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"ricerche logiche" di Martin Heidegger - FedOA - Università degli ...

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se stesso, un modo <strong>di</strong> mostrare se stesso” 467 . Tale significato ‘greco’ del fenomeno – afferma<br />

ancora <strong>Heidegger</strong> – non ha nulla a che fare, e va da essa precisamente <strong>di</strong>stinto, con ciò che si<br />

designa come “apparenza” (Erscheinung) o peggio come “semplice apparenza” (bloße<br />

Erscheinung); “forse nessun’altra parola ha generato nella filosofia una tale venerazione e una tale<br />

confusione” 468 . Un esempio tipico è quello dei sintomi <strong>di</strong> una malattia.<br />

Il sintomo, in quanto apparizione, è caratterizzato dal fatto <strong>di</strong> rimandare, attraverso il suo<br />

apparire, a qualcosa che invece da se stesso non si mostra né “pretende affatto <strong>di</strong> mostrarsi in se<br />

stesso, ma pretende <strong>di</strong> rappresentarsi” 469 nella modalità “dell’in<strong>di</strong>cazione, dell’annuncio <strong>di</strong><br />

qualcosa. Annunciare qualcosa per mezzo <strong>di</strong> un’altra significa però proprio non mostrarla in se<br />

stessa, ma presentarla in modo in<strong>di</strong>retto, me<strong>di</strong>ato, simbolico” 470 .<br />

L’apparizione è dunque fenomeno in un senso privativo – l’essere “la rappresentazione <strong>di</strong> ciò<br />

che per essenza non è manifesto” 471 né mai manifestabile in se stesso – che né l’apparenza in<br />

quanto mo<strong>di</strong>ficazione del fenomeno né, a maggior ragione, il fenomeno stesso possiedono.<br />

Tuttavia, il sintomo, nella sua essenza simbolica, intanto può rimandare a qualcosa – che così in<br />

esso pur sempre si manifesta, seppur non da se stesso – in quanto si mostra, cioè in quanto è<br />

fenomeno, per cui anche “la struttura dell’apparizione come rimando presuppone in se stessa già la<br />

struttura più originaria del mostrarsi, cioè il senso autentico del fenomeno” 472 , senza poterlo tuttavia<br />

determinare. Ora, il problema è che la tra<strong>di</strong>zione filosofica ha eletto l’apparizione a significato<br />

primario del fenomeno, per <strong>di</strong> più ipostatizzandolo onticamente, dando origine a ciò che già<br />

Nietzsche, invitando ad essere “buoni amici delle cose prossime”, aveva denunciato come<br />

invenzione <strong>di</strong> “un mondo <strong>di</strong>etro il mondo” 473 .<br />

467<br />

Ibid.<br />

468<br />

Ivi, p. 103.<br />

469<br />

Ibid.<br />

470<br />

Ibid.<br />

471<br />

Ivi, p. 104.<br />

472<br />

Ibid.<br />

473<br />

Cfr. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra; come si sa, a partire dagli anni ’30 <strong>Heidegger</strong> ingaggerà con Nietzsche<br />

un corpo a corpo interpretativo che durerà circa <strong>di</strong>eci anni e che sfocerà in una monumentale monografia. Tuttavia la<br />

presenza <strong>di</strong> Nietzsche nell’opera <strong>di</strong> <strong>Heidegger</strong> è documentabile almeno sin dalla tesi <strong>di</strong> abilitazione su Scoto, dando in<br />

effetti l’idea <strong>di</strong> un confronto implicito sottaciuto per anni. Nello specifico <strong>di</strong> questa nostra <strong>di</strong>ssertazione, il riferimento a<br />

Nietzsche non è estemporaneo; poche pagine prima <strong>Heidegger</strong> lascia infatti intendere quantomeno una unità <strong>di</strong> intenti<br />

con Nietzsche per quanto riguarda la possibilità <strong>di</strong> una scienza non metafisica – non viziata, cioè, dal risentimento verso<br />

la sensibilità-corporeità (si ricor<strong>di</strong> il celebre aforisma su verità e apparenza lungo il corso della storia della metafisica<br />

nel celebre aforisma del Crepuscolo <strong>degli</strong> idoli intitolato Come il «mondo vero» finì per <strong>di</strong>ventare favola. Storia <strong>di</strong> un<br />

errore) – che proprio la fenomenologia avrebbe finalmente reso possibile, senza tuttavia fare ancora proprio il canone<br />

interpretativo nietzscheano della storia della metafisica come platonismo, come abbiamo rilevato in più occasioni:<br />

“[Con la fenomenologia] il compito che la filosofia si è posta fin da Platone viene portato nuovamente sul terreno reale,<br />

nel senso che è ora possibile una ricerca delle categorie. La fenomenologia assume questo andamento investigativo,<br />

nella misura in cui si autocomprende, preservandosi nei confronti <strong>di</strong> qualsiasi profezia all’interno della filosofia e nei<br />

confronti <strong>di</strong> ogni tendenza per una qualunque guida <strong>di</strong> vita. La ricerca filosofica è e rimane ateismo, e proprio perciò<br />

essa può procurarsi la «presunzione del pensiero»; non solo la procurerà a sé, ma costituisce l’interna necessità della<br />

filosofia e la sua autentica forza, e proprio in questo ateismo essa <strong>di</strong>viene ciò che un grande ebbe una volta a <strong>di</strong>re: «gaia<br />

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