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Pisano, Lo strano caso del signor Mesina - Sardegna Cultura

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il Duro per il suo rigore. Sventolando le dodici pagine<br />

che compongono la fedina penale di <strong>Mesina</strong>, taglia corto<br />

sostenendo che si tratta di un “<strong>del</strong>inquente abituale”<br />

eccessivamente fiducioso in se stesso, convinto che il<br />

ruolo di emissario nella vicenda Kassam gli desse una<br />

sorta di impunità. Nessun accenno all’ipotesi che possano<br />

essere entrati in gioco i servizi di sicurezza. Anche<br />

se, come si sa, non sarebbe una novità: nel marzo <strong>del</strong> ’93<br />

il Comitato parlamentare per i servizi di informazione<br />

aveva ascoltato a lungo Graziano sui risvolti <strong>del</strong>la liberazione<br />

di Farouk.<br />

Per Saluzzo non suscitano perplessità neppure le misteriose<br />

incursioni nella casa di San Marzanotto (una<br />

serratura forzata e la sostituzione di un vetro). La Corte,<br />

nella motivazione <strong>del</strong>la sentenza afferma: «Inequivocabili<br />

sono le espressioni usate nelle telefonate intercettate».<br />

La conseguenza è che «l’argomentare difensivo di<br />

<strong>Mesina</strong> è alquanto debole, soprattutto nelle ragioni che<br />

avrebbero determinato il complotto».<br />

«I falsi eroi finiscono nella polvere», dichiara, quasi<br />

stesse dettando un epitaffio, l’ex ministro degli Interni,<br />

Nicola Mancino. Per lui, come per altri <strong>del</strong> resto, il <strong>caso</strong><br />

è chiuso. Nessuno che si chieda come mai Ferralis e Anfossi,<br />

che pure sono dichiaratamente complici di <strong>Mesina</strong>,<br />

riescano a strappare una condanna così lieve. O almeno<br />

lieve quanto basta per non doverla scontare in galera.<br />

E Graziano, che dice? Prima di rientrare definitivamente<br />

nel carcere di Novara rifiutandosi di continuare<br />

ad assistere alle udienze, ha sostenuto di non aver<br />

commissionato a nessuno l’acquisto di armi. «Quella<br />

roba è stata sistemata da qualcuno nella villetta di San<br />

Marzanotto». Anfossi e Ferralis, conclude, sono soltan-<br />

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to pedine di una trappola organizzata a una manciata di<br />

settimane dalla concessione <strong>del</strong>la grazia. Un discorso<br />

che per il Tribunale non vale, si arrampica sugli specchi<br />

poiché, nei fatti, le tesi <strong>del</strong>l’imputato «appaiono astruse<br />

e contraddittorie».<br />

Sei anni e mezzo di reclusione. L’avvocato Pier Navino<br />

Passeri ha presentato ricorso in Appello. Forse il<br />

tempo può far sedimentare certe asprezze e consentire<br />

una riflessione più ponderata, comunque più attenta alle<br />

argomentazioni <strong>del</strong>la difesa.<br />

Il resto è fatto di impressioni, sensazioni che – fatto<br />

salvo il riconoscimento <strong>del</strong>la buona fede – spalancano<br />

la porta a troppe domande. Roberto Gonella, giornalista<br />

<strong>del</strong> quotidiano torinese «La Stampa», ha seguito<br />

passo passo il processo di Asti. «E debbo dire che ho<br />

avvertito qualcosa di <strong>strano</strong> fin dall’inizio. Ho visto i<br />

verbali di arresto di Anfossi e Ferralis: uguali, sembravano<br />

in fotocopia. A parte questo, mi stupisce un <strong>Mesina</strong><br />

che si fa trovare armi in casa. Ingenuo, no? Complessivamente<br />

debbo dire che il dibattimento mi ha lasciato<br />

perplesso. Ci sono molti punti a favore <strong>del</strong>la tesi<br />

<strong>del</strong>la colpevolezza, ma altrettanti che lascerebbero<br />

pensare a una montatura. Da quando faccio il cronista<br />

giudiziario, è senz’altro il processo più singolare che mi<br />

sia capitato di seguire. Adesso, a sentenza fatta, a vicenda<br />

dimenticata o comunque archiviata, mi succede di<br />

pensarci ancora. Mi succede di domandarmi, di interrogarmi<br />

e non trovare un percorso logico».<br />

Cioè un sufficiente ventaglio di prove che giustificasse<br />

la condanna, e una condanna così severa. Il pubblico<br />

ministero Francesco Saluzzo aveva addirittura<br />

sollecitato una pena più consistente: quattordici anni.<br />

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