Pisano, Lo strano caso del signor Mesina - Sardegna Cultura
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Giorgio <strong>Pisano</strong><br />
LO STRANO CASO<br />
DEL SIGNOR MESINA<br />
Il Maestrale
LIBRISTANTE
Giorgio <strong>Pisano</strong><br />
<strong>Lo</strong> <strong>strano</strong> <strong>caso</strong><br />
<strong>del</strong> <strong>signor</strong> <strong>Mesina</strong><br />
Copertina<br />
Nino Mele<br />
Impaginazione<br />
Imago multimedia<br />
Edizioni Il Maestrale<br />
Redazione:<br />
via Massimo D’Azeglio 8<br />
08100 Nuoro<br />
Telefono e Fax:<br />
0784 31830<br />
E-mail:<br />
redazione@edizionimaestrale.com<br />
Internet:<br />
www.edizionimaestrale.com<br />
ISBN 88-86109-86-5<br />
Proprietà letteraria riservata<br />
© Edizioni Il Maestrale 2005<br />
Giorgio <strong>Pisano</strong><br />
<strong>Lo</strong> <strong>strano</strong> <strong>caso</strong><br />
<strong>del</strong> <strong>signor</strong> <strong>Mesina</strong><br />
Il Maestrale
A mio figlio
I<br />
A casa<br />
«Ce n’è ce n’è, da fare». <strong>Lo</strong> aspetta, per iniziare, un<br />
lavoro da magazziniere, poi magari torna in <strong>Sardegna</strong> e<br />
segue il forno <strong>del</strong> fratello, a Budoni. «Insomma, ricomincio».<br />
Graziano <strong>Mesina</strong> non ha più il fisico <strong>del</strong>la fuga: pochi<br />
capelli, pancetta dilagante, zampe di gallina sugli<br />
occhi. Un <strong>signor</strong>e ingrigito, ormai. Intontito dall’effetto<br />
aria, dalle prime sei ore di libertà, confuso, uomo qualunque<br />
tra gente qualunque. Ballore, il fratello maggiore,<br />
è andato a prenderlo alle Nuove di Torino con la sua<br />
vecchia macchina e se l’è portato a casa, per sottrarlo alla<br />
curiosità <strong>del</strong>la gente e guardarlo dritto in faccia. «Anche<br />
se ha cinquant’anni, per noi i più piccoli restano<br />
sempre bambini». Deve dargli qualche consiglio importante<br />
per sopravvivere ora che va a scoprire, a riscoprire,<br />
un altro mondo.<br />
Morto il padre Pasquale, il capofamiglia è lui. Da<br />
Orgosolo è fuggito nell’epoca <strong>del</strong> boom economico, è<br />
planato a Crescentino, quaranta chilometri da Fiat city,<br />
in tempi non facili, quando tutti i meridionali venivano<br />
chiamati sbrigativamente “Napoli”. Non faceva differenza<br />
essere siciliani o calabresi, pugliesi o sardi. «Ho<br />
fatto le ossa alla vita».<br />
7
Graziano lo guarda con grande rispetto, gli deve obbedienza.<br />
Soprattutto adesso che avverte una strana febbre:<br />
gli frullano in testa mille idee e mille progetti. Mille<br />
paure, forse, ma di quelle non parla. Nell’appartamentino<br />
di Ballore, palazzina popolare di mattoni rossi immersa<br />
in un centro operaio, cintura industriale senza<br />
storia e senza presente, si sente al sicuro. Gli stanno<br />
dando la caccia un centinaio di giornalisti: <strong>Mesina</strong> libero,<br />
Grazianeddu (come piace chiamarlo ai milanesi)<br />
esce dal carcere. Oggi, 19 ottobre 1991, è tutta per lui la<br />
seconda notizia dei Tg nazionali, il titolone di prima<br />
pagina di numerosi quotidiani. Uno condisce l’avvenimento<br />
in salsa western: il ritorno di Graziano.<br />
La cena è pronta: salsiccia, pane carasau, pecorino e<br />
un vino che lascia l’impronta color inchiostro sul bicchiere.<br />
«Quanto avrà? Quattordici, quindici gradi non<br />
di più». Si fa sentire, aiuta ad accendere la notte di euforia.<br />
Intanto Graziano, rigorosamente astemio, parla.<br />
Corre sul suo passato, salta da un episodio all’altro, risponde<br />
al telefono che squilla in continuazione: «Desolato,<br />
non è qui. Terrà una conferenza stampa nei prossimi<br />
giorni». Gli piace questo giochino di smarcamento<br />
dei giornalisti, lo rende felice. E tanto per stupire i tre<br />
amici a tavola, tira fuori referenze di tutto rispetto:<br />
«Devo ringraziare Maurizio Costanzo, mi ha mandato<br />
un bellissimo telegramma. Devo ringraziare anche Gigi<br />
Riva, mi ha regalato magliette e scarpe per la mia squadra<br />
di calcio, a Porto Azzurro». Campionato dietro le<br />
sbarre, entusiasmante. «Fino a quando non mi hanno<br />
portato via due titolari»: trasferiti, esigenze di giustizia.<br />
Ogni tanto dà un’occhiata all’orologio, un pataccone<br />
d’oro massiccio. Un regalo, si capisce da come lo gin-<br />
8<br />
gilla. Per festeggiare, Ballore stappa una bottiglia d’acquavite<br />
scura, fatta macerare con bucce d’arancia. Gradi<br />
tanti, tra quaranta e cinquanta. Buona, assicura una<br />
giovane milanese che ha avuto il privilegio di essere invitata<br />
a questa tavolata di famiglia, destinata a pochi intimi,<br />
santi bevitori.<br />
Come succede? Chissà. Mezzanotte, cielo umido e<br />
senza stelle, Crescentino è a letto, domani la sirena <strong>del</strong>la<br />
fabbrica fischierà presto, lacererà la quiete di un’alba<br />
identica a quella di ieri, alba fatta in serie. Qualcuno nomina<br />
Orgosolo e <strong>Mesina</strong> fugge d’improvviso a perdifiato<br />
sul filo sospeso <strong>del</strong>la memoria.<br />
Pare solo con se stesso, quasi fosse tornato in cella,<br />
guarda oltre la finestra. E riesce a rivedere la vecchia<br />
abitazione di famiglia, pietra su pietra nella parte alta<br />
<strong>del</strong> paese. Chiusa, da tempo. Ogni tanto è meta di bus<br />
carichi di turisti che vogliono osservare la casa <strong>del</strong> bandito.<br />
Talvolta, se si è fortunati, si può incontrare la mamma<br />
<strong>del</strong>l’ex ergastolano. Certo, non è moltissimo ma almeno<br />
il tour <strong>del</strong> brivido non va buco. Di solito il programma,<br />
oltre la sosta-meditazione davanti al vicolo dove<br />
<strong>Mesina</strong> ha trascorso l’infanzia, prevede una puntata<br />
sul Supramonte, pranzo all’aperto con l’arrosto cucinato<br />
dai pastori, i grandi spiedi di legno e un’atmosfera vaga<br />
da Far West d’Italia.<br />
Zia Caterina neppure si accorge di chi la scruta con<br />
curiosità. Alle soglie <strong>del</strong> secolo di vita, fatica a reggersi<br />
in piedi, non può fare a meno di un’assistenza continua.<br />
Starle dietro, adesso che con la testa non c’è più, è molto<br />
faticoso. Settimana dopo settimana si sposta in continuazione:<br />
un po’ con Peppedda, un po’ con Antonia, un<br />
po’ con Peppe. Dei suoi undici figli sono quelli rimasti a<br />
9
Orgosolo. Rosa e Antonio abitano a Budoni, Ballore e<br />
Graziano sono su, in Piemonte.<br />
Rimettere tutti insieme, magari per un momento,<br />
per la festa dei cent’anni? Sarebbe bello, e troppo doloroso.<br />
Quando si trasferisce da una casa all’altra, zia Caterina<br />
prende con sé poche cose e i ceri dei tre figli morti:<br />
Pietro se l’è portato via la cattiva salute, Giovanni assassinato<br />
d’autunno, nel ’62. Neanche un mese più tardi<br />
Graziano, che allora aveva vent’anni, ha pensato di vendicarlo<br />
uccidendo con una sventagliata di mitra il fratello<br />
<strong>del</strong> presunto assassino: dente per dente.<br />
Era una domenica d’ottobre, il bar <strong>del</strong> paese pieno<br />
pieno per l’aperitivo. Andrea Muscau stava al bancone,<br />
il braccio posato sul laminato lucido dove andavano e<br />
venivano bicchieri colmi di birra. La porta si spalanca,<br />
Graziano toglie fiato e parole con quel cannone in mano.<br />
E spara, spara. Per un attimo Muscau sembra ballare<br />
sotto la pioggia di proiettili, poi si affloscia, gli occhi<br />
spalancati sul buio <strong>del</strong>la morte. Graziano vorrebbe andarsene,<br />
adesso, senza fretta: lo ferma una bottigliata in<br />
testa. Come nei saloon. È l’inizio di una faida sanguinaria<br />
che finirà solo molti anni dopo. La sorellina di Muscau,<br />
che frequentava le elementari, ha indossato il lutto<br />
a partire da quel momento.<br />
L’altro figlio che zia Caterina ha accompagnato al<br />
camposanto è Nicola, assassinato nell’estate <strong>del</strong> ’76.<br />
Strana morte, rimasta inspiegabile perfino nei sussurri<br />
di paese. Lavorava nel cantiere <strong>del</strong> rimboschimento, caposquadra.<br />
Un uomo chiuso, tranquillo, pochi amici e<br />
poche chiacchiere. Dicono che stesse svolgendo una personalissima<br />
indagine sulla morte di Pietrino Crasta, un<br />
possidente di Berchidda rapito e assassinato anni prima.<br />
10<br />
Una mattina, ora di pranzo, gli tendono un agguato<br />
mentre si trova in un viottolo di campagna con due colleghi.<br />
Tutti giù, faccia in terra. «Non abbiamo capito cosa<br />
volessero, perché ci facevano mettere in quella posizione»,<br />
racconterà più tardi uno dei due testimoni. Che<br />
volevano? Facile: uno di loro doveva essere giustiziato.<br />
Quasi a bruciapelo, senza pietà, il viso poggiato sull’erba.<br />
La notizia rimbalza in paese nel primissimo pomeriggio,<br />
sibila velocissima tra le sedie sistemate davanti<br />
alle case per sfuggire al caldo. Qualcuno ricorda ancora<br />
il grido ossessivo di un improvvisato banditore, un vecchietto<br />
che tutti conoscevano per una sua donabbondiesca<br />
fragilità. Tziu Leoni, lo chiamavano con velenosa<br />
ironia. «Non ho visto niente, non ho visto niente, non<br />
ho visto niente», ripeteva scartando angoli e stradine,<br />
maratoneta impazzito. Correva, correva senza fermarsi.<br />
Cos’è rimasto di tutto questo? Un ricordo polveroso,<br />
la casa <strong>del</strong>l’infanzia dove si viveva in dieci, piccola<br />
ma capiente. Quando Graziano è nato, nel 1942, Orgosolo<br />
non faceva quattromila abitanti (3.937 al primo<br />
gennaio). E gli altri, dove sono gli altri? Maestro Bassu,<br />
maestra Monni, la <strong>signor</strong>ina Veronica. Erano i pionieri<br />
d’una scuola elementare che i ragazzetti dividevano a<br />
metà con la custodia <strong>del</strong> gregge. Le bambine giocavano<br />
con bambole di stoffa, realizzate con le loro mani, le più<br />
brave riuscivano a farle intrecciando foglie d’asfo<strong>del</strong>o.<br />
Il pomeriggio, coi maschietti, si giocava a bandidos e<br />
sordados (la versione più aggiornata, banditi e carabinieri,<br />
è arrivata molto più tardi). Come molti suoi amici,<br />
Graziano aveva su carrozzinu, una tavola di legno su<br />
ruote di sughero, per volare a tutta velocità in discesa,<br />
preistoria <strong>del</strong>lo skateboard. Televisori ce n’erano po-<br />
11
chissimi. Quello più frequentato stava negli uffici <strong>del</strong>la<br />
Poa, Pontificia opera di assistenza, affollatissimo alle 17<br />
per la tivù dei ragazzi.<br />
In alcuni momenti Orgosolo ha raggiunto i cinquemila<br />
abitanti. Villaggio povero, ma di povertà equamente<br />
distribuita. Non c’era miseria disperata e neppure<br />
ricchezza gridata. «O, se c’era, cercavano di non sbattercela<br />
in faccia», ricorda Peppedda <strong>Mesina</strong>. Tanto è<br />
vero che la frequentazione <strong>del</strong>le chiese non seguiva una<br />
divisione di classe. Tra la chiesa di Sant’Antonio, per<br />
esempio, e quella di San Pietro la differenza stava soltanto<br />
nella comodità degli orari <strong>del</strong>la messa. Nella bella<br />
stagione si pregava anche in campagna, a San Michele, a<br />
Sant’Anania. Nei paraggi di questa chiesa era stata aggredita,<br />
violentata e uccisa nel ’37 una ragazza <strong>del</strong> posto,<br />
Antonia <strong>Mesina</strong>: Giovanni Paolo II l’ha fatta beata.<br />
È stata la santa Maria Goretti <strong>del</strong>la Barbagia.<br />
La domenica si passeggiava nel Corso, dapprima intitolato<br />
a Vittorio Emanuele e poi diventato Corso Repubblica.<br />
Il massimo <strong>del</strong>la trasgressione suggeriva di<br />
spingersi fino a Su Cantareddu, una fontana a neppure<br />
un chilometro dall’ultima casa <strong>del</strong> paese, comunque<br />
fuori dall’itinerario obbligatorio. Il cinema parrocchiale<br />
proiettava film di cowboys e storie d’amore, la favola<br />
triste <strong>del</strong>la principessa Sissi e pellicole di quel genere.<br />
Nella scena finale, quella <strong>del</strong>l’immancabile bacio, l’operatore<br />
piazzava sistematicamente una mano davanti all’obiettivo:<br />
censura artigianale, buio sullo schermo, schiamazzi<br />
in sala. «Leva la mano, le-va-la». Neanche i baci si<br />
dovevano vedere allora, sennò Gesù piangeva. Si sapeva<br />
da sempre, precetto da lezione di catechismo.<br />
Di quel mondo a Graziano è rimasto poco, perché<br />
12<br />
poco ha potuto esserci. Le prime evasioni sono strettamente<br />
familiari e puntavano sempre in campagna «dove<br />
ho imparato a conoscere animali, piante e odori». Da<br />
bambino si era riscoperto una forte insofferenza alla gerarchia,<br />
allo sconfinamento <strong>del</strong> prossimo nella libertà e<br />
nella sua vita privata. Non ha esitato a massacrare di<br />
botte un vicino che gli aveva ucciso il cane («una bella<br />
cagna, nera. Meruledda si chiamava»), a confrontarsi in<br />
duello con un ex latitante.<br />
Ma ora tutto questo va messo in soffitta. Oggi è un<br />
giorno fortunato: il Tribunale di sorveglianza di Torino,<br />
aiutato da uno psicologo e un criminologo, lo ha messo<br />
sotto torchio per capire fino a che punto è cambiato. Alla<br />
fine gli ha concesso la libertà condizionale. Avrà l’obbligo<br />
di soggiorno in Piemonte fino al ’96, dovrà firmare<br />
una volta la settimana in una caserma o in un commissariato.<br />
Senza un’autorizzazione precisa, non potrà uscire<br />
da un ambiente che gli è stato cucito addosso. Nel<br />
senso che deve abitare nella casa che a San Marzanotto<br />
gli ha messo a disposizione un imprenditore di Fonni,<br />
Michele Quai, che lavora nel settore <strong>del</strong>l’edilizia. Per i<br />
pasti e i problemi di tutti i giorni può recarsi a casa <strong>del</strong><br />
suo “principale”, terzo piano di un edificio cadente ad<br />
Asti. In via eccezionale otterrà presto il benestare per<br />
una puntatina in <strong>Sardegna</strong>, a Orgosolo, per vedere la<br />
madre.<br />
Respinta da poco più di un anno, l’istanza di libertà<br />
ha avuto un sostenitore acceso: il presidente <strong>del</strong> Tribunale<br />
di sorveglianza, Pietro Fornace. Che di <strong>Mesina</strong> sa<br />
soltanto quel che racconta il fascicolo <strong>del</strong> ministero di<br />
Grazia e Giustizia, date e condanne, condanne e date.<br />
Prima <strong>del</strong> verdetto, tenta di avere informazioni meno<br />
13
scheletriche. Per esempio, quanti omicidi ha commesso?<br />
«Uno, <strong>signor</strong> presidente».<br />
– Uno solo?<br />
«Uno solo. Sono stato assolto dall’accusa di aver colpito<br />
a morte due poliziotti durante un conflitto a fuoco».<br />
– Vedo tra queste carte anche una storia di occultamento<br />
<strong>del</strong> cadavere d’un certo Miguel Alberto Asencio<br />
Prados Ponte…<br />
«Quello è il suo nome vero, lungo lungo. Per noi era<br />
Miguel, Miguel Atienza. Non ho occultato il suo cadavere,<br />
l’ho semplicemente sepolto. Dopo un’evasione,<br />
era rimasto ferito seriamente in uno scontro coi “baschi<br />
blu”. Non ce l’ha fatta. Ho avvertito il padre, ma non si<br />
è portato via la salma. È sepolto nel cimitero di Nuoro,<br />
povero Miguel».<br />
– Cosa rimprovera alla società?<br />
Ci sarebbe moltissimo da dire, ma è meglio sfumare.<br />
«Nulla da obiettare. Rispetto e chiedo rispetto. Avrò bisogno<br />
di tempo. Per <strong>strano</strong> che possa sembrare, sento la<br />
necessità di riposarmi».<br />
La sentenza arriva nella tarda mattinata. Poi, portandosi<br />
dietro una borsa gonfia di fascicoli, Fornace corre<br />
nel suo ufficio blasonato. L’anticamera è tappezzata di<br />
vecchie locandine, molte <strong>del</strong> teatro La Scala, che creano<br />
un’atmosfera particolare, molto ufficiale e nello stesso<br />
tempo accogliente, quasi informale. Dietro un’enorme<br />
scrivania, il magistrato conferma d’aver fatto una scommessa.<br />
Crede in <strong>Mesina</strong>, e avrà modo di dimostrarlo durante<br />
il rapimento di Farouk Kassam. In quella occasione<br />
gli darà carta bianca, una libertà di movimento senza<br />
vincoli di sorta.<br />
14<br />
«Missione <strong>Sardegna</strong>», scherzava coi giornalisti. E<br />
quando la superprocura di Cagliari inizierà a mugugnare<br />
sulla presenza e sul ruolo di Graziano in quella vicenda,<br />
la risposta sarà secca, durissima: «Per quel che ne so,<br />
il <strong>Mesina</strong> non soltanto non sta creando problemi ma anzi<br />
sta dando una mano a risolverli». La replica, un esposto<br />
al Consiglio superiore <strong>del</strong>la magistratura, lo lascia<br />
indifferente. Questo <strong>strano</strong> sorvegliato speciale lo affascina,<br />
gli dà la certezza che non si tratti di un bluff. Sa<br />
che la carta-Farouk può significare la grazia e in qualche<br />
misura un piccolo contributo a raggiungere questo<br />
obiettivo può darlo arche lui. <strong>Mesina</strong> non veniva forse<br />
definito la primula rossa <strong>del</strong> Supramonte? Bene, sguinzagliarlo<br />
in una storia di sequestro a scopo di estorsione<br />
(dopotutto è il suo ramo, no?) non potrà che dare risultati<br />
incoraggianti.<br />
Ci crede, ci si butta impegnandosi personalmente<br />
con dichiarazioni di simpatia. Sarà una bruciante <strong>del</strong>usione<br />
professionale. Ma questo, la mattina di quel 18 ottobre,<br />
Fornace non lo sa. Ascolta con aria solidale, da<br />
giudice di grande esperienza qual è, le parole che Gabriella<br />
Banda, difensore <strong>del</strong>l’ex ergastolano, affida alle<br />
agenzie di stampa con qualche emozione: «Il verdetto<br />
sulla liberazione condizionale non è solo un atto di giustizia.<br />
Credo che <strong>Mesina</strong> abbia abbondantemente pagato<br />
il suo debito con la società. Tanto più che nella sua<br />
trentennale permanenza nei penitenziari italiani non ha<br />
mai goduto di un provvedimento, come dire?, di benevolenza.<br />
Oggi ha il diritto di rifarsi una vita».<br />
Graziano lo sa. Per questo, nella lunga notte a casa di<br />
Ballore, mentre Crescentino dorme, accetta, lui che<br />
odia l’alcol, di fare un brindisi. Alza il bicchiere, bagna<br />
15
appena le labbra in una smorfia di disgusto. E la <strong>Sardegna</strong>,<br />
chiede, come va la <strong>Sardegna</strong>?<br />
Benissimo: nel ’91 non c’è stato neppure un rapimento.<br />
Iniziando la conta degli ostaggi dal 1973, non è<br />
mai accaduto prima che l’Anonima saltasse un anno.<br />
Buon segno. Per quanto riguarda gli omicidi, c’è invece<br />
una crescita significativa: ci si ammazza più di prima, le<br />
statistiche giudiziarie parlano chiaro. Per il resto, solita<br />
<strong>Sardegna</strong>: disoccupazione in aumento, in bilico perfino<br />
la sorte <strong>del</strong>le miniere, che sembravano una certezza assoluta.<br />
Cortei e manifestazioni a Cagliari, davanti al<br />
brutto palazzo modernista che ospita il Consiglio regionale<br />
in via Roma: protestano gli agricoltori e i pastori<br />
per la siccità, gli operai per la chiusura <strong>del</strong>le fabbriche, i<br />
piccoli pescatori per il fermo biologico che li spedisce<br />
due mesi a casa senza una lira di indennizzo.<br />
A proposito di lire: i campionati mondiali di calcio<br />
non hanno portato nulla o quasi. Qualche spicciolo<br />
pubblico e nemmeno un turista: alla faccia di uno stragarantito<br />
effetto trainante di Italia ’90. L’unica coda,<br />
se di coda si può parlare, è l’apertura di un’inchiesta<br />
giudiziaria nelle dodici città che hanno ospitato le partite.<br />
Nel rifare gli stadi, nel riorganizzare impianti e<br />
centri di accoglienza sono volate mazzette. «La solita<br />
Italia». A cambiare, in peggio, c’è solo la <strong>Sardegna</strong> che<br />
continua a vivere, meglio a sopravvivere, con le pensioni.<br />
La popolazione diminuisce, i paesi si spopolano<br />
mantenendo soltanto vecchi, bambini e donne. Soprattutto<br />
donne. Con qualche eccezione: a Orgosolo<br />
gli uomini risultano più numerosi all’anagrafe. Scorrendo<br />
gli elenchi, appare però una folla di bimbi e<br />
pensionati. I più piccoli non sanno neppure chi sia<br />
16<br />
<strong>Mesina</strong>, i più vecchi l’hanno dimenticato, ne hanno<br />
perso le tracce in galera.<br />
Non sono riusciti neppure a vederlo quand’è arrivato,<br />
l’anno scorso. Il paese sottosopra, sembrava fosse<br />
accaduto qualcosa di grave: polizia, carabinieri, il gracchiare<br />
fastidioso <strong>del</strong>le ricetrasmittenti. Tutto questo<br />
soltanto per lui, per Graziano. Possibile, faceva ancora<br />
tanta paura? Eppure, che non avesse voglia di scappare<br />
era abbastanza chiaro per tutti. Non c’era l’intenzione e<br />
neanche la forza.<br />
Nove evasioni sulle spalle, quel <strong>signor</strong>e di mezza<br />
età in giro col borsello giustificava un piccolo spiegamento<br />
di forze. In un passato non proprio remoto era<br />
stato un protagonista, uno dei numeri uno <strong>del</strong>la criminalità<br />
nazionale.<br />
Di lì a poco sarebbe tornato sulla ribalta. Ma quella<br />
sera, a Crescentino, non poteva immaginarlo. Pensava<br />
a un altro futuro, talmente anonimo da non giustificare<br />
una notizia in breve. Non poteva prevedere che lo<br />
aspettava ancora qualche avventura, molto clamore,<br />
disprezzo e simpatia all’ingrosso. Assieme a una trappola<br />
per tornare all’inferno.<br />
17
II<br />
Ritratto di pentito<br />
La foto dei quindici anni, un polveroso ritrattino in<br />
bianco e nero, mostra un ragazzo magro, coppola e<br />
giacca scura, camicia dal colletto troppo largo, occhi<br />
che guardano lontano. Labbra serrate, neppure un accenno<br />
di sorriso.<br />
La foto dei cinquant’anni, primo piano artificiosamente<br />
pensoso, offre poco: è materiale per i giornali,<br />
costruito in studio, compresa la mano destra che sembra<br />
accarezzare il mento con casuale noncuranza. Giacca<br />
da grande magazzino, camicia candida e cravatta vestono<br />
un <strong>signor</strong>e qualunque di mezza età che ha perso<br />
la battaglia contro la calvizie e quella contro i chili di<br />
troppo.<br />
A osservarlo bene, Graziano <strong>Mesina</strong> pare un impiegato<br />
con qualche pretesa, uno che vuole contrabbandare<br />
l’immagine di un altro uomo, di un’altra anima. Tanto,<br />
la macchina fotografica è una spia stupida, non può<br />
accorgersene, non sa frugare dentro. Di autentico restano<br />
soltanto gli occhi. Mobilissimi, scaltri, diffidenti.<br />
Peccato non poterli rendere sereni, metterli in sintonia<br />
con quest’aria tranquilla.<br />
Sono gli stessi <strong>del</strong> ragazzo con la coppola, un dilettante<br />
<strong>del</strong>la balentìa cresciuto in fretta nel deserto di Or-<br />
19
gosolo. I carabinieri già lo conoscevano: una notte, era<br />
adolescente, neanche un pelo di barba, lo avevano beccato<br />
con un fucile rubato. Condanna a cinque anni. Davanti<br />
al magistrato che gli annunciava un futuro di galera,<br />
c’era dovuto andare con la mamma, zia Caterina, undici<br />
figli e una vita di pietra nella Barbagia <strong>del</strong>la miseria,<br />
<strong>del</strong> silenzio, dei morti ammazzati. Tenuto per un braccio,<br />
quasi trascinato in quel palazzo con gli androni scuri:<br />
il tempio <strong>del</strong>la giustizia, affollato e rumoroso come<br />
un mercato. Quanta gente conosciuta c’era.<br />
Orgosolo, 1956. Poco più tardi la Rivista sarda di<br />
criminologia pubblica i risultati di un’indagine sul malessere:<br />
«Si può dunque, in ultima analisi, affermare<br />
che la geografia <strong>del</strong>la pastoralità, <strong>del</strong>la criminalità e<br />
<strong>del</strong>la patologia mentale tendono in <strong>Sardegna</strong> a corrispondere<br />
con la geografia <strong>del</strong>l’isolamento». Un questionario<br />
distribuito a quasi 250 persone rivela che il<br />
17 per cento è analfabeta e il 65 per cento ha la licenza<br />
elementare. La “geografia <strong>del</strong>l’isolamento” racconta<br />
anche qualche altro dettaglio: abitanti per chilometro<br />
quadrato 50,8; ovini 110, più <strong>del</strong> doppio. L’isola <strong>del</strong>le<br />
pecore. Conclusione: «Si può avanzare l’ipotesi che il<br />
banditismo non sia l’espressione di una cultura primariamente<br />
e immutabilmente violenta, ma che rappresenti<br />
piuttosto una risposta, in forme devianti, a una<br />
violenza esterna. A una prevaricazione secolare che ha<br />
marginalizzato l’Isola, subordinandola politicamente<br />
ed economicamente, il mondo pastorale ha offerto diverse<br />
forme di “resistenza” alla sua distruzione, che si<br />
sono esplicitate e si esplicitano anche con l’abnorme<br />
fenomeno <strong>del</strong> banditismo».<br />
Così dicevano, anzi scrivevano, accademici e intel-<br />
20<br />
lettuali al ritorno da sporadiche spedizioni nel Nuorese,<br />
dov’erano andati a vedere da vicino uno <strong>strano</strong> popolo<br />
che, più di venti secoli prima, era stato capace di “inventare”<br />
una razza canina (il pastore di Fonni) per difendersi<br />
dai legionari di Roma.<br />
Osservata al microscopio <strong>del</strong>l’antropologo, questa<br />
folla muta poteva contare su tante attenuanti. <strong>Sardegna</strong><br />
perché banditi, diceva molti anni fa il titolo di un libroinchiesta<br />
per spiegare e tentare di capire (far capire) una<br />
regione a pallettoni.<br />
In questo clima Graziano <strong>Mesina</strong> cresce. Cresce in<br />
tutti i sensi. E dietro di lui si preparano le nuove generazioni:<br />
qualche “resistente” convinto, molti macellai,<br />
mezzemaniche accecate dal sogno di una ricchezza facile<br />
facile. Gente educata a non avere regole, codici, rispetto.<br />
Dice il giornalista Indro Montanelli: «Della sua<br />
isola non è rimasto che il nome, e poco altro. Sulle montagne<br />
ora imperversano i criminali, nemmeno lontani<br />
parenti dei banditi d’annata. E son convinto che lui,<br />
l’ultimo lupo solitario, li disprezza. Anche se non me lo<br />
dirà mai. Il fatto è che ha sbagliato secolo. È l’ultimo reperto<br />
vivente di un mondo che non c’è più. Se potessi,<br />
lo metterei sotto vetro. Come una reliquia».<br />
Salvatore Contini, autotrasportatore di Olbia, è in<br />
qualche modo quello che rappresenta meglio di chiunque<br />
altro i nuovi campioni <strong>del</strong>l’orrore. Sposato, va avanti<br />
e indietro con un piccolo camion quando gli propongono<br />
un colpo non impossibile: sequestrare il giornalista<br />
Leone Concato. Sta finendo la primavera <strong>del</strong> ’77 e<br />
sulla Costa Smeralda arrivano i primi caldi e i primi<br />
ospiti. Concato viene portato via il 27 maggio, inghiottito<br />
nel nulla. Non tornerà mai più a casa. Contini, uno<br />
21
che in famiglia parla poco, viene arrestato dal giudice<br />
istruttore Luigi <strong>Lo</strong>mbardini tre mesi dopo. Il suo difensore,<br />
l’avvocato Bruno Bagedda, riesce a tirarlo fuori:<br />
gli indizi non sono sufficienti, le tesi accusatorie non<br />
reggono. Ci vogliono cinque anni perché lo spettro di<br />
quel rapimento-omicidio torni a galla. Sostenuto da un<br />
furore investigativo che non mancherà di creargli qualche<br />
fastidio, <strong>Lo</strong>mbardini riesce a mettere in angolo Contini.<br />
Che stavolta parla, straparla. Diventa quello che la<br />
cronaca definisce un “pentito eccellente”. A valanga, la<br />
sua confessione spalanca le porte <strong>del</strong> carcere a molti insospettabili.<br />
Tra questi c’è perfino l’avvocato Bagedda.<br />
«Mi aveva chiesto notizie di Concato», rivela Contini.<br />
Basta questo per dimostrare che Bagedda è coinvolto<br />
nel sequestro? L’avvocato viene condannato e solo le<br />
sue drammatiche condizioni di salute (un tumore che<br />
lo fa finire per due volte in sala operatoria) gli evitano<br />
l’onta <strong>del</strong>la prigione. Quattordici anni dopo il primo<br />
verdetto, la Cassazione concede la revisione <strong>del</strong> processo.<br />
Si ricomincia.<br />
E Contini? Morto. Ucciso nel carcere di Ajaccio da<br />
un commando di militanti <strong>del</strong> Fronte di liberazione<br />
còrso.<br />
La sua è davvero una storia esemplare. In un’intervista<br />
mai smentita (e inutilmente offerta alla magistratura),<br />
la vedova aggiunge particolari inquietanti. Deve<br />
avere paura, molta paura a parlare, ma le ribolle dentro<br />
una rabbia sorda che rischia di farla impazzire. Si sente<br />
scaricata, abbandonata dalle istituzioni che fino a pochi<br />
mesi prima garantivano protezione e danaro. Per questo<br />
vuole rompere la consegna <strong>del</strong> silenzio, gridare se<br />
potesse. L’effetto-megafono offerto da un quotidiano a<br />
22<br />
larga tiratura riesce a convincerla. Al termine di una<br />
lunga trattativa, accetta di parlare.<br />
Appuntamento a mezzanotte in una certa periferia<br />
alle porte <strong>del</strong>la città. A Olbia non c’è più nessuno per<br />
strada quando riaffiora il primo ricordo di un’avventura<br />
incredibile. «Volevamo rifarci una vita fuori, lontano<br />
da qui».<br />
Anche perché in <strong>Sardegna</strong> la vita sarebbe appesa a<br />
un filo: la vendetta, diretta o trasversale, di chi hai fatto<br />
finire in cella, è sicura. C’è da mettere in conto un agguato:<br />
questione di settimane, di mesi, ma Salvatore<br />
Contini sa bene che per lui il calendario <strong>del</strong>la vita va veloce,<br />
velocissimo da quando ha travolto con una confessione-fiume<br />
protagonisti e comparse <strong>del</strong>la cosiddetta<br />
“Anonima gallurese”.<br />
Appena uscito dal carcere per i meriti legati al suo<br />
ruolo di “collaboratore di giustizia”, avverte che l’aria si<br />
è fatta stretta. Intuisce che ha perfino poco tempo per<br />
levarsi di torno, farsi dimenticare se ce la facesse. Chiede<br />
aiuto e qualcuno aiuto gli concede. La vedova dice<br />
che gli era stato procurato un nome nuovo e un passaporto<br />
per fuggire in Corsica. Materiale, aggiunge, gentilmente<br />
fornito da qualcuno che sosteneva di far capo<br />
alla Questura di Sassari.<br />
La partenza è fissata per una sera qualunque, pochi<br />
bagagli, l’essenziale: non bisogna dare nell’occhio.<br />
Contini e sua moglie vengono accompagnati fino a Palau<br />
da due “poliziotti in borghese”. Signori cortesissimi<br />
e di poche parole: efficienti, sicuri. Quando il traghetto<br />
leva gli ormeggi sollevando un vortice di schiuma, sembra<br />
fatta sul serio. Salvezza raggiunta.<br />
Di Contini si perdono le tracce: scomparso, si farà<br />
23
vivo – se necessario – il giorno <strong>del</strong> processo. La moglie<br />
assicura che il primo periodo di esilio forzato non è stato<br />
terribile. Certo, c’era il problema di acclimatarsi, inserirsi<br />
senza fare troppo chiasso. Fortuna che un lavoro,<br />
in un certo senso garantito dagli amici sardi, non<br />
manca; qualche soldino pure. Non c’è da preoccuparsi.<br />
Tutto procede nel migliore dei modi, vecchio tran tran<br />
casa-lavoro-casa fino a quando Contini non si sente travolto<br />
dal suo vecchio hobby.<br />
Con l’aiuto di qualcuno rimasto sconosciuto rapisce<br />
un veterinario di Ajaccio, autorevole rappresentante<br />
<strong>del</strong> Fronte di liberazione. Le trattative per il rilascio,<br />
ammesso che si trattasse davvero di un sequestro<br />
a scopo di estorsione, naufragano quasi subito. Alle<br />
prese con un ostaggio imbarazzante, Contini pensa di<br />
liberarsene senza indugi. Con un sistema collaudato,<br />
sostiene l’accusa: lo ammazza e brucia il cadavere con<br />
l’aiuto di una bombola a gas. Pare, ma su questo non<br />
si è mai riusciti a sapere molto, volesse sfigurarlo per<br />
renderlo irriconoscibile. La fiamma ossidrica aveva insomma<br />
il compito di cancellare qualunque traccia: <strong>del</strong><br />
veterinario non si dovevano avere più notizie. L’operazione<br />
andava realizzata nel più breve tempo possibile.<br />
E sarebbe andata benissimo se all’ultimo minuto non<br />
si fosse messa di mezzo la gendarmeria francese e un<br />
commissario un po’ tosto, di quelli che non mollano.<br />
Contini viene arrestato e rinchiuso in carcere. Non si<br />
sa se all’ufficio matricola venga registrato col suo vero<br />
nome o con quello preso in prestito al momento <strong>del</strong>la<br />
fuga da Olbia. È ragionevole pensare che, anche da detenuto,<br />
vivesse sotto falso nome: uno come tanti, in attesa<br />
di giudizio per omicidio.<br />
24<br />
C’è però qualcuno che conosce, a prova di errore, la<br />
sua vera identità. Qualcuno che passa l’informazione,<br />
la fa uscire all’esterno e aspetta. Contini non sa di essere<br />
stato condannato a morte. Con o senza documenti<br />
falsi, la sua sorte è segnata. Una mattina, appena sveglio,<br />
vede arrivare attraverso lo spioncino due detenuti<br />
incaricati di fare pulizie. Non immagina che tipo di<br />
pulizie debbano fare. Non li aveva mai visti prima, ma<br />
questo ha poca importanza. Così come sembra avere<br />
poca importanza il fatto che, a un certo momento, il<br />
“braccio” si spopoli. Non c’è neppure un agente di custodia<br />
quando i detenuti-netturbini aprono la porta<br />
<strong>del</strong>la sua cella, gli vanno incontro senza pronunciare<br />
una parola. <strong>Lo</strong> fanno a pezzi. Contini non ha il tempo<br />
di gridare, di chiedere aiuto: eppoi, avrebbe trovato<br />
qualcuno disposto a darglielo?<br />
I detenuti-netturbini escono senza fare rumore, superano<br />
la cancellata che chiude quell’ala <strong>del</strong> penitenziario<br />
e, sempre senza fretta, arrivano all’uscita. Salutano,<br />
se ne vanno.<br />
Il chiasso dei giornali è inferiore alle previsioni. Viene<br />
aperta un’inchiesta, anzi due: una promossa dalla<br />
magistratura, l’altra dal ministero di Giustizia alla ricerca<br />
di talpe tra i suoi dipendenti. Si vogliono individuare<br />
coperture e responsabilità, si vuole scoprire com’è possibile<br />
che due estranei siano penetrati in una prigione di<br />
Stato, abbiano messo a segno un <strong>del</strong>itto in assoluta tranquillità<br />
e se ne siano andati senza sbattere la porta. A distanza<br />
di sette anni, per quel che se ne sa, non si è approdati<br />
a niente. La morte di Salvatore Contini rimbalza a<br />
Olbia con qualche ritardo. Commenti? A livello ufficiale<br />
neppure uno. Chi è morto, Contini?, e chi è Contini?<br />
25
Uno, nessuno, un imputato tra i tanti <strong>del</strong>la indagine sull’Anonima<br />
gallurese.<br />
Un cadavere da dimenticare e basta. Possibile che<br />
nessuno si domandi quale fosse l’attendibilità <strong>del</strong> teste?,<br />
possibile che nessuno voglia riaprire certe pagine,<br />
dolorosissime, di quel processo? Bruno Bagedda, difensore<br />
di questo sconcertante “collaboratore di giustizia”,<br />
è stato in qualche modo riabilitato dopo un’attesa<br />
infinita. A Sassari lo aspetta il nuovo processo imposto<br />
dalla Cassazione: si arriverà ad un indizio, indizio concreto,<br />
sul sequestro-omicidio di Concato? Chissà. Passata<br />
la tempesta e un eloquente silenzio in risposta alle<br />
sue dichiarazioni, la vedova di Contini si è eclissata,<br />
buttata a capofitto sul lavoro, nella routine di una vita<br />
qualunque, assolutamente e rigorosamente anonima. A<br />
conti fatti, è una vittima anche lei. Non vuol più sentire<br />
parlare di giornali, interviste, aule d’Assise. Potesse,<br />
chiederebbe un certificato di non-esistenza.<br />
Suo marito le ha lasciato in eredità soltanto un brutto<br />
ricordo. Forse il peggiore nella storia <strong>del</strong> pentitismo<br />
in <strong>Sardegna</strong>: perché gli altri, i canarini, i quacquaracquà<br />
(come li chiamano adesso) non hanno fatto quella fine.<br />
Certo, qualcuno è stato assassinato, altri (come Luciano<br />
Gregoriani, logorroico e spietato accusatore dei<br />
suoi ex complici) hanno fatto definitivamente i bagagli<br />
senza rientrare in una cassa da morto. Sono insomma<br />
riusciti a rifarsi un nome e una vita lontano dalla <strong>Sardegna</strong>.<br />
Detto brutalmente, hanno fatto un investimento che<br />
ha dato i suoi frutti: due o tre persone al massimo sanno<br />
sotto quale identità si nascondono in una sperduta città<br />
<strong>del</strong> mondo. A Salvatore Contini un’uscita di sicurezza,<br />
evidentemente, non andava bene. Voleva di più.<br />
26<br />
Al pentitismo, e alle confessioni in genere, <strong>Mesina</strong><br />
crede poco. È fatto d’un’altra stoffa, lui. Unico recluso<br />
nell’Italia <strong>del</strong> dopoguerra ad aver scontato ventinove<br />
anni e qualche giorno. Unico recluso che si è visto<br />
condannato all’ergastolo come somma di pene inflitte<br />
per diversi reati: una specie di prendi due e paghi tre<br />
in versione giudiziaria.<br />
Altra musica, vecchi spartiti, vecchie regole. Nella<br />
sua autobiografia, sostiene un’idea precisa che è stata<br />
un po’ l’idea-guida <strong>del</strong>la sua vita. Quella che gli ha<br />
consentito di uscire vivo dalle peggiori carceri italiane:<br />
«Il pentitismo non riesco a digerirlo. Se uno fa una<br />
scelta, la deve portare avanti per tutta la vita…».<br />
L’ha fatta, fino in fondo. Nel 1984, quando ottiene<br />
una licenza di tre giorni, torna a Orgosolo e scopre un<br />
paese che stenta a riconoscere. Si ricorda che venticinque<br />
anni prima, giochi <strong>del</strong>la gioventù barbaricina, andava<br />
fortissimo il tiro al lampione. Soprattutto di notte,<br />
soprattutto quando c’era da far ammattire i carabinieri<br />
negli inseguimenti. Adesso soffia un altro vento.<br />
Otto sequestri in dodici mesi (nove a voler essere precisi,<br />
visto che uno non va a segno), una quarantina di<br />
omicidi. Ma siamo soprattutto alla vigilia <strong>del</strong>l’offensiva<br />
contro gli amministratori pubblici: i sindaci, figure un<br />
tempo intoccabili, stanno per diventare i bersagli di<br />
un’offensiva senza precedenti. Graziano, che non si<br />
è mai occupato di politica, appare frastornato. D’accordo<br />
i murales, impronta d’arte naïf e di protesta corale.<br />
Ma che senso ha sfregiare il portoncino d’ingresso<br />
<strong>del</strong> Municipio?, annunciare con gli slogan spray una<br />
rivolta che nessuno avrà mai il coraggio di scatenare?<br />
Prestissimo si arriverà alle bombe, agli attentati che<br />
27
colpiranno in particolare le amministrazioni di sinistra.<br />
Attenzione però a non cadere nella trappola ideologica:<br />
non è opposizione quella dei fucili che sparano nel<br />
buio; spesso è soltanto la rabbia di chi non può più contare<br />
sugli amici degli amici, sull’impunità amministrativa,<br />
sulla certezza che tra i suoi terreni non passerà una<br />
strada comunale, che nessuno denuncerà l’abuso edilizio<br />
compiuto nella via principale <strong>del</strong> paese.<br />
Sono cambiate molte cose. E non solo a Orgosolo.<br />
L’unica traccia tradizionale è quella <strong>del</strong>l’abigeato: quasi<br />
ottomila capi rubati, informano le statistiche <strong>del</strong>le forze<br />
<strong>del</strong>l’ordine. A Orune, a Sarule, a Mamoiada i carabinieri<br />
rischiano grosso durante le perlustrazioni notturne.<br />
Dopo le 20 chi può sta in caserma: aspettando l’alba. Alla<br />
luce <strong>del</strong> sole tutto diventa più semplice.<br />
Per Graziano <strong>Mesina</strong> questo è un altro pianeta. Assolto<br />
dall’accusa di aver ucciso due poliziotti durante<br />
un conflitto a fuoco, ha sempre seguito regole diverse.<br />
Regole che nessuno ha mai scritto ma che tutti, banditi e<br />
forze <strong>del</strong>l’ordine hanno sempre rispettato.<br />
Non è vero, come qualcuno ripete, che l’incolumità<br />
personale è tutta da verificare nel rosario dei paesi caldi.<br />
Il segreto stava (e sta) nel fare una scelta. Basta un piccolo<br />
esempio per capire. Se qualcuno offre carne, fuori<br />
mercato e a prezzi più che abbordabili, si tratta di un’offerta<br />
molto, molto particolare: quasi certamente bestie<br />
rubate e macellate clandestinamente. Una buona regola<br />
di sopravvivenza, quella che nessun manuale potrà mai<br />
scrivere, suggerisce di non comprarne. Meglio acquistare<br />
la carne calmierata e “ufficiale”, non l’altra. Al derubato,<br />
che prima o poi riuscirà a sapere chi l’ha fatto<br />
fesso, arriveranno all’orecchio anche i nomi degli acqui-<br />
28<br />
renti che si sono riempiti il freezer. Intendiamoci, comprare<br />
carne rubata in modica quantità non offre il tanto<br />
per far scoppiare una faida. Qualcosa però s’incrina, soprattutto<br />
se abigeato e vendita avvengono nello stesso<br />
paese e comunque nelle vicinanze.<br />
Aver risparmiato qualche lira può comportare il pericolo<br />
di una disamistade, l’inimicizia. Gradino che precede<br />
e prevede un sanguinario risarcimento.<br />
29
III<br />
Le regole <strong>del</strong> gioco<br />
Regola numero uno: niente morti. Regola numero<br />
due: niente trucchi. Regola numero tre: rispetto per i<br />
perdenti. C’è polvere e sangue, soprattutto sangue, su<br />
questo telegrafico galateo <strong>del</strong> buon bandito. Del buon<br />
bandito e <strong>del</strong> buon poliziotto. Antonio Serra, famoso<br />
ispettore <strong>del</strong>la Barbagia, è un esempio <strong>del</strong>la vecchia<br />
scuola. “Costanza e riservatezza”. Non solo: pochissimi<br />
incontri con i cronisti, gente che in ogni <strong>caso</strong> è meglio<br />
evitare. Curriculum di assoluto prestigio dopo quarant’anni<br />
in divisa, ha attraversato due generazioni criminali<br />
uscendone indenne. Intatto. Non sembra neppure<br />
far parte di quelle forze <strong>del</strong>l’ordine che negli anni ’60<br />
circondavano i paesi nella febbrile ricerca di latitanti,<br />
rastrellamenti da golpe militare, violenze gratuite, arroganza<br />
<strong>del</strong>lo Stato. Coi famigerati “baschi blu”, per capirci,<br />
Serra non ha neanche un lontano rapporto di parentela.<br />
Altro stile. Prima ancora <strong>del</strong>la scuola di polizia, riconosce<br />
come maestro un vecchio brigadiere di Orotelli,<br />
Pietro Paolo Lunesu. «Mi ha insegnato qualcosa di fondamentale:<br />
fare il proprio mestiere rispettando sempre<br />
gli altri, anche chi commette reati, non c’è bisogno di infierire,<br />
dobbiamo solo essere bravi a indagare. E indaga-<br />
31
e sempre meglio». Lui, soprannominato Penna Bianca<br />
(ma qualcuno lo chiamava anche l’Ultimo Cacciatore)<br />
l’ha fatto egregiamente, seguendo poche e chiarissime<br />
regole <strong>del</strong> gioco tacitamente rispettate anche dalla controparte.<br />
Regola numero uno: niente morti…<br />
Osposidda, 1985. In un costone di montagna si svolge<br />
il più drammatico conflitto a fuoco nella storia <strong>del</strong><br />
banditismo in <strong>Sardegna</strong>. Restano sul terreno, uccisi,<br />
quattro fuorilegge e un sottufficiale di polizia. Antonio<br />
Serra, che conosce riti, luoghi e uomini di quella terra,<br />
sostiene con sicurezza: quel massacro si poteva evitare.<br />
Una giornata inutilmente tragica. Non spiega però come<br />
e perché “si poteva evitare”. Ma proprio perché non<br />
spiega è chiaro un trasparente e solido dissenso con la<br />
tattica adottata dai suoi superiori: accerchiamento e<br />
fuoco a volontà, piombo rovente come in un filmaccio<br />
da quattro soldi. Solo che qui i morti sono veri. Con<br />
qualche pennellata di macabro folclore, quasi fosse stata<br />
una caccia al cinghiale, i cadaveri dei quattro banditi<br />
abbattuti in una sorta di battaglia campale vengono scaraventati<br />
sul cassone di un camion, proprio come si fa<br />
con la selvaggina. E via per le strade <strong>del</strong> paese, a mostrare<br />
quell’orrido trofeo. Nella memoria <strong>del</strong>la gente, <strong>del</strong>la<br />
gente che stava dalla parte <strong>del</strong>le forze <strong>del</strong>l’ordine e non<br />
coi banditi, questo è un oltraggio, una violenza gratuita.<br />
I morti sono sacri, perché esporli in quel modo?<br />
Il guaio è che certe norme di comportamento non<br />
esistono più da una parte e dall’altra. Comunque si presenti,<br />
sa giustizia difficilmente può portare qualcosa di<br />
buono. Quella che, con tono dottorale, parlamentari e<br />
ministri definiscono la “vertenza con lo Stato” è fatta di<br />
piccoli problemi quotidiani, iattanza col timbro tondo,<br />
32<br />
micro-aggressioni ai diritti di gente che non protesta ma<br />
ricorda, nel solco di una costante resistenziale che passa<br />
attraverso i secoli.<br />
Antonio Serra sa adoperare bene le armi ma se n’è<br />
servito raramente. Ha concluso con successo decine di<br />
indagini difficili (basta pensare al sequestro di Pasqualba<br />
Rosas o a quello di Carlo Travaglino) senza pretendere<br />
cadaveri, aborrendo quelle cacce all’uomo (anzi al<br />
morto) che accendevano grande entusiasmo tra alcuni<br />
ufficiali e tiratori scelti. Ragazzi nervosi, come spiegavano<br />
con un pizzico di orgogliosa complicità i loro comandanti,<br />
pronti a scatenare un’apocalisse da piccoli<br />
eroi <strong>del</strong> cinema.<br />
<strong>Mesina</strong> è fuori gioco, e non soltanto perché sta in galera,<br />
quando avanza, a piccoli passi, un imbarbarimento<br />
che stravolge la <strong>Sardegna</strong> e i suoi figli in arme.<br />
Effetto collaterale <strong>del</strong>la società <strong>del</strong> benessere, dicono<br />
i giornali. Colpa <strong>del</strong>l’opulenza, d’una ricchezza sfacciata<br />
che percorre itinerari turistici e ciondola in tivù<br />
parlando di un’isola-paradiso che non c’è. O meglio c’è,<br />
ma per pochi, pochissimi e resta in ogni <strong>caso</strong> lontana, irraggiungibile,<br />
per gli abitanti d’una regione con un tasso<br />
di disoccupazione fra i più alti d’Italia.<br />
Certe passerelle, vacanze che trasudano danaro, sono<br />
francamente fastidiose. Fanno parte <strong>del</strong> circo <strong>del</strong>l’esibizionismo,<br />
piccola borghesia all’attacco, nuovi e falsi ricchi<br />
insieme per celebrare i riti <strong>del</strong>l’apparenza. Una moda,<br />
un costume che colpisce l’immaginazione di persone<br />
in un certo senso indifese, vittime di una dolcissima violenza<br />
che ha stravolto valori e punti di riferimento.<br />
Il nuovo banditismo non è però l’epopea dei vinti, la<br />
lunga marcia verso la giustizia sociale di oppressi e cas-<br />
33
sintegrati. Salvo rarissime eccezioni, a sparare non è chi<br />
cerca un riscatto sociale. La povertà non è un detonatore<br />
<strong>del</strong>la violenza, almeno di quella che si lancia sul fronte<br />
dei sequestri.<br />
<strong>Lo</strong> sa bene Emilio Pazzi, poliziotto dall’alluce ai capelli,<br />
uno che potrebbe raccontare trent’anni di fatti e<br />
misfatti. Questore a Cagliari (dopo Nuoro e Oristano),<br />
ha diretto la Criminalpol per lungo tempo, inviato speciale<br />
<strong>del</strong> governo in Aspromonte per combattere la<br />
’ndrangheta. Con la testa e non col mitra.<br />
Perché Pazzi, buon conoscitore di Graziano <strong>Mesina</strong>,<br />
indagini su un centinaio di sequestri alle spalle, è poliziotto<br />
di testa. «Mai dato uno schiaffo», giura.<br />
È una sfinge, affila gli occhi fino a farli diventare due<br />
fessure, sorriso da cerimonia e una granitica educazione<br />
al silenzio. Potrebbe fare il paio con Antonio Serra. Servitore<br />
fe<strong>del</strong>e <strong>del</strong>lo Stato, non carnefice. E durissimo con<br />
la sociologia d’accatto che tenta di trovare una qualche<br />
giustificazione ai rapimenti. Conosce molto bene la<br />
campagna di annientamento psicologico <strong>del</strong>l’ostaggio,<br />
la violenza segreta, la sottile cru<strong>del</strong>tà tra carcerieri e prigioniero,<br />
i meccanismi che regolano l’industria <strong>del</strong> sequestro<br />
di persona. Ritiene che il «romanticismo interpretativo<br />
<strong>del</strong> mondo criminale finisca per essere fiancheggiatore<br />
e dunque complice».<br />
La realtà, quella che la cronaca non può raccontare,<br />
è terribile. Pupo Troffa, imprenditore sassarese rapito<br />
nell’inverno <strong>del</strong> ’78 e liberato nella primavera <strong>del</strong>l’anno<br />
successivo, è stato tenuto legato a una catena<br />
per duecentocinquanta giorni, più di otto mesi. Occhi<br />
bendati, neppure un momento distensivo. Mai. Perfino<br />
il giorno <strong>del</strong> rilascio ha fatto capolino la ferocia, il<br />
34<br />
disprezzo. «Eravamo in un <strong>caso</strong>lare, ero legato mani e<br />
piedi». Arriva il bisogno improvviso, irresistibile di fare<br />
pipì. Troffa, industriale inossidabile e buon giocatore<br />
di bridge, ha superato da tempo certi pudori: durante<br />
la prigionia non possono esserci più segreti coi<br />
custodi. «L’uomo è un animale che si abitua a tutto. E<br />
perfino con rapidità. Sulle prime, l’umiliazione è palpitante:<br />
penso a quando dovevo soddisfare, sempre<br />
bendato, le mie necessità fisiologiche sotto l’occhio attento<br />
di due carcerieri. Non l’ho dimenticato ma rammento<br />
anche che col passare dei giorni, <strong>del</strong>le settimane,<br />
tutto diventa routine, senza trascurare però il<br />
bisogno di alimentare l’odio e la sete di vendetta. Tra<br />
me e me cercavo spunti, argomenti per tenere viva e<br />
bruciante questa mia rabbia. Che non s’è spenta. In<br />
diverse occasioni, hanno anche tentato di stabilire un<br />
dialogo, quattro parole per ingannare il tempo che<br />
non passava mai. Io non sono stato capace neanche di<br />
fare questa piccola concessione. Preferivo parlare con<br />
me stesso piuttosto che col carceriere».<br />
In quella mattina, nel <strong>caso</strong>lare dove sarebbe stato liberato,<br />
Troffa avverte la luce <strong>del</strong> sole attraverso la benda<br />
scura che gli copre gli occhi. È sfinito, spaventato, tenuto<br />
in vita da una paura che crede di non aver lasciato<br />
intuire ai suoi custodi. Peccato per questa seccatura finale,<br />
peccato dover chiedere un’ultima cortesia ma proprio<br />
non ce la faceva più. «Per favore, mi slacci i pantaloni?»<br />
domanda a un implacabile secondino. L’ha chiesto<br />
centinaia di volte durante i mesi <strong>del</strong> sequestro. L’ostaggio,<br />
insaccato in una corda, non poteva far nulla da<br />
solo, nemmeno la pipì. «Mi hai sentito, mi slacci i pantaloni<br />
per favore? Sto male». La risposta è una risata sec-<br />
35
ca, beffarda. Il bandito si avvicina e gli bisbiglia all’orecchio:<br />
«Pisciati addosso».<br />
Con Pupo Troffa la sindrome di Stoccolma, quel filo<br />
misterioso che lega la vittima al boia, non c’è. Semmai<br />
odio, un odio stratificato che, a dispetto d’una dichiarata<br />
militanza cristiana, non riesce a pronunciare o immaginare<br />
il perdono. Difficile dargli torto, giocare ambiguamente<br />
sul ritorno alla ragione. Otto mesi da cane li<br />
ha vissuti lui e lui soltanto. È perfino irriguardoso cercare<br />
di spiegargli a tavolino perché dovrebbe dimenticare.<br />
Troffa non ci sta. Ha portato dovunque questa sua<br />
storia, alla faccia di quegli accademici illuminati che discettano<br />
su attenuanti, generiche e specifiche, <strong>del</strong> sequestro.<br />
Emilio Pazzi, che su vicende come queste potrebbe<br />
scrivere un’antologia, assicura che non si tratta affatto<br />
di un’eccezione. Ha avuto occasione di verificare personalmente<br />
cosa sia la paura andando a fare l’emissario<br />
durante le indagini per alcuni rapimenti. Una volta,<br />
mentre parlava con un fuorilegge a notte fonda, gli è<br />
perfino cascato il registratore che teneva nascosto nel<br />
cappotto. L’ha salvato il buio, il bandito ha pensato a<br />
una sbadataggine legata all’emozione e non s’è chinato<br />
a vedere di cosa si trattava.<br />
Pazzi parla per esperienza personale. E non assolve,<br />
mai. Conosce ex ospiti <strong>del</strong>l’Anonima, come un penalista<br />
di Sassari, che dopo l’esperienza-sequestro si sono<br />
riconvertiti. «Non riusciva più a fare l’avvocato, a difendere<br />
sempre e comunque gente che stava su un’altra<br />
sponda».<br />
Sperando che nelle stanze alte <strong>del</strong> ministero degli Interni<br />
nessuno lo senta, il poliziotto Pazzi confessa «una<br />
36<br />
larvata simpatia per i <strong>del</strong>inquenti di ieri». Quelli nuovi,<br />
classe dirigente <strong>del</strong>l’orrore con la quale lo stesso Graziano<br />
<strong>Mesina</strong> dovrà fare i conti durante il rapimento <strong>del</strong><br />
piccolo Farouk Kassam, sono d’altro tipo. Non hanno<br />
debolezze e considerano il “fattore umano” un dettaglio<br />
irrilevante. L’ostaggio è soltanto un capitale in carne<br />
e ossa: come tale, bisogna renderlo redditizio, aiutarlo<br />
con immondi e terrificanti stimoli a trasformarsi in<br />
una macchina mangiasoldi, a diventare un gelido esattore<br />
dei beni di famiglia, un grottesco pubblico ministero<br />
che addossa a moglie e figli i ritardi <strong>del</strong>la sua liberazione.<br />
La violenza non è altro che un ingrediente <strong>del</strong> sequestro.<br />
Un lavoro di pressing, direbbero amabilmente nel<br />
mondo <strong>del</strong> calcio. Che spesso prevede lo stupro. Potrebbe<br />
testimoniare a questo proposito un professionista<br />
rapito a Punta <strong>Sardegna</strong> insieme alla moglie e alla figlia<br />
sordomuta. Pazzi ricorda che quando venne liberato,<br />
perché cercasse i soldi necessari al riscatto, era “una<br />
belva”. Strano, di solito il ritorno alla luce, alla libertà,<br />
stravolge gli ostaggi rendendoli euforici, allegri, ubriachi<br />
di gioia, di vita ritrovata.<br />
Quello no. Davvero una belva. Nessuna dichiarazione.<br />
Anzi, spara un cazzotto in pieno viso contro un reporter<br />
troppo insistente. Come mai? Poco prima di essere<br />
liberato, un bandito lo aveva sodomizzato davanti<br />
alla moglie e alla figlia aggiungendo poi un piccolo avvertimento:<br />
«Sbrigati a trovare i soldi, perché fino a<br />
quando tu non paghi questo lavoretto lo faremo anche a<br />
tua moglie e alla ragazzina». Promessa mantenuta. Per<br />
completezza d’informazione, va aggiunto che – dopo<br />
l’arresto – questo esuberante macellaio non è rientrato<br />
37
in carcere al termine di un permesso-premio di tre giorni.<br />
È stato arrestato solo molti mesi più tardi, coinvolto<br />
in un nuovo sequestro di persona.<br />
Non se ne può fare il nome perché non gli è mai stato<br />
contestato ufficialmente il reato di violenza carnale e<br />
dunque almeno teoricamente, potrebbe addirittura<br />
presentare querela per diffamazione. Sa bene che di<br />
queste cose nei fascicoli processuali non si parla spesso,<br />
quindi (almeno su questo profilo) si riesce a farla franca<br />
grazie alla forzata complicità <strong>del</strong>le vittime. Può sembrare<br />
un paradosso, ma in genere sono proprio gli<br />
ostaggi che invocano il silenzio, che desiderano dimenticare<br />
e, soprattutto, evitare la torbida curiosità <strong>del</strong>la<br />
gente. Il timore di un processo spettacolo, che prima o<br />
poi sui giornali qualcuno non mancherebbe di definire<br />
“a luci rosse”, è più forte di un legittimo sentimento di<br />
giustizia.<br />
Ci sono le eccezioni. Molto dipende dalla capacità di<br />
resistenza <strong>del</strong>l’ostaggio, dalla sua personalità. Fabrizio<br />
De André, rapito nel ’79 insieme a Dori Ghezzi e tenuto<br />
in una prigione a cielo aperto per quattro mesi, rivela<br />
che il problema <strong>del</strong>la violenza è stato affrontato nei primissimi<br />
giorni <strong>del</strong> sequestro. «Sono riuscito a stabilire<br />
un accordo. Volevano danaro e io avrei tentato di darglielo.<br />
E qui doveva chiudersi il conto. Ho anche detto<br />
che saremo stati al gioco, obbedienti. Ma in cambio ci<br />
avrebbero dovuto rispettare. Altrimenti, glielo avevo<br />
detto, mi sarei levato la maschera. Puntavano ai soldi o<br />
volevano due cadaveri? Hanno capito che, se avessero<br />
tentato qualunque genere di violenza fisica, ci saremmo<br />
fatti ammazzare».<br />
È finita bene, ma purtroppo non tutti i prigionieri<br />
38<br />
<strong>del</strong>l’Anonima possono dire altrettanto. Un senso di ripulsa<br />
vieta di riferire particolari che si apprendono facendo<br />
il mestiere <strong>del</strong> cronista. Ma dev’essere chiaro fino<br />
in fondo che il sequestro di persona non ha giustificazioni<br />
di sorta. A parte il discorso sugli stupri, nessun altro<br />
reato riesce ad annientare e umiliare la dignità, il rispetto<br />
di se stessi. È per via <strong>del</strong> suo carattere continuativo,<br />
<strong>del</strong>la ripetitività che, di ora in ora, mina l’equilibrio<br />
interiore. Lasciando, in alcuni casi, una specie di invalidità<br />
permanente. Chi discute, più o meno volentieri, dei<br />
suoi giorni da ostaggio è riuscito ad assorbire il colpo.<br />
Ma quanti non riescono neppure ad accennarne?,<br />
quanti non l’hanno mai superato?<br />
Nel suo lungo e paziente lavoro investigativo, Pazzi<br />
ha sempre sposato quello che chiama il metodo <strong>del</strong>l’uomo<br />
comune. Vale a dire la ricerca <strong>del</strong>la verità attraverso<br />
sistemi che non prevedono l’uso <strong>del</strong>la forza, l’aggiramento<br />
<strong>del</strong>le leggi, furbizie innominabili. Insomma<br />
quella ragion di Stato che qualche volta finisce per diventare<br />
l’esatto opposto <strong>del</strong>la democrazia. A osservarlo<br />
per strada, coi giornali sottobraccio, questo poliziotto<br />
dal sussiego impiegatizio lascia trapelare subito<br />
un’anima civile. Sembra tener molto a un fisico minuto,<br />
agli antipodi <strong>del</strong>lo stereotipo ammazza-banditi di<br />
oggi. E, giusto per non stare al gioco <strong>del</strong> personaggio,<br />
inutile cercare riferimenti: di Maigret non ha la stazza,<br />
di Poirot il tronfio narcisismo, di Nero Wolfe l’occhio<br />
furbo.<br />
Molti anni fa, mentre si occupava <strong>del</strong> sequestro in<br />
Costa Smeralda <strong>del</strong>la moglie di un grosso imprenditore<br />
lombardo, gli è capitato di andare a trovare i familiari<br />
<strong>del</strong>l’ostaggio in Brianza. In quel periodo comprava in<br />
39
edicola una storia <strong>del</strong>l’arte in fascicoli settimanali. Che<br />
c’entra?<br />
All’ingresso <strong>del</strong>la villa, un’elegante cancellata in ferro<br />
battuto, viene ad aprirgli un maggiordomo. Cortesia<br />
affettata, pochissime parole e un freddo «si accomodi».<br />
Pazzi avanza lungo il viale guardandosi intorno, stretto<br />
stretto nel suo completino senza un guizzo di fantasia:<br />
tutto, perfino le semplicissime panchine in pietra, raccontavano<br />
di benessere, ricchezza. Dopotutto nel listino<br />
prezzi <strong>del</strong>l’Anonima, quella era la casa di un ostaggio<br />
da un miliardo (miliardo di allora, inizio anni ’80). Una<br />
dimensione che un funzionario <strong>del</strong>lo Stato, qualifica di<br />
vicequestore aggiunto, non può neanche sognare.<br />
A un tratto, ecco il cavallo e il suo sontuoso cavaliere:<br />
splendido monumento equestre che vigila con fierezza<br />
nella piazzola al centro di un parco pulito e ordinato.<br />
Quel monumento l’aveva già visto, ma dove? Fruga<br />
e rifruga nella memoria, mentre attende in un salotto.<br />
Poi, la folgorazione: quel cavaliere bronzeo l’aveva<br />
visto in uno dei fascicoli che stava acquistando in edicola.<br />
Uguale? Simile, molto simile. Ai non esperti come<br />
lui sfuggivano molti particolari per poter valutare a<br />
fondo. Comunque bello e grande, grande come un alloggio-parcheggio,<br />
uno di quelli che le amministrazioni<br />
comunali adoperano per sistemare provvisoriamente (e<br />
non solo) i senzatetto.<br />
«Straordinario, ne ho visto uno così su una rivista<br />
d’arte», azzarda timidamente poco dopo col padrone di<br />
casa. «Non è “uno così”, dottor Pazzi. È proprio quello<br />
che ha visto sulla rivista. Abbiamo autorizzato recentemente<br />
la riproduzione fotografica. Bel lavoro vero?»<br />
Emilio Pazzi non è riuscito a dimenticare quella sta-<br />
40<br />
tua e quel dialogo appena sussurrato con un <strong>signor</strong>e che<br />
aveva la moglie in mano ai banditi, nella vicina e lontanissima<br />
<strong>Sardegna</strong>. Chissà cosa gli è passato per la testa a<br />
proposito dei discorsi sull’immoralità di certa ricchezza,<br />
chissà se ha ripensato alle dichiarazioni di guerra di<br />
chi giustifica il sequestro dietro una brutale (ma necessaria)<br />
redistribuzione <strong>del</strong> reddito.<br />
Il poliziotto non svela quale sia la sua opinione conclusiva.<br />
Ama la discrezione, il senso <strong>del</strong>la misura. Certo:<br />
un monumento, come dire?, un monumento privato<br />
non l’aveva mai visto prima. Ma c’è sempre una prima<br />
volta, no?<br />
41
IV<br />
Affari riservati<br />
L’ombra dei servizi segreti si allunga improvvisamente<br />
durante il sequestro di Farouk Kassam. A Roma,<br />
dove il Sisde segue con attenzione le trattative coi banditi,<br />
decidono a un tratto di cambiare rotta: da un’attenta<br />
e comoda posizione di osservatori si passa a qualcosa<br />
di più diretto, più rischioso.<br />
Succede, probabilmente, dopo che a Galanoli i rapitori<br />
lasciano vicino alla chiesa una “busta” per il parroco,<br />
don Luigino Monni, crociato di Dio che assiste handicappati<br />
mentali gravi. La sua è una formidabile testimonianza<br />
di fede, di solidarietà. Una scelta che lo porta<br />
lontano dalle piste, molto battute, <strong>del</strong>la carriera ecclesiastica.<br />
Don Luigino, figlio di un ex sindaco democristiano<br />
di Orgosolo, sceglie di stare con gli ultimi.<br />
Il vescovo di Nuoro, mon<strong>signor</strong> Giovanni Melis, che<br />
benedice la prospettiva di un intervento di <strong>Mesina</strong> e organizza<br />
un incontro in episcopio tra Graziano e la madre<br />
<strong>del</strong>l’ostaggio (Marion Kassam), gli affida l’incarico<br />
di tenere i contatti con l’esterno. Anche i banditi, naturalmente,<br />
sanno. E proprio a lui fanno recapitare in una<br />
busta un pezzetto di cartilagine sporco di sangue: l’orecchio<br />
sinistro di Farouk. Per la precisione, la parte alta.<br />
Messaggio chiarissimo: se non si conclude in tempi<br />
43
agionevolmente brevi, il prigioniero subirà un’altra<br />
mutilazione. Il chirurgo che si è occupato <strong>del</strong>l’intervento<br />
ha la mano pesante: quando Farouk tornerà a casa, lo<br />
sfregio sarà evidente. Gli hanno portato via quasi mezzo<br />
orecchio.<br />
Erano stati certamente più professionali, ammesso<br />
che si possa adoperare questo termine, col costruttore<br />
romano Giulio De Angelis, altra vittima <strong>del</strong>l’Anonima:<br />
a lui avevano mozzato proprio la punta <strong>del</strong>l’orecchio.<br />
Evidentemente volevano mandare ai familiari solo un<br />
segnale, non un agghiacciante reperto <strong>del</strong>la loro ferocia.<br />
I Servizi irrompono nel sequestro Farouk non appena<br />
trapela la notizia <strong>del</strong>la mutilazione. Decidono di avviare<br />
una trattativa parallela a quella di <strong>Mesina</strong> senza informarne<br />
l’interessato che pure, in quel periodo, risulta<br />
essere l’emissario <strong>del</strong>la famiglia. Graziano verrà a sapere<br />
per puro <strong>caso</strong>. Nel corso di un abboccamento notturno,<br />
saranno gli stessi banditi a informarlo: non sei l’unico<br />
a occuparti <strong>del</strong> bambino. Le cose si complicano, l’affare<br />
esce dai binari <strong>del</strong>la consuetudine e sembra arenarsi<br />
in secche pericolose. La frequenza degli incontri subisce<br />
un forte rallentamento, l’impegno di polizia e<br />
carabinieri pare cercare sbocco nella riflessione. Momento<br />
difficile: la realtà è che il ministero <strong>del</strong>l’Interno<br />
sta decidendo che strategia adottare.<br />
Sul magistrato che segue l’inchiesta e sullo stesso governo<br />
c’è intanto il fiato grosso d’un intero Paese, indignato<br />
e offeso dall’odissea <strong>del</strong> piccolo Farouk. Riemerge,<br />
non è casuale, il dibattito sulla pena di morte; un<br />
giornalista famoso invita gli italiani a stendere alla finestra<br />
lenzuola bianche: sarà un grido corale, un grido<br />
candido e muto per chiedere il rilascio <strong>del</strong>l’ostaggio.<br />
44<br />
<strong>Mesina</strong>, che di questa vicenda (come testimonierà<br />
mon<strong>signor</strong> Melis) non si voleva occupare, si trova improvvisamente<br />
tra due fuochi: da una parte ci sono i<br />
Servizi, <strong>signor</strong>i che non scherzano e che con i rapitori<br />
hanno un conto aperto, dall’altro c’è un’opinione pubblica<br />
fortemente divisa: il partito dei mesiniani confida<br />
nell’“autorevolezza” <strong>del</strong> negoziatore (romanticamente,<br />
sarebbe l’azione buona d’un vecchio fuorilegge folgorato<br />
sulla via <strong>del</strong>la giustizia), un altro partito diffida invece<br />
apertamente: <strong>Mesina</strong> non è altro che un vecchio <strong>del</strong>inquente,<br />
a suo tempo sequestratore e assassino. Dunque,<br />
non affidabile. Si porta dietro un terribile patrimonio<br />
genetico, il DNA <strong>del</strong> bandito.<br />
Come uscirne? Pesa tra l’altro un problema di immagine:<br />
lo Stato può accettare che a trattare la salvezza di<br />
un ostaggio sia un ex ergastolano chiamato in passato<br />
“la primula rossa <strong>del</strong> Supramonte”? È davvero un vespaio,<br />
un maledetto imbroglio quello giocato sulle ultime,<br />
drammatiche battute <strong>del</strong> sequestro.<br />
I Servizi ci sono, ma non si vedono. <strong>Mesina</strong> sa qualcosa<br />
di loro. Nel 1968, latitante principe <strong>del</strong>la criminalità<br />
nazionale, ne ha perfino incontrato un autorevole e<br />
intraprendente rappresentante: Massimo Pugliese, colonnello<br />
dei carabinieri in congedo, iscritto alla loggia<br />
P2 (tessera 1914), che in quel momento è al culmine<br />
<strong>del</strong>la carriera. Conversatore brillante, fulminee incursioni<br />
nella cultura per offrire la citazione giusta al momento<br />
giusto, riceve il <strong>del</strong>icatissimo incarico (pare dal<br />
Quirinale) di mettersi in contatto con <strong>Mesina</strong>. Due gli<br />
obiettivi: trattare una resa (Graziano sostiene che gli<br />
siano stati offerti 150 milioni) oppure comunicargli, in<br />
via ufficiosa s’intende, che il Governo non gradirebbe il<br />
45
matrimonio con l’extrasinistra, con quegli intellettuali<br />
che premono per trasformare la <strong>Sardegna</strong> nella Cuba<br />
<strong>del</strong> Mediterraneo. In <strong>caso</strong> contrario, la stretta sul Supramonte<br />
si farebbe più intensa, i rastrellamenti più<br />
asfissianti: e per un latitante, sia pure “leggendario”, è<br />
francamente una seccatura. Meglio evitare.<br />
Pugliese sa come metterla. A parte l’incarico ufficiale<br />
nell’Arma, in quel periodo dirige il Sid (il servizio segreto<br />
di allora) in <strong>Sardegna</strong>. Laureato in giurisprudenza<br />
a Sassari con una tesi su «Forze armate e Costituzione»<br />
(relatore il professor Francesco Cossiga), è un uomo di<br />
successo. Riesce con facilità a entrare in qualunque ambiente,<br />
gli si spalancano i salotti <strong>del</strong>le case che contano.<br />
E questo provocherà inevitabilmente maliziosi sussurri<br />
che finiranno per rimbalzare fino a Roma, comando generale<br />
<strong>del</strong>l’Arma. Ovviamente Pugliese non ha mai confermato<br />
quello storico e singolare incontro alla macchia.<br />
Questione di deontologia professionale. L’appuntamento<br />
viene definito nell’inverno <strong>del</strong> ’67 e fissato per<br />
gli inizi <strong>del</strong> ’68. Per quel che <strong>Mesina</strong> dice di saperne, la<br />
missione <strong>del</strong>la “spia” era ad ampio raggio: sulla base di<br />
un’informazione riservata che dava un grosso quantitativo<br />
di armi e danaro in arrivo nell’isola, il colonnello<br />
aveva il compito di indire un referendum tra i latitanti (e<br />
non solo). In pratica, aveva bisogno di sapere se, di lì a<br />
poco, malavita comune e ultrasinistra armata avrebbero<br />
stretto un patto d’acciaio. Il timore non era <strong>del</strong> tutto infondato,<br />
visto che diversi anni più tardi il commesso<br />
viaggiatore <strong>del</strong>le Brigate Rosse, Antonio Savasta, sbarcò<br />
in <strong>Sardegna</strong> per un vertice (a Sa Janna Bassa) con<br />
quelli che all’epoca erano i pezzi da novanta <strong>del</strong> banditismo.<br />
Sia pure con la logica <strong>del</strong> dopo, si può affermare<br />
46<br />
che lo scenario abbozzato, con qualche brivido, al Viminale<br />
era assolutamente realistico. E pensare che allora<br />
sembrava follia fantapolitica.<br />
<strong>Mesina</strong>, che per alcuni anni ha la stessa sacralità <strong>del</strong><br />
calciatore Gigi Riva, pone alcune condizioni: vuole registrare<br />
la chiacchierata con Pugliese che dovrà arrivare<br />
solo, al volante <strong>del</strong>la sua auto privata, seguendo un<br />
itinerario preciso. Ad aspettarlo troverà una sorta di<br />
maggiordomo agropastorale. Al luogo <strong>del</strong>l’incontro vero<br />
e proprio giungerà bendato e bendato dovrà stare fino<br />
a quando qualcuno, il solito Jevees di Barbagia, non<br />
lo riaccompagnerà, frusciando tra i sentieri di una inaccessibile<br />
guglia rocciosa, fino all’automobile. Testimonianza<br />
di Graziano <strong>Mesina</strong>: «Venne da me il responsabile<br />
<strong>del</strong> controspionaggio, Massimo Pugliese, inviato<br />
dal Presidente <strong>del</strong>la Repubblica Saragat. Quella sera<br />
non c’era in giro una-pattuglia-una: strade sgombre,<br />
scomparsi carabinieri e polizia. Pugliese mi disse subito<br />
che la sua stilografica era una pistola. Voleva spaventarmi?<br />
Mi fece sorridere. Quando andai a prelevarlo, nel<br />
luogo concordato, mi chiese anche quanto ci sarebbe<br />
voluto per incontrare <strong>Mesina</strong>. “E io chi sono, secondo<br />
te?” Ci rimase male».<br />
Obbediente, l’uomo <strong>del</strong> Sid esegue con scrupolo le<br />
indicazioni e conclude la missione nel migliore dei modi:<br />
con 150 milioni in contanti, la certezza d’una detenzione<br />
a Nuoro, la liberazione di alcuni reclusi “ingiustamente<br />
detenuti” perché considerati complici di Graziano,<br />
può anche offrire al ministero il latitante più ricercato<br />
d’Italia. In linea di massima, sembra che l’operazione<br />
possa andare avanti. Al Governo interessa in particolar<br />
modo per allontanare definitivamente il timore che il<br />
47
nascente terrorismo agganci la <strong>del</strong>inquenza comune.<br />
L’unico ostacolo, che diverrà poi insormontabile, riguarda<br />
la scarcerazione di alcuni reclusi (non si sa né quanti<br />
né di chi si trattasse). A Roma non vogliono correr il pericolo<br />
di uno scandalo. Meglio lasciar perdere. Prima o<br />
poi <strong>Mesina</strong> abbasserà la guardia.<br />
Pugliese, che lascerà poco dopo i carabinieri e la <strong>Sardegna</strong>,<br />
viene arrestato alla fine di marzo <strong>del</strong> 1984: a firmare<br />
l’ordine di cattura è un magistrato celebre, il giudice<br />
istruttore Carlo Palermo, che lo accusa di essere<br />
coinvolto in un colossale traffico d’armi. In un libro-inchiesta<br />
<strong>del</strong> 1986 sulla clamorosa indagine giudiziaria,<br />
l’eccellentissimo indiziato viene presentato così: «Poi<br />
c’è Massimo Pugliese, tenente colonnello dei carabinieri,<br />
legato ai generali Vito Miceli e Giuseppe Santovito,<br />
suoi superiori ai tempi <strong>del</strong> Sifar e <strong>del</strong> Sid, procacciatore<br />
d’affari sui mercati internazionali. Si era fatto un nome<br />
in <strong>Sardegna</strong>… Attraverso la rete degli informatori era<br />
stato il primo a conoscere i tentativi <strong>del</strong>l’editore Giangiacomo<br />
Feltrinelli e di alcuni suoi amici francesi che<br />
pensavano di trasformare in guerrieri i banditi sardi…<br />
Ebbe la prova che nel novembre <strong>del</strong> 1967 il brigante<br />
Graziano <strong>Mesina</strong>, certamente il più noto tra i ricercati<br />
sardi, aveva ricevuto offerte concrete: armi e denaro in<br />
cambio di un’insurrezione. Un uomo, quel Massimo<br />
Pugliese, molto coraggioso, perché nel clima di un banditismo<br />
fatto di agguati, sequestri, uccisioni, era riuscito<br />
a entrare in contatto con lo stesso <strong>Mesina</strong> dalla cui voce,<br />
registrata segretamente, si era appreso che i latitanti<br />
non avrebbero appoggiato il terrorismo politico. Grazianeddu<br />
si sentiva brigante e non guerriero».<br />
Di Massimo Pugliese, incontrato in condizioni per-<br />
48<br />
lomeno singolari, stile compassato e suadente da vero<br />
agente segreto, <strong>Mesina</strong> conserva un buon ricordo: ufficiale<br />
e gentiluomo, ha rispettato gli accordi. Non dice<br />
altrettanto degli uomini dei Servizi che, durante la latitanza,<br />
dichiara di aver incontrato. A più riprese anzi, e<br />
senza che nessuno lo smentisse, riferisce di essersi sentito<br />
proporre un minestrone eversivo. Di tutto un po’:<br />
dalla missione-lampo contro l’estrema destra altoatesina<br />
all’attentato contro la polizia nel bel mezzo di una<br />
manifestazione. Difficile dire quale sia il confine tra verità<br />
e <strong>del</strong>irio di potenza da balente. Qualcosa di vero<br />
tuttavia dev’esserci se lui stesso, rinunciando per un attimo<br />
a essere personaggio, afferma di non aver mai conosciuto<br />
l’editore Giangiacomo Feltrinelli. Su questo<br />
incontro si è riversato un oceano di parole su quotidiani<br />
e riviste. Ma Graziano resta fermo sulla sua versione:<br />
«Ho ricevuto un messaggio da Feltrinelli, diciamo pure<br />
la richiesta per un incontro, ma ho cortesemente declinato<br />
l’invito». Il motivo? Semplice. «La politica mi fa<br />
schifo». Talmente schifo da ripensarci con assoluto disgusto<br />
quando, ormai in carcere da tempo, il film <strong>del</strong>la<br />
memoria gli ricorda che avrebbe potuto essere un ottimo<br />
mercenario per un colpo di Stato.<br />
Con queste premesse, appare ovvio che <strong>Mesina</strong> non<br />
straveda per uomini e metodi dei Servizi. Quando apprende<br />
che si stanno seriamente interessando <strong>del</strong> sequestro<br />
Farouk va su tutte le furie, pensa di ritirarsi dall’affare,<br />
poi arriva a una preoccupante conclusione: meglio<br />
far finta di nulla per salvare la pelle. «Volevano, cercavano<br />
la strage», ripete ossessivamente subito dopo la<br />
liberazione <strong>del</strong> bambino. Per quanto lo riguarda, ipotizza<br />
una fine poco eroica: «Mi mettono in testa un cap-<br />
49
puccio, m’ammazzano e vanno a dire che nella banda<br />
c’ero anch’io».<br />
Nella sua autobiografia, scritta frettolosamente e<br />
piuttosto vaga, non entra nel dettaglio di questa ipotesi.<br />
Che, a suo tempo, preferisce affidare ai giornali. Fino a<br />
dire che la prova provata <strong>del</strong>la sua innocenza sono proprio<br />
i Servizi. «Mi hanno seguito senza tregua, sono stati<br />
il mio angelo custode. Telefoni sotto controllo e loro<br />
sempre dietro. A meno che non decidessi di seminarli»,<br />
puntualizza con la solita dose di spacconeria.<br />
Pur immaginando di essere guardato a vista e ascoltato<br />
minuto per minuto, ricorre a un piccolo test per sapere<br />
in che misura lo stanno tenendo sotto tiro. Dalla<br />
casa <strong>del</strong>la sorella, a Orgosolo, telefona a un amico, gli<br />
chiede di andare a Nuoro a prendere certe foto e di fargliele<br />
avere in serata. L’amico, che la sera precedente era<br />
stato avvertito <strong>del</strong>l’esperimento, parte portandosi dietro<br />
una scia di segugi. Al ritorno, pochi chilometri dal<br />
cartello stradale trasformato in colabrodo dai pallettoni,<br />
incappa in un posto di blocco. «Polizia, documenti<br />
prego». Patente e carta di circolazione. Subito dopo comincia<br />
un’accurata perquisizione, saltano fuori due foto<br />
che un agente studia con grande attenzione cercando<br />
forse di capire chi ritraggono. Alla fine è tutto a posto.<br />
«Può andare». Sempre marcato a vista, fino al modesto<br />
appartamento dove Graziano abita quando sta a Orgosolo:<br />
soffitti bassi, arredamento da offerta speciale, un<br />
grande televisore bianco e nero nel soggiorno davanti a<br />
un piccolo tavolo tondo.<br />
Uscire da quella casa senza essere visti può apparire<br />
impossibile. Ma un sistema c’è: <strong>Mesina</strong> lo scova e lo comunica<br />
a pochissime persone che gli preme non far pas-<br />
50<br />
sare dall’ingresso principale, pericolosamente affacciato<br />
sulla strada. Don Luigino Monni è uno di questi. Ha<br />
una sorta di “pass”: appare all’improvviso, quasi fosse<br />
un miracolato, all’improvviso scompare. Il trucco è banale:<br />
da una porticina aperta alla fine di un anditino è<br />
possibile, sia pure con qualche acrobazia, finire in una<br />
via parallela a quella principale. Ci vuole un attimo.<br />
Questo cosa significa? Significa che <strong>Mesina</strong> riesce ad<br />
avere incontri non registrati dai Servizi, in qualche <strong>caso</strong><br />
riesce pure ad andarsene con lo stesso sistema. «Quante<br />
volte credevano fossi a casa. Io ero in giro». Neppure<br />
per un attimo accoglie la possibilità che i suoi angeli custodi,<br />
come gli piace chiamarli, sapessero anche <strong>del</strong>l’uscita<br />
secondaria ma, naturalmente, non ci hanno fatto<br />
sopra tanto chiasso.<br />
Per <strong>Mesina</strong> questa ipotesi non regge per una ragione<br />
soltanto: «Se davvero li avessi avuti sempre dietro, prima<br />
o poi sarebbe stato un macello».<br />
Il timore di un conflitto a fuoco lo terrorizza. Se Farouk<br />
morisse, l’Italia non glielo perdonerebbe. Se fosse<br />
ucciso o venisse arrestato qualcuno <strong>del</strong>la banda, sarebbe<br />
considerato un traditore, un infame. Letto e interpretato<br />
con l’occhio d’una certa cultura barbaricina,<br />
questo significherebbe l’apertura di una faida, la probabilissima<br />
morte <strong>del</strong>la sorella e <strong>del</strong>lo zio. La stessa vita<br />
<strong>del</strong>la madre, nonostante l’età, potrebbe essere in bilico.<br />
Conto non chiuso se accadesse qualcosa <strong>del</strong> genere,<br />
Graziano non potrebbe più tornare in <strong>Sardegna</strong>, dovrebbe<br />
pensare anche a un killer in trasferta ad Asti, rovinerebbe<br />
la sua fama di bandito corretto, rispettoso<br />
<strong>del</strong>le regole d’un tempo. Soprattutto perderebbe, insieme<br />
al buon nome faticosamente conquistato nell’arci-<br />
51
pelago carcerario italiano, l’aureola <strong>del</strong>l’uomo d’onore,<br />
<strong>del</strong> detenuto che non si vende e che non vende gli altri.<br />
Per conquistare questa vetta di popolarità e di rispetto,<br />
ha lavorato molto, troppo. Non può e non vuole<br />
perderla in una mattina. Ha trascorso in prigione quasi<br />
trent’anni senza chiedere sconti proprio per questo motivo,<br />
per potere un giorno tornare da vincitore, uno che<br />
ha pagato e pagato da solo, uno che non deve niente a<br />
nessuno (men che meno alla magistratura).<br />
Ecco perché ha paura. Qualcuno potrebbe rovinare<br />
il suo sogno, la marcia trionfale <strong>del</strong> rientro a Orgosolo.<br />
A cose fatte, ovviamente: con Farouk che sorride tra i<br />
genitori finalmente libero. E lui, ex ergastolano, la primula<br />
rossa <strong>del</strong> Supramonte, salutato quasi come un padre<br />
<strong>del</strong>la patria da Indro Montanelli e da quella fetta <strong>del</strong><br />
Paese che vive la passione civile come il tifo da stadio.<br />
Graziano pensaci tu, scrivono a Cagliari su un muro vicino<br />
alla facoltà di Lettere.<br />
Graziano ci pensa volentieri: questa è la sua grande<br />
occasione. È che tutto si sta terribilmente complicando.<br />
C’è la questione <strong>del</strong> riscatto, per esempio: sarà pagato?,<br />
chi lo pagherà? Ancora una volta riaffiora lo spettro dei<br />
Servizi, di un uomo con valigetta nera che atterra a Olbia,<br />
scende da un Falcon ministeriale e scompare su<br />
un’auto-civetta. Era il postino <strong>del</strong> Viminale, portava<br />
con sé – come sosterrà più tardi <strong>Mesina</strong> – un miliardo in<br />
contanti, prelevato dai fondi riservati <strong>del</strong> Sisde? «Non<br />
diciamo stupidaggini», tuona inferocito il capo <strong>del</strong>la<br />
polizia. Salvo scoprire poi che proprio stupidaggini non<br />
erano.<br />
Non si sa chi apra le danze, ma il valzer <strong>del</strong>le bugie<br />
comincia subito. E non è detto che riguardino sempre le<br />
52<br />
verità di Stato. Durante lo scontro frontale con i giudici<br />
<strong>del</strong>la procura antimafia, <strong>Mesina</strong> vomita esclusive su<br />
esclusive. Perfino sul suo passato. E, a un tratto, smentendo<br />
se stesso e le cose che aveva scritto nella autobiografia,<br />
dice anche d’aver conosciuto Giangiacomo Feltrinelli.<br />
Quando? Nel ’67 a Siniscola. Incontro rapido e<br />
inconcludente, almeno per Feltrinelli se sono vere le intenzioni<br />
che gli vengono attribuite. Vero o falso? Tra<br />
l’altro: perché <strong>Mesina</strong>, che ha sempre negato con decisione,<br />
rivela d’aver avuto un abboccamento con l’editore<br />
milanese?<br />
Incomprensibile. Meno incomprensibili sono invece<br />
le rabbiose smentite <strong>del</strong> capo <strong>del</strong>la polizia. Ricordano<br />
l’atteggiamento processuale di imputati che navigano in<br />
acque agitate: negare sempre. Durante il sequestro Kassam<br />
sono intervenuti i servizi segreti? Stupidaggini. Riscatto<br />
pubblico, una specie di contributo a fondo perduto<br />
per Farouk? Stupidaggini.<br />
Stupidaggini?<br />
53
V<br />
Fateh Kassam<br />
«Per la liberazione di Farouk Kassam sono stati pagati<br />
due miliardi. Da persone diverse, in occasioni diverse,<br />
nella stessa giornata». <strong>Lo</strong> dichiara Graziano <strong>Mesina</strong><br />
la sera <strong>del</strong> 24 marzo 1993, parlando al telefono con<br />
un giornalista <strong>del</strong> quotidiano cagliaritano «L’Unione<br />
Sarda». È una bordata violentissima alla tesi ufficiale<br />
<strong>del</strong>le forze <strong>del</strong>l’ordine e <strong>del</strong>la magistratura. Casomai ci<br />
fossero dubbi, aggiunge divertito: «Due miliardi volevano<br />
e due miliardi hanno avuto. <strong>Lo</strong> Stato ha pagato<br />
contestualmente al rilascio <strong>del</strong> bambino». Altro che<br />
banda in fuga, altro che fuorilegge costretti a mollare<br />
l’ostaggio sotto la morsa di un gigantesco accerchiamento.<br />
Secondo la verità di Graziano, la mattina <strong>del</strong> 10 luglio<br />
la banda incassa un miliardo da un uomo di sua fiducia.<br />
I soldi, banconote da centomila lire, sono stipati<br />
in una sacca sportiva scura. Seicentoquaranta milioni<br />
sono dei Kassam, altri trecentosessanta arrivano da una<br />
colletta. Quel giorno stesso, probabilmente di pomeriggio,<br />
il cassiere dei rapitori riapre lo sportello: qualcuno<br />
gli consegna un altro miliardo. Stavolta in maniera appena<br />
più elegante, i quattrini sono ordinatamente disposti<br />
in una valigetta nera. «È andata così, ve lo assicuro».<br />
Attorno alla questione-riscatto ruotano i segreti di<br />
55
una vicenda davvero inquietante. È fin troppo evidente<br />
che qualcuno mente, e clamorosamente. Chi? Il sostituto<br />
procuratore antimafia Mauro Mura afferma che la libertà<br />
di Farouk non è costata una lira. Il primo marzo<br />
<strong>del</strong> ’94 <strong>Mesina</strong> ribadisce l’esatto contrario durante un<br />
interrogatorio durato sei ore. Al suo avvocato affida anche<br />
due parole a uso esterno poiché tiene molto all’idea<br />
che si può fare di lui l’opinione pubblica: «Se sarò condannato<br />
perché ho aiutato un bambino a tornare a casa,<br />
pazienza. Mi sono mosso dove altri non riuscivano». Il<br />
problema, in realtà, è più sottile. Si tratta di capire chi<br />
sta barando e perché.<br />
Cagliari, autunno 1992. Nel corso di una visita ufficiale,<br />
il capo <strong>del</strong>la polizia Vincenzo Parisi viene bloccato<br />
dai cronisti all’ingresso <strong>del</strong> palazzo viceregio, che<br />
ospita la Prefettura. Deve presiedere un vertice sulla<br />
criminalità. Faccione da mastino buono, perde le staffe<br />
solo quando lo pizzicano sul tema <strong>del</strong> giorno: «Per la liberazione<br />
di Farouk non abbiamo pagato. <strong>Mesina</strong>, che<br />
in questa storia ha creato solo impicci, racconta baggianate.<br />
Il Sisde non ha affatto contribuito al rilascio <strong>del</strong>l’ostaggio».<br />
Roma, autunno 1994. Interrogato al processo per lo<br />
scandalo dei fondi neri dei servizi segreti, il funzionario<br />
<strong>del</strong> Sisde Maurizio Broccoletti parla genericamente di<br />
danaro destinato a operazioni speciali. Quando il presidente<br />
<strong>del</strong>la Corte lo invita a spiegarsi meglio, dice che<br />
una certa quantità di soldi veniva utilizzata, in casi particolari,<br />
per «sbloccare, ad esempio, sequestri di persona».<br />
Il rapimento di Farouk Kassam rientra tra questi<br />
“casi particolari”? Forse. Broccoletti, comunque, non<br />
fa cenno a episodi precisi.<br />
56<br />
Non ne avrebbe parlato neppure <strong>Mesina</strong> se, subito<br />
dopo la liberazione <strong>del</strong> bambino, non fosse scoppiata<br />
una guerra a distanza tra lui e la magistratura. Una guerra<br />
combattuta all’inizio a colpi di fioretto e, subito dopo,<br />
a ran<strong>del</strong>late. Molti, troppi cambiano versione con la<br />
velocità di un pony-express.<br />
<strong>Lo</strong> stesso Graziano si mantiene fe<strong>del</strong>e alla linea <strong>del</strong><br />
silenzio fino a due giorni dal rilascio di Farouk. Chiuso<br />
a Orgosolo nella casa <strong>del</strong>la sorella Peppedda, in Corso<br />
Repubblica, in attesa di onori che non verranno, segue i<br />
notiziari su un vecchio apparecchio televisivo e, ogni<br />
tanto, commenta a voce alta. «Non so se sia stato pagato<br />
riscatto», dice, «non mi sono passati soldi tra le mani».<br />
Troppo furbo per sostenere il contrario e magari aggiungere<br />
che il bimbo è stato consegnato personalmente<br />
a lui. Giusto per scansare un’eventuale incriminazione<br />
per favoreggiamento (incriminazione che, alla fine,<br />
gli piomberà comunque addosso), assicura deciso: «Non<br />
ho compiuto reati, mi sono semplicemente occupato<br />
<strong>del</strong> sequestro. Non ho visto né bambino né soldi, sia<br />
chiaro». Si guarda bene però dallo smentire la voce più<br />
insistente di quei giorni, una voce che parla di riscatto<br />
da tre miliardi e ottocento milioni, perfino più alto di<br />
quello pagato per la liberazione <strong>del</strong> costruttore romano<br />
Giulio De Angelis.<br />
<strong>Mesina</strong> cambia idea all’improvviso poco dopo. Un<br />
coro gli dà <strong>del</strong> bugiardo, il procuratore <strong>del</strong>la Repubblica<br />
lo definisce “un venditore di gazzosa”. Ma pare tener<br />
botta, anche quando scende in campo Fateh Kassam,<br />
con l’obiettivo dichiarato di farlo a pezzi, disintegrare il<br />
mito, dimostrare che è soltanto un bandito. «Quando<br />
uno ha alle spalle la vita che ha lui, non credo che cambi.<br />
57
La gente dice: ha pagato il conto con la giustizia, è un altro.<br />
Io non ci credo». Anche Kassam tuttavia scivola in<br />
alcune vistosissime contraddizioni, cambia rotta, smentisce<br />
se stesso.<br />
Ma chi è questo giovanissimo personaggio che mostra<br />
i denti ai fuorilegge, sfidandoli sul loro terreno? Nervi<br />
d’acciaio, cuore momentaneamente in parcheggio, rivela<br />
il suo segreto: «Ho vissuto questo sequestro come se<br />
fosse stato rapito il figlio <strong>del</strong> mio vicino. Non poteva e<br />
non doveva essere un fatto personale». Se proprio deve<br />
avere qualche debolezza, gli umani non c’entrano. Parlando<br />
<strong>del</strong>la sua Alfa Romeo rossa, per esempio, scrive:<br />
“… questa macchina mi ha tenuto compagnia, mi ha accolto<br />
e consolato nei giorni <strong>del</strong>la disperazione e sbarazzarmene<br />
oggi mi sembrerebbe di tradirla”.<br />
Nato a Bruxelles nel ’56, confessa di non avere radici.<br />
Il padre è di origine pakistana ma è nato in Tanzania,<br />
la madre belga. Ha sposato una francese di Nizza, Marion<br />
Bleriot, donna di grande compostezza ed eleganza.<br />
S’è sposato a Parigi, ha bruciato un po’ d’anni a<br />
Vancouver in Canada per frequentare una scuola di business<br />
management, gestione amministrativa. Breve<br />
apprendistato alberghiero all’estero e poi l’approdo in<br />
Costa Smeralda, direttore e piccolo azionista <strong>del</strong>la società<br />
proprietaria <strong>del</strong>l’hotel “Luci di la muntagna”,<br />
quattro stelle, sessantadue camere, trecentoventimila la<br />
singola in alta stagione. Il padre è un gran visir ismaelita,<br />
l’equivalente dei nostri vescovi: questo dettaglio autorizzerà<br />
alcuni giornali a fare un collegamento di amicizia-parentela<br />
con l’Aga Khan. «L’avrò visto in vita mia<br />
una volta o due». L’ipotesi di una grande ricchezza, sia<br />
pure indiretta, crolla in un baleno. Accettata la defini-<br />
58<br />
zione di benestante, ma nulla di più. Più giusto sarebbe<br />
parlare di uno che lavora per tenere in piedi l’azienda.<br />
In un mare di difficoltà: «Ho impiegato cinque anni<br />
per avere l’autorizzazione ad aggiungere trenta stanze<br />
al mio hotel».<br />
Ovvero non è affatto un vip, uno di casa nei posti<br />
giusti. In <strong>caso</strong> contrario non avrebbe dovuto subire, come<br />
un qualunque suddito <strong>del</strong>la repubblica, le lungaggini<br />
<strong>del</strong>la burocrazia regionale a proposito di urbanistica<br />
alberghiera. In conclusione, uno (quasi) qualunque. Nello<br />
studio <strong>del</strong>la villa di Pantogia ha una piccola collezione<br />
di fucili in vetrina. Ama andare a caccia. Probabilmente<br />
durante una pausa nelle battute al cinghiale, ha<br />
parlato di sé e <strong>del</strong>la sua famiglia suscitando una pericolosa<br />
curiosità. Il basista <strong>del</strong> sequestro ha dato informazioni<br />
sbagliate, ha lasciato credere che si sarebbe aperto<br />
il canale con l’Aga Khan. E invece.<br />
Cortese, una passione per i sigari cubani, Fateh Kassam<br />
ha la capacità di sdoppiarsi: un conto è il padre che<br />
soffre, un altro quello che si occupa <strong>del</strong> rapimento di<br />
suo figlio. All’indomani <strong>del</strong> ritorno a casa di Farouk,<br />
sposa la linea ufficiale, niente riscatto. «Questa vicenda<br />
mi è costata soltanto un treno di gomme <strong>del</strong>la mia macchina<br />
e carburante». Appena <strong>Mesina</strong> comincia a sparare<br />
ad alzo zero, sulle prime sta ad ascoltare. Poi esplode.<br />
Con classe, naturalmente. Ma quelle che indirizza a Graziano<br />
sono pallottole dum dum. Esordisce sostenendo<br />
che l’ex ergastolano è stato un suo emissario solo per<br />
breve tempo («È lui che s’è proposto, io non sapevo<br />
nemmeno chi fosse»). Poi affonda il colpo: «Intendiamoci,<br />
<strong>Mesina</strong> è stato utile per ottenere un contatto. Zero<br />
assoluto invece per quanto riguarda il rilascio e molte<br />
59
altre cose che non voglio dire». Sono cose che non vuole<br />
o che non può dire?<br />
– Signor Kassam, mai avuto rapporti con uomini dei<br />
servizi di sicurezza?<br />
«Mai. È <strong>Mesina</strong> che parla di loro, non io».<br />
– Crede davvero che i banditi abbiano rilasciato Farouk<br />
sotto la pressione <strong>del</strong>le forze <strong>del</strong>l’ordine?<br />
«La conoscenza <strong>del</strong>la malavita sarda ha consentito<br />
ad alcuni uomini <strong>del</strong>le forze <strong>del</strong>l’ordine di fare in modo<br />
che il sequestro finisse com’è finito».<br />
– Lei non ci ha messo una lira?<br />
«Ora vi racconto una cosa strana. In prima battuta, i<br />
banditi mi hanno chiesto dieci miliardi. Dopo che <strong>Mesina</strong><br />
ha avuto un incontro con loro, sono passati a quindici.<br />
Singolare, di solito giocano al ribasso. Poi sono scesi<br />
a sette. E lì si sono fermati. Io mi domando perché mai<br />
avrebbero dovuto accontentarsi di due, uno messo da<br />
<strong>Mesina</strong> e l’altro dai Servizi».<br />
Porto Cervo, estate 1993. A un anno esatto dalla libertà<br />
conquistata, Fateh Kassam organizza una grande<br />
festa. Seicento invitati, ricevimento interclassista: ci sono<br />
il vescovo e il campione di calcio, il giardiniere e la<br />
colf, la <strong>signor</strong>a-bene e l’americano un po’ squinternato<br />
che fa vita da bohémien. Rallegra la serata, come si dice<br />
nei cartoncini d’invito, un complessino che ha scritto<br />
una canzone per Farouk. Marion Bleriot fa gli onori di<br />
casa, saluta gli ospiti uno per uno, sorride finalmente<br />
distesa, affida il compito di dare il benvenuto all’artiglieria<br />
dei brut. Misurata, attenta a non strafare, conferma<br />
una grande forza interiore. In apparenza non lascia<br />
veder nulla, ma si coglie una forte capacità di autocontrollo.<br />
Durante le fasi calde <strong>del</strong> rapimento, ha scelto di<br />
60<br />
stare in disparte, quasi una comparsa, come se la faccenda<br />
riuscisse a interessarla soltanto alla lontana. Non si sa<br />
fino a che punto l’idea di stare in panchina sia stata solo<br />
sua, visto che il marito non ha voluto accanto neanche il<br />
fratello, amici carissimi. Aveva bisogno di muoversi in<br />
totale solitudine e libertà, senza la zavorra di parenti impegnati<br />
a tenere viva la stagione <strong>del</strong>la solidarietà.<br />
Nel momento <strong>del</strong>l’emergenza, Marion ha avuto una<br />
intuizione straordinaria e non ha esitato un secondo ad<br />
attuarla senza informarne polizia e carabinieri. Il giorno<br />
di Pasqua, nessuno immaginava nulla, è arrivata a Orgosolo.<br />
Durante la cerimonia <strong>del</strong>l’Incontro, la Madonna<br />
che ritrova suo Figlio, ha chiesto la parola per lanciare<br />
un appello coraggioso e straziante davanti a una platea<br />
ammutolita e scioccata da questa splendida donnacoraggio.<br />
«A voi, a tutte le mamme di quest’isola, lancio<br />
il mio grido perché so che voi potete capirmi».<br />
L’avvio <strong>del</strong>la festa in hotel, poco più di un anno dopo,<br />
è rigorosamente formale, le chiacchiere rigorosamente<br />
banali, gli sbadigli rigorosamente di rito. Qualcuno,<br />
per rompere la monotonia, parla <strong>del</strong> libro di Fateh,<br />
libro pubblicato da appena un mese, cronaca di un<br />
rapimento. Con molti, significativi vuoti: nessun accenno<br />
alle polemiche sul riscatto, alla lunga notte <strong>del</strong>la liberazione,<br />
ai veleni con le autorità <strong>del</strong>lo Stato. Non manca<br />
comunque qualche (involontaria?) frase rivelatrice. “…<br />
<strong>Mesina</strong> vuol solo conoscere la nostra risposta. E io preferisco<br />
tenerlo sui carboni accesi, anche perché, proprio<br />
in quei giorni, si stanno aprendo altri spiragli…”. Quali<br />
spiragli?, è un riferimento indiretto a una trattativa<br />
parallela? Poco più avanti, in un altro passo sulle fasi finali<br />
<strong>del</strong>la vicenda, scrive: “Evidentemente <strong>Mesina</strong> è an-<br />
61
cora convinto che sarà lui il tramite per la liberazione di<br />
Farouk. Non sa che ormai è stato tagliato fuori e che<br />
qualcos’altro sta intanto accadendo dalle sue parti. Per<br />
la verità, cosa esattamente si stia muovendo in queste<br />
ore non lo so nemmeno io”.<br />
Se davvero non lo sa, sicuramente lo immagina. Difatti<br />
nel cuore <strong>del</strong>la festa in albergo, scioglie la briglia al<br />
rancore verso i giornali, colpevoli d’essere troppo ficcanaso:<br />
«Mettetevelo bene in testa. Sul sequestro di mio<br />
figlio ci sono cose che non saprete mai. Mai». Riguardano<br />
il riscatto e la generosa partecipazione <strong>del</strong> Sisde?<br />
È soltanto uno dei tanti interrogativi che affollano<br />
l’ambiguo finale di questa storia. In un’intervista (letta e<br />
approvata dall’interessato prima <strong>del</strong>la pubblicazione),<br />
Fateh Kassam dice di aver rotto i rapporti con <strong>Mesina</strong><br />
con qualche anticipo rispetto al terribile finale di partita<br />
coi fuorilegge. Poi però dice anche che la mattina <strong>del</strong> 10<br />
luglio il suo amico Gianmario Orecchioni e don Luigino<br />
Monni, spalla di Graziano (ma come, non era stato<br />
messo fuori gioco?) gestiscono 640 milioni da consegnare<br />
in giornata alla banda. Per ragioni di sicurezza,<br />
hanno preferito nasconderli. Saggio proposito: durante<br />
il tragitto da Orgosolo verso Olbia, la macchina guidata<br />
da Orecchioni viene intercettata a un posto di blocco e<br />
perquisita. C’era da immaginarlo: il magistrato che dirige<br />
le indagini, Mauro Mura, vuole stroncare sul nascere<br />
qualunque tentativo di avviare un dialogo coi rapitori,<br />
pagare un riscatto. «Coi banditi non si tratta».<br />
Quei soldi, comunque, ci sono. Come ci sono gli altri<br />
360 milioni rastrellati presso amici a Porto Cervo. Se<br />
non sono mai stati versati ai carcerieri di Farouk, che fine<br />
hanno fatto? Sull’altro miliardo, quello che, secondo<br />
62<br />
<strong>Mesina</strong> sarebbe stato pagato dai Servizi, non si può naturalmente<br />
sapere nulla. È denaro che non puzza, che<br />
soprattutto non deve essere registrato in un libro mastro.<br />
Appare e scompare, operazioni speciali no? Pur<br />
ammettendo che il Sisde abbia pagato, nessuno potrà<br />
mai accertarlo con sicurezza. È un investimento che<br />
non lascia traccia, ma solo l’ombra <strong>del</strong> sospetto.<br />
L’esistenza di un fondo da destinare ai sequestri di<br />
persona è sempre stata negata con vigore. <strong>Lo</strong> stesso Parisi,<br />
che col comandante generale dei carabinieri Viesti<br />
ha seguito passo passo il <strong>caso</strong> Kassam, s’è preoccupato<br />
di definire “follie, fandonie” tutte le voci contro. Qualcosa<br />
tuttavia dev’essersi mossa se Graziano <strong>Mesina</strong> è<br />
stato poi sentito dal Comitato parlamentare per i servizi<br />
di sicurezza e il segreto di Stato. Qual era l’obiettivo <strong>del</strong>l’interrogatorio?,<br />
non bastavano le confortanti dichiarazioni<br />
<strong>del</strong> capo <strong>del</strong>la polizia, <strong>del</strong>la superprocura?<br />
Nella questura di Asti, di fronte al senatore Gerardo<br />
Chiaromonte – che presiedeva il Comitato – ripropone<br />
la sua versione. Quello che dice non esce dagli uffici di<br />
polizia. Pochi mesi più tardi Chiaromonte muore e di<br />
quella audizione non si saprà più nulla.<br />
Impossibile sapere se e dove <strong>Mesina</strong> stia mentendo,<br />
stia tessendo insomma una poderosa montatura per<br />
screditare lo Stato e i suoi servitori. Le nebbie che avvolgono<br />
questo <strong>caso</strong>, sicuramente il più singolare e inquietante<br />
nella storia dei rapimenti in <strong>Sardegna</strong>, non aiuta a<br />
capire. Quando Kassam afferma che alcuni dettagli non<br />
verranno mai alla luce, che vuol dire? Qual è la svolta radicale<br />
nelle indagini che mette da parte l’ex ergastolano<br />
e imbocca la strada conclusiva? Tutto questo per sostenere<br />
che se anche <strong>Mesina</strong> sta sfornando bugie, le forze<br />
63
<strong>del</strong>l’ordine mo<strong>strano</strong> qualche spericolato lampo di smemoratezza.<br />
La chiave per scoprire la verità sta nell’incidente<br />
che provoca l’esclusione di <strong>Mesina</strong> dalle trattative. Altrimenti<br />
non si spiegherebbe l’improvviso giro di boa:<br />
dopo aver ossequiosamente rispettato la ricostruzione<br />
ufficiale («Non so se sia stato pagato riscatto, nelle mie<br />
mani non è passata una lira, il bambino non è stato<br />
consegnato a me personalmente…»), Graziano cambia<br />
idea nell’arco di quarantott’ore. Perché, gli era stato<br />
promesso qualcosa? Tutti sanno che in questa operazione<br />
si sta giocando la concessione <strong>del</strong>la grazia: un atteggiamento<br />
di scontro con le autorità può soltanto<br />
nuocere alla sua causa. Eppure sceglie proprio la via<br />
<strong>del</strong> ring, furioso combattimento che per qualche giorno<br />
fa la felicità dei giornali. Alla fine, cosa resta? Un<br />
clamoroso insuccesso su tutti i fronti: disfatta <strong>del</strong>la credibilità<br />
<strong>del</strong>lo Stato, dubbi atroci sulla trasparenza <strong>del</strong>la<br />
versione di <strong>Mesina</strong>.<br />
Un sondaggio non poteva mancare in un Paese che<br />
da qualche tempo sembra non riuscire a vivere, a capire<br />
e interpretare la realtà senza il conforto d’un costante<br />
ventaglio di opinioni. E il sondaggio, commissionato<br />
dal quotidiano di Milano «Il Giornale», fa sapere che<br />
soltanto una modestissima parte di italiani crede al ministro<br />
Mancino, al capo <strong>del</strong>la polizia Parisi. Alla fine restano<br />
dunque in piedi più che mai i dubbi e i sospetti<br />
che hanno accompagnato le fasi finali <strong>del</strong> sequestro. Per<br />
liberare Farouk è stato pagato o no un miliardo dallo<br />
Stato? L’interrogativo è interessante, ancor più interessante<br />
sarebbe conoscere i criteri che facevano aprire al<br />
Sisde i cordoni <strong>del</strong>la borsa. «Casi particolari», ha detto<br />
64<br />
Broccoletti al processo di Roma. Sarebbe stato più corretto<br />
dire “ostaggi particolari”, confessare che una decisione<br />
d’intervento veniva presa volta per volta. L’odissea<br />
di Farouk, straniero e di appena otto anni, stava coprendo<br />
di vergogna l’Italia. Bisognava muoversi, con la<br />
<strong>del</strong>icatezza <strong>del</strong>la ruspa se necessario.<br />
65
VI<br />
Missione a rischio<br />
Non ne valeva la pena, operazione troppo rischiosa.<br />
Per cavarne cosa, poi? «Soldi, molti soldi», spara Fateh<br />
Kassam buttandogli addosso tutto il suo disprezzo e indicando<br />
l’unico metro di misura che può stare a cuore a<br />
un bandito: il denaro. Graziano <strong>Mesina</strong> ha accettato di<br />
fare l’intermediario perché voleva tirar su col prezzo,<br />
imposta sul valore aggiunto <strong>del</strong> riscatto. Per questo i<br />
rapporti tra i due – che non sono mai stati amichevoli –<br />
hanno finito per deteriorarsi. Anzi, c’è stata una vera e<br />
propria rottura.<br />
È probabile che, in realtà, l’onorario di <strong>Mesina</strong> fosse<br />
decisamente più alto. Ma l’interessato non può andarlo<br />
a raccontare in giro e men che meno a Fateh Kassam, un<br />
uomo che gli suscita profonda antipatia fin dal primo<br />
momento. Tanto è vero che, salvo assoluta necessità,<br />
evitano di incontrarsi. Preferiscono dialogare attraverso<br />
Gianmario Orecchioni, amico fraterno di Fateh, uno<br />
che in gioventù è stato grande ammiratore <strong>del</strong>l’ex ergastolano<br />
di Orgosolo.<br />
Dietro le quinte <strong>del</strong> rapimento <strong>del</strong> piccolo Farouk si<br />
muovono altri interessi. Di quattrini Graziano sembra<br />
non avere bisogno: tanto più che, salvo casi eccezionali,<br />
rilascia solo interviste a tassametro. Si amministra con<br />
67
intelligenza spiegando ai giornalisti che trasecolano per<br />
le sue richieste (cento milioni tondi tondi per una chiacchierata<br />
in esclusiva all’indomani <strong>del</strong>l’uscita dal carcere):<br />
«Voi speculate sulla mia vita, sui miei racconti. Vendete<br />
più copie, gonfiate il personaggio, in parole povere,<br />
fate affari sulla mia pelle. Perché dovrei regalarvi<br />
un’intervista? A me nessuno ha mai regalato nulla».<br />
Nel <strong>caso</strong> Kassam cos’ha da guadagnare? Ci sono molte<br />
ragioni che gli impongono di portare a termine nel migliore<br />
dei modi il lavoro da intermediario, al di là che la<br />
cosa piaccia o non piaccia a Fateh. Prima di tutto deve<br />
rendere conto all’“altissimo” che lo ha costretto ad accettare<br />
l’incarico. Deve trattarsi di qualcuno che conta<br />
sul serio se <strong>Mesina</strong>, messo a un certo punto fuori gioco<br />
dai familiari <strong>del</strong>l’ostaggio, decide comunque di andare<br />
avanti, addirittura fare una colletta. In un momento<br />
molto <strong>del</strong>icato <strong>del</strong>le trattative coi fuorilegge, inizia a cercare<br />
febbrilmente soldi per un riscatto parallelo. Quando<br />
gli si chiede come mai non molla tutto, per quale motivo<br />
va pure in cerca di contanti, risponde in maniera sibillina:<br />
«<strong>Lo</strong> faccio per un amico». E che l’amico abbia un<br />
peso importante lo conferma anche il vecchio vescovo di<br />
Nuoro, ma di più non dice. Il nome di questo misterioso<br />
<strong>signor</strong>e non è mai trapelato.<br />
Certo è che si tratta di qualcuno con buone entrature<br />
nel mondo politico, unico particolare che mon<strong>signor</strong><br />
Melis si lascia scappare. È anche qualcuno che, in cambio<br />
<strong>del</strong>la mediazione, offre una contropartita di tutto rispetto:<br />
la grazia, per dirne una. E con la grazia il ritorno<br />
definitivo in <strong>Sardegna</strong>.<br />
<strong>Mesina</strong> ha grande stima di Francesco Cossiga, giusto<br />
per fare un nome a <strong>caso</strong>. E ne confida la ragione al giudi-<br />
68<br />
ce istruttore che lo sta interrogando su tutt’altro: Cossiga<br />
è da apprezzare perché “quando ha voglia di esternare,<br />
esterna”. A un buon conoscente comune avrebbe<br />
esternato, per esempio, l’intenzione di aiutare l’ergastolano.<br />
Non immaginava che improvvisamente la situazione<br />
politica potesse precipitare travolgendolo. Tant’è<br />
che quando lascia il Quirinale, la pratica <strong>del</strong>la grazia<br />
galleggia in alto mare.<br />
Un po’ come la speranza di rimetter piede a Orgosolo.<br />
È questo il vero obiettivo di <strong>Mesina</strong>: rientrare in<br />
paese da uomo libero. Chiusa con una storica pacificazione<br />
la faida con i Grussotto, spera in una sorta di rilancio<br />
sociale. <strong>Lo</strong> sostiene, in questo, una non comune<br />
considerazione di se stesso e la certezza che trent’anni<br />
di carcere non sono comunque riusciti a metterlo fuori<br />
gioco. <strong>Lo</strong> si capisce quando, in licenza premio, passeggia<br />
avanti e indietro in Corso Repubblica con l’aria<br />
(finta) di uno qualunque, uno che vuol far sapere di essere<br />
tornato per annunciare, gattopardescamente, che<br />
nulla è cambiato.<br />
A dargli una mano c’è anche Indro Montanelli, penna<br />
principe <strong>del</strong> giornalismo italiano, che va a pranzo da<br />
lui con inviato al seguito, manifesta simpatia per l’ex<br />
bandito, mangia porcetto arrosto per ricordarsi gli anni<br />
<strong>del</strong>l’infanzia (suo padre faceva il preside a Nuoro). E<br />
scrive di pugno, subito dopo, che <strong>Mesina</strong> è un uomo<br />
perbene, merita di tornare in libertà senza vincoli di<br />
sorta. Quando le acque giudiziarie riprendono ad agitarsi,<br />
va alla carica senza ripensamenti, ironizza pesantemente<br />
sul magistrato <strong>del</strong> sequestro Kassam e riafferma<br />
il suo giuramento di fede nei confronti di <strong>Mesina</strong>:<br />
«Casomai dovesse darsi nuovamente alla latitanza, sap-<br />
69
pia che per lui la porta <strong>del</strong>la mia casa è sempre aperta.<br />
Troverà un letto e un piatto di minestra».<br />
Con una protezione così autorevole, il <strong>caso</strong> Farouk<br />
diventa un trampolino di lancio verso la ribalta nazionale,<br />
sotto quei riflettori che Graziano ama tanto. Anche<br />
se sa molto bene che si tratta <strong>del</strong>l’esame più difficile <strong>del</strong>la<br />
sua esistenza. Comunque vada a finire, non potrebbe<br />
in ogni <strong>caso</strong> tirarsi indietro, l’amico a cui non si può dire<br />
no ci resterebbe male. Si tratta, dopotutto, di muoversi<br />
con intelligenza e cautela: l’esperienza maturata in prigione<br />
e nella vita alla macchia basta e avanza. L’importante<br />
è che l’ostaggio torni a casa e che nessuno <strong>del</strong>la<br />
banda dei rapitori venga ferito o arrestato a ridosso <strong>del</strong>le<br />
trattative. A risponderne sarebbe lui.<br />
Mon<strong>signor</strong> Giovanni Melis conosce il nome <strong>del</strong> misterioso<br />
personaggio che ha convinto <strong>Mesina</strong>, molto riluttante,<br />
a occuparsi <strong>del</strong> <strong>caso</strong> Kassam. Il suo non è un<br />
segreto confessionale, ma rifiuta di svelarlo perché è rimasto<br />
in qualche misura vincolato a una sorta di patto<br />
di sangue. A distanza di tempo, nella casa d’accoglienza<br />
per sacerdoti in pensione, un ampio appartamento nel<br />
quartiere di Sant’Avendrace a Cagliari, si stupisce che<br />
l’altissimo-onnipotente uomo <strong>del</strong> mistero non si sia fatto<br />
più vivo. Neppure quando <strong>Mesina</strong> viene arrestato ad<br />
Asti e pare scomparire definitivamente nell’oceano carcerario.<br />
Impossibile dargli una mano in quel momento<br />
oppure c’è stata qualche incomprensione? Mon<strong>signor</strong><br />
Melis, che gli anni hanno reso ancora più saggio, ammesso<br />
che sia possibile, non vuole mettere il dito sulla<br />
piaga. Un sorriso solare gli attraversa il viso rugoso<br />
quando conferma, mano sul cuore, che <strong>Mesina</strong> si è occupato<br />
<strong>del</strong> sequestro solo perché è stato costretto. «Io<br />
70<br />
ero presente, potrei testimoniarlo». E sempre lui, la pecora<br />
tornata all’ovile <strong>del</strong>l’onestà, ha «consentito di riportare<br />
quella creatura a casa».<br />
L’ex vescovo di Nuoro rivela soltanto una minuscola<br />
parte di quello che sa. Durante le trattative per il rilascio<br />
di Farouk, ha affidato le “relazioni esterne” a don Luigino<br />
Monni ma nel frattempo ha proseguito a lavorare<br />
per conto suo. Nelle lunghe ore di meditazione, e forse<br />
di noia (ma questo non glielo sentirete dire), rimugina<br />
su una vicenda che non considera affatto conclusa.<br />
Se ne intende: anni e anni di attività pastorale in Barbagia<br />
non ne hanno fatto soltanto un vescovo “storico”.<br />
Ha detto messa per i funerali di almeno un centinaio di<br />
morti ammazzati. Violando una regola che rende i preti<br />
intoccabili e imponendo loro nello stesso tempo di non<br />
mettere il naso in casa d’altri, ha chiamato a raccolta la<br />
sua gente contro la violenza. Ha insultato la sedicente<br />
civiltà <strong>del</strong>la balentìa, sempre con durezza e senza sfumature.<br />
Il fatto di essere <strong>del</strong> luogo lo ha forse salvato ma<br />
non è riuscito a farne un presenzialista da cerimonia.<br />
Quando è stato necessario ha polemizzato con gli intellettuali<br />
che processavano l’omertà. «Facile parlare di<br />
coraggio civile quando si sta lontano da qui o ben protetti<br />
nelle redazioni dei giornali». In altri termini, non la<br />
giustificava ma capiva l’omertà. Mon<strong>signor</strong> Melis è forse<br />
stato il solo ad avere accettato fino in fondo il principio<br />
<strong>del</strong>la espiazione <strong>del</strong>la pena e <strong>del</strong>la redenzione, il solo<br />
ad avere accolto e trattato l’ex bandito come nessuno<br />
avrebbe fatto: il cittadino, il fratello <strong>Mesina</strong>, senza la<br />
pretesa di considerarlo sempre sotto esame.<br />
Graziano se ne accorge e anche per questo impegna<br />
tutto se stesso nel tentativo di portare a buon fine la mis-<br />
71
sione. Un aiuto consistente gli arriva dal suo difensore di<br />
fiducia. In un’età imprecisata sotto i quaranta, figlia <strong>del</strong>la<br />
buona borghesia torinese, Gabriella Banda è una donna<br />
che vive con grande passione civile la sorte <strong>del</strong> suo<br />
cliente. Quando riceve il telegramma <strong>del</strong>l’incarico, esulta:<br />
assistere in giudizio Graziano <strong>Mesina</strong> significa conquistare<br />
il successo, far scoppiare d’invidia molti colleghi,<br />
bruciare le tappe <strong>del</strong>la carriera forense. E difatti nel<br />
giro di poche settimane, finisce su tutti i quotidiani italiani.<br />
Supera la timidezza, regge bene, spegne l’aggressività<br />
<strong>del</strong>la stampa mantenendo toni pacati, nessuna platealità.<br />
Si batte con grande determinazione in aula. Il<br />
primo, drammatico intoppo – il fermo di <strong>Mesina</strong> a Parma,<br />
fuori dai confini <strong>del</strong> soggiorno obbligato – la vede<br />
vacillare solo per un attimo. Studia i verbali d’interrogatorio,<br />
il rapporto dei carabinieri e sferra l’offensiva per<br />
evitare che il suo assistito possa perdere la libertà condizionale.<br />
Bontà sua non se la prende, come vorrebbe un<br />
collaudato copione nazionale, con la tesi <strong>del</strong> complotto.<br />
Comincia in quel momento una partita destinata a<br />
giocatori più che abili, ad avvocati che hanno fatto i capelli<br />
bianchi nei palazzi di giustizia, ma Gabriella Banda<br />
– quasi un’esordiente in campo professionale – riesce<br />
a spuntarla mostrando fermezza, rigore, preparazione,<br />
intelligenza. Mentre il suo celebre cliente è in <strong>Sardegna</strong><br />
a occuparsi <strong>del</strong> sequestro Kassam, un quotidiano rivela<br />
che tra lei e Graziano c’è ben altro che non un semplice<br />
rapporto di lavoro o d’amicizia. Esplode, minaccia querele:<br />
«È una squallida bugia».<br />
Non s’è accorta di essere finita nel meccanismo stritolante<br />
<strong>del</strong> giornalismo-spazzatura. È tutto clamorosamente<br />
falso, ma questo ha poca importanza: il segreto<br />
72<br />
sta nel lanciare una notizia verosimile e, come dicono i<br />
vecchi cronisti, inzupparci il biscotto per qualche giorno.<br />
Tanto la gente se la beve. Eccola la <strong>signor</strong>a avvocato,<br />
eccola, non ha resistito al fascino <strong>del</strong> bandito famoso (e<br />
sardo, tanto per puntualizzare con orgoglio regionalpopolare).<br />
Tanto più che non è affatto il primo <strong>caso</strong>:<br />
non è accaduto qualcosa <strong>del</strong> genere qualche anno prima<br />
anche alla marchesa Guglielmi? Rapita mentre rientrava<br />
nella sua villa di Latina, s’era innamorata <strong>del</strong> suo carceriere,<br />
Gianni Cadinu, basso, grossolano, occhi chiari.<br />
Oltre il limite previsto dalla cosiddetta sindrome di<br />
Stoccolma, ha raccontato nel diario dalla prigionia una<br />
storia d’amore romantica e struggente, mano nella mano<br />
sotto la luna nei faticosi trasferimenti da un rifugio<br />
all’altro. Cosa poteva aver fatto incontrare una donna<br />
colta, aristocratica e un latitante neppure di prima fila?<br />
Quindi nessun stupore se qualcosa <strong>del</strong> genere, fascino<br />
<strong>del</strong>la categoria, avesse colpito al cuore anche un’elegante<br />
avvocatessa di Torino.<br />
Nonostante una dignitosa e sofferta smentita, il valzer<br />
<strong>del</strong>le voci su Gabriella Banda continua a girare e<br />
sembra segnarla a fondo. Quella <strong>del</strong>la calunnia era una<br />
variabile che non aveva considerato. Prosegue comunque<br />
nel suo lavoro, aiuta <strong>Mesina</strong> a scrivere un’autobiografia,<br />
ma qualcosa si spezza. Quando Graziano finirà<br />
nel carcere di Novara per detenzione d’armi, non sarà<br />
più il suo difensore. Perché, non lo dice, esce di scena in<br />
silenzio. Come se questa avventura professionale, che<br />
pure le ha dato forte notorietà, sia naufragata nelle sabbie<br />
mobili <strong>del</strong>la sfiducia. Ha scoperto che il suo assistito<br />
le ha mentito, le ha nascosto qualcosa? Gabriella Banda<br />
preferisce non rispondere. «Un capitolo chiuso». Chiu-<br />
73
so anche per <strong>Mesina</strong> che, in un primo momento, chiede<br />
soccorso a un suo vecchio legale (Giannino Guiso), poi<br />
sceglie di essere difeso da un avvocato d’ufficio.<br />
Non sono frammenti di storia personale, questi.<br />
Non sono spezzoni di vita privata. È che dopo la vicenda<br />
<strong>del</strong> sequestro Kassam, la buona stella di Graziano<br />
declina velocemente: la liberazione di Farouk si trasforma<br />
in un boomerang. Scontro aperto tra chi giura che<br />
l’impresa è tutta sua e chi invece lo accusa di averci speculato.<br />
Affidandosi a un’antica e ipocrita certezza: un<br />
bandito è sempre un bandito.<br />
Tempo dopo ad Asti, a un processo per armi e sequestro<br />
di persona, c’è scarso interesse, pochi inviati seguono<br />
le udienze che si trascinano stancamente fino alla<br />
sentenza di condanna. <strong>Lo</strong> stesso giornale di Montanelli<br />
non dà grande rilievo alla notizia, addirittura non pubblica<br />
una riga il giorno <strong>del</strong> verdetto. <strong>Mesina</strong> non fa più<br />
titolo? Qualcosa non quadra. Forse circola sottobanco<br />
l’indiscrezione che prova la sua colpevolezza: insomma<br />
in quel pasticcio c’è dentro fino al collo, ha peccato di<br />
onnipotenza, di presunzione e di certezza <strong>del</strong>l’impunità.<br />
Ore e ore di intercettazioni telefoniche sono lì a dimostrarlo.<br />
Un’ipotesi di questo genere spiegherebbe le<br />
ragioni <strong>del</strong>l’insolito disinteresse verso un personaggio<br />
che ha fatto girare al massimo le rotative.<br />
Il mito pare finire a pezzi, miseramente scivolato su<br />
una buccia di banana ha rivelato la sua anima: di gesso.<br />
Ha tradito la fiducia di molte persone, dunque fa bene il<br />
pubblico ministero a definirlo “<strong>del</strong>inquente abituale” e<br />
a ironizzare pesantemente su un dio minore che rotola<br />
verso il disastro. «Per uno come lui non posso chiedere<br />
una condanna lieve, non sarebbe rispettoso».<br />
74<br />
Nel fuggi fuggi generale, più o meno dignitoso, c’è<br />
una donna che resiste. E continua a scrivergli, anche<br />
adesso che sembrano essere perduti perfino gli ultimi<br />
scampoli di libertà. È Valeria Fusè, milanese. Il suo nome<br />
vien fuori nella primavera <strong>del</strong>l’85. Allo scadere di<br />
un permesso di dodici ore, <strong>Mesina</strong> non rientra nel carcere<br />
di Vercelli. I carabinieri lo sorprendono con questa<br />
ragazza, carnagione chiara e sguardo smarrito, in un<br />
appartamentino di Vigevano. L’amante <strong>del</strong> bandito: al<br />
processo per direttissima arrivano tivù e giornali di<br />
mezza Europa. Per Graziano è una clamorosa affermazione<br />
di balentìa («l’uomo è uomo») con una qualche<br />
pennellata di colore da rotocalco ultrapopolare. Valeria<br />
Fusè schiva l’attenzione generale e rientra («assolta<br />
perché il fatto non costituisce reato») nella casa dove<br />
vive coi genitori. Nel ’91, quando <strong>Mesina</strong> acquista la libertà<br />
– sia pure dimezzata da orari ristretti e rigidissimi<br />
limiti di movimento – un incontro a due mette a fuoco<br />
“un bellissimo rapporto d’amicizia”.<br />
Amicizia commovente e profonda che resta in piedi,<br />
quasi solitaria, anche mentre infuria una terribile tempesta,<br />
giudiziaria e umana.<br />
75
VII<br />
Il dio tritolo<br />
Bandito pre-tecnologico, Graziano <strong>Mesina</strong> aveva<br />
dialogato a pallettoni negli anni verdi <strong>del</strong>la vecchia criminalità.<br />
Quasi un adolescenziale tempo <strong>del</strong>le mele: minacce,<br />
intimidazioni e avvertimenti passavano attraverso<br />
la legge <strong>del</strong> fucile. La voce <strong>del</strong> tritolo, più professionale<br />
e sicura, non aveva ancora avuto modo di sentirla.<br />
Fortuna che stava in carcere a macerarsi in uno speranzoso<br />
conto alla rovescia: uno come lui non avrebbe<br />
neanche capito. <strong>Lo</strong> avrebbero messo da parte come si fa<br />
con certe macchine che finiscono fuori mercato. Al<br />
massimo, una volta uscito dai “garage” penitenziari, lo<br />
avrebbero potuto esibire come pezzo d’epoca. Antiquariato.<br />
Un fantasma che in vita adoperava doppiette a<br />
canne mozze, il numero di matricola abraso.<br />
Agli uomini <strong>del</strong>la dinamite farebbe perfino tenerezza.<br />
Oltre duecento attentati in dodici mesi, sessanta a<br />
Nuoro con un record regionale incoraggiante: nove<br />
botti in soli ventidue giorni nel ’90. Alle spalle di questo<br />
scenario che occupa la ribalta <strong>del</strong>la cronaca, alcuni insistono<br />
con la ricetta tradizionale: nei moduli grigi da inviare<br />
al comando generale per le statistiche, i carabinieri<br />
regi<strong>strano</strong> in tutto 130 colpi di arma da fuoco. Pochi,<br />
lampi rancorosi degli ultimi sopravvissuti che si ostinano<br />
a credere in una sorta di linguaggio degli avi: ditelo<br />
77
col piombo. Ditelo pure, se vi pare ma alla fine degli anni<br />
’80 l’esplosivo tira di più. È quasi una scoperta in una<br />
terra che pullula di cave e miniere e che dunque può offrire<br />
materia prima a volontà.<br />
A differenza di altri sistemi, il tritolo ha il vantaggio<br />
di essere meno impegnativo <strong>del</strong>l’agguato, non richiede<br />
la presenza sul posto, è convincente quando si fa sentire.<br />
E ancor più sul dopo, immagine di devastazione e<br />
paura, effetto secondario nient’affatto trascurabile e di<br />
lunga durata: vivere con le macerie sotto gli occhi significa<br />
crescere fianco a fianco al terrore. In un mare agitato<br />
come questo, <strong>Mesina</strong> si sarebbe perduto in un attimo.<br />
Era uno specialista d’altro genere, lui.<br />
Le nuove tecniche di guerra sono sofisticate. L’utilizzazione<br />
degli esplosivi offre un ventaglio di possibilità<br />
davvero interessante. Ne sa qualcosa un giudice di sorveglianza<br />
<strong>del</strong> Tribunale nuorese e un’educatrice penitenziaria<br />
di Badu ’e Carros. Ricevono bombe: e la città<br />
trema. Cosa c’è sotto? In questo <strong>caso</strong>, il discorso appare<br />
abbastanza semplice. Racket alla rovescia: la malavita<br />
aiuta alcuni commercianti in crisi, garantisce un consistente<br />
sostegno economico in cambio di un piccolo favore,<br />
proporre un posto di lavoro a un certo detenuto.<br />
La legge sulla libertà condizionale impone che i reclusi<br />
abbiano trovato un’occupazione, altrimenti si resta<br />
dentro. Grazie a una norma come questa, la criminalità<br />
organizzata riesce a recuperare alcuni suoi uomini. In<br />
quel periodo i reclusi di Badu ’e Carros sono poco meno<br />
di duecento. Almeno una trentina ha ottenuto la libertà<br />
condizionale con questo sistema: escono dal carcere di<br />
buon mattino e vi rientrano soltanto dopo il tramonto,<br />
per dormire.<br />
78<br />
L’uso distorto e degenerato <strong>del</strong>la legge emerge quasi<br />
subito in tutta la sua evidente gravità, ma le scappatoie<br />
sono poche. Ai vertici <strong>del</strong>l’amministrazione <strong>del</strong>la giustizia<br />
ci si lamenta apertamente. «Qualcuno ha fatto meno<br />
prigione di quella fatta patire all’ostaggio in un sequestro<br />
di persona», s’infuria il direttore <strong>del</strong> penitenziario<br />
nuorese riferendosi all’incredibile viavai di detenuti.<br />
La procedura per ottenere questo significativo privilegio,<br />
che rende più civile e meno repressiva la detenzione,<br />
passa attraverso una serie di autorizzazioni, a cominciare<br />
da quella <strong>del</strong> giudice di sorveglianza. Il magistrato<br />
messo sotto tiro con un ordigno a basso potenziale<br />
si era evidentemente opposto a una richiesta di lavoro<br />
esterno. Ha scontentato qualcuno e glielo hanno mandato<br />
a dire con un po’ di gelatina sotto casa.<br />
A far da cornice ci sono poi i fuochi d’artificio legati<br />
agli appalti, alle vendette tra grossisti, gelosie di concorrenza.<br />
Quando il messaggio esplosivo non ottiene il risultato<br />
voluto, c’è sempre la piazza dei sicari a pagamento.<br />
Nel 1989 Nuoro strappa un terzo posto assoluto<br />
sul fronte-omicidi in campo nazionale: in rapporto al<br />
numero degli abitanti, produce morti ammazzati poco<br />
meno di Reggio Calabria e Catania. Quasi un secolo prima,<br />
un deputato <strong>del</strong>la <strong>Sardegna</strong> al Parlamento di Torino<br />
scriveva affannato al ministro <strong>del</strong>l’Agricoltura, Camillo<br />
Benso conte di Cavour: “Si uccide di giorno e di<br />
notte, si uccide in piazza, in campagna, nelle case, all’uscire<br />
di chiesa”.<br />
Adesso la situazione non è così drammatica, proprio<br />
perché c’è il tritolo. Tritolo che, come gli incendi estivi,<br />
è legato a doppio filo con l’occupazione, la povertà diffusa,<br />
la mancanza di prospettive, lo straniamento di<br />
79
contadini e pastori riciclati a suo tempo nell’industria e<br />
ora scaraventati nel purgatorio <strong>del</strong>la cassa integrazione.<br />
Nel conto bisogna mettere anche la rete <strong>del</strong> commercio,<br />
gonfiata a dismisura proprio per fronteggiare la mancanza<br />
di lavoro: nella sola città di Nuoro sono state concesse<br />
millecento licenze, seimila in tutta la provincia.<br />
Quanti riescono a stare a galla nell’imbuto vorticoso<br />
<strong>del</strong>la crisi?, quanti riescono a mantenersi onesti? Il varco<br />
per l’infiltrazione di mafia e ’ndrangheta, che hanno<br />
bisogno di lavare danaro e operare in terre pulite, diventa<br />
più facile.<br />
Ma dopo anni e anni di accertamenti non si riesce a<br />
chiudere il cerchio. Con molta presunzione, i sacerdoti<br />
<strong>del</strong>la sarditudine a oltranza avvertono che non c’è<br />
pericolo: la Barbagia, giurano, è impermeabile a culture-altre.<br />
Ci crede anche Salvatore Mulas, questore di<br />
Nuoro: «Qui mafia e camorra non possono combinare<br />
granché. Al di là <strong>del</strong>le ataviche allergie dei sardi, il problema<br />
è quello <strong>del</strong>le braccia. Se pure pensassero di imboccare<br />
la strada <strong>del</strong>l’estorsione programmata, avrebbero<br />
bisogno di manovalanza locale. E non ne troverebbero».<br />
Altri ritengono invece che mafia e camorra non vogliano,<br />
almeno in <strong>Sardegna</strong>, imporre il racket, cioè l’abicì<br />
<strong>del</strong>la piccola <strong>del</strong>inquenza di casa loro. Forse è vero<br />
l’esatto contrario: la grande criminalità chiede in <strong>Sardegna</strong><br />
discrezione e possibilità di fare buoni investimenti.<br />
Nei primi mesi <strong>del</strong> ’94 la Guardia di Finanza apre un’inchiesta<br />
sull’acquisto di alcuni residence a San Teodoro,<br />
località sacra nell’industria <strong>del</strong>le vacanze: sembra siano<br />
stati comprati con denaro riciclato proveniente da sequestri<br />
e traffico di stupefacenti. L’indagine è tuttora<br />
80<br />
aperta. Nel Sulcis, dove invece ci sono mafiosi in soggiorno<br />
obbligato, l’economia di sussistenza non apre la<br />
via al racket. La crisi economica è di proporzioni talmente<br />
gravi che, davanti alla minaccia di un taglieggiamento,<br />
i commercianti abbasserebbero all’istante le saracinesche.<br />
Cosa resta da fare, allora? Anche in questo<br />
<strong>caso</strong>, come per San Teodoro e altri investimenti in Gallura,<br />
si fanno soltanto congetture: mancano le stampelle<br />
dei fatti. Si dice che i mafiosi anticipino danaro ai negozianti<br />
in crisi e incassino a vendita avvenuta. Insomma<br />
piccolo, piccolissimo strozzinaggio, a cappio sufficientemente<br />
largo. Dopotutto, se i commercianti vengono<br />
strangolati ha da perdere anche la mafia e i suoi esattori.<br />
Le mille voci <strong>del</strong> dio-tritolo continuano comunque a<br />
farsi sentire. Nelle campagne di Orgosolo, casa <strong>Mesina</strong><br />
dunque, viene aperto un cantiere per realizzare una diga<br />
sul Cedrino. Appalto da quaranta miliardi (quaranta<br />
miliardi <strong>del</strong> 1990), sessanta buste-paga garantite per tre<br />
anni. È una formidabile valvola di sfogo contro la disoccupazione<br />
locale e, dettaglio non secondario, si tratta di<br />
un progetto serio. A cose fatte, consentirà l’irrigazione<br />
di tremila ettari di terra. La ditta che ha vinto la gara inizia<br />
e interrompe i lavori in brevissimo tempo. Cos’è accaduto?<br />
Prima viene incendiata l’auto <strong>del</strong> direttore <strong>del</strong><br />
cantiere, qualche giorno dopo una ruspa devasta e distrugge<br />
un prefabbricato dove sono custoditi gli attrezzi.<br />
In una lettera inviata al cosiddetto ente committente,<br />
il Consorzio di Bonifica, vengono poste precise condizioni<br />
per riprendere l’attività: “… ogni possibile e concreto<br />
provvedimento per garantire l’incolumità di uomini<br />
e mezzi”. Al sindaco di Orgosolo, che protesta per<br />
l’ennesimo attentato capace soltanto di far andar via im-<br />
81
prenditori e sogni d’occupazione, arriva la vendetta trasversale:<br />
una bomba contro l’abitazione di un suo parente.<br />
La politica <strong>del</strong> tritolo è questa, il pane <strong>del</strong> nuovo<br />
banditismo lievita insieme la farina <strong>del</strong>la vecchia criminalità<br />
e quella di un esercito di dilettanti pronti a tutto.<br />
In pieno fuoco incrociato irrompe la nuoreseria a denominazione<br />
d’origine controllata attraverso la requisitoria<br />
d’un consigliere regionale <strong>del</strong>la sinistra: “Una società<br />
pastorale arretrata caratterizzata da un immobilismo<br />
arcaico, rivelatasi impermeabile ai processi di modernizzazione,<br />
incapace di aprirsi al nuovo, impregnata di<br />
una cultura spesso portatrice di valori deteriori, prigioniera<br />
di miti e codici che si perdono nella notte dei tempi.<br />
Una società che teorizza la violenza quale strumento<br />
per dirimere le controversie e i conflitti; animata da un<br />
malinteso senso <strong>del</strong>la balentìa che altro non è se non<br />
violenza gratuita e fine a se stessa; da un individualismo<br />
onnipotente e indefinito che calpesta qualsiasi interesse<br />
collettivo”. È un siluro, questo, che va a colpire quella<br />
sorta di strapaesano orgoglio barbaricino. E fa ancora<br />
più male perché il tiratore scelto è locale, nuorese da generazioni.<br />
Comunque, ce ne sarà anche per lui: il negozio<br />
di famiglia, al centro <strong>del</strong> centro <strong>del</strong>la città, viene devastato<br />
da un ordigno. Gli attentatori non cercavano la<br />
strage: volevano giusto mandare un messaggio in un codice<br />
adeguato ai tempi. Miccia a lenta combustione, annotano<br />
i carabinieri. Miccia a depressione rapida per<br />
chi se la vede balenare tra i piedi.<br />
Tra i bersagli c’è anche un personaggio duro, tutt’altro<br />
che disponibile a certe smancerie sociologiche: Remo<br />
Berardi, presidente degli industriali nuoresi, circa<br />
82<br />
250 iscritti in tutta la provincia al sindacato di categoria.<br />
Padre di una ragazza rapita dall’Anonima e liberata in<br />
circostanze avventurose, vive sul filo di lana. A capo di<br />
un consorzio che si aggiudica un appalto da cinquantasei<br />
miliardi per costruire la strada di circonvallazione,<br />
gli viene riservato un trattamento particolare. Si comincia<br />
con i pettegolezzi al veleno: il suo progetto ha vinto<br />
nonostante non proponesse il prezzo migliore, anzi lo<br />
scarto è talmente grande da gridare vendetta. Da qui a<br />
sussurrare che c’è collusione con il Municipio ci vuol<br />
poco. Per giorni e giorni l’argomento divora la noia <strong>del</strong>le<br />
serate nuoresi, affoga nei bianchini ingollati nei bar<br />
<strong>del</strong> Corso, nelle chiacchiere che seguono fino a notte<br />
tarda in ristorante. L’imprenditore getta acqua sul furiosissimo<br />
incendio <strong>del</strong>la polemica, ma non riesce a fermare<br />
l’avviamento di voci incontrollate e malevole. Poi<br />
gli arriva qualcosa di più, un segnale preciso: una bomba<br />
lanciata in piena notte contro la sua villetta. Per un<br />
<strong>caso</strong> non esplode. «Eravamo tutti in casa».<br />
Da quel momento cominciano appostamenti e controlli<br />
telefonici. Polizia e carabinieri vogliono arrivare ai<br />
mandanti. Interessa soprattutto al governo regionale,<br />
fortemente preoccupato dalla possibile reazione di altri<br />
industriali. Le <strong>del</strong>icate condizioni economiche <strong>del</strong>la<br />
provincia non potrebbero reggere un esodo imprenditoriale<br />
verso centri meno esplosivi, più tranquilli. Tre<br />
anni dopo, situazione immutata, il procuratore generale<br />
<strong>del</strong>la repubblica Francesco Pintus lancia solennemente<br />
l’allarme: «…desta particolare preoccupazione l’attuale<br />
situazione economica, nella quale il pericolo di una<br />
definitiva vanificazione dei tradizionali posti di lavoro,<br />
l’assenza di alternative occupazionali e la sempre meno<br />
83
praticabile valvola di sfogo rappresentata dall’emigrazione,<br />
sono tutti fattori che rischiano di alimentare la ricerca<br />
individuale <strong>del</strong>le fonti illecite di guadagno».<br />
A cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli<br />
anni ’90, la voce <strong>del</strong>le bombe continua a farsi sentire.<br />
Ma è più flebile rispetto a un passato di fuoco. L’onda<br />
lunga, quella che inizia a ridosso <strong>del</strong>la vittoria elettorale<br />
<strong>del</strong>le sinistre nel ’75, comincia a rientrare. A un tratto<br />
sembra quasi vi sia una specie di ritorno a codici e<br />
metodi che si ritenevano sorpassati, dimenticati. Si cita<br />
fra tutti un esempio-simbolo: Orune, tremilacinquecento<br />
abitanti e quattro omicidi l’anno contro una<br />
media nazionale che dà un assassinio ogni centomila<br />
abitanti.<br />
Gli antropologi avvertono che “bisogna sfuggire a<br />
un’analisi sostanzialmente basata sulle categorie tradizione-modernità”.<br />
Non la consentono variabili che hanno<br />
profondamente modificato la realtà quotidiana: videotape,<br />
tivù. Cambiano le fonti di informazione, si<br />
modificano i punti di riferimento scatenando la sindrome<br />
da emulazione, detonatore <strong>del</strong>l’invidia, <strong>del</strong> confronto,<br />
<strong>del</strong>la drammatica evidenza dei fatti: da un lato c’è<br />
un’isola con centocinquantamila disoccupati, dall’altro<br />
– per quattro mesi l’anno – straripa la ricchezza <strong>del</strong>l’industria<br />
vacanziera. Inevitabile che vi sia una reazione,<br />
confusa e pasticciona, ma dura, violenta. Secondo alcuni,<br />
come il decano dei penalisti sardi, l’avvocato sassarese<br />
Giuseppe Melis Bassu, la “cultura <strong>del</strong>la violenza esiste<br />
dappertutto e non la estirpa definitivamente nessuno:<br />
la si può e la si deve costringere in limiti tollerabili”.<br />
Tra la fine <strong>del</strong>l’87 e l’88 i limiti di questa violenza sono<br />
invece tutt’altro che tollerabili. Cosa non ha funzio-<br />
84<br />
nato, cosa ha fatto da apripista al partito <strong>del</strong>la dinamite?<br />
Ogni anno piovono in Procura generale oltre centomila<br />
fascicoli, una montagna di carta che cresce senza sosta<br />
mortificando le aspettative di migliaia di cittadini in lista<br />
d’attesa per una sentenza. Giocoforza, la ricerca di<br />
una giustizia che non trovano e che in ogni <strong>caso</strong> tarda ad<br />
arrivare, suggerisce di imboccare strade nuove e pericolose.<br />
L’attentato, per esempio. La politica <strong>del</strong>le bombe.<br />
Se non altro, sembra avere almeno la forza di far sapere<br />
che si è vivi.<br />
Il tritolo contro prefetture, municipi, contro abitazioni,<br />
proprietà di sindaci e assessori viene spiegato con<br />
un’interpretazione colta: è che la società barbaricina vive<br />
ancora in una condizione pre-liberale, vale a dire (come<br />
sosteneva più di trent’anni fa la rivista “Ichnusa”),<br />
precedente il contratto sociale. “Gli amministratori sono<br />
visti, da un lato, come la personificazione <strong>del</strong>lo Stato,<br />
<strong>del</strong> potere pubblico, titolari di tutte le competenze,<br />
dall’altro sono giudicati partecipi di un complessivo sistema<br />
di potere, che concede o nega diritti, e impone<br />
doveri, ma da cui, comunque, essi traggono vantaggio”.<br />
Sulla scia di questa considerazione che fa parte <strong>del</strong> libro<br />
infinito scritto dall’ultima Commissione regionale<br />
d’indagine sulla criminalità, vien facile capire come si<br />
formi un nuovo banditismo, quale impasto di rabbia e<br />
contraddittoria politicizzazione riesca a cementarlo.<br />
Un brivido di paura scuote l’isola quando un ordigno<br />
devasta un finestrone <strong>del</strong> Comando militare <strong>del</strong>la<br />
<strong>Sardegna</strong>, in via Torino a Cagliari. Una bomba qualunque<br />
che in quel momento depista clamorosamente gli<br />
inquirenti lasciando credere che sotto la cenere stia nascendo<br />
un partito armato, qualcosa a mezza strada tra<br />
85
una rivolta confusamente dinamitarda e il terrorismo<br />
còrso. Niente di tutto questo: la fiammata antimilitarista<br />
rientra nel calendario <strong>del</strong>le tradizioni isolane. Le altre<br />
bombe, e sono davvero tante quelle che esplodono<br />
soprattutto nel Nuorese, fanno parte soltanto di una<br />
modernissima disamistade tra pubblico potere e privato<br />
cittadino. Una specie di ufficio reclami un po’ particolare.<br />
A Roma possono stare tranquilli: quella che sta scoppiando<br />
in <strong>Sardegna</strong> non è guerra contro la Repubblica<br />
ma lampi di un furore popolare che ha smesso da un<br />
pezzo di credere alle istituzioni.<br />
Bisogna tuttavia far qualcosa, far sentire in qualche<br />
modo la presenza <strong>del</strong>lo Stato. Mentre il sequestro Kassam<br />
è alle battute finali, e quindi in una fase molto <strong>del</strong>icata,<br />
il ministro <strong>del</strong>la Difesa, Salvo Andò, annuncia l’intenzione<br />
di inviare un corpo militare a presidiare la <strong>Sardegna</strong>,<br />
inquieta periferia <strong>del</strong>l’impero. <strong>Lo</strong> annuncia con<br />
tale brutalità che la memoria storica dei sardi torna subito<br />
ai famigerati “baschi blu”, alla dannosa e arrogante<br />
occupazione con le stellette degli anni ’60. L’opposizione<br />
a un ritorno in massa di soldati è massiccia: tra le<br />
righe di uno scontro che non si è mai sopito, qualcuno<br />
sottolinea i pericoli per una buona conclusione <strong>del</strong> rapimento<br />
di Farouk. Una presenza inutile, e non solo inutile,<br />
quella dei militari pure per il vecchio senatore Medici<br />
che nel suo rapporto al Parlamento sulla criminalità<br />
isolana, agli inizi degli anni ’70, afferma con sicurezza:<br />
«Anche se i reparti speciali, formati da giovani idonei a<br />
eseguire servizi di squadriglia nelle zone montane, talvolta<br />
hanno dimostrato una loro validità, è da ritenere<br />
che, di regola, l’impiego in massa di militari sia sconsi-<br />
86<br />
gliabile. A parte i modesti risultati che si ottengono, questo<br />
spiegamento di forze determina effetti psicologici<br />
negativi sulle popolazioni interessate».<br />
Imbarazzato dalla grossolana irruenza <strong>del</strong> ministro,<br />
lo Stato maggiore <strong>del</strong>l’Esercito precisa di non andare in<br />
<strong>Sardegna</strong> “per stanare i rapitori di Farouk Kassam” ma<br />
per una ragione diversa: controllare il territorio, popolarlo.<br />
“Farci camminare la gente”. D’altra parte si tratta<br />
di raccogliere l’appello <strong>del</strong> difensore civico Giovanni<br />
Viarengo che, a più riprese durante la sua carriera di<br />
magistrato, aveva invocato una presenza in divisa nelle<br />
zone interne. Presenza non significa militarizzazione,<br />
puntualizzava a scanso di equivoci.<br />
Nonostante il controcanto dei due quotidiani sardi,<br />
Fortza Paris inizia nel luglio <strong>del</strong> ’92 e si conclude tre mesi<br />
dopo, a settembre. Impegna complessivamente diecimila<br />
uomini che si danno il cambio – guardia permanente<br />
di quattromila soldati – in aree arroventate dal silenzio<br />
e dal sole. La circolazione di campagnole, camion e<br />
un enorme schieramento d’uomini ottiene tuttavia risultati<br />
degni di nota. Il Comando sforna un bollettino<br />
<strong>del</strong>la vittoria per segnalare una netta flessione degli attentati<br />
(76 per cento in meno rispetto allo stesso periodo<br />
<strong>del</strong>l’anno precedente) e degli incendi dolosi (53 per<br />
cento).<br />
A sentire i militari crolla anche il reato dei reati, quello<br />
più tradizionale, l’abigeato: meno 88 per cento. Entusiasmante,<br />
ma il merito non è solo dei soldati. In quel<br />
periodo hanno iniziato a funzionare seriamente le compagnie<br />
barracellari. E questo spiega in gran parte il tracollo<br />
dei furti di bestiame.<br />
Fortza Paris non passa inosservata. A Lula una bom-<br />
87
a ferisce un gruppo di persone che passeggiano: tra<br />
queste ci sono anche ragazzi di leva. Una bravata più<br />
che un attentato vero e proprio. Altrettanto potrebbe<br />
dirsi <strong>del</strong> ferimento di alcuni alpini a Mamoiada, presi di<br />
mira a fucilate. Nessun volantino di rivendicazione e<br />
neppure una parola di sostegno da parte <strong>del</strong>la popolazione.<br />
Il <strong>caso</strong> più clamoroso avviene a Orgosolo, storico<br />
epicentro <strong>del</strong>la resistenza antimilitarista. L’arrivo dei<br />
soldati è accolto con molta freddezza venata, a tratti, di<br />
evidente intolleranza. Nel campo allestito nelle colline<br />
vicine al paese, si fa finta di nulla e si lavora alacremente<br />
facendo molta attenzione a evitare la scintilla <strong>del</strong>la ribellione.<br />
I medici militari fanno lastre, piccoli interventi<br />
di chirurgia e di odontoiatria, qualche prestazione di<br />
pronto soccorso. Altri si occupano di bonificare i terreni<br />
riarsi dagli incendi, disinfestano aree appestate da<br />
zecche e altri parassiti, assestano malandate stradine<br />
campestri, garantiscono la qualità dei rifornimenti idrici.<br />
Al contrario di quanto è avvenuto una trentina d’anni<br />
prima, l’Esercito mostra un’altra faccia: quella <strong>del</strong>l’efficienza<br />
e <strong>del</strong>la solidarietà civile.<br />
E pian piano il ghiaccio si scioglie, perfino Orgosolo<br />
finisce per gradire il pacifico arrembaggio dei soldati.<br />
Sull’onda di questo successo, seguono altre due operazioni<br />
nel ’93 e nel ’94 ma non hanno il peso e la portata<br />
<strong>del</strong>le altre. L’importanza di Fortza Paris 2 è meramente<br />
strategica e interessa esclusivamente le Forze Armate<br />
che, per la prima volta dalla fine <strong>del</strong>la guerra, sperimentano<br />
il trasporto rapido di due brigate (circa cinquemila<br />
uomini e un numero incredibile di mezzi) dalla<br />
penisola alla <strong>Sardegna</strong>.<br />
88<br />
L’artiglieria <strong>del</strong>l’opposizione si spegne, resta qualche<br />
fuoco isolato, l’immancabile incursione sui giornali<br />
<strong>del</strong>l’intellettuale ad ascensione finto-separatista. Si riparla<br />
di colonizzazione, di inammissibile ingerenza nella<br />
vita d’una regione. Come dire, battendo un chiodo rimasto<br />
caldo nei secoli: Roma mandava le sue legioni, il<br />
ministro Andò le sue brigate. Con lo sberleffo finale di<br />
chiamarle pure Fortza Paris, come se i sardi c’entrassero<br />
davvero qualcosa.<br />
89
VIII<br />
Matteo Boe<br />
Negli archivi <strong>del</strong>l’Interpol occupava un posto di tutto<br />
rilievo nella lista dei ricercati d’Europa: ventesimo,<br />
piazzamento d’eccezione. Nessuno era mai arrivato a<br />
tanto.<br />
La faticosa scalata verso queste posizioni non s’improvvisa,<br />
parte da lontano e si trascina almeno gli ultimi<br />
dieci anni <strong>del</strong> banditismo sardo. Del nuovo banditismo<br />
sardo, quello che Graziano <strong>Mesina</strong> incrocia di sfuggita<br />
nella veste di emissario durante il rapimento Kassam. E<br />
che ha un solo grande protagonista: Matteo Boe, uomo<br />
di buone letture, di Lula per l’anagrafe ma cresciuto<br />
culturalmente a Bologna, nell’effervescenza <strong>del</strong> mondo<br />
giovanile che ruota intorno all’Università.<br />
Frequenta la facoltà di Agraria quando incontra la<br />
compagna <strong>del</strong>la sua vita, Laura Manfredi («Ma io sono<br />
ragioniera, una semplice ragioniera»), lì intreccia conoscenze<br />
e amicizie che lo proiettano un paio di spanne<br />
sopra lo standard <strong>del</strong>la criminalità isolana: ai principi<br />
<strong>del</strong>la civiltà agropastorale aggiunge quelli metropolitani,<br />
una miscela che esplode a sinistra, che cerca e trova –<br />
con ampie motivazioni politiche – le ragioni <strong>del</strong>la disobbedienza,<br />
<strong>del</strong>la trasgressione, <strong>del</strong>la guerra alle istituzioni.<br />
D’altra parte era stato lo stesso <strong>Mesina</strong>, semianal-<br />
91
fabeta, a intuire in quale direzione puntava il futuro dei<br />
latitanti. Parole profetiche le sue: «Attenti a dire che il<br />
latitante non ha un’ideologia. È una stupidaggine, la verità<br />
è che nel mondo c’è troppa disparità, troppa ingiustizia.<br />
La vita alla macchia ti può aiutare a vederla».<br />
Trentasette anni, molti dei quali vissuti lontano dalla<br />
famiglia e dal paese d’origine, Matteo Boe vive sulla sua<br />
pelle questo precetto. Esordisce con discrezione. Poi<br />
pian piano, il suo nome comincia ad acquistare autorevolezza,<br />
credito. Soprattutto un’impresa lo rende d’un<br />
tratto celebre: alla fine <strong>del</strong>l’estate 1986 evade dall’isolagalera<br />
<strong>del</strong>l’Asinara, dove stava scontando una condanna<br />
a diciotto anni di reclusione per il sequestro di Sara<br />
Niccoli. Non era mai accaduto prima: da quel penitenziario,<br />
paradiso e inferno, non è mai scappato nessuno.<br />
«L’evasione è tecnicamente impossibile», spiegava con<br />
fierezza il direttore <strong>del</strong> carcere.<br />
L’evasione è tecnicamente fattibile. Basta aspettare il<br />
mare giusto e avere un piano semplice semplice ma assolutamente<br />
segreto: nessuno o quasi deve sapere. Le<br />
grandi fughe, quelle di massa, sono soltanto un buon<br />
soggetto cinematografico. Nella realtà è meglio muoversi<br />
da soli.<br />
Il primo settembre di otto anni fa un maestralino<br />
circonda questo stupefacente lembo di terra mostrandone<br />
l’esaltante bellezza. A qualche miglio dalla riva,<br />
proprio di fronte a cala d’Oliva, dunque davanti agli uffici<br />
<strong>del</strong>la direzione, dondola pigramente un piccolo<br />
gommone. Dentro, se è vera la ricostruzione ufficiosa,<br />
c’è Laura Manfredi: che aspetta. Com’è riuscita ad arrivare<br />
fin là, a dribblare le motovedette <strong>del</strong> servizio di vigilanza?,<br />
come ha trasmesso il suo arrivo, l’ora, le coor-<br />
92<br />
dinate?, da che parte sperava di fuggire? Mistero, non<br />
si è mai riusciti a saperlo. L’unica certezza è che all’improvviso<br />
affiora dal mare, come un Nettuno col fiato<br />
corto dopo una lunga nuotata, il detenuto Matteo Boe.<br />
Saltare a bordo e squagliarsela è un giochino. Quando<br />
le sirene <strong>del</strong>l’allarme tagliano il silenzio e arrivano a<br />
straziare un cielo trasparente, l’evaso è quasi al sicuro.<br />
Irraggiungibile. Addio galera.<br />
Un colpo da maestro, clamoroso. Non era riuscito<br />
neppure a un altro “campione” <strong>del</strong>la categoria, Carmelino<br />
Coccone, classe 1940, orunese accusato di omicidio<br />
e di nove sequestri, tra tentati e riusciti. Un curriculum<br />
di tutto rispetto, insomma. Addetto al controllo d’una<br />
mandria di mucche, al tramonto doveva rientrare in una<br />
cella-camerone. Per tutta la giornata, in pratica, stava<br />
all’aria aperta. «Si era d’estate e la luna chiara illuminava<br />
quasi a giorno le serate <strong>del</strong>l’isola…». Coccone racconta<br />
di essere stato assalito dal raptus d’una passeggiata<br />
(lui la chiama proprio così), quattro passi sotto le stelle.<br />
Una notte, appena i compagni si sono addormentati,<br />
ha smontato l’inferriata <strong>del</strong>la finestra <strong>del</strong> bagno e via, finalmente<br />
libero. «Ero all’aria aperta, da quanto non<br />
sentivo il profumo <strong>del</strong>le notti di campagna… respiravo<br />
a pieni polmoni l’odore piacevole <strong>del</strong> fieno inumidito<br />
dalla rugiada…».<br />
Respirando respirando, s’è allontanato fino a quando<br />
«mentre svoltavo l’angolo <strong>del</strong> muro di un vigneto»<br />
non si scontra con due agenti di custodia. Che non credono<br />
per nulla ai desideri poetici d’un pastore errante.<br />
Anche perché «trovarono lì vicino un vecchio paio di<br />
pinne da subacqueo e pensarono che me le fossi procurate<br />
io col proposito di attraversare a nuoto lo stretto di<br />
93
mare che si interpone tra l’Asinara e il resto <strong>del</strong>la <strong>Sardegna</strong>…».<br />
Cinquantadue chilometri quadrati, l’Asinara appartiene<br />
allo Stato dal 1885. Dovrebbe diventare, come<br />
dispone una legge varata nel ’91, un parco naturale. Nel<br />
frattempo, resta galera. Una bellissima, inimmaginabile<br />
galera al sole. Ospita – in un territorio che è una sorta di<br />
lungo bu<strong>del</strong>lo – sette vecchie fattorie. “Diramazioni”,<br />
secondo il triste dizionario penitenziario. La diramazione<br />
più famosa è quella di Fornelli, che ospitò a suo tempo<br />
esponenti di spicco <strong>del</strong>le Brigate Rosse. Stretti corridoi,<br />
portoncini blindati, telecamere dovunque, anche<br />
dentro le celle, luci perennemente accese. A Fornelli<br />
dovrebbe esserci Totò Riina, ritenuto il più pericoloso<br />
boss mafioso <strong>del</strong> dopoguerra. Le altre “diramazioni” –<br />
caseggiati di semplice e funzionale architettura rurale<br />
che ricordano le fazendas messicane – sono più aperte: i<br />
detenuti escono al mattino, lavorano nei campi, badano<br />
alle greggi, rientrano la sera. Complessivamente l’Asinara<br />
dà una grande sensazione di libertà, di carcere (fatta<br />
eccezione di Fornelli, forse il braccio “più speciale”<br />
d’Italia) in qualche modo civile, sopportabile.<br />
Ma oltre questo sipario, è un’Alcatraz di Stato. Difficile<br />
da raggiungere per i parenti dei reclusi, lontana e, in<br />
un certo senso, cru<strong>del</strong>e: panorama da cartolina, riserva<br />
naturale d’una suggestione mozzafiato. L’Asinara urla<br />
la bellezza <strong>del</strong>la libertà. Matteo Boe aveva capito molto<br />
bene tutto questo e dall’isola-prigione ha preso il via<br />
beffando tutto e tutti. Da quel momento gli sono stati<br />
attribuiti numerosi reati. In particolare, il sequestro <strong>del</strong><br />
costruttore romano Giulio De Angelis e quello di Farouk<br />
Kassam. Recentemente è stato incriminato anche<br />
94<br />
per aver preso parte al rapimento di un imprenditore in<br />
Calabria. E siccome tutti i suoi ostaggi, almeno quelli<br />
che gli sono stati attribuiti, sono stati puntualmente mutilati,<br />
passa alla cronaca come “il tagliatore d’orecchie”.<br />
L’hanno arrestato il 15 ottobre <strong>del</strong> ’92 in Corsica, al<br />
ricevimento <strong>del</strong>l’hotel “U Palmu” a Portovecchio. Sua<br />
moglie era in camera con due dei tre figli nati durante la<br />
latitanza. Strano blitz quello in tandem <strong>del</strong>la polizia italiana<br />
e francese. Strano perché Boe si fa prendere come<br />
un pivellino portandosi dietro un ingombrante arsenale.<br />
Stranissimo perché tiene in tasca un rullino di foto<br />
davvero compromettenti che lo ritraggono, M 16 sottobraccio,<br />
davanti alla grotta dove è stato tenuto prigioniero<br />
Farouk Kassam. Farsi fare foto di questo genere è<br />
folle, a meno che uno non voglia portarsi dietro, <strong>caso</strong>mai<br />
lo fermassero, la prova <strong>del</strong>la sua colpevolezza. A<br />
meno che non voglia insomma concordare una finta<br />
cattura che potrebbe rivelarsi poi una resa concordata a<br />
tavolino.<br />
A Lula, dove Matteo Boe è un totem, nessuno crede<br />
al compromesso, all’accordo con le forze <strong>del</strong>l’ordine. E<br />
men che meno che possa aver trascinato nella sua caduta<br />
gli amici-complici, due compaesani: Ciriaco Baldassarre<br />
Marras e Mario Asproni, scomparso un minuto<br />
prima che i carabinieri bussino alla sua porta per notificargli<br />
l’ordine di custodia cautelare.<br />
Per dirla tutta, c’è chi non crede anche che Laura<br />
Manfredi non si sia accorta <strong>del</strong> pedinamento: è una vita<br />
che, al volante di un’utilitaria, lascia la casa dei suoceri e<br />
raggiunge suo marito. Per sei anni riesce puntualmente<br />
a depistare il (folto) gruppo che le sta dietro. Un attimo<br />
di disattenzione? Può darsi, ma appare tuttavia poco<br />
95
credibile in una donna come lei. Ancora meno credibile<br />
è la vicenda <strong>del</strong>le fotografie che, tra l’altro, non inchiodano<br />
soltanto Boe.<br />
Laura Manfredi respinge con durezza questa interpretazione:<br />
«Matteo», dice, «non ha tradito nessuno».<br />
A insistere su questa storia, c’è il timore, neppure tanto<br />
teorico, che possa scoppiare una faida. E accusa i giornali<br />
di aver tirato fuori l’ipotesi <strong>del</strong>la “resa condizionata”<br />
alla vigilia di un processo importante. Nel frattempo<br />
Farouk Kassam ha riconosciuto i luoghi fotografati, la<br />
prigione: tradotto con le norme <strong>del</strong> codice penale, questo<br />
significa una condanna sicura. E pesante.<br />
Pesantissima. Però, al processo che si apre nell’autunno<br />
<strong>del</strong> ’94 a Tempio, il principale imputato non c’è.<br />
La pratica per l’estradizione, che in un primo momento<br />
sembrava imminente e scontata, s’inceppa nelle procedure<br />
burocratico-giudiziarie internazionali. Due anni<br />
non sono bastati per ritrovare la rotta giusta e approdare<br />
in un’aula di Tribunale. Colpa <strong>del</strong>l’eccesso di zelo<br />
<strong>del</strong>la magistratura italiana, dice qualcuno, che ha presentato<br />
ben quattro richieste di estradizione mentre ne<br />
bastava una. Ma proprio per questa ragione, secondo<br />
altri, si voleva dare all’operazione un salutare effetto ritardante.<br />
Risultato: la posizione processuale <strong>del</strong>l’imputato<br />
Boe Matteo viene stralciata. Salta, dunque, la presenza<br />
di uno degli uomini-chiave <strong>del</strong>la vicenda Kassam.<br />
Laura Manfredi respinge anche questa interpretazione<br />
dei fatti, sottolinea che il suo compagno è testimone<br />
a difesa per Asproni e Marras, parla apertamente di<br />
montatura, di giornalismo prezzolato e imbeccato dalla<br />
magistratura per creare il <strong>caso</strong>, per distruggere l’immagine<br />
di Boe.<br />
96<br />
Perché distruggere l’immagine di Boe? Perché, secondo<br />
lei, i giornali che hanno avuto la colpa di gonfiarlo,<br />
di farne una sorta di mito («per la stampa dev’esserci<br />
sempre un super-ricercato impegnato in una grande sfida<br />
con polizia e carabinieri»), ora debbono fare rapidissimamente<br />
marcia indietro. Per qualcuno Boe sta diventando<br />
un punto di riferimento, dunque bisogna buttarlo<br />
giù, distruggerlo. Cosa c’è di meglio <strong>del</strong> venticello<br />
d’una calunnia che insinua l’ipotesi <strong>del</strong> tradimento, di<br />
una cattura concordata con le forze <strong>del</strong>l’ordine? Per il<br />
momento i fatti dicono solo che Boe esce di scena dal<br />
processo.<br />
L’altro protagonista <strong>del</strong> dibattimento si chiama Graziano<br />
<strong>Mesina</strong>. I giudici lo citano per “reato annesso”, favoreggiamento.<br />
Avrebbe coperto la banda dei rapitori<br />
e, naturalmente, Boe. «Boe? Non lo conosco, ne ho sentito<br />
parlare sui giornali. Mai incontrato. Quando io facevo<br />
il bandito lui non era neanche nato». Sarà. Tutto<br />
questo rende però la faccenda ancora più difficile, più<br />
complessa. Più misteriosa. Si aggiunge all’enigma <strong>del</strong> riscatto<br />
pagato-non pagato, al ruolo dei servizi segreti, al<br />
nome <strong>del</strong> personaggio che “impone” a <strong>Mesina</strong> di occuparsi<br />
<strong>del</strong> rapimento. Già, perché Graziano non ne voleva<br />
sapere, non voleva avere problemi con banditi e tantomeno<br />
con uno come Boe. Dopo la concessione <strong>del</strong>la<br />
libertà condizionale, aveva deciso di imboccare un’altra<br />
strada, quella di un quieto grigiore quotidiano. Come<br />
già accennato, c’è stato qualcuno, potentissimo, ha detto<br />
l’ex vescovo di Nuoro, mon<strong>signor</strong> Giovanni Melis,<br />
che l’ha tirato dentro. E forse è stata la sua disgrazia. In<br />
che senso? «Nel senso che questo ha scatenato tutto il<br />
resto».<br />
97
Profondamente diversi sotto numerosi punti di vista,<br />
Matteo Boe e Graziano <strong>Mesina</strong> hanno qualcosa in<br />
comune: coerenza, un poderoso istinto di conservazione<br />
che li aiuta a uscire da situazioni pericolose, capacità<br />
di sopravvivenza in condizioni dove altri cedono più facilmente<br />
al patteggiamento. Eppure l’uno e l’altro cadono<br />
da dilettanti. In Barbagia si dice che il latitante deve<br />
avere paura <strong>del</strong>le tre effe: fontana, festa, femmina.<br />
Per Boe è fatale l’ultimo <strong>caso</strong>: la moglie va a trovarlo in<br />
Corsica portandosi dietro, bagaglio al seguito, un reparto<br />
di poliziotti. Che, quando arrivano sul posto, lo<br />
intrappolano, gli trovano addosso un’inutile carta d’identità<br />
(intestata a un inesistente Giulio Manca di Bortigali)<br />
e la prova-bomba <strong>del</strong>la sua partecipazione al rapimento<br />
Kassam, le foto-ricordo scattate davanti alla<br />
grotta nelle campagne di Lula.<br />
Non è meno stupefacente la “caduta” di <strong>Mesina</strong>, che<br />
pure riesce ad attraversare molte stagioni da latitante e,<br />
prova forse più impegnativa, quasi trent’anni di galera.<br />
Intercettazioni telefoniche disposte dalla procura distrettuale<br />
antimafia portano alla luce il progetto d’un<br />
sequestro su commissione: glielo chiedono due genovesi<br />
un po’ così che vogliono vendicarsi <strong>del</strong> teleimbonitore<br />
Men<strong>del</strong>la, colpevole di aver divorato i loro risparmi.<br />
In vista di quello che si annuncia un colpo clamoroso,<br />
da mettere a segno addirittura a Montecarlo, <strong>Mesina</strong><br />
chiede ai suoi “clienti” un piccolo rifornimento d’armi.<br />
E quelli vanno a portargliele senza sapere di essere scortati<br />
dai carabinieri.<br />
Più che vivere da ricercato, per <strong>Mesina</strong> è stato certamente<br />
più rischioso vivere da carcerato «per anni ventinove<br />
e giorni sette», come gli ha ricordato il giudice nel-<br />
98<br />
la sentenza di concessione <strong>del</strong>la libertà condizionale.<br />
All’interno <strong>del</strong>le prigioni circolano personaggi d’ogni<br />
genere. Per esempio Vittorio Andraus, killer penitenziario<br />
per conto <strong>del</strong>la ’ndrangheta, conosciuto a Badu ’e<br />
Carros. Poi c’è Pasquale Barra “O’ animale”, squartatore<br />
scelto, anche lui conosciuto a Nuoro, specialista <strong>del</strong>la<br />
vivisezione: durante un’ora d’aria ha letteralmente affettato<br />
il gangster Francis Turatello concludendo l’opera<br />
con un morso di disprezzo al palpitante fegato <strong>del</strong>la<br />
vittima. Tra le altre conoscenze importanti ci sono poi<br />
Angelo Epaminonda (detto “il Tebano”), il nappista<br />
Martino Zichitella. L’elenco potrebbe essere infinito.<br />
Quel che ha salvato <strong>Mesina</strong> è stata forse la sua naturale<br />
ritrosia, anzi la diffidenza a stringere amicizie, a<br />
concedere familiarità. Ha sempre preferito l’isolamento,<br />
anche duro, ai soggiorni di gruppo con <strong>del</strong>atore<br />
compreso.<br />
Pochi sanno che in carcere ha tenuto un diario. Pagine<br />
e pagine di quaderno a righe che nascondeva nel cestino<br />
<strong>del</strong>la cartastraccia. «L’ho distrutto quando mi sono<br />
accorto che avevo troppi occhi addosso». Stessa decisione<br />
quando la noia gli ha fatto prendere in mano il<br />
pennello. Dipingeva soprattutto nature morte: quando<br />
il direttore <strong>del</strong>la prigione gli ha chiesto un quadro-ricordo,<br />
ha fatto a pezzi le tele. Non voleva si pensasse<br />
che dietro la richiesta <strong>del</strong> dono, ci fosse una proposta di<br />
protezione o comunque di benevolenza nei suoi confronti.<br />
<strong>Lo</strong> sostiene la convinzione che quando si tradisce o<br />
ci si vende è «perché uno, così, ci è nato. Quando una<br />
mela non è buona prima o poi fa il verme. Per fare certe<br />
cose devi averci l’indole». Lui, che una certa indole<br />
99
non l’ha avuta, ha tuttavia seguito una sorta di terapia<br />
preventiva, una cura che gli imponeva di mantenere<br />
una certa distanza di sicurezza dagli altri, carcerieri e<br />
carcerati.<br />
Per via dei suoi nove tentativi di evasione oltre che di<br />
condanne senza fine, è stato in quasi tutti i penitenziari<br />
italiani: dall’Asinara (dove c’era un direttore che dormiva<br />
tenendo un fucile accanto al letto) al manicomio criminale<br />
di Montelupo fiorentino, dalle Nuove di Torino<br />
al braccio speciale di Viterbo, dal carcere di massima sicurezza<br />
di Trani a Regina Coeli. Potrebbe scrivere una<br />
rabbrividente guida Michelin <strong>del</strong>le prigioni italiane.<br />
«Non hanno segreti per me. La peggiore è certamente<br />
quella di Buoncammino a Cagliari. Ma non scherzano<br />
neppure a Volterra, Porto Azzurro. Ho trascorso interi<br />
mesi in celle scavate dieci metri sotto terra, sotto il livello<br />
<strong>del</strong> mare. Tane dove sui muri cresce l’erba e tu sei costretto<br />
a vivere come un animale. Devi muoverti in continuazione<br />
per non morire di freddo, per evitare che l’umidità<br />
ti trasformi in un invalido. Condizioni di vita impossibili».<br />
Per “anni ventinove e giorni sette” <strong>Mesina</strong> accetta<br />
che queste siano le sue prigioni e rifiuta qualunque tipo<br />
di collaborazione. Nel marzo <strong>del</strong> ’90, quando il Tribunale<br />
di Sorveglianza di Torino gli nega la libertà condizionale,<br />
sa bene che il primo requisito per ottenerla è il<br />
cosiddetto “ravvedimento”. Pur sapendo quanto gli<br />
può costare una sparata <strong>del</strong> genere, dichiara di sentirsi<br />
quello di sempre, non rinnega affatto il passato. Il suo<br />
comportamento, che “evidenzia un graduale e totale ripristino<br />
<strong>del</strong> rispetto <strong>del</strong>le regole penitenziarie” è dettato<br />
solo in parte dal bisogno di tornare libero. Ha certa-<br />
100<br />
mente un suo peso l’età che incalza, la stanchezza, il desiderio<br />
di rivedere la madre. Al presidente <strong>del</strong> Tribunale<br />
che gli chiede incuriosito se ha beni di proprietà, risponde<br />
sicuro: «Non ho niente. Quelli che avevo, me li<br />
hanno sequestrati». Sequestrati, ha detto sequestrati?<br />
Per un attimo gli viene da ridere, avrebbe dovuto adoperare<br />
un altro verbo. Poi torna sulle sue e, a proposito<br />
di ravvedimento, fa presente: «Certo, è chiaro che non<br />
ripeterò gli sbagli che ho commesso. Badi però che se<br />
non mi fossi trovato in certe circostanze, non avrei fatto<br />
quel che ho fatto. I miei sono reati di sopravvivenza».<br />
Come vuole il rito, a quel punto il presidente <strong>del</strong> Tribunale<br />
domanda qual è il parere <strong>del</strong> <strong>signor</strong> procuratore generale.<br />
Il <strong>signor</strong> procuratore generale si alza lentamente<br />
dalla poltroncina di panno rosso, guarda dritto negli occhi<br />
l’imputato e annuncia: «Contrario. Siamo contrari<br />
alla concessione <strong>del</strong>la libertà condizionale».<br />
E <strong>Mesina</strong> resta in carcere ancora per un anno, a meditare<br />
sulle parole pronunciate quella mattina nell’aulafrigorifero<br />
<strong>del</strong> Tribunale di Torino. Forse avrebbe potuto<br />
essere un po’ più disponibile. Certo, non dichiararsi<br />
pentito ma insomma. <strong>Lo</strong> spiritello <strong>del</strong> duro a oltranza<br />
gli ha suggerito in aula parole di cui, più tardi, ha forse il<br />
coraggio di pentirsi solo con se stesso. Quando nessuno<br />
lo vede e lo sente, quando nessuno può immaginare che<br />
il balente <strong>Mesina</strong> sa essere anche un uomo disperato,<br />
aggrappato alla vita. Ma queste sono cose che non si<br />
debbono dire in giro, ne risentirebbe eccessivamente la<br />
figura <strong>del</strong> detenuto che non vuole compromettersi.<br />
Neanche con una dichiarazione di fede che, dopotutto,<br />
è soltanto una formula di rito; inutile ed effimera, vale<br />
giusto il tempo di recitarla quasi a memoria. «Sì, <strong>signor</strong><br />
101
presidente, mi sono ravveduto», equivalente giudiziario<br />
d’un cristiano atto di dolore: …mi pento e mi dolgo<br />
con tutto il cuore dei miei peccati…<br />
Un’assurda educazione gli ha fatto balbettare che<br />
non ha nulla da sconfessare <strong>del</strong> suo passato. Chi vuole<br />
capire, capisca. Quanto a lui, sa bene quale può essere il<br />
conto da pagare per un’affermazione di questo genere.<br />
Preferisce tornare in carcere, com’è sua abitudine,<br />
soffocato dall’orgoglio. Tre anni più tardi, a libertà finalmente<br />
conquistata, in attesa che il Presidente <strong>del</strong>la<br />
Repubblica gli conceda la grazia, accetta da due sconosciuti<br />
la proposta per un sequestro miliardario. E casca<br />
nella rete <strong>del</strong>la giustizia come una matricola <strong>del</strong>la criminalità,<br />
un esordiente da quattro soldi.<br />
102<br />
IX<br />
La Coop dei sequestri<br />
Prima artigianale poi sempre più industriale; prima<br />
ruspante poi sempre più professionale. Col passare degli<br />
anni, meglio dire dei secoli, il sequestro di persona a<br />
scopo di estorsione affina nella sua terra d’origine, la<br />
<strong>Sardegna</strong>, una tecnica che non teme raffronti. D’altro<br />
canto se la storia patria non mente, il primo rapimento<br />
di cui si ha notizia risale alla fine <strong>del</strong> ’400.<br />
Stiamo parlando dunque di qualcosa che arriva da<br />
lontano. E che, come certi prodotti <strong>del</strong>l’agricoltura biologica,<br />
ha mantenuto l’uso di alcuni ingredienti cambiandone<br />
altri (senza sciocchi rigidismi) per venire incontro<br />
a esigenze nuove. Non c’è solo il problema <strong>del</strong> riciclaggio<br />
<strong>del</strong> danaro sporco, un’operazione difficile che<br />
richiede buone conoscenze bancarie e la capacità di<br />
non farsi strangolare da cambisti troppo voraci. Seccatura,<br />
questa, che fino a una ventina di anni fa neppure si<br />
poneva: le banconote, sia pure segnate dagli investigatori,<br />
riuscivano a prendere il volo e risciacquarsi in una<br />
qualunque banchetta <strong>del</strong>la penisola.<br />
Il sistema di comunicazioni di massa ha poi enormemente<br />
migliorato i rapporti tra il portavoce dei banditi e<br />
i familiari <strong>del</strong>l’ostaggio: le polaroid con una copia di<br />
giornale tenuta bene in vista sono, ad esempio, un siste-<br />
103
ma garantito e sicuro <strong>del</strong>la cosiddetta “prova di vita”.<br />
Bisogna dire, a onor <strong>del</strong> vero, che i primi a servirsene sono<br />
stati i terroristi <strong>del</strong>le Brigate Rosse durante il sequestro<br />
di Aldo Moro, presidente <strong>del</strong>la Dc, nel 1978. Chi<br />
non ricorda la foto <strong>del</strong> “prigioniero politico” che teneva<br />
in mano un quotidiano di Roma? Indifferente e distratto<br />
verso altri fenomeni d’importazione, un certo banditismo<br />
sardo – quello più evoluto – ha fatto tesoro di<br />
questa indicazione e l’ha sfruttata immediatamente.<br />
Il resto, ma non tutto il resto, ha mantenuto la vecchia<br />
ricetta. Giusto per non tradire la cucina locale.<br />
Giuseppe Medici, senatore <strong>del</strong>la Repubblica incaricato,<br />
alla fine degli anni ’60, di stendere una relazione su<br />
quella che sarà poi chiamata società <strong>del</strong> malessere, si<br />
guarda intorno e coglie alcuni aspetti che non giustificano<br />
ma comunque spiegano in un certo senso nascita e<br />
sviluppo di un fenomeno profondamente sardesco,<br />
molto imitato e mai uguagliato pur essendo uno dei pochissimi<br />
prodotti regionali che ha riscosso (e riscuote)<br />
un robusto successo nel resto d’Italia e all’estero. Aiutandosi<br />
col bastone in un incedere che tradiva l’anima<br />
aristocratica, il senatore scoprì una terra ingrata, secca e<br />
ventosa, arida e sterile. Scrive preoccupato: “In questo<br />
ambiente agropastorale di montagna, vive una popolazione<br />
ferrigna: soltanto gente di ferro può reggere a un<br />
simile ambiente e amare la vita <strong>del</strong> pastore nomade”.<br />
Davanti agli occhi aveva l’immagine <strong>del</strong> Supramonte,<br />
il sipario roccioso di Montalbo di fronte a Lula, la<br />
Barbagia e il suo sterminato deserto. Insomma, le condizioni<br />
geo-ambientali per forgiare un popolo duro c’erano<br />
tutte. L’annotazione di Medici è tutt’altro che superficiale,<br />
paesaggistica: in qualche modo cerca di capi-<br />
104<br />
re come possa diffondersi un reato così terribile, un reato<br />
che prevede – volentieri o meno – una ferocia che si<br />
ripete, si proietta giorno dopo giorno in uno stillicidio<br />
che annienta. E che talvolta coinvolge intere comunità.<br />
Cosa può importare a “gente ferrigna” <strong>del</strong>le sofferenze<br />
di un povero miliardario? Dopotutto, molta di quella<br />
gente fa una vita quotidiana che non è molto diversa da<br />
quella <strong>del</strong>l’ostaggio. L’alimentazione, pane formaggio e<br />
salsiccia, fa parte <strong>del</strong>la vita di migliaia di contadini e pastori.<br />
Resta da parlare <strong>del</strong>la privazione <strong>del</strong>la libertà, modesta<br />
e temporanea seccatura, che viene ritenuta sopportabile.<br />
Non ci sarà mai nessuno tra Mamoiada e Orune,<br />
tra Nule e Benetutti, che lo dichiarerà apertamente,<br />
ma non è vista – in un certo senso – molto diversa dalla<br />
prigionia <strong>del</strong> latitante o da quella di un pastore, imbavagliato<br />
dal silenzio, condannato a stare per intere settimane<br />
a non vedere anima viva. Imprigionato senza catene<br />
certo, ma comunque imprigionato in una cella gigantesca,<br />
infinita, senza porta e senza sbarre ma pure senza<br />
via d’uscita.<br />
Ascoltate le discussioni nei bar, il chiacchiericcio per<br />
strada: la custodia <strong>del</strong>l’ostaggio non è affatto considerata<br />
la parte più orribile <strong>del</strong> sequestro. Stando al paragone<br />
di prima, non si venga a dire che il pastore se vuole può<br />
andarsene, può lasciare la sua galera. Non è vero, non<br />
può: glielo vieta il senso <strong>del</strong> dovere e <strong>del</strong>la famiglia, soprattutto<br />
un destino segnato e immutabile. L’alternativa<br />
fin quasi agli inizi degli anni ’70 è stata soltanto una:<br />
emigrazione. Senza scivolare nella retorica, sarebbe interessante<br />
scoprire quali siano i punti di riferimento e il<br />
significato di libertà per centinaia di migliaia di sardi<br />
che si sono rifugiati all’estero o nel nord Italia, inseguiti<br />
105
dalla miseria e dalla disoccupazione. Alcuni sostengono<br />
che gli emigrati siano stati non meno di cinquecentomila<br />
nell’arco di trent’anni, altri riducono questa cifra<br />
(centocinquanta-duecentomila) tenendo conto esclusivamente<br />
<strong>del</strong> criterio <strong>del</strong>l’emergenza, cioè <strong>del</strong> bisogno<br />
ispirato e suggerito dalla fame.<br />
Esistono tre chiavi per aprire la porta dei sequestri e<br />
tentare di coglierne in qualche misura le ragioni profonde.<br />
La prima offre una prospettiva esclusivamente economica:<br />
si ruba e si sequestra per un motivo antico, il<br />
danaro. Col danaro, comunque guadagnato, si diventa<br />
ricchi. Col benessere ci si affranca da mille catene. La<br />
chiave poliziesca chiude qualunque interpretazione con<br />
le norme <strong>del</strong> codice penale: come dire, il <strong>del</strong>inquente è<br />
<strong>del</strong>inquente, inutile girarci attorno. La chiave <strong>del</strong> sociologo<br />
trova invece un angolino, quello <strong>del</strong>la disuguaglianza<br />
tra classi. Il sequestro, detto in altri termini, non è altro<br />
che un meccanismo di ridistribuzione <strong>del</strong>la ricchezza.<br />
Teoria piuttosto debole, questa: anche ammettendone<br />
la validità, la ricchezza espropriata all’ostaggio finirebbe<br />
nelle tasche di uno sparuto gruppo di persone.<br />
Più consistente la tesi che parla di emulazione, ossia <strong>del</strong><br />
desiderio di rubare-sequestrare per essere uguali agli altri,<br />
rivendicando una sorta di diritto assoluto ad avere le<br />
stesse cose, gli stessi beni. Beni piccolo borghesi, ovviamente.<br />
E qui bisognerebbe dire quale sia la responsabilità<br />
dei media, d’una cultura televisiva che ha creato una<br />
propria scala di valori e l’ha venduta come reale, oggettiva.<br />
Il mondo come una telenovela.<br />
Sarebbe noioso sfoderare le citazioni d’obbligo che<br />
garantiscono il vuoto per pieno nelle bibliografie di fine<br />
106<br />
libro, che tentano di dare spessore e autorevolezza a inchieste<br />
di cronaca come questa. Stimolante, anche se<br />
non rientra tra i testi da ricordare obbligatoriamente a<br />
proposito di <strong>Sardegna</strong> e dintorni, è l’analisi di due docenti<br />
universitari che hanno messo a fuoco i confini <strong>del</strong><br />
terreno di gioco: “Il banditismo in <strong>Sardegna</strong> non è genericamente<br />
rurale né tantomeno contadino. Bandito e<br />
pastore appartengono allo stesso sistema, allo stesso<br />
mondo socio-economico e culturale e, benché esistano<br />
nei complessi rapporti che legano le popolazioni pastorali<br />
al bandito notevoli ombre di ambivalenza e ambiguità,<br />
ciò spiegherebbe la sostanziale integrazione <strong>del</strong><br />
bandito nel gruppo pastorale di estrazione, i processi di<br />
identificazione tra pastore e fuorilegge, la possibile idealizzazione<br />
e mitizzazione <strong>del</strong> bandito e, conseguentemente,<br />
la protezione (definita in termini e secondo<br />
un’ottica esterna al mondo pastorale ‘omertà’) di cui<br />
gode il bandito, condizione indispensabile alla sua esistenza<br />
e sopravvivenza”.<br />
Citazione lunga, questa: ma ha il merito di esprimere<br />
con chiarezza (nonostante il linguaggio per addetti ai lavori)<br />
una realtà che appartiene alla <strong>Sardegna</strong> come i<br />
suoi monti, i suoi fiumi.<br />
Graziano <strong>Mesina</strong> è cresciuto in un ambiente chiuso,<br />
dove i “valori” <strong>del</strong>la criminalità resistono al tempo, stentano<br />
a raccogliere novità dall’esterno, ad aprirsi. Salvo<br />
rare eccezioni, le cosiddette regole <strong>del</strong> gioco sono considerate<br />
eterne e ripetono rituali antichi. Uccidere un<br />
confidente <strong>del</strong>le forze <strong>del</strong>l’ordine richiede ad esempio<br />
una piccola operazione chirurgica: il taglio <strong>del</strong>la lingua.<br />
Il moncone qualche volta viene infilato tra le natiche.<br />
Quando si tratta di assassinare un dongiovanni di paese<br />
107
e si vuole, col <strong>del</strong>itto, indicare pubblicamente il movente<br />
e (in un certo senso) il mandante, è prevista una orribile<br />
variante: il sesso va amputato ed eloquentemente<br />
sistemato in bocca al cadavere.<br />
Anche il sequestro di persona ha le sue regole. Fino<br />
agli anni ’70 – fatti salvi rarissimi casi – donne e bambini<br />
sono stati considerati intoccabili. Quando rapisce nel<br />
’68 l’imprenditore ozierese Nino Petretto, Graziano<br />
<strong>Mesina</strong> si guarda bene dal portar via anche il figlio <strong>del</strong>l’ostaggio,<br />
Marcello, che aveva cinque anni. Anzi, chiacchiera<br />
con lui, gli dà i soldi per comprare un biglietto<br />
ferroviario e tornare a casa tranquillamente. Questo<br />
non gli impedisce di acquisire una concezione industriale<br />
<strong>del</strong> sequestro: tanto è vero che con Petretto, gli<br />
ostaggi a carico <strong>del</strong>la sua banda in quel momento sono<br />
due (l’altro è Giovanni Campus). Sarebbero stati addirittura<br />
tre se la vittima designata, Nanni Terrosu, non<br />
fosse riuscito a fuggire beffando il cosiddetto “re <strong>del</strong><br />
Supramonte”.<br />
Su Terrosu bisogna fare una parentesi. Non è escluso<br />
che le voci di una sua fuga siano bugiarde, inventate<br />
d’accordo con banditi che avevano preso un granchio.<br />
Sfiorato un intoccabile. Presidente prima <strong>del</strong>l’ospedale<br />
di Ozieri e poi <strong>del</strong>la Unità sanitaria locale, Terrosu è un<br />
potentissimo democristiano in grande confidenza con<br />
Francesco Cossiga. Molti lo detestano per questo suo<br />
ruolo di alcalde, dittatore dolce che non discute, ordina;<br />
non suggerisce, impone. Decisamente benestante,<br />
ha un vaccino che lo protegge dalle maldicenze: è indiscutibilmente<br />
onesto. Uno che in linea di massima non<br />
consente ai medici <strong>del</strong>la sua Usl di esercitare libera professione<br />
(ritenuta in un certo senso immorale), che rie-<br />
108<br />
sce a fare <strong>del</strong>l’ospedale di Ozieri un fiore all’occhiello<br />
<strong>del</strong>la sanità pubblica. Per raggiungere obiettivi che ritiene<br />
importanti, come l’acquisizione di un tomografo<br />
assiale computerizzato (Tac), interpreta a modo suo le<br />
leggi e utilizza a modo suo i contributi <strong>del</strong> fondo sanitario.<br />
I militanti <strong>del</strong>la sinistra – suoi storici oppositori –<br />
gli rinfacciano violazioni su violazioni. Lui, che ha un<br />
cuore ricucito coi by-pass, nemmeno s’arrabbia. Ama<br />
fare il patriarca, il padre-padrone di una comunità che<br />
gli tributa affetto, amicizia e voti (quando servono). È,<br />
dunque, un uomo troppo importante perché qualcuno –<br />
<strong>Mesina</strong> compreso – possa pensare di oltraggiarlo sequestrandolo.<br />
Con l’aggravante poi di un temperamento<br />
notoriamente grintoso, incapace di inchinarsi, spaventato,<br />
all’arroganza di un rapimento.<br />
Nonostante ai tempi <strong>del</strong>l’imboscata avesse passato<br />
cinquant’anni, è considerato alla stregua di un bambino.<br />
E i bambini sono, in qualche modo, sacri. Tali restano,<br />
per <strong>Mesina</strong>, anche quando nel ’92 torna a occuparsi<br />
di un rapimento, stavolta nella veste di emissario. Durante<br />
uno degli abboccamenti, vede Farouk Kassam con<br />
l’orecchio tagliato e si accorge che la ferita sta andando<br />
in suppurazione. S’infuria, litiga violentemente coi fuorilegge:<br />
su pizzinnu va trattato bene, va rispettato, va<br />
curato. Già è inammissibile che sia stato rapito (tempi<br />
nuovi, incomprensibili per un ex che ha passato la vita<br />
in galera), ma l’attenzione e la cura <strong>del</strong> suo stato di salute<br />
non possono essere messi in discussione.<br />
Ai nuovi criminali, ai “ragazzi” di una generazione<br />
troppo lontana dalla sua, dedicherà molti mesi dopo<br />
una riflessione che è una decisa e orgogliosa presa di distanza:<br />
«Nessuno dei miei ostaggi si è mai costituito<br />
109
parte civile. Anzi, con qualcuno sono pure diventato<br />
amico». Discorso molto chiaro. Stando al regolamento<br />
(mai scritto, naturalmente), il rapimento di Farouk rappresenta<br />
una doppia violazione: non si tratta soltanto di<br />
un bambino, ma anche di uno straniero. E gli stranieri,<br />
in una terra celebre per la sua ospitalità, non possono e<br />
non debbono correre pericoli di sorta.<br />
Prima e dopo l’era <strong>Mesina</strong>, la storia <strong>del</strong> banditismo<br />
sardo elenca tuttavia una serie di trasgressioni. Alla fine<br />
<strong>del</strong> diciannovesimo secolo vengono rapiti a Gavoi due<br />
commercianti francesi, nel ’25 viene sequestrata una<br />
bimba di Aidomaggiore, nel ’33 viene portata via e uccisa<br />
la figlia <strong>del</strong> podestà di Bono. Aveva sei anni. Le variabili,<br />
quindi, non mancano. Ma sono talmente poche<br />
da giustificare chi parla di codice d’onore, chi storicizza<br />
– come Antonio Pigliaru – leggi e regolamenti <strong>del</strong>la<br />
criminalità. E non solo <strong>del</strong>la criminalità, poiché le norme<br />
di buona convivenza riguardano anche la vita <strong>del</strong>le<br />
comunità, i piccoli dissidi, le liti per ragioni di pascolo.<br />
In questo binario viaggia la “civiltà” dei sequestri. In<br />
<strong>Sardegna</strong>, avverte dottamente la seconda indagine sulla<br />
criminalità svolta dal Consiglio regionale, si tratta di<br />
“aggregazioni temporanee di 15-20 persone (il gruppo<br />
che effettua il sequestro, il gruppo che custodisce l’ostaggio,<br />
i collegamenti per gli approvvigionamenti ai latitanti<br />
custodi <strong>del</strong>l’ostaggio, i collegamenti con emissari<br />
<strong>del</strong>le famiglie che trattano)”.<br />
Negli ultimi vent’anni, dal 1974 a oggi, sono state rapite<br />
in <strong>Sardegna</strong> 89 persone: nel conto rientrano anche<br />
emissari trattenuti provvisoriamente (il tempo necessario<br />
per il disbrigo di certe pratiche, quasi si trattasse di<br />
un ufficio ministeriale) e i pochissimi che si sono libera-<br />
110<br />
ti a poche ore dall’agguato. Quattordici non sono più<br />
tornati a casa. Il sequestro più lungo è <strong>del</strong> ’78, riguarda<br />
l’imprenditore sassarese Pupo Troffa: otto mesi. A ruota<br />
segue quello <strong>del</strong>l’ingegnere londinese, Rolf Schild<br />
che fu prelevato da Punta <strong>Sardegna</strong> nell’estate <strong>del</strong> ’79<br />
insieme alla moglie Daphne e alla figlia Annabelle: oltre<br />
sette mesi di prigionia. Le curiosità statistiche dicono<br />
che l’Anonima ha mantenuto le sue vittime per quasi<br />
4.500 giorni, poco più di dodici anni. Tenendo conto<br />
dei riscatti ufficiali, ha incassato – stiamo sempre parlando<br />
degli ultimi vent’anni – quasi trentun miliardi,<br />
esentasse. Il costo medio di permanenza per ogni giorno<br />
di prigionia sfiora i sette milioni (sei milioni e ottocentomila,<br />
per la precisione). Visto con l’occhio <strong>del</strong> chirurgo<br />
che, bisturi in mano, osserva freddamente il campo<br />
operatorio, c’è da chiedersi: ne vale la pena?, economicamente<br />
il sequestro rende?<br />
Per organizzarne uno con un minimo di serietà,<br />
quindi a livello professionale (vale a dire considerando<br />
nei dettagli pro e contro di un fallimento), occorre mobilitare<br />
sul serio da quindici a venti persone. Sugli organici,<br />
prima e seconda indagine sulla criminalità concordano.<br />
Si può quindi agevolmente sostenere che la rivoluzione<br />
tecnologica non ha lambito questo settore né ha<br />
imposto tagli (giusto per adoperare una parola decisamente<br />
sinistra parlando di sequestri). L’immutabilità<br />
<strong>del</strong> metodo sottolinea la necessità di una “lunga e paziente<br />
preparazione”. Secondo il senatore Medici, l’entrata<br />
in azione prevede certezza su almeno cinque punti:<br />
la vittima deve essere realisticamente in grado di far<br />
fronte a un riscatto; lo studio dei suoi orari e <strong>del</strong>le sue<br />
abitudini deve ridurre i rischi al minimo; la prima pri-<br />
111
gione deve essere allestita preventivamente assieme alla<br />
scelta degli itinerari da percorrere, i luoghi in cui incontrare<br />
gli emissari. Deve essere infine previsto un eventuale<br />
trasferimento per evitare che l’ostaggio memorizzi<br />
rumori (aerei, treni) e particolari (un certo tipo di vegetazione,<br />
un tetto in lontananza). Nulla deve essere lasciato<br />
al <strong>caso</strong>. Durante il rapimento dei fratelli torinesi<br />
Giorgio e Marina Casana uno dei carcerieri, per pigrizia,<br />
acquistava a giorni alterni nella stessa bottega quattro<br />
etti di morta<strong>del</strong>la. Troppi per non destare sospetti.<br />
Per l’economista Antonio Sassu (docente presso l’università<br />
di Cagliari), più che di fronte a un’azienda<br />
(«mancano le strutture organizzate per parlarne in questi<br />
termini»), siamo davanti a una cooperativa che nasce<br />
e muore col rapimento. Senza l’ancoraggio all’ambiente<br />
pastorale, qualunque iniziativa sarebbe destinata al fallimento:<br />
a parte i liberi professionisti raccattati per l’occasione<br />
(il basista, i vivandieri, i riciclatori), serve una<br />
manovalanza sicura, secondini <strong>del</strong>la criminalità assolutamente<br />
bisognosi di danaro fresco. La solidarietà che<br />
consente al latitante di sopravvivere alla macchia non è<br />
fatta solo di parole. C’è un costo da coprire: rifugi notturni,<br />
ospitalità, cibo, vestiti e silenzi hanno un prezzo.<br />
La vita fuori dalla legge costa molto, fortuna che l’industria<br />
dei rapimenti tira e solo raramente ha manifestato<br />
segni di crisi. In ogni <strong>caso</strong> non rende ricchi. Il professor<br />
Sassu è <strong>del</strong>l’opinione che comunque valga la pena di<br />
giocare la partita. «Due sono gli aspetti dietro chi fa<br />
queste scelte. Primo: scarsità di danaro liquido da parte<br />
di chi deve fare il sequestro. Pastori, operai <strong>del</strong> settore<br />
agricolo e industriale, generici senza una specifica professione:<br />
hanno di che vivere ma non riescono mai a<br />
112<br />
mettere insieme somme che permettano di realizzare un<br />
progetto. Il riscatto, sia pure nella misura di qualche milione<br />
di lire, copre questo bisogno. Al secondo punto<br />
c’è il latitante che ha continuamente necessità di danaro:<br />
visto che deve stare nascosto, perché non far fruttare<br />
la situazione?»<br />
L’aspetto singolare è che in <strong>Sardegna</strong> si possa costituire<br />
una cooperativa tra soci che sono, per vocazione<br />
regionale, profondamente individualisti. Questo spiega<br />
l’arretratezza di tanta economia sarda, l’indifferenza<br />
verso nuove iniziative. Basta pensare alla pastorizia:<br />
movimento di ventimila persone, coinvolge appena cinque<br />
su cento addetti alle attività produttive. Se non tirasse<br />
avanti con sistemi arcaici, se seguisse le indicazioni<br />
e gli stimoli <strong>del</strong> mercato, sarebbe un formidabile moltiplicatore<br />
di benessere e occupazione.<br />
L’incapacità dei sardi a “fare società” ha sempre tenuto<br />
la pastorizia al palo. Figuriamoci se si può “fare<br />
società” per un rapimento: la convergenza di interessi<br />
tra persone diverse (appartenenti a mondi e a culture<br />
differenti) comincia e finisce col riscatto. D’altra parte,<br />
il basista – spesso un personaggio molto vicino all’ostaggio<br />
– non ha nulla da spartire con i carcerieri o col<br />
commando noleggiato per il colpo.<br />
L’ultimo mito da sfatare è quello <strong>del</strong>la miseria. Area<br />
depressa uguale area violenta: è soltanto un luogo comune.<br />
Ricerche economiche hanno dimostrato esattamente<br />
il contrario. Più la società è ricca, più alto è il tasso<br />
di criminalità; più la società è squilibrata, più numerosi<br />
sono i reati contro il patrimonio pubblico e le sue<br />
fragili truppe. Nella catena <strong>del</strong> sequestro, il latitante è<br />
l’anello finale. Non gli appartiene l’organizzazione né la<br />
113
egia. Il suo è soltanto un compito di custodia senza potere<br />
decisionale. Fa parte di quelle che gli antropologi<br />
chiamano “culture subalterne”. Diversa è la condizione<br />
di chi ha ideato il sequestro e ne tira i fili.<br />
Nella lunga stagione dei processi alle varie Anonime<br />
sarde, dietro l’industria dei sequestri sono saltati fuori<br />
impiegati e studenti, operai e artigiani, un laureato in<br />
economia e commercio. Risulta un po’ in salita, con<br />
questi requisiti, avvalorare la tesi <strong>del</strong> bisogno sociale,<br />
<strong>del</strong> brigantaggio che si fa banditismo in nome dei poveri.<br />
Il cantautore Fabrizio De André – rapito assieme a<br />
sua moglie, Dori Ghezzi, nel ’79 e rilasciato dopo quasi<br />
quattro mesi per 550 milioni – ricorda lunghe discussioni<br />
coi banditi proprio sul tema <strong>del</strong>la povertà come<br />
detonatore <strong>del</strong>la violenza. «Chiedevano il diritto a essere<br />
uguali, ad avere quel di più che cambiava la qualità<br />
<strong>del</strong>la nostra vita». Era una menzogna, nessuno di loro –<br />
come si è scoperto poi al processo davanti al Tribunale<br />
di Tempio – aveva l’acqua alla gola, nessuno di loro navigava<br />
fuori dalla rotta <strong>del</strong>la gente comune.<br />
Meno di sette milioni al giorno da dividere in venti,<br />
al lordo <strong>del</strong> riciclaggio (che ingoia fino al 30 per cento<br />
<strong>del</strong> riscatto) non fanno una fortuna. Soprattutto se si<br />
tiene conto di una legislazione che, in questo campo, è<br />
particolarmente dura e severa. Forse ha ragione chi dice<br />
sia più redditizio, e meno penalizzante dal punto di vista<br />
<strong>del</strong> codice, l’assalto in banca. Nei piccoli centri, le<br />
rapine alle casse di credito agrario offrono poche lire:<br />
ma non sono “segnate”, non richiedono una grande organizzazione<br />
per arraffarle, non prevedono (se va male)<br />
pene eccessivamente pesanti.<br />
Il problema è che un discorso squisitamente econo-<br />
114<br />
mico non ha senso quando si parla di sequestri. Al di là<br />
dei vantaggi e degli svantaggi sotto il profilo dei guadagni<br />
e <strong>del</strong>le ricadute sul codice penale, continueranno a<br />
esserci finché ci saranno latitanti. Spingendosi più in là,<br />
anni fa qualcuno scatenò una furiosa polemica a Nuoro<br />
sentenziando: «I sequestri ci saranno fino all’ultima pecora».<br />
Messaggio laconico e facile da decifrare: liberiamoci<br />
dalla cultura agropastorale, dai pastori, e dimenticheremo<br />
l’isola dei sequestri.<br />
115
X<br />
Una star <strong>del</strong> crimine<br />
Raggiante e intontito. Pericolosamente in bilico.<br />
Euforico e confuso. Vischiosamente stretto d’assedio.<br />
Schiacciato da una notorietà che non immaginava.<br />
Come si sente un uomo che torna alla vita dopo<br />
trent’anni di carcere? Graziano <strong>Mesina</strong> sembra ipnotizzato<br />
quando s’accorge <strong>del</strong>la folla che lo aspetta nei<br />
corridoi <strong>del</strong> Tribunale di Torino. L’indomani sarà un<br />
uomo qualunque, davvero il cittadino <strong>Mesina</strong>. In quel<br />
momento però vacilla la sua calma e la sua storia, barcollano<br />
certezze, perfino l’avvocato – Graziella Banda<br />
– fa difficoltà a farsi una ragione di luci così accecanti<br />
nello spettacolo-informazione. Trent’anni sono passati<br />
sulla <strong>Sardegna</strong> col ritmo lento di sempre: quali segnali<br />
ha raccolto l’ex bandito?, cosa crede di trovare fuori<br />
dalla galera?, che dice di questo pubblico da stadio che<br />
gli fa corona?<br />
Chissà quali meccanismi scattano, quali segrete<br />
energie riemergono dagli abissi di una coscienza assopita,<br />
da un mondo spiato attraverso giornali e tivù, dalle<br />
lettere degli amici e dei parenti. Il resto, per trenta<br />
lunghissimi anni, sono le notizie e le informazioni di radio-carcere,<br />
i pettegolezzi sul Belpaese corrotto, l’agonia<br />
<strong>del</strong>la prima Repubblica. Com’è cambiata l’Italia lo<br />
117
sappiamo. Ma un uomo, come cambia un uomo dopo<br />
una terapia penitenziaria di questa lunghezza?<br />
L’ammaraggio di Graziano è folgorante. D’accordo<br />
col presidente <strong>del</strong> Tribunale si organizza una veloce conferenza<br />
stampa, i carabinieri trattengono a fatica i giornalisti<br />
che premono sulla porta <strong>del</strong>l’aula dove si sta discutendo<br />
sulla concessione <strong>del</strong>la libertà condizionale. In<br />
attesa <strong>del</strong> verdetto, ecco finalmente il bandito, il mitico<br />
re <strong>del</strong> Supramonte, la primula rossa, il criminale buono,<br />
il vecchio <strong>Mesina</strong>. Che sorride divertito, ma è come se<br />
fosse ubriaco. Non sa che dire, non si era preparato per<br />
un incontro di questo tipo. Stringe tra le mani un borsello<br />
passato di moda da molte stagioni, sgrana gli occhi<br />
per uno stupore che non riesce a mascherare. Però è<br />
scaltro, rapido a intuire che sta vivendo un attimo importante,<br />
fondamentale. Tra un’ora entrerà in tutte le<br />
case, la sua immagine passerà su televisioni e quotidiani.<br />
Dunque attenzione: <strong>Mesina</strong> deve salvare <strong>Mesina</strong>, anche<br />
se ormai è quasi un pensionato, il balente di un tempo<br />
deve assolutamente dimostrare di essere stato impermeabile<br />
alla prigione, deve far capire di essere fatto dei<br />
soliti ingredienti: vento e granito.<br />
La prima trappola scatta all’improvviso. E per un<br />
soffio, soltanto per un soffio, non ci casca. Al termine<br />
<strong>del</strong>la inevitabile raffica di interviste, un giornalista <strong>del</strong><br />
Tg1 lo chiude in angolo: «Signor <strong>Mesina</strong> le dispiace se<br />
le facciamo qualche ripresa con due carabinieri a fianco?».<br />
E lui, vagamente corrucciato: «Beh, non posso<br />
oppormi». Ridacchia amaro, diplomazia. Ma non ne ha<br />
affatto voglia. Quello, intanto, torna alla carica: «Signor<br />
<strong>Mesina</strong> possiamo chiudere questa chiacchierata con lei<br />
che stringe la mano al carabiniere? Come dire, <strong>signor</strong><br />
118<br />
<strong>Mesina</strong>, amici come prima». Frazione di secondi, un<br />
lampo attraversa lo sguardo di Graziano. Forse fa in<br />
tempo a pensare cosa direbbero a Orgosolo di una scenetta<br />
così, le risatine soffocate che sentirebbe nei bar, i<br />
mormorii per strada. Eppure la proposta, autorevolissima<br />
perché arriva dalla prima rete televisiva nazionale, è<br />
lì. Bisogna rispondere subito. «Coraggio, <strong>signor</strong> <strong>Mesina</strong>.<br />
La facciamo questa cosetta di chiusura? I carabinieri<br />
sono d’accordo». È vero. Uno dei due, baffoni all’umberta,<br />
ammicca per quella che potrebbe essere la metafora<br />
sul trionfo <strong>del</strong>la giustizia. Anche i peggiori possono<br />
tornare sulla via <strong>del</strong> lecito e <strong>del</strong>l’onesto. «Allora, <strong>signor</strong><br />
<strong>Mesina</strong>?»<br />
Risposta telegrafica e brutale. Arriva insieme a uno<br />
sguardo che attraversa il giornalista come una lastra radiografica.<br />
«Mi faccia il piacere, mi faccia». Quello, che<br />
non ha capito bene, domanda sorpreso: «No?». Altra<br />
pausa, stavolta con l’aggiunta di un evidente fastidio:<br />
«No».<br />
A qualcuno poteva sembrare una sciocchezza. Per<br />
<strong>Mesina</strong>, e un certo ambiente che lo aspetta e che lo sta<br />
per mettere sotto esame, non è così. Coi carabinieri, al<br />
massimo, si può dire buongiorno e buonasera. La libertà<br />
condizionale non prevede abbracci e strette di mano<br />
con gli “sbirri”.<br />
Scampato pericolo. Fortuna che Graziano ha fatto in<br />
tempo ad accorgersene, un momento di disattenzione e<br />
si sarebbe giocato anni e anni di onorata carriera carceraria.<br />
È lì, proprio in quell’androne <strong>del</strong> Tribunale di Torino,<br />
che avverte i pericoli esterni, drizza le antenne, riapre<br />
la valigia <strong>del</strong>la diffidenza che lo ha salvato in molte<br />
119
occasioni. Forse conservare una buona immagine di se<br />
stesso e più difficile da queste parti che dietro le sbarre.<br />
Dunque bisogna pensarci, soprattutto in questi giorni<br />
di febbrile disorientamento, di festa allucinata ed esaltante<br />
per il ritorno <strong>del</strong> bandito.<br />
Di fronte alla domanda se gli piacerebbe ricominciare<br />
con un altro nome brucia qualunque sospetto: «Sono<br />
Graziano <strong>Mesina</strong>, resto Graziano <strong>Mesina</strong>. Non rinnego<br />
il mio passato».<br />
Le parole, in ogni <strong>caso</strong>, restano parole. Sa bene che a<br />
partire da quell’istante c’è chi l’ha messo in quarantena<br />
e lo sta studiando, un po’ come si fa con gli astronauti al<br />
rientro da missioni spaziali. La Barbagia, una certa Barbagia,<br />
vuol sapere cosa resta <strong>del</strong>le ceneri di <strong>Mesina</strong>, cosa<br />
è venuto fuori da quel ragazzo costretto alla prima evasione<br />
che non aveva neppure vent’anni.<br />
C’è qualcosa, nell’aria, che coglie subito: il supermercato<br />
Italia ha bisogno di personaggi e, quel che conta,<br />
non dà nulla gratis. Ha un’anima commerciale: compra<br />
e vende. Allora bisogna darsi una regolata: passaggi<br />
televisivi col contagocce e, naturalmente, a caro prezzo.<br />
Graziano scopre il fascino <strong>del</strong>la ribalta e gongola. Fa sapere<br />
che in carcere gli è capitato di ricevere anche cento<br />
lettere in un solo giorno. A scrivergli sono in netta maggioranza<br />
donne, parecchie innamorate di lui. Quale altro<br />
detenuto può vantare un simile primato? Nei limiti<br />
<strong>del</strong> possibile, e tenuto conto che si aggrappa disperatamente<br />
all’intuito, essendo semianalfabeta, tenta di evitare<br />
scivoloni. Ma qualcuno, inevitabilmente, gli scappa.<br />
Quando gli chiedono di raccontare l’irruzione <strong>del</strong>la<br />
polizia a Vigevano, dov’era in compagnia di Valeria Fusè,<br />
gli piace fare il James Bond di provincia.<br />
120<br />
– È vero, <strong>signor</strong> <strong>Mesina</strong>, che quando i carabinieri<br />
hanno sfondato la porta, lei era in camicia e calzoni?<br />
«No, senza».<br />
Strana caduta di stile, questa, perché il personaggio<br />
– timido e riservato nonostante una forte carica di narcisismo<br />
– non ama entrare nei dettagli <strong>del</strong>le sue avventure,<br />
non adopera neppure un linguaggio volgare. Certo<br />
che apparire gli piace, tanto più che non gli chiedono<br />
di farlo per la gloria. E lui, che deve costruirsi un piccolo<br />
capitale, vende ricordi e memorie solo per amatori.<br />
Non fa sconti, insomma.<br />
Se deve fare una gentilezza, allora rinuncia volentieri<br />
a qualunque compenso. Qualche volta l’ha fatto. Quando<br />
Maurizio Costanzo l’ha invitato a registrare una<br />
puntata <strong>del</strong>la trasmissione che teneva settimanalmente<br />
in una tivù di Cagliari, Videolina, accetta con entusiasmo.<br />
Sempre che il Tribunale di sorveglianza autorizzi<br />
la trasferta.<br />
Nulla osta. Ed ecco <strong>Mesina</strong> sbarcare all’aeroporto<br />
di Elmas. In tasca ha un permesso di tre giorni. Mentre<br />
si avvicina a un’auto che dovrà accompagnarlo in albergo,<br />
la fabbrica <strong>del</strong> mito gli tributa onori. Molte persone<br />
lo salutano con simpatia, altre lo bloccano e gli stringono<br />
la mano. Un divo, l’equivalente di un calciatore al ritorno<br />
da una grande partita. «Ciao Graziano». Poco<br />
più tardi succede anche durante la visita a un giornale<br />
(«L’Unione Sarda»), accoglienza davvero calda. Durante<br />
una chiacchierata coi tipografi scopre tra l’altro il<br />
proprietario di un mulo che aveva rubato durante la fuga<br />
con lo spagnolo Atienza. «Ci è stato utile, quel mulo.<br />
Poi ve l’ho rimandato a casa. Non era un furto, soltanto<br />
un prestito». Risate, ancora strette di mano, molti auto-<br />
121
grafi. Qualcosa <strong>del</strong> genere, così piena e partecipata, avverrà<br />
molti mesi più tardi quando visiterà il giornale un<br />
ex Capo di Stato, Francesco Cossiga.<br />
In albergo, mentre sta cenando con alcuni amici,<br />
<strong>Mesina</strong> riceve la visita di due nipoti che gli annunciano<br />
un grande seguito; nella hall ci sono una ventina di ragazzi,<br />
amici loro, che vogliono conoscerlo. Benissimo,<br />
appuntamento al bar <strong>del</strong>l’albergo per una bicchierata e<br />
presentazioni ufficiali. È evidentissimo, durante quell’incontro,<br />
quale sia la forza e la suggestione di un protagonista<br />
<strong>del</strong>la cronaca. Cronaca nera, sicuro, ma non fa<br />
differenza.<br />
La mattina successiva, negli studi <strong>del</strong>l’emittente,<br />
l’entusiasmo fa il bis. Maurizio Costanzo, navigatore di<br />
lungo corso <strong>del</strong> mare <strong>del</strong>lo spettacolo, tradisce un po’ di<br />
emozione nel conoscerlo. E gli mostra subito molta simpatia.<br />
A uno degli ospiti <strong>del</strong>la puntata, un professore<br />
universitario accusato di non far nulla per consentire<br />
l’accesso degli handicappati in facoltà, fa arrivare uno<br />
scherzoso ultimatum di <strong>Mesina</strong>. Che avverte: «Tra un<br />
mese torno e ci vediamo, professore». Il dialogo, che<br />
pure ha un tono cameratesco, non piace al docente e<br />
men che meno alla città istituzionale. Non si può consentire<br />
a un ex bandito di minacciare un onesto cittadino.<br />
Quello che dà fastidio sono soprattutto gli applausi,<br />
la reazione <strong>del</strong> pubblico.<br />
Comincia Fateh Kassam: «Non avete capito, non<br />
avete capito nulla. <strong>Mesina</strong> non è credibile, è un uomo<br />
che ha ucciso. E voi, quando appare in televisione da<br />
Costanzo, lo applaudite. Perché, spiegatemi perché?»<br />
C’è pure l’aggravante <strong>del</strong>la non umiltà, <strong>del</strong>l’incapacità<br />
di chiedere perdono. <strong>Mesina</strong> era e resta un omicida per<br />
122<br />
molte persone: il fatto che abbia scontato fino in fondo<br />
la sua pena, che possa avere espiato (come si dice) è questione<br />
formale, sciocchezze <strong>del</strong>la letteratura giuridica.<br />
Ciò che irrita e indigna una sonnolenta minoranza silenziosa<br />
è poi la simpatia suscitata da un ergastolano assassino.<br />
Che piaccia o no, la gente è con lui. Con Raffaella<br />
Carrà e le soap opera, ma anche con lui. Nessuno che si<br />
attardi a domandarsi le ragioni di questo successo: se i<br />
punti di riferimento sono i calciatori e i drammi in diretta<br />
televisiva, la tragedia privata raccontata minuto per<br />
minuto, perché mai non dovrebbe essere un eroe questo<br />
sardo un po’ tarchiato che ha passato un’esistenza in<br />
prigione? Intorno ha l’aura <strong>del</strong> criminale gentiluomo,<br />
generoso e incapace di fare <strong>del</strong> male. Non fosse per un<br />
<strong>del</strong>itto giovanile, correrebbe il rischio di poter fare domanda<br />
d’iscrizione al Rotary.<br />
A meno di un anno dalla libertà riconquistata, il suo<br />
carattere salta fuori da una vicenda minima, una disobbedienza<br />
al regime imposto dal Tribunale di sorveglianza.<br />
Violando le disposizioni <strong>del</strong>la magistratura che<br />
gli vietano di uscire dal circondario di Asti, <strong>Mesina</strong> viene<br />
fermato in un ristorante a Parma. Con sé ha una valigetta<br />
che contiene dieci milioni in contanti, in una tasca<br />
<strong>del</strong>la giacca i carabinieri trovano una busta con la fotografia<br />
di un pubblico funzionario <strong>del</strong>la regione Emilia<br />
che ha avuto qualche problema con la giustizia. In un<br />
baleno tornano sui giornali i titoli di scatola: Mistero a<br />
Parma. Grazianeddu rischia il carcere. «Dai e dai, il<br />
mio è solo uno sconfinamento di pascolo», dice. «Sono<br />
uscito dal tancato che mi aveva assegnato il giudice Fornace».<br />
In questo frangente le battute non fanno neppure<br />
sorridere: che ci faceva <strong>Mesina</strong> fuori dalla riserva?<br />
123
Perché quella domenica di settembre, san Pacifico, ha<br />
corso seriamente il rischio di tornare in galera in via definitiva.<br />
«Avevo appuntamento con un mio cugino che abita<br />
là. Sto cercando lavoro». E le foto? «Quali foto?» <strong>Mesina</strong><br />
mente su tutta la linea. Neppure una parola si avvicina,<br />
sia pure vagamente, alla verità. Cosa nasconde? L’aspetto<br />
singolare e inquietante è che non sia stato arrestato.<br />
I soldi in valigia erano puliti? «Pulitissimi. Soldi<br />
di un’intervista. L’ho dimostrato, altrimenti sarei uscito<br />
con le manette dalla caserma». Che senso ha tenere dieci<br />
milioni in contanti come bagaglio a mano? «Non mi<br />
fido. La mia casa a Crescentino è una specie di colabrodo.<br />
Circola brutta gente di questi tempi». Meglio far<br />
finta di avere un portafoglio gonfio e portarselo appresso.<br />
Anche se è grande e, in un certo senso, imbarazzante.<br />
Ma coi ladri che ci sono in giro, meglio non fidarsi. E<br />
reggere il colpo di un cugino («cugino in non so che grado»)<br />
che spazza via senza pietà un fragilissimo alibi.<br />
Graziano cercava lavoro da quelle parti? Non gli risulta.<br />
Avevano un appuntamento? Non esattamente. Alle<br />
11 <strong>del</strong> mattino il suo telefono è squillato, sono Graziano<br />
ti devo parlare. Un’ora dopo era da me.<br />
Solo? No, in compagnia di un amico. Giuseppe <strong>Mesina</strong>,<br />
titolare <strong>del</strong>la spaghetteria Mariposa, un passo da<br />
piazza Garibaldi e dunque dal Tribunale, dice di non sapere<br />
nulla a eccezione di una specie di carica dei carabinieri.<br />
Mancava qualche minuto alle 14, i clienti, una<br />
ventina, l’occhio felicemente spento di chi è arrivato alla<br />
frutta dopo un buon pranzo, quando appaiono tre <strong>signor</strong>i<br />
in divisa e, subito dopo, una decina in borghese.<br />
Grosso modo, un carabiniere ogni due avventori. «Il<br />
124<br />
mio locale è frequentato da gente rispettabile, mi ha dato<br />
molto fastidio quel che è accaduto». E che è accaduto?<br />
Nulla di grave. Salvo che tutti, nessuno escluso, sono<br />
accuratamente perquisiti. Minuti di tensione, tavolo<br />
per tavolo, vengono fatte aprire borse, controllati portafogli<br />
e documenti. Che c’entrano gli altri clienti col solito<br />
sardo <strong>del</strong> tavolo in fondo? Niente, ma non si sa mai.<br />
Con <strong>Mesina</strong>, che viene <strong>signor</strong>ilmente portato via, la<br />
cautela non è mai troppa.<br />
Mercoledì 14 ottobre 1992, l’imputato ha scarne dichiarazioni<br />
da fare. Esordisce dicendo che la sua vita è<br />
una galera; una galera soltanto un po’ più grande di<br />
quelle che era abituato a frequentare. Non l’aveva messo<br />
in conto, ma le misure restrittive <strong>del</strong>la sorveglianza<br />
speciale sono intollerabili: divieto di uscire da casa prima<br />
<strong>del</strong>le sei <strong>del</strong> mattino, rientro non più tardi <strong>del</strong>le 23 e<br />
ogni giorno firma in caserma o in questura. «D’accordo<br />
non dovevo andare a Parma, ma non ho fatto nulla di<br />
male. Non posso continuare a vivere come se fossi ancora<br />
in carcere. Perciò non fuggo, sto al mio posto.<br />
Non credo che per una sciocchezza come questa possano<br />
decidere di sbattermi nuovamente dentro». <strong>Mesina</strong><br />
finge di non capire che, a parte il fastidio <strong>del</strong>le sue prigioni,<br />
il Tribunale vuole sapere altro: perché aveva<br />
quelle foto? La vicenda dei dieci milioni viene nel frattempo<br />
chiarita. «Danaro che apparteneva legittimamente<br />
all’imputato».<br />
Si tratta, ed è il primo <strong>caso</strong> in Italia, di revocare la<br />
condizionale a un detenuto condannato all’ergastolo.<br />
Per un perverso segno <strong>del</strong> destino, rientrando in carcere<br />
<strong>Mesina</strong> non ha più la possibilità di uscirne, visto che<br />
ha una condanna a vita. Al di là <strong>del</strong>la sorte di un uomo, è<br />
125
in discussione anche un principio giuridico contraddittorio:<br />
un ergastolano non può, di fatto, ottenere i benefici<br />
<strong>del</strong>la legge che prevede scarcerazioni per buona<br />
condotta. Per certi versi, a complicare le cose arriva anche<br />
una puntualizzazione <strong>del</strong>la magistratura di Parma<br />
che fa sapere: primo, <strong>Mesina</strong> non è indagato; secondo, il<br />
suo ruolo, di testimone, può considerarsi esaurito. In altre<br />
parole, nulla da contestare.<br />
Il mistero è tutto legato alle foto. Il presidente <strong>del</strong><br />
Tribunale, Pietro Fornace, decide di prendere tempo e<br />
solleva un’eccezione di costituzionalità. La proposta,<br />
cara al procuratore generale, di revocare la libertà condizionale<br />
non gli piace. «Decideremo indipendentemente<br />
dal risultato <strong>del</strong>l’inchiesta di Parma. Comunque<br />
vadano le cose, disporremo prescrizioni più severe;<br />
provvedimenti che si adattino alla personalità di <strong>Mesina</strong>,<br />
un uomo che ritiene di essere ancora vitale, che non<br />
vuole fare il pensionato». Il colpo di scena finale salva<br />
tutto e tutti quando le cose sembrano mettersi male.<br />
<strong>Mesina</strong> però tiene la bocca cucita, su quelle foto non dice<br />
una parola. Fino a quando non si presenta spontaneamente<br />
a deporre un suo vecchio compagno di carcere.<br />
E confessa d’essere stato lui a consegnare quelle foto<br />
a Graziano. Ritraggono un funzionario pubblico all’uscita<br />
di un night insieme a qualcuno. <strong>Mesina</strong> ha soltanto<br />
il compito di consegnarle, fare il postino per quello che<br />
assomiglia a un avvertimento, una minaccia, un ricatto.<br />
Ricatto che lo vede, come viene accertato, spettatore,<br />
assolutamente fuori gioco.<br />
Anziché tenere tutti col fiato sospeso, non poteva dire<br />
la verità subito? Risponde mostrando il lato imperscrutabile<br />
<strong>del</strong> suo carattere: «Non ho mai fatto la spia,<br />
126<br />
non inizierò adesso». Se l’ex compagno di cella non si<br />
fosse fatto vivo, avrebbe pagato in silenzio. «Quando<br />
un amico ti chiede un favore, non devi stare a chiedere,<br />
a domandare. Un favore lo fai o non lo fai. A me è stato<br />
chiesto di consegnare quelle foto, niente di più».<br />
È un suo principio da sempre. Non ha voluto venir<br />
meno all’impegno neppure considerando molto probabile<br />
l’ipotesi di un rientro in carcere. La piccola disavventura<br />
di Parma – che si concluderà alla fine con un irrigidimento<br />
<strong>del</strong>le già severe misure restrittive per quanto<br />
riguarda movimento e orari – conferma una verità<br />
che <strong>Mesina</strong> ha ripetuto ossessivamente: «Non sono<br />
cambiato». Un messaggio che, più che a se stesso (visto<br />
che si conosce bene), sembra indirizzato ad altri. Rispetto<br />
al tumultuoso passato di evasioni, sequestri e<br />
conflitti a fuoco, non è cambiato neppure l’elemento<br />
<strong>del</strong>la spettacolarità. Graziano vuole una platea, ha bisogno<br />
di ostentare impunibilità e sicurezza come un<br />
balente di paese alle prese con un furto di bestiame.<br />
C’è soprattutto vanità (e una buona dose di presunzione)<br />
quando decide durante il sequestro Kassam di<br />
utilizzare tre anelli molto, molto particolari in vista degli<br />
incontri coi fuorilegge. Li acquista ad Asti in una<br />
gioielleria dove, secondo la magistratura cagliaritana,<br />
ha investito una parte dei suoi risparmi, i proventi di interviste<br />
e ricordi a puntate. Oro giallo, molto vistoso, il<br />
primo anello è un ramarro con gli occhi di rubino; il secondo<br />
un serpente, il terzo una pantera. <strong>Mesina</strong> se ne<br />
serve per marchiare i fuorilegge incontrati negli abboccamenti.<br />
Poiché deve discutere con banditi incappucciati<br />
e comunque irriconoscibili, vuole la certezza di<br />
parlare sempre alla stessa persona. Così al primo ap-<br />
127
puntamento arriva con l’anello-sigillo: permette un timbrino<br />
sul polso? Pare che, superato l’attimo di sorpresa,<br />
i rapitori non abbiano avuto nulla in contrario. Se tanto<br />
bastava per dare sicurezza all’emissario di famiglia, perché<br />
non accontentarlo?<br />
Chissà da quale film, da quale magazzino <strong>del</strong>l’avventura<br />
è stata pescata l’idea degli anelli. Certo è che a <strong>Mesina</strong>,<br />
alle prese con una vicenda <strong>del</strong>icatissima che potrebbe<br />
fargli avere la grazia o spedirlo al cimitero, piace<br />
da impazzire. Quei tre anelli avrebbe voluto farli vedere<br />
all’agente <strong>del</strong> Sid che molti anni prima l’aveva fatto crepare<br />
d’invidia: «La vedi questa penna? È una pistola».<br />
Nel reparto giocattoli d’una fantasia che non ha memoria<br />
<strong>del</strong>l’infanzia (perché infanzia non ne ha, in realtà,<br />
mai avuto), gli anelli sono un innocente capriccio. Chi li<br />
porta ha l’impressione d’essere il protagonista di una<br />
grande cavalcata, piena di trabocchetti e di perfidie. A<br />
guardar bene, c’è forse anche un <strong>del</strong>irio di onnipotenza.<br />
La libertà, riacquistata dopo tanto tempo, lo scaraventa<br />
sulla ribalta di una storia che tiene il Paese col fiato sospeso.<br />
Non è bellissimo tutto questo? È la favola di un<br />
ex bandito che si trasforma in principe per salvare un<br />
bimbo rapito.<br />
128<br />
XI<br />
La notte <strong>del</strong>le menzogne<br />
La notte <strong>del</strong>le menzogne comincia presto quel 10<br />
luglio. Comincia prima che il sole cali e sui monti intorno<br />
al Cedrino s’affaccino circa trecento uomini, tute<br />
mimetiche, infrarossi, messaggi telefonici in codice.<br />
Un’operazione gigantesca. E attorno migliaia di soldati<br />
impegnati nell’operazione Fortza Paris. Il conto alla<br />
rovescia per liberare Farouk Kassam inizia di primissimo<br />
pomeriggio, quando il sostituto procuratore Mauro<br />
Mura atterra a Nuoro con un elicottero dei carabinieri.<br />
Aria incandescente, il lato peggiore <strong>del</strong>la lunga estate<br />
sarda. Dov’è Graziano <strong>Mesina</strong> in quelle ore? «Se ha<br />
giocato un ruolo in questa vicenda, è un ruolo di disturbo»,<br />
spara il capo <strong>del</strong>la polizia Parisi. Ma è la logica <strong>del</strong><br />
dopo, quella che fa pensare a milioni d’italiani che un ex<br />
bandito abbia beffato tutti, da solo. È stato lui a liberare<br />
Farouk oppure è attendibile la versione ufficiale?<br />
Quella mattina a Olbia accade qualcosa che imprime<br />
una svolta decisiva alle indagini sul sequestro di un<br />
bambino. «Li abbiamo individuati, ma non abbiamo<br />
voluto prenderli per non mettere a repentaglio la vita<br />
<strong>del</strong>l’ostaggio». Nell’insistenza <strong>del</strong> capo <strong>del</strong>la polizia c’è<br />
un filo scoperto. Davvero Farouk non era libero dalle<br />
129
23?, davvero è stato trovato in aperta campagna dalle<br />
forze <strong>del</strong>l’ordine?<br />
La verità su quella notte forse non si saprà mai. Ricostruirla<br />
serve tuttavia a capire come si sono mossi i protagonisti<br />
di questa storia, dove hanno cercato di bluffare,<br />
in che modo hanno tentato di darsi scacco matto.<br />
Messo alle corde da una notorietà che cominciava a<br />
diventare ingombrante, lo Stato aveva bisogno di liquidare<br />
<strong>Mesina</strong> e riprendere le redini <strong>del</strong> gioco. Dall’altro<br />
fronte, <strong>Mesina</strong> aveva bisogno invece di portare personalmente<br />
a termine l’operazione. Era qualcosa che valeva<br />
la grazia. E forse di più, visto che in quei giorni si raccontava<br />
una strana leggenda. Voci di piazza dicevano<br />
che poiché il figlio <strong>del</strong>l’Aga Khan era invalido, inchiodato<br />
su una sedia a rotelle, non sarebbe potuto diventare<br />
il pontefice degli ismaeliti. Quindi, al momento <strong>del</strong><br />
ritorno alla terra di Sua Altezza Karim, ci sarebbe stato<br />
un problema di successione. Farouk, per via di una parentela<br />
molto lontana e mai chiarita fino in fondo, veniva<br />
indicato come il possibile futuro Aga Khan. Riportarlo<br />
a casa significava, di conseguenza, compiere una<br />
missione di grande rilevanza politico-religiosa.<br />
Non si sa se <strong>Mesina</strong> abbia creduto a questa storia. A<br />
ridosso <strong>del</strong> 10 luglio aveva altro da pensare. Aveva soprattutto<br />
paura. «Paura che finisse in un bagno di sangue».<br />
Aveva appreso che stavano per entrare in azione<br />
le teste di cuoio, reparti speciali. Questo significava<br />
guerra. E lui ne conosceva bene il significato. Una sera<br />
di giugno <strong>del</strong> ’67 aveva ingaggiato uno spaventoso conflitto<br />
a fuoco nella vallata di Sorasi. Stava tornando al<br />
suo rifugio dopo un incontro con l’emissario di un<br />
ostaggio, quando si è accorto di essere circondato. Bi-<br />
130<br />
lancio d’orrore: tre morti, due agenti (che si erano colpiti<br />
a vicenda) e il giovane amico di Graziano, lo spagnolo<br />
Miguel Atienza. <strong>Mesina</strong> ha poi riferito di aver<br />
sparato circa 900 dei colpi che aveva a disposizione,<br />
lanciato almeno venti <strong>del</strong>le trenta bombe che aveva con<br />
sé, l’arsenale di un latitante.<br />
Molti anni dopo, quel giovedì di luglio <strong>del</strong> ’92, Graziano<br />
è sicuramente tornato con la mente a Sorasi. Ha<br />
rivisto Atienza alzarsi all’improvviso da un cespuglio e<br />
cadere a terra, colpito a un fianco. Aveva appena fatto in<br />
tempo a gridare «ci arrendiamo». Pochi minuti più tardi,<br />
quando la morsa dei “baschi blu” stava facendosi<br />
sempre più stringente, ci aveva riprovato: «Non sparate,<br />
ci arrendiamo». A venti metri di distanza, protetti<br />
dai macchioni di lentischio c’erano ragazzi più spaventati<br />
dei banditi, ragazzi piombati in uno scontro che<br />
avrebbe inevitabilmente lasciato qualcuno sul terreno.<br />
«Venite a prenderci», urlava Graziano mentre Miguel,<br />
ferito a morte, implorava: «Non uccidere, promettimi<br />
che non li ucciderai». Aveva pensato in tutt’altro modo<br />
alla sua avventura d’evaso assieme al più famoso bandito<br />
sardo, una miscela di romanticismo e di paura. Per<br />
questo si era sollevato a fatica una seconda volta facendosi<br />
raggiungere da una raffica di mitra alla schiena.<br />
Ripensando a quello scontro furioso e sanguinario,<br />
<strong>Mesina</strong> rammenta di aver sentito piangere. C’era qualcuno<br />
che non aveva resistito all’emozione e intanto che<br />
stava appostato, piangeva. Forse era un tentativo di allontanare<br />
la paura, spingere lontano da quelle campagne<br />
un terrore fatto di pallottole che fischiavano tagliando<br />
l’aria. Come nei film. Nel processo che è seguito<br />
al conflitto a fuoco, <strong>Mesina</strong> è stato assolto dall’accusa di<br />
131
aver ucciso i due agenti. Ma questo non è bastato a cancellare<br />
l’ombra terribile di quella sera. Ecco perché, a<br />
distanza di tanti anni, ha fatto il possibile per aggirare e<br />
sventare il blitz che avrebbe dovuto portare alla cattura<br />
dei rapitori di Farouk.<br />
Caldo, caldo infernale e un’umidità che incolla i vestiti<br />
alla pelle. C’erano trentasette gradi all’ombra quel<br />
10 luglio <strong>del</strong> ’92. Pino Scaccia, inviato <strong>del</strong> Tg1 è a Orgosolo<br />
da due giorni. Vuole incontrare <strong>Mesina</strong> e si fa accompagnare<br />
da un fotografo di Olbia che lo conosce<br />
molto bene. Insieme fanno una passeggiata lungo Corso<br />
Repubblica, parlano <strong>del</strong> sequestro, <strong>del</strong>la possibilità<br />
che nelle ore successive l’ostaggio torni a casa. È a questo<br />
punto che Graziano ha un’intuizione che viene da<br />
lontano, dalla frequentazione carceraria con esponenti<br />
<strong>del</strong> terrorismo politico. Sorprendendo il suo interlocutore,<br />
chiede: «Ce l’hai un telefonino? Dammi il numero.<br />
Ti chiamo appena il bambino è libero, così tu puoi dare<br />
la notizia in televisione».<br />
Quella informazione è arrivata alle 23,05. Pochi minuti<br />
dopo, la prima rete televisiva ha interrotto le trasmissioni:<br />
“Farouk Kassam, il bimbo sequestrato circa<br />
sei mesi fa a Porto Cervo, è stato liberato”. Trillano i telefoni<br />
<strong>del</strong> ministero <strong>del</strong>l’Interno, esplode la rabbia di<br />
Stato: “Non è vero, Farouk non è affatto libero”. A chi<br />
credere? Rintracciato a Orgosolo, <strong>Mesina</strong> gioca al rilancio<br />
<strong>del</strong>la sua immagine: «Vedete un po’ voi a chi credere.<br />
Io vi dico che il bambino è sano e salvo, una persona<br />
di mia fiducia l’ha consegnato a un rappresentante <strong>del</strong>la<br />
famiglia Kassam».<br />
La confusione, in quei minuti, è grande. Non bisogna<br />
sorprendersene. Nei giorni immediatamente prece-<br />
132<br />
denti il rilascio c’è tra l’altro a Orgosolo troppa gente,<br />
soprattutto troppa strana gente. Compreso un milanese<br />
che si presenta da <strong>Mesina</strong> come fratello di un colonnello<br />
dei carabinieri. «Voglio andare al Supramonte, lei deve<br />
dirmi con chi e con che cosa». Facilissimo: «Sul Supramonte<br />
vada da solo. Sta là, lo vede? Piuttosto, si ricordi<br />
di portarsi dietro un chilo di sale grosso. Casomai dovesse<br />
perdersi, ha i chicchi per segnare la strada». Dove<br />
finisce l’incursione di personaggi folcloristici e comincia<br />
quella dei servizi di sicurezza?, dove finisce la passerella<br />
dei megalomani e comincia quella <strong>del</strong> Sisde? Tra<br />
l’altro, <strong>Mesina</strong> non vuole confessarlo neppure a se stesso,<br />
ma è infuriato: si sente tradito dal padre <strong>del</strong>l’ostaggio<br />
(che ha imboccato una trattativa parallela), sa che<br />
mai e poi mai potrà sedersi al tavolo <strong>del</strong>la vittoria. «Ve<br />
l’immaginate una conferenza stampa con me, Parisi,<br />
Mura e Farouk?». Impossibile, sa bene che le forze <strong>del</strong>l’ordine<br />
non possono stringere alleanze con uno come<br />
lui. Anzi, stanno tentando di metterlo ai margini <strong>del</strong>la<br />
vicenda per evitare che passi come un salvatore <strong>del</strong>la<br />
patria.<br />
Bisogna tenere presente questi particolari per capire<br />
l’intreccio degli avvenimenti nel giorno più lungo <strong>del</strong><br />
rapimento. La verità di Graziano <strong>Mesina</strong>, così come avviene<br />
nella polemica sul pagamento <strong>del</strong> riscatto, è molto<br />
lontana da quella ufficiale. Dice di aver saputo che polizia<br />
e carabinieri si apprestavano a catturare la banda.<br />
L’avevano individuata, accerchiata e, pian piano, avanzavano<br />
verso la prigione di Farouk. In un primo momento<br />
l’offensiva era prevista per lunedì, poi era stata<br />
rinviata per ragioni sconosciute. Probabilmente si stava<br />
studiando il modo di ridurre i rischi al minimo, cattura-<br />
133
e i banditi senza perdite e, soprattutto, fare in modo<br />
che il bambino ne uscisse vivo.<br />
Che fare, allora? Attraverso una persona di fiducia,<br />
<strong>Mesina</strong> dà appuntamento ai fuorilegge. Si tratta <strong>del</strong>l’ultimo<br />
incontro perché, a suo dire, il riscatto è già stato<br />
pagato. Concorda la liberazione <strong>del</strong> piccolo e, quel che<br />
più conta, il nome <strong>del</strong>la persona alla quale deve essere<br />
consegnato. Dettaglio finale è la definizione di un piano<br />
per depistare le forze <strong>del</strong>l’ordine attirandone l’attenzione<br />
su un versante opposto a quello <strong>del</strong> rilascio. Chi, se<br />
non <strong>Mesina</strong> personalmente, può fare da esca? Il suo racconto<br />
va avanti senza pause: «Erano convinti che, pedinando<br />
me, sarebbero arrivati al bambino». Per questo<br />
Graziano esce tardi quella sera e si avvia a passo sicuro<br />
verso la campagna attraversando, dice lui, uno schieramento<br />
militare impressionante. «C’era un uomo dietro<br />
ogni cespuglio, bisognava fare attenzione a non sfiorarli».<br />
Marcato a distanza di centimetri, s’intrufola nella<br />
boscaglia lasciando credere che di li a poco apparirà<br />
qualcuno <strong>del</strong>la banda. A qualche chilometro di distanza,<br />
intanto, Farouk viene liberato. <strong>Mesina</strong>, che ha programmato<br />
i tempi con precisione, a quel punto rientra a<br />
casa e chiama, come promesso, Pino Scaccia. «Il bambino<br />
è libero, puoi darne notizia in tivù». Per rafforzare la<br />
versione, rivela anche di aver telefonato subito dopo a<br />
Marion Kassam: «Signora, Farouk sta tornando a casa,<br />
è contenta?»<br />
Il confine tra verità e bugie si fa sottile. E partendo<br />
proprio da quest’ultima telefonata, si tenta di demolire<br />
la versione <strong>Mesina</strong>. «Quella chiamata effettivamente c’è<br />
stata, ma soltanto la mattina dopo, quando il bambino<br />
dormiva già da molte ore nel suo letto».<br />
134<br />
Ma “mattina dopo” cosa significa? A che ora squilla<br />
il telefono nella villa di Pantogia? Mentre i giornali sollevano<br />
un polverone senza precedenti, mentre Montanelli<br />
dice ai suoi lettori “ne sono sicuro, l’ha liberato<br />
<strong>Mesina</strong>”, parte la controffensiva <strong>del</strong>la magistratura. Il<br />
primo rimprovero riguarda “la stampa che non crede<br />
alle istituzioni”.<br />
Al di là <strong>del</strong> fatto che gli anni bui <strong>del</strong>le veline sono fortunatamente<br />
alle nostre spalle, non si tratta di mancare<br />
di rispetto alle istituzioni, al lavoro di magistratura, polizia<br />
e carabinieri. Si tratta più semplicemente, di rivendicare<br />
il diritto alla verità, insomma a penetrare in quei<br />
risvolti che “non saprete mai”, per dirla con le parole di<br />
Fateh Kassam.<br />
Il procuratore <strong>del</strong>la Repubblica, Franco Melis, riconosce<br />
a <strong>Mesina</strong> qualche merito. «Non credo che avrebbe<br />
tagliato l’orecchio a Farouk. È lontano anni luce dalla<br />
nuova criminalità». Cioè da una ferocia condannata<br />
senza appello dal galateo <strong>del</strong> banditismo. Aggiunge di<br />
non aver avuto alcun incontro con l’ex ergastolano che,<br />
nelle interviste, adopera frasi ambigue, strani ammiccamenti.<br />
«Ribadisco con la massima determinazione che il<br />
<strong>Mesina</strong> non ha avuto contatti di alcun genere con questa<br />
procura e con le forze <strong>del</strong>l’ordine. Non posso escludere<br />
che egli possa essersi attivato per ottenere informazioni<br />
o altro. Se lo ha fatto, è stato sollecitato da terzi».<br />
In un italiano meno ufficiale e più terra terra, il procuratore<br />
ha detto che le forze <strong>del</strong>l’ordine si sono guardate<br />
bene dall’avere qualunque tipo di collaborazione con<br />
<strong>Mesina</strong>. Che, se qualche informazione ha raccolto, è<br />
perché gliel’ha chiesta il padre <strong>del</strong> bambino e non certo<br />
la magistratura. La polemica è dura, talmente dura che<br />
135
si profila perfino uno scontro tra la Procura di Cagliari e<br />
il giudice Fornace di Torino che nel frattempo ha allentato<br />
le misure restrittive alla libertà vigilata di <strong>Mesina</strong> finendo<br />
addirittura per ringraziarlo a cose fatte.<br />
Detto questo, il procuratore Melis propone minuto<br />
per minuto l’altra ricostruzione dei fatti, quella <strong>del</strong>lo<br />
Stato, <strong>del</strong>le istituzioni snobbate dalla stampa. Per cominciare,<br />
la magistratura non è andata dietro <strong>Mesina</strong><br />
per scoprire dove stavano i banditi. I rapitori di Farouk<br />
erano stati grosso modo individuati già da qualche giorno<br />
e si stava progettando di farli finire nella rete. Come?<br />
Con un attacco di reparti speciali, rischi minimi e altissima<br />
probabilità di successo. Poi si decide per una sorta<br />
di stato d’assedio che costringa la banda ad arrendersi.<br />
Alle 0.45 <strong>del</strong>l’11 luglio – il nuovo giorno è cominciato<br />
da tre quarti d’ora – mentre l’accerchiamento continua,<br />
una pattuglia trova Farouk. È solo, non è bendato né incappucciato.<br />
In quel momento e soltanto in quel momento,<br />
l’ostaggio può considerarsi libero. E di <strong>Mesina</strong>,<br />
che dire? «Sta barando. È un venditore di gazzosa. Si<br />
mette le penne <strong>del</strong> pavone. Che l’altra sera ci fosse movimento<br />
lo avevano capito tutti. Dunque <strong>Mesina</strong>, che<br />
sapeva <strong>del</strong>la liberazione imminente <strong>del</strong> bambino, ha<br />
giocato d’anticipo». In pratica, avrebbe dato una notizia<br />
verosimile che sarebbe diventata vera solo cento minuti<br />
più tardi. Perché l’abbia fatto, è fin troppo evidente:<br />
riscattare una vita da bandito, conquistare la grazia e<br />
la benevolenza degli italiani.<br />
Tenuto conto <strong>del</strong>la scaltrezza <strong>del</strong> personaggio, la<br />
tesi <strong>del</strong> procuratore <strong>del</strong>la Repubblica non appare assurda.<br />
Se fosse vera, però, le cosiddette istituzioni<br />
avrebbero ben poco da esultare. Saremmo di fronte a<br />
136<br />
una beffa. <strong>Mesina</strong>, che non ha fatto assolutamente<br />
nulla per ottenere il rilascio di Farouk, è riuscito ad attribuirsi<br />
i meriti <strong>del</strong>le forze <strong>del</strong>l’ordine utilizzando la<br />
prima rete televisiva nazionale e il nuovo totem degli<br />
anni ’90, il telefonino cellulare. Sapendo che non<br />
avrebbe mai potuto sedersi al fianco <strong>del</strong>le autorità per<br />
la conferenza stampa post-liberazione, ha pensato di<br />
farne lui, una brevissima, addirittura fulminante, dai<br />
microfoni <strong>del</strong> Tg1 attraverso un improvvisato e ignaro<br />
portavoce, Pino Scaccia. Se questo non fosse vero,<br />
meglio archiviare la notte <strong>del</strong>le menzogne. In <strong>caso</strong><br />
contrario, bisognerebbe riconoscere a <strong>Mesina</strong> una geniale<br />
creatività criminale.<br />
Comunque non tutto torna, troppe circostanze appaiono<br />
sfuggenti e la verità parallela, quella <strong>del</strong>lo Stato,<br />
in qualche passo tentenna acrobaticamente. Le contraddizioni<br />
sono parecchie ed evidenti. Vincenzo Parisi,<br />
il capo <strong>del</strong>la polizia, assicura che la banda era stata individuata<br />
e che i fuorilegge non erano stati bloccati «per<br />
non mettere a repentaglio la vita <strong>del</strong> bambino». Il giorno<br />
dopo il rilascio <strong>del</strong>l’ostaggio, quando gli domandavano<br />
se è vero che si stava sul serio addosso ai banditi, il<br />
procuratore <strong>del</strong>la Repubblica risponde: «Forse c’è stato<br />
un rastrellamento, ma non ci è stato detto nulla». Ma<br />
come, la prigione viene individuata e nessuno lo comunica<br />
ai titolari <strong>del</strong>la indagine? Melis lascia pensare a una<br />
vaga sensazione di disagio quando ammette: «Avremmo<br />
dovuto saperlo». Non foss’altro perché dei rapitori<br />
si sono perse le tracce.<br />
Se è vero che era in corso un accerchiamento, organizzato<br />
e messo a punto con qualche giorno d’anticipo,<br />
come mai non s’è vista neanche l’ombra di un bandito?,<br />
137
come mai non si è riusciti a catturare nessuno? Non sono<br />
interrogativi provocatori, non è in discussione l’onestà<br />
intellettuale <strong>del</strong> procuratore <strong>del</strong>la Repubblica e tantomeno<br />
il rigore professionale di Mauro Mura, il sostituto<br />
antimafia che ha seguito dall’inizio alla fine la storia<br />
di questo rapimento. Le domande nascono spontanee<br />
ascoltando la stessa ricostruzione ufficiale e ripropongono,<br />
insieme ad alcune perplessità, il dubbio che attorno<br />
a Farouk abbia circolato troppa gente, troppa<br />
strana gente.<br />
Fateh Kassam racconta nel suo libro di aver appreso<br />
<strong>del</strong>la liberazione <strong>del</strong> figlio dal capo <strong>del</strong>la Mobile di Sassari,<br />
Antonello Pagliei, alle 0,45. Era a bordo <strong>del</strong>la sua<br />
Alfa a circa 150 chilometri da Porto Cervo quando<br />
squilla il solito telefonino. «Farouk è con me sta bene. È<br />
affamato, sembra che non mangi da giorni. Ora sta divorando<br />
un panino, una mela e una cocacola». Anche<br />
secondo il padre <strong>del</strong> bimbo, l’ostaggio è dunque libero<br />
soltanto quando manca un quarto all’una <strong>del</strong>l’11 luglio.<br />
Così gli comunicano, così riferisce.<br />
È possibile che fosse al corrente d’una trattativa<br />
parallela e, quindi, <strong>del</strong>la possibilità di un rilascio in luoghi<br />
e orari diversi da quelli ufficiali? È un altro mistero.<br />
Davanti all’ipotesi che Fateh possa aver giocato su due<br />
tavoli, il procuratore Melis dichiara che non ci crede.<br />
Ma non se la sente neppure di escluderlo.<br />
Impossibile inoltre ignorare gli aspetti, tutt’altro che<br />
secondari, che il <strong>caso</strong> Farouk fa scoppiare nella trincea<br />
istituzionale. Nella notte <strong>del</strong>le menzogne, <strong>del</strong>le conferme<br />
e <strong>del</strong>le smentite a distanza di un minuto una dall’altra,<br />
pochi hanno capito quale sia la rotta giusta. Certo è<br />
che Graziano <strong>Mesina</strong> approfitta <strong>del</strong>la confusione per<br />
138<br />
affondare i suoi colpi, per sbeffeggiare uomini e cose.<br />
«Il bambino l’ho salvato io», ripete con un sorriso fino<br />
alle orecchie.<br />
Casomai ce ne fosse bisogno, questa incredibile girandola<br />
all’italiana trascina in pista e fa ballare nuove,<br />
inquietanti comparse: si sente parlare di loro quando si<br />
affacciano i dubbi sul riscatto. Ma questo è un altro capitolo,<br />
un’altra sequenza. Serve a gettare fumo sul fumo,<br />
a intorbidire ancor più le acque. Gli elementi certi,<br />
sicuri, sono talmente pochi da lasciare il varco aperto a<br />
qualunque soluzione. Che arriverà, se arriverà, in un<br />
giorno impreciso di un anno da decidere.<br />
Comunque vadano a finire le cose, resta un’amarezza<br />
di fondo. Graziano <strong>Mesina</strong> deve essere considerato<br />
credibile fino a prova contraria. Dopo “anni ventinove<br />
e giorni sette” di reclusione ha il diritto di essere considerato<br />
un cittadino uguale agli altri. Se ha mentito, deve<br />
essere condannato, rispedito in quelle galere dove ha<br />
trascorso gran parte <strong>del</strong>la sua vita. La replica alle sue affermazioni<br />
non può essere quella squallida tiritera che,<br />
anziché rispondere fatto su fatto, colpo su colpo, rivanga<br />
un passato penitenziario che in questo contesto non<br />
ha alcun senso. Pretendere una sorta di certificato di<br />
inattendibilità soltanto perché <strong>Mesina</strong> è stato un detenuto<br />
(e, tra l’altro, un detenuto mo<strong>del</strong>lo) diventa estremamente<br />
scorretto, non serve a raggiungere la verità, a<br />
esorcizzare gli spettri che affollano questo <strong>caso</strong>.<br />
A nessuno può essere chiesto un certificato di credibilità.<br />
Neanche a chi, come Fateh Kassam, “rapisce”<br />
suo figlio subito dopo il rilascio per sottrarlo, dice, all’assalto<br />
macinatutto dei giornalisti. Salvo poi, pochissimi<br />
giorni dopo, concederlo in esclusiva ai settimanali e<br />
139
alle televisioni di Silvio Berlusconi. «È qualcosa a cui ho<br />
pensato dopo, soltanto dopo», si giustifica. Anche se diventa<br />
francamente molto difficile, è giusto credergli:<br />
non esiste prova contraria, non c’è la certezza che abbia<br />
venduto l’esclusiva sulla liberazione di Farouk in uno<br />
“scellerato” patto commerciale.<br />
Bisogna stare ai fatti. E i fatti dicono che la notte <strong>del</strong><br />
10 luglio, a ore 23,05, Graziano <strong>Mesina</strong> ha passato la<br />
palla alla tivù. È un po’ come se avesse scelto di apparire<br />
a reti unificate, come se avesse dimostrato che aveva<br />
la possibilità di prendersi la televisione pubblica. Proprio<br />
come un presidente, come un potente <strong>del</strong>la terra.<br />
Molti però questo lo hanno capito soltanto troppi giorni<br />
dopo.<br />
140<br />
XII<br />
Armi ad Asti<br />
Graziano <strong>Mesina</strong> viene arrestato la mattina <strong>del</strong> 29 luglio<br />
’93 ad Asti. Armi. «Mi hanno incastrato, dovevano<br />
farmi pagare la liberazione di Farouk Kassam», dice. Il<br />
pubblico ministero replica stizzito mentre chiede una<br />
condanna esemplare: «Per un bandito <strong>del</strong> suo calibro<br />
una pena bassa sarebbe quasi un affronto». Ma quello<br />
che gli preme sottolineare è ben altro, smontare la tesi<br />
<strong>del</strong>l’imputato, zittire le voci che parlano di trappola.<br />
«Non c’è stato complotto da parte di nessuno, tanto<br />
meno dei servizi segreti. <strong>Mesina</strong> è un <strong>del</strong>inquente abituale,<br />
seguendo la sua vocazione si è tradito».<br />
Il 10 ottobre <strong>del</strong> ’94 arriva la sentenza pesantissima:<br />
otto anni e mezzo di reclusione per “introduzione e detenzione<br />
illegale di armi da guerra”. I suoi complici, due<br />
genovesi molto speciali, se la cavano con pene al di sotto<br />
dei due anni, dunque al riparo dalla condizionale. L’avvocato<br />
Pier Navino Passeri, nominato difensore d’ufficio,<br />
accusa: «Intorno al mio cliente si respira un’aria carica<br />
di veleni, da quando sbugiardò le autorità <strong>del</strong>lo Stato<br />
e liberò il piccolo Farouk». Riappare, insomma, un<br />
vecchio scheletro che tormenterà l’intero processo con<br />
la sua presenza ingombrante e carica di misteri. <strong>Mesina</strong>,<br />
che ha abbandonato l’aula dopo alcune udienze, sem-<br />
141
a essersi definitivamente arreso. Ai carabinieri che lo<br />
accompagnano al cellulare durante una pausa <strong>del</strong> dibattimento,<br />
confida sconsolato: «Non vengo più, ormai è<br />
inutile. Hanno fatto tutto loro, completino pure l’opera,<br />
io non ci posso fare più nulla».<br />
Parte da lontano questa storia. Ha una premessa che<br />
va fatta per capire una <strong>del</strong>le chiavi interpretative. Ne<br />
parla il sostituto procuratore Francesco Saluzzo, pubblico<br />
ministero al processo di Asti. «Una vendetta da<br />
parte <strong>del</strong>lo Stato? <strong>Mesina</strong> mi disse che l’ex capo <strong>del</strong>la<br />
polizia Parisi, il giudice Mura e addirittura il ministro<br />
degli Interni, Nicola Mancino, avevano giurato di fargliela<br />
pagare. Troppi protagonisti sulla scena perché la<br />
cosa possa sembrare credibile».<br />
Non resta che rimettersi ai fatti.<br />
Rientrato nel soggiorno obbligato sulla scia <strong>del</strong>le<br />
polemiche legate al sequestro Kassam, <strong>Mesina</strong> rilascia<br />
un’intervista a un giornale di Asti: «Non mi stupirei se<br />
mi rischiaffassero dentro». Questa sgradevole sensazione<br />
lo perseguita, ne parla in ogni occasione, dovunque<br />
gli capiti di vedere gente. Si sta precostituendo un<br />
alibi? Certo è che adesso è tornato a una vita meno movimentata<br />
anche se stretta in angolo da rigorose misure<br />
di vigilanza. Trascorre parecchie ore nella casa di San<br />
Marzanotto, neanche cinque chilometri dalla città, dove<br />
fa il magazziniere per conto di Michele Quai, l’impresario<br />
edile di Fonni che, offrendogli un lavoro, l’ha<br />
fatto uscire in libertà condizionale. Un’occupazione vera<br />
e propria <strong>Mesina</strong> non ce l’ha, deve giusto badare (ma<br />
neanche tanto) agli attrezzi sistemati in garage e, quando<br />
ne ha voglia, coltivare pomodori e melanzane nel<br />
minuscolo orticello che si affaccia sulla strada provin-<br />
142<br />
ciale. Sebbene nessuno possa sostenerlo ufficialmente,<br />
è evidente che l’offerta di Quai sia un segno di solidarietà,<br />
una mano tesa verso un amico che stava da troppi<br />
anni in carcere.<br />
<strong>Mesina</strong>, che ha l’obbligo di rientrare entro una certa<br />
ora, ha un buon rapporto coi carabinieri <strong>del</strong> posto. La<br />
pattuglia incaricata di verificarne la presenza a casa, gli<br />
telefona con una mezz’ora d’anticipo. «Graziano, tra<br />
un po’ passiamo». <strong>Mesina</strong> li aspetta al balcone o sulla<br />
porta, qualche volta scambia una parola per combattere<br />
noia e solitudine, offre un bicchierino <strong>del</strong>la bottiglia di<br />
Vecchia Romagna che tiene su un pensile <strong>del</strong>la cucinotta.<br />
Non c’è moltissimo da fare, salvo osservare il passaggio<br />
veloce <strong>del</strong>le automobili o ascoltare il ronzìo permanente<br />
di zanzare giganti, più fastidiose e aggressive <strong>del</strong>le<br />
loro consorelle sarde.<br />
Di solito la mattina Graziano arriva ad Asti di buon’ora.<br />
Bussa all’appartamento di via Guttuari, proprio<br />
di fronte alla stazione ferroviaria, dove Michele Quai<br />
abita con la sua compagna Stella Bianco, il figlio Claudio<br />
e Annie, un vecchio e aristocratico levriero afgano<br />
nero. Porta la biancheria da lavare e aspetta il pranzo<br />
leggendo i giornali. Di pomeriggio, pennichella e poi rientro<br />
a San Marzanotto.<br />
I rapporti col padrone di casa sono eccellenti. Michele<br />
Quai, che ha passato i sessanta, è un sardo da manuale,<br />
bronzetto nuragico: carnagione scura, guance incavate<br />
e capelli ebano, il tutto concentrato in un’altezza<br />
che forse non va oltre il metro e sessanta. Emigrato <strong>del</strong>la<br />
prima generazione, è arrivato ad Asti nel ’62, muratore.<br />
Mattone su mattone, fatica su fatica, è riuscito con gli<br />
anni a metter su un’impresina edile che, nei momenti<br />
143
d’oro, ha avuto quattordici dipendenti. Poi l’onda lunga<br />
<strong>del</strong>la recessione ha cancellato più o meno tutto. Gli è<br />
rimasta soltanto la casa di San Marzanotto, acquistata<br />
quando sembrava che l’età <strong>del</strong> riscatto sociale non dovesse<br />
finire.<br />
Nell’estate <strong>del</strong> ’93 Michele Quai, incensurato e cittadino<br />
irreprensibile, vive di piccoli lavori; robetta che<br />
gli consente giusto di tirare a campare. Non si lamenta.<br />
Dice che i tempi sono grigi per tutti, perché dovrebbe<br />
essere fortunato lui che non lo è mai stato in<br />
vita sua? «Gente come me deve sempre lottare per stare<br />
in piedi».<br />
Alle 9,40 <strong>del</strong> 29 luglio, giovedì, è a San Marzanotto<br />
insieme a Claudio e a un geometra <strong>del</strong> Tribunale per<br />
una perizia tecnica. Alla stessa ora Stella Bianco è fuori,<br />
in giro tra i negozi di Asti a far la spesa. Graziano <strong>Mesina</strong><br />
è nell’appartamento di via Guttuari. Bussano, va ad<br />
aprire. Sul pianerottolo ci sono due <strong>signor</strong>i che fa entrare,<br />
li guida in un anditino che termina in un salotto: un<br />
divano, due poltrone, alla parete un arazzo col disegno<br />
d’una sfinge, sul comò una bottiglia artistica di liquore<br />
verde e la tivù, che troneggia vicino a vecchi orologi. I<br />
tre fanno appena in tempo a sedersi quando la porta<br />
d’ingresso viene giù, sfondata. «Polizia, fermi dove siete».<br />
Perquisizione lampo e un po’ rude. Quando rientra,<br />
Stella Bianco trova tutto sottosopra come se ci fossero<br />
ladri. «Lei non sa chi aveva in casa», dice un sottufficiale.<br />
«Chi, <strong>Mesina</strong>?», domanda lei. No, si riferiva agli<br />
altri. Chi sono gli altri? Si saprà solo qualche ora dopo<br />
che, tra stridio di gomme da filmetto americano, vengono<br />
tutti portati via.<br />
In quello stesso momento a San Marzanotto, Miche-<br />
144<br />
le Quai viene fermato dai carabinieri accanto all’ingresso<br />
di casa. «Documenti». Concluse le formalità <strong>del</strong>l’identificazione,<br />
iniziano a frugare nell’orto. Altri due,<br />
nonostante le chiavi siano a disposizione, preferiscono<br />
mandare in frantumi il vetro <strong>del</strong>la porta di un garage.<br />
Dentro, c’è la carcassa d’una vecchia macchina. Sulle<br />
prime pensano di smontarla, poi rinunciano. Troppo<br />
complicato, porta via parecchio tempo e tempo da perdere<br />
non ce n’è, neppure un minuto. Al piano terra rovistano<br />
un salottino per passare, subito dopo, alla cucina,<br />
una stanzetta quadrata con un piccolo tavolo al centro.<br />
Danno un’occhiata dappertutto, dietro i mobili, nei<br />
cassonetti <strong>del</strong>le serrande, tra riviste ingiallite, barattoli.<br />
Che cercano? Due rampe di scale ed eccoli al primo piano<br />
dove ci sono due stanze da letto e un bagno. Stessa<br />
operazione con moto ondoso in aumento: materassi rovesciati,<br />
un grande armadio messo di traverso, via i comodini,<br />
i cassetti. Quasi fossero pezzi di un’offerta speciale,<br />
ammonticchiano disordinatamente abiti, calze,<br />
mutande, un ombrello. Scattano un paio di fotografie a<br />
un armadio bianco inutilizzato, vuoto. Nello sprint finale<br />
salgono sul sottotetto, strappano qualche telo <strong>del</strong><br />
controsoffitto. Vanno via senza aver trovato nulla, sfiorano<br />
i pomodori, quasi maturi, e scompaiono senza<br />
neppure un buongiorno. Sconcertato e infastidito, Michele<br />
Quai continua a chiedersi cosa cercassero, senza<br />
trovare una risposta. Soldi? C’erano un milione e mezzo<br />
in contanti. Puliti.<br />
Alla fine di una giornata convulsa, finalmente i nomi<br />
degli arrestati. Insieme a <strong>Mesina</strong> finiscono in carcere i<br />
due sconosciuti che erano andati a trovarlo. Uno, Domenico<br />
Anfossi, 39 anni, fa il contabile in una piccola<br />
145
azienda <strong>del</strong>l’area industriale di Genova. L’altro, Elio<br />
Ferralis, 65 anni, è titolare di una piccola agenzia di import-export.<br />
Gli inquirenti sono avari di dettagli sull’operazione.<br />
Dicono comunque che i genovesi stavano<br />
consegnando a Graziano sei caricatori di kalashnikov<br />
comprati in Svizzera. Si sono fatti precedere da una telefonata:<br />
«Abbiamo trovato sei cioccolate. Te le portiamo<br />
domattina».<br />
E la mattina, puntuali, salgono su un rapido che parte<br />
alle 7,55 dalla stazione di Genova-Brignole. Arrivano<br />
ad Asti, dove il termometro segna 35 gradi, alle 9,35. In<br />
cinque minuti coprono, a piedi, la distanza e premono<br />
un campanello in via Guttuari 5. Ferralis, che non si è<br />
mai ripreso dopo un brutto incidente stradale, è invalido<br />
e non riesce a muoversi con sicurezza per via di una<br />
paralisi alle braccia. L’amico, che non ha di questi problemi,<br />
tiene una sacca dove ci sono le “cioccolate” commissionate<br />
(così dichiarano) da <strong>Mesina</strong>. Alle loro spalle,<br />
discreti e invisibili, decine di poliziotti. Due pistole, 500<br />
cartucce, un passamontagna e (pare) un mitragliatore<br />
vengono invece trovati a San Marzanotto. Da chi e<br />
quando? Il rigore non deve essere eccessivo se quella<br />
casa, visitata e fotografata dai cronisti <strong>del</strong> quotidiano<br />
«L’Unione Sarda» dopo il primo sopralluogo, viene<br />
perquisita una seconda volta il giorno successivo. Non<br />
c’erano sigilli, indicazioni di nessun tipo che vietassero<br />
l’ingresso o comunque informassero che l’accesso era<br />
proibito ai non addetti ai lavori. Nel mostrare l’appartamento<br />
sottosopra a uso e consumo <strong>del</strong>la stampa, Michele<br />
Quai rammenta che qualche tempo prima <strong>Mesina</strong><br />
aveva notato alcune stranezze: una serratura forzata, un<br />
vetro sostituito. Anche questo è un tentativo di preco-<br />
146<br />
stituirsi un alibi per scaricare tutto sui soliti, invadentissimi<br />
servizi segreti?<br />
Molti mesi più tardi, l’avvocato Pier Navino Passeri,<br />
che nonostante sia stato nominato d’ufficio profonde<br />
grande impegno in questo difficile processo, non mancherà<br />
di farlo rilevare in aula. «Perché non è stato fatto<br />
alcun accertamento per verificare se sulle armi vi fossero<br />
le impronte <strong>del</strong> mio cliente?». Una domanda che resta,<br />
insieme ad altre purtroppo, senza risposta. Favorendo,<br />
indipendentemente da quella che è la verità, la<br />
cultura <strong>del</strong> sospetto, la sindrome <strong>del</strong> complotto, come<br />
la chiama ironicamente un magistrato. Il sostituto procuratore<br />
Mauro Mura accetta intanto di dare qualche<br />
informazione alla pubblica opinione. E racconta che<br />
l’inchiesta sulle armi di Asti è nata «per pura casualità»<br />
durante intercettazioni telefoniche e ambientali disposte<br />
nel corso <strong>del</strong> rapimento di Farouk Kassam. «Questa<br />
storia viene fuori da una rilettura di quegli atti». Una rilettura,<br />
che significa? Il giudice <strong>del</strong>la procura antimafia<br />
spiega con chiarezza: «Avevamo acquisito materiale di<br />
vario genere che, a suo tempo, abbiamo vagliato con<br />
un’ottica particolare, quella di un’indagine su un sequestro<br />
di persona. Poi abbiamo rivisto tutto in chiave diversa.<br />
E da lì siamo partiti». Mura non si sbilancia su<br />
una vicenda che appare così improbabile, così poco credibile,<br />
così assurda per certi versi: a un passo dalla grazia,<br />
<strong>Mesina</strong> è impazzito? «Non ne ho idea. Io so che<br />
ognuno deve vivere facendo quello che sa fare. Gli incidenti<br />
di percorso capitano proprio a questa gente, ai vigilati<br />
speciali voglio dire».<br />
Man mano che ci si interroga su cosa possa essere<br />
realmente accaduto, emergono nuovi particolari. Pare<br />
147
cioè che i due genovesi abbiano chiesto a <strong>Mesina</strong> una<br />
vendetta contro Giorgio Men<strong>del</strong>la, telefinanziere che<br />
gli avrebbe soffiato risparmi per circa un miliardo. Graziano,<br />
sempre stando a voci incontrollate, non avrebbe<br />
soltanto garantito la rappresaglia ma si sarebbe spinto<br />
un po’ più in là: perché non sequestrare la fidanzata di<br />
Men<strong>del</strong>la, Patricia Palmero, a Montecarlo? Si potrebbe<br />
pretendere un riscatto di venti miliardi di lire e il gioco è<br />
fatto, risparmi restituiti a un interesse prodigioso. Solo<br />
che per mettere a segno un rapimento come questo in<br />
Costa Azzurra, servono caricatori per kalashnikov: potrebbero,<br />
visto che <strong>Mesina</strong> è quasi prigioniero nei confini<br />
<strong>del</strong> comune di Asti, andarglieli a comprare? Ne bastano<br />
sei, si acquistano facilmente in Svizzera.<br />
Per quanto possa apparire strana, questa è, grosso<br />
modo, la tesi <strong>del</strong>l’accusa. Tesi, importante ribadirlo,<br />
che si basa sulla testimonianza di Ferralis e Anfossi. Ad<br />
avvalorarla si aggiungono le intercettazioni telefoniche<br />
che vedono l’ex ergastolano, letteralmente scatenato, in<br />
crisi di astinenza da crimine.<br />
In una conversazione telefonica ascoltata dai carabinieri<br />
e inserita poi nel teorema <strong>del</strong>la pubblica accusa,<br />
sta parlando ad esempio con un certo Salvatore e gli<br />
chiede notizie a proposito di un banchiere di Alessandria<br />
ritenuto socio di Gianni Agnelli. È uno che ha molti<br />
quattrini, uno che può pagare? Gli interrogativi <strong>del</strong><br />
dialogo sono di questo tipo fino a quando non si scende<br />
nei particolari.<br />
<strong>Mesina</strong>: «Ma questo ne ha figli?»<br />
Salvatore: «Tre, e tutti sono grandi».<br />
<strong>Mesina</strong>: «E se se ne prendesse uno e ci si facesse portare<br />
un miliardo in giornata? Li recupera i soldi?»<br />
148<br />
Salvatore: «Sì, sì».<br />
La registrazione di questa chiacchierata è agli atti<br />
processuali. Porta la data <strong>del</strong> 13 luglio 1993. Roberto<br />
Piazza, un tecnico che a suo tempo si è occupato <strong>del</strong>le<br />
intercettazioni <strong>del</strong>le telefonate tra le Brigate Rosse e i familiari<br />
di Aldo Moro, conclude la perizia fonica: l’attendibilità<br />
sul fatto che si tratti <strong>del</strong>la voce di Graziano <strong>Mesina</strong><br />
oscilla tra il 95 e il 99 per cento. Margine di errore<br />
che va dall’uno al cinque per cento. Dunque non sembrano<br />
esserci dubbi su chi stia realmente parlando nei<br />
nastri registrati dalla procura distrettuale antimafia. Il<br />
fatto è, sostiene il pubblico ministero, che quello messo<br />
sotto osservazione è un periodo di grande libertà per<br />
<strong>Mesina</strong>. Contattato per fare l’emissario nel corso <strong>del</strong> rapimento<br />
Kassam, Graziano si muove senza problemi di<br />
sorta, disattiva i suoi personalissimi sistemi di vigilanza<br />
e di diffidenza. Non immagina che per la magistratura<br />
quello è invece il momento giusto per osservarlo con la<br />
lente d’ingrandimento, l’occasione propizia per verificare<br />
le vere intenzioni di un ergastolano in libertà vigilata.<br />
Una sola controdeduzione: durante il rapimento di<br />
Farouk non era stato proprio <strong>Mesina</strong> a lamentarsi dei<br />
continui pedinamenti, <strong>del</strong> telefono costantemente sotto<br />
controllo? Difficile far conciliare queste affermazioni<br />
con un uso <strong>del</strong>l’apparecchio a dir poco spregiudicato,<br />
oltre che ingenuo.<br />
Durante le indagini seguite ai clamorosi arresti di luglio,<br />
Elio Ferralis viene tenuto in carcere per appena<br />
dieci giorni: ottiene gli arresti domiciliari per ragioni di<br />
salute. Anfossi resta dentro per cinque mesi, in isolamento.<br />
Il primo marzo <strong>del</strong> ’94 concede un’intervista telefonica<br />
che apre ambigui squarci sulla vicenda.<br />
149
– Conosceva <strong>Mesina</strong>?<br />
«No. Io ed Elio Ferralis abbiamo pensato a lui quando<br />
ci siamo accorti che non avremmo mai più rivisto i<br />
soldi che avevamo dato a Men<strong>del</strong>la. Di mio c’erano cinquecento<br />
milioni, soldi che mi hanno lasciato mio padre<br />
e mie zie. Ho detto tutto alla polizia francese, sono in<br />
collegamento con un ispettore».<br />
– Che doveva fare <strong>Mesina</strong>?<br />
«Farci restituire i soldi. Dai giornali abbiamo saputo<br />
che abitava ad Asti e allora siamo andati a trovarlo. <strong>Lo</strong><br />
abbiamo incontrato complessivamente quattro volte.<br />
Una volta gli ho detto che la polizia ci aveva pedinato fino<br />
a casa sua. Non importa, ha risposto».<br />
– Lei è, come si dice, un collaboratore di giustizia?<br />
«No, all’inizio pensavo lo fosse <strong>Mesina</strong>. Sì, proprio<br />
lui. Mi faceva pensare non vederlo preoccupato per tutta<br />
quella gente che avevamo attorno. Poi, durante il terzo<br />
incontro, ha domandato se potevamo fargli un favore.<br />
Aveva bisogno di sei caricatori per kalashnikov».<br />
– E in cambio si sarebbe occupato di Men<strong>del</strong>la?<br />
Anfossi: «No, no. Men<strong>del</strong>la era un discorso a parte.<br />
Elio gli aveva portato una sua pistola, regolarmente denunciata.<br />
Non ricordo se gliel’avesse chiesta <strong>Mesina</strong>.<br />
Ricordo invece che ci disse dove avremmo potuto trovare<br />
i caricatori. In Svizzera».<br />
– Quando avete comprato i caricatori?<br />
«Subito dopo. Li abbiamo sistemati in una busta di<br />
pane, dentro uno zainetto. Poi abbiamo telefonato dicendogli<br />
abbiamo cioccolatini per te. Sapevamo che<br />
avrebbe capito. Nella casa <strong>del</strong> suo datore di lavoro, in<br />
via Guttuari, siamo arrivati puntualissimi. Subito dopo<br />
di noi, i carabinieri. In quel momento ho pensato: Mesi-<br />
150<br />
na ci ha fregato. Cosa ricordo di quel momento? La<br />
confusione e la ricerca di armi, che non sono state trovate».<br />
– Dopo l’arresto le hanno chiesto di accusare <strong>Mesina</strong>?<br />
«No. È successo di peggio. Mi volevano implicare in<br />
storie strane. Per sessanta giorni non mi hanno fatto<br />
dormire. Mi insultavano dallo spioncino <strong>del</strong>la cella oppure<br />
facevano rumore. Ininterrottamente, senza smettere<br />
un attimo. Credevo di impazzire. Ricordo rumori<br />
metallici contro la parete. Tutta la notte. Tutta. Ogni<br />
tanto arrivava qualcuno che, senza qualificarsi, mi chiedeva<br />
di firmare verbali in cui mi autoaccusavo di aver<br />
compiuto azioni terroristiche».<br />
– La interrogavano uomini dei Servizi?<br />
«Servizi segreti, vuol dire? Non lo so. L’ho detto, era<br />
gente strana. Mi hanno riferito di aver perquisito la mia<br />
casa. Ho scoperto poi che l’avevano praticamente distrutta.<br />
Non ho dimenticato, continuo a fare indagini».<br />
– Indagini su cosa?<br />
«Su Men<strong>del</strong>la, perché il <strong>caso</strong> Men<strong>del</strong>la e quello di<br />
Graziano <strong>Mesina</strong> marciano insieme. Al momento opportuno<br />
dirò di più».<br />
Al processo, che si apre sette mesi dopo, non dirà affatto<br />
di più. Anzi, dovrà superare qualche momento di<br />
evidente imbarazzo. Per esempio quando l’avvocato<br />
Passeri gli chiede se è un confidente <strong>del</strong>le forze <strong>del</strong>l’ordine.<br />
«A questa domanda preferirei non rispondere»,<br />
dice rivelando sicuramente molto più di quel che avrebbe<br />
voluto.<br />
A parare i colpi <strong>del</strong>la dietrologia pensa il pubblico<br />
ministero, Francesco Saluzzo, soprannominato Saluzzo<br />
151
il Duro per il suo rigore. Sventolando le dodici pagine<br />
che compongono la fedina penale di <strong>Mesina</strong>, taglia corto<br />
sostenendo che si tratta di un “<strong>del</strong>inquente abituale”<br />
eccessivamente fiducioso in se stesso, convinto che il<br />
ruolo di emissario nella vicenda Kassam gli desse una<br />
sorta di impunità. Nessun accenno all’ipotesi che possano<br />
essere entrati in gioco i servizi di sicurezza. Anche<br />
se, come si sa, non sarebbe una novità: nel marzo <strong>del</strong> ’93<br />
il Comitato parlamentare per i servizi di informazione<br />
aveva ascoltato a lungo Graziano sui risvolti <strong>del</strong>la liberazione<br />
di Farouk.<br />
Per Saluzzo non suscitano perplessità neppure le misteriose<br />
incursioni nella casa di San Marzanotto (una<br />
serratura forzata e la sostituzione di un vetro). La Corte,<br />
nella motivazione <strong>del</strong>la sentenza afferma: «Inequivocabili<br />
sono le espressioni usate nelle telefonate intercettate».<br />
La conseguenza è che «l’argomentare difensivo di<br />
<strong>Mesina</strong> è alquanto debole, soprattutto nelle ragioni che<br />
avrebbero determinato il complotto».<br />
«I falsi eroi finiscono nella polvere», dichiara, quasi<br />
stesse dettando un epitaffio, l’ex ministro degli Interni,<br />
Nicola Mancino. Per lui, come per altri <strong>del</strong> resto, il <strong>caso</strong><br />
è chiuso. Nessuno che si chieda come mai Ferralis e Anfossi,<br />
che pure sono dichiaratamente complici di <strong>Mesina</strong>,<br />
riescano a strappare una condanna così lieve. O almeno<br />
lieve quanto basta per non doverla scontare in galera.<br />
E Graziano, che dice? Prima di rientrare definitivamente<br />
nel carcere di Novara rifiutandosi di continuare<br />
ad assistere alle udienze, ha sostenuto di non aver<br />
commissionato a nessuno l’acquisto di armi. «Quella<br />
roba è stata sistemata da qualcuno nella villetta di San<br />
Marzanotto». Anfossi e Ferralis, conclude, sono soltan-<br />
152<br />
to pedine di una trappola organizzata a una manciata di<br />
settimane dalla concessione <strong>del</strong>la grazia. Un discorso<br />
che per il Tribunale non vale, si arrampica sugli specchi<br />
poiché, nei fatti, le tesi <strong>del</strong>l’imputato «appaiono astruse<br />
e contraddittorie».<br />
Sei anni e mezzo di reclusione. L’avvocato Pier Navino<br />
Passeri ha presentato ricorso in Appello. Forse il<br />
tempo può far sedimentare certe asprezze e consentire<br />
una riflessione più ponderata, comunque più attenta alle<br />
argomentazioni <strong>del</strong>la difesa.<br />
Il resto è fatto di impressioni, sensazioni che – fatto<br />
salvo il riconoscimento <strong>del</strong>la buona fede – spalancano<br />
la porta a troppe domande. Roberto Gonella, giornalista<br />
<strong>del</strong> quotidiano torinese «La Stampa», ha seguito<br />
passo passo il processo di Asti. «E debbo dire che ho<br />
avvertito qualcosa di <strong>strano</strong> fin dall’inizio. Ho visto i<br />
verbali di arresto di Anfossi e Ferralis: uguali, sembravano<br />
in fotocopia. A parte questo, mi stupisce un <strong>Mesina</strong><br />
che si fa trovare armi in casa. Ingenuo, no? Complessivamente<br />
debbo dire che il dibattimento mi ha lasciato<br />
perplesso. Ci sono molti punti a favore <strong>del</strong>la tesi<br />
<strong>del</strong>la colpevolezza, ma altrettanti che lascerebbero<br />
pensare a una montatura. Da quando faccio il cronista<br />
giudiziario, è senz’altro il processo più singolare che mi<br />
sia capitato di seguire. Adesso, a sentenza fatta, a vicenda<br />
dimenticata o comunque archiviata, mi succede di<br />
pensarci ancora. Mi succede di domandarmi, di interrogarmi<br />
e non trovare un percorso logico».<br />
Cioè un sufficiente ventaglio di prove che giustificasse<br />
la condanna, e una condanna così severa. Il pubblico<br />
ministero Francesco Saluzzo aveva addirittura<br />
sollecitato una pena più consistente: quattordici anni.<br />
153
Troppi? «Mai abbastanza per un <strong>del</strong>inquente abituale».<br />
Ne è convinto anche Fateh Kassam che, pur rifiutando<br />
qualunque commento sul verdetto, si limita a dire di<br />
non essere sorpreso. Grande amarezza, invece, nelle parole<br />
<strong>del</strong> giudice Pietro Fornace: «<strong>Mesina</strong> ha tradito la<br />
nostra fiducia, la simpatia che gli avevamo dimostrato.<br />
Non merita indulgenza».<br />
Inutile chiedere al magistrato un’opinione sulla sentenza<br />
di Asti, si asterrebbe – com’è giusto – da qualunque<br />
giudizio. Ma questo non dissolve i dubbi: chi ha<br />
forzato la serratura di San Marzanotto, chi ha sostituito<br />
il vetro? E ancora: davvero <strong>Mesina</strong> era così stupido da<br />
nascondere armi in casa, una casa visitata ogni giorno<br />
dai carabinieri? Se tutto questo è vero, perché non è<br />
stato eseguito dalla Scientifica un esame dattiloscopico,<br />
perché non sono state cercate le sue impronte digitali<br />
sull’arsenale nascosto nella villetta?<br />
Non si tratta di volere <strong>Mesina</strong> innocente a tutti i costi.<br />
La questione è più ampia. Si tratta di dimostrare fino<br />
in fondo la sua colpevolezza. L’inchiesta di Asti tradisce<br />
più di una fragilità e riempie di incertezze il cammino<br />
verso la sentenza. In una civiltà giuridica avanzata, come<br />
la nostra, non si può non tener conto dei veleni <strong>del</strong><br />
<strong>caso</strong> Kassam. Tanto, che piacesse o no, quei veleni sono<br />
comunque penetrati nell’aula <strong>del</strong> Tribunale.<br />
A chi ha giovato tanta fretta, qualche evidente superficialità<br />
d’indagine e alcune palesi manchevolezze? Per<br />
quanto possa apparire grottesco a causa di un amarissimo<br />
finale, tutto questo torna utile proprio a <strong>Mesina</strong>.<br />
Che rientra, certo, definitivamente in galera, ma si fa accompagnare<br />
dal dubbio che, in fondo in fondo, possa<br />
essere sul serio una vittima. Ancora una volta, se fosse<br />
154<br />
colpevole, sarebbe riuscito a beffare tutti: anche se poi<br />
avrà poco da esultare di tale vittoria. Ma questo è un altro<br />
problema.<br />
155
XIII<br />
Polvere di mito<br />
Nel suo studio di piazza Statuto ad Asti, l’avvocato<br />
Pier Navino Passeri legge e rilegge copia <strong>del</strong> ricorso in<br />
appello sullo <strong>strano</strong> <strong>caso</strong> <strong>del</strong> <strong>signor</strong> <strong>Mesina</strong>. <strong>Lo</strong>ntano<br />
per educazione dai toni apocalittici e roboanti, privilegia<br />
la riflessione alle urla. È stato designato d’ufficio.<br />
E la qualifica di “difensore d’ufficio” ha mantenuto<br />
per tutta la durata <strong>del</strong> processo. Il suo cliente, euforicamente<br />
querulo nei giorni <strong>del</strong> successo, lo ha quasi<br />
ignorato. Dai colloqui in carcere è riuscito a tirargli<br />
fuori ben poco, salvo un ritornello ossessivo: «Mi hanno<br />
incastrato».<br />
Nello <strong>strano</strong> <strong>caso</strong> <strong>del</strong> <strong>signor</strong> <strong>Mesina</strong>, dice l’avvocato<br />
Passeri, c’è innanzitutto un imputato che «ha rinunciato<br />
totalmente a difendersi». Potrebbe trattarsi di tattica<br />
processuale, finezze a effetto psicologico garantito da<br />
utilizzare nei momenti difficili. Resta il fatto che senza<br />
una linea difensiva diventa piuttosto difficile uscire vivi<br />
da un dibattimento come quello sulle armi trovate a<br />
San Marzanotto. «Può anche darsi che l’abbiano intrappolato,<br />
ma ci vogliono prove per dimostrarlo».<br />
E le prove ci sono? Più che prove vere e proprie, indizi,<br />
segnali inquietanti. Quando è stato arrestato, nell’estate<br />
<strong>del</strong> ’93, <strong>Mesina</strong> sapeva ad esempio che nell’ar-<br />
157
co di una ventina di giorni la sua pratica per la grazia<br />
avrebbe ricevuto la spinta finale. Possibile, s’interroga<br />
l’avvocato Passeri, che a un soffio dalla libertà definitiva,<br />
decida di attraversare un vespaio? L’altro mistero,<br />
ammesso che sia corretto definirlo così, riguarda a suo<br />
parere la rottura <strong>del</strong> rapporto tra <strong>Mesina</strong> e il vecchio<br />
difensore, Gabriella Banda. Nella fase immediatamente<br />
successiva all’arresto, quella dei primi interrogatori<br />
nel carcere di Novara, è anche comparso l’avvocato<br />
Giannino Guiso, designato con un telegramma difensore<br />
di fiducia. Avrebbe dovuto lavorare in tandem<br />
con Gabriella Banda. Invece accade qualcosa di singolare:<br />
Guiso assiste a un incontro tra imputato e pubblico<br />
ministero, poi si ritira. A distanza di pochi giorni, fa<br />
lo stesso l’avvocato Banda. Che sulla questione, come<br />
abbiamo già avuto occasione di dire, non intende parlare:<br />
«Il <strong>caso</strong> è chiuso». Rimanda i chiarimenti a un futuro<br />
vago e imprecisato, limitandosi a puntualizzare,<br />
quasi fosse davanti ad allievi che studiano diritto penale,<br />
che un difensore può rinunciare al mandato in qualunque<br />
momento. Perché non nascano dubbi di carattere<br />
personale o privato, rammenta di aver svolto il suo<br />
lavoro con impegno e partecipazione, augura «a Graziano<br />
buona fortuna, ne ha bisogno». Chiude con una<br />
frase enigmatica: «Mi dispiace».<br />
Cos’è accaduto? È uno degli interrogativi di questa<br />
vicenda. Alcuni hanno preso corpo nelle tesi che l’avvocato<br />
Passeri proporrà in Appello. A cominciare dalla<br />
mancanza di un esame dattiloscopico sulle armi. «Possibile<br />
che chi ha un’arma in casa non la maneggi, non la<br />
sfiori, non ne verifichi in qualche modo la funzionalità?»<br />
Deplorevole dimenticanza, nessuno ci ha pensato.<br />
158<br />
Poi c’è l’incongruenza <strong>del</strong>le perquisizioni eseguite a ridosso<br />
<strong>del</strong>la visita di giornalisti (e di chiunque altro avesse<br />
voluto approfittare), le piccole preoccupanti manomissioni<br />
a una serratura e a una finestra.<br />
«È tutto, tutto insensato» per un difensore, sia pure<br />
d’ufficio, con la pretesa di voler capire, possibilmente<br />
arrivare alla verità. Certo, resta la terribile prova <strong>del</strong>le<br />
intercettazioni, telefoniche e ambientali. <strong>Mesina</strong> ha detto<br />
che qualcuno ha imitato la sua voce. Ammesso che sia<br />
vero (ma non è possibile a meno che non si voglia sconfinare<br />
ai limiti <strong>del</strong>le conoscenze tecnologiche), potrebbe<br />
essere accaduto solo per le intercettazioni sul telefono.<br />
Ma che dire di quelle ambientali, cioè <strong>del</strong>le “pulci”<br />
nascoste nella villetta di San Marzanotto? Registrare<br />
dialoghi familiari e successivamente sovrapporre voci<br />
diverse per irrobustire il castello <strong>del</strong>l’accusa è impensabile,<br />
un’operazione che metterebbe in difficoltà perfino<br />
gli eroi polizieschi d’un romanzo.<br />
Tutto questo non impedisce di avvistare qualche<br />
nebbia. Domenico Anfossi, altro protagonista <strong>del</strong> processo,<br />
è stato sottoposto a perizia psichiatrica e dichiarato<br />
sano di mente. La sua, hanno detto i medici, è una<br />
personalità di tipo schizoide ma questo non ne altera<br />
l’attendibilità né la fondatezza <strong>del</strong>le deposizioni.<br />
Mettendo insieme tutti questi elementi, viene da<br />
pensare che nei suoi diciotto mesi di libertà Graziano<br />
<strong>Mesina</strong> abbia cercato inconsciamente di tornare in prigione:<br />
prima rischiando di bruciarsi (e difatti s’è bruciato)<br />
col sequestro Kassam e, subito dopo, con la storia<br />
<strong>del</strong>le armi ad Asti. Troppe domande restano senza risposta,<br />
sospese sul filo <strong>del</strong>la imperscrutabilità <strong>del</strong>l’anima<br />
o di qualcosa che le somiglia. La logica non aiuta a<br />
159
capire, a spiegare la scelta suicida di un uomo che cercava<br />
aria pulita dopo una vita da recluso.<br />
Un tarlo che rode anche la mente di Mario Borghezio,<br />
torinese di 46 anni, avvocato civilista ma, soprattutto,<br />
deputato <strong>del</strong>la Lega e sottosegretario alla Giustizia.<br />
È l’unico rappresentante ufficiale di un partito a essersi<br />
preso cura <strong>del</strong>la disavventura di <strong>Mesina</strong>. Oggi che non<br />
fa più parte <strong>del</strong>l’opposizione in Parlamento, non può ripetere<br />
le durissime dichiarazioni di un anno fa. Però,<br />
mostrando rispetto di se stesso e coerenza, non le rinnega.<br />
Cosa aveva detto? Gli appariva decisamente singolare<br />
che Graziano, arrestato alle 9,40 <strong>del</strong> mattino, avesse<br />
potuto vedere le armi sequestrate soltanto dopo mezzogiorno.<br />
«Ho rilevato troppi punti oscuri, già evidenti<br />
dalla testimonianza resa davanti alla Commissione parlamentare<br />
sui servizi di sicurezza. Negli ultimi tempi<br />
<strong>Mesina</strong> ha respinto una processione di ambigui personaggi<br />
che andavano a trovarlo, che volevano parlargli.<br />
Uno nascondeva perfino un registratore nella giacca».<br />
Borghezio, che tra l’altro aveva presentato un’interrogazione<br />
per conoscere quale forza di polizia avesse fermato<br />
<strong>Mesina</strong> il 29 luglio ad Asti, ha manifestato la necessità<br />
di una mobilitazione per scongiurare il pericolo<br />
che Graziano esca dalla galera coi piedi davanti.<br />
Chissà se il sottosegretario alla Giustizia, passato dai<br />
banchi <strong>del</strong>l’opposizione a quelli <strong>del</strong>la maggioranza e <strong>del</strong><br />
Governo, è rimasto nel frattempo <strong>del</strong>la stessa opinione.<br />
La violenza <strong>del</strong>le parole pronunciate poco più di un anno<br />
fa ha ceduto il passo al soffice dizionario ministeriale.<br />
Ma a ben guardare, non è cambiato nulla. Si attenua<br />
soltanto la brutalità dei colpi, la sostanza resta quella di<br />
sempre. A proposito <strong>del</strong>la voce che lo Stato possa aver<br />
160<br />
pagato un miliardo per il rilascio di Farouk, Borghezio<br />
aveva più di un sospetto non troppi mesi fa. Ora glissa<br />
sottolineando tuttavia che la deposizione di Broccoletti<br />
al processo sui fondi neri <strong>del</strong> Sisde «lascia pensare». Cosa<br />
lasci pensare non lo dice esplicitamente, un viceministro<br />
non può. Stesso discorso, anzi vagamente più ecumenico,<br />
per la condanna inflitta a <strong>Mesina</strong> dal Tribunale<br />
di Asti. «Il nostro ordinamento prevede diversi gradi di<br />
giudizio perché si possa, se occorre, aggiustare il tiro,<br />
essere più equi, più giusti». Ovvero: se avete sbagliato,<br />
per gentilezza rimediate.<br />
Borghezio deve aver fatto uno sforzo notevole per<br />
acquisire un linguaggio che ricorda le encicliche papali.<br />
Il 10 agosto <strong>del</strong> ’93, in un’intervista dal titolo provocatorio<br />
(“C’è da salvare un sudista”), parlava su registri<br />
assai differenti. Al ritorno da un incontro nel carcere di<br />
Novara, aveva sparato sicuro: «<strong>Mesina</strong> mi ha detto che<br />
vogliono fargli pagare le rivelazioni sul sequestro Kassam.<br />
Io so che ha creato enormi imbarazzi. Le sue rivelazioni,<br />
chiare e sincere, contrastano con la versione ufficiale,<br />
poco credibile. <strong>Mesina</strong> poi ha avuto il torto di<br />
opporsi al blitz che le forze <strong>del</strong>l’ordine volevano compiere<br />
per liberare l’ostaggio». Di più. Al ministro Mancino<br />
e alla sua certezza che prima o poi i falsi eroi finiscono<br />
nella polvere, Borghezio replicava: «Al ministro<br />
Mancino potrei dire che c’è più pulizia morale nelle parole<br />
di <strong>Mesina</strong> sul <strong>caso</strong> Kassam che nelle dichiarazioni<br />
di tanti politici». E a proposito di un certo mutismo che<br />
avvolgeva la vicenda, aveva concluso con un colpo di<br />
grazia alla sua stessa categoria. «La mia è una battaglia<br />
di principio. Anzi, debbo dire che mi stupisce il silenzio<br />
dei politici attorno a questo episodio».<br />
161
E qui tocca il cuore <strong>del</strong> problema. Perché la vicenda-<br />
<strong>Mesina</strong> non diventa un <strong>caso</strong> politico?, come mai le segreterie<br />
di partito, di solito così prodighe di commenti<br />
fluviali su qualunque tema, tacciono chiudendosi in difesa?<br />
A sostenere il diritto alla verità per il sardo <strong>Mesina</strong><br />
è soltanto un onorevole leghista. Perché in <strong>Sardegna</strong><br />
non ci si domanda cos’è veramente accaduto, se esista<br />
uno spartiacque tra colpevolezza e rappresaglia?<br />
Per capire, bisogna conoscere a fondo i meccanismi<br />
che regolano la vita dei partiti, almeno di quelli storici,<br />
istituzionali. Al di là <strong>del</strong>le buone intenzioni, <strong>del</strong>l’eventuale<br />
indignazione dei singoli, sopravvale su tutto e tutti<br />
una “ragion di partito” che è uguale e parallela a quella<br />
di Stato. <strong>Mesina</strong>, che in quei giorni pareva a buona parte<br />
degli italiani vittima di una clamorosa ingiustizia, è<br />
carne che scotta.<br />
In pieno caos, quando le fiamme si alzano pericolosamente<br />
minacciando i vertici <strong>del</strong>lo Stato, in <strong>Sardegna</strong> i<br />
partiti <strong>del</strong>la sinistra si avvicinano, annusano e si allontanano.<br />
Quelli di centro e di destra non si pongono neppure<br />
il problema: il <strong>caso</strong> non esiste, faccende quasi private<br />
che investono magistratura e giornali.<br />
A pensarci bene, cavalcare una campagna per sostenere<br />
l’innocenza <strong>del</strong> popolarissimo Grazianeddu avrebbe<br />
potuto far comodo. Allora perché, fatta eccezione di<br />
un soldato di Bossi, nessuno lo fa? Perché <strong>Mesina</strong> rappresenta<br />
una scommessa ad altissimo rischio. Nel senso<br />
che tutto potrebbe risolversi in una sconfitta bruciante:<br />
un partito che difende un criminale? Inammissibile. La<br />
verità è che, sia pure inconsciamente (nel senso che nessuno<br />
avrebbe mai il coraggio di confessarlo neppure a<br />
se stesso), il sistema dei partiti respinge di fatto il princi-<br />
162<br />
pio che l’espiazione <strong>del</strong>la pena renda davvero liberi,<br />
davvero uguali. Dopo centocinquant’anni di carcere,<br />
Graziano <strong>Mesina</strong> resta Graziano <strong>Mesina</strong>, non è affatto<br />
vero che abbia gli stessi diritti di un qualunque cittadino.<br />
O, più esattamente, ha gli stessi diritti soltanto in<br />
teoria. In pratica, nella pratica <strong>del</strong>la durissima battaglia<br />
politica quotidiana, è soltanto uno straccio, basta un alito<br />
di tramontana per farlo volare.<br />
I principi <strong>del</strong>l’ordinamento giuridico valgono finché<br />
restano nell’ambito dei dibattiti, <strong>del</strong>le tavole rotonde,<br />
<strong>del</strong>le aule di Tribunale. Valgono nei dispositivi<br />
<strong>del</strong>le sentenze, nelle solenni cerimonie d’inaugurazione<br />
<strong>del</strong>l’anno giudiziario. Poi bisogna fare i conti con la<br />
realtà. Manca la sensibilità e il coraggio culturale per<br />
fare il salto, accettare che un diverso possa essere uguale<br />
a noi.<br />
Un detenuto che sconta una pena, e soprattutto una<br />
pena come quella scontata da <strong>Mesina</strong>, non è molto differente<br />
da un handicappato. Ha davanti insormontabili<br />
barriere architettoniche: che non dovrebbero esistere,<br />
che non dovrebbero esserci in nome <strong>del</strong>la civiltà <strong>del</strong> diritto,<br />
ma che invece sono lì. A ricordargli, lugubre memento<br />
mori, che la galera può continuare anche fuori.<br />
Basta pensare ai casi di quegli ex reclusi che non riescono<br />
a trovare lavoro (ma il lavoro non lo trovano neppure<br />
quelli che hanno una fedina penale adamantina), che faticano<br />
a reinserirsi e allora bombardano i giornali di lettere<br />
piagnucolose e offese.<br />
Un accidente parallelo a quello di <strong>Mesina</strong> riguarda le<br />
disgrazie miliardarie di Marcello Scomazzon, ex cassiere<br />
capo <strong>del</strong>la Regione <strong>Sardegna</strong> colpevole di aver raschiato<br />
poco più di novemila milioni dalle pubbliche<br />
163
casse. Il dottor Scomazzon, funzionario al di sopra di<br />
ogni sospetto e ladro dichiarato, ha confessato le sue<br />
criminali acrobazie finanziarie ed è stato condannato.<br />
Quando è uscito dal carcere, dopo essersi detto pentito<br />
e redento, dopo aver presentato alla collettività le scuse<br />
di ex gentiluomo, ha trovato un posto di lavapiatti in<br />
una trattoria e, più tardi, di operaio in un’agenzia di pulizie.<br />
Il suo è stato un tonfo sordo, dalle stelle alle stalle,<br />
senza passaggi intermedi che potessero attutire l’urto.<br />
Ha fatto tutto quello che deve fare un cittadino disonesto<br />
che ammette le sue responsabilità. E poi? Vaga, nel<br />
disperato tentativo di trovare un impiego stabile (visto<br />
che ha moglie e due figlie), un futuro appena più solido<br />
di quello che gli si prospetta davanti, prigione all’aria<br />
aperta, dietro le sbarre tra gente libera di commiserarlo.<br />
Nel <strong>caso</strong> di Graziano <strong>Mesina</strong>, bandito con un certificato<br />
penale che va da pagina uno a pagina dodici, tutto<br />
diventa ancora più complicato. A difendere non un’ipotesi<br />
di innocenza ma la certezza <strong>del</strong> diritto è sceso in<br />
piazza soltanto l’onorevole Mario Borghezio. Gli altri si<br />
sono fatti in là, come una folla spaventata.<br />
Non avvicinarsi, pericolo. A molti deve essere sembrato<br />
che il semplice interrogarsi a voce alta, pubblicamente,<br />
potesse configurare una specie di favoreggiamento.<br />
Oppure, visto da tutt’altra prospettiva, l’affiancamento<br />
a quella curva sud che tifa un bandito proprio<br />
come si fa per un goleador. Con o senza trent’anni di galera<br />
sulla groppa, nonostante questo sia tutt’altro che<br />
marginale, un fuorilegge può suscitare al massimo indifferenza.<br />
Non troverà intellettuali disposti a sottoscrivere<br />
un manifesto per sollecitare indagini più approfondite,<br />
qualche autorevole penna disposta a valutare i fat-<br />
164<br />
ti, a far parlare le prove senza lasciarsi condizionare (o<br />
allontanare) dal nome <strong>Mesina</strong>.<br />
Nella breve parentesi di libertà, Graziano ha comunque<br />
sferrato un uppercut alla credibilità <strong>del</strong>le istituzioni.<br />
È stato molto più duro, e di conseguenza più dannoso,<br />
di quanto non fosse da latitante inafferrabile, da primula<br />
rossa <strong>del</strong> Supramonte. Lavorando fianco a fianco<br />
alle forze <strong>del</strong>l’ordine, senza far cantare mitragliette e<br />
bombe a mano come nella tempestosa gioventù, ha dimostrato<br />
che nel sequestro di Farouk una soluzione c’era,<br />
un’uscita di sicurezza che consentiva di riportare a<br />
casa il bambino senza scatenare l’inferno <strong>del</strong>le teste di<br />
cuoio.<br />
Poi forse s’è fatto prendere la mano da un ispido senso<br />
di balentìa: non gli bastava una vittoria ufficiosa, voleva<br />
anche provare l’ebbrezza <strong>del</strong>la beffa, l’incoronazione<br />
a campione per kappaò. Per questo ha scelto di<br />
sfidare magistrati, ministri e capo <strong>del</strong>la polizia. Quello<br />
sulla liberazione <strong>del</strong> piccolo Kassam è stato uno dei<br />
conflitti a fuoco più impegnativi <strong>del</strong>la sua lunga navigazione<br />
criminale.<br />
In ogni <strong>caso</strong>, quando verrà il momento di collocarlo<br />
nella galleria <strong>del</strong> banditismo, accanto al ritratto di tanti<br />
protagonisti di una millenaria civiltà di sangue e di vendetta,<br />
avrà la consolazione di essere considerato l’ultimo<br />
allievo d’una vecchia scuola. Più che vecchia, incartapecorita.<br />
Anzi, morta e sepolta nell’avanzata di un<br />
mondo nuovo, senza regole e senza dèi, dove la vita non<br />
vale più di una cartuccia.<br />
Altri tempi e altre storie sgomitano per conquistare<br />
spazio in cronaca. Il 6 ottobre <strong>del</strong> ’94, quindici anni dopo<br />
la scoperta di un gigantesco arsenale <strong>del</strong>le Brigate<br />
165
Rosse a Monte Pizzinnu, i carabinieri trovano una santabarbara<br />
agropastorale nelle campagne di Austis. È il<br />
più grosso quantitativo d’armi mai rinvenuto in <strong>Sardegna</strong>:<br />
fucili, pistole, bombe a mano, ottomila munizioni e<br />
perfino qualche pezzo d’amatore come un Beretta a siringa<br />
col calcio inciso (“Sesta brigata Nello”) perfettamente<br />
efficiente. Un campionario strepitoso che comprende<br />
silenziatori per pistola, caricatori per kalashnikov,<br />
Winchester, Mab, Garand, Mauser. L’operazione è<br />
grossa, tant’è che nei titoli di coda, quelli destinati ai<br />
ringraziamenti, figura anche il Sismi, il servizio segreto<br />
militare.<br />
A chi servivano le armi scovate dai carabinieri? Scartata<br />
l’ipotesi di un gruppo eversivo, un’improbabile riesumazione<br />
<strong>del</strong> cadavere d’un qualunque partito armato,<br />
resta quella di un’evoluzione <strong>del</strong>la criminalità organizzata.<br />
Le armi servono a garantire e proteggere il riciclaggio<br />
<strong>del</strong>le narcolire, gli investimenti immobiliari <strong>del</strong>la<br />
mafia, il mercato <strong>del</strong>l’eroina che vanta in <strong>Sardegna</strong><br />
almeno ventimila affezionati clienti. La piazza cresce,<br />
pare rastrelli risparmi da piccoli commercianti che non<br />
si accontentano degli interessi bancari o di quello che<br />
rendono i Bot. Una catena di montaggio: quello che ufficialmente<br />
è un banalissimo prestito, in realtà diventa<br />
un investimento in droga. Ma chi mette i quattrini non è<br />
tenuto a saperlo e può dunque continuare a indossare<br />
una maschera di rispettabilità. A distanza di tre-sei mesi<br />
riavrà indietro i suoi soldi con interessi che neanche l’avidità<br />
<strong>del</strong> miglior strozzino potrebbe garantirgli. Anni<br />
fa a Cagliari la Guardia di Finanza ha frugato tra i registri<br />
contabili di alcuni negozianti, ha raccolto qualche<br />
indizio ma non è riuscita a chiudere il cerchio. È proba-<br />
166<br />
bile che non abbia abbandonato la partita e ci stia riprovando:<br />
da tempo sta tentando di scoprire dove finisca il<br />
danaro sottratto al fisco, l’attivo di bilanci commerciali<br />
palesemente addomesticati.<br />
Nel mare piatto <strong>del</strong>la nuova <strong>del</strong>inquenza, cresciuta<br />
soprattutto sui profitti legati allo spaccio di stupefacenti,<br />
uno come <strong>Mesina</strong> non potrebbe fare neppure il bagnino.<br />
Durante la reclusione non ha mai legato con detenuti<br />
che provenissero da questo ambiente. Ha scelto<br />
la frequentazione di assassini famosi e guerriglieri messi<br />
in pensione dalla Corte d’Assise. Le amicizie forti, quelle<br />
che restano, le ha strette però con poveracci che valevano<br />
sì e no qualche anno di carcere. Per esempio, il<br />
compagno di Parma, quello che gli ha domandato una<br />
cortesia che poteva costare il ritorno all’ergastolo.<br />
L’inferno, che credeva di aver definitivamente lasciato,<br />
gli ha riaperto le porte all’improvviso. Travolgendolo.<br />
E travolgendo per l’ultima volta la sua sicurezza,<br />
ma soprattutto la sua paura, quel senso di solitudine<br />
che l’ha accompagnato passo dopo passo nell’avventura<br />
di un povero detenuto troppo famoso, sorvegliato<br />
speciale. Era solo, solo contro tutti verrebbe da<br />
dire, in uno sciagurato ruolo da emissario nella torrida<br />
estate ’92 in <strong>Sardegna</strong>; solo ad Asti, circondato da armi<br />
e da un progetto di sequestro al limite <strong>del</strong> possibile, addirittura<br />
con una sortita all’estero per la cattura <strong>del</strong>l’ostaggio.<br />
Sul serio pensava a un rapimento? Ritorno alle<br />
origini, al mestieraccio d’un tempo, ammesso che le cose<br />
stiano davvero così.<br />
A ripensarci su, questa breve cavalcata in libertà<br />
condizionale offre a tratti la sensazione di una corsa verso<br />
l’autodistruzione, come se irrompesse improvvisa-<br />
167
mente il bisogno, la volontà di perdere dopo l’ultima,<br />
grande smargiassata da attempato miles gloriosus <strong>del</strong>la<br />
Barbagia. Colpisce quel che ha detto il suo avvocato vedendolo<br />
andar via dall’aula <strong>del</strong> Tribunale dove lo stavano<br />
processando: «In pratica <strong>Mesina</strong> ha rinunciato a difendersi».<br />
Forse ha ragione Montanelli quando dice che bisognerebbe<br />
conservarlo in teca, esemplare da custodire<br />
con cura sotto vetro. Basso. Fragile. Maneggiare con attenzione.<br />
Di tutto quello che è stato, non è rimasta che<br />
polvere.<br />
168<br />
Capitolo XIV<br />
Dieci anni dopo<br />
Dieci anni dopo, primavera 2003, Graziano <strong>Mesina</strong><br />
è in carcere a Voghera: speranze d’uscita, nessuna. Ha<br />
scontato in abbondanza le ultime condanne – una per<br />
le armi trovate nel suo casale d’Asti, l’altra per aver fatto<br />
l’emissario nel sequestro Kassam – ma un perverso<br />
meccanismo giudiziario lo conserva in galera con l’esaltante<br />
prospettiva “fine pena mai”. Ergastolano, insomma.<br />
Anche se nessun Tribunale <strong>del</strong>la Repubblica ha<br />
mai pronunciato un verdetto <strong>del</strong> genere.<br />
Istinto di sopravvivenza e un lampo <strong>del</strong>la vecchia<br />
astuzia gli suggeriscono che non è il <strong>caso</strong> di fare resistenza,<br />
non servirebbe. Meglio star zitti, mantenere un comportamento<br />
esemplare, non fraternizzare. E seppellirsi<br />
in attesa di una fine che, a sessantadue anni compiuti,<br />
non può essere lontanissima. Il guaio è che il fisico,<br />
nonostante uno zavorramento di chili dovuto alla vita<br />
da recluso, continua a reggere. Finora ha marcato visita<br />
soltanto per un’ernietta e manifesta stress attraverso vistose<br />
macchie sulla pelle. Vitiligine? Macché vitiligine,<br />
dice lui: tutta colpa di un dopobarba scaduto che gli ha<br />
rovinato collo e guance. E il gomito? Beh, il gomito si è<br />
infettato perché «grattandosi, è inevitabile».<br />
Soffre di una seria forma di depressione, ma non lo<br />
169
ammetterebbe nemmeno in compagnia di uno specchio<br />
e nessun altro. Eppure la <strong>signor</strong>a sardo-emiliana che lo<br />
va a trovare con regolarità, svela che «per un certo periodo<br />
abbiamo addirittura temuto un gesto definitivo».<br />
Alla depressione accenna pure la direttrice <strong>del</strong> carcere<br />
per smentire poi, con energia e vigore, appena la faccenda<br />
arriva ai giornali. Durante una chiacchierata telefonica<br />
con un giornalista che aveva chiesto un incontro<br />
col detenuto <strong>Mesina</strong>, s’era detta assai preoccupata.<br />
I segnali, d’altra parte, sono eloquenti: nessun contatto<br />
coi vicini di cella, rifiuto di partecipare ad attività<br />
collettive, disinteresse verso i problemi comuni, allergia<br />
ai programmi di socializzazione. Non gioca neppure a<br />
calcio: durante le ore d’aria concesse per lo svolgimento<br />
di partitelle inserite in un campionato interno, preferisce<br />
passeggiare – solo e pensoso – ai bordi <strong>del</strong> campo.<br />
Teme che anche una partita di pallone possa trasformarsi<br />
in trappola, possa accendere inimicizie pericolose.<br />
«<strong>Lo</strong> sport, se non è sport veramente, può suscitare<br />
scontri, antipatie, vendette. Meglio evitare».<br />
Contrariamente al passato, nessuna voglia di vedere<br />
gente dei giornali. La sindrome da celebrità, la voglia di<br />
apparire e mostrare il cammino percorso in un’esistenza<br />
di travolgente solitudine, è totalmente scomparsa. Di<br />
più: al fratello Salvatore, che una volta al mese va a trovarlo,<br />
confida che i riflettori dei media gli hanno soltanto<br />
nuociuto. Meglio quindi, per il momento, tenerli lontani<br />
e allungare il silenzio-stampa iniziato all’indomani<br />
<strong>del</strong>l’arresto nel ’93. Pazienza se si continua ininterrottamente<br />
a scrivere di lui. Come fa, per esempio, Cristina<br />
Giudici che ne traccia sul “Il Foglio” un ritratto di elegante<br />
profondità: «In apparenza un detenuto come tan-<br />
170<br />
ti. Invece questo <strong>signor</strong>e anziano, piegato dalle continue<br />
sconfitte, dalla depressione e dal desiderio ossessivo<br />
di poter vivere ancora molti anni, ma da uomo libero,<br />
è l’ultima immagine di un mito non ancora corroso dagli<br />
anni. Perché Graziano <strong>Mesina</strong>, ex re <strong>del</strong> Supramonte,<br />
bandito e balente <strong>del</strong>la Barbagia, è un mito. Con tutti<br />
i rischi <strong>del</strong>la retorica. Fuorilegge e gentiluomo. Taciturno,<br />
solitario, orgoglioso, fiero, perdente e dannatamente<br />
famoso. Pastore per nascita, divo per vocazione».<br />
O per necessità, per rabbia, o addirittura per un disperato<br />
bisogno di non annegare in una vita miserabile e<br />
senza storia.<br />
La questione <strong>del</strong>le crisi depressive deve essere tuttavia<br />
davvero allarmante se finisce in un rapporto inviato<br />
dalla direzione <strong>del</strong> carcere – in via riservata – al Dipartimento<br />
di amministrazione penitenziaria, l’ufficio romano<br />
dove si ammonticchiano le proposte d’intervista<br />
che <strong>Mesina</strong> non ha voluto degnare.<br />
<strong>Lo</strong> stizzoso furore che anima le smentite («A noi risulta<br />
in buona salute, non ha chiesto visite specialistiche»)<br />
rafforza il sospetto che sia tutto vero e che lo si voglia<br />
tenere nascosto. Testimoni e familiari riferiscono<br />
intanto di strani colloqui: «A tratti, sembra che nemmeno<br />
ti stia ascoltando: distante, dietro pensieri che lo fanno<br />
muto e <strong>strano</strong>».<br />
Chiacchierone, Graziano non lo è mai stato. Più<br />
semplicemente, ha fatto due più due: preso atto che intorno<br />
gli si è creato il vuoto, tenuto conto che la libertà<br />
pare definitivamente irraggiungibile, tanto vale lasciarsi<br />
andare, imprigionarsi dentro una prigione.<br />
Fin dal giorno <strong>del</strong>l’ultimo arresto, sceglie una linea<br />
di passività assoluta: non rivendica un solo giorno di<br />
171
permesso e neanche altri benefici previsti dalla legge<br />
che pure gli spetterebbero. Unica eccezione nel ’98,<br />
quando muore sua madre, zia Caterina, chiede di poter<br />
assistere ai funerali: permesso negato, tanto più che aveva<br />
manifestato il desiderio di poterci andare con le guardie<br />
ma senza manette.<br />
Adesso pare quasi preferisca rimuginare su se stesso,<br />
imbrigliato in una cella singola e comoda nel braccio<br />
Eiv (Elevato indice di vigilanza), ascoltare per ore e ore<br />
la musica di Celine Dion. «Ha il potere di stregarmi,<br />
quella cantante. Una voce speciale, una voce che mi fa<br />
uscire da qui e mi porta in luoghi lontanissimi». <strong>Lo</strong>ntano,<br />
nei chilometri e nel tempo: «Mi rivedo a Orgosolo<br />
quand’ero ragazzino. Rivedo mia mamma che, in pratica,<br />
non ho conosciuto. Tornavo da scuola (ho fatto fino<br />
alla quarta elementare) e andavo al gregge: in casa non<br />
c’ero mai. Mio padre è morto che avevo tredici anni, lo<br />
ricordo benissimo perché era almeno un anno che non<br />
ci incrociavamo». Struggimento <strong>del</strong>la memoria, <strong>del</strong>le<br />
cose perdute. Nostalgia, in senso stretto, no: «Però non<br />
è che lo rimpiango tanto, il paese. Se penso a quand’ero<br />
davvero bambino, mi dico che la cultura era quella, il<br />
posto era quello, la povertà era quella: cosa poteva<br />
uscirne da uno come me?»<br />
Non ha consolazioni religiose perché non è credente:<br />
«In tutta la mia vita, ho sempre creduto solo in<br />
quello che ho visto e toccato». Perciò gli manca l’addolcimento<br />
interiore <strong>del</strong>la preghiera che in molti casi –<br />
soprattutto nelle prigioni – è un prozac efficiente e rasserenante,<br />
certamente meno pericoloso <strong>del</strong>le inalazioni<br />
dalle bombolette di gas che garantiscono un caritatevole<br />
rincretinimento di qualche ora.<br />
172<br />
Ogni tanto cena insieme a un compagno di braccio,<br />
conosciuto in carcere, che presenta così: «È un sardo<br />
trapiantato a Milano. Vegetariano. Certi giorni ci facciamo<br />
minestroni stupendi». E se da casa hanno mandato<br />
<strong>del</strong> vino rosso, si può fare perfino uno strappo alla<br />
regola: «Io sono astemio, il vino che passa lo spaccio fa<br />
schifo ma se ne arriva da fuori, un mezzo bicchiere me<br />
lo faccio volentieri».<br />
La casa circondariale di Voghera è un prefabbricato<br />
grigio, incorniciato da un reticolato alto. Riflette<br />
l’ortodossia integralista degli anni di piombo, massima<br />
sicurezza, massimo squallore, nessuna concezione all’estetica<br />
(per non dire all’umano). Chi ha un appuntamento<br />
– regolarmente autorizzato dal ministero – deve<br />
infilare la carta d’identità in una buca da lettere, unico<br />
punto di contatto esterno d’una garitta sigillata da cristalli<br />
antiproiettile. Oltre il vetro, un agente di custodia<br />
manovra il passaggio dei documenti e governa una serie<br />
di tasti e pulsanti che aprono e chiudono i cancelli<br />
come in una città spaziale. Se dietro il vetro ci fosse un<br />
pesce rosso, sembrerebbe tutto più ovvio e naturale.<br />
Ogni movimento avviene nel massimo silenzio, un<br />
cenno di saluto appena abbozzato. Consegnata la carta<br />
d’identità, l’attesa è di un minuto appena: quanto<br />
basta per verificare la corrispondenza tra la foto <strong>del</strong><br />
documento e il visitatore che sta lì davanti. Poi, un cigolìo<br />
annuncia la lentissima apertura di una porta blindata<br />
che immette in un bu<strong>del</strong>lo di pochi metri quadri,<br />
pareti scure e sporche, armadietti dove depositare telefonini<br />
cellulari e tutto quello che non può arrivare alla<br />
173
sala colloqui. Passano cinque-sei minuti, sufficienti a<br />
pensare che in un posto così un claustrofobico diventerebbe<br />
pazzo in un lampo. Arriva il comandante <strong>del</strong>la<br />
polizia penitenziaria. Cortese, sardo (come buona parte<br />
dei suoi colleghi), esordisce precisando che «<strong>Mesina</strong><br />
è come se non ci fosse: tranquillo, calmo calmo, mai<br />
che ci abbia dato noia». Prima cancellata, enorme. Il<br />
comandante preme un pulsante e inizia l’operazione di<br />
apertura alla moviola. Si finisce in un grande stanzone<br />
cieco, soffitti alti e unica via d’uscita un altro cancello<br />
che si trova dalla parte opposta, proprio di fronte.<br />
«Ancora un po’ di pazienza e siamo dentro il penitenziario»,<br />
avverte la guardia.<br />
Finora, dunque, si è trattato di attraversare sbarramenti<br />
preventivi. Nello stanzone senza finestre c’è un<br />
passaggio obbligato per i visitatori, un metal-detector<br />
dove (per evitare di perder tempo) si transita senza<br />
chiavi, senza monete, senza zaino, senza occhiali, senza<br />
un grammo di metallo. Altrimenti un fischio e un lampeggiante<br />
blu danno l’allarme.<br />
Nudi o quasi alla meta, dopo questa sorta di checkup<br />
che spinge verso un nuovo cancello. Movimentazione<br />
automatica. Oltre la porta, un immenso cortile grigio<br />
addolcito da alcune aiuole. Il braccio dove sta <strong>Mesina</strong> è<br />
in un caseggiato sulla sinistra, primo piano. Per arrivarci,<br />
bisogna fare una sosta operativa davanti a un ingresso<br />
sbarrato e attendere l’arrivo di un secondino che pesca<br />
con sicurezza da un cassetto di legno, appeso al<br />
braccio come un borsone, la chiave giusta.<br />
Le chiavi, di proporzioni medievali, sono decine: come<br />
fa a individuare in un secondo proprio quella che<br />
serve? Due rampe di scale si affacciano su un androne<br />
174<br />
chiuso da un’inferriata che rimanda ad altri androni, altre<br />
inferriate. Chissà se finiranno mai.<br />
Nella sala-colloqui, dove l’amministrazione carceraria<br />
mette a disposizione seggiole da camping e tavolino<br />
in plastica da picnic, arrivano i rumori sordi di<br />
chiavi che girano nelle serrature e il sinistro concerto<br />
di apertura-chiusura gabbie. La porta ha uno spioncino<br />
che consente la vigilanza in via permanente, l’ambiente<br />
– un’aula scolastica anni ’50 con la tinta lucida a<br />
mezzo muro, per non sporcare l’imbiancatura – è tutta<br />
un rimbombo. Per riuscire a capirsi, occorre parlare<br />
forte, scandire bene le parole. Graziano, che ha perduto<br />
il leggendario udito di gioventù (quello che gli segnalava<br />
a distanza l’avvicinarsi di un carabiniere), tiene<br />
la testa piegata e l’interlocutore vicino: solo così riesce<br />
a sentire senza eccessivo sforzo: «Sordo, io? Mannò, è<br />
che in questa stanza c’è l’eco». Vero, ma è altrettanto<br />
vero che i timpani hanno perduto quei sensori divenuti<br />
vitali durante la lunga stagione da latitante.<br />
Quarant’anni di prigione hanno fatto di <strong>Mesina</strong> un<br />
esperto di questioni carcerarie, un involontario storico<br />
<strong>del</strong>l’antropologia detentiva, un professore <strong>del</strong>la materia.<br />
Che scardina fin nei suoi più sacri principi: «Io dico, e<br />
posso dimostrarlo, che nessun penitenziario riuscirà a<br />
recuperare nessuno. Nessuno di nessuno si può salvare.<br />
Quella <strong>del</strong>la rieducazione è una balla, anzi una beffa.<br />
Chi rieduca chi? Ognuno gestisce se stesso e la propria<br />
vita. Quando ce la fa, se ce la fa». Assicura che il vero<br />
problema è reggere, stare a galla. Ci vuole tempo, molto<br />
tempo, per educarsi alla vita tra le sbarre, imparare ad<br />
175
avere rispetto di sé e degli altri. «Ogni mattina, quando ti<br />
svegli, devi autodisciplinarti perché ci sarà sempre un intoppo,<br />
una <strong>del</strong>usione, una contrarietà a buttarti giù. Ci<br />
puoi provare, ma non riuscirai mai, assolutamente mai,<br />
ad avere un giorno davvero sereno. Basta che un sorvegliante<br />
si svegli di malumore e ti becchi un rapporto».<br />
I numeri ufficiali gli danno ragione, sono moltissimi<br />
quelli che non ce la fanno. In una popolazione carceraria<br />
di oltre cinquantasettemila persone (dati ministeriali),<br />
i primi sei mesi <strong>del</strong> 2003 hanno fatto registrare quaranta<br />
suicidi. «Il fatto è che se vivi in un posto come<br />
questo non puoi permetterti il lusso di essere fragile, altrimenti<br />
crepi. La differenza rispetto a voi, voi <strong>del</strong> mondo<br />
libero, è che qui si muore piano piano. E a morire<br />
non sono soltanto quelli che trovano appesi a un lenzuolo<br />
e finiscono sui giornali accompagnati da un’immancabile<br />
interrogazione parlamentare. Anche noi altri<br />
togliamo il disturbo, senza fare rumore però».<br />
Dietro il velo <strong>del</strong> pugile messo definitivamente kappaò,<br />
<strong>Mesina</strong> nasconde una rabbia immensa. «Certe volte<br />
mi chiedo come ho fatto a vivere quarant’anni qui<br />
dentro senza prendere un ergastolo, un ergastolo vero<br />
dico». Il pericolo di spalancare le porte alla violenza sta<br />
dietro i ritmi quotidiani <strong>del</strong>la galera. «La tensione è nell’aria<br />
che respiri. Sperano sempre di farti passare dalla<br />
loro parte. Non te lo domandano apertamente, certi<br />
discorsi bisogna capirli. È quasi un miracolo riuscire a<br />
sopravvivere dentro posti come questi e non diventare<br />
<strong>del</strong>atore. Qui non sai mai chi ti avvicina, perché ti avvicina<br />
e cosa vuole. Certe volte ti capitano in cella compagni<br />
che puzzano di spia a un miglio di distanza». Altre<br />
volte la “collaborazione” di un detenuto viene stimolata<br />
176<br />
attraverso la concessione di piccoli benefici, privilegi<br />
infinitesimali che tuttavia contano molto in un ambiente<br />
dove di solito si hanno solo doveri e incidentalmente<br />
qualche diritto.<br />
A questo si aggiunge il fatto che per Graziano la fobìa<br />
da spione è una specie di malattia infantile mai <strong>del</strong><br />
tutto risolta. <strong>Lo</strong> ha accompagnato quando faceva il latitante<br />
ma anche (e soprattutto) quando si è trasferito in<br />
una prigione di Stato. Il DNA barbaricino ne ha fatto<br />
un impareggiabile malfidato, assolutamente incapace<br />
di stabilire un rapporto leale e aperto di primo acchito.<br />
Regola numero uno, diffidare. Regola numero due, evitare<br />
confronti. «Non è proprio il <strong>caso</strong> che io, proprio<br />
io, mi metta a dare pagelle». Manco una sillaba, dunque,<br />
sul banditismo degli anni ’80, sui nuovi soci <strong>del</strong>l’Anonima<br />
sequestri e l’affiorare di un inedito e imprevedibile<br />
icerberg malavitoso. «Posso dire soltanto di<br />
me. Donne? Non ne ho mai preso, ai miei tempi non si<br />
doveva. Bambini, neanche. Una volta me n’è capitato<br />
uno ma l’ho rimandato a casa: a me interessava il padre.<br />
Non mi ricordo quante persone ho rapito ma di una cosa,<br />
a parte il fatto che qualcuno se lo meritava pure, sono<br />
certo: le ho sempre trattate bene. Difatti mai una<br />
che si sia costituita parte civile ai processi. Neanche per<br />
un giorno, neanche quando le cose sembravano mettersi<br />
male, ho dimenticato che l’ostaggio è un uomo, che<br />
avevo davanti un cristiano. I sequestri non si fanno con<br />
entusiasmo: se hai coscienza, pesano, danno fastidio.<br />
Quando leghi a un albero uno come te non sei altro che<br />
un carceriere nel senso peggiore <strong>del</strong> termine. Se non sei<br />
una bestia, te ne rendi conto. Li ho fatti i rapimenti, li<br />
ho fatti. Non rinnego nulla».<br />
177
Il ravvedimento, per usare un termine che detesta, è<br />
evidente. Si coglie nelle sfumature di un discorso che<br />
per uno come lui è difficile da fare, complicato. Inutile<br />
sperare di poter andare oltre: Graziano <strong>Mesina</strong> non arriverà<br />
mai all’autoflagellazione, nessuno riuscirà a vederlo<br />
in ginocchio invocare perdono, peggio ancora<br />
contrattare la resa. Che pure c’è, sta dentro parole e<br />
pensieri che lascia liberi di volare durante un colloquio<br />
concesso nel mese di aprile 2003 a Voghera. Si tratta di<br />
un’intervista che non deve essere pubblicata subito.<br />
Vuole sia un assaggio, un rincontrarsi, riprendere il filo<br />
dove si era lasciato. Una questione quasi privata.<br />
Perché accade solo in quel preciso istante, dopo dieci<br />
anni di silenzio e infiniti no a qualunque richiesta di<br />
incontro? Probabilmente scambiare due parole con un<br />
cronista è l’unico modo per far uscire all’esterno furore<br />
e indignazione. In Parlamento si discute in quei giorni<br />
<strong>del</strong>la cosiddetta “pena certa” e <strong>Mesina</strong>, che l’ha scontata<br />
fino in fondo (anzi di più) non riesce a mostrare ancora<br />
una volta il solito distacco, un’indifferenza remota e<br />
indecifrabile, come se certi dibattiti non lo riguardassero<br />
affatto.<br />
In una personalissima guerra con se stesso, sta provando<br />
adesso a sconfiggere definitivamente lo spettro<br />
<strong>del</strong>la passività, <strong>del</strong>l’inerzia totale. Che ha, come tutti<br />
sanno, il retrogusto bruciante <strong>del</strong>la disfatta.<br />
Occorre tener conto poi che per non crollare, bisogna<br />
avere un sistema nervoso decisamente solido. Una<br />
buona via di fuga, per stare a galla e non compromettersi,<br />
è la lettura. Ma non sempre si può, non tutti i capi<br />
consentono. «Lei non se ne fa niente dei libri, mi diceva<br />
un vecchio direttore. E per due anni, due anni, non mi<br />
178<br />
hanno passato nemmeno lettere. Manco una per sbaglio».<br />
Per quanto tempo si può reggere una terapia come<br />
questa?, come si fa a non scoppiare? Stupisce che in<br />
una condizione così greve, così usurante, <strong>Mesina</strong> riesca<br />
a conservare un briciolo di humour. Quando gli domandano<br />
di pronunciare un verdetto su se stesso, imputato<br />
che ci vuole un treno a elencarne tutte le colpe, accetta<br />
la sfida, sorride, infila un’immaginaria toga e pronuncia<br />
serissimo in nome <strong>del</strong> popolo italiano: «Un bel po’ di<br />
anni me li darei». Quanti, per la precisione, vostro onore?<br />
«Un bel po’, non sottilizziamo».<br />
Durante l’ultima detenzione, l’apparato giudiziario<br />
comunque non lo dimentica a riprova che forse ha ragione<br />
quel partito giustizialista secondo il quale «<strong>Mesina</strong><br />
deve stare in carcere perché quello è il suo habitat».<br />
Agli inizi <strong>del</strong> ’97 riceve una comunicazione giudiziaria<br />
per “traffico di stupefacenti”. La faccenda riguarda il<br />
periodo di Asti, i giorni da vigilato speciale, subito dopo<br />
le polemiche e i veleni legati al ruolo di emissario durante<br />
il rapimento di Farouk Kassam.<br />
Contrariamente al solito, stavolta ha tuttavia un ruolo<br />
di secondo piano. I protagonisti sono altri: Carlo Ritrovato<br />
e il clan familiare che gestiva insieme a lui lo<br />
spaccio di droga nel basso Piemonte. La Dda (direzione<br />
distrettuale antimafia) lo ha intercettato e scoperto<br />
proprio mentre era in corso un sanguinoso regolamento<br />
di conti: il cadavere di un uomo <strong>del</strong> boss Epaminonda<br />
– tale Carmelo Nicosia – era stato fatto trovare in un<br />
cascinale vicino Alessandria. La proprietaria di quella<br />
casa si chiama Carmela Ritrovato, è la madre di Carlo.<br />
179
Nel mondo <strong>del</strong>la mala la chiamano affettuosamente “la<br />
cartomante” per la passione e l’abilità a farsi raccontare<br />
il destino da ori e bastoni.<br />
E <strong>Mesina</strong>? Entra nella storia da una porticina secondaria.<br />
A chiamarlo in causa, sia pure non direttamente,<br />
sono quattro collaboratori di giustizia ospitati in una località<br />
segreta e sottoposti al programma di protezione. I<br />
loro nomi servono per capire il teorema <strong>del</strong> pubblico<br />
ministero: Giovanni Ritrovato, Angelo Bertello, Alessandro<br />
Mancini e Sergio Ottaviano. Al pm riferiscono<br />
(perché non l’hanno saputo personalmente) di aver appreso<br />
dalla madre di Sergio Ottaviano che <strong>Mesina</strong> le<br />
aveva ceduto un chilo di eroina. Nell’operazione entra<br />
anche una <strong>del</strong>le figlie <strong>del</strong>la “cartomante”, Giuseppa.<br />
Che sa tutto, assicurano i pentiti. Ma la donna – sentita<br />
dal magistrato – nega con decisione. Altrettanto la madre<br />
di Ottaviano.<br />
Qual’è la verità? Tecnicamente, la loro è un’accusa<br />
per sentito dire: così la definirebbe chi non ha cultura<br />
giuridica e consuetudine col codice penale. Per il vocabolario<br />
forense ha ben altra etichetta e solennità: de relato,<br />
è un’accusa de relato. Cioé sempre per sentito dire,<br />
ma detto – bisogna riconoscerlo – in modo più elegante<br />
e un tantino ambiguo.<br />
Sono credibili i quattro pentiti? <strong>Mesina</strong>, che ha sempre<br />
condannato gli spacciatori, fa sentire la sua voce durante<br />
l’udienza davanti al giudice per le indagini preliminari:<br />
«Non so nulla di questa storia. È un’infamia per<br />
gettarmi altro fango addosso». A dargli una mano c’è<br />
qualche stranezza che affiora qua e là nel fascicolo processuale<br />
dove, per dirne una, la droga passa di mano in<br />
mano senza che venga versata una lira. Sembra una spe-<br />
180<br />
cie di catena di Sant’Antonio, eroina che corre dall’uno<br />
all’altro quasi per gioco. Quando le domandano quanto<br />
abbia speso per comprare il chilo di droga, Angela Ottaviano<br />
spiega di aver bruciato il fornitore (cioé <strong>Mesina</strong>)<br />
perché tanto «sapevo che doveva essere arrestato per<br />
una storia di armi». Previsione assolutamente esatta: di<br />
lì a poco la polizia farà irruzione nel casale di San Marzanotto,<br />
scoverà il misterioso arsenale e neanche una<br />
prova che possa collegarlo a Graziano.<br />
Al processo per la droga gli imputati sono complessivamente<br />
trentasette, alcuni latitanti, altri rottamati come<br />
criminali e riconvertiti in lavoratori socialmente utili<br />
per la giustizia. I quali ribadiscono le famose accuse<br />
de relato ma l’inconsistenza e la fragilità sono tali che diventa<br />
quasi impudico portarle in aula. Nell’estate <strong>del</strong><br />
2000 (a soli nove anni dall’apertura <strong>del</strong>l’inchiesta) <strong>Mesina</strong><br />
viene assolto. Il pubblico ministero non presenta<br />
appello, a dimostrazione che la cosa non stava né in cielo<br />
né in terra.<br />
Il verdetto fa esultare la vecchia primula rossa <strong>del</strong><br />
Supramonte che, a quel punto, si illude due volte: crede<br />
abbiano finito di tormentarlo e che la liberazione condizionale<br />
possa essere nuovamente vicina. Su queste speranze<br />
accoglie l’ennesimo trasferimento (da Novara a<br />
Voghera), accantona in via definitiva l’idea di approdare<br />
in un penitenziario sardo e si prepara a tornare in libertà.<br />
Su quest’obiettivo lavorano a tempo pieno un<br />
suo storico difensore (Gabriella Banda) e un nuovo,<br />
grintoso avvocato: Enrico Bucci. Il quale, sicuro <strong>del</strong>le<br />
carte che ha in mano, si limita a una breve dichiarazio-<br />
181
ne: «Il nostro assistito chiede, in base a precise disposizioni<br />
di legge, la revoca <strong>del</strong>l’ergastolo. La grazia? Non<br />
intende presentare un’istanza di questo tipo, per ora.<br />
Non sta cercando la pietà ma semplicemente l’applicazione<br />
di una norma».<br />
In realtà la questione non è così semplice: si tratta di<br />
ottenere l’alleggerimento previsto da un articolo <strong>del</strong> codice<br />
di procedura penale (il 671), entrato in vigore<br />
quando <strong>Mesina</strong> stava in carcere già da un pezzo, e questo<br />
assottiglia le possibilità di successo. A febbraio <strong>del</strong><br />
2001 si inizia a discuterne nel corso di un “procedimento<br />
di esecuzione” presieduto da Giovanni Mosca.<br />
Durata <strong>del</strong>l’udienza, assente l’imputato, quattro minuti:<br />
il tempo per depositare sul tavolo <strong>del</strong> Tribunale<br />
una rispettabile torre di carte e aspettare il responso.<br />
Che arriva, a strettissimo giro di posta: dieci giorni. Accogliendo<br />
le tesi <strong>del</strong> pm, il giudice Giovanni Mosca respinge<br />
l’istanza: improponibile. Secondo la sentenza,<br />
non è affatto dimostrabile che i vari reati compiuti da<br />
<strong>Mesina</strong> siano ascrivibili «a un medesimo disegno criminoso».<br />
Manca, direbbero i dottori <strong>del</strong>la legge, l’elemento<br />
<strong>del</strong>la continuazione. Dunque va bene il “cumulo”,<br />
niente revoca <strong>del</strong>l’ergastolo, ancora meno la liberazione<br />
condizionale. Fine.<br />
Discutere su questo tema richiede una sconfinata conoscenza<br />
<strong>del</strong>la dottrina. Di certo tutto si è giocato tra<br />
pieghe interpretative, busillis da specialisti ed è tempo<br />
perso cercare di andarci a fondo. Significativo che, a<br />
bocciatura incassata, l’avvocato Bucci annunci un (inutile)<br />
ricorso in Cassazione ma riconosca sportivamente<br />
d’essersi arrampicato sugli specchi: «Era tutto in salita,<br />
già in partenza».<br />
182<br />
E <strong>Mesina</strong>, che per un attimo ci aveva sperato, torna<br />
al palo. Nel frattempo, gli arriva anche una nuova condanna:<br />
stavolta dal tribunale di Nuoro. È colpevole di<br />
“favoreggiamento” per aver violato la legge sul blocco<br />
dei beni durante il <strong>caso</strong>-Kassam: due anni e tre mesi di<br />
reclusione. Si salva invece per un pelo (prescrizione)<br />
suo nipote, Raimondo Crissantu. Ed è proprio su questo<br />
che al momento <strong>del</strong> processo d’appello si registra un<br />
clamoroso patteggiamento tra accusa e difesa. Vale la<br />
pena di riportarlo com’è apparso sulle pagine dei giornali:<br />
La condanna di Graziano <strong>Mesina</strong> in cambio <strong>del</strong>la libertà<br />
per suo nipote, Raimondo Crissantu. Accordo senza<br />
precedenti...<br />
Già, senza precedenti. Il Procuratore generale Giovanni<br />
Antonio Mossa rinuncia a impugnare la sentenza<br />
di primo grado, in particolar modo nella parte che riconosce<br />
una serie di attenuanti per Crissantu evitandogli<br />
il carcere, a patto che <strong>Mesina</strong> accetti in silenzio la sua<br />
condanna. È un dannato gioco <strong>del</strong>le parti che accontenta<br />
tutti: <strong>Mesina</strong>, che vuole salvare un nipote colpevole in<br />
quella vicenda di avergli soltanto fatto da autista; il pm,<br />
che riesce in questo modo a chiudere una vicenda imbarazzante:<br />
per l’amministrazione <strong>del</strong>la giustizia, per lo<br />
Stato e una serie di figure istituzionali che, nel corso <strong>del</strong><br />
sequestro e <strong>del</strong>lo svolgersi <strong>del</strong>le trattative, hanno fatto<br />
sentire i loro fiati riuscendo a non apparire mai.<br />
L’intesa (un solo colpevole anziché due in cambio di<br />
una prescrizione) viene siglata a dicembre <strong>del</strong> 2000 di<br />
fronte al giudice monocratico. Tutto si svolge secondo<br />
gli accordi. Il pubblico ministero interviene brevemente<br />
per dire che <strong>Mesina</strong> ha certamente «posto in essere il<br />
reato di favoreggiamento poiché ci sono intercettazioni<br />
183
e testimonianze» che dimo<strong>strano</strong> il lavoro di emissario.<br />
Lavoro, detto tra parentesi, che Graziano ha svolto quasi<br />
alla luce <strong>del</strong> sole. Che si stesse occupando <strong>del</strong> piccolo<br />
Kassam erano al corrente anche le pietre <strong>del</strong> Supramonte:<br />
non era forse questo il motivo per cui il giudice di<br />
sorveglianza di Torino s’era adoperato per fargli ottenere<br />
la libertà condizionale?<br />
Un tardivo dovere di cronaca impone di ricordare<br />
che, in occasione <strong>del</strong>l’udienza col giudice monocratico,<br />
il difensore di <strong>Mesina</strong> (avvocato Bernardo Aste) ha lanciato<br />
qualche pietra nello stagno. «Ha pagato lo Stato,<br />
lo sanno tutti», ha detto in aula, «lo sanno alla Procura<br />
distrettuale di Cagliari, lo sa Vincenzo Parisi, che all’epoca<br />
era il capo <strong>del</strong>la polizia. Hanno nomi, cognomi e<br />
indirizzi eppure non si muove foglia, l’unico che deve<br />
pagare è <strong>Mesina</strong>».<br />
Sepolta frettolosamente nell’effimera cronaca dei<br />
quotidiani, questa frase non ha lasciato segno. Più o meno,<br />
lo stesso era avvenuto in Tribunale a Tempio Pausania<br />
quando <strong>Mesina</strong> venne sentito come testimone al<br />
processo contro i rapitori di Farouk Kassam. Le parole<br />
sono state, grosso modo, le stesse. La reazione in fotocopia.<br />
E non è finita. Nonostante lo spettacolare flop di<br />
Asti, il binomio droga & pentiti torna in nuova versione:<br />
cambiano i collaboratori di giustizia e le quantità di<br />
stupefacente, resta in piedi solo l’imputato di sempre,<br />
<strong>Mesina</strong>. Fossimo allo stadio in curva nord, finirebbe su<br />
uno striscione: Graziano forever.<br />
Ma qual’è, stavolta, la storia? Tutto comincia con un<br />
184<br />
pentito (tanto per cambiare), Paolo Littera. Che a un<br />
certo punto <strong>del</strong>la sua vita di trafficante trascina sotto<br />
processo nientemeno che un colonnello e un maresciallo<br />
<strong>del</strong>la Finanza. A ruota libera, finalmente loquace nello<br />
status di reo confesso, rivela un terribile intreccio tra<br />
forze <strong>del</strong>l’ordine e spacciatori. Mentre corre sul filo <strong>del</strong>la<br />
memoria nel lodevole tentativo di vuotare tutto il sacco,<br />
si ferma un attimo al 1992 (anno <strong>del</strong> sequestro Kassam<br />
e di <strong>Mesina</strong> in libera circolazione) per raccontare<br />
che quell’anno Graziano aveva ricevuto in agosto alcuni<br />
suoi amici campidanesi. Segue doveroso spuntino d’ospitalità,<br />
che di fatto si rivela una colazione di lavoro allorché<br />
<strong>Mesina</strong> comunica di essere stato incaricato dal<br />
clan calabrese dei Tornaghi di recuperare un vecchio<br />
debito di Littera e compagni: una partita di eroina non<br />
pagata. Tradotto in lire, quattrocento milioni. La risposta<br />
dei “campidanesi” è stata sincera, cuore in mano:<br />
vorremmo ma non abbiamo soldi. Per trovare una soluzione,<br />
si dichiarano tuttavia disponibili a rimboccarsi le<br />
maniche, a scendere (anzi a tornare) in campo. È stato a<br />
questo punto, sostiene Littera, che <strong>Mesina</strong> ha offerto<br />
tre chili di eroina a patto che quelli garantissero di saldare<br />
coi primi guadagni quel conticino rimasto in sospeso.<br />
Non si sa se le accuse di Littera abbiano centrato il<br />
bersaglio. Il sostituto procuratore di Cagliari, Mario<br />
Marchetti, ha spedito una comunicazione giudiziaria a<br />
<strong>Mesina</strong> e s’è tuffato in un’inchiesta che non è stata ancora<br />
chiusa. L’ipotesi da confermare è quella di un ruolo<br />
simil-gangster: trafficante e, nei ritagli di tempo, addetto<br />
al recupero credito per conto terzi. Dentro questo<br />
ipotetico ritratto è riconoscibile il più celebre orgolese<br />
185
d’Italia? Impossibile azzardare un pronostico, disegnare<br />
un finale che resta tutto da scrivere.<br />
Al di là dei confini fra teorie e verità, è comunque<br />
una nuova, pesante mattonata sui denti. Un bombardamento<br />
che non si ferma neppure dopo il ritorno in carcere<br />
<strong>del</strong> ’93. Qual’è il vero Graziano <strong>Mesina</strong>? Al palazzo<br />
di giustizia di Cagliari (e non solo) sono fermamente<br />
convinti che il vecchio bandito non sia mai morto. Dicono:<br />
è vero che appartiene alla vecchia generazione criminale<br />
ma è anche uno che sa adeguarsi rapidamente ai<br />
tempi: e se il traffico di droga ha sostituito i reati d’un<br />
tempo, perché non tentare?, perché non provarci? Dopotutto,<br />
ritengono in Procura, le coincidenze sono troppe<br />
per non destare sospetti.<br />
L’altra immagine è profondamente diversa: tratteggia<br />
un <strong>Mesina</strong> diverso dal fuorilegge che è stato in gioventù,<br />
rivela un vinto che da molti anni ha riscattato se<br />
stesso e che, soprattutto, ha scontato tutto ma proprio<br />
tutto. Quanto dovrà attendere perché un nuovo tribunale<br />
lo dichiari colpevole o lo assolva?, quanto possono<br />
valere le dichiarazioni (senza riscontro) di un pentito?<br />
Forse eccedono quelli che parlano di persecuzione<br />
giudiziaria: il fatto è che non se ne vede la fine. Tra clan<br />
Ritrovato e clan Tornaghi, tra armi custodite nel posto<br />
più sbagliato <strong>del</strong> mondo e fantasiosi progetti per sequestri<br />
internazionali, la figura di <strong>Mesina</strong> appare dilatata,<br />
ancora più mitica di quella relegata alle imprese in Supramonte.<br />
C’è da chiedersi quanto debba durare il purgatorio<br />
di un uomo, se quarant’anni di carcere non siano<br />
un’equa punizione. Proseguire su questa strada si-<br />
186<br />
gnifica mostrare la faccia incarognita di uno Stato che<br />
non sa perdonare e che in ogni <strong>caso</strong> non è stato in grado<br />
di favorire manco un’ombra di redenzione.<br />
È intorno a queste riflessioni che nasce con tutta<br />
probabilità l’idea di cedere, alzare bandiera bianca e<br />
chiedere la grazia. Se ne parlava da un po’, da quando a<br />
Torino gli avvocati Banda e Bucci l’avevano messo in<br />
conto nel <strong>caso</strong> fosse stata respinta l’istanza di revoca<br />
<strong>del</strong>l’ergastolo. Il problema è che <strong>Mesina</strong> non ne vuol sapere.<br />
Resiste alle pressioni dei familiari e pare quasi un<br />
“prigioniero politico” che voglia far arrivare alle estreme<br />
conseguenze, far esplodere, le contraddizioni di un<br />
sistema che da un lato ripudia la pena di morte e dall’altro<br />
finisce per applicarla, sia pure chiamandola in un altro<br />
modo e senza la distaccata assistenza di un boia. Nei<br />
primissimi mesi <strong>del</strong> 2003 continua a rifiutare incontri<br />
coi giornalisti e, visto che c’è, anche con avvocati che di<br />
volta vengono incaricati di ammansirlo, mostrargli l’unica<br />
via di salvezza: quattro righe indirizzate al Presidente<br />
<strong>del</strong>la Repubblica.<br />
Graziano prosegue coi suoi rifiuti («Ho detto no e<br />
no») e finirebbe col farcela se non commettesse un piccolo<br />
errore: sottovaluta la cocciuta testardaggine di una<br />
<strong>signor</strong>a che da qualche anno va a trovarlo con regolarità.<br />
E che sul tema <strong>del</strong>la grazia inizia a fargli il lavaggio<br />
<strong>del</strong> cervello.<br />
Greca Deiana è una sarda che abita da tempo a Modena.<br />
Sposata, madre di due figlie, è vecchia amica di famiglia<br />
dei <strong>Mesina</strong>. Non proprio lei ma suo padre, a voler<br />
essere precisi. Un incontro, che poi è una folgorazio-<br />
187
ne, lo ricorda però molto bene. «Ero una ragazzina,<br />
avrò avuto dodici, tredici anni. Non erano ancora iniziati<br />
gli anni ’70, lo rammento con precisione. Mio babbo<br />
mi teneva per mano, eravamo a Orgosolo...».<br />
Erano a Orgosolo quando d’un tratto appare Graziano.<br />
Se la memoria non tradisce e l’anno è giusto, in<br />
quel periodo Graziano aveva 26 anni, un fisico atletico a<br />
dispetto <strong>del</strong>l’altezza, capelli nerissimi e neppure un etto<br />
in più. Parlava poco (anche allora), in compenso mandava<br />
lampi con gli occhi. «Di lì a breve l’hanno preso e<br />
subito dopo ha cominciato a fare il latitante».<br />
Assicurando di parlare con la voce <strong>del</strong> cuore (ma<br />
senza sentimentalismi di genere), Greca Deiana giura<br />
che quella visione le si è stampigliata nel cervello. E<br />
moltissimi anni più tardi, quando quel giovanotto era<br />
ormai un detenuto “fine pena mai”, le è tornata in mente.<br />
Ha letto, s’è informata, ha scoperto che era tramontata<br />
anche quella certa pruderie intellettualistico-borghese<br />
che aveva coltivato epica e protezione.<br />
Quando decide di occuparsi <strong>del</strong> <strong>caso</strong>, <strong>Mesina</strong> è insomma<br />
finalmente solo, un detenuto qualunque, un numero<br />
nel casellario <strong>del</strong> Dipartimento <strong>del</strong>l’amministrazione<br />
penitenziaria. «Mi sono ricordata all’improvviso<br />
quegli occhi. A costo di sembrare ridicola, dico che erano<br />
occhi di un uomo buono, generoso, leale. Un uomo<br />
che ha pagato tutto quello che aveva da pagare e che ora<br />
deve tornare libero».<br />
Grazie a una serie di aderenze d’un certo peso, si<br />
muove per cercare una strada qualunque che porti alla<br />
libertà. Contatta deputati e senatori, di destra e di sinistra,<br />
parroci e principi <strong>del</strong>la Chiesa, rilancia il <strong>caso</strong> <strong>Mesina</strong><br />
con un fervore che forse non può vantare neanche<br />
188<br />
Adriano Sofri, che pure ha uno schieramento istituzionale<br />
di tutta eccezione in sua difesa. Visite a Roma, a<br />
Modena, a Milano, a Bologna. Nei tempi morti tra un<br />
incontro in carcere e l’altro, Greca Deiana batte inutilmente<br />
una pista diplomatica, sottotraccia, ma i risultati<br />
appaiono quasi subito <strong>del</strong>udenti. Resta, ultima spes, la<br />
grazia. Che, tenuto conto <strong>del</strong> comportamento da detenuto<br />
di Graziano e <strong>del</strong> fatto che non ha più nulla da<br />
scontare, potrebbe anche essere concessa. O quantomeno<br />
ci si può seriamente sperare. Il guaio è che la grazia<br />
bisogna chiederla, metterla per iscritto, nero su<br />
bianco. E quello non ci pensa manco lontanamente.<br />
Inizia così un silenzioso lavoro ai fianchi, fegato milza<br />
fegato milza, fino a quando si avvertono i primi segnali<br />
di cedimento. <strong>Mesina</strong> mostra disinteresse verso la<br />
strada politica e neanche un briciolo di curiosità verso<br />
la procedura per ottenere la grazia. Greca Deiana però<br />
insiste, incalza il fantasma <strong>del</strong> vecchio bandito e batte<br />
sul diritto-dovere di tornare libero, ricominciare in un<br />
posto qualunque con un lavoro qualunque. Non è indispensabile<br />
sistemarsi a Orgosolo, va bene un paese d’Italia<br />
purché sia. L’unica necessità, se proprio vogliamo<br />
chiamarla così, è trascorrere una giornata in campagna,<br />
almeno una. «Ho bisogno di sentire gli odori di quand’ero<br />
bambino, ho bisogno di vedere dall’alba al tramonto<br />
gli alberi e la luce dei monti».<br />
Il desiderio-campagna è una buona leva. Convinta<br />
com’è che in fondo la sua sia solo una battaglia di giustizia<br />
e civiltà, Greca Deiana se ne serve per far uscire Graziano<br />
dal torpore carcerario che lo sta lentamente allontanando<br />
dal mondo cancellandone sogni, convinzioni,<br />
speranze. Senza saltare un solo appuntamento, per due<br />
189
anni questa terapia va avanti con la pervicacia <strong>del</strong>l’analista<br />
che ha scovato la genesi <strong>del</strong> trauma: scava, insiste,<br />
lascia che la memoria faccia risalire da abissi profondi<br />
squarci di ricordo: la famiglia, i genitori, l’adolescenza.<br />
La vita. Non ce n’è abbastanza per reagire, finalmente?<br />
Conclusa la parte teorica, il salto verso quella pratica<br />
è un gioco. All’avvocato Enrico Aimi, consigliere regionale<br />
di An, viene affidato l’incarico di stendere la “domandina”<br />
da spedire al Capo <strong>del</strong>lo Stato. Aimi, penalista<br />
esperto e sensibile, si reca a Voghera un afoso lunedì<br />
di giugno. Alle agenzie di stampa affida un discorso efficace<br />
e scontato: un paese civile, una democrazia, non<br />
può tollerare che Graziano <strong>Mesina</strong> resti ancora in prigione.<br />
Battute invano tutte le strade contemplate dal<br />
codice penale, non resta che presentare istanza di grazia.<br />
«<strong>Mesina</strong> firmerà», assicura prima di varcare il cancello<br />
elettronico <strong>del</strong> penitenziario.<br />
In realtà non ne è sicurissimo. Sa che il suo cliente ha<br />
un carattere particolare, basta una frase sbagliata o una<br />
botta di cattivo umore e salta tutto.<br />
Il 21 luglio l’avvocato Aimi esce dal carcere intorno<br />
alle tredici. «Ha firmato», dice rifiutandosi di entrare<br />
nei particolari di un’istanza dove – per espresso volere<br />
di <strong>Mesina</strong> – sono elencati sprazzi di vita barbaricina, la<br />
<strong>Sardegna</strong> rovente <strong>del</strong>l’Anonima, gli incontri più o meno<br />
obbligati che un giovane balente doveva fare.<br />
Prima <strong>del</strong>la fine <strong>del</strong> mese, la pratica è a Roma, sul tavolo<br />
<strong>del</strong> ministro di Grazia e Giustizia che deve esprimere<br />
un parere. Per farlo, dovrà ricucire la carriera carceraria,<br />
le condanne, i comportamenti, le opinioni di<br />
190<br />
persone che sanno. Pronunciare, in buona sostanza,<br />
quello che in ogni <strong>caso</strong> sarà l’ultimo verdetto.<br />
In questa fase, l’unico senza diritto di parola è proprio<br />
<strong>Mesina</strong>. Che comunque non ruffianeggia. Per ragioni<br />
di dignità e di coerenza, ripete che di solito la grazia<br />
«la chiedono quelli che stanno scontando una condanna».<br />
Lui ha concluso, da un pezzo. E si appella (si<br />
appellava) al rispetto <strong>del</strong>le regole dimenticando che<br />
nella patria <strong>del</strong> diritto le regole esistono per costruirci<br />
intorno le eccezioni. Valide per tutti, quasi tutti.<br />
191
Capitolo XV<br />
La grazia negata<br />
Il giorno di sant’Ilaria, 12 agosto, il detenuto Graziano<br />
<strong>Mesina</strong> s’è svegliato alla solita ora: le cinque e mezzo.<br />
Ha acceso la tivù (televideo) e avviato le pulizie <strong>del</strong> suo<br />
domicilio coatto: cella numero 5, tre metri per uno e ottanta,<br />
secondo piano <strong>del</strong> carcere di massima sicurezza<br />
di Voghera, vista cielo. Che quella mattina era stranamente<br />
cupo, un tetto di nuvolaglia.<br />
La seccatura, in genere, riguarda i due mobiletti inchiodati<br />
al muro: non si sa da dove arrivi ma sono sempre<br />
pieni di polvere. Finito di rassettare cella e ritirata<br />
(water e lavandino protetti da una porticina, privilegio<br />
dei reclusi di lunga navigazione), <strong>Mesina</strong> s’è preparato<br />
l’unico caffè <strong>del</strong>la giornata, ha indossato jeans azzurri e<br />
una t-shirt nera un po’ elasticizzata: il che aiuta, visto<br />
che la muscolatura non è più quella di un tempo. Se è<br />
solo per questo, anche i capelli non sono più gli stessi:<br />
quelli nerissimi degli anni <strong>del</strong>la latitanza sono evasi mettendo<br />
in luce un cranio tondo, lucido.<br />
Alle 11,30 di quel giorno, proprio mentre incombeva<br />
la solita noia (solita, da quarant’anni), una guardia<br />
carceraria s’è materializzata davanti alla porta <strong>del</strong>la cella<br />
numero 5: «Ti vogliono all’Ufficio Matricola». In<br />
queste circostanze non è il <strong>caso</strong> di perdersi in chiacchie-<br />
193
e, anticipare domande che possano soffocare l’ansia.<br />
«Eppoi, l’ansia di chi? Io, anche quando sono furioso,<br />
sembro sereno».<br />
Sembrando sereno, il detenuto Graziano <strong>Mesina</strong> ha<br />
seguito la guardia in un percorso tutt’altro che familiare<br />
nonostante sia a Voghera dal 2000: androni tinteggiati<br />
di celeste madonna, cancellate fino al soffitto, portoncini<br />
blindati coi cristalli corazzati. Finché non si chiude<br />
una porta, quella successiva resta sprangata: dirige il<br />
traffico una lucetta gialla che lampeggia.<br />
Il turnista <strong>del</strong>l’Ufficio Matricola è gentile e sbrigativo.<br />
«È arrivata questa per te. Firma qui per ricevuta».<br />
La lettera ha lo stemma <strong>del</strong>la Repubblica ed è firmata<br />
dal magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale di Pavia.<br />
Pochissime righe indirizzate alla direzione <strong>del</strong>la Casa<br />
Circondariale di Voghera: «Per dovere d’ufficio, trasmetto,<br />
copia lettera <strong>del</strong> Ministero <strong>del</strong>la Giustizia, con<br />
la quale si comunica la risoluzione negativa adottata sull’istanza<br />
di grazia avanzata dal nominato in oggetto».<br />
Ora, al di là <strong>del</strong> fatto che la virgola non ci stava a far nulla<br />
dopo il verbo trasmettere, il significato resta ambiguamente<br />
chiaro: risoluzione negativa si riferisce al parere<br />
<strong>del</strong> Ministero o proprio al fatto che l’istanza <strong>del</strong> nominato<br />
in oggetto sia stata definitivamente rigettata?<br />
<strong>Mesina</strong>, che <strong>del</strong> pessimismo ha fatto una religione laica,<br />
approfitta immediatamente <strong>del</strong>la possibilità di poter<br />
chiamare casa (quattro telefonate al mese). 0784, prefisso<br />
di Orgosolo, e poi il numero di Peppedda, la sorella.<br />
«Non mi fanno uscire, niente grazia». Le comunica la<br />
brutta notizia parlando in fretta ma senza gridare per<br />
non far capire che dentro sta esplodendo. Peppedda<br />
però lo conosce bene: incassa il colpo, cerca inutilmente<br />
194<br />
l’avvocato per mettere a punto chissà quale reazione e<br />
avverte subito Ballore, il più anziano dei fratelli. Alla vigilia<br />
<strong>del</strong>l’Assunta, festa grande <strong>del</strong> paese, esce e probabilmente<br />
si sfoga con qualcuno svelando una notizia<br />
che, in un attimo, vola.<br />
Al Tribunale di Pavia il dottor <strong>Lo</strong>renzo Fabris è assente,<br />
ferie. Un cortesissimo cancelliere, che si occupa<br />
proprio di questo genere di pratiche, spiega il significato<br />
<strong>del</strong>la frase scritta in burocratese-giudiziario: «C’è poco<br />
da interpretare, il concetto è limpido. L’iter per ottenere<br />
la grazia si è concluso: l’istanza è stata rigettata».<br />
Significa che non c’è più speranza? «Certo, significa<br />
proprio questo». Sarebbe bello, a questo punto, sapere<br />
che ne dice il ministro di Giustizia, il leghista Roberto<br />
Castelli, che ha fatto smentire le voci sulla bocciatura di<br />
<strong>Mesina</strong>. Parole testuali <strong>del</strong> suo portavoce: «La pratica<br />
non è stata affatto respinta. È ancora in istruttoria».<br />
Una bugia, una pietosa bugia dettata da chissà quali ragioni<br />
politiche: la domanda di grazia è stata cestinata. Il<br />
nominato in oggetto torna al destino che gli spetta: fine<br />
pena mai.<br />
Mercoledì, 18 agosto, il carcere di Voghera è la solita<br />
gabbia color alluminio. Sbarre sottili, alte sei-sette<br />
metri, avvolgono un caseggiato grigio dove, ci fosse un<br />
filo d’aria, potrebbero sventolare orgogliosamente il<br />
tricolore d’Italia e la bandiera europea, appese stancamente<br />
a una finestra. Mentre si aspetta di poter entrare,<br />
in un angolo lontano appare un detenuto speciale: è<br />
un pastore tedesco male in arnese, spelacchiato, magro,<br />
occhi tristissimi e zampata senza energia. Esce da<br />
una cuccia sistemata sotto il sole a tenaglia, si trascina<br />
con fatica fino alle sbarre e ci infila la testa nella spe-<br />
195
anza di una carezza. Scodinzola, non abbaia: non<br />
sembra tagliato per i compiti di vigilanza. Avesse pure<br />
una ciotola d’acqua a disposizione forse sembrerebbe<br />
meno depresso.<br />
Dopo il controllo dei documenti, il passaggio sotto il<br />
metal detector, le verifiche di legge, gli scricchiolii dei<br />
cancelli che si aprono con inesorabile lentezza; dopo le<br />
porte blindate, la musica sinistra di enormi chiavi d’ottone<br />
e il rumore dei passi amplificato dall’eco in gallerie<br />
deserte, si arriva finalmente alla sala-colloqui: un tavolo<br />
impolverato, una vecchia poltrona d’ufficio (sfondata),<br />
due sedie che gemono al minimo movimento.<br />
Graziano <strong>Mesina</strong> passa per essere un detenuto tranquillo.<br />
Perfino solitario non fosse per l’amicizia con l’unico<br />
altro recluso sardo di Voghera, Mauro Addis (di<br />
Carbonia, in galera per terrorismo). Addis è vegetariano,<br />
<strong>Mesina</strong> astemio: per ferragosto si sono organizzati<br />
un pranzo che era una via di mezzo tra gli hippy e le orsoline.<br />
«Però poi c’è il problema degli extracomunitari.<br />
Sono tanti, non hanno un centesimo e dunque non possono<br />
comprare niente allo spaccio. E che faccio, mi<br />
metto a mangiare mentre uno mi guarda? A questi, da<br />
baby sitter bisogna fargli».<br />
L’amministrazione carceraria passa la colazione (anche<br />
dietetica), un pranzo (primo, secondo e frutta),<br />
una cena da ospedale (minestrina e un pezzo di formaggio).<br />
Il vino c’è, si può acquistare un quarto di litro<br />
alla volta «ma fa talmente schifo che bere acqua diventa<br />
un piacere». Le celle singole sono in dotazione ai soli<br />
detenuti anziani, cioè a gente come <strong>Mesina</strong> che sconta<br />
l’ergastolo nonostante nessun Tribunale abbia pronunciato<br />
una sentenza di questo tipo contro di lui. Sta<br />
196<br />
pagando, e continuerà a pagare, per un’aberrazione<br />
giuridica che ha equiparato la somma di pene diverse<br />
all’ergastolo. Vecchia storia, non vale la pena di perderci<br />
la testa. «Non parlare di me, parla <strong>del</strong> sistema<br />
carcerario».<br />
È un <strong>Mesina</strong> senza vanità e gonfio di livore quello<br />
che avanza, a piccoli passi, da un androne lontano. Saluta,<br />
sorride stretto stretto ed entra direttamente nella<br />
saletta-colloqui lasciando una leggera scia di deodorante.<br />
Sessantadue anni: e stavolta, a parte gli occhi che<br />
sembrano senza tempo, si vedono tutti. «Faccio quattro<br />
ore di aria al giorno, due al mattino e due alla sera.<br />
Poi, qualche movimento in cella». Per tornare (o quasi)<br />
quello di una volta servirebbe ben altro. «È la vita sedentaria<br />
che ti frega».<br />
Si siede, mette lo sguardo a fuoco, dà un’occhiata alla<br />
copertina di un libro che racconta la sua storia (e che<br />
ha già letto), ridacchia osservando un collage di foto<br />
che lo riporta agli anni calibro 12, alla stagione <strong>del</strong> fuorilegge<br />
balente. Non aspetta domande, non gli interessa<br />
soddisfare curiosità di cronaca. Va subito al dunque,<br />
a valanga. Come se aspettasse da sempre di gridare due<br />
o tre cose all’altro mondo, oltre le sbarre.<br />
«<strong>Lo</strong> sapevo che non mi avrebbero concesso la grazia.<br />
Non regalano mai nulla a persone come me. Con le<br />
ultime due condanne dovevo scontare otto anni e tre<br />
mesi. Ne ho fatto dieci, non bastano?»<br />
– Un’ultima speranza, Ciampi.<br />
«Sì, ma ci sono complicanze legate alla grazia per<br />
Adriano Sofri. Comunque: se vogliono farmi tornare<br />
in libertà, per quello che sono e per la galera che ho<br />
fatto, bene. Altrimenti, pazienza. Io non chiedo più<br />
197
niente. E non mi suicido, tranquilli. Aspetterò di morire<br />
in carcere».<br />
– Semilibertà?<br />
«Fossi in <strong>Sardegna</strong>, probabilmente sarei fuori, in libertà<br />
condizionata. Qui niente, qui non concedono<br />
niente a nessuno, manco a quelli che hanno poca roba<br />
da scontare...».<br />
– I diritti dei detenuti esistono.<br />
«Quali diritti, quale diritto? Il diritto non esiste, esiste<br />
invece la discrezionalità di un magistrato che diventa<br />
un giudice supremo, un dio che decide <strong>del</strong>la tua vita. E<br />
il guaio è che, intanto, qui si scoppia».<br />
– Chi scoppia?<br />
«Manco ve lo immaginate perché sui giornali finiscono<br />
solo quelli che s’ammazzano. Possibile che nessuno<br />
si sia accorto che c’è una drammatica emergenzacarceri?<br />
Ci sono malati terminali che non vengono assistiti<br />
come si dovrebbe, ci sono difficoltà ad avere medicine.<br />
E inoltre devi fare i conti con la testa».<br />
– Per sopravvivere?<br />
«Certo. Dipende dal carattere se riesci a tenere o a<br />
non tenere. Certi giorni sto male, sono incazzato per<br />
qualcosa ma ai miei compagni mostro sempre una faccia<br />
tranquilla».<br />
– Perché?<br />
«Perché se vanno giù anche i vecchi, buona notte. È<br />
per questo che dico e ripeto: non fatevi speranze, non illudetevi,<br />
pensate sempre al peggio che è meglio. Di solito<br />
l’orrore <strong>del</strong>la galera rimbalza sui giornali quando ci<br />
finisce dentro uno di serie A».<br />
– Chi sono quelli di serie A?<br />
«Avete presente quegli industriali che, appena gli<br />
198<br />
mettono le manette, si ammalano e finiscono in clinica?<br />
Poi trovi sempre uno che in televisione spiega che certa<br />
gente resta traumatizzata per una semplice ragione: non<br />
è abituata alla galera. Scusate, e io? Io non sono nato in<br />
galera e dopo quarant’anni, non so come non so perché,<br />
ma non mi ci sono ancora abituato. Sarò allergico?»<br />
– Come si affronta una giornata in carcere?<br />
«Un grande aiuto arriva dal lavoro, se te lo danno. Io<br />
ho fatto l’imbianchino per undici mesi, ho tinteggiato<br />
tutta la sezione. Non è che diventi ricco, tre euro all’ora,<br />
ma almeno passi il tempo».<br />
– Anche con l’ergastolo?<br />
«Anche con l’ergastolo, a patto che lo si chiami come<br />
deve essere chiamato: condanna a morte».<br />
– Altre distrazioni?<br />
«La televisione. Io ce l’ho in cella, prendo dodici-tredici<br />
canali. Mi piace tenermi aggiornato sulla politica,<br />
nazionale e internazionale. Poi seguo con interesse le<br />
trasmissioni che parlano di ambiente e animali: Geo &<br />
Geo, Quark, roba così».<br />
– Nient’altro?<br />
«Nient’altro, nient’altro: cosa volete che guardi un<br />
detenuto? Donne, trasmissioni dove ci siano donne:<br />
mettono malinconia e accendono bei ricordi».<br />
– A proposito di politica: che sa <strong>del</strong>la <strong>Sardegna</strong>?<br />
«So che nemmeno la miglior gelateria <strong>del</strong>la Costa<br />
Smeralda appartiene ai sardi. Perfino i gelati. E questo<br />
mi dà fastidio, mi fa dire che noi sardi dobbiamo riprendercela<br />
la <strong>Sardegna</strong>, nella legalità».<br />
– La fede attenua la solitudine?<br />
«Se ce l’hai. Io rispetto, anzi invidio quelli che credono<br />
perché si sentono più consolati. Ogni tanto mi ven-<br />
199
gono però dei dubbi: se, come dicono, l’aldilà è il posto<br />
ideale per ogni buon cristiano, perché nessuno ci vuole<br />
andare?»<br />
– Insomma, in chi ha fede lei?<br />
«Vivo giorno dopo giorno, senza illusioni. Ho fede<br />
nel chirurgo che mi ha riattaccato mezzo dito tranciato<br />
da una porta blindata. È proprio finito a terra, il dito. È<br />
successo l’anno scorso. Siamo andati di corsa all’ospedale<br />
io, le guardie e il dito. Il dottore mi ha detto: ci provo<br />
ma non ci spero. E io: vabbe’, intanto ci provi. Mi è<br />
andata bene».<br />
– Guarito?<br />
«Il dito è tornato al solito posto, non è sensibilissimo<br />
ma non si può avere tutto. Alla terapia dopo l’intervento<br />
chirurgico ho pensato io: ogni tanto, con una lametta<br />
tagliavo schegge di pelle morta. Lavoro di precisione, va<br />
fatto con cura. Togli oggi togli domani, tutto è tornato a<br />
posto. Capito? Per non morire devi deciderlo prima di<br />
tutto dentro di te: non voglio, non devo morire».<br />
200<br />
Capitolo XVI<br />
Ritorno a casa<br />
Respinta ad agosto, la grazia risorge inaspettatamente<br />
a novembre. In silenzio o quasi. Il direttore <strong>del</strong> carcere<br />
di Voghera convoca <strong>Mesina</strong> nel suo ufficio una settimana<br />
prima che la notizia esploda sulle agenzie di stampa.<br />
Gli dice, in via amichevole e riservata, che il ministro<br />
<strong>del</strong>la Giustizia ha depositato il suo fascicolo al Quirinale<br />
esprimendo parere favorevole. E quindi.<br />
Quindi Graziano, che ha fatto <strong>del</strong>la diffidenza e <strong>del</strong><br />
disincanto la sua seconda pelle, non ci crede. O meglio,<br />
dà una risposta che potrebbe apparire sprezzante e invece<br />
lascia trasparire soltanto un disperato senso d’attesa:<br />
«Parere favorevole? Bene, aspettiamo e vediamo».<br />
Nessuna emozione: i balentes, compresi quelli over sessanta,<br />
non devono mostrare debolezze.<br />
Il problema è che qualcosa non quadra, i conti non<br />
tornano. Nella sua cella, <strong>Mesina</strong> conserva la comunicazione<br />
<strong>del</strong> giudice di sorveglianza di Pavia che appena<br />
cento giorni prima gli aveva annunciato il peggio: istanza<br />
di grazia rigettata. Due righe secche, senza commento<br />
o un briciolo di spiegazione.<br />
Cos’è accaduto nel frattempo?, chi e perché ha cambiato<br />
idea? Nessun segnale apprezzabile dall’esterno,<br />
niente che aiuti a capire. A Roma, che è la città dove<br />
201
tutto succede e tutto si decide, il dibattito politico stagna<br />
sul <strong>caso</strong>-Sofri e sulla intenzione <strong>del</strong> Presidente <strong>del</strong>la<br />
Repubblica di decidere in autonomia. Ovvero infischiandosene<br />
<strong>del</strong> parere <strong>del</strong> ministro Guardasigilli.<br />
Che c’entra <strong>Mesina</strong> con tutto questo? A possibili sviluppi<br />
positivi <strong>del</strong> <strong>caso</strong> non accenna il deputato diessino<br />
Francesco Carboni che lo va a trovare in carcere. Non<br />
ne parla nemmeno il difensore, avvocato Enrico Aimi,<br />
che si limita a inviare una lettera di incoraggiamento:<br />
non darti per vinto. Non ne sa nulla, infine, neanche la<br />
crocerossina <strong>del</strong>la grazia, quella Greca Deiana di Modena<br />
che da anni bazzica per parrocchie, ministeri e segreterie<br />
di partito nella speranza di riuscire a tirarlo<br />
fuori dalla cella.<br />
Negli ambienti parlamentari si parla con una certa<br />
insistenza di un inciucino carcerario, un’operazione<br />
trasversale che mette insieme (una volta tanto) maggioranza<br />
e opposizione. Circola, circolerebbe, una lista di<br />
persone da graziare. Lista da girare a Ciampi in cambio<br />
di un benevolo silenzio-assenso non appena verrà concessa<br />
la libertà a Sofri. I leghisti gradirebbero, per esempio,<br />
la scarcerazione dei lagunari che hanno asssaltato<br />
anni fa il campanile di piazza san Marco a Venezia. Alleanza<br />
Nazionale invece vedrebbe volentieri il ritorno a<br />
casa di Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. Non<br />
trapela, stranamente, la lista dei candidati di Forza Italia:<br />
i maligni dicono che il premier avrebbe solo l’imbarazzo<br />
<strong>del</strong>la scelta, altri propendono per difficoltà su un<br />
accordo interno.<br />
Illazioni. Alla luce <strong>del</strong> sole non c’è nulla, men che<br />
meno ci potrebbe essere un elenco di detenuti che in<br />
nome di una perversa par condicio possono tornare li-<br />
202<br />
beri. Resta tuttavia una certezza: a <strong>Mesina</strong> la grazia è stata<br />
negata e nulla autorizza a credere ci possa essere un<br />
ripensamento. Eppure il ripensamento c’è stato ma nessuno<br />
ne chiederà conto al ministro. A cose ormai fatte,<br />
in piena euforia da celebrazione televisiva, Castelli va<br />
addirittura in tivù con <strong>Mesina</strong>. Officia un conduttore<br />
felice e curiale nella sua untuosità cardinalizia. Nel corso<br />
<strong>del</strong>la trasmissione tivù, si chiacchiera, si parla di taglie<br />
per favorire la cattura degli assassini di un benzinaio<br />
ucciso a Lecco, si litiga sulla riforma giudiziaria appena<br />
varata ma neppure una domandina semplice semplice<br />
sulla grazia che prima non c’era e adesso c’è. Non<br />
ha questo tipo di curiosità neanche Gavino Angius, presidente<br />
dei senatori Ds, che pure si dichiara soddisfatto<br />
per la liberazione di <strong>Mesina</strong>.<br />
L’interrogativo su cosa sia avvenuto tra agosto e novembre<br />
<strong>del</strong> 2004 resterà, con tutta probabilità, un mistero.<br />
Vietato dire che il ministro ha cambiato idea. Il<br />
suo portavoce ricorda di aver sempre sostenuto una sola<br />
tesi: «La pratica <strong>del</strong>la grazia è in itinere». Vorrà dire<br />
che avranno capito male i giornalisti, il direttore <strong>del</strong> carcere<br />
di Voghera e il giudice di sorveglianza di Pavia che<br />
s’è affrettato a comunicare un’informazione che evidentemente<br />
non aveva alcuna importanza: la grazia era<br />
in itinerere e lui ha creduto, anzi l’ha messo per iscritto,<br />
che fosse stata respinta.<br />
Il silenzio è desolante e assoluto quando l’Ansa lancia<br />
un flash alle 12,54 <strong>del</strong> 23 novembre: Ciampi grazia<br />
<strong>Mesina</strong>. Nient’altro.<br />
La procedura prevede la scarcerazione immediata<br />
ma bisogna fare i conti con un ultimo refolo di sfortuna:<br />
c’è sciopero dei magistrati e quindi nessuno invia l’ordi-<br />
203
ne di scarcerazione che da Roma deve arrivare a Pavia e<br />
da Pavia a Voghera. Castelli, che con la magistratura ha<br />
un fronte di guerra permanente, ne approfitta per dichiarare<br />
che «lo sciopero ritarderà di 24 ore l’uscita dal<br />
carcere di Graziano <strong>Mesina</strong>. Un giorno di libertà in meno,<br />
che non gli restituirà nessuno».<br />
Il 24 novembre l’assedio dei giornalisti inizia di<br />
buon’ora. Freddo, un cielo basso e nuvoloso abbraccia<br />
degnamente la casa circondariale di Voghera: c’è<br />
un grigio uniforme che non regala affatto aria di festa.<br />
I primi arrivati si piazzano accanto all’ingresso, qualche<br />
metro dalla garitta blindata, intorno alle 8 <strong>del</strong><br />
mattino. Per ingannare l’attesa, qualcuno va a chiedere<br />
notizie di un secondino speciale, un pastore tedesco<br />
che mesi prima sembrava passarsela male sotto il sole<br />
d’agosto. È il cane <strong>del</strong>le guardie carcerarie, una cuccia<br />
di fronte a sbarre alte sette metri e, sullo sfondo, una<br />
discarica. Aspettando <strong>Mesina</strong>, vale la pena di andare a<br />
trovarlo superando – con discrezione – il limite invalicabile<br />
<strong>del</strong>la prigione (alt, sorveglianza armata). Il cane<br />
c’è e sta bene, abbaia con determinazione, mostra agli<br />
estranei una sanissima dentatura. Però non è lui. L’altro,<br />
spelacchiato e malconcio, ha tirato le cuoia. Quello<br />
che parteciperà all’affollata partenza di Graziano<br />
<strong>Mesina</strong> è soltanto un successore.<br />
Intanto il piazzale <strong>del</strong>le auto in sosta si riempie rapidamente.<br />
Tra telecamere e taccuini, c’è una piccola legione,<br />
un centinaio di reporter in tutto. Di <strong>Mesina</strong> manco<br />
l’ombra. Quando manca un quarto d’ora alle 13 una<br />
vecchia Punto si avvicina lentamente, supera uno sbarramento<br />
e s’arresta davanti alle gigantesche inferriate<br />
da gabbia circense che avvolgono il penitenziario. Al<br />
204<br />
volante c’è Ballore, fratello maggiore di Graziano, coppoletta<br />
sarda di velluto, occhi immobili su un punto imprecisato<br />
davanti a lui. Ballore finge di non sentire chi<br />
bussa ai vetri, di non vedere le facce dei giornalisti che si<br />
spiaccicano sul parabrezza implorando una dichiarazione<br />
qualunque. Forse, ma proprio forse, sorride impercettibilmente<br />
quando qualcuno gli pone una domanda<br />
iper-cretina: scusi, è venuto a prendere suo fratello?<br />
Con aplomb ben diverso, passo sicuro e quasi marziale,<br />
qualche ora prima aveva fatto il suo ingresso in<br />
carcere l’avvocato Aimi. Tutti sicuri che entrasse e<br />
uscisse nel giro di qualche minuto insieme a Graziano.<br />
Invece nulla. Dopo quasi tre ore di permanenza, il legale<br />
si fionda all’esterno, rallenta davanti allo schieramento<br />
di microfoni e distilla un’ovvietà: «Ancora pochi passi<br />
e Graziano <strong>Mesina</strong> sarà un uomo libero». Poi si allontana,<br />
imbufalito.<br />
La verità salta fuori in un baleno. Aimi, se una certa<br />
ricostruzione sussurrata è vera, è entrato in carcere e ha<br />
chiesto di parlare col suo assistito. Siccome dal ministero<br />
non era ancora arrivato niente, la risposta <strong>del</strong> comandante<br />
<strong>del</strong>la polizia penitenziaria è stata gentile e<br />
veloce: «No». Per non mostrare contrarietà, a quel<br />
punto Aimi ha ripiegato con stile: «Vabbe’, fatemelo<br />
sentire almeno per telefono». E ha incassato il secondo<br />
no. «Col detenuto in questione potrà parlare quando<br />
verrà scarcerato. In assenza d’una richiesta di colloquio<br />
regolarmente autorizzata, non è possibile incontrarlo o<br />
mettersi in comunicazione con lui». Sconfitto su tutta<br />
la linea e per niente disposto a rivelarlo ai giornalisti,<br />
l’avvocato ha preferito a quel punto optare per una ful-<br />
205
minea ritirata al termine di quelle due parole che dicevano<br />
e non dicevano.<br />
E <strong>Mesina</strong>? Per arrivare, arriva. Ma con enorme ritardo.<br />
Si viene a sapere che di buon mattino, non appena<br />
gli avevano riferito che una muta di giornalisti lo<br />
stava aspettando al varco, ha telefonato a suo fratello<br />
Ballore per chiedergli aiuto: «Vieni a prendermi».<br />
Spera (e sbaglia) di poter evitare la stampa e trattare in<br />
condizioni privilegiate il ventaglio di esclusive che lo<br />
aspetta.<br />
Le cose gli vanno male a metà. Indimenticabile comunque<br />
l’immagine che offre quando l’ultimo cancello<br />
automatico lampeggia e si apre lentamente per lasciarlo<br />
passare. Tra lui e il mondo c’è a quel punto solo una cancellata<br />
immensa, stretta, robusta, ostile. Braccia appesantite<br />
da tre buste di plastica (il bagaglio di undici anni<br />
in galera), Graziano appare in tutta la sua fragilità. Resta<br />
immobile, per pochi secondi, guarda disorientato e<br />
scosso le truppe assatanate che lo aspettano al di qua<br />
<strong>del</strong>le sbarre. Ha la faccia stanca, gli occhi velati da un<br />
istante di commozione (ma lui dirà che è colpa <strong>del</strong> raffreddore),<br />
la tensione e la solennità dei grandi momenti.<br />
Non sposta un muscolo, statuario come una preda che<br />
ha fiutato l’aria e aspetta l’attimo <strong>del</strong>la fuga.<br />
La primula rossa <strong>del</strong> Supramonte, adesso, è quasi un<br />
vecchio acciaccato dagli anni, un <strong>signor</strong>e che ha bisogno<br />
di riposare, muoversi con calma. Papalina grigia,<br />
giacca a vento e jeans, potrebbe essere confuso per un<br />
qualunque pensionato se non fosse per quella zavorra<br />
colorata che raccoglie tutte le sue cose, il corredo: un<br />
206<br />
po’ di vestiario, libri, lettere, il curriculum giudiziario.<br />
Stringe le mani di una decina d’agenti, prima di affacciarsi<br />
timidamente all’esterno sognando di raggiungere<br />
la macchina di Ballore prima che quegli altri, telecamere<br />
e notes, sferrino l’attacco. «Graziano, Grazianooo...».<br />
Dalle retrovie qualcuno lancia un urlo. E lui si<br />
blocca, posa le buste per terra e aspetta che il primo incursore<br />
riesca a placcarlo. «Bentornato». <strong>Lo</strong> salutano<br />
un vecchio amico, il nipote, un parente-giornalista. Baci<br />
e abbracci, pochi secondi che tuttavia bastano a tutti gli<br />
altri per andare all’arrembaggio.<br />
Parte una raffica di domande, più o meno scontate.<br />
Cosa prova, cosa farà, come ha dormito l’ultima notte<br />
in cella, cosa ha detto a quelli che restano, chi gli piacerebbe<br />
ringraziare, vuole fare un appello agli italiani.<br />
<strong>Mesina</strong> risponde a monosillabi, costringendosi perfino<br />
a sorridere. Ma di un sorriso stretto, di circostanza.<br />
Non ne ha affatto voglia di ridere, lo stress sembra<br />
paralizzarlo. La voce di Ballore, che preme vanamente<br />
per fare manovra e andar via, affiora quando un cronista<br />
chiede quale sarà la prossima meta: «Destinazione<br />
segreta».<br />
Segreta? Con molta fatica e dopo molte insistenze,<br />
Graziano riesce a infilarsi in macchina, fendere la folla<br />
e allontanarsi. I più selvaggi <strong>del</strong>la muta lo tampinano,<br />
quasi fossero la scorta. Confidano che lungo strada tanta<br />
cocciutaggine venga premiata. E invece no. Ballore<br />
vola, si fa per dire, verso Crescentino e intanto interroga<br />
il fratello per rompere un silenzio fastidioso. Ma<br />
Graziano non ha voglia di parlare. Un nebbione da manuale<br />
gli chiude l’orizzonte <strong>del</strong> mondo che ha soltanto<br />
immaginato per tanti, lunghissimi anni: pioppi, frutteti,<br />
207
piccole aziende agrarie. E un traffico d’autostrada che<br />
preoccupa.<br />
Che odore ha la libertà?, che colori mostra? Stretto<br />
fra Tir e automobili avvolti dalla foschia, vede poco e<br />
immagina meno. Tanto, i profumi che aspetta di sentire<br />
e le immagini che vuole davvero vedere stanno altrove,<br />
molto lontano da qui.<br />
Arriva a Crescentino e siede a tavola insieme ai familiari<br />
e all’avvocato Aimi. A un tratto Ballore gli chiede se<br />
si vuol trattenere qualche giorno, giusto per alleggerire<br />
il peso di un momento sicuramente impegnativo e difficile.<br />
Riflette giusto un secondo: «Vado via. Domani mi<br />
imbarco da Livorno. Voglio tornare a Orgosolo».<br />
Il giorno dopo, nel corridoio <strong>del</strong> molo, è incappucciato<br />
a sufficienza per non essere riconosciuto. La macchina<br />
che lo trasporta infila lentamente la grande porta<br />
carraia <strong>del</strong> traghetto e prosegue fino al parcheggio.<br />
Graziano non è solo: non sa guidare e non ha nemmeno<br />
la patente. Confida di tapparsi in cabina fino all’arrivo a<br />
Olbia.<br />
Una <strong>signor</strong>a, giornale spalancato tra le mani, lo osserva<br />
per un attimo, fa ballare gli occhi su e giù, tra lui e<br />
la foto sul giornale, poi balbetta. «Scusi, ma lei non è,<br />
non è...». Il nome non riesce a pronunciarlo. Graziano<br />
le viene incontro: «Sì, sono io».<br />
“Io” che fa accorrere un camionista e subito dopo<br />
uno studente. “Io” che, mentre gli cresce intorno un capannello<br />
di visi sorridenti, si ritrova circondato. Di nuovo:<br />
prima i giornalisti, ora i viaggiatori d’una motonave.<br />
Parte un applauso, la proposta di un brindisi accolta all’unanimità<br />
e l’inevitabile coretto in lingua sarda. Il traghetto<br />
salpa mentre a bordo c’è festa grande. A un ra-<br />
208<br />
gazzo che lo guarda incantato quasi fosse un’apparizione,<br />
<strong>Mesina</strong> viene incontro avvertendolo: «Se vuoi ti racconto<br />
la mia vita, ma non prenderla ad esempio».<br />
Dopo lo sbarco e dopo molti bicchieri di spumante,<br />
comincia la lettura dei giornali mentre si viaggia<br />
verso Nuoro. Tutto come previsto: Orgosolo accoglie<br />
con freeddezza la notizia <strong>del</strong>la grazia (i vecchi sono indifferenti,<br />
i giovani giurano di non sapere chi sia), il<br />
paese non tradisce il minimo entusiasmo. E gli altri?<br />
Fateh Kassam dice che la notizia lo interessa quanto<br />
una macchina parcheggiata per strada e rifiuta di aggiungere<br />
qualsiasi commento ma si capisce (e bene)<br />
che non sta facendo i salti di gioia. Penalisti, poliziotti<br />
e frequentatori di <strong>Mesina</strong> (ragioni d’ufficio) stanno<br />
dentro il binario di un cauto ottimismo: giustizia è fatta,<br />
ma ora stacchiamo la spina, non trasformiamo tutto<br />
in uno show.<br />
Appena arrivato a Orgosolo, Graziano si nasconde a<br />
casa <strong>del</strong>la sorella, aggira l’appostamento dei fotografi<br />
entrando da una porta posteriore, la stessa che adoperava<br />
quando – durante il rapimento <strong>del</strong> piccolo Farouk<br />
Kassam – cercava di fare il lavoro <strong>del</strong>l’emissario nella<br />
maniera meno chiassosa possibile.<br />
Questo suo silenzio assoluto potrebbe far pensare al<br />
bisogno di calarsi nell’anonimato, al desiderio di riprendere<br />
la vita senza doverne rendere conto ai lettori<br />
dei giornali: finalmente. Il motivo di tanta riservatezza<br />
però è un altro: finché sono in corso le trattative per<br />
un’esclusiva televisiva e un’altra a un settimanale, meglio<br />
evitare anche i fotografi.<br />
209
Un settimanale pubblica “l’unica intervista rilasciata<br />
da <strong>Mesina</strong> in carcere”. È una bufala bella e buona, visto<br />
che di interviste ne ha dato più d’una, con grande<br />
generosità. Di corollario escono altre piccole e poco<br />
credibili esclusive (montate incollando vecchi articoli<br />
su Grazianeddu). Il quale non si stanca mai di avvertire<br />
che non intende rispondere soltanto a tre domande:<br />
sulla criminalità in <strong>Sardegna</strong> (e non solo in <strong>Sardegna</strong>),<br />
sulla vecchia faida di Orgosolo e sul rapimento di Kassam.<br />
Ad abundatiam non vuol parlare nemmeno <strong>del</strong>le<br />
armi trovate a suo tempo nel casale vicino Asti dove<br />
trascorreva una sorta di confino. In altre parole, non intende<br />
riaprire storie sepolte e dimenticate che possono<br />
accendere (riaccendere) polemiche. <strong>Mesina</strong> cerca un<br />
presente senza paura, possibilmente non avvelenato:<br />
per questa ragione, appena lasciata Voghera, si gestisce<br />
con grande autocontrollo. Tanto è vero che nel botta e<br />
risposta all’uscita dal carcere glissa più o meno su tutto<br />
e rinvia ad altra data perfino i dovuti ringraziamenti al<br />
Capo <strong>del</strong>lo Stato.<br />
La prima sortita ufficiale – prevista, programmata<br />
e, per quel che se ne sa, profumatamente pagata – è in<br />
tivù, su “Porta a Porta”. Per l’occasione gli fanno trovare<br />
in studio il ministro Castelli che arriva a frenare<br />
una lacrima dicendo d’aver «provato una gioia immensa<br />
a liberare un uomo». Il conduttore incalza, spera<br />
che pianga anche Graziano e quando s’accorge<br />
d’un battito di ciglia troppo accelerato uggiola di felicità.<br />
Due commozioni un colpo solo: il ministro e il<br />
bandito.<br />
Incassato in una poltroncina bianca, <strong>Mesina</strong> non<br />
sembra a suo agio. Sta ingessato, fa saettare gli occhi<br />
210<br />
dallo studio al monitor per capire quando lo stanno inquadrando.<br />
Per renderlo compatibile con la trasmissione,<br />
abbondano di fondo tinta: effetto anti-sudore sotto i<br />
riflettori ma soprattutto per coprire le macchie <strong>del</strong>la vitiligine.<br />
Non bastasse il cerone, a farlo sentire inadeguato<br />
e a disagio è anche l’abbigliamento: giacca e cravatta<br />
strizzata sul collo, un’arietta da parastatale in crisi. Si<br />
vede benissimo che sta subendo un martirio per causa<br />
di forza maggiore: dopo la scarcerazione, i quattrini non<br />
abbondano, tanto vale dunque mettersi sul mercato<br />
<strong>del</strong>le confessioni in esclusiva. Finché dura.<br />
Confessioni, poi, per modo di dire. Quando prende<br />
parte alla trasmissione su Rai 1, l’ex fuorilegge diventato<br />
mito leggenda eccetera eccetera dice poco: ringrazia<br />
Castelli e il presidente Ciampi ma senza perdersi in ruffianerie.<br />
Occhio asciutto, voce tesa, mani agganciate ai<br />
braccioli, parla il meno possibile, ascolta un reportage<br />
di qualche minuto sulla sua carriera criminale, rievoca<br />
(divertendo gli spettatori televisivi) l’evasione dal carcere<br />
sassarese di San Sebastiano con relativa fuga in taxi<br />
insieme all’amico spagnolo Miguel Angel Atienza.<br />
È probabile che nelle prossime settimane gli tornino<br />
in mente altri spezzoni <strong>del</strong>la lunga avventura dentro e<br />
fuori dalle prigioni, ma in sostanza è già stato sufficientemente<br />
prodigo da riferire più o meno tutto di sè. Meglio:<br />
più o meno tutto quello che ha voluto riferire.<br />
Salvo colpi di scena, la storia di Graziano <strong>Mesina</strong> finisce<br />
qui. Era giusto e corretto battersi perché ottenesse<br />
la grazia, tenere in piedi martellanti campagne di stampa,<br />
sottolineare il passato rispettoso d’una certa deon-<br />
211
tologia professionale. Ma continuare a parlarne significa<br />
davvero alimentare il mito, nel senso peggiore <strong>del</strong><br />
termine. Significa trascinare nello star-system una figura<br />
che, osservata anche con l’occhio più benevolo e distaccato,<br />
non può essere punto di riferimento. Il primo a<br />
esserne cosciente è proprio Graziano <strong>Mesina</strong> che, invitato<br />
da quattrocento studenti <strong>del</strong>le scuole superiori di<br />
Oristano, si è preparato a ribadire un concetto fondamentale:<br />
«Non fate come me». Non fate come lui che la<br />
vita se l’è quasi <strong>del</strong> tutto distrutta, scaraventata in una<br />
trincea da dove difficilmente si esce vivi. Forse ha ragione<br />
il suo amico Gigi Riva, calciatore patrono di <strong>Sardegna</strong>,<br />
quando dice che «in fondo Graziano è figlio <strong>del</strong>la<br />
sua epoca, di una periferia che doveva fare quotidianamente<br />
i conti con la miseria e la violenza. Non lo dico<br />
per giustificare, ma soltanto per capire».<br />
Di importante, davvero notevole, è stato il comportamento<br />
in carcere dove vendersi o annientarsi è questione<br />
di un attimo. <strong>Mesina</strong> ha un formidabile sistema<br />
nervoso, una forza interiore che meriterebbe un congresso<br />
scientifico: non ha mai avuto un verbale disciplinare,<br />
non ha mai litigato, non è mai entrato nelle grazie<br />
di un direttore. Non è un pentito (non potrebbe esserlo),<br />
ha custodito la dignità come un tesoro segreto, l’ha<br />
difesa contro tutto e contro tutti. Senza perdere la testa<br />
una sola volta. Quando gli hanno fatto sapere che l’istanza<br />
di grazia era stata respinta, non ha iniziato lo<br />
sciopero <strong>del</strong>la fame, non ha minacciato il suicidio, non<br />
si è sciolto in pianto sul palcoscenico di Maurizio Costanzo.<br />
Ha scelto, come sua abitudine, il silenzio.<br />
Non accade spesso che quando un detenuto va via<br />
lo saluti una specie di ovazione, il battimani frenetico<br />
212<br />
dei compagni di galera e quello degli agenti di polizia<br />
penitenziaria che hanno convidiviso con lui mille giornate<br />
senza fine. Con lui è successo.<br />
Non ha rinnegato neppure un minuto <strong>del</strong>la sua esistenza,<br />
non ha smentito qualche accusa palesemente<br />
falsa, accusa strumentale a una politica giudiziaria che<br />
puntava a seppellirlo vivo. Questo è un capitolo che<br />
non intende riaprire mai più.<br />
Fine <strong>del</strong>la guerra. Graziano <strong>Mesina</strong> entra nel ritrettissimo<br />
club dei graziati. A distanza di sicurezza dal<br />
mondo.<br />
Cagliari, dicembre 2004<br />
213
Cronologia <strong>del</strong>la vita<br />
di Graziano <strong>Mesina</strong><br />
1942<br />
4 aprile. Graziano <strong>Mesina</strong> nasce a Orgosolo. Famiglia<br />
povera, agropastorale.<br />
1958<br />
Minorenne, viene fermato dai carabinieri mentre spara<br />
con un fucile ai lampioni <strong>del</strong> paese.<br />
1960<br />
Viene nuovamente sorpreso a sparare contro i lampioni.<br />
Fermato dai carabinieri, fugge dalla camera di sicurezza<br />
e si dà alla latitanza. Condannato a sette mesi di<br />
reclusione.<br />
1961<br />
Agguato in un bar di Orgosolo sullo sfondo di un sequestro<br />
di persona. Viene arrestato e condannato a sedici<br />
anni.<br />
Litiga con un vicino che gli ha ucciso il cane: due anni<br />
e mezzo di reclusione per lesioni gravi.<br />
1962<br />
Tenta di fuggire dal carcere di Nuoro ma viene intercettato<br />
dagli agenti di custodia. Il colpo gli riesce poco<br />
215
dopo: ricoverato in ospedale, scappa appendendosi<br />
agli scolatoi <strong>del</strong>l’acqua.<br />
Suo fratello Giovanni viene assassinato.<br />
Entra in un bar e fulmina con una sventagliata di mitra<br />
il fratello <strong>del</strong>l’uomo sospettato di aver ucciso Giovanni.<br />
Una bottigliata in testa lo ferma mentre se ne sta andando.<br />
Ventisei anni di reclusione.<br />
1963<br />
Tenta di evadere ma viene scoperto e trasferito a Porto<br />
Azzurro.<br />
1964<br />
Si finge pazzo e finisce nel manicomio giudiziario di<br />
Montelupo Fiorentino. Ci resta poco: è trasferito prima<br />
a Viterbo e poi a Spoleto dove tenta la fuga dopo<br />
aver appiccato le fiamme a un magazzino.<br />
1965<br />
Prova a scappare durante un viaggio in treno, ma le<br />
guardie lo sorprendono.<br />
1966<br />
È l’anno <strong>del</strong>la più clamorosa <strong>del</strong>le sue nove evasioni.<br />
Insieme allo spagnolo Miguel Angel Atienza, riesce a<br />
scavalcare il muro di cinta <strong>del</strong> carcere di Sassari, si mescola<br />
alla folla e si allontana in taxi. Riprende il vecchio<br />
mestiere: rapine e sequestri.<br />
1967<br />
Rapisce a Nuoro un facoltoso commerciante. Un mese<br />
dopo ingaggia un conflitto a fuoco con i “baschi blu”.<br />
Colpito in pieno petto, Atienza muore dopo una breve<br />
216<br />
agonia. Seguono altri quattro scontri con polizia e carabinieri.<br />
1968<br />
Due sequestri e incontro con un ufficiale <strong>del</strong> Sifar,<br />
Massimo Pugliese. Alla fine di marzo viene arrestato a<br />
un posto di blocco <strong>del</strong>la polizia stradale.<br />
1969<br />
Sotto processo per diversi episodi legati alla latitanza,<br />
viene condannato all’ergastolo per “cumulo di pena”.<br />
In compenso, viene definitivamente scagionato per la<br />
morte di due poliziotti massacrati in un conflitto a fuoco.<br />
Si riuscirà a dimostrare che a ucciderli sono state<br />
pallottole in dotazione alle forze <strong>del</strong>l’ordine.<br />
1976<br />
Viene assassinato il fratello Nicola. In agosto fugge<br />
dal carcere di Lecce insieme al nappista Martino Zichitella.<br />
1977<br />
Rapisce un industriale calzaturiero ad Ascoli. A primavera<br />
viene sorpreso e arrestato in Trentino.<br />
1985<br />
Il boss Angelo Epaminonda racconta d’aver fatto insieme<br />
a lui una rapina. <strong>Mesina</strong> nega ma viene ugualmente<br />
condannato.<br />
Ottiene un permesso e non rientra in carcere. Dopo pochi<br />
giorni di ricerche, verrà arrestato in un appartamento<br />
a Milano. Con lui c’è una ragazza, Valeria Fusè, che<br />
gli aveva scritto molte lettere durante la detenzione.<br />
217
1991<br />
Il Tribunale di sorveglianza di Torino gli concede la liberazione<br />
condizionale. Ha l’obbligo di risiedere a San<br />
Marzanotto d’Asti ma viene sorpreso a Parma. In una<br />
valigetta ha dieci milioni in contanti: soldi puliti, verrà<br />
accertato.<br />
1992<br />
Sequestro <strong>del</strong> piccolo Farouk Kassam a Porto Cervo, in<br />
<strong>Sardegna</strong>. <strong>Mesina</strong> accetta di fare l’emissario per conto<br />
<strong>del</strong>la famiglia. Si scontra, anche se non direttamente,<br />
con Procura, polizia e servizi segreti.<br />
1993<br />
Viene arrestato: nel suo cascinale di San Marzanotto<br />
trovano armi. Dietro, c’è la storia di un improbabile sequestro<br />
a Montecarlo da mettere a segno con due strani<br />
personaggi.<br />
1994-1999<br />
Viene incriminato per favoreggiamento (sequestro Kassam),<br />
per la vendita di un chilo di eroina, per aver tentato<br />
un recupero-crediti per droga da malavitosi sardi.<br />
2000<br />
Trasferito dal carcere di Novara a quello di Voghera,<br />
apprende di essere stato condannato a due anni e otto<br />
mesi. Che, aggiunti ai sei per il rapimento a Montecarlo,<br />
precludono qualunque prospettiva d’uscita dal carcere.<br />
2003<br />
Su pressione dei familiari, firma la domanda di grazia al<br />
Presidente <strong>del</strong>la Repubblica.<br />
218<br />
2004<br />
Ad agosto gli comunicano che l’istanza di grazia è stata<br />
respinta. Contrordine a novembre, cento giorni dopo:<br />
la grazia è concessa.<br />
In conclusione, ecco l’elenco <strong>del</strong>le carceri italiane<br />
dove è stato detenuto Graziano <strong>Mesina</strong>:<br />
Regina Coeli, Badu ’e Carros, Lecce, Novara, Voghera,<br />
Buoncammino, Favignana, Porto Azzurro, Saluzzo, Alghero,<br />
Trani, Torino, Oristano, Sassari, Procida, Volterra,<br />
Viterbo, Spoleto, Montelupo Fiorentino, Augusta,<br />
Trento.<br />
219
INDICE
INDICE<br />
<strong>Lo</strong> <strong>strano</strong> <strong>caso</strong> <strong>del</strong> <strong>signor</strong> <strong>Mesina</strong><br />
7 I. A casa<br />
19 II. Ritratto di pentito<br />
31 III. Le regole <strong>del</strong> gioco<br />
43 IV. Affari riservati<br />
55 V. Fateh Kassam<br />
67 VI. Missione a rischio<br />
77 VII. Il dio tritolo<br />
91 VIII. Matteo Boe<br />
103 IX. La Coop dei sequestri<br />
117 X. Una star <strong>del</strong> crimine<br />
129 XI. La notte <strong>del</strong>le menzogne<br />
141 XII. Armi ad Asti<br />
157 XIII. Polvere di mito<br />
169 XIV. Dieci anni dopo<br />
193 XV. La grazia negata<br />
201 XVI. Ritorno a casa<br />
215 Cronologia <strong>del</strong>la vita di Graziano <strong>Mesina</strong>
Volumi pubblicati:<br />
Tascabili<br />
Grazia Deledda, Chiaroscuro<br />
Grazia Deledda, Il fanciullo nascosto<br />
Grazia Deledda, Ferro e fuoco<br />
Francesco Masala, Quelli dalle labbra bianche<br />
Emilio Lussu, Il cinghiale <strong>del</strong> Diavolo (2 a edizione)<br />
Maria Giacobbe, Il mare (3 a edizione)<br />
Sergio Atzeni, Il quinto passo è l’addio<br />
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri<br />
Giulio Angioni, L’oro di Fraus (2 a edizione)<br />
Antonio Cossu, Il riscatto<br />
Bachisio Zizi, Greggi d’ira<br />
Ernst Jünger, Terra sarda<br />
Marcello Fois, Sempre caro (2 a edizione)<br />
Salvatore Niffoi, Il viaggio degli inganni (2 a edizione)<br />
Luciano Marrocu, Fáulas (2 a edizione)<br />
Gianluca Floris, I maestri cantori<br />
D.H. Lawrence, Mare e <strong>Sardegna</strong><br />
Salvatore Niffoi, Il postino di Piracherfa<br />
Flavio Soriga, Diavoli di Nuraiò (2 a edizione)<br />
Giorgio Todde, <strong>Lo</strong> stato <strong>del</strong>le anime (2 a edizione)<br />
Francesco Masala, Il parroco di Arasolè<br />
Maria Giacobbe, Gli arcipelaghi (2 a edizione)<br />
Salvatore Niffoi, Cristolu<br />
Giulio Angioni, Millant’anni<br />
Luciano Marrocu, Debrà Libanòs<br />
Giorgio Todde, La matta bestialità (2 a edizione)<br />
Sergio Atzeni, Racconti con colonna sonora e altri «in giallo»<br />
Marcello Fois, Materiali<br />
Maria Giacobbe, Diario di una maestrina<br />
Giuseppe Dessì, Paese d’ombre<br />
Francesco Abate, Il cattivo cronista
Gavino Ledda, Padre padrone<br />
Salvatore Niffoi, La sesta ora<br />
Jack Kerouac, L’ultima parola. In viaggio. Nel jazz<br />
Gianni Marilotti, La quattordicesima commensale<br />
Giorgio Todde, Ei<br />
Luigi Pintor, Servabo<br />
Marcello Fois, Tamburini<br />
Francesco Abate, Ultima di campionato<br />
Patrick Chamoiseau, Texaco<br />
Luciano Marrocu, Scarpe rosse, tacchi a spillo<br />
Alberto Capitta, Creaturine<br />
Romano Ruju, Quel giorno a Buggerru<br />
Peppinu Mereu, Poesie complete<br />
Narrativa<br />
Salvatore Cambosu, <strong>Lo</strong> sposo pentito<br />
Marcello Fois, Nulla (2 a edizione)<br />
Francesco Cucca, Muni rosa <strong>del</strong> Suf<br />
Paolo Maccioni, Insonnie newyorkesi<br />
Bachisio Zizi, Lettere da Orune<br />
Maria Giacobbe, Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanzia<br />
Giulio Angioni, Il gioco <strong>del</strong> mondo<br />
Aldo Tanchis, Pesi leggeri<br />
Maria Giacobbe, Scenari d’esilio. Quindici parabole<br />
Giulia Clarkson, La città d’acqua<br />
Paola Alcioni, La stirpe dei re perduti<br />
Mariangela Sedda, Oltremare<br />
Rossana Copez, Si chiama Violante<br />
Poesia<br />
Giovanni Dettori, Amarante<br />
Sergio Atzeni, Due colori esistono al mondo. Il verde è il secondo<br />
Gigi Dessì, Il disegno<br />
Roberto Concu Serra, Esercizi di salvezza<br />
Serge Pey, Nierika o le memorie <strong>del</strong> quinto sole<br />
Saggistica<br />
Bruno Rombi, Salvatore Cambosu, cantore solitario<br />
Giancarlo Porcu, La parola ritrovata. Poetica e linguaggio in<br />
Pascale Dessanai<br />
FuoriCollana<br />
Salvatore Cambosu, I racconti<br />
Antonietta Ciusa Mascolo, Francesco Ciusa, mio padre<br />
Alberto Masala - Massimo Golfieri, Mediterranea<br />
I Menhir<br />
Salvatore Cambosu, Miele amaro<br />
Antonio Pigliaru, Il banditismo in <strong>Sardegna</strong>. La vendetta barbaricina<br />
Giovanni Lilliu, La civiltà dei sardi<br />
Giulio Angioni, Sa laurera. Il lavoro contadino in <strong>Sardegna</strong><br />
Libristante<br />
Giorgio <strong>Pisano</strong>, <strong>Lo</strong> <strong>strano</strong> <strong>caso</strong> <strong>del</strong> <strong>signor</strong> <strong>Mesina</strong><br />
In coedizione con Edizioni Frassinelli<br />
Marcello Fois, Sempre caro<br />
Marcello Fois, Sangue dal cielo<br />
Marcello Fois, L’altro mondo<br />
Giorgio Todde, <strong>Lo</strong> stato <strong>del</strong>le anime<br />
Giorgio Todde, Paura e carne<br />
Giorgio Todde, L’occhiata letale
Finito di stampare<br />
nel mese di gennaio 2005<br />
dalla Tipolitografia ME.CA.<br />
Recco (GE)