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Pisano, Lo strano caso del signor Mesina - Sardegna Cultura

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permesso e neanche altri benefici previsti dalla legge<br />

che pure gli spetterebbero. Unica eccezione nel ’98,<br />

quando muore sua madre, zia Caterina, chiede di poter<br />

assistere ai funerali: permesso negato, tanto più che aveva<br />

manifestato il desiderio di poterci andare con le guardie<br />

ma senza manette.<br />

Adesso pare quasi preferisca rimuginare su se stesso,<br />

imbrigliato in una cella singola e comoda nel braccio<br />

Eiv (Elevato indice di vigilanza), ascoltare per ore e ore<br />

la musica di Celine Dion. «Ha il potere di stregarmi,<br />

quella cantante. Una voce speciale, una voce che mi fa<br />

uscire da qui e mi porta in luoghi lontanissimi». <strong>Lo</strong>ntano,<br />

nei chilometri e nel tempo: «Mi rivedo a Orgosolo<br />

quand’ero ragazzino. Rivedo mia mamma che, in pratica,<br />

non ho conosciuto. Tornavo da scuola (ho fatto fino<br />

alla quarta elementare) e andavo al gregge: in casa non<br />

c’ero mai. Mio padre è morto che avevo tredici anni, lo<br />

ricordo benissimo perché era almeno un anno che non<br />

ci incrociavamo». Struggimento <strong>del</strong>la memoria, <strong>del</strong>le<br />

cose perdute. Nostalgia, in senso stretto, no: «Però non<br />

è che lo rimpiango tanto, il paese. Se penso a quand’ero<br />

davvero bambino, mi dico che la cultura era quella, il<br />

posto era quello, la povertà era quella: cosa poteva<br />

uscirne da uno come me?»<br />

Non ha consolazioni religiose perché non è credente:<br />

«In tutta la mia vita, ho sempre creduto solo in<br />

quello che ho visto e toccato». Perciò gli manca l’addolcimento<br />

interiore <strong>del</strong>la preghiera che in molti casi –<br />

soprattutto nelle prigioni – è un prozac efficiente e rasserenante,<br />

certamente meno pericoloso <strong>del</strong>le inalazioni<br />

dalle bombolette di gas che garantiscono un caritatevole<br />

rincretinimento di qualche ora.<br />

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Ogni tanto cena insieme a un compagno di braccio,<br />

conosciuto in carcere, che presenta così: «È un sardo<br />

trapiantato a Milano. Vegetariano. Certi giorni ci facciamo<br />

minestroni stupendi». E se da casa hanno mandato<br />

<strong>del</strong> vino rosso, si può fare perfino uno strappo alla<br />

regola: «Io sono astemio, il vino che passa lo spaccio fa<br />

schifo ma se ne arriva da fuori, un mezzo bicchiere me<br />

lo faccio volentieri».<br />

La casa circondariale di Voghera è un prefabbricato<br />

grigio, incorniciato da un reticolato alto. Riflette<br />

l’ortodossia integralista degli anni di piombo, massima<br />

sicurezza, massimo squallore, nessuna concezione all’estetica<br />

(per non dire all’umano). Chi ha un appuntamento<br />

– regolarmente autorizzato dal ministero – deve<br />

infilare la carta d’identità in una buca da lettere, unico<br />

punto di contatto esterno d’una garitta sigillata da cristalli<br />

antiproiettile. Oltre il vetro, un agente di custodia<br />

manovra il passaggio dei documenti e governa una serie<br />

di tasti e pulsanti che aprono e chiudono i cancelli<br />

come in una città spaziale. Se dietro il vetro ci fosse un<br />

pesce rosso, sembrerebbe tutto più ovvio e naturale.<br />

Ogni movimento avviene nel massimo silenzio, un<br />

cenno di saluto appena abbozzato. Consegnata la carta<br />

d’identità, l’attesa è di un minuto appena: quanto<br />

basta per verificare la corrispondenza tra la foto <strong>del</strong><br />

documento e il visitatore che sta lì davanti. Poi, un cigolìo<br />

annuncia la lentissima apertura di una porta blindata<br />

che immette in un bu<strong>del</strong>lo di pochi metri quadri,<br />

pareti scure e sporche, armadietti dove depositare telefonini<br />

cellulari e tutto quello che non può arrivare alla<br />

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