andare!<br />

Non c’è più cibo qui per loro, e mesta<br />

la terra e freddo è il cielo, tra l’affanno<br />

dei venti e lo scrosciar della tempesta.<br />

Non c’è più cibo. Vanno. Torneranno? 80<br />

Lasciano la lor casa senza porta.<br />

Tornano tutte al rifiorir dell’anno!<br />

Quella che no, di’ che non può; ch’è morta.<br />

IX<br />

Quando tu sei venuta, o rondinella,<br />

t’hanno pur salutata le campane; 85<br />

ti venne incontro il nonno con l’ombrella,<br />

ti s’è strusciato alle gambine il cane.<br />

Pioveva; ma tu, bimba eri coperta;<br />

trovasti in casa il latte caldo e il pane.<br />

Il tuo nonno ansimava su per l’erta, 90<br />

la tua nonna pregava al focolare.<br />

Brutta la casa, sì ma era aperta,<br />

o mia figliuola nata in oltremare!<br />

X<br />

Ha la pena da parte, oggi, e la vita<br />

gli sente, e il capo, alla tua nonna, e il cuore; 95<br />

30


e siede al focolare infreddolita.<br />

Ieri si colse malva ed erbe more.<br />

Oggi sta peggio. Ha due rosette rosse,<br />

che non le ha fatte il fuoco che rimuore.<br />

Molly, tu vieni e guardi. Ecco, ha la tosse 100<br />

che avevi tu. Tosse ogni tanto un po’.<br />

Sta lì nel canto come non ci fosse.<br />

E non tesse e non fila. Oggi non può.<br />

XI<br />

Ha tessuto e filato, anche ha zappato,<br />

anche ha vangato, anche ha portato, oh! tanto 105<br />

che adesso stenta a riavere il fiato!<br />

O dolce Molly, tu le porti accanto<br />

Doll nel lettino lucido, e tu resti<br />

con loro... Tanto faticato e pianto!<br />

Pianto in vedere i figli o senza vesti 110<br />

o senza scarpe o senza pane! Pianto<br />

poi di nascosto, per non far più mesti<br />

i figli che... diceano addio, col canto!<br />

XII<br />

Addio, dunque! Ed anch’essa, Italy, vede,<br />

Italy piange. Hanno un po’ più fardello 115<br />

che le rondini, e meno hanno di fede.<br />

Si muove con un muglio alto il vascello.<br />

Essi, in disparte, con lo sguardo vano,<br />

mangiano qua e là pane e coltello.<br />

E alcun li tende, il pane da una mano, 120<br />

l’altro dall’altra, torbido ed anelo,<br />

al patrio lido, sempre più lontano<br />

e più celeste, fin che si fa cielo.<br />

XIII<br />

Cielo, e non altro, cielo alto e profondo,<br />

cielo deserto. O patria delle stelle! 125<br />

31


O sola patria agli orfani del mondo!<br />

Vanno serrando i denti e le mascelle,<br />

serrando dentro il cuore una minaccia<br />

ribelle, e un pianto forse più ribelle.<br />

Offrono cheap la roba, cheap le braccia, 130<br />

indifferenti al tacito diniego;<br />

e cheap la vita, e tutto cheap; e in faccia<br />

no, dietro mormorare odono: Dego!<br />

XIV<br />

Ma senti, Molly? Dopo pioggie e brume<br />

e nevi e ghiacci, con la sua gran voce 135<br />

canta passando a piè dei monti il fiume.<br />

Passa sotto la gran Pania alla Croce<br />

cantando, ed una lunga nube appare,<br />

bianca di sole, al suo passar veloce.<br />

Passa cantando: Al mare! Al mare! Al mare! 140<br />

e l’Alpe azzurra ne rimbomba in cerchio,<br />

e il cielo azzurro vede là fumare<br />

l’alito che si lascia addietro il Serchio.<br />

XV<br />

O fiumi, o delle rupi e dei ghiacciai<br />

figli rubesti, che precipitate 145<br />

a pazza corsa senza posar mai,<br />

con l’eterno fragor delle cascate,<br />

ruzzando come giovani giganti,<br />

senza perché, per atterrir le fate<br />

delle montagne; e trascinate infranti 150<br />

boschi e tuguri, urtate le città,<br />

struggete i campi, sempre avanti, avanti,<br />

avanti, pieni di serenità...<br />

XVI<br />

Acqua perenne, ottima e pessima, ora<br />

morte ora vita, acqua, diventa luce! 155<br />

32


Acqua, diventa fiamma! Acqua, lavora!<br />

Lavora dove l’uomo ti conduce;<br />

e veemente come l’uragano,<br />

vigile come femmina che cuce,<br />

trasforma il ferro, il lino, il legno, il grano; 160<br />

manda i pesanti traini come spole<br />

labili; rendi l’operato umano<br />

facile e grande come quel del Sole!<br />

XVII<br />

La madre li vuol tutti alla sua mensa<br />

i figli suoi. Qual madre è mai, che gli uni 165<br />

sazia, ed a gli altri, a tanti, ai più, non pensa?<br />

Siedono a lungo qua e là digiuni;<br />

tacciono, tralasciati nel banchetto<br />

patrio, come bastardi, ombre, nessuni;<br />

guardano intorno, e quindi sé nel petto; 170<br />

sentono su la lingua arida il sale<br />

delle lagrime; alfine, a capo eretto,<br />

escono, poi fuggono, poi: - Sii male...<br />

XVIII<br />

Non maledite! Vostra madre piange<br />

su voi, che ai salci sospendete i gravi 175<br />

picconi, in riva all’Obi, al Congo, al Gange.<br />

Ma d’ogni terra ove è sudor di schiavi,<br />

di sottoterra ove è stridor di denti,<br />

dal ponte ingombro delle nere navi,<br />

vi chiamerà l’antica madre, o genti, 180<br />

in una sfolgorante alba che viene,<br />

con un suo grande ululo ai quattro venti<br />

fatto balzare dalle sue sirene.<br />

XIX<br />

Non piangere, poor Molly! Esci, fa’ piano,<br />

lascia la nonna lì sotto il lenzuolo 185<br />

33


di tela grossa ch’ella fece a mano.<br />

T’amava, oh! sì! Tu ne imparavi a volo<br />

qualche parola bella che balbetti:<br />

essa da te solo quel die, die solo!<br />

Lascia lì Doll, lasciali accosto i letti, 190<br />

piccolo e grande. Doll è savia, e tace,<br />

né dorme: ha gli occhi aperti e par che aspetti<br />

che li apra l’altra, ch’ora dorme in pace.<br />

XX<br />

Prima d’andare, vieni al camposanto,<br />

s’hai da ridire come qua si tiene. 195<br />

Stridono i bombi intorno ai fior d’acanto,<br />

ronzano l’api intorno le verbene.<br />

E qui tra tanto sussurrio riposa<br />

la cara nonna che ti volle bene.<br />

O Molly! O Molly! Prendi su qualcosa, 200<br />

prima d’andare, e portalo con te.<br />

Non un geranio né un boccio di rosa,<br />

prendi sol un NON-TI-SCORDAR-DI-ME!<br />

«Ioe, bona cianza!...» «Ghita, state bene!...»<br />

«Good bye» «L’avete presa la ticchetta?» 205<br />

«Oh yes» «Che barco?» «Il Prinzessin Irene»<br />

L’un dopo l’altro dava a Ioe la stretta<br />

lunga di mano. «Salutate il tale.»<br />

«Yes, servirò.» «Come partite in fretta!»<br />

Scendean le donne in zoccoli le scale 210<br />

per veder Ghita. Sopra il suo cappello<br />

c’era una fifa con aperte l’ale.<br />

«Se vedete il mi’ babbo... il mi’ fratello...<br />

il mi’ cognato...» «Oh yes.» «Un bel passaggio<br />

vi tocca, o Ghita. Il tempo è fermo al bello.» 215<br />

«Oh yes.» Facea pur bello! Ogni villaggio<br />

ridea nel sole sopra le colline.<br />

Sfiorian le rose da’ rosai di maggio.<br />

Sweet sweet... era un sussurro senza fine<br />

34


nel cielo azzurro. Rosea, bionda, e mesta, 220<br />

Molly era in mezzo ai bimbi e alle bambine.<br />

Il nonno, solo, in là volgea la testa<br />

bianca. Sonava intorno mezzodì.<br />

Chiedeano i bimbi con vocìo di festa:<br />

"Tornerai, Molly?" Rispondeva: – Sì! – 225<br />

_______________________________<br />

Nota a Italy scritta da Giovanni Pascoli<br />

Il lettore non ha certo bisogno dei miei lumi per leggere e interpretare il povero inglese de’ miei personaggi. Gioverà<br />

tuttavia ricordare la pronuncia netta in a o aa che hanno, nella bocca dei nostri reduci di Mèrica, le parole come<br />

flavour (pr. fléva), never (pr. néva), steamer (pr. stima) e simili. Il grido dei figurinai, Buy images (= comprate figure)<br />

suona, in bocca loro, bai imigìs. E cheap (pr. cip) vale: a buon mercato. Molte parole inglesi sono da loro accomodate<br />

a italiane: bisini (per business) = affari; fruttistendo (per fruitstand) = bottega di fruttaiolo; checche (per cakes) =<br />

paste, pasticci; candi (da candy) = canditi; scrima (per ice-cream) = gelato di crema; baschetto (per basquet) =<br />

paniere da metterci le figure; salone (per saloon) = trattoria, bettola; bordi (da board) = pensioni, abbonati; stima<br />

(per steamer) = piroscafo; ticchetta (per ticket) = biglietto; cianza (per chance) = sorte, occasione. Barco dicono per<br />

bastimento.<br />

Molly è vezzeggiativo casereccio per Mary o Maria; doll significa bambola, ed è anche vezzeggiativo di Dorothy.<br />

Sweet (pr. suìt) vale dolce, ed è, per dir così, consacrato a home. Casa mia! Casa mia!<br />

Brutta parola, dopo queste così dolci, è dego, così pronunciata. Deriva, mi pare, da dagger = pugnale.<br />

Quanto alle rime con Italy, mi difenda, se accade, Shelley che rima, per esempio, she con poesy e die con purity (The<br />

Witch of Atlas; 26, 36).<br />

Aggiungiamo alla nota linguistica di Pascoli alcune osservazioni: baschetto (il canestro tradizionale dei figurinai<br />

lucchesi che vendevano statuine di gesso) al v.142 del I canto è adattamento di basket e non di basquet come è detto<br />

nella Nota. L’etimo di dego (v.133 canto II) non è quello proposto da Pascoli: si tratta più probabilmente di una<br />

deformazione di Diego, nome proprio molto diffuso in Spagna. Per estensione, il termine indica in generale i maschi<br />

latini; ha una forte connotazione negativa.<br />

Canto primo<br />

raminga: Costretto a peregrinare senza sosta, migrante.<br />

1 Caprona: Caprona di Castelvecchio, paesino della Garfagnana.<br />

2 per l’erta: sulla salita.<br />

3 Ohio: si noti la rima fonica e non visiva con febbraio, basata sulla pronuncia della parola in inglese.<br />

12 bionde lunghe anella: biondi capelli inanellati.<br />

13 talla: ramo che si trapianta, appartiene al lessico agricolo toscano; qui si intende come germoglio (dell’antico<br />

nucleo familiare).<br />

15 galla: protuberanza, rigonfiamento vuoto, e dunque privo di peso.<br />

18 l’Avemaria: è un’indicazione temporale, l’ora in cui la campana suona l’Avemaria è il tramonto.<br />

27 il vecchio Lupo: è il cane di casa che, come nel topos letterario del nostos, cioè il ritorno a casa dell’eroe (si veda<br />

l’Odissea), riconosce il padrone e non abbaia.<br />

32 accallato : socchiuso, accostato (è vocabolo del lucchese e del contado di Pistoia).<br />

36 molgere: mungere (dialettale).<br />

44 rosume: resti del fieno (è lucchese, ma ha tradizione letteraria); la nonna giustifica il ritardo con il lavoro svolto<br />

nella stalla.<br />

49 canapugli : fusti della canapa (è voce toscana).<br />

55 pennelletto: grembiule (è dialetto lucchese).<br />

56 fiero : in buona salute, in gamba (accezione lucchese).<br />

58 banco: armadio per la biancheria.<br />

60 un moro: l’immagine di un pescatore di colore.<br />

64 sito: puzzo, odore di muffa (è voce toscana).<br />

65 abituro: la povera abitazione.<br />

71 un luì: un uccellino, il cui nome onomatopeico deriva dal suono del canto.<br />

35


72-73 «a chicken-house» «…for mice and rats» : espressioni in inglese usate dalla nipotina, che disprezza l’abitazione<br />

definendola «un pollaio per topi e ratti», mentre la nonna non capisce e la paragona ancora ad un uccellino canterino.<br />

75 «bad country, Ioe, your italy”: si noti l’estraneità della bambina che definisce l’Italia «terra cattiva» e soprattutto si<br />

rivolge a Joe chiamandola «la tua Italia».<br />

83 Omo-morto: è il nome attribuito dal popolo al monte Pania sulle Alpi Apuane.<br />

84 parea…Orso: il Rio dell’Orso, torrente di Caprona, scorre come singhiozzando.<br />

86-87 lazzo cigolìo: è una sinestesia, riferita al rumore stridente, ma lazzo è aggettivo adeguato al senso del gusto.<br />

95 borracciol : piccolo telo, tovagliolo (è diminutivo di borraccio, voce di origine emiliana).<br />

98 nieva: nevica (è forma lucchese).<br />

100 Pai con fleva: torta con gli aromi; compaiono qui le prime forme di inglese italianizzato dai termini inglesi pie e<br />

flavour<br />

103 «Ioe…never?»: La bambina non capisce e chiede «Ioe, che significa nieva? Mai? Mai? Mai?».<br />

105 «one month…Molly»: «un mese o due, povera Molly!»; la bambina è venuta in Italia per guarire.<br />

106 scianto: spasso e riposo dopo il lavoro (è lucchese).<br />

112-118 «Oh yes….la stima»: Joe risponde alle domande dei visitatori riportando notizie dei loro parenti in America.<br />

116 il baschetto: paniere (vedi note dell’autore).<br />

118 stima: nave a vapore (da steamer).<br />

123-124 con un grido…bocca: gridando parole straniere.<br />

134-135 un altro…che canta: sentire un altro emigrante che canta nella tua stessa lingua è un sollievo.<br />

135-137 Tu non sai…concime: la voce amica spinge alla fantasia di credere di essere tornati tra le Alpi Apuane, in<br />

patria al punto che sembra che a cantare sia il gallo di casa.<br />

138 La Mi’ Merica: gli emigranti che, incontrato il compaesano ricordano, sono presi dalla nostalgia del loro viaggio in<br />

America.<br />

139 coke: carbone.<br />

140 «si rià poor fellow»: «si riprende, povero diavolo!»<br />

149 «You like this country»: «Ti piace questo paese.»<br />

150 bad Italy: cattiva Italia.<br />

207-8 giuliva … licci: l’allegro movimento delle parti del telaio che si alzano e abbassano portando i fili dell’ordito del<br />

tessuto.<br />

209 navicella: navetta o spola, è lo strumento che contiene e permette di lavorare il filo facendolo passare tra i fili<br />

del’ordito.<br />

210 soppiano: madia per tenere il grano.<br />

211 aspo… cannelli: elementi della struttura del telaio.<br />

217 Die?: La bambina cerca di comunicare con la nonna per spiegarle di avere una malattia grave che conduce alla<br />

morte (die, morire). La comunicazione è complicata, ma riesce.<br />

Canto secondo<br />

13 avellane: noccioli.<br />

21 l’uggia: fastidio, inquietudine.<br />

26 cincia: tipo di uccello.<br />

31 mustio: muschio (variante popolare); ragnatelo: variante di ragnatela, tela del ragno.<br />

36 tripudia: esprime gioia e allegria.<br />

63 mota: fango.<br />

64 « Sweet... Sweet...»: «Dolce … Dolce…», ma per onomatopea è anche il suono degli uccelli che tornano al nido,<br />

immagine fondamentale nell’immaginario simbolico di Pascoli.<br />

99 rimuore: muore, si spegne.<br />

117 muglio: mugghio, muggito intenso e prolungato (variante popolare).<br />

121 torbido ed anelo: impuro e concitato, ansante.<br />

131 cheap: a buon mercato (vedi nota dell’autore).<br />

137 Pania della Croce: cima delle Alpi Apuane, di antica tradizione letteraria a partire da Dante, Inferno, XXXII.<br />

145 rubesti: gagliardi, impetuosi; è riferito ai fiumi, figli impetuosi delle rupi e dei ghiacciai.<br />

148 ruzzando: sbizzarendosi, giocando in modo spensierato.<br />

150-151 infranti boschi: boschi colpiti, frantumati; prosegue l’immagine dei fiumi che come giganti fanciulli<br />

distruggono il paesaggio nel loro impetuoso scendere a valle.<br />

161-162 manda … labili: trasporta (o muove) i carichi pesanti: è riferito all’azione dell’acqua e al lavoro umano che<br />

ne sfrutta la potenza<br />

36


Italy, inserito a conclusione della raccolta “Primi Poemetti” del 1904, si apre su una scena di<br />

ricongiungimento familiare: vi si racconta il ritorno a casa di un nucleo emigrato, Joe, Ghita e la<br />

piccola nipotina Maria, detta Molly, che rientrano a Caprona, in Lucchesia, nella casa paterna dove<br />

vivono i loro vecchi, una famiglia contadina.<br />

Procedono lentamente, in un’atmosfera uggiosa, mentre le campane suonano lontane: la bambina<br />

bionda (e il colore dei capelli è il primo tratto “straniero” che incontriamo) è in braccio all’uomo, le<br />

scale sono un po’ diroccate, l’uscio della casa buio come una grotta. C’è uno strano silenzio, e un<br />

palpabile disagio, dovuto non solo alla stanchezza del lungo viaggio oltreoceano.<br />

Il primo segnale esplicito di questo disagio è dato dall’incomprensione linguistica fra gli<br />

"americanizzati", che hanno quasi disimparato l’italiano, e la famiglia, che non conosce l’inglese.<br />

La cosa è complicata anche dalla trama dei diversi piani linguistici, in cui tra i due distanti poli<br />

dell’italiano e dell’ inglese, intervengono da un lato i termini e i modi di dire arcaici e dialettali<br />

(come accallato, scianto, rosume, nieva) e dall’altro il linguaggio misto degli italo-americani<br />

(checche, candi, scrima, fruttistendo, bisini) .<br />

Agli estremi di questo complesso mondo linguistico, come esempio eclatante della separatezza tra<br />

chi è andato via e chi è rimasto, stanno la nonna e la nipote, l’una che capisce solo il dialetto, l’altra<br />

che parla solo inglese: mentre quest’ultima esprime i suoi commenti negativi sulla casa (che le<br />

appare come a chicken house, cioè un pollaio) la nonna la vezzeggia e sente le sue parole come un<br />

dolce cinguettio di uccelli (un piccolo luì). Ma saranno proprio loro due, alla fine del primo canto,<br />

anche attraverso una goffa comunicazione di tipo onomatopeico e gestuale (si vedano i versi 214-<br />

225) a segnare il progressivo avvicinamento sentimentale fra i due mondi: tra la vecchia contadina<br />

e la bimba si realizza una forma di comprensione superiore e intuitiva, una sorta di empatia<br />

reciproca, che culmina nel reciproco comprendersi intorno al tema della morte. Simbolicamente,<br />

alla fine del poemetto, tra le due si realizzerà anche uno scambio di destini: la nonna assumerà su di<br />

sé i sintomi della malattia della piccola e morirà al suo posto.<br />

Intorno a questa relazione, che è centrale, se ne dipanano molte altre: l’incontro tra i due modelli di<br />

vita, quello chiuso e protettivo del paese, ancora legato ad usanze dure e arcaiche (dal pane nero<br />

fatto in casa al filare a mano) ma a stretto contatto con la natura e i suoi cicli (pioggia e primavera<br />

si alternano e impongono il ritmo alla vita quotidiana) e quello adottato e raccontato dagli<br />

emigranti, che insiste sul lavoro, sulle opportunità di successo, ma anche sullo spaesamento<br />

connesso all’ampiezza dei luoghi evocati , non è un incontro semplice: dura è la vita in paese, ma<br />

non meno dura è quella dell’emigrante, di quell’“Italia raminga” costretta brutalmente<br />

all’abbandono del “nido” familiare.<br />

Il tema centrale, politico, è qui. Pascoli vuole raccontare la sofferenza dovuta all’emigrazione:<br />

sofferenza e nostalgia di chi parte e di chi resta, ma anche di chi ritorna e lascia altri in America;<br />

significativo il continuo bisogno di notizie, di informazioni che la comunità garfagnina sente e<br />

richiede, quasi a voler mantenere quel filo di affetti che l’immensa lontananza ha spezzato.<br />

Pascoli si rivolge ad Italy, la nazione e la personifica: Italy, che all’offesa di essere mal giudicata<br />

dalla bambina, reagisce con la pioggia e il freddo (I, v.76), Italy che vede, Italy che piange (II, 114-<br />

115), ma che secondo il poeta non si occupa abbastanza dei suoi figli.<br />

È nel secondo canto, dopo che il lungo tempo piovoso ha ceduto a una primavera splendente e al<br />

ritorno delle rondini (intimamente assimilate a Molly), che si annuncia la tosse e la malattia della<br />

nonna; a questo punto la narrazione subisce una battuta d’arresto, e lascia spazio a una lunga<br />

digressione (II, sezioni XV-XVIII) affidata alla voce del poeta, dai toni sgomenti e nel contempo<br />

visionari, in cui i mali dell’emigrazione sono introdotti attraverso l’equazione fra l’immagine della<br />

madre, che vuole tutti i suoi figli accanto a sé nel nido, e quella della patria (l’"antica madre") che<br />

deve fare altrettanto: così l’Italia dovrebbe richiamare tutte le sue genti dalle terre lontane dove<br />

lavorano, in Africa, nelle Americhe o in India, in schiavitù, per riaccoglierle "in una sfolgorante<br />

alba che viene" (II,v. 180).<br />

37


Questa presa di posizione ben s’inquadra nelle convinzioni politiche che Pascoli andava elaborando<br />

in quegli anni, riassumibili nella teoria del "socialismo patriottico" e influenzate dall’acceso<br />

nazionalismo di Enrico Corradini: Pascoli dichiarava di sentirsi "profondamente socialista, ma<br />

socialista dell’umanità, non d’una classe"; egli passava così dall’ideologia del nido a quella<br />

nazionalista, spostando sostanzialmente i termini dell’analisi marxista dai rapporti di forza fra le<br />

classi sociali alla lotta fra le diverse nazioni.<br />

Di lì a poco, poiché l’Italia gli appare il più proletario tra i popoli, scriverà il discorso La grande<br />

proletaria si è mossa (1911), a favore della conquista coloniale della Libia: l’Italia, la nazione<br />

povera (il nido da cui le rondini si allontanano perché "non c’è più cibo", II, 80), non è<br />

condannabile secondo l’autore se cerca un riscatto attraverso le conquiste coloniali, che renda<br />

finalmente giustizia e metta fine alle miserie dell’emigrazione.<br />

Ma non avrebbe senso attribuire centralità al tema politico nel giudicare questo poemetto: è infatti<br />

nella resa stilistica di questi contenuti, nella capacità di inventare soluzioni linguistiche ed<br />

espressive assolutamente nuove che Italy si distingue, configurandosi come uno dei testi più<br />

originali che siano stati scritti prima delle sperimentazioni avanguardistiche.<br />

L’emigrazione è sentita dal Pascoli anche e soprattutto dal punto di vista linguistico, come perdita<br />

dell’idioma materno: e nei confronti del nuovo pastiche linguistico degli emigranti, Italy mostra<br />

una sorta di attrazione, che emerge a vari livelli: in sede di rima, fin dall’inizio del canto primo<br />

(febbraio che rima con Ohio, luì che rima con Italy), e in sede di trasgressione alla norma monolinguistica,<br />

attraverso soluzioni sperimentali come la mescolanza inglese-dialetto (si veda nel canto<br />

secondo, XX, 11, bona cianza, dal toscano bona e dall’inglese maccheronicamente italianizzato<br />

chance, ‘fortuna’). Introdurre nel linguaggio letterario parole straniere o termini dei gerghi (la<br />

lingua post-grammaticale), mescolandoli con la lingua tutta pre-grammaticale dell’onomatopea è<br />

quell’operazione che Gianfranco Contini giudicherà come capolavoro del pluristilismo e<br />

plurilinguismo pascoliano.<br />

A noi basti notare che non si tratta di un’operazione gratuita e puramente virtuosistica, ma che essa<br />

nasce per Pascoli da una necessità poetica profondamente sentita: testimoniare la lacerazione che il<br />

fenomeno migratorio produce e nel contempo la possibilità di ricostituzione del nido, sulla base del<br />

reciproco integrarsi degli affetti come dei linguaggi; ed è su questa speranza che si chiude il canto,<br />

con l’affermazione del profondo vincolo che ormai lega la piccola Molly alla terra dei suoi avi:<br />

«Tornerai, Molly» Rispondea: - Sì!-<br />

Il tema dell’emigrazione ritornerà con altrettanta vivezza in altri autori del Novecento: ci piace<br />

introdurre per confronto intertestuale un passo tratto da una delle più belle liriche-racconto di<br />

Cesare Pavese, Mari del sud .<br />

Camminiamo una sera sul fianco di un colle,<br />

in silenzio. Nell'ombra del tardo crepuscolo<br />

mio cugino è un gigante vestito di bianco,<br />

che si muove pacato, abbronzato nel volto,<br />

taciturno. Tacere è la nostra virtù.<br />

Qualche nostro antenato dev'essere stato ben solo<br />

- un grand'uomo tra idioti o un povero folle -<br />

per insegnare ai suoi tanto silenzio.<br />

Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto<br />

se salivo con lui: dalla vetta si scorge<br />

nelle notti serene il riflesso del faro<br />

lontano, di Torino. «Tu che abiti a Torino... »<br />

mi ha detto «...ma hai ragione. La vita va vissuta<br />

lontano dal paese: si profitta e si gode<br />

e poi, quando si torna, come me a quarant'anni,<br />

38


si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono».<br />

Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,<br />

ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre<br />

di questo stesso colle, è scabro tanto<br />

che vent'anni di idiomi e di oceani diversi<br />

non gliel'hanno scalfito. E cammina per l'erta<br />

con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,<br />

usare ai contadini un poco stanchi.<br />

[da Cesare Pavese, Poesie edite e inedite, a cura di Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1962, p.11]<br />

39


Gabriele D’Annunzio, La sera fiesolana<br />

[D’Annunzio, Versi d’Amore e di Gloria, “Alcyone”, pp. 575-7]<br />

La lode alla sera si dilata attraverso la molteplicità sensoriale e la natura si umanizza nella<br />

raccolta Alcyone (III libro delle “Laudi del cielo, del mare della terra e degli eroi”) di cui questa<br />

lirica costituisce il primo testo (composto nel 1899). E la descrizione letteraria del paesaggio<br />

serale, che il poeta indirizza alla donna amata, diventa immersione panica nello spettacolo<br />

grandioso della natura<br />

Fresche le mie parole ne la sera<br />

ti sien come il fruscío che fan le foglie<br />

del gelso ne la man di chi le coglie<br />

silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta<br />

su l'alta scala che s'annera 5<br />

contro il fusto che s'inargenta<br />

con le sue rame spoglie<br />

mentre la Luna è prossima a le soglie<br />

cerule e par che innanzi a sé distenda un velo<br />

ove il nostro sogno si giace 10<br />

e par che la campagna già si senta<br />

da lei sommersa nel notturno gelo<br />

e da lei beva la sperata pace<br />

senza vederla.<br />

Laudata sii pel tuo viso di perla, 15<br />

o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace<br />

l'acqua del cielo!<br />

Dolci le mie parole ne la sera<br />

ti sien come la pioggia che bruiva<br />

tepida e fuggitiva, 20<br />

commiato lacrimoso de la primavera,<br />

su i gelsi e su gli olmi e su le viti<br />

e su i pini dai novelli rosei diti<br />

che giocano con l'aura che si perde,<br />

e su 'l grano che non è biondo ancóra 25<br />

e non è verde,<br />

e su 'l fieno che già patì la falce<br />

e trascolora,<br />

e su gli olivi, su i fratelli olivi<br />

che fan di santità pallidi i clivi 30<br />

e sorridenti.<br />

Laudata sii per le tue vesti aulenti,<br />

o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce<br />

il fien che odora!<br />

Io ti dirò verso quali reami 35<br />

d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti<br />

eterne a l'ombra de gli antichi rami<br />

parlano nel mistero sacro dei monti;<br />

40


e ti dirò per qual segreto 40<br />

le colline su i limpidi orizzonti<br />

s'incúrvino come labbra che un divieto<br />

chiuda, e perché la volontà di dire<br />

le faccia belle<br />

oltre ogni uman desire<br />

e nel silenzio lor sempre novelle 45<br />

consolatrici, sì che pare<br />

che ogni sera l'anima le possa amare<br />

d'amor più forte.<br />

Laudata sii per la tua pura morte<br />

o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare 50<br />

le prime stelle!<br />

1 fresche le mie parole: è una sinestesia.<br />

5 s’annera: diventa scura con l’arrivo della sera.<br />

6 s’inargenta: il fusto diventa alla luce della luna di un colore argenteo.<br />

8-9. soglie cerule: l’orizzonte (le soglie del cielo) azzurro.<br />

12. notturno gelo: citazione dantesca (Inferno II, 127: “Quali fioretti dal notturno gelo”).<br />

15 Laudata…o Sera: la formula deriva dal Cantico delle creature di Francesco d’Assisi e la sera, personificata (qui ha<br />

viso perlaceo, occhi umidi in cui si raccoglie la pioggia), sostituisce il Dio cristiano lì celebrato.<br />

19 bruiva: il verbo è onomatopeico e derivato dal francese “bruire”: fare rumore, picchiettare<br />

23 novelli rosei diti: i germogli appena spuntati, sottili e rosati, appaiono come dita.<br />

25-26 non è biondo…verde: il grano non è ancora maturo ma non è più acerbo, siamo in piena maturazione.<br />

27 patì la falce: è già stato tagliato.<br />

29-30 I fratelli olivi…clivi: ancora un riferimento al cantico di S.Francesco in cui gli elementi della natura erano<br />

chiamati “fratelli” e “sorelle”; i colli (clivi) acquistano un colore pallido e dunque vicino a quello dei volti ascetici dei<br />

santi. Forse il riferimento è anche all’ulivo come pianta sacra a Minerva.<br />

32-33 pel cinto…odora: per la cintura che ti cinge come il salice cinge il fieno raccolto in fasci.<br />

35-36 verso quali …fiume: il fiume Arno sembra indicare un percorso fiabesco verso il regno dell’amore.<br />

36-38 le cui fonti…dei monti: le fonti del fiume, antichissime e protette da alberi altrettanto antichi, sembrano emettere<br />

parole che si perdono nel mistero dei boschi fitti dell’Appennino. Lo scenario appare divinizzato e il mormorio della<br />

fonte è come una parola misterica.<br />

39 per qual segreto: per svelare chissà quale misterioso segreto.<br />

42 volontà di dire: l’ansia di svelare il segreto. Le colline di Fiesole sono umanizzate, come labbra dischiuse pronte a<br />

rivelare il loro messaggio nascosto.<br />

45-46 Sempre novelle consolatrici: anche se mute le colline trasmettono un messaggio di consolazione e pace sempre<br />

nuovo a chi le contempla.<br />

49 pura morte: il momento in cui la sera si fa notte; è un riferimento ulteriore al cantico che pure si concludeva con la<br />

lode di “sorella morte”.<br />

SCHEDA METRICA<br />

Tre strofe è di quattordici versi di varia lunghezza, che vanno dall’endecasillabo al quinario che conclude ogni<br />

strofa, caratterizzati da una fitta trama di rime che non segue uno schema fisso. Molto utilizzate le rime baciate,<br />

sia all’interno della strofa, sia come collegamento al primo verso della ripresa di tre versi in cui si ripete la<br />

formula “Laudata sii…/O Sera”. I tre versi svolgono la funzione di raccordo tra le parti e sono un<br />

endecasillabo che si lega in rima baciata al quinario di fine strofa precedente, un verso ipermetro formato da un<br />

endecasillabo e da un quinario (o due settenari) e infine un quinario.<br />

41


La sera fiesolana fu composta da Gabriele D’Annunzio il 17 giugno 1899 durante il soggiorno<br />

estivo nella residenza di Capponcina . E in genere tutte le liriche di “Alcione” si collocano<br />

nell’arco temporale dell’estate, e rappresentano una tregua, un ripiegamento intimo nell’abbraccio<br />

della Natura.<br />

La poesia si articola in tre momenti, che, secondo la stessa suddivisione proposta da D’Annunzio,<br />

in una prima stesura, avevano ciascuna un sottotitolo: “La natività della Luna”, “La pioggia di<br />

giugno”, “Le colline”.<br />

La ripresa della lode alla Sera, che separa i tre momenti, svolge dunque la funzione di raccordo tra<br />

le singole strofe nelle quali non si compie una vicenda, né c’è un centro narrativo preciso, bensì un<br />

fluire di immagini che generano una sorta di melodia musicale. Nelle prime due strofe domina il<br />

paragone sinestetico tra le qualità che le parole acquistano nel momento magico della Sera<br />

(fresche, dolci), e un secondo termine di paragone (il fruscio delle foglie, la pioggia) che si dilata<br />

nella descrizione dello spettacolo della Natura.<br />

Le parole del poeta, dunque, che si presenta come pura “voce”, sono fresche come il fruscio delle<br />

foglie del gelso, raccolte dal meticoloso contadino mentre la luce lunare, diffondendosi per la<br />

campagna, la sommerge in un’atmosfera di pace. Nella seconda strofa le parole sono dolci come la<br />

pioggia di giugno che cade sui campi e genera un “concerto” onomatopeico, reso con le numerose<br />

rime in -iva, -ivi e allitterazioni della vocale -i (olmi, viti pini, diti, ecc). Sono effetti sonori che<br />

alludono alla musica segreta delle cose, alla magia della sera come rivelazione.<br />

Al centro dell’ultima strofa vi è dunque la volontà del poeta di svelare i segreti racchiusi dalla<br />

natura stessa, umanizzata: in particolare, dal fiume Arno e dall’ondosa fisionomia dei colli<br />

fiorentini, che sembrano labbra chiuse nel cui silenzio il fascino si rinnova, riappacifica gli animi<br />

consolandoli e acquista sempre più vigore amoroso.<br />

In tutte le riprese, la sera è umanizzata e assume le sembianze di una donna amata, di cui si tesse la<br />

lode per il suo viso di perla, per il suo sguardo, per i vestiti profumati e per la cintura, per la<br />

suggestione dell’ attesa che essa comunica. Essa è, infatti, il momento magico che permette<br />

all’autore e all’amata, presenza indefinita che lo accompagna, di vivere l’esperienza di<br />

compenetrazione tra l’atto linguistico della parola e le spettacolari manifestazioni della Natura.<br />

Sono dunque due i protagonisti di questo testo: la sera e la parola poetica; la prima è il medium,<br />

senza il quale non sarebbe possibile alcuna opzione trasfigurativa della parola.<br />

La coppia costituita dal poeta e dall’amata è al contempo spettatrice e protagonista di<br />

quest’esperienza di trasfigurazione; e le parole, intese come espressione poetica in quanto “volontà<br />

di dire”, non solo sono punto di partenza, ma sono l’elemento portante dell’esperienza stessa,<br />

giacché in un rapporto di reciproco scambio l’espressione linguistica ricava dall’immersione nella<br />

Natura un ampliamento delle sue capacità connotative.<br />

La poesia, così, diviene capace di cogliere l’arcano, “il mistero sacro dei monti” e “il sacro delle<br />

colline”, diviene strumento rilevatore del mistero celato nella Natura, perché si è realizzata l’unione<br />

miracolosa tra uomo, poesia e natura.<br />

A sviluppare quanto si è detto, convergono tutta la struttura metrica, l’elaborazione stilistica, i<br />

campi lessicali e simbolici: tutto si traduce in una vera e propria trama musicale. Le suggestioni<br />

foniche che fanno da supporto alle rime sono infatti fittissime: allitterazioni come quella d’inizio<br />

lirica, con la ripetizione della lettera f che acquista un valore onomatopeico nel riprodurre la<br />

sensazione del fruscio delle foglie, simmetrie ritmiche come quelle offerte nella II strofa dal<br />

costrutto sintattico "bruiva su… e su… e su… e su…" e come l’utilizzo delle vocali ì ed e che si<br />

susseguono per tutta la strofa con i loro limpidi toni. Tutta la poesia è una sorta di laboratorio<br />

artistico, che si rinnoverà anche nel successivo capolavoro lirico di D’Annunzio: La pioggia nel<br />

pineto.<br />

42


Sotto l’aspetto lessicale troviamo nella lirica una lingua ricercata e colta, intessuta di citazioni:<br />

parole aristocratiche e forme arcaiche, forme rare al posto di quelle semplici (opra per “opera” o<br />

tepida per “tiepida") fino a parole del tutto lontane dalla lingua comune come cerule, o desire. Si<br />

noti poi, anche, la ripresa di stilemi propri della tradizione stilnovistica come il “viso di perla” (e<br />

gli stessi aggettivi fresche e dolci sono un richiamo alla celebre canzone petrarchesca Chiare<br />

fresche e dolci acque)<br />

In una poesia di tanta raffinatezza stilistica non può mancare un ampio campione di figure retoriche<br />

che ne ampliano il significato, coinvolgendo tutte le sfere sensoriali. Si è detto delle sinestesie, che<br />

poggiano sul confronto tra sensazioni che attengono a sfere sensoriali differenti, associando, ad<br />

esempio, una realtà acustica come le “parole” ad una sensazione tattile, “il fruscio delle foglie del<br />

gelso ne le mani”. Nessi metaforici invece sono nell’immagine della pioggia come pianto di<br />

congedo verso la primavera ormai passata, secondo un topos letterario tradizionale che si fondava<br />

sul parallelo tra le gocce e le lacrime. Giochi cromatici si susseguono poi per tutto il<br />

componimento: il nero della scala e l’argento del tronco che acquistano intensità col procedere della<br />

sera, il colore del grano a metà tra il biondo e il verde, l’azzurro del cielo che accoglie la soffusa<br />

luce lunare, il rosa delle dita nella personificazione dei germogli dei pini.<br />

E la personificazione è l’espediente retorico che ha maggiore rilevanza nell’economia del<br />

componimento: come la luna si fa donna, così la campagna prova il sentimento della speranza e la<br />

“beve”, i germogli dei pini sono dita che giocano con l’aria, le fonti parlano e i colli sorridono.<br />

L’analisi dei campi semantici e simbolici, infine, rimanda a due sfere solo all’apparenza<br />

contrapposte: in primis alla sfera del sacro (il contadino che si attarda sospeso in un’atmosfera<br />

magica e rituale, la Luna, che appare quasi come un’entità divina, il “mistero sacro dei monti”<br />

raccontato dalle sorgenti dell’Arno e i “fratelli ulivi” che richiamano il Cantico delle creature<br />

francescano) ; ma il sacro, svuotato d’ogni valenza mistica, è posto, per il puro piacere estetico, in<br />

contrasto con il profano della componente erotica che pervade la Natura: ad essa rimandano “i<br />

reami d’amor” ai quali il fiume invita, le labbra che si disegnano sulle curve dei colli, l’amore che<br />

cresce ogni giorno più forte. Così, moduli e immagini della poesia sacra concorrono ad esprimere<br />

un’esperienza che si colloca non nella sfera mistica ma nella sfera individuale ed umana, in uno<br />

slittamento di piani che acquista volutamente dimensione atemporale e mitica.<br />

43


Gabriele D’Annunzio, La pioggia nel pineto<br />

[D’Annunzio, Versi d’Amore e di Gloria, “Alcyone”, pp. 619-23]<br />

La pioggia nel pineto compare con il titolo Ermione nel piano strutturale della raccolta “Alcyone”<br />

nel 1902, e con quello definitivo nel 1903. Essa illustra una passeggiata nel bosco, senza meta, del<br />

poeta e della donna amata, che diventa occasione di comunione tra l’uomo e tutti gli esseri della<br />

natura<br />

Taci. Su le soglie<br />

del bosco non odo<br />

parole che dici<br />

umane; ma odo<br />

parole più nuove 5<br />

che parlano gocciole e foglie<br />

lontane.<br />

Ascolta. Piove<br />

dalle nuvole sparse.<br />

Piove su le tamerici 10<br />

salmastre ed arse,<br />

piove sui pini<br />

scagliosi ed irti,<br />

piove sui mirti<br />

divini, 15<br />

su le ginestre fulgenti<br />

di fiori accolti,<br />

sui ginepri folti<br />

di coccole aulenti,<br />

piove sui nostri volti 20<br />

silvani,<br />

piove sulle nostre mani<br />

ignude,<br />

sui nostri vestimenti<br />

leggieri, 25<br />

su i freschi pensieri<br />

che l'anima schiude<br />

novella,<br />

su la favola bella<br />

che ieri 30<br />

l'illuse, che oggi m'illude,<br />

o Ermione<br />

Odi? La pioggia cade<br />

su la solitaria<br />

verdura 35<br />

con un crepitio che dura<br />

e varia nell'aria<br />

secondo le fronde<br />

più rade, men rade.<br />

44


Ascolta. Risponde 40<br />

al pianto il canto<br />

delle cicale<br />

che il pianto australe<br />

non impaura,<br />

né il ciel cinerino. 45<br />

E il pino<br />

ha un suono, e il mirto<br />

altro suono, e il ginepro<br />

altro ancora, stromenti<br />

diversi 50<br />

sotto innumerevoli dita.<br />

E immersi<br />

noi siam nello spirto<br />

silvestre,<br />

d'arborea vita viventi; 55<br />

e il tuo volto ebro<br />

è molle di pioggia<br />

come un foglia,<br />

e le tue chiome<br />

auliscono come 60<br />

le chiare ginestre,<br />

o creatura terrestre<br />

che hai nome<br />

Ermione.<br />

Ascolta, ascolta. L'accordo 65<br />

delle aeree cicale<br />

a poco a poco<br />

più sordo<br />

si fa sotto il pianto<br />

che cresce; 70<br />

ma un canto vi si mesce<br />

più roco<br />

che di laggiù sale,<br />

dall'umida ombra remota.<br />

Più sordo e più fioco 75<br />

s'allenta, si spegne.<br />

Sola una nota<br />

ancora trema, si spegne,<br />

risorge, treme, si spegne.<br />

Non s'ode voce del mare. 80<br />

Or s'ode su tutta la fronda<br />

crosciare<br />

l'argentea pioggia<br />

che monda,<br />

il croscio che varia 85<br />

secondo la fronda<br />

più folta, men folta.<br />

Ascolta.<br />

La figlia dell'aria<br />

45


è muta; ma la figlia 90<br />

del limo lontana,<br />

la rana,<br />

canta nell'ombra più fonda,<br />

chi sa dove, chi sa dove!<br />

E piove su le tue ciglia, 95<br />

Ermione.<br />

Piove su le tue ciglia nere<br />

sì che par tu pianga<br />

ma di piacere; non bianca<br />

ma quasi fatta virente, 100<br />

par da scorza tu esca.<br />

E tutta la vita è in noi fresca<br />

aulente,<br />

il cuor nel petto è come pesca<br />

intatta, 105<br />

tra le palpebre gli occhi<br />

son come polle tra l'erbe,<br />

i denti negli alveoli<br />

son come mandorle acerbe.<br />

E andiam di fratta in fratta, 110<br />

or congiunti or disciolti<br />

(e il verde vigor rude<br />

ci allaccia i malleoli<br />

c'intrica i ginocchi)<br />

chi sa dove, chi sa dove! 115<br />

E piove su i nostri volti<br />

silvani,<br />

piove sulle nostre mani<br />

ignude,<br />

sui nostri vestimenti 120<br />

leggieri,<br />

su i freschi pensieri<br />

che l'anima schiude<br />

novella,<br />

su la favola bella 125<br />

che ieri<br />

m'illuse, che oggi t'illude,<br />

o Ermione<br />

1 Taci: Il poeta si rivolge direttamente alla donna amata per invitarla a tacere e ad ascoltare i suni della natura<br />

2 Su le soglie: Al limitare.<br />

3 non odo … umane: non sento le parole che dici essere umane.<br />

6 parlano: il verbo, usato in senso transitivo con soggetto gocciole e foglie, sta a indicare che i suoni della natura sono<br />

un linguaggio nuovo.<br />

8 Piove: di qui in poi il ripetersi del verbo servirà a scandire il ritmo regolare della pioggia.<br />

10 tamerici… arse: arbusti che crescono vicino al mare e sono quindi incrostate di sale (salmastre) e bruciate dal sole<br />

(arse).<br />

13 scagliosi ed irti: dalla corteggia a scaglie e dagli aghi pungenti (irti).<br />

14-15 mirti divini: piante di mirto, sacre a Venere dea della bellezza.<br />

16-17 fulgenti …accolti: che risplendono per i loro fiori (gialli) raccolti a grappolo.<br />

19 coccole aulenti: bacche profumate.<br />

46


20 volti silvani: visi silvestri, come se i volti fossero parte del bosco; inizia la trasfigurazione degli umani in elementi<br />

del paesaggio naturale.<br />

27-28 freschi pensieri … novella: l’anima (rinnovata dalla pioggia rigeneratrice) genera pensieri nuovi e freschi.<br />

29-31 la favola … illude: il sogno d’amore, l’illusione della felicità che ieri come oggi ci inganna .<br />

32 Ermione: alla fine della strofa compare il nome della donna, di origine mitologica (Ermione era una figlia di Elena<br />

e Menelao).<br />

35 verdura: vegetazione.<br />

36- 39 crepitio…rade: picchiettio delle gocce di pioggia sulle foglie che prosegue e il cui suono varia secondo la<br />

maggiore o minore densità del fogliame (fronde).<br />

41 pianto: la pioggia che si è fatta umana.<br />

43-44 il pianto … impaura: la pioggia portata dal vento del sud (australe) non spaventa (le cicale).<br />

45 né il ciel cinerino: e neppure il cielo coperto di nubi grigie.<br />

49-51 stromenti … dita: le varie piante sono come strumenti musicali diversi che variamente rispondono al cadere delle<br />

gocce di pioggia (innumerevoli dita).<br />

53-54 spirto silvestre: spirito della selva del bosco, in cui i due protagonisti si immergono.<br />

55 d’arborea … viventi: trasformati in vegetali in cui scorre la linfa vitale.<br />

56 ebro: inebriato (di felicità).<br />

60 auliscono: profumano.<br />

66 aeree cicale: come sospese nell’aria.<br />

71 si mesce: si mescola.<br />

72 più roco: più rauco; è il canto delle cicale.<br />

74 remota: lontana.<br />

80 Non … mare: Non si sente il suono del mare.<br />

84 che monda: che purifica.<br />

85 il croscio: lo scroscio.<br />

91 del limo: del fango, della palude.<br />

100 virente: verdeggiante.<br />

101 par … esca: sembra che tu esca dalla corteccia di un albero.<br />

103 aulente: odorosa del profumo del bosco.<br />

107 polle: laghetti d’acqua sorgiva.<br />

110 di fratta in fratta: nella macchia folta del bosco.<br />

111 or congiunti or disciolti: ora abbracciati ora separati.<br />

112 verde… ginocchi: i rami degli arbusti ruvidi e resistenti si avvolgono alle caviglie (malleoli) e s’intrecciano alle<br />

ginocchia.<br />

SCHEDA METRICA<br />

Quattro strofe di uguale lunghezza (32 versi), composte di versi che vanno dal ternario al novenario, con rime<br />

sparse e assonanze. La presenza di numerosi enjambements e l’alternarsi nella sintassi di frasi brevi, brevissime e<br />

lunghe favorisce l’interscambiabilità tra le misure metriche (così i tradizionali novenari o decasillabi risultano<br />

spesso spezzati e mascherati in senari e ternari).<br />

Insieme al poeta Gian Pietro Lucini, Gabriele D’Annunzio è tra i primi che abbiano importato in<br />

Italia un verso libero figlio dei verso-liberisti francesi di fine secolo come Mallarmè e Valery, dei<br />

quali egli coglie la lezione fondendola con quella dei cori della tragedia greca eschilea o di Pindaro.<br />

E come Valery aveva affermato nella sua Arte poetica, “la musica prima di tutto”, così il poeta<br />

pescarese modula la lunghezza dei versi sull’effetto fonico e musicale che vuole ottenere .<br />

Ma mentre la scrittura risulta spezzata dalla disposizione delle parole e degli spazi bianchi, il<br />

discorso poetico è un fluire continuo, che concorre a definire il tema chiave della lirica, ovvero la<br />

musica prodotta dalla pioggia che si abbatte sulle fronde della pineta, dove il poeta e la sua donna<br />

sono stati sorpresi. Essi si immergono nella natura fino a compenetrarsi e vivere l’esperienza della<br />

fusione panica, in un processo di vera e propria metamorfosi vegetale (descritta nei versi finali,.107-<br />

114).<br />

Se dunque la cifra del testo è la musicalità, centrale è il senso dell’udito, come sottolineano i<br />

ricorrenti verbi d’ascolto (Taci/ Ascolta/ Odi), rivolti sotto forma di imperativi o interrogativi alla<br />

donna. Essi creano un’atmosfera d’attesa, che predispone all’attenzione dei sensi. E verso l’udito<br />

del lettore come senso privilegiato convergono tutte le strategie poetiche utilizzate.<br />

47


D’Annunzio, a differenza del Pascoli, non usa parole onomatopeiche, ma soprattutto artifici tecnici:<br />

la melodia nasce sia dalla scelta delle parole (appartenenti ad un lessico raro e colto) sia dalla loro<br />

disposizione; le numerose pause forniscono il ritmo, gli enjambements producono rime isolando in<br />

versi ternari gli aggettivi (divini-silvani-ignude-leggieri-novella) ognuno dei quali rima con il verso<br />

dopo o con quello precedente.<br />

Un altro espediente è l’anafora, ovvero la ripetizione di vocaboli legati al silenzio o all’ascolto o<br />

alla pioggia. Piove si ripete ai vv. 8-10-12-14-20-22-95-97-116-118, pioggia ai vv. 33 e 57,<br />

crosciare e croscio ai vv. 82 e 85, parole e parlano ai vv.3-5-6. E ancora, musicale è l’effetto<br />

prodotto dalla ripetizione di singoli fonemi come la i di pini, irti, mirti, divini, oppure la g di<br />

ginestre, fulgenti, ginepri.<br />

Le molte rime interne a volte identiche (umane v.4 - lontane v.7; piove - piove vv. 20-22), le<br />

assonanze dentro il verso (arse/salmastre v.11, parole/nuove nel v.5, pini/irti, varia/aria v.37,<br />

rade/rade, v.39), le figure etimologiche (parole/che parlano, vita/viventi al v.55) sono gli altri<br />

espedienti che concorrono alla melodia.<br />

Non mancano poi ripetizioni di interi versi (Chi sa dove/ chi sa dove al v.94 e 115) o di un intero<br />

gruppo di versi come accade tra I e IV strofa : i vv. 20-32 sono identici ai vv. 116-128 con qualche<br />

inversione puramente virtuosistica (t’illude/mi illuse).<br />

L’intera lirica, dunque, è una descrizione naturale: e quel che si descrive è una natura umanizzata,<br />

un’orchestra i cui strumenti sono gli alberi che risuonano “sotto innumerevoli dita” (II strofa, versi<br />

49-51), le cicale e la rana (III strofa). Con procedimento inverso, progressivamente, anche gli<br />

esseri umani inoltrandosi nella natura si metamorfizzano: se nella I strofa i loro volti sono silvani ,<br />

nell’ultima Ermione, fatta virente, appare come una ninfa: esce dalla corteccia di un albero, i suoi<br />

occhi sono polle tra l’erbe, cioè sorgenti d’acqua, i denti mandorle acerbe.<br />

E nella conclusione, circolare rispetto all’inizio, torna il motivo della “favola bella” della vita:<br />

l’amore, che è reciproca illusione degli amanti, fluisce, come tutti gli altri momenti della vita, come<br />

la pioggia stessa.<br />

Il testo è esemplare di un D’Annunzio alla ricerca di una poesia stilizzata, colta, nella quale prevale<br />

il gusto della parola, il gusto per la sensualità, per il dionisiaco, per una visione della vita dove ciò<br />

che conta è solo il manifestarsi della bellezza. Una poesia, che contrapponendosi a quella del<br />

“nido” pascoliano, rifiuta la conversazione normale, la lingua normale, e si fa codice selettivo per<br />

un’élite di anime superiori.<br />

Attraversando D’Annunzio, molti poeti novecenteschi torneranno sul tema della pioggia,<br />

scrosciante e musicale. Tra i più celebri rifacimenti, ricca di richiami intertestuali a scopo<br />

antifrastico, ricordiamo Piove di Eugenio Montale, del 1969.<br />

Eugenio Montale, Piove<br />

Piove. È uno stillicidio<br />

senza tonfi<br />

di motorette o strilli<br />

di bambini.<br />

Piove 5<br />

da un ciclo che non ha<br />

nuvole.<br />

Piove<br />

sul nulla che si fa<br />

in queste ore di sciopero 10<br />

generale.<br />

Piove<br />

sulla tua tomba<br />

a San Felice<br />

a Ema 15<br />

e la terra non trema<br />

perché non c'è terremoto<br />

né guerra.<br />

48


Piove<br />

non sulla favola bella 20<br />

di lontane stagioni,<br />

ma sulla cartella<br />

esattoriale,<br />

piove sugli ossi di seppia,<br />

e sulla greppia nazionale. 25<br />

Piove<br />

sulla Gazzetta Ufficiale<br />

qui dal balcone aperto,<br />

piove sul Parlamento,<br />

piove su via Solferino, 30<br />

piove senza che il vento<br />

smuova le carte.<br />

Piove<br />

in assenza di Ermione<br />

se Dio vuole, 35<br />

piove perché l'assenza<br />

è universale<br />

e se la terra non trema<br />

è perché Arcetri a lei<br />

non l'ha ordinato. 40<br />

Piove sui nuovi epistèmi<br />

del primate a due piedi,<br />

sull'uomo indiato, sul cielo,<br />

ottimizzato, sul ceffo<br />

dei teologi in tuta 45<br />

o paludati,<br />

piove sul progresso<br />

della contestazione,<br />

piove sui works in regress,<br />

piove 50<br />

sui cipressi malati<br />

del cimitero, sgocciola<br />

sulla pubblica opinione.<br />

Piove, ma dove appari<br />

non è acqua né atmosfera, 55<br />

piove perché se non sei<br />

è solo la mancanza<br />

e può affogare.<br />

[Eugenio Montale, Opera completa, I, I Meridiani Mondadori, Milano, 1996]<br />

49


Giovanni Verga , da I Malavoglia, Capitolo XV<br />

[VERGA, Opere, I Malavoglia, pp. 386 e segg.]<br />

Parte del cosiddetto ciclo dei vinti, I Malavoglia si chiude con un capitolo “corale” nel quale<br />

moltissimi personaggi riempiono la scena e collaborano a dare notizia al lettore del destino della<br />

famiglia protagonista: sopra tutti, si stagliano però il vecchio Padron ’Ntoni, il patriarca, e suo<br />

nipote che ne ha ereditato il nome. Il primo apre il capitolo, il secondo lo chiude.<br />

La gente diceva 1 che la Lia era andata a stare con don Michele; già i Malavoglia non avevano<br />

più niente da perdere, e don Michele almeno le avrebbe dato il pane. Padron ’Ntoni adesso era<br />

diventato del tutto un uccellaccio di camposanto 2 , e non faceva altro che andare intorno, rotto in<br />

due 3 , e con quella faccia di pipa 4 , a dir proverbi senza capo e senza coda: «Ad un albero caduto<br />

accetta! accetta!» 5 - «Chi cade nell’acqua è forza che si bagni» 6 - «A cavallo magro, mosche» 7 . - E<br />

a chi gli domandava perché andasse sempre in giro, diceva che «la fame fa uscire il lupo dal bosco»,<br />

e «cane affamato non teme bastone» 8 ; ma di lui non volevano saperne, ora che era ridotto in quello<br />

stato. Ognuno gli diceva la sua, e gli domandava cosa aspettasse colle spalle al muro, lì sotto il<br />

campanile, che pareva lo zio Crocifisso quando aspettava d’imprestare dei denari alla gente, seduto<br />

a ridosso delle barche tirate in secco, come se ci avesse in mare la paranza 9 di padron Cipolla; e<br />

padron ’Ntoni rispondeva che aspettava la morte, la quale non voleva venire a prenderselo, perché<br />

«lo sfortunato ha i giorni lunghi» 10 . Della Lia nessuno parlava più in casa, nemmeno Sant’Agata 11 ,<br />

la quale se voleva sfogarsi andava a piangere di nascosto, davanti al lettuccio della mamma, quando<br />

in casa non c’era nessuno. Adesso la casa era grande come il mare, e ci si perdevano dentro. I denari<br />

se n’erano andati con ’Ntoni; Alessi era sempre lontano, per guadagnarsi il pane, di qua e di là; e la<br />

Nunziata faceva la carità 12 di venire ad accendere il fuoco, quando la Mena doveva andare a<br />

prendere il nonno per mano, verso l’avemaria 13 , come un bambino, perché di sera non ci vedeva<br />

più, peggio di una gallina.<br />

Don Silvestro, e gli altri del paese, dicevano che Alessi avrebbe fatto meglio a mandare il<br />

nonno all’Albergo dei poveri 14 , ora che non era più buono a nulla; ma questa era la sola cosa che<br />

facesse paura al poveraccio. Ogni volta che la Mena andava a metterlo al sole, conducendolo per<br />

mano, e ci stava per tutta la giornata ad aspettare la morte, credeva che lo portassero all’Albergo,<br />

talmente era diventato un cucco 15 , e balbettava: - La morte non viene mai! - tanto che certuni<br />

andavano a chiedergli ridendo dove fosse arrivata.<br />

Alessi tornava a casa il sabato, e gli veniva a contare i denari della settimana, come se il nonno<br />

avesse ancora il giudizio 16 . Egli rispondeva sempre di sì, col capo; e bisognava che andasse a<br />

nascondere il gruzzoletto sotto la materassa, e gli diceva, per farlo contento, che ci voleva poco a<br />

mettere insieme un’altra volta i denari della casa del nespolo 17 , e fra un anno o due ci sarebbero<br />

arrivati.<br />

Ma il vecchio scrollava il capo, colla testa dura, e ribatteva che adesso non avevano più<br />

bisogno della casa; e meglio che non ci fosse mai stata al mondo la casa dei Malavoglia, ora che i<br />

Malavoglia erano di qua e di là.<br />

Una volta chiamò in disparte la Nunziata, sotto il mandorlo, nel momento in cui non ci era<br />

nessuno, e pareva dovesse dirle qualcosa di grosso 18 ; però muoveva le labbra senza parlare, e stava<br />

cercando le parole guardando di qua e di là. - È vero quella cosa che hanno detto di Lia? 19 - chiese<br />

infine.<br />

- No! - rispondeva Nunziata, colle mani in croce 20 , - no! per la Madonna dell’Ognina, non è<br />

vero!<br />

Egli si mise a tentennare il capo, col mento sul petto. - Allora perché se n’è fuggita anche lei?<br />

perché se n’è fuggita?<br />

E l’andava cercando per la casa, fingendo di aver perso il berretto; toccava il letto e il<br />

canterano, e si metteva a sedere al telaio, senza dir nulla. - Lo sai? - chiese infine; - lo sai dove se<br />

n’è andata? - Ma alla Mena non disse nulla.<br />

La Nunziata non lo sapeva, in coscienza, né nessun altro del paese.<br />

50


Una sera si fermò nella strada del Nero 21 Alfio Mosca, col carro, che ci aveva attaccato il mulo<br />

adesso, e per questo aveva acchiappato le febbri alla Bicocca 22 , ed era stato per morire, tanto che<br />

aveva la faccia gialla e la pancia grossa come un otre; ma il mulo era grasso e col pelo lucente.<br />

- Vi rammentate quando sono partito per la Bicocca? - diceva lui, - che stavate ancora nella<br />

casa del nespolo? Ora ogni cosa è cambiata, ché «il mondo è tondo, chi nuota e chi va a fondo». -<br />

Stavolta non potevano dargli nemmeno un bicchiere di vino, pel ben tornato. Compar Alfio lo<br />

sapeva dov’era la Lia; l’aveva vista coi suoi occhi, ed era stato come se avesse visto comare Mena<br />

quando stavano a chiacchierare da una finestra all’altra. Perciò guardava di qua e di là i mobili e le<br />

pareti, come se ci avesse il carro carico sullo stomaco 23 , e sedette anche lui senza dire una parola<br />

accanto al desco dove non c’era nulla, e nessuno sedeva più a mangiare la sera.<br />

- Ora me ne vado, - ripeteva lui, vedendo che non gli dicevano nulla. - Quando uno lascia il suo<br />

paese è meglio che non ci torni più, perché ogni cosa muta faccia mentre egli è lontano, e anche le<br />

facce con cui lo guardano son mutate, e sembra che sia diventato straniero anche lui.<br />

Mena continuava a star zitta. Intanto Alessi gli raccontò che voleva pigliarsi la Nunziata,<br />

quando avrebbe raccolto un po’ di denari, ed Alfio gli rispose che faceva bene, se la Nunziata aveva<br />

un po’ di denari anche lei, ché era una buona ragazza, e tutti la conoscevano in paese. Così anche i<br />

parenti dimenticano quelli che non ci sono più, e ognuno a questo mondo è fatto per pensare a tirare<br />

la carretta che gli ha data Dio, come l’asino di compar Alfio, che adesso faceva chissà cosa, dopo<br />

che era andato in mano altrui.<br />

La Nunziata ci aveva la sua dote anche lei, dacché i suoi fratellini cominciavano a buscarsi<br />

qualche soldo, e non aveva voluto comprarsi né oro né roba bianca, perché diceva che quelle cose<br />

son fatte per i ricchi, e la roba bianca 24 non era bene di farsela intanto che cresceva ancora.<br />

Era cresciuta infatti una ragazza alta e sottile come un manico di scopa, coi capelli neri, e gli<br />

occhi buoni buoni, che quando si metteva a sedere sulla porta, con tutti quei monelli davanti, pareva<br />

che pensasse ancora a suo padre nel giorno che li aveva piantati, e ai guai in mezzo ai quali aveva<br />

sgambettato sino allora, coi suoi fratellini appesi alle gonnelle. Al vedere come se n’era tirata fuori<br />

dai guai, lei e i suoi fratellini, così debole e sottile al pari di un manico di scopa, ognuno la salutava<br />

e si fermava volentieri a far quattro chiacchiere con lei.<br />

- I denari ce li abbiamo, - disse a compar Alfio, il quale era quasi parente, da tanto che lo<br />

conoscevano. - A Ognissanti mio fratello entra garzone da massaro Filippo, e il minore prenderà il<br />

suo posto da padron Cipolla. Quando avrò collocato anche Turi, allora mi mariterò; ma bisogna<br />

aspettare che io abbia gli anni, e che mio padre mi dia il consenso.<br />

- O che tuo padre pensa più che sei al mondo! 25 - disse Alfio.<br />

- S’egli tornasse ora, - rispose Nunziata con quella voce dolce, e cosi calma, colle braccia sulle<br />

ginocchia, - ei non se ne andrebbe più, perché adesso i denari li abbiamo.<br />

Allora compar Alfio tornò a dire ad Alessi che faceva bene a prendersi la Nunziata, se ci aveva<br />

quel po’ di denari.<br />

Compreremo 26 la casa del nespolo, - aggiunse Alessi; - e il nonno starà con noi. Quando<br />

torneranno gli altri ci staranno pure; e se tornerà il padre della Nunziata ci sarà posto anche per lui.<br />

Di Lia non fecero parola; ma ci pensavano tutti e tre, mentre stavano a guardare il lume, colle<br />

braccia sui ginocchi.<br />

Finalmente compare Mosca si alzò per andarsene, perché il suo mulo scuoteva la sonagliera,<br />

quasi l’avesse conosciuta anch’esso colei che 27 compar Alfio aveva incontrata per la strada, e che<br />

adesso non l’aspettavano più nella casa del nespolo. […]<br />

Compare Alfio tornò a parlare ai Malavoglia 28 ; ma padron ’Ntoni ora scuoteva il capo e diceva<br />

di no. - Adesso della casa non abbiamo che farne, perché Mena non si può più maritare, e dei<br />

Malavoglia non ci è nessuno! Io ci sono ancora perché gli sfortunati hanno i giorni lunghi. Ma<br />

quando avrò chiuso gli occhi, Alessi piglierà la Nunziata e se ne andrà via dal paese.<br />

Anch’egli stava per andarsene. Il più del tempo lo passava in letto, come un gambero sotto i<br />

ciottoli, abbaiando peggio di un cane: - Cosa ci ho a far qui io? - balbettava; e gli pareva di rubare la<br />

minestra che gli davano. Invano Alessi e la Mena cercavano di dissuaderlo 29 . Ei rispondeva che<br />

51


ubava loro il tempo e la minestra, e voleva che gli contassero i denari messi sotto la materassa, e se<br />

li vedeva squagliare a poco a poco, borbottava: - Almeno se non ci fossi io non spendereste tanto.<br />

Ora non ho più niente da far qui, e potrei andarmene 30 .<br />

Don Ciccio, il quale veniva a tastargli il polso, confessava che era meglio lo portassero<br />

all’ospedale, perché lì dov’era si mangiava la carne sua e quella degli altri, senza utile. Intanto il<br />

poveraccio stava a vedere quello che dicessero gli altri, cogli occhi spenti, e aveva paura che lo<br />

mandassero all’Albergo. Alessi non voleva sentirne parlare di mandarlo all’Albergo, e diceva che<br />

finché ci era del pane, ce n’era per tutti; e la Mena dall’altra parte, diceva di no anch’essa, e lo<br />

conduceva al sole, nelle belle giornate, e si metteva accanto a lui colla conocchia 31 , a raccontargli<br />

delle fiabe, come ai bambini, e a filare, quando non aveva da andare al lavatoio. Gli parlava pure di<br />

quel che avrebbero fatto quando arrivava un po’ di provvidenza 32 , per fargli allargare il cuore; gli<br />

diceva che avrebbero comprato un vitellino a San Sebastiano 33 , ed ella bastava a procurargli l’erba e<br />

il mangime per l’inverno. A maggio si sarebbe venduto con guadagno; e gli faceva vedere pure le<br />

nidiate di pulcini che aveva messo, e venivano a pigolare davanti ai loro piedi, al sole, starnazzando<br />

nella polvere della strada. Coi denari dei pulcini avrebbe anche comperato un maiale, per non<br />

perdere le bucce dei fichidindia, e l’acqua che serviva a cuocere la minestra, e a fin d’anno sarebbe<br />

stato come aver messo dei soldi nel salvadanaio. Il vecchio, colle mani sul bastone, approvava del<br />

capo, guardando i pulcini. Ci stava così attento, poveretto, che arrivava fino a dire che se avessero<br />

avuto la casa del nespolo si poteva allevarlo nel cortile, il maiale, giacché quello era un guadagno<br />

sicuro con compare Naso. Nella casa del nespolo c’era pure la stalla pel vitello, e la tettoia pel<br />

mangime, e ogni cosa; se ne andava ricordando a poco a poco, cercando qua e là cogli occhi morti e<br />

col mento sul bastone. Poi domandava sottovoce alla nipote: - Cosa ha detto don Ciccio<br />

dell’ospedale? - Mena allora lo sgridava come si fa coi bambini, e gli rispondeva: - Perché pensate a<br />

quelle cose? - Egli stava zitto, e ascoltava cheto cheto tutto quello che diceva la ragazza. Ma poi<br />

tornava a ripetere: - Non mi ci mandare all’ospedale, perché non ci sono avvezzo.<br />

Infine non si alzava più dal letto, e don Ciccio disse che era proprio finita, e non ci era più<br />

bisogno di lui, ché là in quel letto dove era, poteva starci anche degli anni, e Alessi o la Mena ed<br />

anche la Nunziata dovevano perdere le loro giornate a far la guardia; se no se lo sarebbero mangiato<br />

i porci, come trovavano l’uscio aperto.<br />

Padron ’Ntoni intendeva benissimo quello che si diceva, perché guardava tutti in viso ad uno ad<br />

uno, con certi occhi che facevano male a vedere; ed appena il medico se ne fu andato, mentre stava<br />

a parlare ancora sull’uscio con Mena che piangeva, e Alessi il quale diceva di no e batteva i piedi,<br />

fece segno alla Nunziata di accostarsi al letto, e le disse piano:<br />

- Se mi mandate all’ospedale sarà meglio; qui ve li mangio io i denari della settimana.<br />

Mandami via quando non ci saranno in casa la Mena e Alessi. Direbbero di no perché hanno il buon<br />

cuore dei Malavoglia; ma io vi mangio i soldi della casa, e poi il medico ha detto che posso starci<br />

degli anni qui dove sono. E qui non ci ho più nulla da fare. Però non vorrei camparci degli anni,<br />

laggiù all’ospedale.<br />

La Nunziata si metteva a piangere anch’essa e diceva di no, tanto che tutto il vicinato sparlava<br />

di loro che volevano fare i superbi senza aver pane da mangiare. Si vergognavano di mandare il<br />

nonno all’ospedale, mentre ci avevano tutti gli altri di qua e di là, e dove poi 34 !<br />

[….]<br />

- Allora perché non lo mandano all’ospedale, quel vecchio? tornavano a dire gli altri, - e perché<br />

se lo tengono in casa a farselo mangiare dalle pulci?<br />

Tanto che, pesta e ripesta, il medico ripeteva che andava e veniva per niente, e faceva il viaggio<br />

del sale 35 , e allorché c’erano le comari davanti al letto del malato, comare Piedipapera, la cugina<br />

Anna o la Nunziata, predicava sempre che se lo mangiavano le pulci. Padron ’Ntoni non osava più<br />

fiatare, colla faccia bianca e disfatta. E come le comari cinguettavano fra di loro, e fino alla<br />

Nunziata cascavan le braccia, un giorno che Alessi non c’era, disse infine: - Chiamatemi compare<br />

Mosca, che lui me la farà la carità di portarmi all’ospedale sul suo carro.<br />

52


Così padron ’Ntoni se ne andò all’ospedale sul carro di Alfio Mosca, il quale ci aveva messo la<br />

materassa ed i guanciali, ma il povero malato, sebbene non dicesse nulla, andava guardando<br />

dappertutto, mentre lo portavano fuori reggendolo per le ascelle, il giorno in cui Alessi era andato a<br />

Riposto, e avevano mandato via la Mena con un pretesto, che se no non l’avrebbero lasciato partire.<br />

Sulla strada del Nero, nel passare davanti alla casa del nespolo, e nell’attraversare la piazza, padron<br />

’Ntoni continuava a guardare di qua e di là per stamparsi in mente ogni cosa. Alfio guidava il mulo<br />

da una parte, e Nunziata, la quale aveva lasciato in custodia a Turi il vitello, i tacchini, e le pollastre,<br />

veniva a piedi dall’altro lato, col fagotto delle camicie sotto il braccio. Al veder passare il carro<br />

ognuno si affacciava sulla porta, e stava a guardare; e don Silvestro disse che avevano fatto bene,<br />

per questo il Comune pagava la sua rata all’ospedale; e don Franco avrebbe anche spifferata la sua<br />

predica, che ce l’aveva in testa bella e fatta, se non ci fosse stato lì presente don Silvestro. - Almeno<br />

quel povero diavolo va a stare in pace, - conchiuse lo zio Crocifisso.<br />

- «Necessità abbassa nobiltà» 36 , - rispose padron Cipolla; e la Santuzza disse un’avemaria pel<br />

poveretto. Solo la cugina Anna e comare Grazia Piedipapera si asciugavano gli occhi col grembiule,<br />

come il carro se ne andava lentamente sobbalzando sui sassi. Ma compare Tino rimbeccò alla<br />

moglie: - O perché mi fai il piagnisteo? Che son forse morto io? A te che te ne importa?<br />

Alfio Mosca, mentre guidava il mulo, andava raccontando alla Nunziata come e dove avesse<br />

vista la Lia, ch’era tutta Sant’Agata, e ancora non gli pareva vero a lui stesso che l’avesse vista coi<br />

suoi occhi, tanto che la voce gli mancava nella gola, mentre ne parlava per ingannare la noia, lungo<br />

la strada polverosa. - Ah Nunziata! chi l’avrebbe detto, quando stavamo a chiacchierare da un uscio<br />

all’altro, e c’era la luna, e i vicini discorrevano lì davanti, e si udiva colpettare 37 tutto il giorno quel<br />

telaio di Sant’Agata, e quelle galline che la conoscevano soltanto all’aprire che faceva il rastrello, e<br />

la Longa che la chiamava pel cortile, che ogni cosa si udiva da casa mia come se fosse stato proprio<br />

là dentro! Povera Longa! Adesso, vedi, che ci ho il mulo, e ogni cosa come desideravo, che se fosse<br />

venuto a dirmelo l’angelo del cielo non ci avrei creduto, adesso penso sempre a quelle sere là,<br />

quando udivo la voce di voialtre, mentre governavo l’asino, e vedevo il lume nella casa del nespolo,<br />

che ora è chiusa, e quando son tornato non ho trovato più niente di quel che avevo lasciato, e<br />

comare Mena non mi è parsa più quella. Uno che se ne va dal paese è meglio non ci torni più. Vedi,<br />

ora penso pure a quel povero asino che ha lavorato con me tanto tempo, e andava sempre, sole o<br />

pioggia, col capo basso e le orecchie larghe. Adesso chissà dove lo cacciano, e con quali carichi, e<br />

per quali strade, colle orecchie più basse ancora, ché anch’egli fiuta col naso la terra che deve<br />

raccoglierlo, come si fa vecchio, povera bestia!<br />

Padron ’Ntoni, disteso sulla materassa, non udiva nulla, e ci aveva vano messo sul carro una<br />

coperta colle canne 38 , sicché sembrava che portassero un morto. - Per lui è meglio che non oda più<br />

nulla, seguitava compare Alfio. - L’angustia di ’Ntoni già l’ha sentita, e un giorno o l’altro gli<br />

toccherebbe anche di sentire come è andata a finire la Lia.<br />

- Me lo domandava spesso, quando eravamo soli, - rispose la Nunziata. - Voleva sapere dove<br />

fosse.<br />

- È andata dietro a suo fratello. Noi poveretti siamo come le pecore, e andiamo sempre con gli<br />

occhi chiusi dove vanno gli altri. Tu non glielo dire, né lo dire a nessuno del paese, dove ho visto la<br />

Lia, ché sarebbe un colpo di coltello per Sant’Agata. Ella mi riconobbe di certo, mentre passavo<br />

davanti all’uscio, perché si fece bianca e rossa nella faccia, ed io frustai il mulo per passare presto, e<br />

son certo che quella poveretta avrebbe voluto piuttosto che il mulo le fosse camminato sulla pancia,<br />

e la portassero distesa sul carro come portiamo adesso suo nonno. Ora la famiglia dei Malavoglia è<br />

distrutta, e bisogna rifarla di nuovo tu e Alessi.<br />

- I denari per la roba ci sono già; a San Giovanni 39 venderemo anche il vitello.<br />

- Bravi! così, quando ci avrete i denari da parte, non c’è pericolo che vi sfumino in un giorno,<br />

come accadrebbe se il vitello venisse a morire, Dio liberi! Ora siamo alle prime case della città, e tu<br />

potrai aspettami qui, se non vuoi venire sino all’ospedale.<br />

- No, voglio venire anch’io; così almeno vedrò dove lo mettono, ed egli pure mi vedrà sino<br />

all’ultimo momento.<br />

53


Padron ’Ntoni poté vederla sino all’ultimo momento, e mentre la Nunziata se ne andava via con<br />

Alfio Mosca, adagio adagio, pel camerone che pareva d’essere in chiesa al camminare 40 , li<br />

accompagnava cogli occhi; poi si voltò dall’altra parte e non si mosse più. Compar Alfio e la<br />

Nunziata risalirono sul carro, arrotolarono la materassa e la coperta, e se ne tornarono senza dir<br />

nulla, per la lunga strada polverosa.<br />

Alessi si dava i pugni nella testa e si strappava i capelli, come non trovò più il nonno nel suo<br />

letto, e vide che gli riportavano la materassa arrotolata; e se la prendeva colla Mena, quasi fosse<br />

stata lei a mandarlo via. Ma compar Alfio gli diceva: - Che volete? La casa dei Malavoglia ora è<br />

distrutta, e bisogna che la facciate di nuovo voi altri.<br />

Egli voleva tornare a fargli il conto della roba e del vitello, di cui avevano chiacchierato lungo<br />

la strada colla ragazza; ma Alessi e Mena non gli davano retta, colla testa nelle mani e gli occhi fissi<br />

e lucenti di lagrime, seduti sulla porta della casa dove oramai erano soli davvero. Compar Alfio in<br />

questo mentre cercava di confortarli col rammentar loro com’era prima la casa del nespolo, quando<br />

stavano a chiacchierare da un uscio all’altro, colla luna, e si udiva tutto il giorno il colpettare del<br />

telaio di Sant’Agata, e le galline che chiocciavano, e la voce della Longa che aveva sempre da fare.<br />

Adesso tutto era cambiato, e quando uno se ne va dal paese, è meglio che non ci torni più, perché la<br />

strada stessa non sembrava più quella, dacché non c’era più quel passeggio per la Mangiacarrubbe,<br />

e don Silvestro non si faceva veder nemmeno lui, aspettando che la Zuppidda cascasse coi suoi<br />

piedi, e lo zio Crocifisso s’era chiuso in casa a guardarsi la sua roba, o ad accapigliarsi colla Vespa,<br />

e persino non si udiva quistionar tanto nella spezieria 41 , dacché don Franco aveva visto la giustizia<br />

nel mostaccio 42 , ed ora andava a rincantucciarsi per leggere il giornale, e si sfogava a pestar nel<br />

mortaio tutto il giorno per passare il tempo. Anche padron Cipolla non ci stava più a schiacciare gli<br />

scalini davanti la chiesa 43 , dacché aveva perso la pace.<br />

[….]<br />

Giacché tutti si maritavano, Alfio Mosca avrebbe voluto prendersi comare Mena, che nessuno<br />

la voleva più, dacché la casa dei Malavoglia s’era sfasciata, e compar Alfio avrebbe potuto dirsi un<br />

bel partito per lei, col mulo che ci aveva; così la domenica ruminava fra di sé tutte le ragioni per<br />

farsi animo, mentre stava accanto a lei, seduto davanti alla casa, colle spalle al muro a sminuzzare<br />

gli sterpolini 44 della siepe per ingannare il tempo. Anche lei guardava la gente che passava, e così<br />

facevano festa la domenica: - Se voi mi volete ancora, comare Mena - disse finalmente; - io per me<br />

son qua.<br />

La povera Mena non si fece neppur rossa, sentendo che compare Alfio aveva indovinato che<br />

ella lo voleva, quando stavano per darla a Brasi Cipolla, tanto le pareva che quel tempo fosse<br />

lontano, ed ella stessa non si sentiva più quella.<br />

- Ora sono vecchia, compare Alfio, - rispose, - e non mi marito più.<br />

- Se voi siete vecchia, anch’io sono vecchio, ché avevo degli anni più di voi, quando stavamo a<br />

chiacchierare dalla finestra, e mi pare che sia stato ieri, tanto m’è rimasto in cuore. Ma devono esser<br />

passati più di otto anni. E ora quando si sarà maritato vostro fratello Alessi, voi restate in mezzo alla<br />

strada.<br />

Mena si strinse nelle spalle, perché era avvezza a fare la volontà di Dio, come la cugina Anna;<br />

e compare Alfio, vedendo cosi, riprese:<br />

- Allora vuol dire che non mi volete bene, comare Mena, e scusatemi se vi ho detto che vi avrei<br />

sposata. Lo so che voi siete nata meglio di me, siete figlia di padroni; ma ora non avete più nulla, e<br />

se si marita vostro fratello Alessi, rimarrete in mezzo alla strada. Io ci ho il mulo e il mio carro, e il<br />

pane non ve lo farei mancare giammai, comare Mena. Ora perdonatemi la libertà!<br />

- Non mi avete offesa, no, compare Alfio; e vi avrei detto di sì anche quando avevamo la<br />

Provvidenza e la casa del nespolo, se i miei parenti avessero voluto, che Dio sa quel che ci avevo in<br />

cuore quando ve ne siete andato alla Bicocca col carro dell’asino, e mi pare ancora di vedere quel<br />

lume nella stalla, e voi che mettevate tutta la vostra roba sul carretto, nel cortile; vi rammentate?<br />

- Sì, che mi rammento! Allora perché non mi dite di sì, ora che non avete più nulla, e ci ho il<br />

mulo invece dell’asino al carretto, e i vostri parenti non potrebbero dir di no?<br />

54


- Ora non son più da maritare; - tornava a dire Mena col viso basso, e sminuzzando gli<br />

sterpolini della siepe anche lei. - Ho ventisei anni, ed è passato il tempo di maritarmi.<br />

- No, che non è questo il motivo per cui non volete dirmi di sì! - ripeteva compar Alfio col viso<br />

basso come lei. - Il motivo non volete dirmelo! - E così rimanevano in silenzio a sminuzzare<br />

sterpolini senza guardarsi in faccia. Dopo egli si alzava per andarsene, colle spalle grosse e il mento<br />

sul petto. Mena lo accompagnava cogli occhi finché poteva vederlo, e poi guardava al muro<br />

dirimpetto e sospirava.<br />

Come aveva detto Alfio Mosca, Alessi s’era tolta in moglie la Nunziata, e aveva riscattata la<br />

casa del nespolo.<br />

- Io non sono da maritare, - aveva tornato a dire la Mena; - maritati tu che sei da maritare<br />

ancora; - e cosi ella era salita nella soffitta della casa del nespolo, come le casseruole vecchie, e<br />

s’era messo il cuore in pace, aspettando i figliuoli della Nunziata per far la mamma. Ci avevano<br />

pure le galline nel pollaio, e il vitello nella stalla, e la legna e il mangime sotto la tettoia, e le reti e<br />

ogni sorta di attrezzi appesi, il tutto come aveva detto padron ’Ntoni; e la Nunziata aveva ripiantato<br />

nell’orto i broccoli ed i cavoli, con quelle braccia delicate che non si sapeva come ci fosse passata<br />

tanta tela da imbiancare 45 , e come avesse fatti quei marmocchi grassi e rossi che la Mena si portava<br />

in collo pel vicinato quasi li avesse messi al mondo lei, quando faceva la mamma.<br />

Compare Mosca scrollava il capo, mentre la vedeva passare, e si voltava dall’altra parte, colle<br />

spalle grosse. - A me non mi avete creduto degno di quest’onore! - le disse alfine quando non ne<br />

poté più, col cuore più grosso delle spalle. - Io non ero degno di sentirmi dir di sì!<br />

- No, compar Alfio! - rispose Mena la quale si sentiva spuntare le lagrime. - Per quest’anima<br />

pura 46 che tengo sulle braccia! Non è per questo motivo. Ma io non son più da maritare.<br />

- Perché non siete più da maritare, comare Mena?<br />

- No! no! - ripeteva comare Mena, che quasi piangeva. - Non me lo fate dire, compare Alfio!<br />

Non mi fate parlare! Ora se io mi maritassi, la gente tornerebbe a parlare di mia sorella Lia, giacché<br />

nessuno oserebbe prendersela una Malavoglia, dopo quello che è successo. Voi pel primo ve ne<br />

pentireste. Lasciatemi stare, che non sono da maritare, e mettetevi il cuore in pace.<br />

- Avete ragione, comare Mena! - rispose compare Mosca; a questo non ci avevo mai pensato.<br />

Maledetta la sorte che ha fatto nascere tanti guai!<br />

Così compare Alfio si mise il cuore in pace, e Mena seguitò a portare in braccio i suoi nipoti<br />

quasi ci avesse il cuore in pace anche lei, e a spazzare la soffitta, per quando fossero tornati gli altri,<br />

che c’erano nati anche loro, - come se fossero stati in viaggio per tornare! - diceva Piedipapera.<br />

Invece padron ’Ntoni aveva fatto quel viaggio lontano, più lontano di Trieste e d’Alessandria<br />

d’Egitto 47 , dal quale non si ritorna più; e quando il suo nome cadeva nel discorso, mentre si<br />

riposavano, tirando il conto della settimana e facendo i disegni per l’avvenire, all’ombra del nespolo<br />

e colle scodelle fra le ginocchia, le chiacchiere morivano di botto, che a tutti pareva d’avere il<br />

povero vecchio davanti agli occhi, come l’avevano visto l’ultima volta che erano andati a trovarlo in<br />

quella gran cameraccia coi letti in fila, che bisognava cercarlo per trovarlo, e il nonno li aspettava<br />

come un’anima del purgatorio, cogli occhi alla porta, sebbene non ci vedesse quasi, e li andava<br />

toccando, per accertarsi che erano loro, e poi non diceva più nulla, mentre gli si vedeva in faccia<br />

che aveva tante cose da dire, e spezzava il cuore con quella pena che gli si leggeva in faccia e non la<br />

poteva dire. Quando gli narrarono poi che avevano riscattata la casa del nespolo, e volevano<br />

portarselo a Trezza di nuovo, rispose di sì, e di sì, cogli occhi, che gli tornavano a luccicare, e quasi<br />

faceva la bocca a riso 48 , quel riso della gente che non ride più, o che ride per l’ultima volta, e vi<br />

rimane fitto nel cuore come un coltello. Così successe ai Malavoglia quando il lunedì tornarono col<br />

carro di compar Alfio per riprendersi il nonno, e non lo trovarono più.<br />

Rammentando tutte queste cose lasciavano il cucchiaio nella scodella e pensavano e pensavano<br />

a tutto quello che era accaduto, che sembrava scuro scuro come ci fosse sopra l’ombra del nespolo.<br />

Ora, quando veniva la cugina Anna a filare un po’ con le comari, aveva i capelli bianchi, e diceva<br />

che aveva perso il riso della bocca, perché non aveva tempo di stare allegra, colla famiglia che<br />

aveva sulle spalle, e Rocco che tutti i giorni bisognava andare a cercare di qua e di là per le strade e<br />

davanti la bettola, e cacciarlo verso casa come un vitello vagabondo. Anche dei Malavoglia ce<br />

55


n’erano due vagabondi; e Alessi si tormentava il cervello a cercarli dove potevano essere, per le<br />

strade arse di sole e bianche di polvere, che in paese non sarebbero tornati più, dopo tanto tempo.<br />

Una sera, tardi, il cane si mise ad abbaiare dietro l’uscio del cortile, e lo stesso Alessi, che andò<br />

ad aprire, non riconobbe ’Ntoni il quale tornava colla sporta sotto il braccio, tanto era mutato,<br />

coperto di polvere, e colla barba lunga. Come fu entrato e si fu messo a sedere in un cantuccio, non<br />

osavano quasi fargli festa. Ei non sembrava più quello, e andava guardando in giro le pareti, come<br />

non le avesse mai viste; fino il cane gli abbaiava, ché non l’aveva conosciuto mai. Gli misero fra le<br />

gambe la scodella, perché aveva fame e sete, ed egli mangiò in silenzio la minestra che gli diedero,<br />

come non avesse visto grazia di Dio da otto giorni, col naso nel piatto; ma gli altri non avevano<br />

fame, tanto avevano il cuore serrato. Poi ’Ntoni, quando si fu sfamato e riposato alquanto, prese la<br />

sua sporta e si alzò per andarsene.<br />

Alessi non osava dirgli nulla, tanto suo fratello era mutato. Ma al vedergli riprendere la sporta,<br />

si senti balzare il cuore dal petto, e Mena gli disse tutta smarrita: - Te ne vai?<br />

- Sì! - rispose ’Ntoni.<br />

- E dove vai? - chiese Alessi.<br />

- Non lo so. Venni per vedervi. Ma dacché son qui la minestra mi è andata tutta in veleno. Per<br />

altro qui non posso starci, ché tutti mi conoscono, e perciò son venuto di sera. Andrò lontano, dove<br />

troverò da buscarmi il pane, e nessuno saprà chi sono.<br />

Gli altri non osavano fiatare, perché ci avevano il cuore stretto in una morsa, e capivano che<br />

egli faceva bene a dir così. ’Ntoni continuava a guardare dappertutto, e stava sulla porta, e non<br />

sapeva risolversi ad andarsene. - Ve lo farò sapere dove sarò; - disse infine e come fu nel cortile,<br />

sotto il nespolo, che era scuro, disse anche: - E il nonno?<br />

Alessi non rispose; ’Ntoni tacque anche lui, e dopo un pezzetto:<br />

- E la Lia, che non l’ho vista?<br />

E siccome aspettava inutilmente la risposta, aggiunse colla voce tremante, quasi avesse freddo:<br />

- È morta anche lei?<br />

Alessi non rispose nemmeno; allora ’Ntoni che era sotto il nespolo colla sporta in mano, fece<br />

per sedersi, poiché le gambe gli tremavano ma si rizzò di botto, balbettando:<br />

- Addio addio! Lo vedete che devo andarmene?<br />

Prima d’andarsene voleva fare un giro per la casa, onde vedere se ogni cosa fosse al suo posto<br />

come prima; ma adesso, a lui che gli era bastato l’animo di lasciarla, e di dare una coltellata a don<br />

Michele, e di starsene nei guai, non gli bastava l’animo di passare da una camera all’altra se non<br />

glielo dicevano. Alessi che gli vide negli occhi il desiderio, lo fece entrare nella stalla, col pretesto<br />

del vitello che aveva comperato la Nunziata, ed era grasso e lucente; e in un canto c’era pure la<br />

chioccia coi pulcini; poi lo condusse in cucina, dove avevano fatto il forno nuovo, e nella camera<br />

accanto, che vi dormiva la Mena coi bambini della Nunziata, e pareva che li avesse fatti lei. ’Ntoni<br />

guardava ogni cosa, e approvava col capo, e diceva - Qui pure il nonno avrebbe voluto metterci il<br />

vitello, qui c’erano le chiocce, e qui dormivano le ragazze, quando c’era anche quell’altra... - Ma<br />

allora non aggiunse altro, e stette zitto a guardare intorno, cogli occhi lustri. In quel momento<br />

passava la Mangiacarrubbe, che andava sgridando Brasi Cipolla per la strada, e ’Ntoni disse: -<br />

Questa qui l’ha trovato il marito; ed ora, quando avranno finito di quistionare, andranno a dormire<br />

nella loro casa.<br />

Gli altri stettero zitti, e per tutto il paese era un gran silenzio, soltanto si udiva sbattere ancora<br />

qualche porta che si chiudeva; e Alessi a quelle parole si fece coraggio per dirgli: - Se volessi anche<br />

tu ci hai la tua casa. Di là c’è apposta il letto per te.<br />

- No ! - rispose ’Ntoni. - Io devo andarmene. Là c’era il letto della mamma, che lei inzuppava<br />

tutto di lagrime quando volevo andarmene. Ti rammenti le belle chiacchierate che si facevano la<br />

sera, mentre si salavano le acciughe? e la Nunziata che spiegava gli indovinelli? e la mamma, e la<br />

Lia, tutti lì, al chiaro di luna, che si sentiva chiacchierare per tutto il paese, come fossimo tutti una<br />

famiglia? Anch’io allora non sapevo nulla, e qui non volevo starci, ma ora che so ogni cosa devo<br />

andarmene.<br />

56


In quel momento parlava cogli occhi fissi a terra, e il capo rannicchiato nelle spalle. Allora<br />

Alessi gli buttò le braccia al collo.<br />

- Addio, - ripeté ’Ntoni. - Vedi che avevo ragione d’andarmene! qui non posso starci. Addio,<br />

perdonatemi tutti.<br />

E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio; poi, quando fu lontano, in mezzo alla piazza scura<br />

e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta della casa del<br />

nespolo, mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al<br />

paese. Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai fariglioni 49 , perché il mare<br />

non ha paese nemmeno lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e<br />

muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al<br />

gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe e par la voce di un amico.<br />

Allora ’Ntoni si fermò in mezzo alla strada a guardare il paese tutto nero, come non gli bastasse<br />

il cuore di staccarsene, adesso che sapeva ogni cosa, e sedette sul muricciuolo della vigna di<br />

massaro Filippo.<br />

Così stette un gran pezzo pensando a tante cose, guardando il paese nero e ascoltando il mare<br />

che gli brontolava lì sotto. E ci stette fin quando cominciarono ad udirsi certi rumori ch’ei<br />

conosceva, e delle voci che si chiamavano dietro gli usci, e sbatter d’imposte, e dei passi per le<br />

strade buie. Sulla riva, in fondo alla piazza, cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a<br />

guardare i Tre Re che luccicavano, e la Puddara che annunziava l’alba, come l’aveva vista tante<br />

volte. Allora tornò a chinare il capo sul petto, e a pensare a tutta la sua storia. A poco a poco il mare<br />

cominciò a farsi bianco, e i Tre Re ad impallidire, e le case spuntavano ad una ad una nelle vie<br />

scure, cogli usci chiusi, che si conoscevano tutte, e solo davanti alla bottega di Pizzuto c’era il<br />

lumicino, e Rocco Spatu colle mani nelle tasche che tossiva e sputacchiava. - Fra poco lo zio<br />

Santoro aprirà la porta - pensò ’Ntoni, - e si accoccolerà sull’uscio a cominciare la sua giornata<br />

anche lui. - Tornò a guardare il mare, che s’era fatto amaranto, tutto seminato di barche che avevano<br />

cominciato la loro giornata anche loro, riprese la sua sporta, e disse:<br />

- Ora è tempo d’andarsene, perché fra poco comincerà a passar gente. Ma il primo di tutti a<br />

cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu.<br />

LA TRAMA<br />

Il romanzo narra le vicende della famiglia Toscano, detta i Malavoglia, che vive ad Acitrezza, un piccolo paese del<br />

catanese, in Sicilia. La famiglia - secondo la solida struttura tradizionale di tipo patriarcale - è composta dal vecchio<br />

capofamiglia padron ’Ntoni, dal figlio Bastiano detto Bastianazzo e dalla moglie Comare Maruzza detta la Longa, e<br />

dai loro quattro figli: ’Ntoni, Filomena, Mena soprannominata Sant’Agata perché sempre al lavoro sul filatoio, Luca,<br />

Rosalia detta Lia e Alessio detto Alessi. I Malavoglia vivono nella Casa del nespolo, di loro proprietà , e hanno come<br />

unica fonte di reddito la barca “la Provvidenza”, utilizzata per lo più per la pesca. L’intera vicenda è un susseguirsi di<br />

sventure di varia natura che colpiscono la famiglia, portandola via via alla rovina economica e al disfacimento.<br />

Il primo evento che altera la vita del nucleo familiare è la partenza di ’Ntoni per il militare. Venuto meno il sostegno<br />

del suo lavoro, il vecchio padron ’Ntoni decide di comperare una grossa partita di lupini da trasportare e rivendere a<br />

Riposto. Ma durante la navigazione la barca fa naufragio, muore Bastianazzo, il carico va perduto e “la Provvidenza”<br />

subisce seri danni. Il danno economico per i Malavoglia è pesantissimo e diventa insostenibile quando di lì a poco<br />

Luca, partito anch’egli militare, muore nella battaglia navale di Lissa. La crisi della famiglia porta alla rottura del<br />

fidanzamento di Mena con il figlio di Padre Cipolla e costringe padron ’Ntoni all’amaro sacrificio della vendita dalle<br />

Casa del nespolo.<br />

’Ntoni, che morto Bastianazzo dovrebbe assumere le redini della famiglia, lascia il paese per cercare fortuna altrove<br />

ma si lascia travolgere finendo coinvolto anche in vicende di contrabbando che lo portano in carcere. Lia, la sorella<br />

minore, vittima di una serie di dicerie di paese, lascia la famiglia e va a fare la prostituta a Catania. L’intero paese<br />

volta le spalle a chi è colpito dalla disgrazia.<br />

Ormai la dissoluzione della famiglia è completa. Toccherà ad Alessi, il più giovane dei nipoti, con i soldi della vendita<br />

della “Provvidenza”, riacquistare la Casa del nespolo e tentare di ridare una qualche continuità alla famiglia. Il vecchio<br />

’Ntoni, ormai fiaccato dal susseguirsi delle vicende dolorose, avrà la soddisfazione di avere dal nipote del riscatto<br />

della casa, ma morirà prima di poterci di nuovo far ritorno. Intanto ’Ntoni, uscito di galera, sente di non appartenere<br />

più a questa realtà e abbandona definitivamente il paese.<br />

57


Personaggi. Nel capitolo XV, l’ultimo, compaiono, oltre ai componenti della famiglia Malavoglia fin lì sopravvissuti,<br />

molti dei personaggi del romanzo: Nunziata, amica dei Malavoglia, li sostiene anche nei momenti più difficili e sposerà<br />

Alessi il più piccolo dei figli di Bastianazzo; Alfio Mosca, giovane carrettiere vicino di casa dei Malavoglia che ha a<br />

lungo corteggiato la Mena; Don Michele, il brigadiere delle guardie doganali presso cui va a vivere Lia e che sarà ferito<br />

da ‘Ntoni; Padron Cipolla, proprietario di una barca da pesca, prenderà i maschi di casa Malavoglia a giornata sulla sua<br />

barca dopo il naufragio; Zio Crocifisso, l’usuraio del paese con il quale i Malavoglia si indebitano acquistando da lui il<br />

carico di lupini; Don Silvestro, il segretario comunale; don Ciccio, il medico.<br />

1 la gente diceva: la gente parlava ma nessuno sapeva per certo dove vivesse la giovane.<br />

2 uccellaccio da camposanto: uccello che si aggira tra i morti, ovvero Padron ‘Ntoni che si aggira tra le rovine della<br />

famiglia.<br />

3 rotto in due: con la schiena piegata.<br />

4 faccia di pipa: espressione imbronciata.<br />

5 «Ad un albero … accetta!»: «Per l’albero caduto non resta che farne legna con l’accetta» poiché non può certo<br />

rinascere.<br />

6 «Chi cade … si bagni»: «Chi cade nell’acqua non può fare a meno di bagnarsi»<br />

7 «A cavallo … mosche»: Un cavallo dimagrito è destinato a diventare una carogna che attira le mosche.<br />

8 A chi … teme bastone»: A chi gli domandava perché fosse sempre in movimento il vecchio rispondeva con due<br />

proverbi che indicano come nulla possa frenare chi è veramente affamato.<br />

9 paranza: imbarcazione da pesca.<br />

10 lo sfortunato … lunghi: chi è sfortunato ha anche la sventura di vivere a lungo.<br />

11 Sant’Agata: è la Mena, rimasta da sola ad occuparsi della casa e del nonno.<br />

12 faceva la carità: faceva la cortesia.<br />

13 verso l’avemaria: verso sera, all’imbrunire.<br />

14 Albergo dei poveri: all’ospizio.<br />

15 cucco: cuculo, stupido.<br />

16 giudizio: la capacità di ragionare; Alessi testimonia così il rispetto per l’antico capofamiglia.<br />

17 la casa del nespolo: la casa di loro proprietà che i malavoglia hanno dovuto vendere per far fronte ai debiti.<br />

18 di grosso: di importante.<br />

19 cosa … Lia: le voci di paese che dicevano che avesse una relazione con il brigadiere don Michele.<br />

20 colle mani in croce: nell’atto di far giuramento.<br />

21 strada del Nero: è la via dove abitano i Malavoglia.<br />

22 aveva … le febbri: aveva preso la malaria alla bicocca, una località nei pressi.<br />

23 il carro … stomaco: un peso sullo stomaco, pesante come il suo carro.<br />

24 roba bianca: la biancheria del corredo da sposa.<br />

25 O che … mondo: Figurarsi se tuo padre si ricorda che sei al mondo.<br />

26 Compreremo…: con queste buone intenzioni Alessi tenta di immaginare un futuro di riscatto per i Malavoglia,<br />

nuovamente riuniti nella loro casa.<br />

27 anch’esso … che: come se anche il mulo avesse riconosciuto Mena che ora non li aspettava più come un tempo alla<br />

casa del nespolo.<br />

28 tornò … Malavoglia: su pressione di zio Crocifisso, Alfio tenta di convincere i Malavoglia a ricomprare la casa.<br />

29 cercavano di dissuaderlo: cercavano di convincerlo del contrario.<br />

30 potrei andarmene: potrei anche morire.<br />

31 conocchia: rocca per filare.<br />

32 di provvidenza: di buona sorte, di fortuna.<br />

33 san Sebastiano: santo molto venerato in tutta la zona, la cui festa si celebra in gennaio.<br />

34 e dove poi!: allusione al carcere e alla strada, dove stavano ‘Ntoni e Lia.<br />

35 la strada del sale: un viaggio lungo per uno scarso guadagno.<br />

36 «Necessità … nobiltà»: il bisogno ha piegato l’orgoglio del Malavoglia costringendoli a portare il vecchio<br />

all’ospizio.<br />

37 colpettare: il rumore del telaio.<br />

38 coperta colle canne: una coperta sostenuta da una grata di canne.<br />

39 san Giovanni: si celebra a giugno.<br />

40 pareva … camminare: camminava con attenzione come se fosse in chiesa.<br />

41 spezieria: farmacia.<br />

42 aveva … nel mostaccio: aveva visto la giustizia in faccia (il mostaccio è il mustacchio, il baffo che sta per la<br />

faccia).<br />

43 schiacciare chiesa: pestare gli scalini davanti l portone della chiesa, ovvero aspettare di sposarsi.<br />

44 sterpolini: rametti secchi.<br />

45 ci fosse … imbiancare: avessi potuto fare tanto lavoro.<br />

46 per … pura: in nome di questo bimbo.<br />

47 Trieste… Alessandria d’Egitto: luoghi lontani, che indicano un viaggio senza ritorno.<br />

58


48 faceva,… a riso: sembrava forzasse la bocca a un sorriso.<br />

49 fariglioni: faraglioni, scogli isolati in mare, di grandi dimensioni.<br />

50 I Tre Re… Puddara: I Tre Re, ovvero i Re Magi, stelle della costellazione di Orione e la Puddara, in siciliano<br />

Stella polare.<br />

Siamo all’epilogo della vicenda del Malavoglia. Il seguito di sciagure che si è abbattuto sulla<br />

famiglia ha come piegato in due il vecchio padron ’Ntoni che si aggira per il paese cercando di<br />

trovare nella saggezza antica dei proverbi una qualche spiegazione alle avversità che lo hanno<br />

colpito. Ormai può solo più aspettare la morte, appoggiato al muro dove viene accompagnato a<br />

trascorrere l’intera giornata. Il nipote Alessi ancora gli porta rispetto e al sabato gli mostra la paga<br />

ricevuta anche se il vecchio ha perso la ragione. Ed è proprio il nipote più giovane quello su cui<br />

potrebbero fondarsi le speranze di riscatto della famiglia; egli infatti pensa di sposarsi, riacquistare<br />

la casa e riunire nuovamente quel che è rimasto dei Malavoglia. Di diversa opinione è padron<br />

‘Ntoni che, orami giunto alla fine dei suoi giorni, sente che ciò che è rovinato non si riaggiusta e<br />

pensa che anche Alesi dovrebbe lasciare il paese. Chi partirà invece è ’Ntoni che dopo tante<br />

sventure, alla morte del nonno, decide di cerca fortuna altrove.<br />

Dopo la morte di padron ’Ntoni tocca a chi resta dare un senso al futuro. Nelle scelte e nel destino<br />

dei due nipoti si condensa anche il senso della vicenda, in qualche misura aperta a una duplice<br />

interpretazione. Si può infatti pensare che la scelta di Alessi prefiguri una sorta di parziale lieto fine,<br />

in cui almeno l’ultimo dei nipoti ripercorre le orme paterne e del nonno, non abbandona la terra<br />

natale e ricompone ciò che ancora possibile della famiglia così duramente provata dagli venti. Ma si<br />

tratta di un lieto fine che guarda al passato, al nostalgico riproporsi di una storia, non solo<br />

individuale ma anche collettiva e storica, che è già stata vissuta e sconfitta dagli eventi. All’opposto<br />

la scelta di ’Ntoni di abbandonare il paese e cercare fortuna altrove può apparire come una resa di<br />

fronte alla successione di disgrazie che hanno colpito la famiglia e ne hanno fatto dei vinti, ovvero<br />

degli sconfitti dalla storia, costretti a vivere nei livelli inferiori e più sfortunati della gerarchia<br />

sociale. Si tratterebbe quindi di un finale amaro, che conferma e ridadisce lo sviluppo costante dei<br />

fatti. Ma è un finale che guarda al futuro, al destino inesorabile di quelle terre, dove il riscatto dalla<br />

miseria passa anche attraverso la rinuncia alle proprie tradizioni, l’abbandono delle proprie radici.<br />

D’altro canto non bisogna dimenticare che proprio nella “Prefazione” al romanzo, che costituisce<br />

uno dei testi più esemplari di poetica del realismo del secondo Ottocento, l’autore indica che il<br />

moto dei suoi personaggi e della storia che si appresta a narrare deve essere letto nella direzione del<br />

“progresso” e dei mutamenti, talvolta anche negativi, che l’ansia di migliorare la propria condizione<br />

può generare nell’animo umano.<br />

Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e<br />

svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione<br />

debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosìa<br />

dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.<br />

E Verga intende analizzare come ciò avvenga, a partire proprio da chi vive nelle condizioni più<br />

umili<br />

Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti,<br />

nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in<br />

quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione.<br />

Le disgrazie dei Malavoglia, dunque, hanno origine dalla volontà di migliorare la propria<br />

condizione e il “meccanismo” “nelle basse sfere” è relativamente semplice. La decisione di<br />

padron ‘Ntoni di acquistare un carico di lupini da vendere altrove per ricavarne un guadagno<br />

si rivela fatale. Il naufragio della Provvidenza (si noti il nome della barca che è interpretabile<br />

per antifrasi come una “derivazione manzoniana”) diviene il punto di partenza di una serie<br />

di disgrazie che anziché al riscatto economico e sociale portano la famiglia alla deriva.<br />

59


Quale morale dunque è legittimo trarne? La vicenda dei Malavoglia è la paradigmatica<br />

narrazione di una sconfitta o di un seppur travagliato moto ascensionale che asseconda il<br />

flusso della storia?<br />

Leggiamo ancora la risposta dell’autore:<br />

Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere<br />

la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce<br />

gloriosa che l’accompagna dileguandosi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni,<br />

tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le<br />

contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è<br />

di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a<br />

stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. […] Solo l’osservatore,<br />

travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi intorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che<br />

restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che<br />

levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sovravvegnenti, i vincitori<br />

d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani.<br />

Nella fiumana inesorabile del progresso, l’osservatore ha diritto di interessarsi alla sorte dei più<br />

deboli, dei vinti, ovvero di coloro che la storia si lascia alle spalle, per far posto ai vincitori. Una<br />

sorta di determinismo sociale a forte matrice pessimistica che si mescola con il conservatorismo<br />

politico di chi, come Verga, non crede in realtà che gli ultimi possano o debbano scalare la società<br />

per diventare primi: la loro difesa dalla sconfitta può essere solo l’attaccamento al proprio scoglio,<br />

come ostriche, alla terra e ai valori patriarcali. Di qui l’importanza della casa del nespolo,<br />

depositaria dei valori che Ntoni il giovane, andando via, aspirando al di sopra dei propri mezzi, ha<br />

tradito. E per questo egli non può far altro che andare via, solo, all’alba, mentre il tempo ciclico e<br />

premoderno dei luoghi d’origine è scandito dall’inizio della giornata di Rocco Spatu, che si ripete<br />

sempre uguale.<br />

Se la vicenda dei Malavoglia, la famiglia di padron ’Ntoni e i suoi nipoti, è il centro della vicenda e<br />

l’exemplum dell’ideologia dei vinti su esposta, intorno ad essa però si muovono secondo le regole<br />

del naturalismo francese, un infinito numero di personaggi: romanzo corale, questo, in cui i giudizi<br />

di valore, gli atteggiamenti, le azioni di un intero paese, il villaggio di Acitrezza, vanno ad<br />

intrecciarsi continuamente, animano le pagine, rendendo ogni aspetto della vita osservato e<br />

descritto dal punto di vista interno. Si entra così nella mentalità e nell’immaginario di un popolo,<br />

quello meridionale, che il lettore dell’Ottocento, come è intuibile, poteva conoscere solo<br />

superficialmente in via oleografica. Una mentalità a cui nessuno dei personaggi sfugge, anche il più<br />

innocente: come Mena, che rifiuta l’offerta di matrimonio di compare Alfio, perché ritiene di non<br />

essere più degna di maritarsi: lo scandalo familiare, causato dalla perdizione di Lia, la sorella<br />

minore, ricade infatti su di lei; e lo sguardo del paese, ottuso e arretrato, è interiorizzato da entrambi<br />

gli “innamorati”, in un dialogo drammatico e commovente.<br />

Per rappresentare tutto questo Verga si affida dunque alle regole importate dal naturalismo francese.<br />

Per narrare la verità oggettiva dei fatti, nei quali i comportamenti umani sono l’unica strada per<br />

giungere a cogliere l’essenza delle azioni, che sono mosse da bisogni primitivi e sono al contempo<br />

determinate dall’ambiente, è necessario uno sguardo straniato. L’autore deve fare un passo indietro:<br />

deve rinunciare a dare giudizi, a fare commenti, a prendere la parola. Egli deve limitarsi a osservare<br />

e descrivere: L’ “osservatore” può interessarsi ai casi dei vinti, ma non per parteggiare o dare<br />

giudizi, bensì per guardare, ascoltare e riferire. Verga stesso in una importante lettera a un amico,<br />

Salvatore Farina, teorizza e sostiene la necessità dell’ “eclissi” dell’autore, ovvero della sua capacità<br />

di oscurarsi, di ritrarsi dalla scena a esclusivo vantaggio dei personaggi. Non solo: l’autore deve<br />

annullare il proprio punto di vista, e in questo la rottura con la narrativa ottocentesca è totale, per<br />

adottare la prospettiva, la cultura, il modo d’intendere la vita e le cose dei suoi personaggi.<br />

60


E di quei personaggi, l’autore restituisce più che l’introspezione dei sentimenti, l’oggettività della<br />

azioni e soprattutto le parole, i gesti. E anche i personaggi, oltre che entità singole, uomini e donne<br />

ciascuno preso per sé, divengono entità collettive, simboli di situazioni e destini che li trascendono.<br />

Nella rappresentazione oggettiva che Verga fa della scena in cui si svolgono le vicende assume un<br />

ruolo significativo il linguaggio e con esso i proverbi, i modi di dire, il cantilenare sequenze di<br />

parole e immagini. La rappresentazione delle parole dei suoi personaggi più umili coincide però con<br />

la rinuncia all’uso del dialetto, che Verga compie per non rendere troppo ristretta la diffusione del<br />

suo romanzo. Egli vuole parlare all’Italia da poco unita (il romanzo è del 1881)e non può quindi<br />

affidarsi a una lingua che sarebbe incomprensibile per troppi. Ripropone allora le parole dei<br />

personaggi attraverso il discorso indiretto, adottando una soluzione linguistica, a livello di lessico e<br />

di sintassi, del tutto originale: con la sintassi si sforza di imitare il ritmo della parlata siciliana e per<br />

il lessico si affida ad “effetti” naturali, immediati, forti. Così il lettore dei Malavoglia – <strong>pagina</strong> dopo<br />

<strong>pagina</strong> - è trasportato in un mondo a lui nuovo: l’universo di Acitrezza, dentro le cose che<br />

accadono, ad assistere alla spesso spietata concatenazione di cause ed effetti fino all’epilogo finale.<br />

61


Italo Svevo , da La coscienza di Zeno, 1 - 2<br />

[SVEVO, Romanzi, La coscienza di Zeno, pp. 599-600]<br />

Il romanzo di Italo Svevo si apre con una Prefazione e un Preambolo: la prima del dottor S., lo<br />

psicanalista che tiene in cura il protagonista-narratore, Zeno Cosini, il secondo che contiene la<br />

presentazione che lo stesso Zeno fa di sé ai lettori, giustificando l’impresa di scrivere i propri<br />

ricordi in forma narrativa come ipotetica “terapia”. In entrambi i brani colpisce il distacco ironico<br />

con cui l’autore guarda alla psicanalisi, il grande portato della rivoluzione scientifica del nuovo<br />

secolo.<br />

1.<br />

PREFAZIONE<br />

Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di<br />

psico–analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia 1 che il paziente mi dedica.<br />

Di psico–analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di<br />

aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico–analisi arricceranno<br />

il naso a tanta novità 2 . Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si<br />

rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico–analisi. Oggi ancora la mia idea<br />

mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul<br />

più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di<br />

queste memorie.<br />

Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia 3 . Sappia però ch’io sono pronto di dividere con<br />

lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto<br />

curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante<br />

verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!...<br />

DOTTOR S.<br />

2.<br />

PREAMBOLO<br />

Vedere la mia infanzia? Più di dieci lustri 4 me ne separano e i miei occhi presbiti forse<br />

potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d’ogni genere,<br />

vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora.<br />

Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono<br />

preziose per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima. Ma un po’ d’ordine pur<br />

dovrebb’esserci e per poter cominciare ab ovo 5 , appena abbandonato il dottore che di questi giorni e<br />

per lungo tempo lascia Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psico–<br />

analisi. Non è difficile d’intenderlo, ma molto noioso.<br />

Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in<br />

mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi<br />

appare isolato da me. Io lo vedo. S’alza, s’abbassa... ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso<br />

è il pensiero e che sarebbe suo compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si<br />

corruga perché ogni parola è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il<br />

passato.<br />

Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L’esperimento finì nel sonno più profondo e non ne<br />

ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno<br />

qualche cosa d’importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre.<br />

62


Mercé la matita 6 che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini bizzarre<br />

che non possono avere nessuna relazione col mio passato: una locomotiva che sbuffa su una salita<br />

trascinando delle innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove vada e perché sia ora capitata<br />

qui!<br />

Nel dormiveglia ricordo che il mio testo asserisce che con questo sistema si può arrivar a<br />

ricordare la prima infanzia, quella in fasce. Subito vedo un bambino in fasce, ma perché dovrei<br />

essere io quello? Non mi somiglia affatto e credo sia invece quello nato poche settimane or sono a<br />

mia cognata e che ci fu fatto vedere quale un miracolo perché ha le mani tanto piccole e gli occhi<br />

tanto grandi. Povero bambino! Altro che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di<br />

avvisare te, che vivi ora la tua, dell’importanza di ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e<br />

della tua salute. Quando arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi mandare a mente la tua vita,<br />

anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? E intanto, inconscio, vai investigando il tuo<br />

piccolo organismo alla ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla<br />

malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È impossibile tutelare<br />

la tua culla. 7 Nel tuo seno fantolino! – si va facendo una combinazione misteriosa 8 . Ogni minuto<br />

che passa vi getta un reagente 9 . Troppe probabilità di malattia vi sono per te, perché non tutti i tuoi<br />

minuti possono essere puri. Eppoi – fantolino! – sei consanguineo di persone ch’io conosco. I<br />

minuti che passano ora possono anche essere puri, ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti<br />

prepararono.<br />

Eccomi ben lontano dalle immagini che precorrono il sonno. Ritenterò domani.<br />

1 antipatia: allude al possibile tansfert tra paziente e medico, in questo caso negativo, e mette in guardia il lettore.<br />

2 novità: la stesura di una autobiografia usciva dai canoni tradizionali di una cura psicanalitica.<br />

3 Le pubblico…dispiacca: l’affermazione è brutale e consente al lettore di prendere in parte le distanza anche dalle<br />

affermazioni del medico. Può mai un analista serio “vendicarsi” del proprio assistito?<br />

4 dieci lustri: cinquan’anni.<br />

5 ab ovo: dall’inizio.<br />

6 Mercé la matita: Grazie alla matita, ovvero alla scrittura.<br />

7 È impossibile …la tua culla: È impossibile salvaguardare la tua culla dal destino che attende.<br />

8 Nel tuo seno… misteriosa: Dentro di te, fanciullo, si va prefigurando il tuo destino che ti è ora sconosciuto.<br />

9 Ogni minuto… reagente: Ogni minuto che passa influisce su di te come se provocasse una reazione che prepara il<br />

futuro della tua vita.<br />

L’intera finzione narrativa del romanzo La coscienza di Zeno, fin dalle prime pagine, si basa sulla<br />

dottrina psicanalitica, ed in particolare su un rapporto: quello tra il dottor S. e il suo paziente, Zeno<br />

Cosini. Ben strano appare il dottor S., il cui nome puntato sembra voler rimandare allusivamente a<br />

Sigmund Freud, l’inventore della psicanalisi, o allo stesso Svevo, o forse, come alcuni hanno<br />

sostenuto, al Socrate maestro di maieutica e padre della filosofia greca.<br />

Egli spiega le ragioni del diario che di lì a poco i lettori conosceranno, e si scusa con essi di aver<br />

suggerito un metodo così poco ortodosso al suo paziente; ma confessa al tempo stesso di provare un<br />

sentimento di vendetta nei riguardi di quest’ultimo: l’edizione è una sorta di ritorsione, perché la<br />

terapia è stata interrotta, e S. spera di ottenere che Zeno ritorni sui suoi passi.<br />

Inutile negare che quando il medico confessa ciò, aggiungendo che nel diario sono accumulate<br />

“tante verità e bugie” avverte chi legge di una cosa essenziale, che costituisce la vera novità del<br />

romanzo sveviano, ed è un portato del mutamento del canone narrativo novecentesco: non c’è verità<br />

nel racconto che possa essere ritenuta oggettivamente valida. L’autobiografia di Zeno si muove su<br />

un terreno che mescola fantasia e realtà, menzogna e verità, esattamente come la psiche umana: il<br />

ricordo che noi abbiamo del nostro vissuto si lascia difatti sempre condizionare dalla selezione e<br />

rielaborazione successiva agìta dalla nostra mente.<br />

Relatività del racconto dunque, e incrinatura del rapporto di fiducia tra narratore e lettore.<br />

Cos’è dunque la “coscienza” di Zeno? Per rispondere a questa domanda ci aiuta il “Preambolo”: è<br />

l’acquisizione di consapevolezza che ogni vicenda umana è costruita in modo multistratico, che il<br />

63


tempo della coscienza non è quello oggettivo e lineare nel quale crediamo, che ripristinare questa<br />

linea per conoscersi e guarire dal malessere è impresa impossibile. Noi siamo più o meno malati o<br />

sani a seconda di come ci sentiamo.<br />

Il “Preambolo” di Zeno Cosini è anche un capolavoro di ironia: chi narra ha più di cinquant’anni, è<br />

curioso di psicanalisi, ha un presente complesso che offusca i ricordi. Il suo sguardo sulle cose è<br />

piuttosto scettico. Egli racconta di essersi prestato alla richiesta del medico in modo piuttosto<br />

perplesso, al punto da leggere un trattato di psicoanalisi per convincersene; convinzione non<br />

raggiunta di certo, come testimonia il primo esperimento che fa su di sé e che si conclude nel sonno.<br />

Con matita e carta cerca allora una maggiore concentrazione: ed ecco emergere due immagini,<br />

quella di una locomotiva che sbuffa in salita (l’immagine troverà la sua spiegazione “analitica” nel<br />

capitolo sulla morte del padre) e quella di un bambino: il piccolo Zeno in fasce? No, ci avverte il<br />

narratore, probabilmente il figlio della cognata, bimbo appena nato che viene apostrofato come<br />

“povero bambino” “fantolino”, e su cui si trasferisce il pessimismo di chi scrive sia riguardo alla<br />

possibilità di ricordare la vita sia di poterla condizionare in meglio.<br />

Ma il bimbo in fasce rappresenta in questa introduzione molto di più che un’occasione per mettere<br />

in discussione con ironia la riuscita dell’esperimento “terapeutico-narrativo”. Egli simboleggia la<br />

volontà dell’autore di toccare con l’opera i grandi temi della nascita e della morte, del significato<br />

della vita umana in relazione alla malattia del singolo uomo e al disagio della civiltà umana nel suo<br />

complesso.<br />

Si tratta di temi che verranno affrontati con una costruzione narrativa originalissima: Zeno, alter<br />

ego dell’autore, sorta di suo doppio, è un personaggio immaginario con tratti biografici attinti dalla<br />

vita reale di Svevo; nel racconto egli mette in moto uno dei procedimenti chiave che reggono il<br />

funzionamento della psicologia umana: la contaminazione dei ricordi con il presente vissuto e la<br />

mescolanza della realtà con contenuti liberamente inventati e ricreati dalla psiche stessa.<br />

Seguendo questo procedimento e trasformandolo in meccanismo narrativo, l’opera di Svevo<br />

abbandona il percorso del romanzo realista: non vi è più alcun interesse per la realtà oggettiva dei<br />

fatti, la cui restituzione fedele non fa parte delle finalità del racconto. Quel che conta è il modo<br />

complesso in cui la materia narrata, la vita, viene interpretata e assimilata dalla “coscienza” del<br />

personaggio. Che infatti si presenta come malato e finisce poi per negare la sua stessa malattia, non<br />

solo con le sue azioni, ma anche con le affermazioni finali del romanzo, in cui si dichiarerà<br />

“guarito”.<br />

Il dialogo tra voce del ricordo e voce del giudizio fa accostare quest’opera ai grandi romanzi del<br />

Novecento, l’Ulisse di Joyce o Alla ricerca del tempo perduto di Proust. Non è un caso che quando<br />

esso viene pubblicato nel 1923 non riscuote nessun successo in Italia, ma suscita l’interessamento<br />

dello stesso Joyce, di Eugenio Montale, di chi pone nel Novecento il relativismo soggettivo come<br />

uno dei fondamenti dell’opera artistica.<br />

Non molto si può dire sotto l’aspetto linguistico, in favore del romanzo: il triestino Ettore Schmitz,<br />

in arte Italo Svevo, adotta soluzioni linguistiche e sintattiche che talora deviano dalla norma<br />

dell’italiano letterario, periodi involuti o faticosi (ad esempio, al rigo …: “quando arriverai a<br />

sapere che sarebbe bene che tu sapessi mandare a mente la tua vita…?”); non mancano<br />

forestierismi e dialettalismi che sono stati definiti “preterintenzionali”, cioè non voluti: nel<br />

complesso una lingua piuttosto spoglia, che forse aiuta però a riprodurre linguisticamente il<br />

monologo interiore del personaggio, liberando gli eventi da eccessive connotazioni di natura<br />

emotiva.<br />

64


Guido Gozzano, La più bella<br />

[GOZZANO, Tutte le poesie, pp. 282-3]<br />

Pubblicata per la prima volta nel 1913 sulla rivista La Lettura, questa poesia è stata ripresa da una<br />

bellissima canzone di Francesco Guccini, L’isola non trovata.<br />

I<br />

Ma bella più di tutte l'Isola Non-Trovata:<br />

quella che il Re di Spagna s'ebbe da suo cugino<br />

il Re di Portogallo con firma sugellata<br />

e bulla del Pontefice in gotico latino.<br />

L'Infante fece vela pel regno favoloso, 5<br />

vide le fortunate: Iunonia, Gorgo, Hera<br />

e il Mare di Sargasso e il Mare Tenebroso<br />

quell'isola cercando... Ma l'isola non c'era.<br />

Invano le galee panciute a vele tonde,<br />

le caravelle invano armarono la prora: 10<br />

con pace del Pontefice l'isola si nasconde,<br />

e Portogallo e Spagna la cercano tuttora.<br />

II<br />

L'isola esiste. Appare talora di lontano<br />

tra Teneriffe e Palma, soffusa di mistero:<br />

“... l'Isola Non-Trovata!” Il buon Canarïano 15<br />

dal Picco alto di Teyde l'addita al forestiero.<br />

La segnano le carte antiche dei corsari.<br />

...Hifola da - trovarfi? ...Hifola pellegrina?...<br />

È l'isola fatata che scivola sui mari;<br />

talora i naviganti la vedono vicina... 20<br />

Radono con le prore quella beata riva:<br />

tra fiori mai veduti svettano palme somme,<br />

odora la divina foresta spessa e viva,<br />

lacrima il cardamomo, trasudano le gomme...<br />

S'annuncia col profumo, come una cortigiana, 25<br />

l'Isola Non-Trovata... Ma, se il pilota avanza,<br />

rapida si dilegua come parvenza vana,<br />

si tinge dell'azzurro color di lontananza...<br />

1 Non-Trovata: il nome dell’Isole immerge subito nel fantastico, nel paradosso.<br />

2 s’ebbe: ebbe per sé, ricevette.<br />

3 sugellata: suggellato, confermato e chiuso con sigilli, come avveniva per i contratti ufficiali e di rilievo.<br />

4 bulla: bolla, documento, scrittura ufficiale; (la forma è arcaica e assume una valenza ironica); gotico latino : caratteri<br />

usati per scritture ecclesiastiche<br />

5 Infante: la figlia del Re.<br />

6 le fortunate: sottinteso isole.<br />

65


7 Mare di Sargasso: mar dei Sargassi, nell’Oceano Atlantico, presso le Azzorre; Mare Tenebroso: antico nome<br />

dell’Oceano che si estendeva oltre lo stretto di Gibilterra.<br />

9 galee: navi militari a remi e a vele.<br />

10 caravelle: piccole navi generalmente a tre alberi; invano: inutilmente; armarono la prora: preparare la nave alla<br />

partenza.<br />

14 tra Teneriffe e Palma: tra Tenerife e Palma de Maiorca, isole dell’arcipelago delle Canarie.<br />

15 Canarïano: abitante delle Canarie.<br />

16 Picco alto di Teyde: vetta del Teide vulcano delle Canarie.<br />

18 Hifola da trovarfi? ...Hifola pellegrina?...: la grafia della s diventa f imitando il carattere antico, tipico delle carte<br />

geografiche<br />

21 Radono: sfiorano.<br />

22 somme: molto alte.<br />

24 lacrima … le gomme: il cardamomo, pianta dai cui semi si ricavano essenze, e gli alberi della gomma hanno la<br />

corteccia incisa da cui esce il lattice.<br />

25 cortigiana: donna che vive a corte, che spesso esercita la professione di prostituta.<br />

26 pilota: timoniere, il marinaio che guida la nave.<br />

27 parvenza vana: fantasma, essere dall’ aspetto evanescente<br />

SCHEDA METRICA<br />

Due sezioni composte la prima di tre strofe e la seconda di quattro strofe di endecasillabi a rima alternata.<br />

Un’atmosfera fiabesca, che rimanda alle leggende fantastiche di isole del tesoro e di avventure<br />

misteriose: con l'immagine dell'isola non trovata, ma continuamente cercata dagli uomini di tutti i<br />

tempi, il poeta richiama in modo leggero la propria immaginazione del viaggio, che di lì a poco si<br />

concretizzerà in Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India.<br />

Va precisato che tra il febbraio e l'aprile del 1912 Gozzano aveva compiuto un viaggio in India,<br />

visitando la città di Bombay e l'isola di Ceylon. Un itinerario modesto, dettato da motivi terapeutici<br />

(la tubercolosi) ma un'esperienza centrale nella produzione dello scrittore piemontese, poiché<br />

intorno al pellegrinaggio nella "culla del mondo" si catalizzano le sue rappresentazioni sull'Oriente,<br />

prima in prospettiva, e poi, con il ricordo e la trasfigurazione letteraria.<br />

La più bella, scritta nel 1911 nei “Quaderni di appunti per i Colloqui” fu accantonata per poi essere<br />

ripresa dopo il viaggio, e uscì non nella celebre raccolta, ma sulla stessa rivista “La Lettura” su<br />

cui, di lì a poco, compariva la prima delle lettere indiane, che è del 1914.<br />

Si può dire che la fantasia precede la realtà, anzi la informa, specie se leggiamo per confronto con la<br />

lirica il racconto del viaggio e l’incontro con l’isola di Elefanta:<br />

[…] d’improvviso come sospesa nello spazio, disegnata sopra una parete di cristallo, si profila<br />

l’isola di Elefanta […] il caldo provoca i miraggi, scompone l’aria, la fa vibrare, oscillare<br />

all’orizzonte, col tremolio del rivo sulla sabbia; l’isola di Elefanta, già prossima, s’addoppia, si<br />

riflette quadrupla, s’avvicina, si allontana, scompare. Quando riappare siamo giunti.<br />

Gozzano nella poesia sciorina immagini, come quella delle galee panciute o delle bolle regali e<br />

papali, reinventa realtà storiche, col riferimento alla competizione coloniale tra Spagna e Portogallo,<br />

suscita emozioni infantili con i nomi di luoghi e mari favolosi, che appaiono discendere<br />

dall’esperienza di viaggio e descrivono egregiamente un mondo favoloso nel momento stesso in cui<br />

la fantasia lo costruisce. Il lettore si sente proiettato lì, avvolto dalla capacità affabulatrice del poeta<br />

e non gli importa per nulla, ovviamente, di sapere se l’isola esista o no, come di fatto non conta,<br />

leggendo le Lettere dall’India di essere certi che il viaggio sia stato compiuto: l’avventura che<br />

Gozzano costruisce restando fedele al proprio tono di artista, musicale, ironico, che usa versi<br />

semplici, rime alternate e regolari, e maschera un questo modo una visione del mondo e della<br />

civiltà. Quale? Leggiamola nelle sue parole dall’India:<br />

Ancora una volta penso che i nostri sentimenti di fronte alle cose non sono che la magra fioritura di<br />

pochi semi deposti dal caso nel nostro povero cervello umano, nell’infanzia prima. Termina oggi il<br />

66


viaggio intrapreso a matita sull’atlante di venti anni orsono, termina a bordo di questa tejera<br />

sobbalzante, una caravella panciuta, lunga trenta metri, alla quale è stata senza dubbio aggiunta la<br />

prima caldaia a vapore che sia stata inventata. Ma tutto questo è indicibilmente poetico e mi<br />

ricompensa della vuota eleganza dei grandi vapori moderni dalle cabine e dalle sale presuntuose di<br />

specchi e di stucchi Impero e Luigi XV, dall’odore del volgarissimo hotel dove è assente ogni<br />

poesia marinaresca, ogni senso della cosa nuova e dell’avventura. Qui tutto è poetico, e la mia<br />

nostalgia può sognare di essere ai tempi di Vasco de Gama, di navigare alle Terrae Ignotae, alle<br />

Insulae non repertae…<br />

L’Insula non reperta, ovvero l’isola non trovata, ha tutte le caratteristiche esotiche dei mari del sud,<br />

e soprattutto la capacità di scomparire di fronte ai naviganti che la inseguono. Sicuramente per<br />

questo il cantautore Francesco Guccini la riprende in una sua bellissima canzone, per descrivere<br />

quella realtà misteriosa cui tutta l'esistenza rimanda e dunque ripropone con forza le grandi<br />

domande sul senso della vita. È dunque la canzone un'immagine dell'infinita ricerca dell'uomo di<br />

un significato ultimo delle cose. [P. Jachia, Francesco Guccini, Editori Riuniti, Roma 2002, p. 56].<br />

67


Giuseppe Ungaretti, Il porto sepolto<br />

[Ungaretti, Vita d'un uomo. Tutte le poesie, p. 23]<br />

Ecco come il poeta spiega il significato dei versi che seguono, che danno il titolo alla raccolta del<br />

1916 e alla sezione omonima nell'edizione definitiva de “L’Allegria” del 1931 : «Il porto sepolto è<br />

ciò che di segreto rimane in noi, indecifrabile».<br />

Mariano il 29 giugno 1916<br />

Vi arriva il poeta<br />

e poi torna alla luce con i suoi canti<br />

e li disperde.<br />

Di questa poesia<br />

mi resta 5<br />

quel nulla<br />

di inesauribile segreto<br />

1 Vi: al porto, avverbio di luogo.<br />

3 li disperde: li dissemina, diffonde.<br />

5 quel nulla: qualcosa di impercettibile<br />

SCHEDA METRICA<br />

Versi liberi<br />

Per decifrare il senso di questa lirica, leggiamo cosa scriveva lo stesso Ungaretti nelle sue note<br />

introduttive all’edizione completa delle sue poesie (Vita di un uomo, 1969).<br />

Verso i sedici anni, ho conosciuto due giovani ingegneri francesi i fratelli Thuile, Jean e Hanri<br />

Thuile. […] Mi parlavano di un porto, sommerso, che doveva precedere l’epoca tolemaica,<br />

provando che Alessandria era già un porto già prima d’Alessandro, che già prima di Alessandro era<br />

una città. Il titolo del mio primo libro deriva da quel porto: Il porto sepolto.<br />

Ma il porto non è solo un luogo, ha un significato profondamente introspettivo: questa lirica è<br />

infatti una dichiarazione di poetica. Il poeta, attraverso un processo di scavo, si avvicina e trae<br />

ispirazione per i suoi canti da ciò che vi è di segreto e indecifrabile nell’animo umano, da un<br />

mistero che, come un porto sepolto, egli non riuscirà mai a portare completamente in superficie.<br />

Egli ripete il gesto di Orfeo, di Dante, che attraversano i regni delle ombre prima di riemergere alla<br />

luce, e nella prima strofa la sua azione si esplica attraverso la discesa (il vi introduttivo, avverbio di<br />

luogo, si ricollega al titolo) e la successiva risalita che porta alla luce il canto e lo trasforma in<br />

dono per altri. La poesia rappresenta allora lo sbocco di un sofferto itinerario di ricerca della verità;<br />

ma di questa verità, racchiusa all’interno dell’uomo, si riesce a cogliere un’eco appena («quel nulla/<br />

d’inesauribile segreto»).<br />

Notevole, nel passaggio tra la prima e la seconda strofa, è la pregnanza dell’antitesi tra i verbi: il<br />

poeta disperde i canti, ma nel contempo a lui resta un’acquisizione di verità, un’ispirazione che è di<br />

per sé inesauribile. Così come, in una poesia senza rime né schema, diventa altamente significativo<br />

la quasi-rima poeta – segreto, in cui si cela il senso dell’intera poesia.<br />

68


I versi brevi e brevissimi, che furono poi detti “versicoli” e l’alta concentrazione del testo costruito<br />

su due brevi periodi, rimandano ad uno stile che si fonda sulla decostruzione metrica e sulla<br />

verticalizzazione sintattica. È il nome a farsi verso; la frase, frantumata in più versi, a farsi poesia e<br />

le parole, divenute oggetti sonori, a spiccare nel bianco della <strong>pagina</strong> semantizzato. Ungaretti si fa<br />

così interprete, tra i vari modi di intendere il ruolo e la funzione del poeta che si confrontano agli<br />

inizi del XX secolo, dopo le rotture del simbolismo e mentre insorgevano le avanguardie, di una<br />

tendenza all’ermetismo, ovvero a interpretare la poesia come qualcosa di sacro, di misterico, che<br />

non regredisce in una mitica fanciullezza come in Pascoli, ma attinge l’assoluto e l’inconoscibile<br />

spiegato per simboli e allusioni. E il gesto simbolico di immergersi per poi risalire fino alla luce è<br />

una specie di rito di purificazione da cui nasce quello stile che sarà detto della poesia "pura", ovvero<br />

depurata da determinazioni temporali, spaziali, da eccessi retorici ed estetizzanti.<br />

69


Giuseppe Ungaretti, I fiumi<br />

[Ungaretti, Vita d'un uomo. Tutte le poesie, p. 43-5]<br />

Un bagno nell’Isonzo diventa un viaggio attraverso il passato per ritrovare le proprie radici: il<br />

poeta rievoca, insieme ai propri ricordi personali, i fiumi che li hanno attraversati.<br />

Cotici il 16 agosto 1916<br />

Mi tengo a quest’albero mutilato<br />

abbandonato in questa dolina<br />

che ha il languore<br />

di un circo<br />

prima o dopo lo spettacolo 5<br />

e guardo<br />

il passaggio quieto<br />

delle nuvole sulla luna<br />

Stamani mi sono disteso<br />

in un’urna d’acqua 10<br />

e come una reliquia<br />

ho riposato<br />

L ’Isonzo scorrendo<br />

mi levigava<br />

come un suo sasso 15<br />

Ho tirato su<br />

le mie quattr’ ossa<br />

e me ne sono andato<br />

come un acrobata<br />

sull’acqua 20<br />

Mi sono accoccolato<br />

vicino ai miei panni<br />

sudici di guerra<br />

e come un beduino<br />

mi sono chinato a ricevere 25<br />

il sole<br />

questo è l’Isonzo<br />

e qui meglio<br />

mi sono riconosciuto<br />

una docile fibra 30<br />

dell’universo<br />

Il mio supplizio<br />

è quando<br />

non mi credo<br />

in armonia 35<br />

Ma quelle occulte<br />

mani<br />

70


che m’intridono<br />

mi regalano<br />

la rara 40<br />

felicità<br />

Ho ripassato<br />

le epoche<br />

della mia vita<br />

Questi sono 45<br />

i miei fiumi<br />

Questo è il Serchio<br />

al quale hanno attinto<br />

duemil’anni forse<br />

di gente mia campagnola 50<br />

e mio padre e mia madre.<br />

Questo è il Nilo<br />

che mi ha visto<br />

nascere e crescere<br />

e ardere d’inconsapevolezza 55<br />

nelle estese pianure<br />

Questa è la Senna<br />

e in quel suo torbido<br />

mi sono rimescolato<br />

e mi sono conosciuto 60<br />

Questi sono i miei fiumi<br />

contati nell’Isonzo<br />

Questa è la mia nostalgia<br />

che in ognuno<br />

mi traspare 65<br />

ora ch’è notte<br />

che la mia vita mi pare<br />

una corolla<br />

di tenebre<br />

1 mi tengo: mi appoggio.<br />

2 abbandonato: il participio può riferirsi all’albero, ma anche al poeta, per sottolineare lo stato di abbandono al<br />

ricordo; dolina: una formazione tipica del paesaggio carsico, cavità di forma circolare creata ad opera dell'acqua che<br />

erode la roccia calcarea.<br />

10 urna d’acqua: come nel verso successivo, in cui il poeta si paragona ad una reliquia, urna è termine attinto dal<br />

linguaggio sacro e rituale.<br />

19 come un acrobata: l’immagine richiama quella dei vv. 4-5 relativi al circo: in più l’acrobata è colui che cammina<br />

con precario equilibrio (sui sassi del fiume) e dunque simboleggia anche la precarietà della condizione umana.<br />

24 come un beduino: immagine memoriale dell’Africa, che anticipa la successiva evocazione del Nilo.<br />

27 Isonzo: fiume che scorre in territori dove si combatteva la prima guerra mondiale, attualmente in parte sloveni e in<br />

parte nel Friuli Venezia Giulia.<br />

30-31 Una docile fibra/dell’universo: in comunione con la natura, il poeta si sente come uno dei singoli elementi<br />

costitutivi di essa e a questa condizione sente di voler conformarsi.<br />

36-37 occulte mani: sono le acque del fiume, ma metaforicamente «le mani eterne che foggiano assidue il destino di<br />

ogni essere vivente» (così Ungaretti, nelle “Note introduttive” all’edizione del 1969).<br />

71


47 Serchio: il fiume che scorre in Lucchesia, luogo dell’origine contadine della famiglia di Ungaretti.<br />

52. Nilo: il poeta è nato ad Alessandria d’Egitto.<br />

55 ardere d’inconsapevolezza: si riferisce agli ardori adolescenziali, quando si è ancora inconsapevoli del mondo.<br />

57 Senna: il fiume di Parigi, dove Ungaretti ha studiato e ha preso coscienza di sé.<br />

62 contati nell’Isonzo: ritrovati nel ricordo mentre si bagna nel fiume Isonzo.<br />

63 nostalgia: il “dolore del ritorno”, che è il significato letterale del termine si coniuga con la consapevolezza di un<br />

presente tormentato (cfr. versi successivi).<br />

68-69 una corolla/di tenebre: immagine della precarietà e dell’oscurità del presente.<br />

SCHEDA METRICA<br />

Versi liberi, suddivisi in 15 strofe di varia lunghezza. Nel componimento mancano le rime, mentre sono frequenti<br />

allitterazioni e assonanze, specieafineverso.<br />

L’allegria di Naufragi è la presa di coscienza di sé, è la scoperta che prima adagio avviene, poi<br />

culmina d’improvviso in un canto scritto il 16 agosto 1916 in piena guerra, in trincea, e che<br />

s’intitola I Fiumi. Vi sono enumerate le quattro fonti che in me mescolavano le loro acque, i<br />

quattro fiumi il cui moto dettò i canti che scrissi allora. [Ungaretti, “Note introduttive” a<br />

“L’Allegria” in Vita d’un uomo, p. 517]<br />

Un uomo immerso in un fiume, presso una dolina: così si presenta il poeta in questa sua celebre<br />

lirica, una delle più lunghe. Bagnandosi nelle acque dell’Isonzo, il poeta ha la sensazione di essere<br />

in piena sintonia con l’universo e con se stesso. Ciò l'induce a recuperare la memoria del passato, di<br />

tutti i fiumi che ha conosciuto, ciascuno assurto a simbolo delle diverse tappe della sua vita: il<br />

Serchio, legato ai suoi avi, il Nilo, che lo ha visto crescere negli anni della giovinezza, la Senna, il<br />

fiume della sua maturazione durante il periodo parigino.<br />

A questo primo tema, già nei primi versi, se ne accompagna un altro, fondamentale: il ristabilirsi<br />

di un rapporto di armonia con il creato, che l’esperienza della guerra sembrava aver infranto.<br />

Affidato alle “mani” amorevoli dell’Isonzo, il poeta si riconosce parte dell’universo. Ecco il fiume<br />

che sfiora il suo corpo quasi a levigarlo come un sasso, ed ecco il riconoscersi come fragile fibra<br />

dell'universo.<br />

Poi, nei versi centrali, esattamente a metà del componimento, la confessione sofferta: il mio<br />

supplizio/ è quando/ non mi credo/ in armonia. Il dolore e la tristezza, ineludibili nella condizione<br />

umana, nascono infatti in chi si sente emarginato, in chi non riesce a coniugare le proprie<br />

aspirazioni con la realtà. E' un dolore privato, come testimonia l'aggettivo mio, riferito al supplizio.<br />

In questa circostanza è proprio il fiume ad aiutare il soggetto, regalandogli la “rara” felicità di una<br />

rinascita, e facendogli ripercorrere tutto lo scorrere dei suoi anni, in un flusso in cui il passato<br />

diviene presente: e l'Isonzo rappresenta tutti i fiumi, quello del paese d’origine della famiglia,<br />

quello d'Egitto, quello di Parigi, perché tutti i fiumi sono questo fiume, come testimonia l’iterazione<br />

dell’aggettivo dimostrativo questo e dell’avverbio qui.<br />

L’atto rituale e religioso dell’immersione (sottolineato dalle parole urna e reliquia) diventa così,<br />

attraverso la memoria, recupero di un’identità che la guerra con i suoi “sudici panni” da soldato ha<br />

sottratto. Anche la figura “cristologica” dell’acrobata che cammina sull’acqua finisce per<br />

collaborare ad un’atmosfera solenne e religiosa, che ad alcuni è parso richiamasse una sorta di<br />

“primordiale innocenza” della poesia.<br />

La lirica si chiude con il ritorno: un ritorno al presente, il ritorno della notte, il sentimento stesso del<br />

ritorno, che è la nostalgia. La notte allontana di nuovo la rinascita e la vita, non più chiara e in<br />

comunione, analogicamente è simboleggiata dalla corolla di tenebre: dopo tanta acqua, un fiore,<br />

oscuro, nero, vago e indefinito. Il segreto del cosmo, che si era dischiuso in un attimo di luce, si<br />

richiude ed è riassorbito dalle tenebre.<br />

72


Giuseppe Ungaretti, Amaro accordo<br />

[Ungaretti, Vita d'un uomo. Tutte le poesie, p. 214]<br />

È questa una delle poesie della raccolta “Il Dolore” dedicate al figlio morto all’età di nove anni,<br />

nella quale il poeta evoca scene di vita amaramente spezzate dal destino.<br />

Oppure in un meriggio d'un ottobre<br />

Dagli armoniosi colli<br />

In mezzo a dense discendenti nuvole<br />

I cavalli dei Dioscuri,<br />

Alle cui zampe estatico 5<br />

S'era fermato un bimbo,<br />

Sopra i flutti spiccavano<br />

(Per un amaro accordo dei ricordi<br />

Verso ombre di banani<br />

E di giganti erranti 10<br />

Tartarughe entro blocchi<br />

D'enormi acque impassibili:<br />

Sotto altro ordine d'astri<br />

Tra insoliti gabbiani)<br />

Volo sino alla piana dove il bimbo 15<br />

Frugando nella sabbia,<br />

Dalla luce dei fulmini infiammata<br />

La trasparenza delle care dita<br />

Bagnate dalla pioggia contro vento,<br />

Ghermiva tutti e quattro gli elementi. 20<br />

Ma la morte è incolore e senza sensi<br />

E, ignara d'ogni legge, come sempre,<br />

Già lo sfiorava<br />

Coi denti impudichi.<br />

1 meriggio: mezzogiorno.<br />

2 Dioscuri: sono i gemelli Castore e Polluce, eroi mitologici figli di Zeus, cui vennero spesso dedicate imponenti<br />

statue equestri.<br />

5 estatico: ammirato, come in estasi.<br />

8 amaro accordo: associazione, collegamento triste.<br />

10 erranti: in movimento perenne.<br />

13 sotto … astri: sotto altre stelle, in un altro emisfero.<br />

15 Volo: Mi trasferisco con il pensiero.<br />

20 Ghermiva … elementi: Afferrava (il soggetto è la trasparenza delle dita) il fuoco, la terra, l’aria e l’acqua, ovvero la<br />

totalità delle cose esistenti.<br />

24 impudichi: senza morale e sena pudore.<br />

SCHEDA METRICA<br />

Quattro strofe di versi liberi, con prevalenza di endecasillabi e settenari.<br />

Nella raccolta “Il Dolore”, da cui è tratta questa lirica, Ungaretti affronta tre grandi motivi di<br />

sofferenza: due privati, la morte del figlio e del fratello, e l’altro pubblico, le condizioni di Roma<br />

durante l’occupazione tedesca nella seconda guerra mondiale. Di fronte a questi temi egli<br />

abbandona il verso breve che era stata la sua cifra stilistica più propria, soprattutto ne “L’ Allegria”,<br />

73


e si affida al più classico dei versi della tradizione poetica <strong>italiana</strong>: l’endecasillabo, che qui si<br />

alterna con il settenario come accadeva nella canzone leopardiana, entrambi rivisitati reinventando<br />

nuove musicalità.<br />

In Amaro accordo il poeta dipana il suo dolore per la perdita del figlio attraverso il sovrapporsi dei<br />

ricordi, come in un monologo interiore che non ha pace: la lirica si apre con Oppure… come un<br />

discorso che prosegue, che espone solo un altro, ennesimo esempio di immagini comuni della vita,<br />

della quotidianità spezzata dalla morte. Un mezzogiorno qualunque di un qualunque ottobre, in un<br />

paesaggio dai contorni gradevoli, i cavalli delle statue degli eroi s’imponevano all’attenzione. E<br />

accanto alle zampe s’era fermato un bimbo ammirato.<br />

E la memoria impone allora la sua associazione di pensieri, amaro accordo dei ricordi, e il poeta<br />

evoca l’immagine di tartarughe che come giganti in movimento si spostavano dentro enormi vasche<br />

d’acqua. L’evocazione, vagamente inquietante, contrappone questo paesaggio estraneo e inusuale (è<br />

il Brasile, dove il poeta vive e il bambino si ammala e muore) al più mite paesaggio italiano<br />

caratterizzato dagli armoniosi colli. Anche in altre liriche dedicate al figlio Antonietto, morto per<br />

un’appendicite mal curata, il poeta contrappone i due mondi, quasi ad accusarsi di aver fatto morire<br />

il figlio conducendolo a vive in zone insalubri e in ospitabili.<br />

Ma nel frattempo il ricordo del bimbo si fa più preciso. Il poeta lo rivede mentre gioca frugando<br />

nella sabbia. Un fulmine illumina le dita ormai rese trasparenti, forse anche dalla magrezza e dalla<br />

malattia, che la luce improvvisa del fulmine sotto la pioggia rende diafane. Eppure quelle dita<br />

sembrano afferrare il segreto di tutte le cose e dominare gli elementi del creato. Ma la morte, che<br />

insensibile non rispetta alcuna legge, già si prepara a farne una propria vittima.<br />

Il contrasto fra la vita e la morte è reso paradossale dall’uso dei verbi in forte contrapposizione: alla<br />

trasparenza delle dita è attribuito un verbo proprio del’azione della morte: ghermiva; mentre alla<br />

morte stessa è attribuito un verbo tipico dell’azione delle dita: sfiorava. Nell’inversione semantica si<br />

consuma l’assurdo, l’inaccettabilità del rapporto fra vita e morte.<br />

74


Eugenio Montale, Cigola la carrucola del pozzo<br />

[ MONTALE, Tutte le poesie, p. 47]<br />

In Ossi di seppia, la sua prima raccolta (1925) il poeta tocca spesso il tema della memoria, che<br />

riemerge nutre e illude l’animo, rivelandosi alla fine crudele, per la dolorosa impossibilità di<br />

restituire davvero la vita.<br />

Cigola la carrucola del pozzo<br />

l'acqua sale alla luce e vi si fonde.<br />

Trema un ricordo nel ricolmo secchio,<br />

nel puro cerchio un'immagine ride.<br />

Accosto il volto a evanescenti labbri: 5<br />

si deforma il passato, si fa vecchio,<br />

appartiene ad un altro...<br />

Ah che già stride<br />

la ruota, ti ridona all'atro fondo,<br />

visione, una distanza ci divide.<br />

3 ricolmo: pieno fino all’orlo.<br />

4 puro cerchio: il cerchio di acqua limpida.<br />

5 evanescenti labbri: le labbra dell’immagine hanno tratti incerti, sfuggenti, sia per il tremolio dell’acqua che perché<br />

appartengono al ricordo.<br />

6 si deforma il passato: quando il poeta vi si accosta l’immagine, che appartiene al passato, si deforma.<br />

7 stride la ruota: la ruota della carrucola ha un suono stridente mentre il secchio ridiscende.<br />

8 atro: oscuro e buio (termine dantesco).<br />

9 visione … ci divide: una distanza incolmabile divide il poeta dalla visione tornata nel fondo del pozzo, nel passato.<br />

SCHEDA METRICA<br />

Endecasillabi con rime e assonanze variamente disposte: il verso 7 è diviso in due emistichi<br />

Dalla profondità di un pozzo, correlativo oggettivo della memoria, una carrucola sale stridendo: lo<br />

stridio rimanda alla fatica del recupero che dalle pieghe profonde della psiche fa riemergere il<br />

ricordo di un volto caro, forse il volto del poeta o quello della donna amata.<br />

E quando la riappropriazione del ricordo avviene, essa si identifica con il cerchio, al v.4, forma<br />

geometricamente perfetta e perciò adatta alla magica rievocazione del passato (“nel puro cerchio<br />

un’immagine ride”).<br />

Sin dal principio, quel che colpisce nella lettura di questa lirica è la sua straordinaria musicalità:<br />

essa si configura come un’unica strofa di versi endecasillabi, intensa di fonosimbolismi, con rime<br />

che rimandano alla prima cantica dantesca (secchio-vecchio, ride-stride) e numerose assonanze<br />

(ricòrdo-ricòlmo), consonanze e iterazioni foniche che creano un effetto d’eco e rendono<br />

estremamente musicale anche il ritmo (ad esempio: trema un ricordo nel ricolmo secchio , o in<br />

seguito: la ruota, ti ridona all’atro fondo). Sul piano fonosimbolico si notino le parole piane<br />

(acqua-luce-sale-fonde) che accompagnano il momento di felicità ed il verbo ride al v. 4<br />

chiasticamente contrapposto al trema del verso precedente.<br />

Ma il recupero del ricordo, che affiora alla superficie dell’acqua e si illumina alla luce del sole, è<br />

evanescente ed effimero: esso arriva presto a dissolversi (evanescenti labbri al v.5) e il senso della<br />

precarietà, dato anche a livello fonosimbolico dal fonema /r/ allitterante, quando è accompagnato<br />

dalla dentale sorda consente di isolare il vero nodo: l’irrecuperabilità del passato. Quando il secchio<br />

75


viene portato in superficie l’acqua all’interno si muove e s’increspa, trema: in senso metaforico il<br />

tremito è l’instabilità dell’immagine che affiora alla memoria.<br />

L’intorbidirsi dell’immagine coincide con lo svanire del ricordo. La breve illusione di felicità<br />

accompagnata dalla perdita irreparabile della speranza è messa in evidenza dalla rima di ride del<br />

v.4 con stride al v 7.<br />

Sottotraccia sentiamo in questa lirica la suggestione di immagini mitologiche: da quella dell’acquaspecchio<br />

di Narciso a uno dei miti costitutivi della civiltà occidentale, il mito di Orfeo che riprende<br />

Euridice dal profondo pozzo degli Inferi e poi la smarrisce.<br />

“Il passato …. appartiene ad un altro” [v.7-8] è la conclusione che ribadisce la distanza che divide<br />

il poeta dalla visione . Nel pozzo della memoria, la ruota, simbolo del meccanismo inarrestabile che<br />

crea fratture, e del destino, ha trascinato non solo un volto, ma anche una parte dell’uomo.<br />

Va evidenziato, a livello intertestuale, che il tema della memoria, anche in Montale, come in<br />

Ungaretti, costituisce un nucleo fondante: in Ossi di seppia, la raccolta con cui egli inizia la sua<br />

attività poetica, essa si oggettiva in ricordi associati ad elementi del mondo circostante, oggetti della<br />

natura: è una scelta che ritornerà anche nelle liriche più celebri, come Spesso il male di vivere ho<br />

incontrato, e che hanno consentito di associare la poetica montaliana delle origini a quella del<br />

correlativo oggettivo di Eliot<br />

Sul piano lessicale le scelte operate da Montale privilegiano l’uso metaforico dei verbi che<br />

umanizzano le immagini mettendo in luce il senso della labilità (trema un ricordo... si deforma il<br />

passato). Non mancano termini colti come atro dantesco, accanto ad altri desunti invece dal<br />

linguaggio quotidiano come secchio, pozzo, ruota, tipici del vocabolario scabro ed essenziale<br />

proprio della raccolta Ossi di seppia, la cui poetica si caratterizzerà proprio per il distacco<br />

dall’eloquenza e dalla lingua aulica e dalla ricerca di immagini della natura, del paesaggio, della<br />

vita che rimandano alla negatività del male di vivere e nel contempo siano illusione di positività e<br />

riscatto.<br />

76


Eugenio Montale, La casa dei doganieri<br />

[ MONTALE, Tutte le poesie, p. 167]<br />

La memoria dei luoghi di Monterosso e la consapevolezza dell’ineluttabilità della perdita dei<br />

ricordi stessi sono il nucleo di questa poesia pubblicata per la prima volta nel 1930, e confluita<br />

nel primo fascicolo delle future Occasioni (1932).<br />

Tu non ricordi la casa dei doganieri<br />

sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:<br />

desolata t’attende dalla sera<br />

in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri<br />

e vi sostò irrequieto. 5<br />

Libeccio sferza da anni le vecchie mura<br />

e il suono del tuo riso non è più lieto:<br />

la bussola va impazzita all’avventura<br />

e il calcolo dei dadi più non torna.<br />

Tu non ricordi; altro tempo frastorna 10<br />

la tua memoria; un filo s’addipana.<br />

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana<br />

la casa e in cima al tetto la banderuola<br />

affumicata gira senza pietà.<br />

Ne tengo un capo; ma tu resti sola 15<br />

né qui respiri nell’oscurità.<br />

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende<br />

rara la luce della petroliera!<br />

Il varco è qui? (Ripullula il frangente<br />

ancora sulla balza che scoscende ...) 20<br />

Tu non ricordi la casa di questa<br />

mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.<br />

1 Tu: Apertura vocativa, che si rivolge direttamente alla donna amata.<br />

2 casa dei doganieri: è la sede delle guardie costiere addette al controllo delle merci in transito.<br />

3 desolata t’attende: riferito alla casa, che attende il ritorno della donna, ma allude anche allo stato d’animo del poeta.<br />

4 lo sciame … pensieri: i pensieri della donna, in continuo movimento.<br />

6 Libeccio: vento di sud-ovest, caratterizzato da raffiche intense.<br />

7 il suono… lieto: il riso della donna, rivissuto nel ricordo, non è più lieto come un tempo.<br />

8-9 la bussola … torna: due immagini che indicano incertezza, impossibilità di far affidamento a sicuri strumenti di<br />

orientamento: la bussola che si muove impazzita e il calcolo dei dadi che non torna, per cui ogni azzardo, ogni ipotesi<br />

non è possibile<br />

10 altro tempo: altra condizione di vita, per la lontananza o forse la morte; frastorna: confonde, distrae.<br />

11 un filo … s’addipana: il filo della memoria si svolge.<br />

12 Ne tengo …un capo: Trattengo il filo dei ricordi; s’allontana: sfuma nella memoria.<br />

13 banderuola affumicata: figurina metallica posta sui tetti accanto ai comignoli (e per questo affumicata) che<br />

ruotando indica la direzione del vento.<br />

16 né qui … oscurità: non sei qui a respirare nell’oscurità della notte.<br />

17 orizzonte in fuga: anche la linea dell’orizzonte sembra sfumare, allontanarsi.<br />

18 rara: a tratti, non continua.<br />

19 il varco: il punto di passaggio, di uscita dalle contraddizioni dell’esistenza;<br />

19- 20 Ripullula … scoscende: l’onda continua a rifrangersi contro la scogliera (balza) a picco sul mare.<br />

77


SCHEDA METRICA<br />

Quattro strofe di versi di lunghezza variabile, prevalentemente endecasillabi o di poco allungati; la struttura rimica,<br />

nel complesso regolare, disegna un diverso schema metrico composto da cinque quartine, non del tutto regolari, a<br />

rima baciata o alternata, e da un distico finale a rima baciata.<br />

L’“occasione” che ispira la lirica è il ritorno, all’apparenza in visita, ma certamente in memoria,<br />

alla casa di Monterosso, dove il poeta trascorreva le vacanze in gioventù: il ricordo di essa si lega a<br />

quello della donna che fa da interlocutrice ideale, a cui ci si rivolge con l’allocuzione dell’esordio<br />

(Tu non ricordi). Si tratta di Arletta-Annetta, un amore giovanile, lontano: forse perduto o forse<br />

morto, non è dato saperlo. E questo perché a poesia ha significato universale, come lo stesso<br />

Montale sottolineò spiegando che la casa dei doganieri fu distrutta quando lui aveva sei anni e<br />

Arletta non potè conoscerla.<br />

La rievocazione del passato diventa dunque rievocazione del desiderio, provato un tempo di andare<br />

oltre il proprio ristretto destino.<br />

Ricca di citazioni, dall’allocuzione iniziale che rimanda alla Silvia leopardiana, al mito del filo di<br />

Arianna (il filo memoriale di cui il poeta tiene un capo mentre l’altro si perde nell’oscurità, come<br />

nel labirinto), la lirica è anche un esempio felicissimo dell’uso simbolico del linguaggio: bussola,<br />

dadi, banderuola, sono altrettanti correlativi oggettivi della percezione, o forse consapevolezza, di<br />

non poter dare, purtroppo, esito certo ad alcun progetto esistenziale.<br />

Non manca una buona dose di ambiguità, che rende in alcuni passaggi oscuri: la donna non ride più<br />

lieta a causa della morte o della situazione presente del poeta?<br />

E la sottolineatura di alcune espressione ripetute e scandite (Tu non ricordi ai vv.1, 10 e 21; Ne<br />

tengo [ancora] un capo ai vv.12 e 15) svolge allo stesso tempo una funzione musicale e ritmica e<br />

una funzione espressiva ribadendo l’assenza dell’altro, dell’interlocutrice,e lo sconcerto di chi<br />

comprende la confusione della vita.<br />

Funzione di chiusura svolge l’ultima strofa, la più complessa, che culmina nella desolata<br />

dichiarazione finale: “Ed io non so chi va e chi resta”, che circolarmente riprende l’incipit (nel<br />

confronto e nella confusione tra il Tu e l’io, tra la donna che non c’è e non ricorda, e il poeta che<br />

resta e ricorda ma senza illusioni). A fronte di una natura che appare ripetersi sempre uguale (eventi<br />

ciclici sono le onde che si rifrangono) alla luce che sembra offrire una via di fuga, un varco (una<br />

via di salvezza, oppure, come ha scritto e interpretato all’opposto Marchese, il passaggio tra vita e<br />

morte) la poesia testimonia il fallimento del desiderio che la memoria possa restituire nitidamente<br />

un senso esistenziale. La confusione, il non so che richiama anche il celebre “Non chiederci la<br />

parola”, si estende al non sapere se è più vivo chi è di qua o di là, oltre l’esistenza.<br />

78


Eugenio Montale, L’anguilla<br />

[ MONTALE, Tutte le poesie, p. 262]<br />

Il viaggio dell’anguilla dai mari freddi ai nostri più caldi per cercare l’ambiente adatto alla riproduzione diventa il<br />

simbolo della lotta per rinascere proprio nel momento in cui le cose si disgregano, come accade nell’orrore della<br />

guerra, a cui la raccolta La bufera e altro (pubblicata nel 1956: questa poesia, che risale al 1948, è nella quinta<br />

sezione, Silvae) è dedicata.<br />

L’anguilla, la sirena<br />

dei mari freddi che lascia il Baltico<br />

per giungere ai nostri mari,<br />

ai nostri estuari, ai fiumi<br />

che risale in profondo, sotto la piena avversa, 5<br />

di ramo in ramo e poi<br />

di capello in capello, assottigliati,<br />

sempre più addentro, sempre più nel cuore<br />

del macigno, filtrando<br />

tra gorielli di melma finché un giorno 10<br />

una luce scoccata dai castagni<br />

ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta,<br />

nei fossi che declinano<br />

dai balzi d’Appennino alla Romagna;<br />

l’anguilla, torcia, frusta, 15<br />

freccia d’Amore in terra<br />

che solo i nostri botri o i disseccati<br />

ruscelli pirenaici riconducono<br />

a paradisi di fecondazione;<br />

l’anima verde che cerca 20<br />

vita là dove solo<br />

morde l’arsura e la desolazione,<br />

la scintilla che dice<br />

tutto comincia quando tutto pare<br />

incarbonirsi, bronco seppellito; 25<br />

l’iride breve, gemella<br />

di quella che incastonano i tuoi cigli<br />

e fai brillare intatta in mezzo ai figli<br />

dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu<br />

non crederla sorella? 30<br />

2 Baltico: Mare del nord.<br />

4 estuari: ampia foce del fiume nella quale l’acqua marina si mescola all’acqua dolce e dove l’anguilla inizia la risalita<br />

del fiume alla ricerca di un luogo adatto alla riproduzione.<br />

5 in profondo … avversa: nuotando in profondità per evitare la corrente contraria del fiume.<br />

6 di ramo … capello: passando via via da un ramo all’altro del fiume, fino ai tatti più sottili, come un capello.<br />

8 più addentro: più su, dentro la terraferma.<br />

8-9 nel cuore … macigno: nella parte più interna delle montagne, dove i fiumi hanno origine.<br />

10 gorielli di melma: canaletti melmosi.<br />

11 una luce… dai castagni: una striscia di luce che filtra fra i rami come fosse una freccia scoccata dagli stessi<br />

castagni.<br />

12 ne accende… acqua morta: la luce illumina in modo vivace il guizzo delle anguille nelle pozze di acque ferme.<br />

13-14 nei fossi … Romagna: nei fossi che scendono dai ripiani montuosi (balzi) dell’Appennino verso le coste della<br />

Romagna.<br />

15-16 torcia… terra: la fiaccola, la frusta, la freccia sono i simboli di Cupido, dio dell’Amore cui l’anguilla viene<br />

assimilata.<br />

17 botri: fossati stretti e ripidi.<br />

17-18 disseccati … pirenaici: ruscelli poveri d’acqua nei Pirenei.<br />

79


19 paradisi di fecondazione: luoghi dove l’anguilla trova la gioia intensa dell’accoppiamento e della riproduzione.<br />

20-22 l’anima… desolazione: l’anguilla è l’anima vitale (verde) che si riproduce (cerca vita) solo dove la terra è come<br />

morsa dalla mancanza d’acqua e dalla desolazione.<br />

23-24 scintilla … inacarbonirsi: la scintilla che ridà vitalità alla fiamma quando sembra che tutto si stia spegnendo.<br />

24 bronco seppellito: il pezzo di legno del focolare bruciato e carbonizzato sarebbe come un ramo spoglio (bronco)<br />

ricoperto di terra<br />

26 iride breve… sorella: si chiude in modo assai complesso l’interrogativo aperto dal primo verso: puoi tu, donna, non<br />

credere a te sorella, accomunata dallo stesso destino,<br />

la breve iridescenza (qui l’anguilla è puro barlume di luce), simile (gemella) a quella dei tuoi occhi che i tuoi cigli<br />

incastonano e tu fai brillare pura e intatta in mezzo alla gente<br />

SCHEDA METRICA<br />

Un’unica lunga strofa composta di versi di varia natura (dai classici settenari ed endecasillabi al settenario doppio)<br />

con rime e assonanze, anche intenrne, distribuite liberamente .<br />

L’ intera poesia è un lungo unico periodo interrogativo, che si apre al primo verso e si chiude solo<br />

all’ultimo: un esempio di incredibile perizia tecnica e compositiva, se si considera che trenta versi<br />

si snodano in un tessuto di subordinate (alcune coordinate tra loro dalla punteggiatura) rette dal<br />

nome dell’anguilla e dai suoi appellativi-attributi: sirena, anima verde, scintilla, iride) . L’oggetto,<br />

il soggetto e il predicato della principale sono divisi tra il primo e gli ultimi due versi:<br />

l’anguilla….puoi tu / non crederla sorella? La struttura ci invita così ad una lettura veloce e a<br />

compiere un viaggio non meno tortuoso di quello dell’anguilla stessa.<br />

L’animale ha un’altissima pregnanza simbolica e viene trasfigurato metaforicamente non tanto in<br />

relazione alle sue caratteristiche figurative (zoologiche) ma sovrapponendovi caratteristiche<br />

dell’immaginario animale e fiabesco anche legate ad altri pesci (come il salmone che risale le<br />

correnti) o alla mitologia come la sirena.<br />

L’anguilla diventa simbolo d’Amore rivitalizzante, che nasce là dove la vita sembra riarsa o spenta,<br />

dopo una lunga ricerca, un viaggio di risalita esistenziale che la porta dalle fredde distese d’acqua<br />

del Nord ai rigagnoli disseccati delle alture dell’Appennino o dei Pirenei. Quando nelle pozze<br />

d’acqua la luce del sole filtrata fra i castagni ne rivela la presenza vitale, il guizzo luminoso, pare<br />

che il miracolo si sia compiuto o stia per compiersi: l’anguilla ha raggiunto il suo ambito paradiso<br />

di fecondazione e il ciclo della vita può riavere inizio. Essa, dunque, è simbolo della donna stessa,<br />

della sua forza procreatrice, dell’ostinazione con cui riconferma il ciclo dell’esistenza.<br />

Di qui l’analogia tra l’iride breve (i colori iridescenti) dell’anguilla e l’iride degli occhi della donna,<br />

il soggetto della poesia, che è la Clizia della raccolta, una sorta di donna-angelo. La caratteristica<br />

dell’anguilla, che la rende analogicamente simile a Clizia, a lei sorella, è di portare luce tra le<br />

tenebre: essa come scintilla porta fuoco, cioè vita, dove tutto è terra riarsa. Si guardi ai vv. 11 e 12,<br />

in cui l’immagine dell’animale che illuminata da un raggio di sole filtrato tra i castagni brilla<br />

guizzando tra le pozzanghere. Come non richiamare I limoni, la poesia manifesto programmatico<br />

della poetica montaliana? Lì il poeta scrive<br />

Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi<br />

fossi dove in pozzanghere<br />

mezzo seccate agguantano i ragazzi<br />

qualche sparuta anguilla<br />

E come l’anguilla riluce nelle pozzanghere, così la donna brilla tra il fango in cui sono immersi<br />

gli uomini (vv.28-29). Si comprende così l’alto valore figurale di questa creatura in cui si<br />

mescolano e metamorfizzano i regni della natura, minerale vegetale e animale.<br />

Si è più volte notato come Montale rilegga e reinterpreti in questa raccolta il grande modello di<br />

Dante (secondo Luperini, in particolare nella sezione Silvae a cui appartiene questa poesia).<br />

Basso e alto, livello terreno e livello simbolico si mescolano difatti nel linguaggio come nel<br />

80


contenuto. Sul piano del contenuto l’animale incarna l’esperienza della rigenerazione, dopo la<br />

combustione, della rinascita dopo i deliri della guerra mondiale, che hanno ridotto l’intero<br />

mondo a massa desolata e informe. Sul piano del linguaggio, come Dante, Montale mescola i<br />

piani: ne deriva un linguaggio a tratti aulico e ricercato con richiami danteschi o dannunziani -<br />

gorielli al v. 10, che evoca la morta gora di Inferno, II, 31; bronco al v.25; botri al v. 17 - a<br />

tratti più semplice, che si affida a analogie come quella tra il ramificarsi filiforme dei corsi<br />

d’acqua e i capelli (al v.7).<br />

Un ultimo cenno va dedicato alle corrispondenze tra il livello semantico, quello sintattico e quello<br />

fonico: se la tortuosità, la continuità sinuosa caratterizza il viaggio dell’anguilla (sul piano del<br />

contenuto) e il periodare del poeta (sul piano della sintassi), non diversamente, nella partitura del<br />

testo, ritornano le consonanti liquide contenute nel nome dell’anguilla: capello, gorielli, scintilla,<br />

gemella, sorella. E fitta è la rete di assonanze e allitterazioni vicine e distanti che contribuiscono<br />

a rendere il testo sorprendentemente compatto.<br />

81


Salvatore Quasimodo, Vento a Tindari<br />

[QUASIMODO, Tutte le poesie, p. 28]<br />

Tindari, mite ti so<br />

fra larghi colli pensile sull’acque<br />

delle isole dolci del dio,<br />

oggi m’assali<br />

e ti chini in cuore. 5<br />

Salgo vertici aerei precipizi,<br />

assorto al vento dei pini,<br />

e la brigata che lieve m’accompagna<br />

s’allontana nell’aria,<br />

onda di suoni e amore, 10<br />

e tu mi prendi<br />

da cui male mi trassi<br />

e paure d’ombre e di silenzi,<br />

rifugi di dolcezze un tempo assidue<br />

e morte d’anima 15<br />

A te ignota è la terra<br />

Ove ogni giorno affondo<br />

E segrete sillabe nutro:<br />

altra luce ti sfoglia sopra i vetri<br />

nella veste notturna, 20<br />

e gioia non mia riposa<br />

sul tuo grembo.<br />

Aspro è l’esilio,<br />

e la ricerca che chiudevo in te<br />

d’armonia oggi si muta 25<br />

in ansia precoce di morire;<br />

e ogni amore è schermo alla tristezza,<br />

tacito passo al buio<br />

dove mi hai posto<br />

amaro pane a rompere. 30<br />

Tindari serena torna;<br />

soave amico mi desta<br />

che mi sporga nel cielo da una rupe<br />

e io fingo timore a chi non sa<br />

che vento profondo m’ha cercato. 35<br />

1 mite ti so: ti conosco dolce.<br />

2 pensile: sospesa nell’aria, Tindari è arroccata su un’altura.<br />

3 del dio: Tindari sta di fronte alle isole Eolie, dove la mitologia collocava la dimora di Eolo, dio dei venti.<br />

4 oggi m’assali: contrapposto al mite ti so.<br />

5 ti chini in cuore: ti ripieghi dentro il mio cuore.<br />

6 salgo… precipizi: salgo verso cime elevate fra precipizi. Esperienza reale o ricordo?<br />

7 assorto … pini: intento ad ascoltare il vento fra i pini.<br />

8 brigata: compagnia di amici.<br />

10 onda…amore: le persone, viste senza fisicità, corrispondono a un’eco (onda) di suoni, parole e sentimenti d’amore.<br />

11 tu mi prendi: m’assale il tuo ricordo. Di Tindari o, come è stato sostenuto, di una donna, una figura femminile che<br />

si confonde e sovrappone con il luogo perché altra fonte di dolorosa lacerazione<br />

82


12 da cui … mi trassi: tu, terra dalla quale con dolore mi allontanai (mi trassi)<br />

14-16 e paure…d’anima: e mi assalgono (tutti i sostantivi concordano a senso con prendi) le paure di ombre e di<br />

silenzi, le dolcezze nelle quali un tempo mi rifugiavo spesso, un senso di morte dell’anima<br />

17 affondo: sprofondo.<br />

18 segrete .. nutro: alimento segrete sillabe; è un riferimento all’attività dello scrivere poesie.<br />

19 – 20 altra luce … notturna: la luce che sfiora di notte le tue case è diversa da quella in cui vivo.<br />

21-22 gioia … grembo: la gioia che riposa in te non è mia, non la posso provare.<br />

24-26 ricerca… morire: la ricerca di armonia a cui miravo quando vivevo in te oggi si è mutata in ansia precoce di<br />

morire.<br />

27 ogni amore… tristezza: ogni amore è vissuto solo come riparo alla tristezza.<br />

28-30: ogni amore… rompere: è un avanzare silenzioso nel buio, dove mi hai mandato a spezzare un pane amaro, a<br />

vivere tristemente.<br />

32: soave … mi desta: un amico mi scuote dolcemente.<br />

33 che mi sporga … rupe: affiché mi sporga a guardare da una rupe.<br />

34-35 io fingo… cercato: io fingo di aver provato timore davanti a chi non sa quale sconvolgimento profondo ho<br />

provato (il vento = i ricordi).<br />

SCHEDA METRICA<br />

Versi sciolti di misure diverse.<br />

La lirica introduce sin dai primi versi il tema classico del nostos, il viaggio di ritorno in patria,<br />

evocato qui nel ricordo o, forse, nella realtà.<br />

La nostalgia per la terra natale abbandonata è un tema tipico della poesia di Quasimodo: in molte<br />

opere il rimpianto per il paesaggio e i luoghi della Sicilia dove ha vissuto l’infanzia lo assale mentre<br />

vive al Nord in una dimensione spesso rappresentata come fredda e ostile e contrapposta alla mitica<br />

solarità dei luoghi d’origine. In questa lirica, il poeta, nella prima strofa, è (o immagina di essere) a<br />

Tindari e gli echi mitologici del paesaggio (le isole dolci del dio) gli risuonano dentro, ispirando e<br />

intensificando il ricordo. Così con un’associazione emotivo-sensoriale, il vento che lo colpisce si<br />

contrappone alla dolcezza e provoca uno sconvolgimento interiore: egli si immerge nel ricordo e<br />

vive uno sdoppiamento tra esterno e interno. Mentre le prime due strofe evocano il paesaggio e le<br />

atmosfere della dolce Tindari, le due successive raccontano della terra dove vive il suo amaro esilio,<br />

tanto straniera alla sua natura originaria da esserle ignota. Tindari non può sapere quanto sia triste<br />

quel luogo dove al poeta non pare di vivere, ma di affondare. Da un lato la dolcezza del paesaggio,<br />

i ricordi mitici, l’allegra brigata di amici. L’aria intrisa dai suoni e dagli echi d’amore. Dall’altra<br />

tristezza, luoghi ostili, vita condotta a fatica.<br />

Le scelte lessicali, nelle due parti della lirica, non potrebbero essere più esemplari ed evocative:<br />

nella prima mite / dolci / cuore / lieve/ amore (in rima lontana con cuore) / dolcezze; dall’altra<br />

ignota / affondo / segrete / morire / tristezza/ buio / amaro .<br />

L’ultima strofa è il ritorno al presente, al disincanto. Un amico scuote il poeta che riemerge dal suo<br />

ricordo come da un pericolo scampato e invita Tindari a tornare serena, ignara di quale tristezza gli<br />

abbia pervaso e oscurato per un momento il cuore, immergendolo in un cupo presagio di morte<br />

La lirica ha i tratti tipici della poesia ermetica: il linguaggio metaforico, l’uso di analogie anche di<br />

difficile comprensione e una certa tendenza all’uso di espressioni vaghe, sospese, non facilmente<br />

decifrabili. I nessi logici sono ridotti al minimo, frequenti sono le inversioni (mite ti so; da cui male<br />

mi trassi) che tendono a porre in risalto massimo le parole-chiave.<br />

E grande cura viene dedicata alla musicalità del verso, che alterna in una sorta di monologo lirico<br />

interiore, l’io al tu e presenta frequenti allitterazioni in t e d o parole sdrucciole (pensile, vertici) che<br />

richiamano la misura e la sonorità del nome Tindari.<br />

Sul piano intertestuale, con Quasimodo ancora una volta ci troviamo, a ridosso degli anni Venti e<br />

Trenta (la poesia, composta agli inizi degli anni venti, è stata pubblicata in Acque e Terre nel 1930),<br />

ad evocare il tema della memoria, del ricordo, che costituisce una chiave dell’immaginario di<br />

quell’epoca, accanto alla riflessione sull’attività poetica: che appare, qui e altrove (si veda Montale,<br />

o Ungaretti), come una ricerca di armonia non ripagata dal successo (vv.24-26). Segrete sillabe, atto<br />

di consolazione e di rivalsa, per il poeta, più che soluzione esistenziale.<br />

83


Umberto Saba, Trieste<br />

[U.Saba, Tutte le poesie, p. 89]<br />

L’attaccamento di Saba alla sua città d’origine è variamente testimoniato nel Canzoniere: questa,<br />

come spiegherà l’autore stesso, è la prima poesia che testimonia «la sua volontà precisa di cantare<br />

Trieste proprio in quanto Trieste e non solo in quanto città natale».<br />

Ho attraversata tutta la città.<br />

Poi ho salita un'erta,<br />

popolosa in principio, in là deserta,<br />

chiusa da un muricciolo:<br />

un cantuccio in cui solo 5<br />

siedo; e mi pare che dove esso termina<br />

termini la città.<br />

Trieste ha una scontrosa<br />

grazia. Se piace,<br />

è come un ragazzaccio aspro e vorace, 10<br />

con gli occhi azzurri e mani troppo grandi<br />

per regalare un fiore;<br />

come un amore<br />

con gelosia.<br />

Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via 15<br />

scopro, se mena all'ingombrata spiaggia,<br />

o alla collina cui, sulla sassosa<br />

cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa.<br />

Intorno<br />

circola ad ogni cosa 20<br />

un'aria strana, un'aria tormentosa,<br />

l'aria natia.<br />

La mia città che in ogni parte è viva,<br />

ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita<br />

pensosa e schiva. 25<br />

2 erta: salita.<br />

10 aspro e vorace: scontroso e affamato.<br />

13-14 amore con gelosia: una immagine che rimanda alla contraddizione, al tormento.<br />

16 ingombrata: affollata.<br />

25 pensosa e schiva: pensierosa e riservata, coppia di aggettivi di leopardiana memoria.<br />

SCHEDA METRICA<br />

Tre strofe di endecasillabi, settenari e quinari (unica eccezione il v.19, di tre sole sillabe), liberamente disposti e<br />

rimati. Spicca la presenza di rime baciate (vv.2-3, 9-10, 12-13, 14-15, 20-21)<br />

L’avvio della poesia è descrittivo, prosastico, riscattato solo dalle rime baciate dei vv. 2-3 e 4-5.<br />

Agli occhi del poeta-passante Trieste è città di contrasti, come evidenziano l’antinomia popolosa e<br />

deserta, al v.3, l’ossimoro scontrosa grazia (vv.8-9), la similitudine dell’amore con gelosia. Altre<br />

contraddizioni sono latenti, meno esplicite ma altrettanto significative: la città è sospesa tra mare e<br />

collina, la sua aria è strana e natia.<br />

84


Questi contrasti rimandano al tema chiave della lirica, ovvero il rapporto complesso, misto di odio e<br />

amore, che unisce il poeta alla sua città natale: egli da un lato la ama, perché la trova viva,<br />

attraente, dall’altro ne avverte l’inquietudine (vv. 20-21: “circola ad ogni cosa/ un’aria strana”), e<br />

prova il bisogno di contemplarla da un cantuccio isolato, che lo tenga al riparo da un’eccessiva<br />

aderenza alle cose.<br />

Lo stesso paragone centrale, fra la città e il ragazzaccio aspro e vorace, si alimenta di contrasti.<br />

Trieste emerge nei suoi tratti meno gradevoli e più contraddittori, come chi ha gli occhi del colore<br />

del mare accostati a mani troppo grandi, poco adatte a gesti gentili e delicati (regalare un fiore). Il<br />

ragazzo è l’incarnazione dell’ambiguità della città e del suo fascino misterioso.<br />

Contemperare l’elemento descrittivo e oggettivo con il lato soggettivo di quel che si descrive o<br />

racconta è, come in questa poesia, un tratto pregnante dell’intera esperienza poetica di Saba. Tra i<br />

pochi artifici retorici della lirica di Saba spicca l’uso sapiente dell’enjambement, che si carica di<br />

pregnanza semantica quando pone in evidenza attributi-chiave (solo al v. 5; pensosa e schiva al<br />

v.25). Ma la poesia è caratterizzata anche dal susseguirsi delle rime baciate e delle assonanze,<br />

alcune riprese a distanza per accentuarne la circolarità: per esempio le due parole-chiave scontrosa<br />

del v.8 che anticipa la rima baciata dei vv. 21 e 22 (cosa-tormentosa) e natia del v.22, che richiama<br />

la rima baciata dei vv. 14-15.<br />

Anche la semplicità prosastica, la ripetitività facile del lessico, la circolarità della struttura che<br />

torna, nella sentenza finale, sugli elementi e le immagini dell’inizio (ad esempio, il cantuccio) non<br />

tradisce quello che si può definire un atteggiamento eminentemente lirico: se consideriamo le<br />

notazioni paesistiche generiche, non connotate, come il muricciolo, l’erta, la collina, la sassosa<br />

cima, comprendiamo che Trieste è per il poeta soprattutto il modo per esprimere e rappresentare<br />

uno stato d’animo, un luogo interiore prima che geografico. Uno stato emotivo fatto di slancio e<br />

ritrosia, di entusiasmo e freddezza, di rispecchiamento e distanza.<br />

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Umberto Saba, Città vecchia<br />

(Saba, Tutte le poesie, p.91)<br />

In una via della parte vecchia della città, quella che dà sul porto, l’umanità che sembra vivere ai<br />

margini dell’esistenza indica al poeta la sostanza vera dell’umiltà.<br />

Spesso, per ritornare alla mia casa<br />

prendo un'oscura via di città vecchia.<br />

Giallo in qualche pozzanghera si specchia<br />

qualche fanale, e affollata è la strada.<br />

Qui tra la gente che viene che va 5<br />

dall'osteria alla casa o al lupanare,<br />

dove son merci ed uomini il detrito<br />

di un gran porto di mare,<br />

io ritrovo, passando, l'infinito<br />

nell'umiltà. 10<br />

Qui prostituta e marinaio, il vecchio<br />

che bestemmia, la femmina che bega,<br />

il dragone che siede alla bottega<br />

del friggitore,<br />

la tumultuante giovane impazzita 15<br />

d'amore,<br />

sono tutte creature della vita<br />

e del dolore;<br />

s'agita in esse, come in me, il Signore.<br />

Qui degli umili sento in compagnia 20<br />

il mio pensiero farsi<br />

più puro dove più turpe è la via.<br />

6 lupanare: luogo dove le prostitute incontrano i clienti (termine colto).<br />

7 il detrito: il rifiuto, l’avanzo.<br />

12 bega: litiga.<br />

13 dragone: soldato di cavalleria.<br />

15 tumultuante: che si agita, che urla.<br />

SCHEDA METRICA<br />

Tre strofe di versi dispari (endecasillabi, settenari, quinari e ternari, liberamente disposti e rimati. Spicca la<br />

presenza di rime baciate<br />

Non dall’alto ma dalle profonde viscere di una strada della città vecchia, il poeta guarda a Trieste in<br />

questa lirica, che appare molto diversa dalla precedente, eppure complementare ad essa.<br />

Brulicante di vita e affollata di anime in pena, che abitano e animano i bassifondi, la città sembra<br />

uscita da una visione baudeleriana dell’esistenza, nella quale dominano i rifiuti, il detrito (v.7),<br />

rappresentati sia dalle merci che dagli uomini. Ma nei confronti di chi abita gli abissi, verso i<br />

86


derelitti, verso quella che appare una compagnia degli umili (v.20) , la vicinanza emotiva del poeta<br />

è altissima: una sorta di fratellanza nel dolore e nell’origine comune. A differenza di Baudelaire, la<br />

sua visione della vita non è senza speranza: anzi tra la gente che viene e che va, nelle vie più turpi,<br />

il poeta riscopre le ragioni più vere dell’esistenza: “sento ….il mio pensiero farsi più puro” (vv. 20-<br />

22).<br />

Anche in questo caso, come spesso avviene nelle poesie di Saba, la scelta delle parole e delle rime,<br />

la struttura dei versi, sembrano evocare una insistita semplicità, un elogio di ciò che è comune<br />

normalmente accessibile all’esperienza umana. I termini che rimandano ai mestieri (friggitore e<br />

marinaio ma anche prostituta, bottega), alle cose comuni (fanale, pozzanghera), così come quelli<br />

che evocano rabbia e dolore (bestemmia, bega, impazzita) tratteggiano una quotidianità nella quale<br />

il poeta ritrova però la traccia di valori intensi, estesi: “l’infinito nell’umiltà”, che consente appunto<br />

di attingere a una maggior purezza del pensiero.<br />

87


Umberto Saba, Dopo la tristezza<br />

[Saba, Tutte le poesie, p. 98]<br />

Questo pane ha il sapore d'un ricordo,<br />

mangiato in questa povera osteria,<br />

dov'è più abbandonato e ingombro il porto.<br />

E della birra mi godo l'amaro,<br />

seduto del ritorno a mezza via, 5<br />

in faccia ai monti annuvolati e al faro.<br />

L'anima mia che una sua pena ha vinta,<br />

con occhi nuovi nell'antica sera<br />

guarda un pilota con la moglie incinta;<br />

e un bastimento, di che il vecchio legno 10<br />

luccica al sole, e con la ciminiera<br />

lunga quanto i due alberi, è un disegno<br />

fanciullesco, che ho fatto or son vent'anni.<br />

E chi mi avrebbe detto la mia vita<br />

così bella, con tanti dolci affanni, 15<br />

e tanta beatitudine romita!<br />

9 pilota: timoniere, il marinaio che guida la nave.<br />

12 alberi: alberi della nave, le strutture che reggono le vele.<br />

16 romita: solitaria (termine letterario).<br />

SCHEDA METRICA<br />

Cinque terzine di endecasillabi con chiusa di endecasillabo isolato, con schema rimico a suo modo regolare:<br />

ABA, CBC, DED, FEF, GHG, H<br />

Ancora una lirica ambientata nella città natale e nella parte più umile e amata: le vie attorno al<br />

porto. Ma in questo caso ad animare la scena, a farsi protagonista di un rapporto con i luoghi, in<br />

parte diretto e vissuto e in parte mediato dal ricordo, è il poeta stesso. Superato un momento<br />

doloroso della vita, come evidenzia anche il titolo, egli guarda “con occhi nuovi” le cose e<br />

l’umanità che le animano. Ma è uno sguardo che, pur rinnovato, si alimenta del ricordo, che scatta<br />

in virtù del sapore del pane o della visione di un bastimento, che gli rammenta un disegno di<br />

quand’era fanciullo, vent’anni prima.<br />

E ritorna il tema della vita attraversata dal dolore, qui privato e lasciato alle spalle, mentre nella<br />

Città vecchia era diffuso fra la gente umile che affollava le vie del porto. In questo testo invece le<br />

uniche figure umane presenti sono portatrici di vita: il pilota e la moglie incinta, dove incinta rima<br />

magistralmente con la vittoria del poeta sul suo dolore: una sua pena … vinta. E così, tra passato e<br />

presente, la vita appare comunque bella, degna di essere vissuta e la chiusa della lirica condensa in<br />

due lievi ossimori le contraddizioni dell’esistenza che volgono comunque verso esiti positivi: dolci<br />

affanni e beatitudine romita.<br />

In questa lirica Saba utilizza il verso classico della poesia <strong>italiana</strong>, l’endecasillabo; non solo, ma lo<br />

distribuisce nel ritmo ternario della Commedia, anche se non ne rispetta la concatenazione delle<br />

88


ime. Rime e assonanze appaiono lievemente più complesse che altrove, ma non si allontanano<br />

molto da quel lavorio di semplificazione che caratterizza la poesia di Saba. Il poeta triestino, infatti,<br />

così come riscatta gli umili e le cose quotidiane, fa ampio uso di rime semplici, piane, che sono però<br />

spesso il frutto di una ricerca i cui esiti divengono uno dei tratti peculiari e dichiarati della sua<br />

poetica:<br />

Amai trite parole che non uno<br />

Usava. M’incantò la rima fiore<br />

Amore<br />

La più antica difficile del mondo<br />

89


Umberto Saba, Ulisse<br />

[ Umberto Saba, Tutte le poesie, p. 556]<br />

E’ il 1946, inserita nella raccolta Mediterranee questa poesia ne costituisce la conclusione: il poeta<br />

ha sessantacinque anni, e traccia un bilancio retrospettivo della sua vita, dominata dalla continua<br />

ricerca. Come Ulisse.<br />

Nella mia giovanezza ho navigato<br />

lungo le coste dalmate. Isolotti<br />

a fior d’onda emergevano, ove raro<br />

un uccello sostava intento a prede,<br />

coperti d’alghe, scivolosi, al sole<br />

belli come smeraldi. Quando l’alta<br />

marea e la notte li annullava, vele<br />

sottovento sbandavano più al largo,<br />

per sfuggirne l’insidia. Oggi il mio regno<br />

è quella terra di nessuno. Il porto<br />

accende ad altri i suoi lumi, me al largo<br />

sospinge ancora il non domato spirito,<br />

e della vita il doloroso amore.<br />

2 dalmate: della Dalmazia, nel Mare Adriatico.<br />

3 a fior d’onda: a pelo d’acqua.<br />

4 intento a prede: in caccia.<br />

5 scivolosi: umidi, continuamente bagnati dall’onda.<br />

6 belli come smeraldi: sempre riferito agli isolotti che ricoperti del verde elle alghe brillano al sole come smeraldi.<br />

7 li annullava: la marea li ricopriva, annullandoli alla vista.<br />

8 sottovento sbandavano: trovandosi dalla parte opposta alla direzione del vento si piegavano su un fianco; è posizione<br />

svantaggiosa e anche a rischio di ribaltamento.<br />

9 per sfuggirne l’insidia: per evitare di incagliarsi contro gi isolotti scomparsi alla vista<br />

10 terra di nessuno: sinonimo di zona pericolosa che è opportuno evitare; nel linguaggio militare la terra di nessuno è<br />

lo spazio tra le due linee di fuoco nemiche,<br />

11 il porto … lumi: il porto accende le sue luci per altri, che possono decidere di rientrare; largo: il mare aperto.<br />

12 non domato spirito: lo spirito non domato; richiamo foscoliano.<br />

13 della vita … amore: l’amore, la passione per la vita, doloroso come ogni esperienza, in parte fonte di inquietudine.<br />

SCHEDA METRICA<br />

Una sola strofa di endecasillabi scioltu, fortemente intrecciati da una ricca trama di enjambements.<br />

Chi dice io ? Ulisse o il poeta? Il titolo di questa poesia fa parte di essa intrinsecamente: Ulisse è<br />

l’eroe protagonista dell’Odissea, ma è anche il personaggio trasformato da Dante nel XXVI canto<br />

dell’Inferno nel simbolo della ricerca e dell’esplorazione umana.<br />

Lungo le coste della Dalmazia, isolotti luccicano come smeraldi e, insidiosi, quando l’alta marea li<br />

nasconde , costringono le barche a vela a tenere il largo: alla stessa maniera l’io-poeta, che da<br />

giovane viaggiò in quei luoghi, tiene al largo da porto, scegliendo la “terra di nessuno” : quella che<br />

chi ama la vita tranquilla rifugge, poiché cerca il porto e la quiete.<br />

Le immagini del porto e dei suoi lumi, come quella del mare aperto, sono topoi letterari che<br />

risalgono alle origini della nostra lirica, ben presenti in Petrarca. Mentre foscoliano è il non domato<br />

spirto (lo spirto guerrier di Alla sera) che tende al largo. L’ansia di conoscere, l’amore per il sapere<br />

e per la vita non privo di inquietudine per la sfida.<br />

In questo modo la poesia porta a compimento l’identificazione tra lìio lirico, il poeta e l’Ulusse<br />

dantesco, non omerico, con chi accetta la sfida dell’ignoto, non il ritorno. Sono versi che suonano<br />

come una chiusa, un approdo biografico.<br />

90


Dal punto di vista stilistico, la lirica sembra quasi avvolgere e spezzare la struttura metrica in un<br />

susseguirsi di inarcature (enjambement) che però, lungi dallo spezzare i versi, consentono il<br />

sovrapporsi di linee melodiche, come con evidenza risulta nel verso finale, addirittura perfetto da un<br />

punto di vista fonico e musicale (per la sua grande armonia di allitterazioni e accenti).<br />

Un cenno doveroso va fatto alla lunga serie di rappresentazioni poetiche del mito di Ulisse, di cui<br />

il componimento costituisce uno degli esemplari migliori: una linea che va dalle origini della nostra<br />

letteratura (Dante) a Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Primo Levi , fino a travalicare i confini<br />

nazionali come in questa splendida lirica di Kostantinos Petrou Kavafis, poeta e giornalista greco<br />

vissuto a cavallo di due secoli (1863 – 1933), intitolata Itaca:<br />

Quando inizierai il tuo viaggio verso Itaca,<br />

prega che la strada sia lunga,<br />

ricca di avventure, ricca di conoscenza.<br />

Lestrigoni e Ciclopi,<br />

Poseidone furioso – non averne timore:<br />

non ne incontrerai mai sul tuo cammino,<br />

se i tuoi pensieri rimarranno alti, se una gentile<br />

emozione accarezzerà il tuo spirito e il tuo corpo.<br />

Lestrigoni e Ciclopi,<br />

Poseidone selvaggio, non li incontrerai mai<br />

se già non li porti dentro la tua anima,<br />

se l’anima non li frapporrà ai tuoi passi.<br />

Prega che la strada sia lunga.<br />

Che le mattine d’estate siano molte, quando<br />

con grande piacere, con grande gioia,<br />

entrerai per la prima volta in porti mai visti;<br />

fermati ai mercati fenici,<br />

compra le merci migliori,<br />

di madreperla e corallo, ambra ed avorio,<br />

caldi profumi di ogni genere -<br />

profumi caldi quanti ne puoi portare.<br />

Visita molte città egizie,<br />

per imparare ancora ed ancora dai sapienti.<br />

Tieni sempre Itaca a mente:<br />

raggiungerla è il tuo ultimo scopo.<br />

Non affrettare però minimamente il viaggio,<br />

meglio lasciarlo durare molti anni;<br />

attraccare alfine all’isola quando sarai vecchio,<br />

ricco di tutto ciò che avrai raccolto per strada,<br />

senza pretendere che Itaca ti offra altri tesori.<br />

Itaca ti ha donato il Viaggio meraviglioso.<br />

Senza di lei tu non saresti mai partito per la tua via.<br />

Essa non ha null’altro da offrirti.<br />

Se la troverai povera, non credere che Itaca t’abbia ingannato.<br />

Saggio come sei diventato, con sì tanta esperienza,<br />

avrai già compreso cos’Itaca realmente rappresenti.<br />

91


Giorgio Caproni, 1944<br />

[CAPRONI, L’opera in versi, p. 126]<br />

Non facile da comprendere questo testo, descrittivo, alla cui interpretazione collabora il titolo: il 1944, anno<br />

di guerra, di morte e di macerie, nel quale il conflitto e l’odio rendono e triste anche l’alba degli innamorati.<br />

Le carrette del latte ahi mentre il sole<br />

sta per pungere i cani! Cosa insacca<br />

la morte sopra i selci nel fragore<br />

di bottiglie in sobbalzo? Sulla faccia<br />

punge già il foglio del primo giornale 5<br />

col suo afrore di piombo – immensa un’acqua<br />

passa deserta nel sangue a chi muove<br />

a un muro, e già a una scarica una latta<br />

ha un sussulto fra i cocci. O amore, amore<br />

che disastro è nell’alba! Dai portoni 10<br />

dove geme una prima chiave, o amore<br />

non fuggire con l’ultimo tepore<br />

notturno – non scandire questi suoni<br />

mentre ai miei denti il tuo tremito imponi!<br />

1 ahi: interiezione di dolore che sembra anticipare i contenuti più dolorosi della lirica.<br />

1-2 il sole .. cani: è l’alba e la luce sole sta per farsi più forte e infastidire i cani.<br />

3 selci: blocchetti di pietra usati per la pavimentazione delle strade.<br />

4 bottiglie in sobbalzo: le bottiglie di vetro del latte erano poste in contenitori metallici e producevano forti rumori al<br />

sobbalzare delle carrette sulla via irregolare.<br />

4 primo giornale : giornale del mattino, alla prima uscita.<br />

6 afrore di piombo: odore penetrante e sgradevole del piombo, che avevano i giornali appena usciti dalle rotative dove<br />

venivano stampati con i caratteri di piombo e ne conservavano l’odore.<br />

8 scarica: è la scarica del plotone di esecuzione.<br />

9 cocci: pezzi, frammenti di vasi rotti.<br />

11 geme una prima chiave: la chiave nella serratura al primo impiego mattutino stride e quasi si lamenta.<br />

13 non scandire: non sottolineare, non mettere in sequenza.<br />

14 ai miei denti …imponi: trasferisci il tuo tremore ai miei denti, quasi obbligandoli a loro volta a tremare.<br />

SCHEDA METRICA<br />

Quattordici versi endecasillabi che rimandano alla struttura del sonetto, ma in modo libero e irregolare nella<br />

struttura rimica.<br />

L’alba mi è sempre stata odiosa, e anche quand’ero a casa, dovendomi all’alzare all’alba per un<br />

viaggio o altro, tutto il giorno poi ne soffrivo allo stomaco. È l’ora bianca delle fucilazioni, quando<br />

si dice al condannato: «Vieni, il plotone ti aspetta».<br />

Così Giorgio Caproni, in un racconto partigiano, Il labirinto, rendeva esplicito e fortemente<br />

autobiografico il nesso fra l’alba, la morte e gli spari: tre temi che si intrecciano in questa lirica,<br />

dominandone il piano tematico attraverso percezioni fortemente evocative.<br />

Essa rimanda a uno scenario bellico, dichiarato per altro dal titolo-data, ovvero al periodo più duro<br />

delle seconda guerra mondiale, e si dipana attraverso immagini che riproducono percezioni<br />

sensoriali (tattili, visive, olfattive, uditive) che tutte risultano sgradevoli e alludono al tema della<br />

morte.<br />

Così, nei versi di apertura, il sole è pungente, quasi come una lama, un raggio tagliente di luce che<br />

sta per colpire i cani per strada; e punge il foglio di giornale, che sembra sbattere in faccia le sue<br />

notizie dall’odore acre del piombo dei caratteri. Allo stesso modo stridenti appaiono i suoni, sia<br />

quelli che rimandano allo scenario quotidiano, il fragore delle bottiglie che sobbalzano nelle<br />

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carrette del latte, sia quelli che evocano in modo allusivo e analogico il destino del condannato<br />

portato al muro all’alba: il sussulto di una latta fra i cocci che reagisce alla scarica della fucilazione.<br />

La funzione onomatopeica delle parole richiama i suoni dell’esecuzione., mentre sul piano<br />

semantico il sobbalzo delle bottiglie come il sussulto della latta attribuiscono reazioni quasi umane<br />

agli oggetti.<br />

E ancora, per ritornare all’aspetto fonico, si noti che i suoni aspri, con la costante allitterazione in r<br />

e t , anche raddoppiati o uniti (in rt di morte o in tr di tremito), fanno da sottofondo costante al tema<br />

tragico della lirica.<br />

Se il lessico rimanda a una quotidianità (latte, sole, cani, bottiglie, chiave, portoni, denti)<br />

attraversata e infranta dalla presenza della morte, in un’alba gelida, anche le interiezioni che aprono<br />

le due parti in cui si articola la struttura, sono esclamazioni di dolore: l’ahi del primo verso,<br />

esplicita dichiarazione in apertura, e l’invocazione O rivolta alla donna amata e ripetuta ai vv. 9 e<br />

10.<br />

La bipartizione strutturale appare abbastanza netta anche sotto l’aspetto metrico: la prima parte<br />

dominata dalle assonanze e dagli enjambements, e la seconda, che si apre con l’evocazione alla<br />

donna amata, dove le rime apparentemente semplici alternate e baciate danno un tono più cadenzato<br />

e ritmico al discorso.<br />

La figura femminile, la donna amata, compare al v. 9 a fare da controcanto alle immagini di morte<br />

con la sua presenza; tuttavia ella, ritratta come in fuga, non riesce a sconfiggere del tutto l’atmosfera<br />

tragica: “O amore, amore che disastro è nell’alba!”. Il poeta le implora di non andare, di non<br />

abbandonare il tepore caldo della notte. E di non assecondare i suoni lugubri dell’alba: “non<br />

scandire questi suoni”. Uscire, affrontare il gelo dell’inverno e della morte, esporsi al tremito dei<br />

denti.<br />

In molte altre poesie e nei racconti Caproni ha denunciato la sua insofferenza per l’alba, momento<br />

segnato nella sua biografia dalla tragica morte della prima fidanzata; ma a livello intertestuale vale<br />

la pena di rilevare che egli si riscatta da questa idiosincrasia in una delle sue liriche più famose,<br />

L’uscita mattutina grazie alla luminosa figura materna: la madre Annina, immaginata giovane che<br />

si muove al mattino e scende ammirata le scale:<br />

Come scendeva fina<br />

E giovane le scale Annina!<br />

[…]<br />

L’ora era di mattina<br />

Presto, ancora albina.<br />

Ma come s’illuminava<br />

la strada dove lei passava!<br />

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BIBLIOGRAFIA – TESTI DI RIFERIMENTO<br />

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GIACOMO LEOPARDI, Tutte le opere, Le poesie e le prose, a cura di Francesco<br />

Flora, Milano, Mondadori, 1965.<br />

GIACOMO LEOPARDI, Tutte le opere, Lo Zibaldone, a cura di Francesco Flora,<br />

Milano, Mondadori, 1965.<br />

GIOSUE CARDUCCI, Odi barbare, Edizione integrale commentata, a cura di Luigi<br />

Banfi, Milano, Mursia Editore, 1986.<br />

GIOVANNI PASCOLI, Poesie, con un avvertimento di Antonio Baldini, Milano,<br />

Mondadori, 1939.<br />

GABRIELE D’ANNUNZIO, Versi d’Amore e di Gloria, a cura di Egidio Biachetti,<br />

Milano, Mondadori, 1980.<br />

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1961.<br />

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GUIDO GOZZANO, Tutte le poesie, a cura di Andrea Rocca, I Meridiani<br />

Mondadori, Milano, 1983.<br />

EUGENIO MONTALE, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa , I Meridiani<br />

Mondadori, Milano, 1996.<br />

SALVATORE QUASIMODO, Tutte le poesie, a cura di Sergio Solmi e Carlo Bo,<br />

Mondadori, Milano, 1961.<br />

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Meridiani Mondadori, Milano, Mondadori, 1969.<br />

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Milano, 1988.<br />

GIORGIO CAPRONI, L’opera in versi, I Meridiani Mondadori, Milano, 1998.<br />

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