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"ricerche logiche" di Martin Heidegger - FedOA - Università degli ...

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Ma se il senso – che in quanto totalità überhaupt, non totalità <strong>di</strong>screta <strong>di</strong> un determinato ambito<br />

<strong>di</strong> appagatività, costituisce “il transcendens puro e semplice” 703 e coincide dunque con il senso<br />

dell’essere stesso, anzi è l’essere stesso nel suo carattere evenemenziale (Ereignis) 704 , in quanto tale<br />

irrappresentabile e in<strong>di</strong>cibile in alcun logos che non sia ‘tauto-loghía’ 705 – coincide con l’apertura<br />

stessa del mondo nel suo triplice articolarsi, e se il mondo è l’“in-cui” dell’esistenza in quanto modo<br />

d’essere dell’esserci, ne viene che “solo l’Esserci, quin<strong>di</strong>, può essere fornito <strong>di</strong> senso (sinnvoll) o<br />

sfornito <strong>di</strong> senso (sinnlos)”, e d’altra parte che l’ente “<strong>di</strong>fforme dall’Esserci dev’essere concepito<br />

come senza senso (unsinnig)” 706 , come l’incomprensibile appunto. Ciò non significa, tuttavia, che<br />

sia l’esserci stesso ad istituire il senso nel quale è piuttosto gettato. Comprensione e interpretazione<br />

stanno dunque tra <strong>di</strong> loro sì in un rapporto <strong>di</strong> fondazione, ma circolare, poiché l’interpretazione,<br />

generando nuovi significati, mo<strong>di</strong>fica essa stessa l’apertura inesauribile dalla quale proviene e che<br />

ha l’incessante compito <strong>di</strong> articolare. In virtù dell’interpretazione l’esserci ‘apre un varco’ nell’ente<br />

– meglio, è questo stesso potere aprente – al manifestarsi dell’essere, e tuttavia tale rapporto<br />

all’essere non si dà mai in una corresponsione totale, ma sempre in aperture finite – “appelli”<br />

dell’essere, <strong>di</strong>rà poi <strong>Heidegger</strong> –, così come finito è l’esserci stesso in quanto già sempre gettato in<br />

un’apertura storica – e storica in quanto temporale – senza possibilità <strong>di</strong> “risalire oltre la propria<br />

ombra”.<br />

Pertanto, “se si vede in questo circolo un circolo vizioso e se si mira ad evitarlo o<br />

semplicemente lo si «sente» come un’irrime<strong>di</strong>abile imperfezione, si fraintende la comprensione da<br />

capo a fondo. (…) L’importante non sta nell’uscir fuori dal circolo, ma nello starvi dentro nella<br />

703 Ivi, p. 59.<br />

704 Dirà infatti <strong>Heidegger</strong>: “Il senso dell’essere è l’essere del senso. (…) L’essere è il suo senso, cioè l’apertura stessa: la<br />

verità (ÞlÔqeia) dell’essere è l’essere della verità. E l’esserci è ciò che già sempre è nella verità dell’essere così<br />

intesa”, id., Tempo ed essere, cit., p. 80.<br />

705 A tal proposito, ci pare veda bene Held quando afferma che “<strong>Heidegger</strong> concorderebbe con i filosofi del linguaggio<br />

<strong>di</strong> scuola analitica nell’idea del primato del linguaggio sulla percezione. Ma per lui «la vera unità linguistica non è la<br />

proposizione ma la parola» [E. Tugendhat, Der Wahrheitsbegriff bei Husserl und <strong>Heidegger</strong>, cit., p. 402]; l’atto<br />

originario del parlare non è la connessione proposizionale, cioè nel caso dell’asserzione la forma semantica ti kata tinos,<br />

ma il puro denominare poetico, l’onomazein. È questo che richiama dal nascon<strong>di</strong>mento della Lichtung nella connessione<br />

<strong>di</strong> riman<strong>di</strong> del Geviert, chiamandolo per nome, tutto ciò che l’uomo può incontrare. Se le singole cose non accadessero<br />

al mondo in virtù <strong>di</strong> quest’unica ‘azione’ linguistica – la sola che merita effettivamente questo nome –, non ci sarebbe<br />

nulla che il linguaggio possa connettere in forma proposizionale”, K. Held, <strong>Heidegger</strong> e il principio della<br />

fenomenologia, cit., p. 106.<br />

706 M. <strong>Heidegger</strong>, Essere e tempo, p. 193; proprio in tale analisi del senso ancora Masullo ha visto il residuo<br />

trascendentalismo, seppur “ammorbi<strong>di</strong>to”, <strong>di</strong> Essere e tempo, che pure andava oltre la fenomenologia nella <strong>di</strong>stinzione<br />

tra senso e significato: “Già nel <strong>di</strong>re che la fenomenologia è filosofia non dell’essere ma del senso, e, proprio come tale,<br />

essenzialmente, nel suo stesso nocciolo teorico, è «filosofia come scienza rigorosa», sapere apo<strong>di</strong>ttico, conoscenza<br />

necessaria e universale <strong>di</strong> significati, si mostra quanto pesi la confusione tra la nozione <strong>di</strong> «senso» e la nozione <strong>di</strong><br />

«significato», l’uso cioè non <strong>di</strong>fferenziato tra termini come Sinn e Bedeutung”; ora, <strong>Heidegger</strong> “ammette l’originarietà<br />

del senso rispetto al significato, ma ancora una volta la pensa nel segno del rapporto esserci-essere, dunque non<br />

dell’unità antropologica corpo-anima, bensì <strong>di</strong> quella ontologica linguaggio-spirito”, A. Masullo, <strong>Heidegger</strong> e la<br />

questione del «senso», cit., pp. 45 e 56; per una lettura <strong>di</strong> segno opposto <strong>di</strong> questi passaggi ed esplicitamente critica<br />

rispetto a quella <strong>di</strong> Masullo, almeno limitatamente ad Essere e Tempo, si veda invece V. Frungillo, Selbst e per<strong>di</strong>ta del<br />

Selbst nel corso heideggeriano del ’34 su «La logica come domanda sull’essenza del linguaggio», in «Atti<br />

dell’Accademia <strong>di</strong> Scienze Morali e Politiche», 113 (2002), pp. 183-205.<br />

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