Pisano, Lo strano caso del signor Mesina - Sardegna Cultura
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Nel mondo <strong>del</strong>la mala la chiamano affettuosamente “la<br />
cartomante” per la passione e l’abilità a farsi raccontare<br />
il destino da ori e bastoni.<br />
E <strong>Mesina</strong>? Entra nella storia da una porticina secondaria.<br />
A chiamarlo in causa, sia pure non direttamente,<br />
sono quattro collaboratori di giustizia ospitati in una località<br />
segreta e sottoposti al programma di protezione. I<br />
loro nomi servono per capire il teorema <strong>del</strong> pubblico<br />
ministero: Giovanni Ritrovato, Angelo Bertello, Alessandro<br />
Mancini e Sergio Ottaviano. Al pm riferiscono<br />
(perché non l’hanno saputo personalmente) di aver appreso<br />
dalla madre di Sergio Ottaviano che <strong>Mesina</strong> le<br />
aveva ceduto un chilo di eroina. Nell’operazione entra<br />
anche una <strong>del</strong>le figlie <strong>del</strong>la “cartomante”, Giuseppa.<br />
Che sa tutto, assicurano i pentiti. Ma la donna – sentita<br />
dal magistrato – nega con decisione. Altrettanto la madre<br />
di Ottaviano.<br />
Qual’è la verità? Tecnicamente, la loro è un’accusa<br />
per sentito dire: così la definirebbe chi non ha cultura<br />
giuridica e consuetudine col codice penale. Per il vocabolario<br />
forense ha ben altra etichetta e solennità: de relato,<br />
è un’accusa de relato. Cioé sempre per sentito dire,<br />
ma detto – bisogna riconoscerlo – in modo più elegante<br />
e un tantino ambiguo.<br />
Sono credibili i quattro pentiti? <strong>Mesina</strong>, che ha sempre<br />
condannato gli spacciatori, fa sentire la sua voce durante<br />
l’udienza davanti al giudice per le indagini preliminari:<br />
«Non so nulla di questa storia. È un’infamia per<br />
gettarmi altro fango addosso». A dargli una mano c’è<br />
qualche stranezza che affiora qua e là nel fascicolo processuale<br />
dove, per dirne una, la droga passa di mano in<br />
mano senza che venga versata una lira. Sembra una spe-<br />
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cie di catena di Sant’Antonio, eroina che corre dall’uno<br />
all’altro quasi per gioco. Quando le domandano quanto<br />
abbia speso per comprare il chilo di droga, Angela Ottaviano<br />
spiega di aver bruciato il fornitore (cioé <strong>Mesina</strong>)<br />
perché tanto «sapevo che doveva essere arrestato per<br />
una storia di armi». Previsione assolutamente esatta: di<br />
lì a poco la polizia farà irruzione nel casale di San Marzanotto,<br />
scoverà il misterioso arsenale e neanche una<br />
prova che possa collegarlo a Graziano.<br />
Al processo per la droga gli imputati sono complessivamente<br />
trentasette, alcuni latitanti, altri rottamati come<br />
criminali e riconvertiti in lavoratori socialmente utili<br />
per la giustizia. I quali ribadiscono le famose accuse<br />
de relato ma l’inconsistenza e la fragilità sono tali che diventa<br />
quasi impudico portarle in aula. Nell’estate <strong>del</strong><br />
2000 (a soli nove anni dall’apertura <strong>del</strong>l’inchiesta) <strong>Mesina</strong><br />
viene assolto. Il pubblico ministero non presenta<br />
appello, a dimostrazione che la cosa non stava né in cielo<br />
né in terra.<br />
Il verdetto fa esultare la vecchia primula rossa <strong>del</strong><br />
Supramonte che, a quel punto, si illude due volte: crede<br />
abbiano finito di tormentarlo e che la liberazione condizionale<br />
possa essere nuovamente vicina. Su queste speranze<br />
accoglie l’ennesimo trasferimento (da Novara a<br />
Voghera), accantona in via definitiva l’idea di approdare<br />
in un penitenziario sardo e si prepara a tornare in libertà.<br />
Su quest’obiettivo lavorano a tempo pieno un<br />
suo storico difensore (Gabriella Banda) e un nuovo,<br />
grintoso avvocato: Enrico Bucci. Il quale, sicuro <strong>del</strong>le<br />
carte che ha in mano, si limita a una breve dichiarazio-<br />
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