"ricerche logiche" di Martin Heidegger - FedOA - Università degli ...
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maniera giusta. Il circolo della comprensione non è un semplice cerchio in cui si muova qualsiasi<br />
forma <strong>di</strong> conoscere, ma l’espressione della pre-struttura propria dell’Esserci stesso. (…) In esso si<br />
nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario, possibilità che è afferrata in modo<br />
genuino solo se l’interpretazione ha compreso che il suo compito primo, durevole e ultimo, è quello<br />
<strong>di</strong> non lasciarsi mai imporre pre-<strong>di</strong>sponibilità, pre-veggenza e pre-cognizione dal caso o dalle<br />
opinioni comuni, ma <strong>di</strong> farle emergere dalle cose stesse, garantendosi così la scientificità del<br />
proprio tema” 707 .<br />
Di qui è possibile chiarire ulteriormente il carattere derivato dell’asserzione poiché, lo si è visto,<br />
<strong>Heidegger</strong> aveva già mostrato che essa, nel suo carattere apofantico-delotico, primario rispetto a<br />
quello determinante ed espressivo, è fondata sull’intuizione. Tuttavia, alla luce della ripetizione<br />
eseguita sulla scorta dell’analitica esistenziale, l’intuizione stessa si è rivelata a sua volta un modo<br />
derivato dell’apertura, cioè del mostrare qualcosa, e derivato dalla comprensione dei riman<strong>di</strong> della<br />
significatività impliciti nell’aver a che fare con l’ente quale modalità primaria d’incontro con esso.<br />
Pertanto, anche “l’asserzione (il «giu<strong>di</strong>zio») è fondata nella comprensione e costituisce una forma<br />
derivata <strong>di</strong> perfezionamento dell’interpretazione, anch’essa «ha» un senso. Ma ciò [ancora una<br />
volta] non autorizza a definire il senso come ciò che nasce «in» un giu<strong>di</strong>zio in seguito al suo<br />
pronunciamento” 708 .<br />
Se però, in ultima analisi, l’asserzione deriva dall’articolazione della comprensione ad opera<br />
dell’interpretazione, secondo <strong>Heidegger</strong> dovranno ritrovarsi anche in essa i tre caratteri strutturali <strong>di</strong><br />
quest’ultima, a testimonianza della fondatezza <strong>di</strong> una tale derivazione. E infatti, anche l’asserzione,<br />
non essendo “un comportamento a sé stante capace <strong>di</strong> aprire l’ente a partire da se stesso (…)<br />
abbisogna della pre-<strong>di</strong>sponibilità [fornita dalla comprensione] <strong>di</strong> ciò che è aperto in generale, al fine<br />
<strong>di</strong> manifestarlo nella determinazione” 709 , e la determinazione deve a sua volta ‘pre-vedere’ “ciòrispetto-a-cui<br />
l’ente in questione è preso <strong>di</strong> mira, [che] assume nella determinazione la funzione <strong>di</strong><br />
707<br />
M. <strong>Heidegger</strong>, Essere e tempo, cit., pp. 194-195; per tale motivo, afferma ancora <strong>Heidegger</strong> fornendo la sua ultima<br />
parola – dopo<strong>di</strong>ché sarà solo più metafisica-scienza-tecnica versus pensiero originario dell’essere – circa la Methode-<br />
Streit tra scienze della natura e scienze storiche: “la matematica non è più rigorosa della storiografia, ma semplicemente<br />
più ristretta quanto all’ambito dei fondamenti esistenziali per essa rilevanti”, ivi, p 195.<br />
708<br />
Ibid.; interessante, ancora, il precisarsi in Essere e tempo della critica alle teorie del giu<strong>di</strong>zio fondate sul valore: “La<br />
teoria del «giu<strong>di</strong>zio» oggi in voga fa appello al fenomeno del «valore» (…) assunto dopo [e non a partire da!] Lotze<br />
come «fenomeno originario» irriducibile. Questo ruolo esso lo deve unicamente alla sua mancanza <strong>di</strong> chiarezza<br />
ontologica. Anche la «problematica» che si è voluto istituire intorno a questo idolo verbale è non meno incomprensibile.<br />
Valore significa a volte, la forma della realtà, che funge da contenuto del giu<strong>di</strong>zio per la sua immutevolezza, <strong>di</strong> contro<br />
alla mutevolezza del processo «psichico» del giu<strong>di</strong>care. In altri casi «valore» significa la vali<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> senso del giu<strong>di</strong>zio<br />
valido intorno all’«oggetto» che esso concerne; in tal caso il valore tende ad assumere il significato <strong>di</strong> vali<strong>di</strong>tà oggettiva<br />
e <strong>di</strong> oggettività in generale. Il senso, «avente valore» quanto all’oggetto ed «essente valido» in se stesso<br />
«intemporalmente», «vale» anche perché valido per ogni essere razionale giu<strong>di</strong>cante. Valore significa qui<br />
obbligatorietà, «vali<strong>di</strong>tà universale». Esiste anche una teoria «critica» della conoscenza secondo la quale il soggetto<br />
«non perviene propriamente» all’oggetto; allora la vali<strong>di</strong>tà, in quanto valore dell’oggetto, oggettività, è fondata nella<br />
sussistenza, valida in se stessa, <strong>di</strong> un senso vero (!). I tre significati <strong>di</strong> «valere» che abbiamo illustrati, come modo <strong>di</strong><br />
essere dell’ideale, come oggettività e come obbligatorietà, oltre ad essere poco chiari in se stessi, si confondono tra <strong>di</strong><br />
loro continuamente”, ivi, p. 198.<br />
709<br />
Ivi, p. 199.<br />
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