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Pisano, Lo strano caso del signor Mesina - Sardegna Cultura

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Giorgio <strong>Pisano</strong><br />

LO STRANO CASO<br />

DEL SIGNOR MESINA<br />

Il Maestrale


LIBRISTANTE


Giorgio <strong>Pisano</strong><br />

<strong>Lo</strong> <strong>strano</strong> <strong>caso</strong><br />

<strong>del</strong> <strong>signor</strong> <strong>Mesina</strong><br />

Copertina<br />

Nino Mele<br />

Impaginazione<br />

Imago multimedia<br />

Edizioni Il Maestrale<br />

Redazione:<br />

via Massimo D’Azeglio 8<br />

08100 Nuoro<br />

Telefono e Fax:<br />

0784 31830<br />

E-mail:<br />

redazione@edizionimaestrale.com<br />

Internet:<br />

www.edizionimaestrale.com<br />

ISBN 88-86109-86-5<br />

Proprietà letteraria riservata<br />

© Edizioni Il Maestrale 2005<br />

Giorgio <strong>Pisano</strong><br />

<strong>Lo</strong> <strong>strano</strong> <strong>caso</strong><br />

<strong>del</strong> <strong>signor</strong> <strong>Mesina</strong><br />

Il Maestrale


A mio figlio


I<br />

A casa<br />

«Ce n’è ce n’è, da fare». <strong>Lo</strong> aspetta, per iniziare, un<br />

lavoro da magazziniere, poi magari torna in <strong>Sardegna</strong> e<br />

segue il forno <strong>del</strong> fratello, a Budoni. «Insomma, ricomincio».<br />

Graziano <strong>Mesina</strong> non ha più il fisico <strong>del</strong>la fuga: pochi<br />

capelli, pancetta dilagante, zampe di gallina sugli<br />

occhi. Un <strong>signor</strong>e ingrigito, ormai. Intontito dall’effetto<br />

aria, dalle prime sei ore di libertà, confuso, uomo qualunque<br />

tra gente qualunque. Ballore, il fratello maggiore,<br />

è andato a prenderlo alle Nuove di Torino con la sua<br />

vecchia macchina e se l’è portato a casa, per sottrarlo alla<br />

curiosità <strong>del</strong>la gente e guardarlo dritto in faccia. «Anche<br />

se ha cinquant’anni, per noi i più piccoli restano<br />

sempre bambini». Deve dargli qualche consiglio importante<br />

per sopravvivere ora che va a scoprire, a riscoprire,<br />

un altro mondo.<br />

Morto il padre Pasquale, il capofamiglia è lui. Da<br />

Orgosolo è fuggito nell’epoca <strong>del</strong> boom economico, è<br />

planato a Crescentino, quaranta chilometri da Fiat city,<br />

in tempi non facili, quando tutti i meridionali venivano<br />

chiamati sbrigativamente “Napoli”. Non faceva differenza<br />

essere siciliani o calabresi, pugliesi o sardi. «Ho<br />

fatto le ossa alla vita».<br />

7


Graziano lo guarda con grande rispetto, gli deve obbedienza.<br />

Soprattutto adesso che avverte una strana febbre:<br />

gli frullano in testa mille idee e mille progetti. Mille<br />

paure, forse, ma di quelle non parla. Nell’appartamentino<br />

di Ballore, palazzina popolare di mattoni rossi immersa<br />

in un centro operaio, cintura industriale senza<br />

storia e senza presente, si sente al sicuro. Gli stanno<br />

dando la caccia un centinaio di giornalisti: <strong>Mesina</strong> libero,<br />

Grazianeddu (come piace chiamarlo ai milanesi)<br />

esce dal carcere. Oggi, 19 ottobre 1991, è tutta per lui la<br />

seconda notizia dei Tg nazionali, il titolone di prima<br />

pagina di numerosi quotidiani. Uno condisce l’avvenimento<br />

in salsa western: il ritorno di Graziano.<br />

La cena è pronta: salsiccia, pane carasau, pecorino e<br />

un vino che lascia l’impronta color inchiostro sul bicchiere.<br />

«Quanto avrà? Quattordici, quindici gradi non<br />

di più». Si fa sentire, aiuta ad accendere la notte di euforia.<br />

Intanto Graziano, rigorosamente astemio, parla.<br />

Corre sul suo passato, salta da un episodio all’altro, risponde<br />

al telefono che squilla in continuazione: «Desolato,<br />

non è qui. Terrà una conferenza stampa nei prossimi<br />

giorni». Gli piace questo giochino di smarcamento<br />

dei giornalisti, lo rende felice. E tanto per stupire i tre<br />

amici a tavola, tira fuori referenze di tutto rispetto:<br />

«Devo ringraziare Maurizio Costanzo, mi ha mandato<br />

un bellissimo telegramma. Devo ringraziare anche Gigi<br />

Riva, mi ha regalato magliette e scarpe per la mia squadra<br />

di calcio, a Porto Azzurro». Campionato dietro le<br />

sbarre, entusiasmante. «Fino a quando non mi hanno<br />

portato via due titolari»: trasferiti, esigenze di giustizia.<br />

Ogni tanto dà un’occhiata all’orologio, un pataccone<br />

d’oro massiccio. Un regalo, si capisce da come lo gin-<br />

8<br />

gilla. Per festeggiare, Ballore stappa una bottiglia d’acquavite<br />

scura, fatta macerare con bucce d’arancia. Gradi<br />

tanti, tra quaranta e cinquanta. Buona, assicura una<br />

giovane milanese che ha avuto il privilegio di essere invitata<br />

a questa tavolata di famiglia, destinata a pochi intimi,<br />

santi bevitori.<br />

Come succede? Chissà. Mezzanotte, cielo umido e<br />

senza stelle, Crescentino è a letto, domani la sirena <strong>del</strong>la<br />

fabbrica fischierà presto, lacererà la quiete di un’alba<br />

identica a quella di ieri, alba fatta in serie. Qualcuno nomina<br />

Orgosolo e <strong>Mesina</strong> fugge d’improvviso a perdifiato<br />

sul filo sospeso <strong>del</strong>la memoria.<br />

Pare solo con se stesso, quasi fosse tornato in cella,<br />

guarda oltre la finestra. E riesce a rivedere la vecchia<br />

abitazione di famiglia, pietra su pietra nella parte alta<br />

<strong>del</strong> paese. Chiusa, da tempo. Ogni tanto è meta di bus<br />

carichi di turisti che vogliono osservare la casa <strong>del</strong> bandito.<br />

Talvolta, se si è fortunati, si può incontrare la mamma<br />

<strong>del</strong>l’ex ergastolano. Certo, non è moltissimo ma almeno<br />

il tour <strong>del</strong> brivido non va buco. Di solito il programma,<br />

oltre la sosta-meditazione davanti al vicolo dove<br />

<strong>Mesina</strong> ha trascorso l’infanzia, prevede una puntata<br />

sul Supramonte, pranzo all’aperto con l’arrosto cucinato<br />

dai pastori, i grandi spiedi di legno e un’atmosfera vaga<br />

da Far West d’Italia.<br />

Zia Caterina neppure si accorge di chi la scruta con<br />

curiosità. Alle soglie <strong>del</strong> secolo di vita, fatica a reggersi<br />

in piedi, non può fare a meno di un’assistenza continua.<br />

Starle dietro, adesso che con la testa non c’è più, è molto<br />

faticoso. Settimana dopo settimana si sposta in continuazione:<br />

un po’ con Peppedda, un po’ con Antonia, un<br />

po’ con Peppe. Dei suoi undici figli sono quelli rimasti a<br />

9


Orgosolo. Rosa e Antonio abitano a Budoni, Ballore e<br />

Graziano sono su, in Piemonte.<br />

Rimettere tutti insieme, magari per un momento,<br />

per la festa dei cent’anni? Sarebbe bello, e troppo doloroso.<br />

Quando si trasferisce da una casa all’altra, zia Caterina<br />

prende con sé poche cose e i ceri dei tre figli morti:<br />

Pietro se l’è portato via la cattiva salute, Giovanni assassinato<br />

d’autunno, nel ’62. Neanche un mese più tardi<br />

Graziano, che allora aveva vent’anni, ha pensato di vendicarlo<br />

uccidendo con una sventagliata di mitra il fratello<br />

<strong>del</strong> presunto assassino: dente per dente.<br />

Era una domenica d’ottobre, il bar <strong>del</strong> paese pieno<br />

pieno per l’aperitivo. Andrea Muscau stava al bancone,<br />

il braccio posato sul laminato lucido dove andavano e<br />

venivano bicchieri colmi di birra. La porta si spalanca,<br />

Graziano toglie fiato e parole con quel cannone in mano.<br />

E spara, spara. Per un attimo Muscau sembra ballare<br />

sotto la pioggia di proiettili, poi si affloscia, gli occhi<br />

spalancati sul buio <strong>del</strong>la morte. Graziano vorrebbe andarsene,<br />

adesso, senza fretta: lo ferma una bottigliata in<br />

testa. Come nei saloon. È l’inizio di una faida sanguinaria<br />

che finirà solo molti anni dopo. La sorellina di Muscau,<br />

che frequentava le elementari, ha indossato il lutto<br />

a partire da quel momento.<br />

L’altro figlio che zia Caterina ha accompagnato al<br />

camposanto è Nicola, assassinato nell’estate <strong>del</strong> ’76.<br />

Strana morte, rimasta inspiegabile perfino nei sussurri<br />

di paese. Lavorava nel cantiere <strong>del</strong> rimboschimento, caposquadra.<br />

Un uomo chiuso, tranquillo, pochi amici e<br />

poche chiacchiere. Dicono che stesse svolgendo una personalissima<br />

indagine sulla morte di Pietrino Crasta, un<br />

possidente di Berchidda rapito e assassinato anni prima.<br />

10<br />

Una mattina, ora di pranzo, gli tendono un agguato<br />

mentre si trova in un viottolo di campagna con due colleghi.<br />

Tutti giù, faccia in terra. «Non abbiamo capito cosa<br />

volessero, perché ci facevano mettere in quella posizione»,<br />

racconterà più tardi uno dei due testimoni. Che<br />

volevano? Facile: uno di loro doveva essere giustiziato.<br />

Quasi a bruciapelo, senza pietà, il viso poggiato sull’erba.<br />

La notizia rimbalza in paese nel primissimo pomeriggio,<br />

sibila velocissima tra le sedie sistemate davanti<br />

alle case per sfuggire al caldo. Qualcuno ricorda ancora<br />

il grido ossessivo di un improvvisato banditore, un vecchietto<br />

che tutti conoscevano per una sua donabbondiesca<br />

fragilità. Tziu Leoni, lo chiamavano con velenosa<br />

ironia. «Non ho visto niente, non ho visto niente, non<br />

ho visto niente», ripeteva scartando angoli e stradine,<br />

maratoneta impazzito. Correva, correva senza fermarsi.<br />

Cos’è rimasto di tutto questo? Un ricordo polveroso,<br />

la casa <strong>del</strong>l’infanzia dove si viveva in dieci, piccola<br />

ma capiente. Quando Graziano è nato, nel 1942, Orgosolo<br />

non faceva quattromila abitanti (3.937 al primo<br />

gennaio). E gli altri, dove sono gli altri? Maestro Bassu,<br />

maestra Monni, la <strong>signor</strong>ina Veronica. Erano i pionieri<br />

d’una scuola elementare che i ragazzetti dividevano a<br />

metà con la custodia <strong>del</strong> gregge. Le bambine giocavano<br />

con bambole di stoffa, realizzate con le loro mani, le più<br />

brave riuscivano a farle intrecciando foglie d’asfo<strong>del</strong>o.<br />

Il pomeriggio, coi maschietti, si giocava a bandidos e<br />

sordados (la versione più aggiornata, banditi e carabinieri,<br />

è arrivata molto più tardi). Come molti suoi amici,<br />

Graziano aveva su carrozzinu, una tavola di legno su<br />

ruote di sughero, per volare a tutta velocità in discesa,<br />

preistoria <strong>del</strong>lo skateboard. Televisori ce n’erano po-<br />

11


chissimi. Quello più frequentato stava negli uffici <strong>del</strong>la<br />

Poa, Pontificia opera di assistenza, affollatissimo alle 17<br />

per la tivù dei ragazzi.<br />

In alcuni momenti Orgosolo ha raggiunto i cinquemila<br />

abitanti. Villaggio povero, ma di povertà equamente<br />

distribuita. Non c’era miseria disperata e neppure<br />

ricchezza gridata. «O, se c’era, cercavano di non sbattercela<br />

in faccia», ricorda Peppedda <strong>Mesina</strong>. Tanto è<br />

vero che la frequentazione <strong>del</strong>le chiese non seguiva una<br />

divisione di classe. Tra la chiesa di Sant’Antonio, per<br />

esempio, e quella di San Pietro la differenza stava soltanto<br />

nella comodità degli orari <strong>del</strong>la messa. Nella bella<br />

stagione si pregava anche in campagna, a San Michele, a<br />

Sant’Anania. Nei paraggi di questa chiesa era stata aggredita,<br />

violentata e uccisa nel ’37 una ragazza <strong>del</strong> posto,<br />

Antonia <strong>Mesina</strong>: Giovanni Paolo II l’ha fatta beata.<br />

È stata la santa Maria Goretti <strong>del</strong>la Barbagia.<br />

La domenica si passeggiava nel Corso, dapprima intitolato<br />

a Vittorio Emanuele e poi diventato Corso Repubblica.<br />

Il massimo <strong>del</strong>la trasgressione suggeriva di<br />

spingersi fino a Su Cantareddu, una fontana a neppure<br />

un chilometro dall’ultima casa <strong>del</strong> paese, comunque<br />

fuori dall’itinerario obbligatorio. Il cinema parrocchiale<br />

proiettava film di cowboys e storie d’amore, la favola<br />

triste <strong>del</strong>la principessa Sissi e pellicole di quel genere.<br />

Nella scena finale, quella <strong>del</strong>l’immancabile bacio, l’operatore<br />

piazzava sistematicamente una mano davanti all’obiettivo:<br />

censura artigianale, buio sullo schermo, schiamazzi<br />

in sala. «Leva la mano, le-va-la». Neanche i baci si<br />

dovevano vedere allora, sennò Gesù piangeva. Si sapeva<br />

da sempre, precetto da lezione di catechismo.<br />

Di quel mondo a Graziano è rimasto poco, perché<br />

12<br />

poco ha potuto esserci. Le prime evasioni sono strettamente<br />

familiari e puntavano sempre in campagna «dove<br />

ho imparato a conoscere animali, piante e odori». Da<br />

bambino si era riscoperto una forte insofferenza alla gerarchia,<br />

allo sconfinamento <strong>del</strong> prossimo nella libertà e<br />

nella sua vita privata. Non ha esitato a massacrare di<br />

botte un vicino che gli aveva ucciso il cane («una bella<br />

cagna, nera. Meruledda si chiamava»), a confrontarsi in<br />

duello con un ex latitante.<br />

Ma ora tutto questo va messo in soffitta. Oggi è un<br />

giorno fortunato: il Tribunale di sorveglianza di Torino,<br />

aiutato da uno psicologo e un criminologo, lo ha messo<br />

sotto torchio per capire fino a che punto è cambiato. Alla<br />

fine gli ha concesso la libertà condizionale. Avrà l’obbligo<br />

di soggiorno in Piemonte fino al ’96, dovrà firmare<br />

una volta la settimana in una caserma o in un commissariato.<br />

Senza un’autorizzazione precisa, non potrà uscire<br />

da un ambiente che gli è stato cucito addosso. Nel<br />

senso che deve abitare nella casa che a San Marzanotto<br />

gli ha messo a disposizione un imprenditore di Fonni,<br />

Michele Quai, che lavora nel settore <strong>del</strong>l’edilizia. Per i<br />

pasti e i problemi di tutti i giorni può recarsi a casa <strong>del</strong><br />

suo “principale”, terzo piano di un edificio cadente ad<br />

Asti. In via eccezionale otterrà presto il benestare per<br />

una puntatina in <strong>Sardegna</strong>, a Orgosolo, per vedere la<br />

madre.<br />

Respinta da poco più di un anno, l’istanza di libertà<br />

ha avuto un sostenitore acceso: il presidente <strong>del</strong> Tribunale<br />

di sorveglianza, Pietro Fornace. Che di <strong>Mesina</strong> sa<br />

soltanto quel che racconta il fascicolo <strong>del</strong> ministero di<br />

Grazia e Giustizia, date e condanne, condanne e date.<br />

Prima <strong>del</strong> verdetto, tenta di avere informazioni meno<br />

13


scheletriche. Per esempio, quanti omicidi ha commesso?<br />

«Uno, <strong>signor</strong> presidente».<br />

– Uno solo?<br />

«Uno solo. Sono stato assolto dall’accusa di aver colpito<br />

a morte due poliziotti durante un conflitto a fuoco».<br />

– Vedo tra queste carte anche una storia di occultamento<br />

<strong>del</strong> cadavere d’un certo Miguel Alberto Asencio<br />

Prados Ponte…<br />

«Quello è il suo nome vero, lungo lungo. Per noi era<br />

Miguel, Miguel Atienza. Non ho occultato il suo cadavere,<br />

l’ho semplicemente sepolto. Dopo un’evasione,<br />

era rimasto ferito seriamente in uno scontro coi “baschi<br />

blu”. Non ce l’ha fatta. Ho avvertito il padre, ma non si<br />

è portato via la salma. È sepolto nel cimitero di Nuoro,<br />

povero Miguel».<br />

– Cosa rimprovera alla società?<br />

Ci sarebbe moltissimo da dire, ma è meglio sfumare.<br />

«Nulla da obiettare. Rispetto e chiedo rispetto. Avrò bisogno<br />

di tempo. Per <strong>strano</strong> che possa sembrare, sento la<br />

necessità di riposarmi».<br />

La sentenza arriva nella tarda mattinata. Poi, portandosi<br />

dietro una borsa gonfia di fascicoli, Fornace corre<br />

nel suo ufficio blasonato. L’anticamera è tappezzata di<br />

vecchie locandine, molte <strong>del</strong> teatro La Scala, che creano<br />

un’atmosfera particolare, molto ufficiale e nello stesso<br />

tempo accogliente, quasi informale. Dietro un’enorme<br />

scrivania, il magistrato conferma d’aver fatto una scommessa.<br />

Crede in <strong>Mesina</strong>, e avrà modo di dimostrarlo durante<br />

il rapimento di Farouk Kassam. In quella occasione<br />

gli darà carta bianca, una libertà di movimento senza<br />

vincoli di sorta.<br />

14<br />

«Missione <strong>Sardegna</strong>», scherzava coi giornalisti. E<br />

quando la superprocura di Cagliari inizierà a mugugnare<br />

sulla presenza e sul ruolo di Graziano in quella vicenda,<br />

la risposta sarà secca, durissima: «Per quel che ne so,<br />

il <strong>Mesina</strong> non soltanto non sta creando problemi ma anzi<br />

sta dando una mano a risolverli». La replica, un esposto<br />

al Consiglio superiore <strong>del</strong>la magistratura, lo lascia<br />

indifferente. Questo <strong>strano</strong> sorvegliato speciale lo affascina,<br />

gli dà la certezza che non si tratti di un bluff. Sa<br />

che la carta-Farouk può significare la grazia e in qualche<br />

misura un piccolo contributo a raggiungere questo<br />

obiettivo può darlo arche lui. <strong>Mesina</strong> non veniva forse<br />

definito la primula rossa <strong>del</strong> Supramonte? Bene, sguinzagliarlo<br />

in una storia di sequestro a scopo di estorsione<br />

(dopotutto è il suo ramo, no?) non potrà che dare risultati<br />

incoraggianti.<br />

Ci crede, ci si butta impegnandosi personalmente<br />

con dichiarazioni di simpatia. Sarà una bruciante <strong>del</strong>usione<br />

professionale. Ma questo, la mattina di quel 18 ottobre,<br />

Fornace non lo sa. Ascolta con aria solidale, da<br />

giudice di grande esperienza qual è, le parole che Gabriella<br />

Banda, difensore <strong>del</strong>l’ex ergastolano, affida alle<br />

agenzie di stampa con qualche emozione: «Il verdetto<br />

sulla liberazione condizionale non è solo un atto di giustizia.<br />

Credo che <strong>Mesina</strong> abbia abbondantemente pagato<br />

il suo debito con la società. Tanto più che nella sua<br />

trentennale permanenza nei penitenziari italiani non ha<br />

mai goduto di un provvedimento, come dire?, di benevolenza.<br />

Oggi ha il diritto di rifarsi una vita».<br />

Graziano lo sa. Per questo, nella lunga notte a casa di<br />

Ballore, mentre Crescentino dorme, accetta, lui che<br />

odia l’alcol, di fare un brindisi. Alza il bicchiere, bagna<br />

15


appena le labbra in una smorfia di disgusto. E la <strong>Sardegna</strong>,<br />

chiede, come va la <strong>Sardegna</strong>?<br />

Benissimo: nel ’91 non c’è stato neppure un rapimento.<br />

Iniziando la conta degli ostaggi dal 1973, non è<br />

mai accaduto prima che l’Anonima saltasse un anno.<br />

Buon segno. Per quanto riguarda gli omicidi, c’è invece<br />

una crescita significativa: ci si ammazza più di prima, le<br />

statistiche giudiziarie parlano chiaro. Per il resto, solita<br />

<strong>Sardegna</strong>: disoccupazione in aumento, in bilico perfino<br />

la sorte <strong>del</strong>le miniere, che sembravano una certezza assoluta.<br />

Cortei e manifestazioni a Cagliari, davanti al<br />

brutto palazzo modernista che ospita il Consiglio regionale<br />

in via Roma: protestano gli agricoltori e i pastori<br />

per la siccità, gli operai per la chiusura <strong>del</strong>le fabbriche, i<br />

piccoli pescatori per il fermo biologico che li spedisce<br />

due mesi a casa senza una lira di indennizzo.<br />

A proposito di lire: i campionati mondiali di calcio<br />

non hanno portato nulla o quasi. Qualche spicciolo<br />

pubblico e nemmeno un turista: alla faccia di uno stragarantito<br />

effetto trainante di Italia ’90. L’unica coda,<br />

se di coda si può parlare, è l’apertura di un’inchiesta<br />

giudiziaria nelle dodici città che hanno ospitato le partite.<br />

Nel rifare gli stadi, nel riorganizzare impianti e<br />

centri di accoglienza sono volate mazzette. «La solita<br />

Italia». A cambiare, in peggio, c’è solo la <strong>Sardegna</strong> che<br />

continua a vivere, meglio a sopravvivere, con le pensioni.<br />

La popolazione diminuisce, i paesi si spopolano<br />

mantenendo soltanto vecchi, bambini e donne. Soprattutto<br />

donne. Con qualche eccezione: a Orgosolo<br />

gli uomini risultano più numerosi all’anagrafe. Scorrendo<br />

gli elenchi, appare però una folla di bimbi e<br />

pensionati. I più piccoli non sanno neppure chi sia<br />

16<br />

<strong>Mesina</strong>, i più vecchi l’hanno dimenticato, ne hanno<br />

perso le tracce in galera.<br />

Non sono riusciti neppure a vederlo quand’è arrivato,<br />

l’anno scorso. Il paese sottosopra, sembrava fosse<br />

accaduto qualcosa di grave: polizia, carabinieri, il gracchiare<br />

fastidioso <strong>del</strong>le ricetrasmittenti. Tutto questo<br />

soltanto per lui, per Graziano. Possibile, faceva ancora<br />

tanta paura? Eppure, che non avesse voglia di scappare<br />

era abbastanza chiaro per tutti. Non c’era l’intenzione e<br />

neanche la forza.<br />

Nove evasioni sulle spalle, quel <strong>signor</strong>e di mezza<br />

età in giro col borsello giustificava un piccolo spiegamento<br />

di forze. In un passato non proprio remoto era<br />

stato un protagonista, uno dei numeri uno <strong>del</strong>la criminalità<br />

nazionale.<br />

Di lì a poco sarebbe tornato sulla ribalta. Ma quella<br />

sera, a Crescentino, non poteva immaginarlo. Pensava<br />

a un altro futuro, talmente anonimo da non giustificare<br />

una notizia in breve. Non poteva prevedere che lo<br />

aspettava ancora qualche avventura, molto clamore,<br />

disprezzo e simpatia all’ingrosso. Assieme a una trappola<br />

per tornare all’inferno.<br />

17


II<br />

Ritratto di pentito<br />

La foto dei quindici anni, un polveroso ritrattino in<br />

bianco e nero, mostra un ragazzo magro, coppola e<br />

giacca scura, camicia dal colletto troppo largo, occhi<br />

che guardano lontano. Labbra serrate, neppure un accenno<br />

di sorriso.<br />

La foto dei cinquant’anni, primo piano artificiosamente<br />

pensoso, offre poco: è materiale per i giornali,<br />

costruito in studio, compresa la mano destra che sembra<br />

accarezzare il mento con casuale noncuranza. Giacca<br />

da grande magazzino, camicia candida e cravatta vestono<br />

un <strong>signor</strong>e qualunque di mezza età che ha perso<br />

la battaglia contro la calvizie e quella contro i chili di<br />

troppo.<br />

A osservarlo bene, Graziano <strong>Mesina</strong> pare un impiegato<br />

con qualche pretesa, uno che vuole contrabbandare<br />

l’immagine di un altro uomo, di un’altra anima. Tanto,<br />

la macchina fotografica è una spia stupida, non può<br />

accorgersene, non sa frugare dentro. Di autentico restano<br />

soltanto gli occhi. Mobilissimi, scaltri, diffidenti.<br />

Peccato non poterli rendere sereni, metterli in sintonia<br />

con quest’aria tranquilla.<br />

Sono gli stessi <strong>del</strong> ragazzo con la coppola, un dilettante<br />

<strong>del</strong>la balentìa cresciuto in fretta nel deserto di Or-<br />

19


gosolo. I carabinieri già lo conoscevano: una notte, era<br />

adolescente, neanche un pelo di barba, lo avevano beccato<br />

con un fucile rubato. Condanna a cinque anni. Davanti<br />

al magistrato che gli annunciava un futuro di galera,<br />

c’era dovuto andare con la mamma, zia Caterina, undici<br />

figli e una vita di pietra nella Barbagia <strong>del</strong>la miseria,<br />

<strong>del</strong> silenzio, dei morti ammazzati. Tenuto per un braccio,<br />

quasi trascinato in quel palazzo con gli androni scuri:<br />

il tempio <strong>del</strong>la giustizia, affollato e rumoroso come<br />

un mercato. Quanta gente conosciuta c’era.<br />

Orgosolo, 1956. Poco più tardi la Rivista sarda di<br />

criminologia pubblica i risultati di un’indagine sul malessere:<br />

«Si può dunque, in ultima analisi, affermare<br />

che la geografia <strong>del</strong>la pastoralità, <strong>del</strong>la criminalità e<br />

<strong>del</strong>la patologia mentale tendono in <strong>Sardegna</strong> a corrispondere<br />

con la geografia <strong>del</strong>l’isolamento». Un questionario<br />

distribuito a quasi 250 persone rivela che il<br />

17 per cento è analfabeta e il 65 per cento ha la licenza<br />

elementare. La “geografia <strong>del</strong>l’isolamento” racconta<br />

anche qualche altro dettaglio: abitanti per chilometro<br />

quadrato 50,8; ovini 110, più <strong>del</strong> doppio. L’isola <strong>del</strong>le<br />

pecore. Conclusione: «Si può avanzare l’ipotesi che il<br />

banditismo non sia l’espressione di una cultura primariamente<br />

e immutabilmente violenta, ma che rappresenti<br />

piuttosto una risposta, in forme devianti, a una<br />

violenza esterna. A una prevaricazione secolare che ha<br />

marginalizzato l’Isola, subordinandola politicamente<br />

ed economicamente, il mondo pastorale ha offerto diverse<br />

forme di “resistenza” alla sua distruzione, che si<br />

sono esplicitate e si esplicitano anche con l’abnorme<br />

fenomeno <strong>del</strong> banditismo».<br />

Così dicevano, anzi scrivevano, accademici e intel-<br />

20<br />

lettuali al ritorno da sporadiche spedizioni nel Nuorese,<br />

dov’erano andati a vedere da vicino uno <strong>strano</strong> popolo<br />

che, più di venti secoli prima, era stato capace di “inventare”<br />

una razza canina (il pastore di Fonni) per difendersi<br />

dai legionari di Roma.<br />

Osservata al microscopio <strong>del</strong>l’antropologo, questa<br />

folla muta poteva contare su tante attenuanti. <strong>Sardegna</strong><br />

perché banditi, diceva molti anni fa il titolo di un libroinchiesta<br />

per spiegare e tentare di capire (far capire) una<br />

regione a pallettoni.<br />

In questo clima Graziano <strong>Mesina</strong> cresce. Cresce in<br />

tutti i sensi. E dietro di lui si preparano le nuove generazioni:<br />

qualche “resistente” convinto, molti macellai,<br />

mezzemaniche accecate dal sogno di una ricchezza facile<br />

facile. Gente educata a non avere regole, codici, rispetto.<br />

Dice il giornalista Indro Montanelli: «Della sua<br />

isola non è rimasto che il nome, e poco altro. Sulle montagne<br />

ora imperversano i criminali, nemmeno lontani<br />

parenti dei banditi d’annata. E son convinto che lui,<br />

l’ultimo lupo solitario, li disprezza. Anche se non me lo<br />

dirà mai. Il fatto è che ha sbagliato secolo. È l’ultimo reperto<br />

vivente di un mondo che non c’è più. Se potessi,<br />

lo metterei sotto vetro. Come una reliquia».<br />

Salvatore Contini, autotrasportatore di Olbia, è in<br />

qualche modo quello che rappresenta meglio di chiunque<br />

altro i nuovi campioni <strong>del</strong>l’orrore. Sposato, va avanti<br />

e indietro con un piccolo camion quando gli propongono<br />

un colpo non impossibile: sequestrare il giornalista<br />

Leone Concato. Sta finendo la primavera <strong>del</strong> ’77 e<br />

sulla Costa Smeralda arrivano i primi caldi e i primi<br />

ospiti. Concato viene portato via il 27 maggio, inghiottito<br />

nel nulla. Non tornerà mai più a casa. Contini, uno<br />

21


che in famiglia parla poco, viene arrestato dal giudice<br />

istruttore Luigi <strong>Lo</strong>mbardini tre mesi dopo. Il suo difensore,<br />

l’avvocato Bruno Bagedda, riesce a tirarlo fuori:<br />

gli indizi non sono sufficienti, le tesi accusatorie non<br />

reggono. Ci vogliono cinque anni perché lo spettro di<br />

quel rapimento-omicidio torni a galla. Sostenuto da un<br />

furore investigativo che non mancherà di creargli qualche<br />

fastidio, <strong>Lo</strong>mbardini riesce a mettere in angolo Contini.<br />

Che stavolta parla, straparla. Diventa quello che la<br />

cronaca definisce un “pentito eccellente”. A valanga, la<br />

sua confessione spalanca le porte <strong>del</strong> carcere a molti insospettabili.<br />

Tra questi c’è perfino l’avvocato Bagedda.<br />

«Mi aveva chiesto notizie di Concato», rivela Contini.<br />

Basta questo per dimostrare che Bagedda è coinvolto<br />

nel sequestro? L’avvocato viene condannato e solo le<br />

sue drammatiche condizioni di salute (un tumore che<br />

lo fa finire per due volte in sala operatoria) gli evitano<br />

l’onta <strong>del</strong>la prigione. Quattordici anni dopo il primo<br />

verdetto, la Cassazione concede la revisione <strong>del</strong> processo.<br />

Si ricomincia.<br />

E Contini? Morto. Ucciso nel carcere di Ajaccio da<br />

un commando di militanti <strong>del</strong> Fronte di liberazione<br />

còrso.<br />

La sua è davvero una storia esemplare. In un’intervista<br />

mai smentita (e inutilmente offerta alla magistratura),<br />

la vedova aggiunge particolari inquietanti. Deve<br />

avere paura, molta paura a parlare, ma le ribolle dentro<br />

una rabbia sorda che rischia di farla impazzire. Si sente<br />

scaricata, abbandonata dalle istituzioni che fino a pochi<br />

mesi prima garantivano protezione e danaro. Per questo<br />

vuole rompere la consegna <strong>del</strong> silenzio, gridare se<br />

potesse. L’effetto-megafono offerto da un quotidiano a<br />

22<br />

larga tiratura riesce a convincerla. Al termine di una<br />

lunga trattativa, accetta di parlare.<br />

Appuntamento a mezzanotte in una certa periferia<br />

alle porte <strong>del</strong>la città. A Olbia non c’è più nessuno per<br />

strada quando riaffiora il primo ricordo di un’avventura<br />

incredibile. «Volevamo rifarci una vita fuori, lontano<br />

da qui».<br />

Anche perché in <strong>Sardegna</strong> la vita sarebbe appesa a<br />

un filo: la vendetta, diretta o trasversale, di chi hai fatto<br />

finire in cella, è sicura. C’è da mettere in conto un agguato:<br />

questione di settimane, di mesi, ma Salvatore<br />

Contini sa bene che per lui il calendario <strong>del</strong>la vita va veloce,<br />

velocissimo da quando ha travolto con una confessione-fiume<br />

protagonisti e comparse <strong>del</strong>la cosiddetta<br />

“Anonima gallurese”.<br />

Appena uscito dal carcere per i meriti legati al suo<br />

ruolo di “collaboratore di giustizia”, avverte che l’aria si<br />

è fatta stretta. Intuisce che ha perfino poco tempo per<br />

levarsi di torno, farsi dimenticare se ce la facesse. Chiede<br />

aiuto e qualcuno aiuto gli concede. La vedova dice<br />

che gli era stato procurato un nome nuovo e un passaporto<br />

per fuggire in Corsica. Materiale, aggiunge, gentilmente<br />

fornito da qualcuno che sosteneva di far capo<br />

alla Questura di Sassari.<br />

La partenza è fissata per una sera qualunque, pochi<br />

bagagli, l’essenziale: non bisogna dare nell’occhio.<br />

Contini e sua moglie vengono accompagnati fino a Palau<br />

da due “poliziotti in borghese”. Signori cortesissimi<br />

e di poche parole: efficienti, sicuri. Quando il traghetto<br />

leva gli ormeggi sollevando un vortice di schiuma, sembra<br />

fatta sul serio. Salvezza raggiunta.<br />

Di Contini si perdono le tracce: scomparso, si farà<br />

23


vivo – se necessario – il giorno <strong>del</strong> processo. La moglie<br />

assicura che il primo periodo di esilio forzato non è stato<br />

terribile. Certo, c’era il problema di acclimatarsi, inserirsi<br />

senza fare troppo chiasso. Fortuna che un lavoro,<br />

in un certo senso garantito dagli amici sardi, non<br />

manca; qualche soldino pure. Non c’è da preoccuparsi.<br />

Tutto procede nel migliore dei modi, vecchio tran tran<br />

casa-lavoro-casa fino a quando Contini non si sente travolto<br />

dal suo vecchio hobby.<br />

Con l’aiuto di qualcuno rimasto sconosciuto rapisce<br />

un veterinario di Ajaccio, autorevole rappresentante<br />

<strong>del</strong> Fronte di liberazione. Le trattative per il rilascio,<br />

ammesso che si trattasse davvero di un sequestro<br />

a scopo di estorsione, naufragano quasi subito. Alle<br />

prese con un ostaggio imbarazzante, Contini pensa di<br />

liberarsene senza indugi. Con un sistema collaudato,<br />

sostiene l’accusa: lo ammazza e brucia il cadavere con<br />

l’aiuto di una bombola a gas. Pare, ma su questo non<br />

si è mai riusciti a sapere molto, volesse sfigurarlo per<br />

renderlo irriconoscibile. La fiamma ossidrica aveva insomma<br />

il compito di cancellare qualunque traccia: <strong>del</strong><br />

veterinario non si dovevano avere più notizie. L’operazione<br />

andava realizzata nel più breve tempo possibile.<br />

E sarebbe andata benissimo se all’ultimo minuto non<br />

si fosse messa di mezzo la gendarmeria francese e un<br />

commissario un po’ tosto, di quelli che non mollano.<br />

Contini viene arrestato e rinchiuso in carcere. Non si<br />

sa se all’ufficio matricola venga registrato col suo vero<br />

nome o con quello preso in prestito al momento <strong>del</strong>la<br />

fuga da Olbia. È ragionevole pensare che, anche da detenuto,<br />

vivesse sotto falso nome: uno come tanti, in attesa<br />

di giudizio per omicidio.<br />

24<br />

C’è però qualcuno che conosce, a prova di errore, la<br />

sua vera identità. Qualcuno che passa l’informazione,<br />

la fa uscire all’esterno e aspetta. Contini non sa di essere<br />

stato condannato a morte. Con o senza documenti<br />

falsi, la sua sorte è segnata. Una mattina, appena sveglio,<br />

vede arrivare attraverso lo spioncino due detenuti<br />

incaricati di fare pulizie. Non immagina che tipo di<br />

pulizie debbano fare. Non li aveva mai visti prima, ma<br />

questo ha poca importanza. Così come sembra avere<br />

poca importanza il fatto che, a un certo momento, il<br />

“braccio” si spopoli. Non c’è neppure un agente di custodia<br />

quando i detenuti-netturbini aprono la porta<br />

<strong>del</strong>la sua cella, gli vanno incontro senza pronunciare<br />

una parola. <strong>Lo</strong> fanno a pezzi. Contini non ha il tempo<br />

di gridare, di chiedere aiuto: eppoi, avrebbe trovato<br />

qualcuno disposto a darglielo?<br />

I detenuti-netturbini escono senza fare rumore, superano<br />

la cancellata che chiude quell’ala <strong>del</strong> penitenziario<br />

e, sempre senza fretta, arrivano all’uscita. Salutano,<br />

se ne vanno.<br />

Il chiasso dei giornali è inferiore alle previsioni. Viene<br />

aperta un’inchiesta, anzi due: una promossa dalla<br />

magistratura, l’altra dal ministero di Giustizia alla ricerca<br />

di talpe tra i suoi dipendenti. Si vogliono individuare<br />

coperture e responsabilità, si vuole scoprire com’è possibile<br />

che due estranei siano penetrati in una prigione di<br />

Stato, abbiano messo a segno un <strong>del</strong>itto in assoluta tranquillità<br />

e se ne siano andati senza sbattere la porta. A distanza<br />

di sette anni, per quel che se ne sa, non si è approdati<br />

a niente. La morte di Salvatore Contini rimbalza a<br />

Olbia con qualche ritardo. Commenti? A livello ufficiale<br />

neppure uno. Chi è morto, Contini?, e chi è Contini?<br />

25


Uno, nessuno, un imputato tra i tanti <strong>del</strong>la indagine sull’Anonima<br />

gallurese.<br />

Un cadavere da dimenticare e basta. Possibile che<br />

nessuno si domandi quale fosse l’attendibilità <strong>del</strong> teste?,<br />

possibile che nessuno voglia riaprire certe pagine,<br />

dolorosissime, di quel processo? Bruno Bagedda, difensore<br />

di questo sconcertante “collaboratore di giustizia”,<br />

è stato in qualche modo riabilitato dopo un’attesa<br />

infinita. A Sassari lo aspetta il nuovo processo imposto<br />

dalla Cassazione: si arriverà ad un indizio, indizio concreto,<br />

sul sequestro-omicidio di Concato? Chissà. Passata<br />

la tempesta e un eloquente silenzio in risposta alle<br />

sue dichiarazioni, la vedova di Contini si è eclissata,<br />

buttata a capofitto sul lavoro, nella routine di una vita<br />

qualunque, assolutamente e rigorosamente anonima. A<br />

conti fatti, è una vittima anche lei. Non vuol più sentire<br />

parlare di giornali, interviste, aule d’Assise. Potesse,<br />

chiederebbe un certificato di non-esistenza.<br />

Suo marito le ha lasciato in eredità soltanto un brutto<br />

ricordo. Forse il peggiore nella storia <strong>del</strong> pentitismo<br />

in <strong>Sardegna</strong>: perché gli altri, i canarini, i quacquaracquà<br />

(come li chiamano adesso) non hanno fatto quella fine.<br />

Certo, qualcuno è stato assassinato, altri (come Luciano<br />

Gregoriani, logorroico e spietato accusatore dei<br />

suoi ex complici) hanno fatto definitivamente i bagagli<br />

senza rientrare in una cassa da morto. Sono insomma<br />

riusciti a rifarsi un nome e una vita lontano dalla <strong>Sardegna</strong>.<br />

Detto brutalmente, hanno fatto un investimento che<br />

ha dato i suoi frutti: due o tre persone al massimo sanno<br />

sotto quale identità si nascondono in una sperduta città<br />

<strong>del</strong> mondo. A Salvatore Contini un’uscita di sicurezza,<br />

evidentemente, non andava bene. Voleva di più.<br />

26<br />

Al pentitismo, e alle confessioni in genere, <strong>Mesina</strong><br />

crede poco. È fatto d’un’altra stoffa, lui. Unico recluso<br />

nell’Italia <strong>del</strong> dopoguerra ad aver scontato ventinove<br />

anni e qualche giorno. Unico recluso che si è visto<br />

condannato all’ergastolo come somma di pene inflitte<br />

per diversi reati: una specie di prendi due e paghi tre<br />

in versione giudiziaria.<br />

Altra musica, vecchi spartiti, vecchie regole. Nella<br />

sua autobiografia, sostiene un’idea precisa che è stata<br />

un po’ l’idea-guida <strong>del</strong>la sua vita. Quella che gli ha<br />

consentito di uscire vivo dalle peggiori carceri italiane:<br />

«Il pentitismo non riesco a digerirlo. Se uno fa una<br />

scelta, la deve portare avanti per tutta la vita…».<br />

L’ha fatta, fino in fondo. Nel 1984, quando ottiene<br />

una licenza di tre giorni, torna a Orgosolo e scopre un<br />

paese che stenta a riconoscere. Si ricorda che venticinque<br />

anni prima, giochi <strong>del</strong>la gioventù barbaricina, andava<br />

fortissimo il tiro al lampione. Soprattutto di notte,<br />

soprattutto quando c’era da far ammattire i carabinieri<br />

negli inseguimenti. Adesso soffia un altro vento.<br />

Otto sequestri in dodici mesi (nove a voler essere precisi,<br />

visto che uno non va a segno), una quarantina di<br />

omicidi. Ma siamo soprattutto alla vigilia <strong>del</strong>l’offensiva<br />

contro gli amministratori pubblici: i sindaci, figure un<br />

tempo intoccabili, stanno per diventare i bersagli di<br />

un’offensiva senza precedenti. Graziano, che non si<br />

è mai occupato di politica, appare frastornato. D’accordo<br />

i murales, impronta d’arte naïf e di protesta corale.<br />

Ma che senso ha sfregiare il portoncino d’ingresso<br />

<strong>del</strong> Municipio?, annunciare con gli slogan spray una<br />

rivolta che nessuno avrà mai il coraggio di scatenare?<br />

Prestissimo si arriverà alle bombe, agli attentati che<br />

27


colpiranno in particolare le amministrazioni di sinistra.<br />

Attenzione però a non cadere nella trappola ideologica:<br />

non è opposizione quella dei fucili che sparano nel<br />

buio; spesso è soltanto la rabbia di chi non può più contare<br />

sugli amici degli amici, sull’impunità amministrativa,<br />

sulla certezza che tra i suoi terreni non passerà una<br />

strada comunale, che nessuno denuncerà l’abuso edilizio<br />

compiuto nella via principale <strong>del</strong> paese.<br />

Sono cambiate molte cose. E non solo a Orgosolo.<br />

L’unica traccia tradizionale è quella <strong>del</strong>l’abigeato: quasi<br />

ottomila capi rubati, informano le statistiche <strong>del</strong>le forze<br />

<strong>del</strong>l’ordine. A Orune, a Sarule, a Mamoiada i carabinieri<br />

rischiano grosso durante le perlustrazioni notturne.<br />

Dopo le 20 chi può sta in caserma: aspettando l’alba. Alla<br />

luce <strong>del</strong> sole tutto diventa più semplice.<br />

Per Graziano <strong>Mesina</strong> questo è un altro pianeta. Assolto<br />

dall’accusa di aver ucciso due poliziotti durante<br />

un conflitto a fuoco, ha sempre seguito regole diverse.<br />

Regole che nessuno ha mai scritto ma che tutti, banditi e<br />

forze <strong>del</strong>l’ordine hanno sempre rispettato.<br />

Non è vero, come qualcuno ripete, che l’incolumità<br />

personale è tutta da verificare nel rosario dei paesi caldi.<br />

Il segreto stava (e sta) nel fare una scelta. Basta un piccolo<br />

esempio per capire. Se qualcuno offre carne, fuori<br />

mercato e a prezzi più che abbordabili, si tratta di un’offerta<br />

molto, molto particolare: quasi certamente bestie<br />

rubate e macellate clandestinamente. Una buona regola<br />

di sopravvivenza, quella che nessun manuale potrà mai<br />

scrivere, suggerisce di non comprarne. Meglio acquistare<br />

la carne calmierata e “ufficiale”, non l’altra. Al derubato,<br />

che prima o poi riuscirà a sapere chi l’ha fatto<br />

fesso, arriveranno all’orecchio anche i nomi degli acqui-<br />

28<br />

renti che si sono riempiti il freezer. Intendiamoci, comprare<br />

carne rubata in modica quantità non offre il tanto<br />

per far scoppiare una faida. Qualcosa però s’incrina, soprattutto<br />

se abigeato e vendita avvengono nello stesso<br />

paese e comunque nelle vicinanze.<br />

Aver risparmiato qualche lira può comportare il pericolo<br />

di una disamistade, l’inimicizia. Gradino che precede<br />

e prevede un sanguinario risarcimento.<br />

29


III<br />

Le regole <strong>del</strong> gioco<br />

Regola numero uno: niente morti. Regola numero<br />

due: niente trucchi. Regola numero tre: rispetto per i<br />

perdenti. C’è polvere e sangue, soprattutto sangue, su<br />

questo telegrafico galateo <strong>del</strong> buon bandito. Del buon<br />

bandito e <strong>del</strong> buon poliziotto. Antonio Serra, famoso<br />

ispettore <strong>del</strong>la Barbagia, è un esempio <strong>del</strong>la vecchia<br />

scuola. “Costanza e riservatezza”. Non solo: pochissimi<br />

incontri con i cronisti, gente che in ogni <strong>caso</strong> è meglio<br />

evitare. Curriculum di assoluto prestigio dopo quarant’anni<br />

in divisa, ha attraversato due generazioni criminali<br />

uscendone indenne. Intatto. Non sembra neppure<br />

far parte di quelle forze <strong>del</strong>l’ordine che negli anni ’60<br />

circondavano i paesi nella febbrile ricerca di latitanti,<br />

rastrellamenti da golpe militare, violenze gratuite, arroganza<br />

<strong>del</strong>lo Stato. Coi famigerati “baschi blu”, per capirci,<br />

Serra non ha neanche un lontano rapporto di parentela.<br />

Altro stile. Prima ancora <strong>del</strong>la scuola di polizia, riconosce<br />

come maestro un vecchio brigadiere di Orotelli,<br />

Pietro Paolo Lunesu. «Mi ha insegnato qualcosa di fondamentale:<br />

fare il proprio mestiere rispettando sempre<br />

gli altri, anche chi commette reati, non c’è bisogno di infierire,<br />

dobbiamo solo essere bravi a indagare. E indaga-<br />

31


e sempre meglio». Lui, soprannominato Penna Bianca<br />

(ma qualcuno lo chiamava anche l’Ultimo Cacciatore)<br />

l’ha fatto egregiamente, seguendo poche e chiarissime<br />

regole <strong>del</strong> gioco tacitamente rispettate anche dalla controparte.<br />

Regola numero uno: niente morti…<br />

Osposidda, 1985. In un costone di montagna si svolge<br />

il più drammatico conflitto a fuoco nella storia <strong>del</strong><br />

banditismo in <strong>Sardegna</strong>. Restano sul terreno, uccisi,<br />

quattro fuorilegge e un sottufficiale di polizia. Antonio<br />

Serra, che conosce riti, luoghi e uomini di quella terra,<br />

sostiene con sicurezza: quel massacro si poteva evitare.<br />

Una giornata inutilmente tragica. Non spiega però come<br />

e perché “si poteva evitare”. Ma proprio perché non<br />

spiega è chiaro un trasparente e solido dissenso con la<br />

tattica adottata dai suoi superiori: accerchiamento e<br />

fuoco a volontà, piombo rovente come in un filmaccio<br />

da quattro soldi. Solo che qui i morti sono veri. Con<br />

qualche pennellata di macabro folclore, quasi fosse stata<br />

una caccia al cinghiale, i cadaveri dei quattro banditi<br />

abbattuti in una sorta di battaglia campale vengono scaraventati<br />

sul cassone di un camion, proprio come si fa<br />

con la selvaggina. E via per le strade <strong>del</strong> paese, a mostrare<br />

quell’orrido trofeo. Nella memoria <strong>del</strong>la gente, <strong>del</strong>la<br />

gente che stava dalla parte <strong>del</strong>le forze <strong>del</strong>l’ordine e non<br />

coi banditi, questo è un oltraggio, una violenza gratuita.<br />

I morti sono sacri, perché esporli in quel modo?<br />

Il guaio è che certe norme di comportamento non<br />

esistono più da una parte e dall’altra. Comunque si presenti,<br />

sa giustizia difficilmente può portare qualcosa di<br />

buono. Quella che, con tono dottorale, parlamentari e<br />

ministri definiscono la “vertenza con lo Stato” è fatta di<br />

piccoli problemi quotidiani, iattanza col timbro tondo,<br />

32<br />

micro-aggressioni ai diritti di gente che non protesta ma<br />

ricorda, nel solco di una costante resistenziale che passa<br />

attraverso i secoli.<br />

Antonio Serra sa adoperare bene le armi ma se n’è<br />

servito raramente. Ha concluso con successo decine di<br />

indagini difficili (basta pensare al sequestro di Pasqualba<br />

Rosas o a quello di Carlo Travaglino) senza pretendere<br />

cadaveri, aborrendo quelle cacce all’uomo (anzi al<br />

morto) che accendevano grande entusiasmo tra alcuni<br />

ufficiali e tiratori scelti. Ragazzi nervosi, come spiegavano<br />

con un pizzico di orgogliosa complicità i loro comandanti,<br />

pronti a scatenare un’apocalisse da piccoli<br />

eroi <strong>del</strong> cinema.<br />

<strong>Mesina</strong> è fuori gioco, e non soltanto perché sta in galera,<br />

quando avanza, a piccoli passi, un imbarbarimento<br />

che stravolge la <strong>Sardegna</strong> e i suoi figli in arme.<br />

Effetto collaterale <strong>del</strong>la società <strong>del</strong> benessere, dicono<br />

i giornali. Colpa <strong>del</strong>l’opulenza, d’una ricchezza sfacciata<br />

che percorre itinerari turistici e ciondola in tivù<br />

parlando di un’isola-paradiso che non c’è. O meglio c’è,<br />

ma per pochi, pochissimi e resta in ogni <strong>caso</strong> lontana, irraggiungibile,<br />

per gli abitanti d’una regione con un tasso<br />

di disoccupazione fra i più alti d’Italia.<br />

Certe passerelle, vacanze che trasudano danaro, sono<br />

francamente fastidiose. Fanno parte <strong>del</strong> circo <strong>del</strong>l’esibizionismo,<br />

piccola borghesia all’attacco, nuovi e falsi ricchi<br />

insieme per celebrare i riti <strong>del</strong>l’apparenza. Una moda,<br />

un costume che colpisce l’immaginazione di persone<br />

in un certo senso indifese, vittime di una dolcissima violenza<br />

che ha stravolto valori e punti di riferimento.<br />

Il nuovo banditismo non è però l’epopea dei vinti, la<br />

lunga marcia verso la giustizia sociale di oppressi e cas-<br />

33


sintegrati. Salvo rarissime eccezioni, a sparare non è chi<br />

cerca un riscatto sociale. La povertà non è un detonatore<br />

<strong>del</strong>la violenza, almeno di quella che si lancia sul fronte<br />

dei sequestri.<br />

<strong>Lo</strong> sa bene Emilio Pazzi, poliziotto dall’alluce ai capelli,<br />

uno che potrebbe raccontare trent’anni di fatti e<br />

misfatti. Questore a Cagliari (dopo Nuoro e Oristano),<br />

ha diretto la Criminalpol per lungo tempo, inviato speciale<br />

<strong>del</strong> governo in Aspromonte per combattere la<br />

’ndrangheta. Con la testa e non col mitra.<br />

Perché Pazzi, buon conoscitore di Graziano <strong>Mesina</strong>,<br />

indagini su un centinaio di sequestri alle spalle, è poliziotto<br />

di testa. «Mai dato uno schiaffo», giura.<br />

È una sfinge, affila gli occhi fino a farli diventare due<br />

fessure, sorriso da cerimonia e una granitica educazione<br />

al silenzio. Potrebbe fare il paio con Antonio Serra. Servitore<br />

fe<strong>del</strong>e <strong>del</strong>lo Stato, non carnefice. E durissimo con<br />

la sociologia d’accatto che tenta di trovare una qualche<br />

giustificazione ai rapimenti. Conosce molto bene la<br />

campagna di annientamento psicologico <strong>del</strong>l’ostaggio,<br />

la violenza segreta, la sottile cru<strong>del</strong>tà tra carcerieri e prigioniero,<br />

i meccanismi che regolano l’industria <strong>del</strong> sequestro<br />

di persona. Ritiene che il «romanticismo interpretativo<br />

<strong>del</strong> mondo criminale finisca per essere fiancheggiatore<br />

e dunque complice».<br />

La realtà, quella che la cronaca non può raccontare,<br />

è terribile. Pupo Troffa, imprenditore sassarese rapito<br />

nell’inverno <strong>del</strong> ’78 e liberato nella primavera <strong>del</strong>l’anno<br />

successivo, è stato tenuto legato a una catena<br />

per duecentocinquanta giorni, più di otto mesi. Occhi<br />

bendati, neppure un momento distensivo. Mai. Perfino<br />

il giorno <strong>del</strong> rilascio ha fatto capolino la ferocia, il<br />

34<br />

disprezzo. «Eravamo in un <strong>caso</strong>lare, ero legato mani e<br />

piedi». Arriva il bisogno improvviso, irresistibile di fare<br />

pipì. Troffa, industriale inossidabile e buon giocatore<br />

di bridge, ha superato da tempo certi pudori: durante<br />

la prigionia non possono esserci più segreti coi<br />

custodi. «L’uomo è un animale che si abitua a tutto. E<br />

perfino con rapidità. Sulle prime, l’umiliazione è palpitante:<br />

penso a quando dovevo soddisfare, sempre<br />

bendato, le mie necessità fisiologiche sotto l’occhio attento<br />

di due carcerieri. Non l’ho dimenticato ma rammento<br />

anche che col passare dei giorni, <strong>del</strong>le settimane,<br />

tutto diventa routine, senza trascurare però il<br />

bisogno di alimentare l’odio e la sete di vendetta. Tra<br />

me e me cercavo spunti, argomenti per tenere viva e<br />

bruciante questa mia rabbia. Che non s’è spenta. In<br />

diverse occasioni, hanno anche tentato di stabilire un<br />

dialogo, quattro parole per ingannare il tempo che<br />

non passava mai. Io non sono stato capace neanche di<br />

fare questa piccola concessione. Preferivo parlare con<br />

me stesso piuttosto che col carceriere».<br />

In quella mattina, nel <strong>caso</strong>lare dove sarebbe stato liberato,<br />

Troffa avverte la luce <strong>del</strong> sole attraverso la benda<br />

scura che gli copre gli occhi. È sfinito, spaventato, tenuto<br />

in vita da una paura che crede di non aver lasciato<br />

intuire ai suoi custodi. Peccato per questa seccatura finale,<br />

peccato dover chiedere un’ultima cortesia ma proprio<br />

non ce la faceva più. «Per favore, mi slacci i pantaloni?»<br />

domanda a un implacabile secondino. L’ha chiesto<br />

centinaia di volte durante i mesi <strong>del</strong> sequestro. L’ostaggio,<br />

insaccato in una corda, non poteva far nulla da<br />

solo, nemmeno la pipì. «Mi hai sentito, mi slacci i pantaloni<br />

per favore? Sto male». La risposta è una risata sec-<br />

35


ca, beffarda. Il bandito si avvicina e gli bisbiglia all’orecchio:<br />

«Pisciati addosso».<br />

Con Pupo Troffa la sindrome di Stoccolma, quel filo<br />

misterioso che lega la vittima al boia, non c’è. Semmai<br />

odio, un odio stratificato che, a dispetto d’una dichiarata<br />

militanza cristiana, non riesce a pronunciare o immaginare<br />

il perdono. Difficile dargli torto, giocare ambiguamente<br />

sul ritorno alla ragione. Otto mesi da cane li<br />

ha vissuti lui e lui soltanto. È perfino irriguardoso cercare<br />

di spiegargli a tavolino perché dovrebbe dimenticare.<br />

Troffa non ci sta. Ha portato dovunque questa sua<br />

storia, alla faccia di quegli accademici illuminati che discettano<br />

su attenuanti, generiche e specifiche, <strong>del</strong> sequestro.<br />

Emilio Pazzi, che su vicende come queste potrebbe<br />

scrivere un’antologia, assicura che non si tratta affatto<br />

di un’eccezione. Ha avuto occasione di verificare personalmente<br />

cosa sia la paura andando a fare l’emissario<br />

durante le indagini per alcuni rapimenti. Una volta,<br />

mentre parlava con un fuorilegge a notte fonda, gli è<br />

perfino cascato il registratore che teneva nascosto nel<br />

cappotto. L’ha salvato il buio, il bandito ha pensato a<br />

una sbadataggine legata all’emozione e non s’è chinato<br />

a vedere di cosa si trattava.<br />

Pazzi parla per esperienza personale. E non assolve,<br />

mai. Conosce ex ospiti <strong>del</strong>l’Anonima, come un penalista<br />

di Sassari, che dopo l’esperienza-sequestro si sono<br />

riconvertiti. «Non riusciva più a fare l’avvocato, a difendere<br />

sempre e comunque gente che stava su un’altra<br />

sponda».<br />

Sperando che nelle stanze alte <strong>del</strong> ministero degli Interni<br />

nessuno lo senta, il poliziotto Pazzi confessa «una<br />

36<br />

larvata simpatia per i <strong>del</strong>inquenti di ieri». Quelli nuovi,<br />

classe dirigente <strong>del</strong>l’orrore con la quale lo stesso Graziano<br />

<strong>Mesina</strong> dovrà fare i conti durante il rapimento <strong>del</strong><br />

piccolo Farouk Kassam, sono d’altro tipo. Non hanno<br />

debolezze e considerano il “fattore umano” un dettaglio<br />

irrilevante. L’ostaggio è soltanto un capitale in carne<br />

e ossa: come tale, bisogna renderlo redditizio, aiutarlo<br />

con immondi e terrificanti stimoli a trasformarsi in<br />

una macchina mangiasoldi, a diventare un gelido esattore<br />

dei beni di famiglia, un grottesco pubblico ministero<br />

che addossa a moglie e figli i ritardi <strong>del</strong>la sua liberazione.<br />

La violenza non è altro che un ingrediente <strong>del</strong> sequestro.<br />

Un lavoro di pressing, direbbero amabilmente nel<br />

mondo <strong>del</strong> calcio. Che spesso prevede lo stupro. Potrebbe<br />

testimoniare a questo proposito un professionista<br />

rapito a Punta <strong>Sardegna</strong> insieme alla moglie e alla figlia<br />

sordomuta. Pazzi ricorda che quando venne liberato,<br />

perché cercasse i soldi necessari al riscatto, era “una<br />

belva”. Strano, di solito il ritorno alla luce, alla libertà,<br />

stravolge gli ostaggi rendendoli euforici, allegri, ubriachi<br />

di gioia, di vita ritrovata.<br />

Quello no. Davvero una belva. Nessuna dichiarazione.<br />

Anzi, spara un cazzotto in pieno viso contro un reporter<br />

troppo insistente. Come mai? Poco prima di essere<br />

liberato, un bandito lo aveva sodomizzato davanti<br />

alla moglie e alla figlia aggiungendo poi un piccolo avvertimento:<br />

«Sbrigati a trovare i soldi, perché fino a<br />

quando tu non paghi questo lavoretto lo faremo anche a<br />

tua moglie e alla ragazzina». Promessa mantenuta. Per<br />

completezza d’informazione, va aggiunto che – dopo<br />

l’arresto – questo esuberante macellaio non è rientrato<br />

37


in carcere al termine di un permesso-premio di tre giorni.<br />

È stato arrestato solo molti mesi più tardi, coinvolto<br />

in un nuovo sequestro di persona.<br />

Non se ne può fare il nome perché non gli è mai stato<br />

contestato ufficialmente il reato di violenza carnale e<br />

dunque almeno teoricamente, potrebbe addirittura<br />

presentare querela per diffamazione. Sa bene che di<br />

queste cose nei fascicoli processuali non si parla spesso,<br />

quindi (almeno su questo profilo) si riesce a farla franca<br />

grazie alla forzata complicità <strong>del</strong>le vittime. Può sembrare<br />

un paradosso, ma in genere sono proprio gli<br />

ostaggi che invocano il silenzio, che desiderano dimenticare<br />

e, soprattutto, evitare la torbida curiosità <strong>del</strong>la<br />

gente. Il timore di un processo spettacolo, che prima o<br />

poi sui giornali qualcuno non mancherebbe di definire<br />

“a luci rosse”, è più forte di un legittimo sentimento di<br />

giustizia.<br />

Ci sono le eccezioni. Molto dipende dalla capacità di<br />

resistenza <strong>del</strong>l’ostaggio, dalla sua personalità. Fabrizio<br />

De André, rapito nel ’79 insieme a Dori Ghezzi e tenuto<br />

in una prigione a cielo aperto per quattro mesi, rivela<br />

che il problema <strong>del</strong>la violenza è stato affrontato nei primissimi<br />

giorni <strong>del</strong> sequestro. «Sono riuscito a stabilire<br />

un accordo. Volevano danaro e io avrei tentato di darglielo.<br />

E qui doveva chiudersi il conto. Ho anche detto<br />

che saremo stati al gioco, obbedienti. Ma in cambio ci<br />

avrebbero dovuto rispettare. Altrimenti, glielo avevo<br />

detto, mi sarei levato la maschera. Puntavano ai soldi o<br />

volevano due cadaveri? Hanno capito che, se avessero<br />

tentato qualunque genere di violenza fisica, ci saremmo<br />

fatti ammazzare».<br />

È finita bene, ma purtroppo non tutti i prigionieri<br />

38<br />

<strong>del</strong>l’Anonima possono dire altrettanto. Un senso di ripulsa<br />

vieta di riferire particolari che si apprendono facendo<br />

il mestiere <strong>del</strong> cronista. Ma dev’essere chiaro fino<br />

in fondo che il sequestro di persona non ha giustificazioni<br />

di sorta. A parte il discorso sugli stupri, nessun altro<br />

reato riesce ad annientare e umiliare la dignità, il rispetto<br />

di se stessi. È per via <strong>del</strong> suo carattere continuativo,<br />

<strong>del</strong>la ripetitività che, di ora in ora, mina l’equilibrio<br />

interiore. Lasciando, in alcuni casi, una specie di invalidità<br />

permanente. Chi discute, più o meno volentieri, dei<br />

suoi giorni da ostaggio è riuscito ad assorbire il colpo.<br />

Ma quanti non riescono neppure ad accennarne?,<br />

quanti non l’hanno mai superato?<br />

Nel suo lungo e paziente lavoro investigativo, Pazzi<br />

ha sempre sposato quello che chiama il metodo <strong>del</strong>l’uomo<br />

comune. Vale a dire la ricerca <strong>del</strong>la verità attraverso<br />

sistemi che non prevedono l’uso <strong>del</strong>la forza, l’aggiramento<br />

<strong>del</strong>le leggi, furbizie innominabili. Insomma<br />

quella ragion di Stato che qualche volta finisce per diventare<br />

l’esatto opposto <strong>del</strong>la democrazia. A osservarlo<br />

per strada, coi giornali sottobraccio, questo poliziotto<br />

dal sussiego impiegatizio lascia trapelare subito<br />

un’anima civile. Sembra tener molto a un fisico minuto,<br />

agli antipodi <strong>del</strong>lo stereotipo ammazza-banditi di<br />

oggi. E, giusto per non stare al gioco <strong>del</strong> personaggio,<br />

inutile cercare riferimenti: di Maigret non ha la stazza,<br />

di Poirot il tronfio narcisismo, di Nero Wolfe l’occhio<br />

furbo.<br />

Molti anni fa, mentre si occupava <strong>del</strong> sequestro in<br />

Costa Smeralda <strong>del</strong>la moglie di un grosso imprenditore<br />

lombardo, gli è capitato di andare a trovare i familiari<br />

<strong>del</strong>l’ostaggio in Brianza. In quel periodo comprava in<br />

39


edicola una storia <strong>del</strong>l’arte in fascicoli settimanali. Che<br />

c’entra?<br />

All’ingresso <strong>del</strong>la villa, un’elegante cancellata in ferro<br />

battuto, viene ad aprirgli un maggiordomo. Cortesia<br />

affettata, pochissime parole e un freddo «si accomodi».<br />

Pazzi avanza lungo il viale guardandosi intorno, stretto<br />

stretto nel suo completino senza un guizzo di fantasia:<br />

tutto, perfino le semplicissime panchine in pietra, raccontavano<br />

di benessere, ricchezza. Dopotutto nel listino<br />

prezzi <strong>del</strong>l’Anonima, quella era la casa di un ostaggio<br />

da un miliardo (miliardo di allora, inizio anni ’80). Una<br />

dimensione che un funzionario <strong>del</strong>lo Stato, qualifica di<br />

vicequestore aggiunto, non può neanche sognare.<br />

A un tratto, ecco il cavallo e il suo sontuoso cavaliere:<br />

splendido monumento equestre che vigila con fierezza<br />

nella piazzola al centro di un parco pulito e ordinato.<br />

Quel monumento l’aveva già visto, ma dove? Fruga<br />

e rifruga nella memoria, mentre attende in un salotto.<br />

Poi, la folgorazione: quel cavaliere bronzeo l’aveva<br />

visto in uno dei fascicoli che stava acquistando in edicola.<br />

Uguale? Simile, molto simile. Ai non esperti come<br />

lui sfuggivano molti particolari per poter valutare a<br />

fondo. Comunque bello e grande, grande come un alloggio-parcheggio,<br />

uno di quelli che le amministrazioni<br />

comunali adoperano per sistemare provvisoriamente (e<br />

non solo) i senzatetto.<br />

«Straordinario, ne ho visto uno così su una rivista<br />

d’arte», azzarda timidamente poco dopo col padrone di<br />

casa. «Non è “uno così”, dottor Pazzi. È proprio quello<br />

che ha visto sulla rivista. Abbiamo autorizzato recentemente<br />

la riproduzione fotografica. Bel lavoro vero?»<br />

Emilio Pazzi non è riuscito a dimenticare quella sta-<br />

40<br />

tua e quel dialogo appena sussurrato con un <strong>signor</strong>e che<br />

aveva la moglie in mano ai banditi, nella vicina e lontanissima<br />

<strong>Sardegna</strong>. Chissà cosa gli è passato per la testa a<br />

proposito dei discorsi sull’immoralità di certa ricchezza,<br />

chissà se ha ripensato alle dichiarazioni di guerra di<br />

chi giustifica il sequestro dietro una brutale (ma necessaria)<br />

redistribuzione <strong>del</strong> reddito.<br />

Il poliziotto non svela quale sia la sua opinione conclusiva.<br />

Ama la discrezione, il senso <strong>del</strong>la misura. Certo:<br />

un monumento, come dire?, un monumento privato<br />

non l’aveva mai visto prima. Ma c’è sempre una prima<br />

volta, no?<br />

41


IV<br />

Affari riservati<br />

L’ombra dei servizi segreti si allunga improvvisamente<br />

durante il sequestro di Farouk Kassam. A Roma,<br />

dove il Sisde segue con attenzione le trattative coi banditi,<br />

decidono a un tratto di cambiare rotta: da un’attenta<br />

e comoda posizione di osservatori si passa a qualcosa<br />

di più diretto, più rischioso.<br />

Succede, probabilmente, dopo che a Galanoli i rapitori<br />

lasciano vicino alla chiesa una “busta” per il parroco,<br />

don Luigino Monni, crociato di Dio che assiste handicappati<br />

mentali gravi. La sua è una formidabile testimonianza<br />

di fede, di solidarietà. Una scelta che lo porta<br />

lontano dalle piste, molto battute, <strong>del</strong>la carriera ecclesiastica.<br />

Don Luigino, figlio di un ex sindaco democristiano<br />

di Orgosolo, sceglie di stare con gli ultimi.<br />

Il vescovo di Nuoro, mon<strong>signor</strong> Giovanni Melis, che<br />

benedice la prospettiva di un intervento di <strong>Mesina</strong> e organizza<br />

un incontro in episcopio tra Graziano e la madre<br />

<strong>del</strong>l’ostaggio (Marion Kassam), gli affida l’incarico<br />

di tenere i contatti con l’esterno. Anche i banditi, naturalmente,<br />

sanno. E proprio a lui fanno recapitare in una<br />

busta un pezzetto di cartilagine sporco di sangue: l’orecchio<br />

sinistro di Farouk. Per la precisione, la parte alta.<br />

Messaggio chiarissimo: se non si conclude in tempi<br />

43


agionevolmente brevi, il prigioniero subirà un’altra<br />

mutilazione. Il chirurgo che si è occupato <strong>del</strong>l’intervento<br />

ha la mano pesante: quando Farouk tornerà a casa, lo<br />

sfregio sarà evidente. Gli hanno portato via quasi mezzo<br />

orecchio.<br />

Erano stati certamente più professionali, ammesso<br />

che si possa adoperare questo termine, col costruttore<br />

romano Giulio De Angelis, altra vittima <strong>del</strong>l’Anonima:<br />

a lui avevano mozzato proprio la punta <strong>del</strong>l’orecchio.<br />

Evidentemente volevano mandare ai familiari solo un<br />

segnale, non un agghiacciante reperto <strong>del</strong>la loro ferocia.<br />

I Servizi irrompono nel sequestro Farouk non appena<br />

trapela la notizia <strong>del</strong>la mutilazione. Decidono di avviare<br />

una trattativa parallela a quella di <strong>Mesina</strong> senza informarne<br />

l’interessato che pure, in quel periodo, risulta<br />

essere l’emissario <strong>del</strong>la famiglia. Graziano verrà a sapere<br />

per puro <strong>caso</strong>. Nel corso di un abboccamento notturno,<br />

saranno gli stessi banditi a informarlo: non sei l’unico<br />

a occuparti <strong>del</strong> bambino. Le cose si complicano, l’affare<br />

esce dai binari <strong>del</strong>la consuetudine e sembra arenarsi<br />

in secche pericolose. La frequenza degli incontri subisce<br />

un forte rallentamento, l’impegno di polizia e<br />

carabinieri pare cercare sbocco nella riflessione. Momento<br />

difficile: la realtà è che il ministero <strong>del</strong>l’Interno<br />

sta decidendo che strategia adottare.<br />

Sul magistrato che segue l’inchiesta e sullo stesso governo<br />

c’è intanto il fiato grosso d’un intero Paese, indignato<br />

e offeso dall’odissea <strong>del</strong> piccolo Farouk. Riemerge,<br />

non è casuale, il dibattito sulla pena di morte; un<br />

giornalista famoso invita gli italiani a stendere alla finestra<br />

lenzuola bianche: sarà un grido corale, un grido<br />

candido e muto per chiedere il rilascio <strong>del</strong>l’ostaggio.<br />

44<br />

<strong>Mesina</strong>, che di questa vicenda (come testimonierà<br />

mon<strong>signor</strong> Melis) non si voleva occupare, si trova improvvisamente<br />

tra due fuochi: da una parte ci sono i<br />

Servizi, <strong>signor</strong>i che non scherzano e che con i rapitori<br />

hanno un conto aperto, dall’altro c’è un’opinione pubblica<br />

fortemente divisa: il partito dei mesiniani confida<br />

nell’“autorevolezza” <strong>del</strong> negoziatore (romanticamente,<br />

sarebbe l’azione buona d’un vecchio fuorilegge folgorato<br />

sulla via <strong>del</strong>la giustizia), un altro partito diffida invece<br />

apertamente: <strong>Mesina</strong> non è altro che un vecchio <strong>del</strong>inquente,<br />

a suo tempo sequestratore e assassino. Dunque,<br />

non affidabile. Si porta dietro un terribile patrimonio<br />

genetico, il DNA <strong>del</strong> bandito.<br />

Come uscirne? Pesa tra l’altro un problema di immagine:<br />

lo Stato può accettare che a trattare la salvezza di<br />

un ostaggio sia un ex ergastolano chiamato in passato<br />

“la primula rossa <strong>del</strong> Supramonte”? È davvero un vespaio,<br />

un maledetto imbroglio quello giocato sulle ultime,<br />

drammatiche battute <strong>del</strong> sequestro.<br />

I Servizi ci sono, ma non si vedono. <strong>Mesina</strong> sa qualcosa<br />

di loro. Nel 1968, latitante principe <strong>del</strong>la criminalità<br />

nazionale, ne ha perfino incontrato un autorevole e<br />

intraprendente rappresentante: Massimo Pugliese, colonnello<br />

dei carabinieri in congedo, iscritto alla loggia<br />

P2 (tessera 1914), che in quel momento è al culmine<br />

<strong>del</strong>la carriera. Conversatore brillante, fulminee incursioni<br />

nella cultura per offrire la citazione giusta al momento<br />

giusto, riceve il <strong>del</strong>icatissimo incarico (pare dal<br />

Quirinale) di mettersi in contatto con <strong>Mesina</strong>. Due gli<br />

obiettivi: trattare una resa (Graziano sostiene che gli<br />

siano stati offerti 150 milioni) oppure comunicargli, in<br />

via ufficiosa s’intende, che il Governo non gradirebbe il<br />

45


matrimonio con l’extrasinistra, con quegli intellettuali<br />

che premono per trasformare la <strong>Sardegna</strong> nella Cuba<br />

<strong>del</strong> Mediterraneo. In <strong>caso</strong> contrario, la stretta sul Supramonte<br />

si farebbe più intensa, i rastrellamenti più<br />

asfissianti: e per un latitante, sia pure “leggendario”, è<br />

francamente una seccatura. Meglio evitare.<br />

Pugliese sa come metterla. A parte l’incarico ufficiale<br />

nell’Arma, in quel periodo dirige il Sid (il servizio segreto<br />

di allora) in <strong>Sardegna</strong>. Laureato in giurisprudenza<br />

a Sassari con una tesi su «Forze armate e Costituzione»<br />

(relatore il professor Francesco Cossiga), è un uomo di<br />

successo. Riesce con facilità a entrare in qualunque ambiente,<br />

gli si spalancano i salotti <strong>del</strong>le case che contano.<br />

E questo provocherà inevitabilmente maliziosi sussurri<br />

che finiranno per rimbalzare fino a Roma, comando generale<br />

<strong>del</strong>l’Arma. Ovviamente Pugliese non ha mai confermato<br />

quello storico e singolare incontro alla macchia.<br />

Questione di deontologia professionale. L’appuntamento<br />

viene definito nell’inverno <strong>del</strong> ’67 e fissato per<br />

gli inizi <strong>del</strong> ’68. Per quel che <strong>Mesina</strong> dice di saperne, la<br />

missione <strong>del</strong>la “spia” era ad ampio raggio: sulla base di<br />

un’informazione riservata che dava un grosso quantitativo<br />

di armi e danaro in arrivo nell’isola, il colonnello<br />

aveva il compito di indire un referendum tra i latitanti (e<br />

non solo). In pratica, aveva bisogno di sapere se, di lì a<br />

poco, malavita comune e ultrasinistra armata avrebbero<br />

stretto un patto d’acciaio. Il timore non era <strong>del</strong> tutto infondato,<br />

visto che diversi anni più tardi il commesso<br />

viaggiatore <strong>del</strong>le Brigate Rosse, Antonio Savasta, sbarcò<br />

in <strong>Sardegna</strong> per un vertice (a Sa Janna Bassa) con<br />

quelli che all’epoca erano i pezzi da novanta <strong>del</strong> banditismo.<br />

Sia pure con la logica <strong>del</strong> dopo, si può affermare<br />

46<br />

che lo scenario abbozzato, con qualche brivido, al Viminale<br />

era assolutamente realistico. E pensare che allora<br />

sembrava follia fantapolitica.<br />

<strong>Mesina</strong>, che per alcuni anni ha la stessa sacralità <strong>del</strong><br />

calciatore Gigi Riva, pone alcune condizioni: vuole registrare<br />

la chiacchierata con Pugliese che dovrà arrivare<br />

solo, al volante <strong>del</strong>la sua auto privata, seguendo un<br />

itinerario preciso. Ad aspettarlo troverà una sorta di<br />

maggiordomo agropastorale. Al luogo <strong>del</strong>l’incontro vero<br />

e proprio giungerà bendato e bendato dovrà stare fino<br />

a quando qualcuno, il solito Jevees di Barbagia, non<br />

lo riaccompagnerà, frusciando tra i sentieri di una inaccessibile<br />

guglia rocciosa, fino all’automobile. Testimonianza<br />

di Graziano <strong>Mesina</strong>: «Venne da me il responsabile<br />

<strong>del</strong> controspionaggio, Massimo Pugliese, inviato<br />

dal Presidente <strong>del</strong>la Repubblica Saragat. Quella sera<br />

non c’era in giro una-pattuglia-una: strade sgombre,<br />

scomparsi carabinieri e polizia. Pugliese mi disse subito<br />

che la sua stilografica era una pistola. Voleva spaventarmi?<br />

Mi fece sorridere. Quando andai a prelevarlo, nel<br />

luogo concordato, mi chiese anche quanto ci sarebbe<br />

voluto per incontrare <strong>Mesina</strong>. “E io chi sono, secondo<br />

te?” Ci rimase male».<br />

Obbediente, l’uomo <strong>del</strong> Sid esegue con scrupolo le<br />

indicazioni e conclude la missione nel migliore dei modi:<br />

con 150 milioni in contanti, la certezza d’una detenzione<br />

a Nuoro, la liberazione di alcuni reclusi “ingiustamente<br />

detenuti” perché considerati complici di Graziano,<br />

può anche offrire al ministero il latitante più ricercato<br />

d’Italia. In linea di massima, sembra che l’operazione<br />

possa andare avanti. Al Governo interessa in particolar<br />

modo per allontanare definitivamente il timore che il<br />

47


nascente terrorismo agganci la <strong>del</strong>inquenza comune.<br />

L’unico ostacolo, che diverrà poi insormontabile, riguarda<br />

la scarcerazione di alcuni reclusi (non si sa né quanti<br />

né di chi si trattasse). A Roma non vogliono correr il pericolo<br />

di uno scandalo. Meglio lasciar perdere. Prima o<br />

poi <strong>Mesina</strong> abbasserà la guardia.<br />

Pugliese, che lascerà poco dopo i carabinieri e la <strong>Sardegna</strong>,<br />

viene arrestato alla fine di marzo <strong>del</strong> 1984: a firmare<br />

l’ordine di cattura è un magistrato celebre, il giudice<br />

istruttore Carlo Palermo, che lo accusa di essere<br />

coinvolto in un colossale traffico d’armi. In un libro-inchiesta<br />

<strong>del</strong> 1986 sulla clamorosa indagine giudiziaria,<br />

l’eccellentissimo indiziato viene presentato così: «Poi<br />

c’è Massimo Pugliese, tenente colonnello dei carabinieri,<br />

legato ai generali Vito Miceli e Giuseppe Santovito,<br />

suoi superiori ai tempi <strong>del</strong> Sifar e <strong>del</strong> Sid, procacciatore<br />

d’affari sui mercati internazionali. Si era fatto un nome<br />

in <strong>Sardegna</strong>… Attraverso la rete degli informatori era<br />

stato il primo a conoscere i tentativi <strong>del</strong>l’editore Giangiacomo<br />

Feltrinelli e di alcuni suoi amici francesi che<br />

pensavano di trasformare in guerrieri i banditi sardi…<br />

Ebbe la prova che nel novembre <strong>del</strong> 1967 il brigante<br />

Graziano <strong>Mesina</strong>, certamente il più noto tra i ricercati<br />

sardi, aveva ricevuto offerte concrete: armi e denaro in<br />

cambio di un’insurrezione. Un uomo, quel Massimo<br />

Pugliese, molto coraggioso, perché nel clima di un banditismo<br />

fatto di agguati, sequestri, uccisioni, era riuscito<br />

a entrare in contatto con lo stesso <strong>Mesina</strong> dalla cui voce,<br />

registrata segretamente, si era appreso che i latitanti<br />

non avrebbero appoggiato il terrorismo politico. Grazianeddu<br />

si sentiva brigante e non guerriero».<br />

Di Massimo Pugliese, incontrato in condizioni per-<br />

48<br />

lomeno singolari, stile compassato e suadente da vero<br />

agente segreto, <strong>Mesina</strong> conserva un buon ricordo: ufficiale<br />

e gentiluomo, ha rispettato gli accordi. Non dice<br />

altrettanto degli uomini dei Servizi che, durante la latitanza,<br />

dichiara di aver incontrato. A più riprese anzi, e<br />

senza che nessuno lo smentisse, riferisce di essersi sentito<br />

proporre un minestrone eversivo. Di tutto un po’:<br />

dalla missione-lampo contro l’estrema destra altoatesina<br />

all’attentato contro la polizia nel bel mezzo di una<br />

manifestazione. Difficile dire quale sia il confine tra verità<br />

e <strong>del</strong>irio di potenza da balente. Qualcosa di vero<br />

tuttavia dev’esserci se lui stesso, rinunciando per un attimo<br />

a essere personaggio, afferma di non aver mai conosciuto<br />

l’editore Giangiacomo Feltrinelli. Su questo<br />

incontro si è riversato un oceano di parole su quotidiani<br />

e riviste. Ma Graziano resta fermo sulla sua versione:<br />

«Ho ricevuto un messaggio da Feltrinelli, diciamo pure<br />

la richiesta per un incontro, ma ho cortesemente declinato<br />

l’invito». Il motivo? Semplice. «La politica mi fa<br />

schifo». Talmente schifo da ripensarci con assoluto disgusto<br />

quando, ormai in carcere da tempo, il film <strong>del</strong>la<br />

memoria gli ricorda che avrebbe potuto essere un ottimo<br />

mercenario per un colpo di Stato.<br />

Con queste premesse, appare ovvio che <strong>Mesina</strong> non<br />

straveda per uomini e metodi dei Servizi. Quando apprende<br />

che si stanno seriamente interessando <strong>del</strong> sequestro<br />

Farouk va su tutte le furie, pensa di ritirarsi dall’affare,<br />

poi arriva a una preoccupante conclusione: meglio<br />

far finta di nulla per salvare la pelle. «Volevano, cercavano<br />

la strage», ripete ossessivamente subito dopo la<br />

liberazione <strong>del</strong> bambino. Per quanto lo riguarda, ipotizza<br />

una fine poco eroica: «Mi mettono in testa un cap-<br />

49


puccio, m’ammazzano e vanno a dire che nella banda<br />

c’ero anch’io».<br />

Nella sua autobiografia, scritta frettolosamente e<br />

piuttosto vaga, non entra nel dettaglio di questa ipotesi.<br />

Che, a suo tempo, preferisce affidare ai giornali. Fino a<br />

dire che la prova provata <strong>del</strong>la sua innocenza sono proprio<br />

i Servizi. «Mi hanno seguito senza tregua, sono stati<br />

il mio angelo custode. Telefoni sotto controllo e loro<br />

sempre dietro. A meno che non decidessi di seminarli»,<br />

puntualizza con la solita dose di spacconeria.<br />

Pur immaginando di essere guardato a vista e ascoltato<br />

minuto per minuto, ricorre a un piccolo test per sapere<br />

in che misura lo stanno tenendo sotto tiro. Dalla<br />

casa <strong>del</strong>la sorella, a Orgosolo, telefona a un amico, gli<br />

chiede di andare a Nuoro a prendere certe foto e di fargliele<br />

avere in serata. L’amico, che la sera precedente era<br />

stato avvertito <strong>del</strong>l’esperimento, parte portandosi dietro<br />

una scia di segugi. Al ritorno, pochi chilometri dal<br />

cartello stradale trasformato in colabrodo dai pallettoni,<br />

incappa in un posto di blocco. «Polizia, documenti<br />

prego». Patente e carta di circolazione. Subito dopo comincia<br />

un’accurata perquisizione, saltano fuori due foto<br />

che un agente studia con grande attenzione cercando<br />

forse di capire chi ritraggono. Alla fine è tutto a posto.<br />

«Può andare». Sempre marcato a vista, fino al modesto<br />

appartamento dove Graziano abita quando sta a Orgosolo:<br />

soffitti bassi, arredamento da offerta speciale, un<br />

grande televisore bianco e nero nel soggiorno davanti a<br />

un piccolo tavolo tondo.<br />

Uscire da quella casa senza essere visti può apparire<br />

impossibile. Ma un sistema c’è: <strong>Mesina</strong> lo scova e lo comunica<br />

a pochissime persone che gli preme non far pas-<br />

50<br />

sare dall’ingresso principale, pericolosamente affacciato<br />

sulla strada. Don Luigino Monni è uno di questi. Ha<br />

una sorta di “pass”: appare all’improvviso, quasi fosse<br />

un miracolato, all’improvviso scompare. Il trucco è banale:<br />

da una porticina aperta alla fine di un anditino è<br />

possibile, sia pure con qualche acrobazia, finire in una<br />

via parallela a quella principale. Ci vuole un attimo.<br />

Questo cosa significa? Significa che <strong>Mesina</strong> riesce ad<br />

avere incontri non registrati dai Servizi, in qualche <strong>caso</strong><br />

riesce pure ad andarsene con lo stesso sistema. «Quante<br />

volte credevano fossi a casa. Io ero in giro». Neppure<br />

per un attimo accoglie la possibilità che i suoi angeli custodi,<br />

come gli piace chiamarli, sapessero anche <strong>del</strong>l’uscita<br />

secondaria ma, naturalmente, non ci hanno fatto<br />

sopra tanto chiasso.<br />

Per <strong>Mesina</strong> questa ipotesi non regge per una ragione<br />

soltanto: «Se davvero li avessi avuti sempre dietro, prima<br />

o poi sarebbe stato un macello».<br />

Il timore di un conflitto a fuoco lo terrorizza. Se Farouk<br />

morisse, l’Italia non glielo perdonerebbe. Se fosse<br />

ucciso o venisse arrestato qualcuno <strong>del</strong>la banda, sarebbe<br />

considerato un traditore, un infame. Letto e interpretato<br />

con l’occhio d’una certa cultura barbaricina,<br />

questo significherebbe l’apertura di una faida, la probabilissima<br />

morte <strong>del</strong>la sorella e <strong>del</strong>lo zio. La stessa vita<br />

<strong>del</strong>la madre, nonostante l’età, potrebbe essere in bilico.<br />

Conto non chiuso se accadesse qualcosa <strong>del</strong> genere,<br />

Graziano non potrebbe più tornare in <strong>Sardegna</strong>, dovrebbe<br />

pensare anche a un killer in trasferta ad Asti, rovinerebbe<br />

la sua fama di bandito corretto, rispettoso<br />

<strong>del</strong>le regole d’un tempo. Soprattutto perderebbe, insieme<br />

al buon nome faticosamente conquistato nell’arci-<br />

51


pelago carcerario italiano, l’aureola <strong>del</strong>l’uomo d’onore,<br />

<strong>del</strong> detenuto che non si vende e che non vende gli altri.<br />

Per conquistare questa vetta di popolarità e di rispetto,<br />

ha lavorato molto, troppo. Non può e non vuole<br />

perderla in una mattina. Ha trascorso in prigione quasi<br />

trent’anni senza chiedere sconti proprio per questo motivo,<br />

per potere un giorno tornare da vincitore, uno che<br />

ha pagato e pagato da solo, uno che non deve niente a<br />

nessuno (men che meno alla magistratura).<br />

Ecco perché ha paura. Qualcuno potrebbe rovinare<br />

il suo sogno, la marcia trionfale <strong>del</strong> rientro a Orgosolo.<br />

A cose fatte, ovviamente: con Farouk che sorride tra i<br />

genitori finalmente libero. E lui, ex ergastolano, la primula<br />

rossa <strong>del</strong> Supramonte, salutato quasi come un padre<br />

<strong>del</strong>la patria da Indro Montanelli e da quella fetta <strong>del</strong><br />

Paese che vive la passione civile come il tifo da stadio.<br />

Graziano pensaci tu, scrivono a Cagliari su un muro vicino<br />

alla facoltà di Lettere.<br />

Graziano ci pensa volentieri: questa è la sua grande<br />

occasione. È che tutto si sta terribilmente complicando.<br />

C’è la questione <strong>del</strong> riscatto, per esempio: sarà pagato?,<br />

chi lo pagherà? Ancora una volta riaffiora lo spettro dei<br />

Servizi, di un uomo con valigetta nera che atterra a Olbia,<br />

scende da un Falcon ministeriale e scompare su<br />

un’auto-civetta. Era il postino <strong>del</strong> Viminale, portava<br />

con sé – come sosterrà più tardi <strong>Mesina</strong> – un miliardo in<br />

contanti, prelevato dai fondi riservati <strong>del</strong> Sisde? «Non<br />

diciamo stupidaggini», tuona inferocito il capo <strong>del</strong>la<br />

polizia. Salvo scoprire poi che proprio stupidaggini non<br />

erano.<br />

Non si sa chi apra le danze, ma il valzer <strong>del</strong>le bugie<br />

comincia subito. E non è detto che riguardino sempre le<br />

52<br />

verità di Stato. Durante lo scontro frontale con i giudici<br />

<strong>del</strong>la procura antimafia, <strong>Mesina</strong> vomita esclusive su<br />

esclusive. Perfino sul suo passato. E, a un tratto, smentendo<br />

se stesso e le cose che aveva scritto nella autobiografia,<br />

dice anche d’aver conosciuto Giangiacomo Feltrinelli.<br />

Quando? Nel ’67 a Siniscola. Incontro rapido e<br />

inconcludente, almeno per Feltrinelli se sono vere le intenzioni<br />

che gli vengono attribuite. Vero o falso? Tra<br />

l’altro: perché <strong>Mesina</strong>, che ha sempre negato con decisione,<br />

rivela d’aver avuto un abboccamento con l’editore<br />

milanese?<br />

Incomprensibile. Meno incomprensibili sono invece<br />

le rabbiose smentite <strong>del</strong> capo <strong>del</strong>la polizia. Ricordano<br />

l’atteggiamento processuale di imputati che navigano in<br />

acque agitate: negare sempre. Durante il sequestro Kassam<br />

sono intervenuti i servizi segreti? Stupidaggini. Riscatto<br />

pubblico, una specie di contributo a fondo perduto<br />

per Farouk? Stupidaggini.<br />

Stupidaggini?<br />

53


V<br />

Fateh Kassam<br />

«Per la liberazione di Farouk Kassam sono stati pagati<br />

due miliardi. Da persone diverse, in occasioni diverse,<br />

nella stessa giornata». <strong>Lo</strong> dichiara Graziano <strong>Mesina</strong><br />

la sera <strong>del</strong> 24 marzo 1993, parlando al telefono con<br />

un giornalista <strong>del</strong> quotidiano cagliaritano «L’Unione<br />

Sarda». È una bordata violentissima alla tesi ufficiale<br />

<strong>del</strong>le forze <strong>del</strong>l’ordine e <strong>del</strong>la magistratura. Casomai ci<br />

fossero dubbi, aggiunge divertito: «Due miliardi volevano<br />

e due miliardi hanno avuto. <strong>Lo</strong> Stato ha pagato<br />

contestualmente al rilascio <strong>del</strong> bambino». Altro che<br />

banda in fuga, altro che fuorilegge costretti a mollare<br />

l’ostaggio sotto la morsa di un gigantesco accerchiamento.<br />

Secondo la verità di Graziano, la mattina <strong>del</strong> 10 luglio<br />

la banda incassa un miliardo da un uomo di sua fiducia.<br />

I soldi, banconote da centomila lire, sono stipati<br />

in una sacca sportiva scura. Seicentoquaranta milioni<br />

sono dei Kassam, altri trecentosessanta arrivano da una<br />

colletta. Quel giorno stesso, probabilmente di pomeriggio,<br />

il cassiere dei rapitori riapre lo sportello: qualcuno<br />

gli consegna un altro miliardo. Stavolta in maniera appena<br />

più elegante, i quattrini sono ordinatamente disposti<br />

in una valigetta nera. «È andata così, ve lo assicuro».<br />

Attorno alla questione-riscatto ruotano i segreti di<br />

55


una vicenda davvero inquietante. È fin troppo evidente<br />

che qualcuno mente, e clamorosamente. Chi? Il sostituto<br />

procuratore antimafia Mauro Mura afferma che la libertà<br />

di Farouk non è costata una lira. Il primo marzo<br />

<strong>del</strong> ’94 <strong>Mesina</strong> ribadisce l’esatto contrario durante un<br />

interrogatorio durato sei ore. Al suo avvocato affida anche<br />

due parole a uso esterno poiché tiene molto all’idea<br />

che si può fare di lui l’opinione pubblica: «Se sarò condannato<br />

perché ho aiutato un bambino a tornare a casa,<br />

pazienza. Mi sono mosso dove altri non riuscivano». Il<br />

problema, in realtà, è più sottile. Si tratta di capire chi<br />

sta barando e perché.<br />

Cagliari, autunno 1992. Nel corso di una visita ufficiale,<br />

il capo <strong>del</strong>la polizia Vincenzo Parisi viene bloccato<br />

dai cronisti all’ingresso <strong>del</strong> palazzo viceregio, che<br />

ospita la Prefettura. Deve presiedere un vertice sulla<br />

criminalità. Faccione da mastino buono, perde le staffe<br />

solo quando lo pizzicano sul tema <strong>del</strong> giorno: «Per la liberazione<br />

di Farouk non abbiamo pagato. <strong>Mesina</strong>, che<br />

in questa storia ha creato solo impicci, racconta baggianate.<br />

Il Sisde non ha affatto contribuito al rilascio <strong>del</strong>l’ostaggio».<br />

Roma, autunno 1994. Interrogato al processo per lo<br />

scandalo dei fondi neri dei servizi segreti, il funzionario<br />

<strong>del</strong> Sisde Maurizio Broccoletti parla genericamente di<br />

danaro destinato a operazioni speciali. Quando il presidente<br />

<strong>del</strong>la Corte lo invita a spiegarsi meglio, dice che<br />

una certa quantità di soldi veniva utilizzata, in casi particolari,<br />

per «sbloccare, ad esempio, sequestri di persona».<br />

Il rapimento di Farouk Kassam rientra tra questi<br />

“casi particolari”? Forse. Broccoletti, comunque, non<br />

fa cenno a episodi precisi.<br />

56<br />

Non ne avrebbe parlato neppure <strong>Mesina</strong> se, subito<br />

dopo la liberazione <strong>del</strong> bambino, non fosse scoppiata<br />

una guerra a distanza tra lui e la magistratura. Una guerra<br />

combattuta all’inizio a colpi di fioretto e, subito dopo,<br />

a ran<strong>del</strong>late. Molti, troppi cambiano versione con la<br />

velocità di un pony-express.<br />

<strong>Lo</strong> stesso Graziano si mantiene fe<strong>del</strong>e alla linea <strong>del</strong><br />

silenzio fino a due giorni dal rilascio di Farouk. Chiuso<br />

a Orgosolo nella casa <strong>del</strong>la sorella Peppedda, in Corso<br />

Repubblica, in attesa di onori che non verranno, segue i<br />

notiziari su un vecchio apparecchio televisivo e, ogni<br />

tanto, commenta a voce alta. «Non so se sia stato pagato<br />

riscatto», dice, «non mi sono passati soldi tra le mani».<br />

Troppo furbo per sostenere il contrario e magari aggiungere<br />

che il bimbo è stato consegnato personalmente<br />

a lui. Giusto per scansare un’eventuale incriminazione<br />

per favoreggiamento (incriminazione che, alla fine,<br />

gli piomberà comunque addosso), assicura deciso: «Non<br />

ho compiuto reati, mi sono semplicemente occupato<br />

<strong>del</strong> sequestro. Non ho visto né bambino né soldi, sia<br />

chiaro». Si guarda bene però dallo smentire la voce più<br />

insistente di quei giorni, una voce che parla di riscatto<br />

da tre miliardi e ottocento milioni, perfino più alto di<br />

quello pagato per la liberazione <strong>del</strong> costruttore romano<br />

Giulio De Angelis.<br />

<strong>Mesina</strong> cambia idea all’improvviso poco dopo. Un<br />

coro gli dà <strong>del</strong> bugiardo, il procuratore <strong>del</strong>la Repubblica<br />

lo definisce “un venditore di gazzosa”. Ma pare tener<br />

botta, anche quando scende in campo Fateh Kassam,<br />

con l’obiettivo dichiarato di farlo a pezzi, disintegrare il<br />

mito, dimostrare che è soltanto un bandito. «Quando<br />

uno ha alle spalle la vita che ha lui, non credo che cambi.<br />

57


La gente dice: ha pagato il conto con la giustizia, è un altro.<br />

Io non ci credo». Anche Kassam tuttavia scivola in<br />

alcune vistosissime contraddizioni, cambia rotta, smentisce<br />

se stesso.<br />

Ma chi è questo giovanissimo personaggio che mostra<br />

i denti ai fuorilegge, sfidandoli sul loro terreno? Nervi<br />

d’acciaio, cuore momentaneamente in parcheggio, rivela<br />

il suo segreto: «Ho vissuto questo sequestro come se<br />

fosse stato rapito il figlio <strong>del</strong> mio vicino. Non poteva e<br />

non doveva essere un fatto personale». Se proprio deve<br />

avere qualche debolezza, gli umani non c’entrano. Parlando<br />

<strong>del</strong>la sua Alfa Romeo rossa, per esempio, scrive:<br />

“… questa macchina mi ha tenuto compagnia, mi ha accolto<br />

e consolato nei giorni <strong>del</strong>la disperazione e sbarazzarmene<br />

oggi mi sembrerebbe di tradirla”.<br />

Nato a Bruxelles nel ’56, confessa di non avere radici.<br />

Il padre è di origine pakistana ma è nato in Tanzania,<br />

la madre belga. Ha sposato una francese di Nizza, Marion<br />

Bleriot, donna di grande compostezza ed eleganza.<br />

S’è sposato a Parigi, ha bruciato un po’ d’anni a<br />

Vancouver in Canada per frequentare una scuola di business<br />

management, gestione amministrativa. Breve<br />

apprendistato alberghiero all’estero e poi l’approdo in<br />

Costa Smeralda, direttore e piccolo azionista <strong>del</strong>la società<br />

proprietaria <strong>del</strong>l’hotel “Luci di la muntagna”,<br />

quattro stelle, sessantadue camere, trecentoventimila la<br />

singola in alta stagione. Il padre è un gran visir ismaelita,<br />

l’equivalente dei nostri vescovi: questo dettaglio autorizzerà<br />

alcuni giornali a fare un collegamento di amicizia-parentela<br />

con l’Aga Khan. «L’avrò visto in vita mia<br />

una volta o due». L’ipotesi di una grande ricchezza, sia<br />

pure indiretta, crolla in un baleno. Accettata la defini-<br />

58<br />

zione di benestante, ma nulla di più. Più giusto sarebbe<br />

parlare di uno che lavora per tenere in piedi l’azienda.<br />

In un mare di difficoltà: «Ho impiegato cinque anni<br />

per avere l’autorizzazione ad aggiungere trenta stanze<br />

al mio hotel».<br />

Ovvero non è affatto un vip, uno di casa nei posti<br />

giusti. In <strong>caso</strong> contrario non avrebbe dovuto subire, come<br />

un qualunque suddito <strong>del</strong>la repubblica, le lungaggini<br />

<strong>del</strong>la burocrazia regionale a proposito di urbanistica<br />

alberghiera. In conclusione, uno (quasi) qualunque. Nello<br />

studio <strong>del</strong>la villa di Pantogia ha una piccola collezione<br />

di fucili in vetrina. Ama andare a caccia. Probabilmente<br />

durante una pausa nelle battute al cinghiale, ha<br />

parlato di sé e <strong>del</strong>la sua famiglia suscitando una pericolosa<br />

curiosità. Il basista <strong>del</strong> sequestro ha dato informazioni<br />

sbagliate, ha lasciato credere che si sarebbe aperto<br />

il canale con l’Aga Khan. E invece.<br />

Cortese, una passione per i sigari cubani, Fateh Kassam<br />

ha la capacità di sdoppiarsi: un conto è il padre che<br />

soffre, un altro quello che si occupa <strong>del</strong> rapimento di<br />

suo figlio. All’indomani <strong>del</strong> ritorno a casa di Farouk,<br />

sposa la linea ufficiale, niente riscatto. «Questa vicenda<br />

mi è costata soltanto un treno di gomme <strong>del</strong>la mia macchina<br />

e carburante». Appena <strong>Mesina</strong> comincia a sparare<br />

ad alzo zero, sulle prime sta ad ascoltare. Poi esplode.<br />

Con classe, naturalmente. Ma quelle che indirizza a Graziano<br />

sono pallottole dum dum. Esordisce sostenendo<br />

che l’ex ergastolano è stato un suo emissario solo per<br />

breve tempo («È lui che s’è proposto, io non sapevo<br />

nemmeno chi fosse»). Poi affonda il colpo: «Intendiamoci,<br />

<strong>Mesina</strong> è stato utile per ottenere un contatto. Zero<br />

assoluto invece per quanto riguarda il rilascio e molte<br />

59


altre cose che non voglio dire». Sono cose che non vuole<br />

o che non può dire?<br />

– Signor Kassam, mai avuto rapporti con uomini dei<br />

servizi di sicurezza?<br />

«Mai. È <strong>Mesina</strong> che parla di loro, non io».<br />

– Crede davvero che i banditi abbiano rilasciato Farouk<br />

sotto la pressione <strong>del</strong>le forze <strong>del</strong>l’ordine?<br />

«La conoscenza <strong>del</strong>la malavita sarda ha consentito<br />

ad alcuni uomini <strong>del</strong>le forze <strong>del</strong>l’ordine di fare in modo<br />

che il sequestro finisse com’è finito».<br />

– Lei non ci ha messo una lira?<br />

«Ora vi racconto una cosa strana. In prima battuta, i<br />

banditi mi hanno chiesto dieci miliardi. Dopo che <strong>Mesina</strong><br />

ha avuto un incontro con loro, sono passati a quindici.<br />

Singolare, di solito giocano al ribasso. Poi sono scesi<br />

a sette. E lì si sono fermati. Io mi domando perché mai<br />

avrebbero dovuto accontentarsi di due, uno messo da<br />

<strong>Mesina</strong> e l’altro dai Servizi».<br />

Porto Cervo, estate 1993. A un anno esatto dalla libertà<br />

conquistata, Fateh Kassam organizza una grande<br />

festa. Seicento invitati, ricevimento interclassista: ci sono<br />

il vescovo e il campione di calcio, il giardiniere e la<br />

colf, la <strong>signor</strong>a-bene e l’americano un po’ squinternato<br />

che fa vita da bohémien. Rallegra la serata, come si dice<br />

nei cartoncini d’invito, un complessino che ha scritto<br />

una canzone per Farouk. Marion Bleriot fa gli onori di<br />

casa, saluta gli ospiti uno per uno, sorride finalmente<br />

distesa, affida il compito di dare il benvenuto all’artiglieria<br />

dei brut. Misurata, attenta a non strafare, conferma<br />

una grande forza interiore. In apparenza non lascia<br />

veder nulla, ma si coglie una forte capacità di autocontrollo.<br />

Durante le fasi calde <strong>del</strong> rapimento, ha scelto di<br />

60<br />

stare in disparte, quasi una comparsa, come se la faccenda<br />

riuscisse a interessarla soltanto alla lontana. Non si sa<br />

fino a che punto l’idea di stare in panchina sia stata solo<br />

sua, visto che il marito non ha voluto accanto neanche il<br />

fratello, amici carissimi. Aveva bisogno di muoversi in<br />

totale solitudine e libertà, senza la zavorra di parenti impegnati<br />

a tenere viva la stagione <strong>del</strong>la solidarietà.<br />

Nel momento <strong>del</strong>l’emergenza, Marion ha avuto una<br />

intuizione straordinaria e non ha esitato un secondo ad<br />

attuarla senza informarne polizia e carabinieri. Il giorno<br />

di Pasqua, nessuno immaginava nulla, è arrivata a Orgosolo.<br />

Durante la cerimonia <strong>del</strong>l’Incontro, la Madonna<br />

che ritrova suo Figlio, ha chiesto la parola per lanciare<br />

un appello coraggioso e straziante davanti a una platea<br />

ammutolita e scioccata da questa splendida donnacoraggio.<br />

«A voi, a tutte le mamme di quest’isola, lancio<br />

il mio grido perché so che voi potete capirmi».<br />

L’avvio <strong>del</strong>la festa in hotel, poco più di un anno dopo,<br />

è rigorosamente formale, le chiacchiere rigorosamente<br />

banali, gli sbadigli rigorosamente di rito. Qualcuno,<br />

per rompere la monotonia, parla <strong>del</strong> libro di Fateh,<br />

libro pubblicato da appena un mese, cronaca di un<br />

rapimento. Con molti, significativi vuoti: nessun accenno<br />

alle polemiche sul riscatto, alla lunga notte <strong>del</strong>la liberazione,<br />

ai veleni con le autorità <strong>del</strong>lo Stato. Non manca<br />

comunque qualche (involontaria?) frase rivelatrice. “…<br />

<strong>Mesina</strong> vuol solo conoscere la nostra risposta. E io preferisco<br />

tenerlo sui carboni accesi, anche perché, proprio<br />

in quei giorni, si stanno aprendo altri spiragli…”. Quali<br />

spiragli?, è un riferimento indiretto a una trattativa<br />

parallela? Poco più avanti, in un altro passo sulle fasi finali<br />

<strong>del</strong>la vicenda, scrive: “Evidentemente <strong>Mesina</strong> è an-<br />

61


cora convinto che sarà lui il tramite per la liberazione di<br />

Farouk. Non sa che ormai è stato tagliato fuori e che<br />

qualcos’altro sta intanto accadendo dalle sue parti. Per<br />

la verità, cosa esattamente si stia muovendo in queste<br />

ore non lo so nemmeno io”.<br />

Se davvero non lo sa, sicuramente lo immagina. Difatti<br />

nel cuore <strong>del</strong>la festa in albergo, scioglie la briglia al<br />

rancore verso i giornali, colpevoli d’essere troppo ficcanaso:<br />

«Mettetevelo bene in testa. Sul sequestro di mio<br />

figlio ci sono cose che non saprete mai. Mai». Riguardano<br />

il riscatto e la generosa partecipazione <strong>del</strong> Sisde?<br />

È soltanto uno dei tanti interrogativi che affollano<br />

l’ambiguo finale di questa storia. In un’intervista (letta e<br />

approvata dall’interessato prima <strong>del</strong>la pubblicazione),<br />

Fateh Kassam dice di aver rotto i rapporti con <strong>Mesina</strong><br />

con qualche anticipo rispetto al terribile finale di partita<br />

coi fuorilegge. Poi però dice anche che la mattina <strong>del</strong> 10<br />

luglio il suo amico Gianmario Orecchioni e don Luigino<br />

Monni, spalla di Graziano (ma come, non era stato<br />

messo fuori gioco?) gestiscono 640 milioni da consegnare<br />

in giornata alla banda. Per ragioni di sicurezza,<br />

hanno preferito nasconderli. Saggio proposito: durante<br />

il tragitto da Orgosolo verso Olbia, la macchina guidata<br />

da Orecchioni viene intercettata a un posto di blocco e<br />

perquisita. C’era da immaginarlo: il magistrato che dirige<br />

le indagini, Mauro Mura, vuole stroncare sul nascere<br />

qualunque tentativo di avviare un dialogo coi rapitori,<br />

pagare un riscatto. «Coi banditi non si tratta».<br />

Quei soldi, comunque, ci sono. Come ci sono gli altri<br />

360 milioni rastrellati presso amici a Porto Cervo. Se<br />

non sono mai stati versati ai carcerieri di Farouk, che fine<br />

hanno fatto? Sull’altro miliardo, quello che, secondo<br />

62<br />

<strong>Mesina</strong> sarebbe stato pagato dai Servizi, non si può naturalmente<br />

sapere nulla. È denaro che non puzza, che<br />

soprattutto non deve essere registrato in un libro mastro.<br />

Appare e scompare, operazioni speciali no? Pur<br />

ammettendo che il Sisde abbia pagato, nessuno potrà<br />

mai accertarlo con sicurezza. È un investimento che<br />

non lascia traccia, ma solo l’ombra <strong>del</strong> sospetto.<br />

L’esistenza di un fondo da destinare ai sequestri di<br />

persona è sempre stata negata con vigore. <strong>Lo</strong> stesso Parisi,<br />

che col comandante generale dei carabinieri Viesti<br />

ha seguito passo passo il <strong>caso</strong> Kassam, s’è preoccupato<br />

di definire “follie, fandonie” tutte le voci contro. Qualcosa<br />

tuttavia dev’essersi mossa se Graziano <strong>Mesina</strong> è<br />

stato poi sentito dal Comitato parlamentare per i servizi<br />

di sicurezza e il segreto di Stato. Qual era l’obiettivo <strong>del</strong>l’interrogatorio?,<br />

non bastavano le confortanti dichiarazioni<br />

<strong>del</strong> capo <strong>del</strong>la polizia, <strong>del</strong>la superprocura?<br />

Nella questura di Asti, di fronte al senatore Gerardo<br />

Chiaromonte – che presiedeva il Comitato – ripropone<br />

la sua versione. Quello che dice non esce dagli uffici di<br />

polizia. Pochi mesi più tardi Chiaromonte muore e di<br />

quella audizione non si saprà più nulla.<br />

Impossibile sapere se e dove <strong>Mesina</strong> stia mentendo,<br />

stia tessendo insomma una poderosa montatura per<br />

screditare lo Stato e i suoi servitori. Le nebbie che avvolgono<br />

questo <strong>caso</strong>, sicuramente il più singolare e inquietante<br />

nella storia dei rapimenti in <strong>Sardegna</strong>, non aiuta a<br />

capire. Quando Kassam afferma che alcuni dettagli non<br />

verranno mai alla luce, che vuol dire? Qual è la svolta radicale<br />

nelle indagini che mette da parte l’ex ergastolano<br />

e imbocca la strada conclusiva? Tutto questo per sostenere<br />

che se anche <strong>Mesina</strong> sta sfornando bugie, le forze<br />

63


<strong>del</strong>l’ordine mo<strong>strano</strong> qualche spericolato lampo di smemoratezza.<br />

La chiave per scoprire la verità sta nell’incidente<br />

che provoca l’esclusione di <strong>Mesina</strong> dalle trattative. Altrimenti<br />

non si spiegherebbe l’improvviso giro di boa:<br />

dopo aver ossequiosamente rispettato la ricostruzione<br />

ufficiale («Non so se sia stato pagato riscatto, nelle mie<br />

mani non è passata una lira, il bambino non è stato<br />

consegnato a me personalmente…»), Graziano cambia<br />

idea nell’arco di quarantott’ore. Perché, gli era stato<br />

promesso qualcosa? Tutti sanno che in questa operazione<br />

si sta giocando la concessione <strong>del</strong>la grazia: un atteggiamento<br />

di scontro con le autorità può soltanto<br />

nuocere alla sua causa. Eppure sceglie proprio la via<br />

<strong>del</strong> ring, furioso combattimento che per qualche giorno<br />

fa la felicità dei giornali. Alla fine, cosa resta? Un<br />

clamoroso insuccesso su tutti i fronti: disfatta <strong>del</strong>la credibilità<br />

<strong>del</strong>lo Stato, dubbi atroci sulla trasparenza <strong>del</strong>la<br />

versione di <strong>Mesina</strong>.<br />

Un sondaggio non poteva mancare in un Paese che<br />

da qualche tempo sembra non riuscire a vivere, a capire<br />

e interpretare la realtà senza il conforto d’un costante<br />

ventaglio di opinioni. E il sondaggio, commissionato<br />

dal quotidiano di Milano «Il Giornale», fa sapere che<br />

soltanto una modestissima parte di italiani crede al ministro<br />

Mancino, al capo <strong>del</strong>la polizia Parisi. Alla fine restano<br />

dunque in piedi più che mai i dubbi e i sospetti<br />

che hanno accompagnato le fasi finali <strong>del</strong> sequestro. Per<br />

liberare Farouk è stato pagato o no un miliardo dallo<br />

Stato? L’interrogativo è interessante, ancor più interessante<br />

sarebbe conoscere i criteri che facevano aprire al<br />

Sisde i cordoni <strong>del</strong>la borsa. «Casi particolari», ha detto<br />

64<br />

Broccoletti al processo di Roma. Sarebbe stato più corretto<br />

dire “ostaggi particolari”, confessare che una decisione<br />

d’intervento veniva presa volta per volta. L’odissea<br />

di Farouk, straniero e di appena otto anni, stava coprendo<br />

di vergogna l’Italia. Bisognava muoversi, con la<br />

<strong>del</strong>icatezza <strong>del</strong>la ruspa se necessario.<br />

65


VI<br />

Missione a rischio<br />

Non ne valeva la pena, operazione troppo rischiosa.<br />

Per cavarne cosa, poi? «Soldi, molti soldi», spara Fateh<br />

Kassam buttandogli addosso tutto il suo disprezzo e indicando<br />

l’unico metro di misura che può stare a cuore a<br />

un bandito: il denaro. Graziano <strong>Mesina</strong> ha accettato di<br />

fare l’intermediario perché voleva tirar su col prezzo,<br />

imposta sul valore aggiunto <strong>del</strong> riscatto. Per questo i<br />

rapporti tra i due – che non sono mai stati amichevoli –<br />

hanno finito per deteriorarsi. Anzi, c’è stata una vera e<br />

propria rottura.<br />

È probabile che, in realtà, l’onorario di <strong>Mesina</strong> fosse<br />

decisamente più alto. Ma l’interessato non può andarlo<br />

a raccontare in giro e men che meno a Fateh Kassam, un<br />

uomo che gli suscita profonda antipatia fin dal primo<br />

momento. Tanto è vero che, salvo assoluta necessità,<br />

evitano di incontrarsi. Preferiscono dialogare attraverso<br />

Gianmario Orecchioni, amico fraterno di Fateh, uno<br />

che in gioventù è stato grande ammiratore <strong>del</strong>l’ex ergastolano<br />

di Orgosolo.<br />

Dietro le quinte <strong>del</strong> rapimento <strong>del</strong> piccolo Farouk si<br />

muovono altri interessi. Di quattrini Graziano sembra<br />

non avere bisogno: tanto più che, salvo casi eccezionali,<br />

rilascia solo interviste a tassametro. Si amministra con<br />

67


intelligenza spiegando ai giornalisti che trasecolano per<br />

le sue richieste (cento milioni tondi tondi per una chiacchierata<br />

in esclusiva all’indomani <strong>del</strong>l’uscita dal carcere):<br />

«Voi speculate sulla mia vita, sui miei racconti. Vendete<br />

più copie, gonfiate il personaggio, in parole povere,<br />

fate affari sulla mia pelle. Perché dovrei regalarvi<br />

un’intervista? A me nessuno ha mai regalato nulla».<br />

Nel <strong>caso</strong> Kassam cos’ha da guadagnare? Ci sono molte<br />

ragioni che gli impongono di portare a termine nel migliore<br />

dei modi il lavoro da intermediario, al di là che la<br />

cosa piaccia o non piaccia a Fateh. Prima di tutto deve<br />

rendere conto all’“altissimo” che lo ha costretto ad accettare<br />

l’incarico. Deve trattarsi di qualcuno che conta<br />

sul serio se <strong>Mesina</strong>, messo a un certo punto fuori gioco<br />

dai familiari <strong>del</strong>l’ostaggio, decide comunque di andare<br />

avanti, addirittura fare una colletta. In un momento<br />

molto <strong>del</strong>icato <strong>del</strong>le trattative coi fuorilegge, inizia a cercare<br />

febbrilmente soldi per un riscatto parallelo. Quando<br />

gli si chiede come mai non molla tutto, per quale motivo<br />

va pure in cerca di contanti, risponde in maniera sibillina:<br />

«<strong>Lo</strong> faccio per un amico». E che l’amico abbia un<br />

peso importante lo conferma anche il vecchio vescovo di<br />

Nuoro, ma di più non dice. Il nome di questo misterioso<br />

<strong>signor</strong>e non è mai trapelato.<br />

Certo è che si tratta di qualcuno con buone entrature<br />

nel mondo politico, unico particolare che mon<strong>signor</strong><br />

Melis si lascia scappare. È anche qualcuno che, in cambio<br />

<strong>del</strong>la mediazione, offre una contropartita di tutto rispetto:<br />

la grazia, per dirne una. E con la grazia il ritorno<br />

definitivo in <strong>Sardegna</strong>.<br />

<strong>Mesina</strong> ha grande stima di Francesco Cossiga, giusto<br />

per fare un nome a <strong>caso</strong>. E ne confida la ragione al giudi-<br />

68<br />

ce istruttore che lo sta interrogando su tutt’altro: Cossiga<br />

è da apprezzare perché “quando ha voglia di esternare,<br />

esterna”. A un buon conoscente comune avrebbe<br />

esternato, per esempio, l’intenzione di aiutare l’ergastolano.<br />

Non immaginava che improvvisamente la situazione<br />

politica potesse precipitare travolgendolo. Tant’è<br />

che quando lascia il Quirinale, la pratica <strong>del</strong>la grazia<br />

galleggia in alto mare.<br />

Un po’ come la speranza di rimetter piede a Orgosolo.<br />

È questo il vero obiettivo di <strong>Mesina</strong>: rientrare in<br />

paese da uomo libero. Chiusa con una storica pacificazione<br />

la faida con i Grussotto, spera in una sorta di rilancio<br />

sociale. <strong>Lo</strong> sostiene, in questo, una non comune<br />

considerazione di se stesso e la certezza che trent’anni<br />

di carcere non sono comunque riusciti a metterlo fuori<br />

gioco. <strong>Lo</strong> si capisce quando, in licenza premio, passeggia<br />

avanti e indietro in Corso Repubblica con l’aria<br />

(finta) di uno qualunque, uno che vuol far sapere di essere<br />

tornato per annunciare, gattopardescamente, che<br />

nulla è cambiato.<br />

A dargli una mano c’è anche Indro Montanelli, penna<br />

principe <strong>del</strong> giornalismo italiano, che va a pranzo da<br />

lui con inviato al seguito, manifesta simpatia per l’ex<br />

bandito, mangia porcetto arrosto per ricordarsi gli anni<br />

<strong>del</strong>l’infanzia (suo padre faceva il preside a Nuoro). E<br />

scrive di pugno, subito dopo, che <strong>Mesina</strong> è un uomo<br />

perbene, merita di tornare in libertà senza vincoli di<br />

sorta. Quando le acque giudiziarie riprendono ad agitarsi,<br />

va alla carica senza ripensamenti, ironizza pesantemente<br />

sul magistrato <strong>del</strong> sequestro Kassam e riafferma<br />

il suo giuramento di fede nei confronti di <strong>Mesina</strong>:<br />

«Casomai dovesse darsi nuovamente alla latitanza, sap-<br />

69


pia che per lui la porta <strong>del</strong>la mia casa è sempre aperta.<br />

Troverà un letto e un piatto di minestra».<br />

Con una protezione così autorevole, il <strong>caso</strong> Farouk<br />

diventa un trampolino di lancio verso la ribalta nazionale,<br />

sotto quei riflettori che Graziano ama tanto. Anche<br />

se sa molto bene che si tratta <strong>del</strong>l’esame più difficile <strong>del</strong>la<br />

sua esistenza. Comunque vada a finire, non potrebbe<br />

in ogni <strong>caso</strong> tirarsi indietro, l’amico a cui non si può dire<br />

no ci resterebbe male. Si tratta, dopotutto, di muoversi<br />

con intelligenza e cautela: l’esperienza maturata in prigione<br />

e nella vita alla macchia basta e avanza. L’importante<br />

è che l’ostaggio torni a casa e che nessuno <strong>del</strong>la<br />

banda dei rapitori venga ferito o arrestato a ridosso <strong>del</strong>le<br />

trattative. A risponderne sarebbe lui.<br />

Mon<strong>signor</strong> Giovanni Melis conosce il nome <strong>del</strong> misterioso<br />

personaggio che ha convinto <strong>Mesina</strong>, molto riluttante,<br />

a occuparsi <strong>del</strong> <strong>caso</strong> Kassam. Il suo non è un<br />

segreto confessionale, ma rifiuta di svelarlo perché è rimasto<br />

in qualche misura vincolato a una sorta di patto<br />

di sangue. A distanza di tempo, nella casa d’accoglienza<br />

per sacerdoti in pensione, un ampio appartamento nel<br />

quartiere di Sant’Avendrace a Cagliari, si stupisce che<br />

l’altissimo-onnipotente uomo <strong>del</strong> mistero non si sia fatto<br />

più vivo. Neppure quando <strong>Mesina</strong> viene arrestato ad<br />

Asti e pare scomparire definitivamente nell’oceano carcerario.<br />

Impossibile dargli una mano in quel momento<br />

oppure c’è stata qualche incomprensione? Mon<strong>signor</strong><br />

Melis, che gli anni hanno reso ancora più saggio, ammesso<br />

che sia possibile, non vuole mettere il dito sulla<br />

piaga. Un sorriso solare gli attraversa il viso rugoso<br />

quando conferma, mano sul cuore, che <strong>Mesina</strong> si è occupato<br />

<strong>del</strong> sequestro solo perché è stato costretto. «Io<br />

70<br />

ero presente, potrei testimoniarlo». E sempre lui, la pecora<br />

tornata all’ovile <strong>del</strong>l’onestà, ha «consentito di riportare<br />

quella creatura a casa».<br />

L’ex vescovo di Nuoro rivela soltanto una minuscola<br />

parte di quello che sa. Durante le trattative per il rilascio<br />

di Farouk, ha affidato le “relazioni esterne” a don Luigino<br />

Monni ma nel frattempo ha proseguito a lavorare<br />

per conto suo. Nelle lunghe ore di meditazione, e forse<br />

di noia (ma questo non glielo sentirete dire), rimugina<br />

su una vicenda che non considera affatto conclusa.<br />

Se ne intende: anni e anni di attività pastorale in Barbagia<br />

non ne hanno fatto soltanto un vescovo “storico”.<br />

Ha detto messa per i funerali di almeno un centinaio di<br />

morti ammazzati. Violando una regola che rende i preti<br />

intoccabili e imponendo loro nello stesso tempo di non<br />

mettere il naso in casa d’altri, ha chiamato a raccolta la<br />

sua gente contro la violenza. Ha insultato la sedicente<br />

civiltà <strong>del</strong>la balentìa, sempre con durezza e senza sfumature.<br />

Il fatto di essere <strong>del</strong> luogo lo ha forse salvato ma<br />

non è riuscito a farne un presenzialista da cerimonia.<br />

Quando è stato necessario ha polemizzato con gli intellettuali<br />

che processavano l’omertà. «Facile parlare di<br />

coraggio civile quando si sta lontano da qui o ben protetti<br />

nelle redazioni dei giornali». In altri termini, non la<br />

giustificava ma capiva l’omertà. Mon<strong>signor</strong> Melis è forse<br />

stato il solo ad avere accettato fino in fondo il principio<br />

<strong>del</strong>la espiazione <strong>del</strong>la pena e <strong>del</strong>la redenzione, il solo<br />

ad avere accolto e trattato l’ex bandito come nessuno<br />

avrebbe fatto: il cittadino, il fratello <strong>Mesina</strong>, senza la<br />

pretesa di considerarlo sempre sotto esame.<br />

Graziano se ne accorge e anche per questo impegna<br />

tutto se stesso nel tentativo di portare a buon fine la mis-<br />

71


sione. Un aiuto consistente gli arriva dal suo difensore di<br />

fiducia. In un’età imprecisata sotto i quaranta, figlia <strong>del</strong>la<br />

buona borghesia torinese, Gabriella Banda è una donna<br />

che vive con grande passione civile la sorte <strong>del</strong> suo<br />

cliente. Quando riceve il telegramma <strong>del</strong>l’incarico, esulta:<br />

assistere in giudizio Graziano <strong>Mesina</strong> significa conquistare<br />

il successo, far scoppiare d’invidia molti colleghi,<br />

bruciare le tappe <strong>del</strong>la carriera forense. E difatti nel<br />

giro di poche settimane, finisce su tutti i quotidiani italiani.<br />

Supera la timidezza, regge bene, spegne l’aggressività<br />

<strong>del</strong>la stampa mantenendo toni pacati, nessuna platealità.<br />

Si batte con grande determinazione in aula. Il<br />

primo, drammatico intoppo – il fermo di <strong>Mesina</strong> a Parma,<br />

fuori dai confini <strong>del</strong> soggiorno obbligato – la vede<br />

vacillare solo per un attimo. Studia i verbali d’interrogatorio,<br />

il rapporto dei carabinieri e sferra l’offensiva per<br />

evitare che il suo assistito possa perdere la libertà condizionale.<br />

Bontà sua non se la prende, come vorrebbe un<br />

collaudato copione nazionale, con la tesi <strong>del</strong> complotto.<br />

Comincia in quel momento una partita destinata a<br />

giocatori più che abili, ad avvocati che hanno fatto i capelli<br />

bianchi nei palazzi di giustizia, ma Gabriella Banda<br />

– quasi un’esordiente in campo professionale – riesce<br />

a spuntarla mostrando fermezza, rigore, preparazione,<br />

intelligenza. Mentre il suo celebre cliente è in <strong>Sardegna</strong><br />

a occuparsi <strong>del</strong> sequestro Kassam, un quotidiano rivela<br />

che tra lei e Graziano c’è ben altro che non un semplice<br />

rapporto di lavoro o d’amicizia. Esplode, minaccia querele:<br />

«È una squallida bugia».<br />

Non s’è accorta di essere finita nel meccanismo stritolante<br />

<strong>del</strong> giornalismo-spazzatura. È tutto clamorosamente<br />

falso, ma questo ha poca importanza: il segreto<br />

72<br />

sta nel lanciare una notizia verosimile e, come dicono i<br />

vecchi cronisti, inzupparci il biscotto per qualche giorno.<br />

Tanto la gente se la beve. Eccola la <strong>signor</strong>a avvocato,<br />

eccola, non ha resistito al fascino <strong>del</strong> bandito famoso (e<br />

sardo, tanto per puntualizzare con orgoglio regionalpopolare).<br />

Tanto più che non è affatto il primo <strong>caso</strong>:<br />

non è accaduto qualcosa <strong>del</strong> genere qualche anno prima<br />

anche alla marchesa Guglielmi? Rapita mentre rientrava<br />

nella sua villa di Latina, s’era innamorata <strong>del</strong> suo carceriere,<br />

Gianni Cadinu, basso, grossolano, occhi chiari.<br />

Oltre il limite previsto dalla cosiddetta sindrome di<br />

Stoccolma, ha raccontato nel diario dalla prigionia una<br />

storia d’amore romantica e struggente, mano nella mano<br />

sotto la luna nei faticosi trasferimenti da un rifugio<br />

all’altro. Cosa poteva aver fatto incontrare una donna<br />

colta, aristocratica e un latitante neppure di prima fila?<br />

Quindi nessun stupore se qualcosa <strong>del</strong> genere, fascino<br />

<strong>del</strong>la categoria, avesse colpito al cuore anche un’elegante<br />

avvocatessa di Torino.<br />

Nonostante una dignitosa e sofferta smentita, il valzer<br />

<strong>del</strong>le voci su Gabriella Banda continua a girare e<br />

sembra segnarla a fondo. Quella <strong>del</strong>la calunnia era una<br />

variabile che non aveva considerato. Prosegue comunque<br />

nel suo lavoro, aiuta <strong>Mesina</strong> a scrivere un’autobiografia,<br />

ma qualcosa si spezza. Quando Graziano finirà<br />

nel carcere di Novara per detenzione d’armi, non sarà<br />

più il suo difensore. Perché, non lo dice, esce di scena in<br />

silenzio. Come se questa avventura professionale, che<br />

pure le ha dato forte notorietà, sia naufragata nelle sabbie<br />

mobili <strong>del</strong>la sfiducia. Ha scoperto che il suo assistito<br />

le ha mentito, le ha nascosto qualcosa? Gabriella Banda<br />

preferisce non rispondere. «Un capitolo chiuso». Chiu-<br />

73


so anche per <strong>Mesina</strong> che, in un primo momento, chiede<br />

soccorso a un suo vecchio legale (Giannino Guiso), poi<br />

sceglie di essere difeso da un avvocato d’ufficio.<br />

Non sono frammenti di storia personale, questi.<br />

Non sono spezzoni di vita privata. È che dopo la vicenda<br />

<strong>del</strong> sequestro Kassam, la buona stella di Graziano<br />

declina velocemente: la liberazione di Farouk si trasforma<br />

in un boomerang. Scontro aperto tra chi giura che<br />

l’impresa è tutta sua e chi invece lo accusa di averci speculato.<br />

Affidandosi a un’antica e ipocrita certezza: un<br />

bandito è sempre un bandito.<br />

Tempo dopo ad Asti, a un processo per armi e sequestro<br />

di persona, c’è scarso interesse, pochi inviati seguono<br />

le udienze che si trascinano stancamente fino alla<br />

sentenza di condanna. <strong>Lo</strong> stesso giornale di Montanelli<br />

non dà grande rilievo alla notizia, addirittura non pubblica<br />

una riga il giorno <strong>del</strong> verdetto. <strong>Mesina</strong> non fa più<br />

titolo? Qualcosa non quadra. Forse circola sottobanco<br />

l’indiscrezione che prova la sua colpevolezza: insomma<br />

in quel pasticcio c’è dentro fino al collo, ha peccato di<br />

onnipotenza, di presunzione e di certezza <strong>del</strong>l’impunità.<br />

Ore e ore di intercettazioni telefoniche sono lì a dimostrarlo.<br />

Un’ipotesi di questo genere spiegherebbe le<br />

ragioni <strong>del</strong>l’insolito disinteresse verso un personaggio<br />

che ha fatto girare al massimo le rotative.<br />

Il mito pare finire a pezzi, miseramente scivolato su<br />

una buccia di banana ha rivelato la sua anima: di gesso.<br />

Ha tradito la fiducia di molte persone, dunque fa bene il<br />

pubblico ministero a definirlo “<strong>del</strong>inquente abituale” e<br />

a ironizzare pesantemente su un dio minore che rotola<br />

verso il disastro. «Per uno come lui non posso chiedere<br />

una condanna lieve, non sarebbe rispettoso».<br />

74<br />

Nel fuggi fuggi generale, più o meno dignitoso, c’è<br />

una donna che resiste. E continua a scrivergli, anche<br />

adesso che sembrano essere perduti perfino gli ultimi<br />

scampoli di libertà. È Valeria Fusè, milanese. Il suo nome<br />

vien fuori nella primavera <strong>del</strong>l’85. Allo scadere di<br />

un permesso di dodici ore, <strong>Mesina</strong> non rientra nel carcere<br />

di Vercelli. I carabinieri lo sorprendono con questa<br />

ragazza, carnagione chiara e sguardo smarrito, in un<br />

appartamentino di Vigevano. L’amante <strong>del</strong> bandito: al<br />

processo per direttissima arrivano tivù e giornali di<br />

mezza Europa. Per Graziano è una clamorosa affermazione<br />

di balentìa («l’uomo è uomo») con una qualche<br />

pennellata di colore da rotocalco ultrapopolare. Valeria<br />

Fusè schiva l’attenzione generale e rientra («assolta<br />

perché il fatto non costituisce reato») nella casa dove<br />

vive coi genitori. Nel ’91, quando <strong>Mesina</strong> acquista la libertà<br />

– sia pure dimezzata da orari ristretti e rigidissimi<br />

limiti di movimento – un incontro a due mette a fuoco<br />

“un bellissimo rapporto d’amicizia”.<br />

Amicizia commovente e profonda che resta in piedi,<br />

quasi solitaria, anche mentre infuria una terribile tempesta,<br />

giudiziaria e umana.<br />

75


VII<br />

Il dio tritolo<br />

Bandito pre-tecnologico, Graziano <strong>Mesina</strong> aveva<br />

dialogato a pallettoni negli anni verdi <strong>del</strong>la vecchia criminalità.<br />

Quasi un adolescenziale tempo <strong>del</strong>le mele: minacce,<br />

intimidazioni e avvertimenti passavano attraverso<br />

la legge <strong>del</strong> fucile. La voce <strong>del</strong> tritolo, più professionale<br />

e sicura, non aveva ancora avuto modo di sentirla.<br />

Fortuna che stava in carcere a macerarsi in uno speranzoso<br />

conto alla rovescia: uno come lui non avrebbe<br />

neanche capito. <strong>Lo</strong> avrebbero messo da parte come si fa<br />

con certe macchine che finiscono fuori mercato. Al<br />

massimo, una volta uscito dai “garage” penitenziari, lo<br />

avrebbero potuto esibire come pezzo d’epoca. Antiquariato.<br />

Un fantasma che in vita adoperava doppiette a<br />

canne mozze, il numero di matricola abraso.<br />

Agli uomini <strong>del</strong>la dinamite farebbe perfino tenerezza.<br />

Oltre duecento attentati in dodici mesi, sessanta a<br />

Nuoro con un record regionale incoraggiante: nove<br />

botti in soli ventidue giorni nel ’90. Alle spalle di questo<br />

scenario che occupa la ribalta <strong>del</strong>la cronaca, alcuni insistono<br />

con la ricetta tradizionale: nei moduli grigi da inviare<br />

al comando generale per le statistiche, i carabinieri<br />

regi<strong>strano</strong> in tutto 130 colpi di arma da fuoco. Pochi,<br />

lampi rancorosi degli ultimi sopravvissuti che si ostinano<br />

a credere in una sorta di linguaggio degli avi: ditelo<br />

77


col piombo. Ditelo pure, se vi pare ma alla fine degli anni<br />

’80 l’esplosivo tira di più. È quasi una scoperta in una<br />

terra che pullula di cave e miniere e che dunque può offrire<br />

materia prima a volontà.<br />

A differenza di altri sistemi, il tritolo ha il vantaggio<br />

di essere meno impegnativo <strong>del</strong>l’agguato, non richiede<br />

la presenza sul posto, è convincente quando si fa sentire.<br />

E ancor più sul dopo, immagine di devastazione e<br />

paura, effetto secondario nient’affatto trascurabile e di<br />

lunga durata: vivere con le macerie sotto gli occhi significa<br />

crescere fianco a fianco al terrore. In un mare agitato<br />

come questo, <strong>Mesina</strong> si sarebbe perduto in un attimo.<br />

Era uno specialista d’altro genere, lui.<br />

Le nuove tecniche di guerra sono sofisticate. L’utilizzazione<br />

degli esplosivi offre un ventaglio di possibilità<br />

davvero interessante. Ne sa qualcosa un giudice di sorveglianza<br />

<strong>del</strong> Tribunale nuorese e un’educatrice penitenziaria<br />

di Badu ’e Carros. Ricevono bombe: e la città<br />

trema. Cosa c’è sotto? In questo <strong>caso</strong>, il discorso appare<br />

abbastanza semplice. Racket alla rovescia: la malavita<br />

aiuta alcuni commercianti in crisi, garantisce un consistente<br />

sostegno economico in cambio di un piccolo favore,<br />

proporre un posto di lavoro a un certo detenuto.<br />

La legge sulla libertà condizionale impone che i reclusi<br />

abbiano trovato un’occupazione, altrimenti si resta<br />

dentro. Grazie a una norma come questa, la criminalità<br />

organizzata riesce a recuperare alcuni suoi uomini. In<br />

quel periodo i reclusi di Badu ’e Carros sono poco meno<br />

di duecento. Almeno una trentina ha ottenuto la libertà<br />

condizionale con questo sistema: escono dal carcere di<br />

buon mattino e vi rientrano soltanto dopo il tramonto,<br />

per dormire.<br />

78<br />

L’uso distorto e degenerato <strong>del</strong>la legge emerge quasi<br />

subito in tutta la sua evidente gravità, ma le scappatoie<br />

sono poche. Ai vertici <strong>del</strong>l’amministrazione <strong>del</strong>la giustizia<br />

ci si lamenta apertamente. «Qualcuno ha fatto meno<br />

prigione di quella fatta patire all’ostaggio in un sequestro<br />

di persona», s’infuria il direttore <strong>del</strong> penitenziario<br />

nuorese riferendosi all’incredibile viavai di detenuti.<br />

La procedura per ottenere questo significativo privilegio,<br />

che rende più civile e meno repressiva la detenzione,<br />

passa attraverso una serie di autorizzazioni, a cominciare<br />

da quella <strong>del</strong> giudice di sorveglianza. Il magistrato<br />

messo sotto tiro con un ordigno a basso potenziale<br />

si era evidentemente opposto a una richiesta di lavoro<br />

esterno. Ha scontentato qualcuno e glielo hanno mandato<br />

a dire con un po’ di gelatina sotto casa.<br />

A far da cornice ci sono poi i fuochi d’artificio legati<br />

agli appalti, alle vendette tra grossisti, gelosie di concorrenza.<br />

Quando il messaggio esplosivo non ottiene il risultato<br />

voluto, c’è sempre la piazza dei sicari a pagamento.<br />

Nel 1989 Nuoro strappa un terzo posto assoluto<br />

sul fronte-omicidi in campo nazionale: in rapporto al<br />

numero degli abitanti, produce morti ammazzati poco<br />

meno di Reggio Calabria e Catania. Quasi un secolo prima,<br />

un deputato <strong>del</strong>la <strong>Sardegna</strong> al Parlamento di Torino<br />

scriveva affannato al ministro <strong>del</strong>l’Agricoltura, Camillo<br />

Benso conte di Cavour: “Si uccide di giorno e di<br />

notte, si uccide in piazza, in campagna, nelle case, all’uscire<br />

di chiesa”.<br />

Adesso la situazione non è così drammatica, proprio<br />

perché c’è il tritolo. Tritolo che, come gli incendi estivi,<br />

è legato a doppio filo con l’occupazione, la povertà diffusa,<br />

la mancanza di prospettive, lo straniamento di<br />

79


contadini e pastori riciclati a suo tempo nell’industria e<br />

ora scaraventati nel purgatorio <strong>del</strong>la cassa integrazione.<br />

Nel conto bisogna mettere anche la rete <strong>del</strong> commercio,<br />

gonfiata a dismisura proprio per fronteggiare la mancanza<br />

di lavoro: nella sola città di Nuoro sono state concesse<br />

millecento licenze, seimila in tutta la provincia.<br />

Quanti riescono a stare a galla nell’imbuto vorticoso<br />

<strong>del</strong>la crisi?, quanti riescono a mantenersi onesti? Il varco<br />

per l’infiltrazione di mafia e ’ndrangheta, che hanno<br />

bisogno di lavare danaro e operare in terre pulite, diventa<br />

più facile.<br />

Ma dopo anni e anni di accertamenti non si riesce a<br />

chiudere il cerchio. Con molta presunzione, i sacerdoti<br />

<strong>del</strong>la sarditudine a oltranza avvertono che non c’è<br />

pericolo: la Barbagia, giurano, è impermeabile a culture-altre.<br />

Ci crede anche Salvatore Mulas, questore di<br />

Nuoro: «Qui mafia e camorra non possono combinare<br />

granché. Al di là <strong>del</strong>le ataviche allergie dei sardi, il problema<br />

è quello <strong>del</strong>le braccia. Se pure pensassero di imboccare<br />

la strada <strong>del</strong>l’estorsione programmata, avrebbero<br />

bisogno di manovalanza locale. E non ne troverebbero».<br />

Altri ritengono invece che mafia e camorra non vogliano,<br />

almeno in <strong>Sardegna</strong>, imporre il racket, cioè l’abicì<br />

<strong>del</strong>la piccola <strong>del</strong>inquenza di casa loro. Forse è vero<br />

l’esatto contrario: la grande criminalità chiede in <strong>Sardegna</strong><br />

discrezione e possibilità di fare buoni investimenti.<br />

Nei primi mesi <strong>del</strong> ’94 la Guardia di Finanza apre un’inchiesta<br />

sull’acquisto di alcuni residence a San Teodoro,<br />

località sacra nell’industria <strong>del</strong>le vacanze: sembra siano<br />

stati comprati con denaro riciclato proveniente da sequestri<br />

e traffico di stupefacenti. L’indagine è tuttora<br />

80<br />

aperta. Nel Sulcis, dove invece ci sono mafiosi in soggiorno<br />

obbligato, l’economia di sussistenza non apre la<br />

via al racket. La crisi economica è di proporzioni talmente<br />

gravi che, davanti alla minaccia di un taglieggiamento,<br />

i commercianti abbasserebbero all’istante le saracinesche.<br />

Cosa resta da fare, allora? Anche in questo<br />

<strong>caso</strong>, come per San Teodoro e altri investimenti in Gallura,<br />

si fanno soltanto congetture: mancano le stampelle<br />

dei fatti. Si dice che i mafiosi anticipino danaro ai negozianti<br />

in crisi e incassino a vendita avvenuta. Insomma<br />

piccolo, piccolissimo strozzinaggio, a cappio sufficientemente<br />

largo. Dopotutto, se i commercianti vengono<br />

strangolati ha da perdere anche la mafia e i suoi esattori.<br />

Le mille voci <strong>del</strong> dio-tritolo continuano comunque a<br />

farsi sentire. Nelle campagne di Orgosolo, casa <strong>Mesina</strong><br />

dunque, viene aperto un cantiere per realizzare una diga<br />

sul Cedrino. Appalto da quaranta miliardi (quaranta<br />

miliardi <strong>del</strong> 1990), sessanta buste-paga garantite per tre<br />

anni. È una formidabile valvola di sfogo contro la disoccupazione<br />

locale e, dettaglio non secondario, si tratta di<br />

un progetto serio. A cose fatte, consentirà l’irrigazione<br />

di tremila ettari di terra. La ditta che ha vinto la gara inizia<br />

e interrompe i lavori in brevissimo tempo. Cos’è accaduto?<br />

Prima viene incendiata l’auto <strong>del</strong> direttore <strong>del</strong><br />

cantiere, qualche giorno dopo una ruspa devasta e distrugge<br />

un prefabbricato dove sono custoditi gli attrezzi.<br />

In una lettera inviata al cosiddetto ente committente,<br />

il Consorzio di Bonifica, vengono poste precise condizioni<br />

per riprendere l’attività: “… ogni possibile e concreto<br />

provvedimento per garantire l’incolumità di uomini<br />

e mezzi”. Al sindaco di Orgosolo, che protesta per<br />

l’ennesimo attentato capace soltanto di far andar via im-<br />

81


prenditori e sogni d’occupazione, arriva la vendetta trasversale:<br />

una bomba contro l’abitazione di un suo parente.<br />

La politica <strong>del</strong> tritolo è questa, il pane <strong>del</strong> nuovo<br />

banditismo lievita insieme la farina <strong>del</strong>la vecchia criminalità<br />

e quella di un esercito di dilettanti pronti a tutto.<br />

In pieno fuoco incrociato irrompe la nuoreseria a denominazione<br />

d’origine controllata attraverso la requisitoria<br />

d’un consigliere regionale <strong>del</strong>la sinistra: “Una società<br />

pastorale arretrata caratterizzata da un immobilismo<br />

arcaico, rivelatasi impermeabile ai processi di modernizzazione,<br />

incapace di aprirsi al nuovo, impregnata di<br />

una cultura spesso portatrice di valori deteriori, prigioniera<br />

di miti e codici che si perdono nella notte dei tempi.<br />

Una società che teorizza la violenza quale strumento<br />

per dirimere le controversie e i conflitti; animata da un<br />

malinteso senso <strong>del</strong>la balentìa che altro non è se non<br />

violenza gratuita e fine a se stessa; da un individualismo<br />

onnipotente e indefinito che calpesta qualsiasi interesse<br />

collettivo”. È un siluro, questo, che va a colpire quella<br />

sorta di strapaesano orgoglio barbaricino. E fa ancora<br />

più male perché il tiratore scelto è locale, nuorese da generazioni.<br />

Comunque, ce ne sarà anche per lui: il negozio<br />

di famiglia, al centro <strong>del</strong> centro <strong>del</strong>la città, viene devastato<br />

da un ordigno. Gli attentatori non cercavano la<br />

strage: volevano giusto mandare un messaggio in un codice<br />

adeguato ai tempi. Miccia a lenta combustione, annotano<br />

i carabinieri. Miccia a depressione rapida per<br />

chi se la vede balenare tra i piedi.<br />

Tra i bersagli c’è anche un personaggio duro, tutt’altro<br />

che disponibile a certe smancerie sociologiche: Remo<br />

Berardi, presidente degli industriali nuoresi, circa<br />

82<br />

250 iscritti in tutta la provincia al sindacato di categoria.<br />

Padre di una ragazza rapita dall’Anonima e liberata in<br />

circostanze avventurose, vive sul filo di lana. A capo di<br />

un consorzio che si aggiudica un appalto da cinquantasei<br />

miliardi per costruire la strada di circonvallazione,<br />

gli viene riservato un trattamento particolare. Si comincia<br />

con i pettegolezzi al veleno: il suo progetto ha vinto<br />

nonostante non proponesse il prezzo migliore, anzi lo<br />

scarto è talmente grande da gridare vendetta. Da qui a<br />

sussurrare che c’è collusione con il Municipio ci vuol<br />

poco. Per giorni e giorni l’argomento divora la noia <strong>del</strong>le<br />

serate nuoresi, affoga nei bianchini ingollati nei bar<br />

<strong>del</strong> Corso, nelle chiacchiere che seguono fino a notte<br />

tarda in ristorante. L’imprenditore getta acqua sul furiosissimo<br />

incendio <strong>del</strong>la polemica, ma non riesce a fermare<br />

l’avviamento di voci incontrollate e malevole. Poi<br />

gli arriva qualcosa di più, un segnale preciso: una bomba<br />

lanciata in piena notte contro la sua villetta. Per un<br />

<strong>caso</strong> non esplode. «Eravamo tutti in casa».<br />

Da quel momento cominciano appostamenti e controlli<br />

telefonici. Polizia e carabinieri vogliono arrivare ai<br />

mandanti. Interessa soprattutto al governo regionale,<br />

fortemente preoccupato dalla possibile reazione di altri<br />

industriali. Le <strong>del</strong>icate condizioni economiche <strong>del</strong>la<br />

provincia non potrebbero reggere un esodo imprenditoriale<br />

verso centri meno esplosivi, più tranquilli. Tre<br />

anni dopo, situazione immutata, il procuratore generale<br />

<strong>del</strong>la repubblica Francesco Pintus lancia solennemente<br />

l’allarme: «…desta particolare preoccupazione l’attuale<br />

situazione economica, nella quale il pericolo di una<br />

definitiva vanificazione dei tradizionali posti di lavoro,<br />

l’assenza di alternative occupazionali e la sempre meno<br />

83


praticabile valvola di sfogo rappresentata dall’emigrazione,<br />

sono tutti fattori che rischiano di alimentare la ricerca<br />

individuale <strong>del</strong>le fonti illecite di guadagno».<br />

A cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli<br />

anni ’90, la voce <strong>del</strong>le bombe continua a farsi sentire.<br />

Ma è più flebile rispetto a un passato di fuoco. L’onda<br />

lunga, quella che inizia a ridosso <strong>del</strong>la vittoria elettorale<br />

<strong>del</strong>le sinistre nel ’75, comincia a rientrare. A un tratto<br />

sembra quasi vi sia una specie di ritorno a codici e<br />

metodi che si ritenevano sorpassati, dimenticati. Si cita<br />

fra tutti un esempio-simbolo: Orune, tremilacinquecento<br />

abitanti e quattro omicidi l’anno contro una<br />

media nazionale che dà un assassinio ogni centomila<br />

abitanti.<br />

Gli antropologi avvertono che “bisogna sfuggire a<br />

un’analisi sostanzialmente basata sulle categorie tradizione-modernità”.<br />

Non la consentono variabili che hanno<br />

profondamente modificato la realtà quotidiana: videotape,<br />

tivù. Cambiano le fonti di informazione, si<br />

modificano i punti di riferimento scatenando la sindrome<br />

da emulazione, detonatore <strong>del</strong>l’invidia, <strong>del</strong> confronto,<br />

<strong>del</strong>la drammatica evidenza dei fatti: da un lato c’è<br />

un’isola con centocinquantamila disoccupati, dall’altro<br />

– per quattro mesi l’anno – straripa la ricchezza <strong>del</strong>l’industria<br />

vacanziera. Inevitabile che vi sia una reazione,<br />

confusa e pasticciona, ma dura, violenta. Secondo alcuni,<br />

come il decano dei penalisti sardi, l’avvocato sassarese<br />

Giuseppe Melis Bassu, la “cultura <strong>del</strong>la violenza esiste<br />

dappertutto e non la estirpa definitivamente nessuno:<br />

la si può e la si deve costringere in limiti tollerabili”.<br />

Tra la fine <strong>del</strong>l’87 e l’88 i limiti di questa violenza sono<br />

invece tutt’altro che tollerabili. Cosa non ha funzio-<br />

84<br />

nato, cosa ha fatto da apripista al partito <strong>del</strong>la dinamite?<br />

Ogni anno piovono in Procura generale oltre centomila<br />

fascicoli, una montagna di carta che cresce senza sosta<br />

mortificando le aspettative di migliaia di cittadini in lista<br />

d’attesa per una sentenza. Giocoforza, la ricerca di<br />

una giustizia che non trovano e che in ogni <strong>caso</strong> tarda ad<br />

arrivare, suggerisce di imboccare strade nuove e pericolose.<br />

L’attentato, per esempio. La politica <strong>del</strong>le bombe.<br />

Se non altro, sembra avere almeno la forza di far sapere<br />

che si è vivi.<br />

Il tritolo contro prefetture, municipi, contro abitazioni,<br />

proprietà di sindaci e assessori viene spiegato con<br />

un’interpretazione colta: è che la società barbaricina vive<br />

ancora in una condizione pre-liberale, vale a dire (come<br />

sosteneva più di trent’anni fa la rivista “Ichnusa”),<br />

precedente il contratto sociale. “Gli amministratori sono<br />

visti, da un lato, come la personificazione <strong>del</strong>lo Stato,<br />

<strong>del</strong> potere pubblico, titolari di tutte le competenze,<br />

dall’altro sono giudicati partecipi di un complessivo sistema<br />

di potere, che concede o nega diritti, e impone<br />

doveri, ma da cui, comunque, essi traggono vantaggio”.<br />

Sulla scia di questa considerazione che fa parte <strong>del</strong> libro<br />

infinito scritto dall’ultima Commissione regionale<br />

d’indagine sulla criminalità, vien facile capire come si<br />

formi un nuovo banditismo, quale impasto di rabbia e<br />

contraddittoria politicizzazione riesca a cementarlo.<br />

Un brivido di paura scuote l’isola quando un ordigno<br />

devasta un finestrone <strong>del</strong> Comando militare <strong>del</strong>la<br />

<strong>Sardegna</strong>, in via Torino a Cagliari. Una bomba qualunque<br />

che in quel momento depista clamorosamente gli<br />

inquirenti lasciando credere che sotto la cenere stia nascendo<br />

un partito armato, qualcosa a mezza strada tra<br />

85


una rivolta confusamente dinamitarda e il terrorismo<br />

còrso. Niente di tutto questo: la fiammata antimilitarista<br />

rientra nel calendario <strong>del</strong>le tradizioni isolane. Le altre<br />

bombe, e sono davvero tante quelle che esplodono<br />

soprattutto nel Nuorese, fanno parte soltanto di una<br />

modernissima disamistade tra pubblico potere e privato<br />

cittadino. Una specie di ufficio reclami un po’ particolare.<br />

A Roma possono stare tranquilli: quella che sta scoppiando<br />

in <strong>Sardegna</strong> non è guerra contro la Repubblica<br />

ma lampi di un furore popolare che ha smesso da un<br />

pezzo di credere alle istituzioni.<br />

Bisogna tuttavia far qualcosa, far sentire in qualche<br />

modo la presenza <strong>del</strong>lo Stato. Mentre il sequestro Kassam<br />

è alle battute finali, e quindi in una fase molto <strong>del</strong>icata,<br />

il ministro <strong>del</strong>la Difesa, Salvo Andò, annuncia l’intenzione<br />

di inviare un corpo militare a presidiare la <strong>Sardegna</strong>,<br />

inquieta periferia <strong>del</strong>l’impero. <strong>Lo</strong> annuncia con<br />

tale brutalità che la memoria storica dei sardi torna subito<br />

ai famigerati “baschi blu”, alla dannosa e arrogante<br />

occupazione con le stellette degli anni ’60. L’opposizione<br />

a un ritorno in massa di soldati è massiccia: tra le<br />

righe di uno scontro che non si è mai sopito, qualcuno<br />

sottolinea i pericoli per una buona conclusione <strong>del</strong> rapimento<br />

di Farouk. Una presenza inutile, e non solo inutile,<br />

quella dei militari pure per il vecchio senatore Medici<br />

che nel suo rapporto al Parlamento sulla criminalità<br />

isolana, agli inizi degli anni ’70, afferma con sicurezza:<br />

«Anche se i reparti speciali, formati da giovani idonei a<br />

eseguire servizi di squadriglia nelle zone montane, talvolta<br />

hanno dimostrato una loro validità, è da ritenere<br />

che, di regola, l’impiego in massa di militari sia sconsi-<br />

86<br />

gliabile. A parte i modesti risultati che si ottengono, questo<br />

spiegamento di forze determina effetti psicologici<br />

negativi sulle popolazioni interessate».<br />

Imbarazzato dalla grossolana irruenza <strong>del</strong> ministro,<br />

lo Stato maggiore <strong>del</strong>l’Esercito precisa di non andare in<br />

<strong>Sardegna</strong> “per stanare i rapitori di Farouk Kassam” ma<br />

per una ragione diversa: controllare il territorio, popolarlo.<br />

“Farci camminare la gente”. D’altra parte si tratta<br />

di raccogliere l’appello <strong>del</strong> difensore civico Giovanni<br />

Viarengo che, a più riprese durante la sua carriera di<br />

magistrato, aveva invocato una presenza in divisa nelle<br />

zone interne. Presenza non significa militarizzazione,<br />

puntualizzava a scanso di equivoci.<br />

Nonostante il controcanto dei due quotidiani sardi,<br />

Fortza Paris inizia nel luglio <strong>del</strong> ’92 e si conclude tre mesi<br />

dopo, a settembre. Impegna complessivamente diecimila<br />

uomini che si danno il cambio – guardia permanente<br />

di quattromila soldati – in aree arroventate dal silenzio<br />

e dal sole. La circolazione di campagnole, camion e<br />

un enorme schieramento d’uomini ottiene tuttavia risultati<br />

degni di nota. Il Comando sforna un bollettino<br />

<strong>del</strong>la vittoria per segnalare una netta flessione degli attentati<br />

(76 per cento in meno rispetto allo stesso periodo<br />

<strong>del</strong>l’anno precedente) e degli incendi dolosi (53 per<br />

cento).<br />

A sentire i militari crolla anche il reato dei reati, quello<br />

più tradizionale, l’abigeato: meno 88 per cento. Entusiasmante,<br />

ma il merito non è solo dei soldati. In quel<br />

periodo hanno iniziato a funzionare seriamente le compagnie<br />

barracellari. E questo spiega in gran parte il tracollo<br />

dei furti di bestiame.<br />

Fortza Paris non passa inosservata. A Lula una bom-<br />

87


a ferisce un gruppo di persone che passeggiano: tra<br />

queste ci sono anche ragazzi di leva. Una bravata più<br />

che un attentato vero e proprio. Altrettanto potrebbe<br />

dirsi <strong>del</strong> ferimento di alcuni alpini a Mamoiada, presi di<br />

mira a fucilate. Nessun volantino di rivendicazione e<br />

neppure una parola di sostegno da parte <strong>del</strong>la popolazione.<br />

Il <strong>caso</strong> più clamoroso avviene a Orgosolo, storico<br />

epicentro <strong>del</strong>la resistenza antimilitarista. L’arrivo dei<br />

soldati è accolto con molta freddezza venata, a tratti, di<br />

evidente intolleranza. Nel campo allestito nelle colline<br />

vicine al paese, si fa finta di nulla e si lavora alacremente<br />

facendo molta attenzione a evitare la scintilla <strong>del</strong>la ribellione.<br />

I medici militari fanno lastre, piccoli interventi<br />

di chirurgia e di odontoiatria, qualche prestazione di<br />

pronto soccorso. Altri si occupano di bonificare i terreni<br />

riarsi dagli incendi, disinfestano aree appestate da<br />

zecche e altri parassiti, assestano malandate stradine<br />

campestri, garantiscono la qualità dei rifornimenti idrici.<br />

Al contrario di quanto è avvenuto una trentina d’anni<br />

prima, l’Esercito mostra un’altra faccia: quella <strong>del</strong>l’efficienza<br />

e <strong>del</strong>la solidarietà civile.<br />

E pian piano il ghiaccio si scioglie, perfino Orgosolo<br />

finisce per gradire il pacifico arrembaggio dei soldati.<br />

Sull’onda di questo successo, seguono altre due operazioni<br />

nel ’93 e nel ’94 ma non hanno il peso e la portata<br />

<strong>del</strong>le altre. L’importanza di Fortza Paris 2 è meramente<br />

strategica e interessa esclusivamente le Forze Armate<br />

che, per la prima volta dalla fine <strong>del</strong>la guerra, sperimentano<br />

il trasporto rapido di due brigate (circa cinquemila<br />

uomini e un numero incredibile di mezzi) dalla<br />

penisola alla <strong>Sardegna</strong>.<br />

88<br />

L’artiglieria <strong>del</strong>l’opposizione si spegne, resta qualche<br />

fuoco isolato, l’immancabile incursione sui giornali<br />

<strong>del</strong>l’intellettuale ad ascensione finto-separatista. Si riparla<br />

di colonizzazione, di inammissibile ingerenza nella<br />

vita d’una regione. Come dire, battendo un chiodo rimasto<br />

caldo nei secoli: Roma mandava le sue legioni, il<br />

ministro Andò le sue brigate. Con lo sberleffo finale di<br />

chiamarle pure Fortza Paris, come se i sardi c’entrassero<br />

davvero qualcosa.<br />

89


VIII<br />

Matteo Boe<br />

Negli archivi <strong>del</strong>l’Interpol occupava un posto di tutto<br />

rilievo nella lista dei ricercati d’Europa: ventesimo,<br />

piazzamento d’eccezione. Nessuno era mai arrivato a<br />

tanto.<br />

La faticosa scalata verso queste posizioni non s’improvvisa,<br />

parte da lontano e si trascina almeno gli ultimi<br />

dieci anni <strong>del</strong> banditismo sardo. Del nuovo banditismo<br />

sardo, quello che Graziano <strong>Mesina</strong> incrocia di sfuggita<br />

nella veste di emissario durante il rapimento Kassam. E<br />

che ha un solo grande protagonista: Matteo Boe, uomo<br />

di buone letture, di Lula per l’anagrafe ma cresciuto<br />

culturalmente a Bologna, nell’effervescenza <strong>del</strong> mondo<br />

giovanile che ruota intorno all’Università.<br />

Frequenta la facoltà di Agraria quando incontra la<br />

compagna <strong>del</strong>la sua vita, Laura Manfredi («Ma io sono<br />

ragioniera, una semplice ragioniera»), lì intreccia conoscenze<br />

e amicizie che lo proiettano un paio di spanne<br />

sopra lo standard <strong>del</strong>la criminalità isolana: ai principi<br />

<strong>del</strong>la civiltà agropastorale aggiunge quelli metropolitani,<br />

una miscela che esplode a sinistra, che cerca e trova –<br />

con ampie motivazioni politiche – le ragioni <strong>del</strong>la disobbedienza,<br />

<strong>del</strong>la trasgressione, <strong>del</strong>la guerra alle istituzioni.<br />

D’altra parte era stato lo stesso <strong>Mesina</strong>, semianal-<br />

91


fabeta, a intuire in quale direzione puntava il futuro dei<br />

latitanti. Parole profetiche le sue: «Attenti a dire che il<br />

latitante non ha un’ideologia. È una stupidaggine, la verità<br />

è che nel mondo c’è troppa disparità, troppa ingiustizia.<br />

La vita alla macchia ti può aiutare a vederla».<br />

Trentasette anni, molti dei quali vissuti lontano dalla<br />

famiglia e dal paese d’origine, Matteo Boe vive sulla sua<br />

pelle questo precetto. Esordisce con discrezione. Poi<br />

pian piano, il suo nome comincia ad acquistare autorevolezza,<br />

credito. Soprattutto un’impresa lo rende d’un<br />

tratto celebre: alla fine <strong>del</strong>l’estate 1986 evade dall’isolagalera<br />

<strong>del</strong>l’Asinara, dove stava scontando una condanna<br />

a diciotto anni di reclusione per il sequestro di Sara<br />

Niccoli. Non era mai accaduto prima: da quel penitenziario,<br />

paradiso e inferno, non è mai scappato nessuno.<br />

«L’evasione è tecnicamente impossibile», spiegava con<br />

fierezza il direttore <strong>del</strong> carcere.<br />

L’evasione è tecnicamente fattibile. Basta aspettare il<br />

mare giusto e avere un piano semplice semplice ma assolutamente<br />

segreto: nessuno o quasi deve sapere. Le<br />

grandi fughe, quelle di massa, sono soltanto un buon<br />

soggetto cinematografico. Nella realtà è meglio muoversi<br />

da soli.<br />

Il primo settembre di otto anni fa un maestralino<br />

circonda questo stupefacente lembo di terra mostrandone<br />

l’esaltante bellezza. A qualche miglio dalla riva,<br />

proprio di fronte a cala d’Oliva, dunque davanti agli uffici<br />

<strong>del</strong>la direzione, dondola pigramente un piccolo<br />

gommone. Dentro, se è vera la ricostruzione ufficiosa,<br />

c’è Laura Manfredi: che aspetta. Com’è riuscita ad arrivare<br />

fin là, a dribblare le motovedette <strong>del</strong> servizio di vigilanza?,<br />

come ha trasmesso il suo arrivo, l’ora, le coor-<br />

92<br />

dinate?, da che parte sperava di fuggire? Mistero, non<br />

si è mai riusciti a saperlo. L’unica certezza è che all’improvviso<br />

affiora dal mare, come un Nettuno col fiato<br />

corto dopo una lunga nuotata, il detenuto Matteo Boe.<br />

Saltare a bordo e squagliarsela è un giochino. Quando<br />

le sirene <strong>del</strong>l’allarme tagliano il silenzio e arrivano a<br />

straziare un cielo trasparente, l’evaso è quasi al sicuro.<br />

Irraggiungibile. Addio galera.<br />

Un colpo da maestro, clamoroso. Non era riuscito<br />

neppure a un altro “campione” <strong>del</strong>la categoria, Carmelino<br />

Coccone, classe 1940, orunese accusato di omicidio<br />

e di nove sequestri, tra tentati e riusciti. Un curriculum<br />

di tutto rispetto, insomma. Addetto al controllo d’una<br />

mandria di mucche, al tramonto doveva rientrare in una<br />

cella-camerone. Per tutta la giornata, in pratica, stava<br />

all’aria aperta. «Si era d’estate e la luna chiara illuminava<br />

quasi a giorno le serate <strong>del</strong>l’isola…». Coccone racconta<br />

di essere stato assalito dal raptus d’una passeggiata<br />

(lui la chiama proprio così), quattro passi sotto le stelle.<br />

Una notte, appena i compagni si sono addormentati,<br />

ha smontato l’inferriata <strong>del</strong>la finestra <strong>del</strong> bagno e via, finalmente<br />

libero. «Ero all’aria aperta, da quanto non<br />

sentivo il profumo <strong>del</strong>le notti di campagna… respiravo<br />

a pieni polmoni l’odore piacevole <strong>del</strong> fieno inumidito<br />

dalla rugiada…».<br />

Respirando respirando, s’è allontanato fino a quando<br />

«mentre svoltavo l’angolo <strong>del</strong> muro di un vigneto»<br />

non si scontra con due agenti di custodia. Che non credono<br />

per nulla ai desideri poetici d’un pastore errante.<br />

Anche perché «trovarono lì vicino un vecchio paio di<br />

pinne da subacqueo e pensarono che me le fossi procurate<br />

io col proposito di attraversare a nuoto lo stretto di<br />

93


mare che si interpone tra l’Asinara e il resto <strong>del</strong>la <strong>Sardegna</strong>…».<br />

Cinquantadue chilometri quadrati, l’Asinara appartiene<br />

allo Stato dal 1885. Dovrebbe diventare, come<br />

dispone una legge varata nel ’91, un parco naturale. Nel<br />

frattempo, resta galera. Una bellissima, inimmaginabile<br />

galera al sole. Ospita – in un territorio che è una sorta di<br />

lungo bu<strong>del</strong>lo – sette vecchie fattorie. “Diramazioni”,<br />

secondo il triste dizionario penitenziario. La diramazione<br />

più famosa è quella di Fornelli, che ospitò a suo tempo<br />

esponenti di spicco <strong>del</strong>le Brigate Rosse. Stretti corridoi,<br />

portoncini blindati, telecamere dovunque, anche<br />

dentro le celle, luci perennemente accese. A Fornelli<br />

dovrebbe esserci Totò Riina, ritenuto il più pericoloso<br />

boss mafioso <strong>del</strong> dopoguerra. Le altre “diramazioni” –<br />

caseggiati di semplice e funzionale architettura rurale<br />

che ricordano le fazendas messicane – sono più aperte: i<br />

detenuti escono al mattino, lavorano nei campi, badano<br />

alle greggi, rientrano la sera. Complessivamente l’Asinara<br />

dà una grande sensazione di libertà, di carcere (fatta<br />

eccezione di Fornelli, forse il braccio “più speciale”<br />

d’Italia) in qualche modo civile, sopportabile.<br />

Ma oltre questo sipario, è un’Alcatraz di Stato. Difficile<br />

da raggiungere per i parenti dei reclusi, lontana e, in<br />

un certo senso, cru<strong>del</strong>e: panorama da cartolina, riserva<br />

naturale d’una suggestione mozzafiato. L’Asinara urla<br />

la bellezza <strong>del</strong>la libertà. Matteo Boe aveva capito molto<br />

bene tutto questo e dall’isola-prigione ha preso il via<br />

beffando tutto e tutti. Da quel momento gli sono stati<br />

attribuiti numerosi reati. In particolare, il sequestro <strong>del</strong><br />

costruttore romano Giulio De Angelis e quello di Farouk<br />

Kassam. Recentemente è stato incriminato anche<br />

94<br />

per aver preso parte al rapimento di un imprenditore in<br />

Calabria. E siccome tutti i suoi ostaggi, almeno quelli<br />

che gli sono stati attribuiti, sono stati puntualmente mutilati,<br />

passa alla cronaca come “il tagliatore d’orecchie”.<br />

L’hanno arrestato il 15 ottobre <strong>del</strong> ’92 in Corsica, al<br />

ricevimento <strong>del</strong>l’hotel “U Palmu” a Portovecchio. Sua<br />

moglie era in camera con due dei tre figli nati durante la<br />

latitanza. Strano blitz quello in tandem <strong>del</strong>la polizia italiana<br />

e francese. Strano perché Boe si fa prendere come<br />

un pivellino portandosi dietro un ingombrante arsenale.<br />

Stranissimo perché tiene in tasca un rullino di foto<br />

davvero compromettenti che lo ritraggono, M 16 sottobraccio,<br />

davanti alla grotta dove è stato tenuto prigioniero<br />

Farouk Kassam. Farsi fare foto di questo genere è<br />

folle, a meno che uno non voglia portarsi dietro, <strong>caso</strong>mai<br />

lo fermassero, la prova <strong>del</strong>la sua colpevolezza. A<br />

meno che non voglia insomma concordare una finta<br />

cattura che potrebbe rivelarsi poi una resa concordata a<br />

tavolino.<br />

A Lula, dove Matteo Boe è un totem, nessuno crede<br />

al compromesso, all’accordo con le forze <strong>del</strong>l’ordine. E<br />

men che meno che possa aver trascinato nella sua caduta<br />

gli amici-complici, due compaesani: Ciriaco Baldassarre<br />

Marras e Mario Asproni, scomparso un minuto<br />

prima che i carabinieri bussino alla sua porta per notificargli<br />

l’ordine di custodia cautelare.<br />

Per dirla tutta, c’è chi non crede anche che Laura<br />

Manfredi non si sia accorta <strong>del</strong> pedinamento: è una vita<br />

che, al volante di un’utilitaria, lascia la casa dei suoceri e<br />

raggiunge suo marito. Per sei anni riesce puntualmente<br />

a depistare il (folto) gruppo che le sta dietro. Un attimo<br />

di disattenzione? Può darsi, ma appare tuttavia poco<br />

95


credibile in una donna come lei. Ancora meno credibile<br />

è la vicenda <strong>del</strong>le fotografie che, tra l’altro, non inchiodano<br />

soltanto Boe.<br />

Laura Manfredi respinge con durezza questa interpretazione:<br />

«Matteo», dice, «non ha tradito nessuno».<br />

A insistere su questa storia, c’è il timore, neppure tanto<br />

teorico, che possa scoppiare una faida. E accusa i giornali<br />

di aver tirato fuori l’ipotesi <strong>del</strong>la “resa condizionata”<br />

alla vigilia di un processo importante. Nel frattempo<br />

Farouk Kassam ha riconosciuto i luoghi fotografati, la<br />

prigione: tradotto con le norme <strong>del</strong> codice penale, questo<br />

significa una condanna sicura. E pesante.<br />

Pesantissima. Però, al processo che si apre nell’autunno<br />

<strong>del</strong> ’94 a Tempio, il principale imputato non c’è.<br />

La pratica per l’estradizione, che in un primo momento<br />

sembrava imminente e scontata, s’inceppa nelle procedure<br />

burocratico-giudiziarie internazionali. Due anni<br />

non sono bastati per ritrovare la rotta giusta e approdare<br />

in un’aula di Tribunale. Colpa <strong>del</strong>l’eccesso di zelo<br />

<strong>del</strong>la magistratura italiana, dice qualcuno, che ha presentato<br />

ben quattro richieste di estradizione mentre ne<br />

bastava una. Ma proprio per questa ragione, secondo<br />

altri, si voleva dare all’operazione un salutare effetto ritardante.<br />

Risultato: la posizione processuale <strong>del</strong>l’imputato<br />

Boe Matteo viene stralciata. Salta, dunque, la presenza<br />

di uno degli uomini-chiave <strong>del</strong>la vicenda Kassam.<br />

Laura Manfredi respinge anche questa interpretazione<br />

dei fatti, sottolinea che il suo compagno è testimone<br />

a difesa per Asproni e Marras, parla apertamente di<br />

montatura, di giornalismo prezzolato e imbeccato dalla<br />

magistratura per creare il <strong>caso</strong>, per distruggere l’immagine<br />

di Boe.<br />

96<br />

Perché distruggere l’immagine di Boe? Perché, secondo<br />

lei, i giornali che hanno avuto la colpa di gonfiarlo,<br />

di farne una sorta di mito («per la stampa dev’esserci<br />

sempre un super-ricercato impegnato in una grande sfida<br />

con polizia e carabinieri»), ora debbono fare rapidissimamente<br />

marcia indietro. Per qualcuno Boe sta diventando<br />

un punto di riferimento, dunque bisogna buttarlo<br />

giù, distruggerlo. Cosa c’è di meglio <strong>del</strong> venticello<br />

d’una calunnia che insinua l’ipotesi <strong>del</strong> tradimento, di<br />

una cattura concordata con le forze <strong>del</strong>l’ordine? Per il<br />

momento i fatti dicono solo che Boe esce di scena dal<br />

processo.<br />

L’altro protagonista <strong>del</strong> dibattimento si chiama Graziano<br />

<strong>Mesina</strong>. I giudici lo citano per “reato annesso”, favoreggiamento.<br />

Avrebbe coperto la banda dei rapitori<br />

e, naturalmente, Boe. «Boe? Non lo conosco, ne ho sentito<br />

parlare sui giornali. Mai incontrato. Quando io facevo<br />

il bandito lui non era neanche nato». Sarà. Tutto<br />

questo rende però la faccenda ancora più difficile, più<br />

complessa. Più misteriosa. Si aggiunge all’enigma <strong>del</strong> riscatto<br />

pagato-non pagato, al ruolo dei servizi segreti, al<br />

nome <strong>del</strong> personaggio che “impone” a <strong>Mesina</strong> di occuparsi<br />

<strong>del</strong> rapimento. Già, perché Graziano non ne voleva<br />

sapere, non voleva avere problemi con banditi e tantomeno<br />

con uno come Boe. Dopo la concessione <strong>del</strong>la<br />

libertà condizionale, aveva deciso di imboccare un’altra<br />

strada, quella di un quieto grigiore quotidiano. Come<br />

già accennato, c’è stato qualcuno, potentissimo, ha detto<br />

l’ex vescovo di Nuoro, mon<strong>signor</strong> Giovanni Melis,<br />

che l’ha tirato dentro. E forse è stata la sua disgrazia. In<br />

che senso? «Nel senso che questo ha scatenato tutto il<br />

resto».<br />

97


Profondamente diversi sotto numerosi punti di vista,<br />

Matteo Boe e Graziano <strong>Mesina</strong> hanno qualcosa in<br />

comune: coerenza, un poderoso istinto di conservazione<br />

che li aiuta a uscire da situazioni pericolose, capacità<br />

di sopravvivenza in condizioni dove altri cedono più facilmente<br />

al patteggiamento. Eppure l’uno e l’altro cadono<br />

da dilettanti. In Barbagia si dice che il latitante deve<br />

avere paura <strong>del</strong>le tre effe: fontana, festa, femmina.<br />

Per Boe è fatale l’ultimo <strong>caso</strong>: la moglie va a trovarlo in<br />

Corsica portandosi dietro, bagaglio al seguito, un reparto<br />

di poliziotti. Che, quando arrivano sul posto, lo<br />

intrappolano, gli trovano addosso un’inutile carta d’identità<br />

(intestata a un inesistente Giulio Manca di Bortigali)<br />

e la prova-bomba <strong>del</strong>la sua partecipazione al rapimento<br />

Kassam, le foto-ricordo scattate davanti alla<br />

grotta nelle campagne di Lula.<br />

Non è meno stupefacente la “caduta” di <strong>Mesina</strong>, che<br />

pure riesce ad attraversare molte stagioni da latitante e,<br />

prova forse più impegnativa, quasi trent’anni di galera.<br />

Intercettazioni telefoniche disposte dalla procura distrettuale<br />

antimafia portano alla luce il progetto d’un<br />

sequestro su commissione: glielo chiedono due genovesi<br />

un po’ così che vogliono vendicarsi <strong>del</strong> teleimbonitore<br />

Men<strong>del</strong>la, colpevole di aver divorato i loro risparmi.<br />

In vista di quello che si annuncia un colpo clamoroso,<br />

da mettere a segno addirittura a Montecarlo, <strong>Mesina</strong><br />

chiede ai suoi “clienti” un piccolo rifornimento d’armi.<br />

E quelli vanno a portargliele senza sapere di essere scortati<br />

dai carabinieri.<br />

Più che vivere da ricercato, per <strong>Mesina</strong> è stato certamente<br />

più rischioso vivere da carcerato «per anni ventinove<br />

e giorni sette», come gli ha ricordato il giudice nel-<br />

98<br />

la sentenza di concessione <strong>del</strong>la libertà condizionale.<br />

All’interno <strong>del</strong>le prigioni circolano personaggi d’ogni<br />

genere. Per esempio Vittorio Andraus, killer penitenziario<br />

per conto <strong>del</strong>la ’ndrangheta, conosciuto a Badu ’e<br />

Carros. Poi c’è Pasquale Barra “O’ animale”, squartatore<br />

scelto, anche lui conosciuto a Nuoro, specialista <strong>del</strong>la<br />

vivisezione: durante un’ora d’aria ha letteralmente affettato<br />

il gangster Francis Turatello concludendo l’opera<br />

con un morso di disprezzo al palpitante fegato <strong>del</strong>la<br />

vittima. Tra le altre conoscenze importanti ci sono poi<br />

Angelo Epaminonda (detto “il Tebano”), il nappista<br />

Martino Zichitella. L’elenco potrebbe essere infinito.<br />

Quel che ha salvato <strong>Mesina</strong> è stata forse la sua naturale<br />

ritrosia, anzi la diffidenza a stringere amicizie, a<br />

concedere familiarità. Ha sempre preferito l’isolamento,<br />

anche duro, ai soggiorni di gruppo con <strong>del</strong>atore<br />

compreso.<br />

Pochi sanno che in carcere ha tenuto un diario. Pagine<br />

e pagine di quaderno a righe che nascondeva nel cestino<br />

<strong>del</strong>la cartastraccia. «L’ho distrutto quando mi sono<br />

accorto che avevo troppi occhi addosso». Stessa decisione<br />

quando la noia gli ha fatto prendere in mano il<br />

pennello. Dipingeva soprattutto nature morte: quando<br />

il direttore <strong>del</strong>la prigione gli ha chiesto un quadro-ricordo,<br />

ha fatto a pezzi le tele. Non voleva si pensasse<br />

che dietro la richiesta <strong>del</strong> dono, ci fosse una proposta di<br />

protezione o comunque di benevolenza nei suoi confronti.<br />

<strong>Lo</strong> sostiene la convinzione che quando si tradisce o<br />

ci si vende è «perché uno, così, ci è nato. Quando una<br />

mela non è buona prima o poi fa il verme. Per fare certe<br />

cose devi averci l’indole». Lui, che una certa indole<br />

99


non l’ha avuta, ha tuttavia seguito una sorta di terapia<br />

preventiva, una cura che gli imponeva di mantenere<br />

una certa distanza di sicurezza dagli altri, carcerieri e<br />

carcerati.<br />

Per via dei suoi nove tentativi di evasione oltre che di<br />

condanne senza fine, è stato in quasi tutti i penitenziari<br />

italiani: dall’Asinara (dove c’era un direttore che dormiva<br />

tenendo un fucile accanto al letto) al manicomio criminale<br />

di Montelupo fiorentino, dalle Nuove di Torino<br />

al braccio speciale di Viterbo, dal carcere di massima sicurezza<br />

di Trani a Regina Coeli. Potrebbe scrivere una<br />

rabbrividente guida Michelin <strong>del</strong>le prigioni italiane.<br />

«Non hanno segreti per me. La peggiore è certamente<br />

quella di Buoncammino a Cagliari. Ma non scherzano<br />

neppure a Volterra, Porto Azzurro. Ho trascorso interi<br />

mesi in celle scavate dieci metri sotto terra, sotto il livello<br />

<strong>del</strong> mare. Tane dove sui muri cresce l’erba e tu sei costretto<br />

a vivere come un animale. Devi muoverti in continuazione<br />

per non morire di freddo, per evitare che l’umidità<br />

ti trasformi in un invalido. Condizioni di vita impossibili».<br />

Per “anni ventinove e giorni sette” <strong>Mesina</strong> accetta<br />

che queste siano le sue prigioni e rifiuta qualunque tipo<br />

di collaborazione. Nel marzo <strong>del</strong> ’90, quando il Tribunale<br />

di Sorveglianza di Torino gli nega la libertà condizionale,<br />

sa bene che il primo requisito per ottenerla è il<br />

cosiddetto “ravvedimento”. Pur sapendo quanto gli<br />

può costare una sparata <strong>del</strong> genere, dichiara di sentirsi<br />

quello di sempre, non rinnega affatto il passato. Il suo<br />

comportamento, che “evidenzia un graduale e totale ripristino<br />

<strong>del</strong> rispetto <strong>del</strong>le regole penitenziarie” è dettato<br />

solo in parte dal bisogno di tornare libero. Ha certa-<br />

100<br />

mente un suo peso l’età che incalza, la stanchezza, il desiderio<br />

di rivedere la madre. Al presidente <strong>del</strong> Tribunale<br />

che gli chiede incuriosito se ha beni di proprietà, risponde<br />

sicuro: «Non ho niente. Quelli che avevo, me li<br />

hanno sequestrati». Sequestrati, ha detto sequestrati?<br />

Per un attimo gli viene da ridere, avrebbe dovuto adoperare<br />

un altro verbo. Poi torna sulle sue e, a proposito<br />

di ravvedimento, fa presente: «Certo, è chiaro che non<br />

ripeterò gli sbagli che ho commesso. Badi però che se<br />

non mi fossi trovato in certe circostanze, non avrei fatto<br />

quel che ho fatto. I miei sono reati di sopravvivenza».<br />

Come vuole il rito, a quel punto il presidente <strong>del</strong> Tribunale<br />

domanda qual è il parere <strong>del</strong> <strong>signor</strong> procuratore generale.<br />

Il <strong>signor</strong> procuratore generale si alza lentamente<br />

dalla poltroncina di panno rosso, guarda dritto negli occhi<br />

l’imputato e annuncia: «Contrario. Siamo contrari<br />

alla concessione <strong>del</strong>la libertà condizionale».<br />

E <strong>Mesina</strong> resta in carcere ancora per un anno, a meditare<br />

sulle parole pronunciate quella mattina nell’aulafrigorifero<br />

<strong>del</strong> Tribunale di Torino. Forse avrebbe potuto<br />

essere un po’ più disponibile. Certo, non dichiararsi<br />

pentito ma insomma. <strong>Lo</strong> spiritello <strong>del</strong> duro a oltranza<br />

gli ha suggerito in aula parole di cui, più tardi, ha forse il<br />

coraggio di pentirsi solo con se stesso. Quando nessuno<br />

lo vede e lo sente, quando nessuno può immaginare che<br />

il balente <strong>Mesina</strong> sa essere anche un uomo disperato,<br />

aggrappato alla vita. Ma queste sono cose che non si<br />

debbono dire in giro, ne risentirebbe eccessivamente la<br />

figura <strong>del</strong> detenuto che non vuole compromettersi.<br />

Neanche con una dichiarazione di fede che, dopotutto,<br />

è soltanto una formula di rito; inutile ed effimera, vale<br />

giusto il tempo di recitarla quasi a memoria. «Sì, <strong>signor</strong><br />

101


presidente, mi sono ravveduto», equivalente giudiziario<br />

d’un cristiano atto di dolore: …mi pento e mi dolgo<br />

con tutto il cuore dei miei peccati…<br />

Un’assurda educazione gli ha fatto balbettare che<br />

non ha nulla da sconfessare <strong>del</strong> suo passato. Chi vuole<br />

capire, capisca. Quanto a lui, sa bene quale può essere il<br />

conto da pagare per un’affermazione di questo genere.<br />

Preferisce tornare in carcere, com’è sua abitudine,<br />

soffocato dall’orgoglio. Tre anni più tardi, a libertà finalmente<br />

conquistata, in attesa che il Presidente <strong>del</strong>la<br />

Repubblica gli conceda la grazia, accetta da due sconosciuti<br />

la proposta per un sequestro miliardario. E casca<br />

nella rete <strong>del</strong>la giustizia come una matricola <strong>del</strong>la criminalità,<br />

un esordiente da quattro soldi.<br />

102<br />

IX<br />

La Coop dei sequestri<br />

Prima artigianale poi sempre più industriale; prima<br />

ruspante poi sempre più professionale. Col passare degli<br />

anni, meglio dire dei secoli, il sequestro di persona a<br />

scopo di estorsione affina nella sua terra d’origine, la<br />

<strong>Sardegna</strong>, una tecnica che non teme raffronti. D’altro<br />

canto se la storia patria non mente, il primo rapimento<br />

di cui si ha notizia risale alla fine <strong>del</strong> ’400.<br />

Stiamo parlando dunque di qualcosa che arriva da<br />

lontano. E che, come certi prodotti <strong>del</strong>l’agricoltura biologica,<br />

ha mantenuto l’uso di alcuni ingredienti cambiandone<br />

altri (senza sciocchi rigidismi) per venire incontro<br />

a esigenze nuove. Non c’è solo il problema <strong>del</strong> riciclaggio<br />

<strong>del</strong> danaro sporco, un’operazione difficile che<br />

richiede buone conoscenze bancarie e la capacità di<br />

non farsi strangolare da cambisti troppo voraci. Seccatura,<br />

questa, che fino a una ventina di anni fa neppure si<br />

poneva: le banconote, sia pure segnate dagli investigatori,<br />

riuscivano a prendere il volo e risciacquarsi in una<br />

qualunque banchetta <strong>del</strong>la penisola.<br />

Il sistema di comunicazioni di massa ha poi enormemente<br />

migliorato i rapporti tra il portavoce dei banditi e<br />

i familiari <strong>del</strong>l’ostaggio: le polaroid con una copia di<br />

giornale tenuta bene in vista sono, ad esempio, un siste-<br />

103


ma garantito e sicuro <strong>del</strong>la cosiddetta “prova di vita”.<br />

Bisogna dire, a onor <strong>del</strong> vero, che i primi a servirsene sono<br />

stati i terroristi <strong>del</strong>le Brigate Rosse durante il sequestro<br />

di Aldo Moro, presidente <strong>del</strong>la Dc, nel 1978. Chi<br />

non ricorda la foto <strong>del</strong> “prigioniero politico” che teneva<br />

in mano un quotidiano di Roma? Indifferente e distratto<br />

verso altri fenomeni d’importazione, un certo banditismo<br />

sardo – quello più evoluto – ha fatto tesoro di<br />

questa indicazione e l’ha sfruttata immediatamente.<br />

Il resto, ma non tutto il resto, ha mantenuto la vecchia<br />

ricetta. Giusto per non tradire la cucina locale.<br />

Giuseppe Medici, senatore <strong>del</strong>la Repubblica incaricato,<br />

alla fine degli anni ’60, di stendere una relazione su<br />

quella che sarà poi chiamata società <strong>del</strong> malessere, si<br />

guarda intorno e coglie alcuni aspetti che non giustificano<br />

ma comunque spiegano in un certo senso nascita e<br />

sviluppo di un fenomeno profondamente sardesco,<br />

molto imitato e mai uguagliato pur essendo uno dei pochissimi<br />

prodotti regionali che ha riscosso (e riscuote)<br />

un robusto successo nel resto d’Italia e all’estero. Aiutandosi<br />

col bastone in un incedere che tradiva l’anima<br />

aristocratica, il senatore scoprì una terra ingrata, secca e<br />

ventosa, arida e sterile. Scrive preoccupato: “In questo<br />

ambiente agropastorale di montagna, vive una popolazione<br />

ferrigna: soltanto gente di ferro può reggere a un<br />

simile ambiente e amare la vita <strong>del</strong> pastore nomade”.<br />

Davanti agli occhi aveva l’immagine <strong>del</strong> Supramonte,<br />

il sipario roccioso di Montalbo di fronte a Lula, la<br />

Barbagia e il suo sterminato deserto. Insomma, le condizioni<br />

geo-ambientali per forgiare un popolo duro c’erano<br />

tutte. L’annotazione di Medici è tutt’altro che superficiale,<br />

paesaggistica: in qualche modo cerca di capi-<br />

104<br />

re come possa diffondersi un reato così terribile, un reato<br />

che prevede – volentieri o meno – una ferocia che si<br />

ripete, si proietta giorno dopo giorno in uno stillicidio<br />

che annienta. E che talvolta coinvolge intere comunità.<br />

Cosa può importare a “gente ferrigna” <strong>del</strong>le sofferenze<br />

di un povero miliardario? Dopotutto, molta di quella<br />

gente fa una vita quotidiana che non è molto diversa da<br />

quella <strong>del</strong>l’ostaggio. L’alimentazione, pane formaggio e<br />

salsiccia, fa parte <strong>del</strong>la vita di migliaia di contadini e pastori.<br />

Resta da parlare <strong>del</strong>la privazione <strong>del</strong>la libertà, modesta<br />

e temporanea seccatura, che viene ritenuta sopportabile.<br />

Non ci sarà mai nessuno tra Mamoiada e Orune,<br />

tra Nule e Benetutti, che lo dichiarerà apertamente,<br />

ma non è vista – in un certo senso – molto diversa dalla<br />

prigionia <strong>del</strong> latitante o da quella di un pastore, imbavagliato<br />

dal silenzio, condannato a stare per intere settimane<br />

a non vedere anima viva. Imprigionato senza catene<br />

certo, ma comunque imprigionato in una cella gigantesca,<br />

infinita, senza porta e senza sbarre ma pure senza<br />

via d’uscita.<br />

Ascoltate le discussioni nei bar, il chiacchiericcio per<br />

strada: la custodia <strong>del</strong>l’ostaggio non è affatto considerata<br />

la parte più orribile <strong>del</strong> sequestro. Stando al paragone<br />

di prima, non si venga a dire che il pastore se vuole può<br />

andarsene, può lasciare la sua galera. Non è vero, non<br />

può: glielo vieta il senso <strong>del</strong> dovere e <strong>del</strong>la famiglia, soprattutto<br />

un destino segnato e immutabile. L’alternativa<br />

fin quasi agli inizi degli anni ’70 è stata soltanto una:<br />

emigrazione. Senza scivolare nella retorica, sarebbe interessante<br />

scoprire quali siano i punti di riferimento e il<br />

significato di libertà per centinaia di migliaia di sardi<br />

che si sono rifugiati all’estero o nel nord Italia, inseguiti<br />

105


dalla miseria e dalla disoccupazione. Alcuni sostengono<br />

che gli emigrati siano stati non meno di cinquecentomila<br />

nell’arco di trent’anni, altri riducono questa cifra<br />

(centocinquanta-duecentomila) tenendo conto esclusivamente<br />

<strong>del</strong> criterio <strong>del</strong>l’emergenza, cioè <strong>del</strong> bisogno<br />

ispirato e suggerito dalla fame.<br />

Esistono tre chiavi per aprire la porta dei sequestri e<br />

tentare di coglierne in qualche misura le ragioni profonde.<br />

La prima offre una prospettiva esclusivamente economica:<br />

si ruba e si sequestra per un motivo antico, il<br />

danaro. Col danaro, comunque guadagnato, si diventa<br />

ricchi. Col benessere ci si affranca da mille catene. La<br />

chiave poliziesca chiude qualunque interpretazione con<br />

le norme <strong>del</strong> codice penale: come dire, il <strong>del</strong>inquente è<br />

<strong>del</strong>inquente, inutile girarci attorno. La chiave <strong>del</strong> sociologo<br />

trova invece un angolino, quello <strong>del</strong>la disuguaglianza<br />

tra classi. Il sequestro, detto in altri termini, non è altro<br />

che un meccanismo di ridistribuzione <strong>del</strong>la ricchezza.<br />

Teoria piuttosto debole, questa: anche ammettendone<br />

la validità, la ricchezza espropriata all’ostaggio finirebbe<br />

nelle tasche di uno sparuto gruppo di persone.<br />

Più consistente la tesi che parla di emulazione, ossia <strong>del</strong><br />

desiderio di rubare-sequestrare per essere uguali agli altri,<br />

rivendicando una sorta di diritto assoluto ad avere le<br />

stesse cose, gli stessi beni. Beni piccolo borghesi, ovviamente.<br />

E qui bisognerebbe dire quale sia la responsabilità<br />

dei media, d’una cultura televisiva che ha creato una<br />

propria scala di valori e l’ha venduta come reale, oggettiva.<br />

Il mondo come una telenovela.<br />

Sarebbe noioso sfoderare le citazioni d’obbligo che<br />

garantiscono il vuoto per pieno nelle bibliografie di fine<br />

106<br />

libro, che tentano di dare spessore e autorevolezza a inchieste<br />

di cronaca come questa. Stimolante, anche se<br />

non rientra tra i testi da ricordare obbligatoriamente a<br />

proposito di <strong>Sardegna</strong> e dintorni, è l’analisi di due docenti<br />

universitari che hanno messo a fuoco i confini <strong>del</strong><br />

terreno di gioco: “Il banditismo in <strong>Sardegna</strong> non è genericamente<br />

rurale né tantomeno contadino. Bandito e<br />

pastore appartengono allo stesso sistema, allo stesso<br />

mondo socio-economico e culturale e, benché esistano<br />

nei complessi rapporti che legano le popolazioni pastorali<br />

al bandito notevoli ombre di ambivalenza e ambiguità,<br />

ciò spiegherebbe la sostanziale integrazione <strong>del</strong><br />

bandito nel gruppo pastorale di estrazione, i processi di<br />

identificazione tra pastore e fuorilegge, la possibile idealizzazione<br />

e mitizzazione <strong>del</strong> bandito e, conseguentemente,<br />

la protezione (definita in termini e secondo<br />

un’ottica esterna al mondo pastorale ‘omertà’) di cui<br />

gode il bandito, condizione indispensabile alla sua esistenza<br />

e sopravvivenza”.<br />

Citazione lunga, questa: ma ha il merito di esprimere<br />

con chiarezza (nonostante il linguaggio per addetti ai lavori)<br />

una realtà che appartiene alla <strong>Sardegna</strong> come i<br />

suoi monti, i suoi fiumi.<br />

Graziano <strong>Mesina</strong> è cresciuto in un ambiente chiuso,<br />

dove i “valori” <strong>del</strong>la criminalità resistono al tempo, stentano<br />

a raccogliere novità dall’esterno, ad aprirsi. Salvo<br />

rare eccezioni, le cosiddette regole <strong>del</strong> gioco sono considerate<br />

eterne e ripetono rituali antichi. Uccidere un<br />

confidente <strong>del</strong>le forze <strong>del</strong>l’ordine richiede ad esempio<br />

una piccola operazione chirurgica: il taglio <strong>del</strong>la lingua.<br />

Il moncone qualche volta viene infilato tra le natiche.<br />

Quando si tratta di assassinare un dongiovanni di paese<br />

107


e si vuole, col <strong>del</strong>itto, indicare pubblicamente il movente<br />

e (in un certo senso) il mandante, è prevista una orribile<br />

variante: il sesso va amputato ed eloquentemente<br />

sistemato in bocca al cadavere.<br />

Anche il sequestro di persona ha le sue regole. Fino<br />

agli anni ’70 – fatti salvi rarissimi casi – donne e bambini<br />

sono stati considerati intoccabili. Quando rapisce nel<br />

’68 l’imprenditore ozierese Nino Petretto, Graziano<br />

<strong>Mesina</strong> si guarda bene dal portar via anche il figlio <strong>del</strong>l’ostaggio,<br />

Marcello, che aveva cinque anni. Anzi, chiacchiera<br />

con lui, gli dà i soldi per comprare un biglietto<br />

ferroviario e tornare a casa tranquillamente. Questo<br />

non gli impedisce di acquisire una concezione industriale<br />

<strong>del</strong> sequestro: tanto è vero che con Petretto, gli<br />

ostaggi a carico <strong>del</strong>la sua banda in quel momento sono<br />

due (l’altro è Giovanni Campus). Sarebbero stati addirittura<br />

tre se la vittima designata, Nanni Terrosu, non<br />

fosse riuscito a fuggire beffando il cosiddetto “re <strong>del</strong><br />

Supramonte”.<br />

Su Terrosu bisogna fare una parentesi. Non è escluso<br />

che le voci di una sua fuga siano bugiarde, inventate<br />

d’accordo con banditi che avevano preso un granchio.<br />

Sfiorato un intoccabile. Presidente prima <strong>del</strong>l’ospedale<br />

di Ozieri e poi <strong>del</strong>la Unità sanitaria locale, Terrosu è un<br />

potentissimo democristiano in grande confidenza con<br />

Francesco Cossiga. Molti lo detestano per questo suo<br />

ruolo di alcalde, dittatore dolce che non discute, ordina;<br />

non suggerisce, impone. Decisamente benestante,<br />

ha un vaccino che lo protegge dalle maldicenze: è indiscutibilmente<br />

onesto. Uno che in linea di massima non<br />

consente ai medici <strong>del</strong>la sua Usl di esercitare libera professione<br />

(ritenuta in un certo senso immorale), che rie-<br />

108<br />

sce a fare <strong>del</strong>l’ospedale di Ozieri un fiore all’occhiello<br />

<strong>del</strong>la sanità pubblica. Per raggiungere obiettivi che ritiene<br />

importanti, come l’acquisizione di un tomografo<br />

assiale computerizzato (Tac), interpreta a modo suo le<br />

leggi e utilizza a modo suo i contributi <strong>del</strong> fondo sanitario.<br />

I militanti <strong>del</strong>la sinistra – suoi storici oppositori –<br />

gli rinfacciano violazioni su violazioni. Lui, che ha un<br />

cuore ricucito coi by-pass, nemmeno s’arrabbia. Ama<br />

fare il patriarca, il padre-padrone di una comunità che<br />

gli tributa affetto, amicizia e voti (quando servono). È,<br />

dunque, un uomo troppo importante perché qualcuno –<br />

<strong>Mesina</strong> compreso – possa pensare di oltraggiarlo sequestrandolo.<br />

Con l’aggravante poi di un temperamento<br />

notoriamente grintoso, incapace di inchinarsi, spaventato,<br />

all’arroganza di un rapimento.<br />

Nonostante ai tempi <strong>del</strong>l’imboscata avesse passato<br />

cinquant’anni, è considerato alla stregua di un bambino.<br />

E i bambini sono, in qualche modo, sacri. Tali restano,<br />

per <strong>Mesina</strong>, anche quando nel ’92 torna a occuparsi<br />

di un rapimento, stavolta nella veste di emissario. Durante<br />

uno degli abboccamenti, vede Farouk Kassam con<br />

l’orecchio tagliato e si accorge che la ferita sta andando<br />

in suppurazione. S’infuria, litiga violentemente coi fuorilegge:<br />

su pizzinnu va trattato bene, va rispettato, va<br />

curato. Già è inammissibile che sia stato rapito (tempi<br />

nuovi, incomprensibili per un ex che ha passato la vita<br />

in galera), ma l’attenzione e la cura <strong>del</strong> suo stato di salute<br />

non possono essere messi in discussione.<br />

Ai nuovi criminali, ai “ragazzi” di una generazione<br />

troppo lontana dalla sua, dedicherà molti mesi dopo<br />

una riflessione che è una decisa e orgogliosa presa di distanza:<br />

«Nessuno dei miei ostaggi si è mai costituito<br />

109


parte civile. Anzi, con qualcuno sono pure diventato<br />

amico». Discorso molto chiaro. Stando al regolamento<br />

(mai scritto, naturalmente), il rapimento di Farouk rappresenta<br />

una doppia violazione: non si tratta soltanto di<br />

un bambino, ma anche di uno straniero. E gli stranieri,<br />

in una terra celebre per la sua ospitalità, non possono e<br />

non debbono correre pericoli di sorta.<br />

Prima e dopo l’era <strong>Mesina</strong>, la storia <strong>del</strong> banditismo<br />

sardo elenca tuttavia una serie di trasgressioni. Alla fine<br />

<strong>del</strong> diciannovesimo secolo vengono rapiti a Gavoi due<br />

commercianti francesi, nel ’25 viene sequestrata una<br />

bimba di Aidomaggiore, nel ’33 viene portata via e uccisa<br />

la figlia <strong>del</strong> podestà di Bono. Aveva sei anni. Le variabili,<br />

quindi, non mancano. Ma sono talmente poche<br />

da giustificare chi parla di codice d’onore, chi storicizza<br />

– come Antonio Pigliaru – leggi e regolamenti <strong>del</strong>la<br />

criminalità. E non solo <strong>del</strong>la criminalità, poiché le norme<br />

di buona convivenza riguardano anche la vita <strong>del</strong>le<br />

comunità, i piccoli dissidi, le liti per ragioni di pascolo.<br />

In questo binario viaggia la “civiltà” dei sequestri. In<br />

<strong>Sardegna</strong>, avverte dottamente la seconda indagine sulla<br />

criminalità svolta dal Consiglio regionale, si tratta di<br />

“aggregazioni temporanee di 15-20 persone (il gruppo<br />

che effettua il sequestro, il gruppo che custodisce l’ostaggio,<br />

i collegamenti per gli approvvigionamenti ai latitanti<br />

custodi <strong>del</strong>l’ostaggio, i collegamenti con emissari<br />

<strong>del</strong>le famiglie che trattano)”.<br />

Negli ultimi vent’anni, dal 1974 a oggi, sono state rapite<br />

in <strong>Sardegna</strong> 89 persone: nel conto rientrano anche<br />

emissari trattenuti provvisoriamente (il tempo necessario<br />

per il disbrigo di certe pratiche, quasi si trattasse di<br />

un ufficio ministeriale) e i pochissimi che si sono libera-<br />

110<br />

ti a poche ore dall’agguato. Quattordici non sono più<br />

tornati a casa. Il sequestro più lungo è <strong>del</strong> ’78, riguarda<br />

l’imprenditore sassarese Pupo Troffa: otto mesi. A ruota<br />

segue quello <strong>del</strong>l’ingegnere londinese, Rolf Schild<br />

che fu prelevato da Punta <strong>Sardegna</strong> nell’estate <strong>del</strong> ’79<br />

insieme alla moglie Daphne e alla figlia Annabelle: oltre<br />

sette mesi di prigionia. Le curiosità statistiche dicono<br />

che l’Anonima ha mantenuto le sue vittime per quasi<br />

4.500 giorni, poco più di dodici anni. Tenendo conto<br />

dei riscatti ufficiali, ha incassato – stiamo sempre parlando<br />

degli ultimi vent’anni – quasi trentun miliardi,<br />

esentasse. Il costo medio di permanenza per ogni giorno<br />

di prigionia sfiora i sette milioni (sei milioni e ottocentomila,<br />

per la precisione). Visto con l’occhio <strong>del</strong> chirurgo<br />

che, bisturi in mano, osserva freddamente il campo<br />

operatorio, c’è da chiedersi: ne vale la pena?, economicamente<br />

il sequestro rende?<br />

Per organizzarne uno con un minimo di serietà,<br />

quindi a livello professionale (vale a dire considerando<br />

nei dettagli pro e contro di un fallimento), occorre mobilitare<br />

sul serio da quindici a venti persone. Sugli organici,<br />

prima e seconda indagine sulla criminalità concordano.<br />

Si può quindi agevolmente sostenere che la rivoluzione<br />

tecnologica non ha lambito questo settore né ha<br />

imposto tagli (giusto per adoperare una parola decisamente<br />

sinistra parlando di sequestri). L’immutabilità<br />

<strong>del</strong> metodo sottolinea la necessità di una “lunga e paziente<br />

preparazione”. Secondo il senatore Medici, l’entrata<br />

in azione prevede certezza su almeno cinque punti:<br />

la vittima deve essere realisticamente in grado di far<br />

fronte a un riscatto; lo studio dei suoi orari e <strong>del</strong>le sue<br />

abitudini deve ridurre i rischi al minimo; la prima pri-<br />

111


gione deve essere allestita preventivamente assieme alla<br />

scelta degli itinerari da percorrere, i luoghi in cui incontrare<br />

gli emissari. Deve essere infine previsto un eventuale<br />

trasferimento per evitare che l’ostaggio memorizzi<br />

rumori (aerei, treni) e particolari (un certo tipo di vegetazione,<br />

un tetto in lontananza). Nulla deve essere lasciato<br />

al <strong>caso</strong>. Durante il rapimento dei fratelli torinesi<br />

Giorgio e Marina Casana uno dei carcerieri, per pigrizia,<br />

acquistava a giorni alterni nella stessa bottega quattro<br />

etti di morta<strong>del</strong>la. Troppi per non destare sospetti.<br />

Per l’economista Antonio Sassu (docente presso l’università<br />

di Cagliari), più che di fronte a un’azienda<br />

(«mancano le strutture organizzate per parlarne in questi<br />

termini»), siamo davanti a una cooperativa che nasce<br />

e muore col rapimento. Senza l’ancoraggio all’ambiente<br />

pastorale, qualunque iniziativa sarebbe destinata al fallimento:<br />

a parte i liberi professionisti raccattati per l’occasione<br />

(il basista, i vivandieri, i riciclatori), serve una<br />

manovalanza sicura, secondini <strong>del</strong>la criminalità assolutamente<br />

bisognosi di danaro fresco. La solidarietà che<br />

consente al latitante di sopravvivere alla macchia non è<br />

fatta solo di parole. C’è un costo da coprire: rifugi notturni,<br />

ospitalità, cibo, vestiti e silenzi hanno un prezzo.<br />

La vita fuori dalla legge costa molto, fortuna che l’industria<br />

dei rapimenti tira e solo raramente ha manifestato<br />

segni di crisi. In ogni <strong>caso</strong> non rende ricchi. Il professor<br />

Sassu è <strong>del</strong>l’opinione che comunque valga la pena di<br />

giocare la partita. «Due sono gli aspetti dietro chi fa<br />

queste scelte. Primo: scarsità di danaro liquido da parte<br />

di chi deve fare il sequestro. Pastori, operai <strong>del</strong> settore<br />

agricolo e industriale, generici senza una specifica professione:<br />

hanno di che vivere ma non riescono mai a<br />

112<br />

mettere insieme somme che permettano di realizzare un<br />

progetto. Il riscatto, sia pure nella misura di qualche milione<br />

di lire, copre questo bisogno. Al secondo punto<br />

c’è il latitante che ha continuamente necessità di danaro:<br />

visto che deve stare nascosto, perché non far fruttare<br />

la situazione?»<br />

L’aspetto singolare è che in <strong>Sardegna</strong> si possa costituire<br />

una cooperativa tra soci che sono, per vocazione<br />

regionale, profondamente individualisti. Questo spiega<br />

l’arretratezza di tanta economia sarda, l’indifferenza<br />

verso nuove iniziative. Basta pensare alla pastorizia:<br />

movimento di ventimila persone, coinvolge appena cinque<br />

su cento addetti alle attività produttive. Se non tirasse<br />

avanti con sistemi arcaici, se seguisse le indicazioni<br />

e gli stimoli <strong>del</strong> mercato, sarebbe un formidabile moltiplicatore<br />

di benessere e occupazione.<br />

L’incapacità dei sardi a “fare società” ha sempre tenuto<br />

la pastorizia al palo. Figuriamoci se si può “fare<br />

società” per un rapimento: la convergenza di interessi<br />

tra persone diverse (appartenenti a mondi e a culture<br />

differenti) comincia e finisce col riscatto. D’altra parte,<br />

il basista – spesso un personaggio molto vicino all’ostaggio<br />

– non ha nulla da spartire con i carcerieri o col<br />

commando noleggiato per il colpo.<br />

L’ultimo mito da sfatare è quello <strong>del</strong>la miseria. Area<br />

depressa uguale area violenta: è soltanto un luogo comune.<br />

Ricerche economiche hanno dimostrato esattamente<br />

il contrario. Più la società è ricca, più alto è il tasso<br />

di criminalità; più la società è squilibrata, più numerosi<br />

sono i reati contro il patrimonio pubblico e le sue<br />

fragili truppe. Nella catena <strong>del</strong> sequestro, il latitante è<br />

l’anello finale. Non gli appartiene l’organizzazione né la<br />

113


egia. Il suo è soltanto un compito di custodia senza potere<br />

decisionale. Fa parte di quelle che gli antropologi<br />

chiamano “culture subalterne”. Diversa è la condizione<br />

di chi ha ideato il sequestro e ne tira i fili.<br />

Nella lunga stagione dei processi alle varie Anonime<br />

sarde, dietro l’industria dei sequestri sono saltati fuori<br />

impiegati e studenti, operai e artigiani, un laureato in<br />

economia e commercio. Risulta un po’ in salita, con<br />

questi requisiti, avvalorare la tesi <strong>del</strong> bisogno sociale,<br />

<strong>del</strong> brigantaggio che si fa banditismo in nome dei poveri.<br />

Il cantautore Fabrizio De André – rapito assieme a<br />

sua moglie, Dori Ghezzi, nel ’79 e rilasciato dopo quasi<br />

quattro mesi per 550 milioni – ricorda lunghe discussioni<br />

coi banditi proprio sul tema <strong>del</strong>la povertà come<br />

detonatore <strong>del</strong>la violenza. «Chiedevano il diritto a essere<br />

uguali, ad avere quel di più che cambiava la qualità<br />

<strong>del</strong>la nostra vita». Era una menzogna, nessuno di loro –<br />

come si è scoperto poi al processo davanti al Tribunale<br />

di Tempio – aveva l’acqua alla gola, nessuno di loro navigava<br />

fuori dalla rotta <strong>del</strong>la gente comune.<br />

Meno di sette milioni al giorno da dividere in venti,<br />

al lordo <strong>del</strong> riciclaggio (che ingoia fino al 30 per cento<br />

<strong>del</strong> riscatto) non fanno una fortuna. Soprattutto se si<br />

tiene conto di una legislazione che, in questo campo, è<br />

particolarmente dura e severa. Forse ha ragione chi dice<br />

sia più redditizio, e meno penalizzante dal punto di vista<br />

<strong>del</strong> codice, l’assalto in banca. Nei piccoli centri, le<br />

rapine alle casse di credito agrario offrono poche lire:<br />

ma non sono “segnate”, non richiedono una grande organizzazione<br />

per arraffarle, non prevedono (se va male)<br />

pene eccessivamente pesanti.<br />

Il problema è che un discorso squisitamente econo-<br />

114<br />

mico non ha senso quando si parla di sequestri. Al di là<br />

dei vantaggi e degli svantaggi sotto il profilo dei guadagni<br />

e <strong>del</strong>le ricadute sul codice penale, continueranno a<br />

esserci finché ci saranno latitanti. Spingendosi più in là,<br />

anni fa qualcuno scatenò una furiosa polemica a Nuoro<br />

sentenziando: «I sequestri ci saranno fino all’ultima pecora».<br />

Messaggio laconico e facile da decifrare: liberiamoci<br />

dalla cultura agropastorale, dai pastori, e dimenticheremo<br />

l’isola dei sequestri.<br />

115


X<br />

Una star <strong>del</strong> crimine<br />

Raggiante e intontito. Pericolosamente in bilico.<br />

Euforico e confuso. Vischiosamente stretto d’assedio.<br />

Schiacciato da una notorietà che non immaginava.<br />

Come si sente un uomo che torna alla vita dopo<br />

trent’anni di carcere? Graziano <strong>Mesina</strong> sembra ipnotizzato<br />

quando s’accorge <strong>del</strong>la folla che lo aspetta nei<br />

corridoi <strong>del</strong> Tribunale di Torino. L’indomani sarà un<br />

uomo qualunque, davvero il cittadino <strong>Mesina</strong>. In quel<br />

momento però vacilla la sua calma e la sua storia, barcollano<br />

certezze, perfino l’avvocato – Graziella Banda<br />

– fa difficoltà a farsi una ragione di luci così accecanti<br />

nello spettacolo-informazione. Trent’anni sono passati<br />

sulla <strong>Sardegna</strong> col ritmo lento di sempre: quali segnali<br />

ha raccolto l’ex bandito?, cosa crede di trovare fuori<br />

dalla galera?, che dice di questo pubblico da stadio che<br />

gli fa corona?<br />

Chissà quali meccanismi scattano, quali segrete<br />

energie riemergono dagli abissi di una coscienza assopita,<br />

da un mondo spiato attraverso giornali e tivù, dalle<br />

lettere degli amici e dei parenti. Il resto, per trenta<br />

lunghissimi anni, sono le notizie e le informazioni di radio-carcere,<br />

i pettegolezzi sul Belpaese corrotto, l’agonia<br />

<strong>del</strong>la prima Repubblica. Com’è cambiata l’Italia lo<br />

117


sappiamo. Ma un uomo, come cambia un uomo dopo<br />

una terapia penitenziaria di questa lunghezza?<br />

L’ammaraggio di Graziano è folgorante. D’accordo<br />

col presidente <strong>del</strong> Tribunale si organizza una veloce conferenza<br />

stampa, i carabinieri trattengono a fatica i giornalisti<br />

che premono sulla porta <strong>del</strong>l’aula dove si sta discutendo<br />

sulla concessione <strong>del</strong>la libertà condizionale. In<br />

attesa <strong>del</strong> verdetto, ecco finalmente il bandito, il mitico<br />

re <strong>del</strong> Supramonte, la primula rossa, il criminale buono,<br />

il vecchio <strong>Mesina</strong>. Che sorride divertito, ma è come se<br />

fosse ubriaco. Non sa che dire, non si era preparato per<br />

un incontro di questo tipo. Stringe tra le mani un borsello<br />

passato di moda da molte stagioni, sgrana gli occhi<br />

per uno stupore che non riesce a mascherare. Però è<br />

scaltro, rapido a intuire che sta vivendo un attimo importante,<br />

fondamentale. Tra un’ora entrerà in tutte le<br />

case, la sua immagine passerà su televisioni e quotidiani.<br />

Dunque attenzione: <strong>Mesina</strong> deve salvare <strong>Mesina</strong>, anche<br />

se ormai è quasi un pensionato, il balente di un tempo<br />

deve assolutamente dimostrare di essere stato impermeabile<br />

alla prigione, deve far capire di essere fatto dei<br />

soliti ingredienti: vento e granito.<br />

La prima trappola scatta all’improvviso. E per un<br />

soffio, soltanto per un soffio, non ci casca. Al termine<br />

<strong>del</strong>la inevitabile raffica di interviste, un giornalista <strong>del</strong><br />

Tg1 lo chiude in angolo: «Signor <strong>Mesina</strong> le dispiace se<br />

le facciamo qualche ripresa con due carabinieri a fianco?».<br />

E lui, vagamente corrucciato: «Beh, non posso<br />

oppormi». Ridacchia amaro, diplomazia. Ma non ne ha<br />

affatto voglia. Quello, intanto, torna alla carica: «Signor<br />

<strong>Mesina</strong> possiamo chiudere questa chiacchierata con lei<br />

che stringe la mano al carabiniere? Come dire, <strong>signor</strong><br />

118<br />

<strong>Mesina</strong>, amici come prima». Frazione di secondi, un<br />

lampo attraversa lo sguardo di Graziano. Forse fa in<br />

tempo a pensare cosa direbbero a Orgosolo di una scenetta<br />

così, le risatine soffocate che sentirebbe nei bar, i<br />

mormorii per strada. Eppure la proposta, autorevolissima<br />

perché arriva dalla prima rete televisiva nazionale, è<br />

lì. Bisogna rispondere subito. «Coraggio, <strong>signor</strong> <strong>Mesina</strong>.<br />

La facciamo questa cosetta di chiusura? I carabinieri<br />

sono d’accordo». È vero. Uno dei due, baffoni all’umberta,<br />

ammicca per quella che potrebbe essere la metafora<br />

sul trionfo <strong>del</strong>la giustizia. Anche i peggiori possono<br />

tornare sulla via <strong>del</strong> lecito e <strong>del</strong>l’onesto. «Allora, <strong>signor</strong><br />

<strong>Mesina</strong>?»<br />

Risposta telegrafica e brutale. Arriva insieme a uno<br />

sguardo che attraversa il giornalista come una lastra radiografica.<br />

«Mi faccia il piacere, mi faccia». Quello, che<br />

non ha capito bene, domanda sorpreso: «No?». Altra<br />

pausa, stavolta con l’aggiunta di un evidente fastidio:<br />

«No».<br />

A qualcuno poteva sembrare una sciocchezza. Per<br />

<strong>Mesina</strong>, e un certo ambiente che lo aspetta e che lo sta<br />

per mettere sotto esame, non è così. Coi carabinieri, al<br />

massimo, si può dire buongiorno e buonasera. La libertà<br />

condizionale non prevede abbracci e strette di mano<br />

con gli “sbirri”.<br />

Scampato pericolo. Fortuna che Graziano ha fatto in<br />

tempo ad accorgersene, un momento di disattenzione e<br />

si sarebbe giocato anni e anni di onorata carriera carceraria.<br />

È lì, proprio in quell’androne <strong>del</strong> Tribunale di Torino,<br />

che avverte i pericoli esterni, drizza le antenne, riapre<br />

la valigia <strong>del</strong>la diffidenza che lo ha salvato in molte<br />

119


occasioni. Forse conservare una buona immagine di se<br />

stesso e più difficile da queste parti che dietro le sbarre.<br />

Dunque bisogna pensarci, soprattutto in questi giorni<br />

di febbrile disorientamento, di festa allucinata ed esaltante<br />

per il ritorno <strong>del</strong> bandito.<br />

Di fronte alla domanda se gli piacerebbe ricominciare<br />

con un altro nome brucia qualunque sospetto: «Sono<br />

Graziano <strong>Mesina</strong>, resto Graziano <strong>Mesina</strong>. Non rinnego<br />

il mio passato».<br />

Le parole, in ogni <strong>caso</strong>, restano parole. Sa bene che a<br />

partire da quell’istante c’è chi l’ha messo in quarantena<br />

e lo sta studiando, un po’ come si fa con gli astronauti al<br />

rientro da missioni spaziali. La Barbagia, una certa Barbagia,<br />

vuol sapere cosa resta <strong>del</strong>le ceneri di <strong>Mesina</strong>, cosa<br />

è venuto fuori da quel ragazzo costretto alla prima evasione<br />

che non aveva neppure vent’anni.<br />

C’è qualcosa, nell’aria, che coglie subito: il supermercato<br />

Italia ha bisogno di personaggi e, quel che conta,<br />

non dà nulla gratis. Ha un’anima commerciale: compra<br />

e vende. Allora bisogna darsi una regolata: passaggi<br />

televisivi col contagocce e, naturalmente, a caro prezzo.<br />

Graziano scopre il fascino <strong>del</strong>la ribalta e gongola. Fa sapere<br />

che in carcere gli è capitato di ricevere anche cento<br />

lettere in un solo giorno. A scrivergli sono in netta maggioranza<br />

donne, parecchie innamorate di lui. Quale altro<br />

detenuto può vantare un simile primato? Nei limiti<br />

<strong>del</strong> possibile, e tenuto conto che si aggrappa disperatamente<br />

all’intuito, essendo semianalfabeta, tenta di evitare<br />

scivoloni. Ma qualcuno, inevitabilmente, gli scappa.<br />

Quando gli chiedono di raccontare l’irruzione <strong>del</strong>la<br />

polizia a Vigevano, dov’era in compagnia di Valeria Fusè,<br />

gli piace fare il James Bond di provincia.<br />

120<br />

– È vero, <strong>signor</strong> <strong>Mesina</strong>, che quando i carabinieri<br />

hanno sfondato la porta, lei era in camicia e calzoni?<br />

«No, senza».<br />

Strana caduta di stile, questa, perché il personaggio<br />

– timido e riservato nonostante una forte carica di narcisismo<br />

– non ama entrare nei dettagli <strong>del</strong>le sue avventure,<br />

non adopera neppure un linguaggio volgare. Certo<br />

che apparire gli piace, tanto più che non gli chiedono<br />

di farlo per la gloria. E lui, che deve costruirsi un piccolo<br />

capitale, vende ricordi e memorie solo per amatori.<br />

Non fa sconti, insomma.<br />

Se deve fare una gentilezza, allora rinuncia volentieri<br />

a qualunque compenso. Qualche volta l’ha fatto. Quando<br />

Maurizio Costanzo l’ha invitato a registrare una<br />

puntata <strong>del</strong>la trasmissione che teneva settimanalmente<br />

in una tivù di Cagliari, Videolina, accetta con entusiasmo.<br />

Sempre che il Tribunale di sorveglianza autorizzi<br />

la trasferta.<br />

Nulla osta. Ed ecco <strong>Mesina</strong> sbarcare all’aeroporto<br />

di Elmas. In tasca ha un permesso di tre giorni. Mentre<br />

si avvicina a un’auto che dovrà accompagnarlo in albergo,<br />

la fabbrica <strong>del</strong> mito gli tributa onori. Molte persone<br />

lo salutano con simpatia, altre lo bloccano e gli stringono<br />

la mano. Un divo, l’equivalente di un calciatore al ritorno<br />

da una grande partita. «Ciao Graziano». Poco<br />

più tardi succede anche durante la visita a un giornale<br />

(«L’Unione Sarda»), accoglienza davvero calda. Durante<br />

una chiacchierata coi tipografi scopre tra l’altro il<br />

proprietario di un mulo che aveva rubato durante la fuga<br />

con lo spagnolo Atienza. «Ci è stato utile, quel mulo.<br />

Poi ve l’ho rimandato a casa. Non era un furto, soltanto<br />

un prestito». Risate, ancora strette di mano, molti auto-<br />

121


grafi. Qualcosa <strong>del</strong> genere, così piena e partecipata, avverrà<br />

molti mesi più tardi quando visiterà il giornale un<br />

ex Capo di Stato, Francesco Cossiga.<br />

In albergo, mentre sta cenando con alcuni amici,<br />

<strong>Mesina</strong> riceve la visita di due nipoti che gli annunciano<br />

un grande seguito; nella hall ci sono una ventina di ragazzi,<br />

amici loro, che vogliono conoscerlo. Benissimo,<br />

appuntamento al bar <strong>del</strong>l’albergo per una bicchierata e<br />

presentazioni ufficiali. È evidentissimo, durante quell’incontro,<br />

quale sia la forza e la suggestione di un protagonista<br />

<strong>del</strong>la cronaca. Cronaca nera, sicuro, ma non fa<br />

differenza.<br />

La mattina successiva, negli studi <strong>del</strong>l’emittente,<br />

l’entusiasmo fa il bis. Maurizio Costanzo, navigatore di<br />

lungo corso <strong>del</strong> mare <strong>del</strong>lo spettacolo, tradisce un po’ di<br />

emozione nel conoscerlo. E gli mostra subito molta simpatia.<br />

A uno degli ospiti <strong>del</strong>la puntata, un professore<br />

universitario accusato di non far nulla per consentire<br />

l’accesso degli handicappati in facoltà, fa arrivare uno<br />

scherzoso ultimatum di <strong>Mesina</strong>. Che avverte: «Tra un<br />

mese torno e ci vediamo, professore». Il dialogo, che<br />

pure ha un tono cameratesco, non piace al docente e<br />

men che meno alla città istituzionale. Non si può consentire<br />

a un ex bandito di minacciare un onesto cittadino.<br />

Quello che dà fastidio sono soprattutto gli applausi,<br />

la reazione <strong>del</strong> pubblico.<br />

Comincia Fateh Kassam: «Non avete capito, non<br />

avete capito nulla. <strong>Mesina</strong> non è credibile, è un uomo<br />

che ha ucciso. E voi, quando appare in televisione da<br />

Costanzo, lo applaudite. Perché, spiegatemi perché?»<br />

C’è pure l’aggravante <strong>del</strong>la non umiltà, <strong>del</strong>l’incapacità<br />

di chiedere perdono. <strong>Mesina</strong> era e resta un omicida per<br />

122<br />

molte persone: il fatto che abbia scontato fino in fondo<br />

la sua pena, che possa avere espiato (come si dice) è questione<br />

formale, sciocchezze <strong>del</strong>la letteratura giuridica.<br />

Ciò che irrita e indigna una sonnolenta minoranza silenziosa<br />

è poi la simpatia suscitata da un ergastolano assassino.<br />

Che piaccia o no, la gente è con lui. Con Raffaella<br />

Carrà e le soap opera, ma anche con lui. Nessuno che si<br />

attardi a domandarsi le ragioni di questo successo: se i<br />

punti di riferimento sono i calciatori e i drammi in diretta<br />

televisiva, la tragedia privata raccontata minuto per<br />

minuto, perché mai non dovrebbe essere un eroe questo<br />

sardo un po’ tarchiato che ha passato un’esistenza in<br />

prigione? Intorno ha l’aura <strong>del</strong> criminale gentiluomo,<br />

generoso e incapace di fare <strong>del</strong> male. Non fosse per un<br />

<strong>del</strong>itto giovanile, correrebbe il rischio di poter fare domanda<br />

d’iscrizione al Rotary.<br />

A meno di un anno dalla libertà riconquistata, il suo<br />

carattere salta fuori da una vicenda minima, una disobbedienza<br />

al regime imposto dal Tribunale di sorveglianza.<br />

Violando le disposizioni <strong>del</strong>la magistratura che<br />

gli vietano di uscire dal circondario di Asti, <strong>Mesina</strong> viene<br />

fermato in un ristorante a Parma. Con sé ha una valigetta<br />

che contiene dieci milioni in contanti, in una tasca<br />

<strong>del</strong>la giacca i carabinieri trovano una busta con la fotografia<br />

di un pubblico funzionario <strong>del</strong>la regione Emilia<br />

che ha avuto qualche problema con la giustizia. In un<br />

baleno tornano sui giornali i titoli di scatola: Mistero a<br />

Parma. Grazianeddu rischia il carcere. «Dai e dai, il<br />

mio è solo uno sconfinamento di pascolo», dice. «Sono<br />

uscito dal tancato che mi aveva assegnato il giudice Fornace».<br />

In questo frangente le battute non fanno neppure<br />

sorridere: che ci faceva <strong>Mesina</strong> fuori dalla riserva?<br />

123


Perché quella domenica di settembre, san Pacifico, ha<br />

corso seriamente il rischio di tornare in galera in via definitiva.<br />

«Avevo appuntamento con un mio cugino che abita<br />

là. Sto cercando lavoro». E le foto? «Quali foto?» <strong>Mesina</strong><br />

mente su tutta la linea. Neppure una parola si avvicina,<br />

sia pure vagamente, alla verità. Cosa nasconde? L’aspetto<br />

singolare e inquietante è che non sia stato arrestato.<br />

I soldi in valigia erano puliti? «Pulitissimi. Soldi<br />

di un’intervista. L’ho dimostrato, altrimenti sarei uscito<br />

con le manette dalla caserma». Che senso ha tenere dieci<br />

milioni in contanti come bagaglio a mano? «Non mi<br />

fido. La mia casa a Crescentino è una specie di colabrodo.<br />

Circola brutta gente di questi tempi». Meglio far<br />

finta di avere un portafoglio gonfio e portarselo appresso.<br />

Anche se è grande e, in un certo senso, imbarazzante.<br />

Ma coi ladri che ci sono in giro, meglio non fidarsi. E<br />

reggere il colpo di un cugino («cugino in non so che grado»)<br />

che spazza via senza pietà un fragilissimo alibi.<br />

Graziano cercava lavoro da quelle parti? Non gli risulta.<br />

Avevano un appuntamento? Non esattamente. Alle<br />

11 <strong>del</strong> mattino il suo telefono è squillato, sono Graziano<br />

ti devo parlare. Un’ora dopo era da me.<br />

Solo? No, in compagnia di un amico. Giuseppe <strong>Mesina</strong>,<br />

titolare <strong>del</strong>la spaghetteria Mariposa, un passo da<br />

piazza Garibaldi e dunque dal Tribunale, dice di non sapere<br />

nulla a eccezione di una specie di carica dei carabinieri.<br />

Mancava qualche minuto alle 14, i clienti, una<br />

ventina, l’occhio felicemente spento di chi è arrivato alla<br />

frutta dopo un buon pranzo, quando appaiono tre <strong>signor</strong>i<br />

in divisa e, subito dopo, una decina in borghese.<br />

Grosso modo, un carabiniere ogni due avventori. «Il<br />

124<br />

mio locale è frequentato da gente rispettabile, mi ha dato<br />

molto fastidio quel che è accaduto». E che è accaduto?<br />

Nulla di grave. Salvo che tutti, nessuno escluso, sono<br />

accuratamente perquisiti. Minuti di tensione, tavolo<br />

per tavolo, vengono fatte aprire borse, controllati portafogli<br />

e documenti. Che c’entrano gli altri clienti col solito<br />

sardo <strong>del</strong> tavolo in fondo? Niente, ma non si sa mai.<br />

Con <strong>Mesina</strong>, che viene <strong>signor</strong>ilmente portato via, la<br />

cautela non è mai troppa.<br />

Mercoledì 14 ottobre 1992, l’imputato ha scarne dichiarazioni<br />

da fare. Esordisce dicendo che la sua vita è<br />

una galera; una galera soltanto un po’ più grande di<br />

quelle che era abituato a frequentare. Non l’aveva messo<br />

in conto, ma le misure restrittive <strong>del</strong>la sorveglianza<br />

speciale sono intollerabili: divieto di uscire da casa prima<br />

<strong>del</strong>le sei <strong>del</strong> mattino, rientro non più tardi <strong>del</strong>le 23 e<br />

ogni giorno firma in caserma o in questura. «D’accordo<br />

non dovevo andare a Parma, ma non ho fatto nulla di<br />

male. Non posso continuare a vivere come se fossi ancora<br />

in carcere. Perciò non fuggo, sto al mio posto.<br />

Non credo che per una sciocchezza come questa possano<br />

decidere di sbattermi nuovamente dentro». <strong>Mesina</strong><br />

finge di non capire che, a parte il fastidio <strong>del</strong>le sue prigioni,<br />

il Tribunale vuole sapere altro: perché aveva<br />

quelle foto? La vicenda dei dieci milioni viene nel frattempo<br />

chiarita. «Danaro che apparteneva legittimamente<br />

all’imputato».<br />

Si tratta, ed è il primo <strong>caso</strong> in Italia, di revocare la<br />

condizionale a un detenuto condannato all’ergastolo.<br />

Per un perverso segno <strong>del</strong> destino, rientrando in carcere<br />

<strong>Mesina</strong> non ha più la possibilità di uscirne, visto che<br />

ha una condanna a vita. Al di là <strong>del</strong>la sorte di un uomo, è<br />

125


in discussione anche un principio giuridico contraddittorio:<br />

un ergastolano non può, di fatto, ottenere i benefici<br />

<strong>del</strong>la legge che prevede scarcerazioni per buona<br />

condotta. Per certi versi, a complicare le cose arriva anche<br />

una puntualizzazione <strong>del</strong>la magistratura di Parma<br />

che fa sapere: primo, <strong>Mesina</strong> non è indagato; secondo, il<br />

suo ruolo, di testimone, può considerarsi esaurito. In altre<br />

parole, nulla da contestare.<br />

Il mistero è tutto legato alle foto. Il presidente <strong>del</strong><br />

Tribunale, Pietro Fornace, decide di prendere tempo e<br />

solleva un’eccezione di costituzionalità. La proposta,<br />

cara al procuratore generale, di revocare la libertà condizionale<br />

non gli piace. «Decideremo indipendentemente<br />

dal risultato <strong>del</strong>l’inchiesta di Parma. Comunque<br />

vadano le cose, disporremo prescrizioni più severe;<br />

provvedimenti che si adattino alla personalità di <strong>Mesina</strong>,<br />

un uomo che ritiene di essere ancora vitale, che non<br />

vuole fare il pensionato». Il colpo di scena finale salva<br />

tutto e tutti quando le cose sembrano mettersi male.<br />

<strong>Mesina</strong> però tiene la bocca cucita, su quelle foto non dice<br />

una parola. Fino a quando non si presenta spontaneamente<br />

a deporre un suo vecchio compagno di carcere.<br />

E confessa d’essere stato lui a consegnare quelle foto<br />

a Graziano. Ritraggono un funzionario pubblico all’uscita<br />

di un night insieme a qualcuno. <strong>Mesina</strong> ha soltanto<br />

il compito di consegnarle, fare il postino per quello che<br />

assomiglia a un avvertimento, una minaccia, un ricatto.<br />

Ricatto che lo vede, come viene accertato, spettatore,<br />

assolutamente fuori gioco.<br />

Anziché tenere tutti col fiato sospeso, non poteva dire<br />

la verità subito? Risponde mostrando il lato imperscrutabile<br />

<strong>del</strong> suo carattere: «Non ho mai fatto la spia,<br />

126<br />

non inizierò adesso». Se l’ex compagno di cella non si<br />

fosse fatto vivo, avrebbe pagato in silenzio. «Quando<br />

un amico ti chiede un favore, non devi stare a chiedere,<br />

a domandare. Un favore lo fai o non lo fai. A me è stato<br />

chiesto di consegnare quelle foto, niente di più».<br />

È un suo principio da sempre. Non ha voluto venir<br />

meno all’impegno neppure considerando molto probabile<br />

l’ipotesi di un rientro in carcere. La piccola disavventura<br />

di Parma – che si concluderà alla fine con un irrigidimento<br />

<strong>del</strong>le già severe misure restrittive per quanto<br />

riguarda movimento e orari – conferma una verità<br />

che <strong>Mesina</strong> ha ripetuto ossessivamente: «Non sono<br />

cambiato». Un messaggio che, più che a se stesso (visto<br />

che si conosce bene), sembra indirizzato ad altri. Rispetto<br />

al tumultuoso passato di evasioni, sequestri e<br />

conflitti a fuoco, non è cambiato neppure l’elemento<br />

<strong>del</strong>la spettacolarità. Graziano vuole una platea, ha bisogno<br />

di ostentare impunibilità e sicurezza come un<br />

balente di paese alle prese con un furto di bestiame.<br />

C’è soprattutto vanità (e una buona dose di presunzione)<br />

quando decide durante il sequestro Kassam di<br />

utilizzare tre anelli molto, molto particolari in vista degli<br />

incontri coi fuorilegge. Li acquista ad Asti in una<br />

gioielleria dove, secondo la magistratura cagliaritana,<br />

ha investito una parte dei suoi risparmi, i proventi di interviste<br />

e ricordi a puntate. Oro giallo, molto vistoso, il<br />

primo anello è un ramarro con gli occhi di rubino; il secondo<br />

un serpente, il terzo una pantera. <strong>Mesina</strong> se ne<br />

serve per marchiare i fuorilegge incontrati negli abboccamenti.<br />

Poiché deve discutere con banditi incappucciati<br />

e comunque irriconoscibili, vuole la certezza di<br />

parlare sempre alla stessa persona. Così al primo ap-<br />

127


puntamento arriva con l’anello-sigillo: permette un timbrino<br />

sul polso? Pare che, superato l’attimo di sorpresa,<br />

i rapitori non abbiano avuto nulla in contrario. Se tanto<br />

bastava per dare sicurezza all’emissario di famiglia, perché<br />

non accontentarlo?<br />

Chissà da quale film, da quale magazzino <strong>del</strong>l’avventura<br />

è stata pescata l’idea degli anelli. Certo è che a <strong>Mesina</strong>,<br />

alle prese con una vicenda <strong>del</strong>icatissima che potrebbe<br />

fargli avere la grazia o spedirlo al cimitero, piace<br />

da impazzire. Quei tre anelli avrebbe voluto farli vedere<br />

all’agente <strong>del</strong> Sid che molti anni prima l’aveva fatto crepare<br />

d’invidia: «La vedi questa penna? È una pistola».<br />

Nel reparto giocattoli d’una fantasia che non ha memoria<br />

<strong>del</strong>l’infanzia (perché infanzia non ne ha, in realtà,<br />

mai avuto), gli anelli sono un innocente capriccio. Chi li<br />

porta ha l’impressione d’essere il protagonista di una<br />

grande cavalcata, piena di trabocchetti e di perfidie. A<br />

guardar bene, c’è forse anche un <strong>del</strong>irio di onnipotenza.<br />

La libertà, riacquistata dopo tanto tempo, lo scaraventa<br />

sulla ribalta di una storia che tiene il Paese col fiato sospeso.<br />

Non è bellissimo tutto questo? È la favola di un<br />

ex bandito che si trasforma in principe per salvare un<br />

bimbo rapito.<br />

128<br />

XI<br />

La notte <strong>del</strong>le menzogne<br />

La notte <strong>del</strong>le menzogne comincia presto quel 10<br />

luglio. Comincia prima che il sole cali e sui monti intorno<br />

al Cedrino s’affaccino circa trecento uomini, tute<br />

mimetiche, infrarossi, messaggi telefonici in codice.<br />

Un’operazione gigantesca. E attorno migliaia di soldati<br />

impegnati nell’operazione Fortza Paris. Il conto alla<br />

rovescia per liberare Farouk Kassam inizia di primissimo<br />

pomeriggio, quando il sostituto procuratore Mauro<br />

Mura atterra a Nuoro con un elicottero dei carabinieri.<br />

Aria incandescente, il lato peggiore <strong>del</strong>la lunga estate<br />

sarda. Dov’è Graziano <strong>Mesina</strong> in quelle ore? «Se ha<br />

giocato un ruolo in questa vicenda, è un ruolo di disturbo»,<br />

spara il capo <strong>del</strong>la polizia Parisi. Ma è la logica <strong>del</strong><br />

dopo, quella che fa pensare a milioni d’italiani che un ex<br />

bandito abbia beffato tutti, da solo. È stato lui a liberare<br />

Farouk oppure è attendibile la versione ufficiale?<br />

Quella mattina a Olbia accade qualcosa che imprime<br />

una svolta decisiva alle indagini sul sequestro di un<br />

bambino. «Li abbiamo individuati, ma non abbiamo<br />

voluto prenderli per non mettere a repentaglio la vita<br />

<strong>del</strong>l’ostaggio». Nell’insistenza <strong>del</strong> capo <strong>del</strong>la polizia c’è<br />

un filo scoperto. Davvero Farouk non era libero dalle<br />

129


23?, davvero è stato trovato in aperta campagna dalle<br />

forze <strong>del</strong>l’ordine?<br />

La verità su quella notte forse non si saprà mai. Ricostruirla<br />

serve tuttavia a capire come si sono mossi i protagonisti<br />

di questa storia, dove hanno cercato di bluffare,<br />

in che modo hanno tentato di darsi scacco matto.<br />

Messo alle corde da una notorietà che cominciava a<br />

diventare ingombrante, lo Stato aveva bisogno di liquidare<br />

<strong>Mesina</strong> e riprendere le redini <strong>del</strong> gioco. Dall’altro<br />

fronte, <strong>Mesina</strong> aveva bisogno invece di portare personalmente<br />

a termine l’operazione. Era qualcosa che valeva<br />

la grazia. E forse di più, visto che in quei giorni si raccontava<br />

una strana leggenda. Voci di piazza dicevano<br />

che poiché il figlio <strong>del</strong>l’Aga Khan era invalido, inchiodato<br />

su una sedia a rotelle, non sarebbe potuto diventare<br />

il pontefice degli ismaeliti. Quindi, al momento <strong>del</strong><br />

ritorno alla terra di Sua Altezza Karim, ci sarebbe stato<br />

un problema di successione. Farouk, per via di una parentela<br />

molto lontana e mai chiarita fino in fondo, veniva<br />

indicato come il possibile futuro Aga Khan. Riportarlo<br />

a casa significava, di conseguenza, compiere una<br />

missione di grande rilevanza politico-religiosa.<br />

Non si sa se <strong>Mesina</strong> abbia creduto a questa storia. A<br />

ridosso <strong>del</strong> 10 luglio aveva altro da pensare. Aveva soprattutto<br />

paura. «Paura che finisse in un bagno di sangue».<br />

Aveva appreso che stavano per entrare in azione<br />

le teste di cuoio, reparti speciali. Questo significava<br />

guerra. E lui ne conosceva bene il significato. Una sera<br />

di giugno <strong>del</strong> ’67 aveva ingaggiato uno spaventoso conflitto<br />

a fuoco nella vallata di Sorasi. Stava tornando al<br />

suo rifugio dopo un incontro con l’emissario di un<br />

ostaggio, quando si è accorto di essere circondato. Bi-<br />

130<br />

lancio d’orrore: tre morti, due agenti (che si erano colpiti<br />

a vicenda) e il giovane amico di Graziano, lo spagnolo<br />

Miguel Atienza. <strong>Mesina</strong> ha poi riferito di aver<br />

sparato circa 900 dei colpi che aveva a disposizione,<br />

lanciato almeno venti <strong>del</strong>le trenta bombe che aveva con<br />

sé, l’arsenale di un latitante.<br />

Molti anni dopo, quel giovedì di luglio <strong>del</strong> ’92, Graziano<br />

è sicuramente tornato con la mente a Sorasi. Ha<br />

rivisto Atienza alzarsi all’improvviso da un cespuglio e<br />

cadere a terra, colpito a un fianco. Aveva appena fatto in<br />

tempo a gridare «ci arrendiamo». Pochi minuti più tardi,<br />

quando la morsa dei “baschi blu” stava facendosi<br />

sempre più stringente, ci aveva riprovato: «Non sparate,<br />

ci arrendiamo». A venti metri di distanza, protetti<br />

dai macchioni di lentischio c’erano ragazzi più spaventati<br />

dei banditi, ragazzi piombati in uno scontro che<br />

avrebbe inevitabilmente lasciato qualcuno sul terreno.<br />

«Venite a prenderci», urlava Graziano mentre Miguel,<br />

ferito a morte, implorava: «Non uccidere, promettimi<br />

che non li ucciderai». Aveva pensato in tutt’altro modo<br />

alla sua avventura d’evaso assieme al più famoso bandito<br />

sardo, una miscela di romanticismo e di paura. Per<br />

questo si era sollevato a fatica una seconda volta facendosi<br />

raggiungere da una raffica di mitra alla schiena.<br />

Ripensando a quello scontro furioso e sanguinario,<br />

<strong>Mesina</strong> rammenta di aver sentito piangere. C’era qualcuno<br />

che non aveva resistito all’emozione e intanto che<br />

stava appostato, piangeva. Forse era un tentativo di allontanare<br />

la paura, spingere lontano da quelle campagne<br />

un terrore fatto di pallottole che fischiavano tagliando<br />

l’aria. Come nei film. Nel processo che è seguito<br />

al conflitto a fuoco, <strong>Mesina</strong> è stato assolto dall’accusa di<br />

131


aver ucciso i due agenti. Ma questo non è bastato a cancellare<br />

l’ombra terribile di quella sera. Ecco perché, a<br />

distanza di tanti anni, ha fatto il possibile per aggirare e<br />

sventare il blitz che avrebbe dovuto portare alla cattura<br />

dei rapitori di Farouk.<br />

Caldo, caldo infernale e un’umidità che incolla i vestiti<br />

alla pelle. C’erano trentasette gradi all’ombra quel<br />

10 luglio <strong>del</strong> ’92. Pino Scaccia, inviato <strong>del</strong> Tg1 è a Orgosolo<br />

da due giorni. Vuole incontrare <strong>Mesina</strong> e si fa accompagnare<br />

da un fotografo di Olbia che lo conosce<br />

molto bene. Insieme fanno una passeggiata lungo Corso<br />

Repubblica, parlano <strong>del</strong> sequestro, <strong>del</strong>la possibilità<br />

che nelle ore successive l’ostaggio torni a casa. È a questo<br />

punto che Graziano ha un’intuizione che viene da<br />

lontano, dalla frequentazione carceraria con esponenti<br />

<strong>del</strong> terrorismo politico. Sorprendendo il suo interlocutore,<br />

chiede: «Ce l’hai un telefonino? Dammi il numero.<br />

Ti chiamo appena il bambino è libero, così tu puoi dare<br />

la notizia in televisione».<br />

Quella informazione è arrivata alle 23,05. Pochi minuti<br />

dopo, la prima rete televisiva ha interrotto le trasmissioni:<br />

“Farouk Kassam, il bimbo sequestrato circa<br />

sei mesi fa a Porto Cervo, è stato liberato”. Trillano i telefoni<br />

<strong>del</strong> ministero <strong>del</strong>l’Interno, esplode la rabbia di<br />

Stato: “Non è vero, Farouk non è affatto libero”. A chi<br />

credere? Rintracciato a Orgosolo, <strong>Mesina</strong> gioca al rilancio<br />

<strong>del</strong>la sua immagine: «Vedete un po’ voi a chi credere.<br />

Io vi dico che il bambino è sano e salvo, una persona<br />

di mia fiducia l’ha consegnato a un rappresentante <strong>del</strong>la<br />

famiglia Kassam».<br />

La confusione, in quei minuti, è grande. Non bisogna<br />

sorprendersene. Nei giorni immediatamente prece-<br />

132<br />

denti il rilascio c’è tra l’altro a Orgosolo troppa gente,<br />

soprattutto troppa strana gente. Compreso un milanese<br />

che si presenta da <strong>Mesina</strong> come fratello di un colonnello<br />

dei carabinieri. «Voglio andare al Supramonte, lei deve<br />

dirmi con chi e con che cosa». Facilissimo: «Sul Supramonte<br />

vada da solo. Sta là, lo vede? Piuttosto, si ricordi<br />

di portarsi dietro un chilo di sale grosso. Casomai dovesse<br />

perdersi, ha i chicchi per segnare la strada». Dove<br />

finisce l’incursione di personaggi folcloristici e comincia<br />

quella dei servizi di sicurezza?, dove finisce la passerella<br />

dei megalomani e comincia quella <strong>del</strong> Sisde? Tra<br />

l’altro, <strong>Mesina</strong> non vuole confessarlo neppure a se stesso,<br />

ma è infuriato: si sente tradito dal padre <strong>del</strong>l’ostaggio<br />

(che ha imboccato una trattativa parallela), sa che<br />

mai e poi mai potrà sedersi al tavolo <strong>del</strong>la vittoria. «Ve<br />

l’immaginate una conferenza stampa con me, Parisi,<br />

Mura e Farouk?». Impossibile, sa bene che le forze <strong>del</strong>l’ordine<br />

non possono stringere alleanze con uno come<br />

lui. Anzi, stanno tentando di metterlo ai margini <strong>del</strong>la<br />

vicenda per evitare che passi come un salvatore <strong>del</strong>la<br />

patria.<br />

Bisogna tenere presente questi particolari per capire<br />

l’intreccio degli avvenimenti nel giorno più lungo <strong>del</strong><br />

rapimento. La verità di Graziano <strong>Mesina</strong>, così come avviene<br />

nella polemica sul pagamento <strong>del</strong> riscatto, è molto<br />

lontana da quella ufficiale. Dice di aver saputo che polizia<br />

e carabinieri si apprestavano a catturare la banda.<br />

L’avevano individuata, accerchiata e, pian piano, avanzavano<br />

verso la prigione di Farouk. In un primo momento<br />

l’offensiva era prevista per lunedì, poi era stata<br />

rinviata per ragioni sconosciute. Probabilmente si stava<br />

studiando il modo di ridurre i rischi al minimo, cattura-<br />

133


e i banditi senza perdite e, soprattutto, fare in modo<br />

che il bambino ne uscisse vivo.<br />

Che fare, allora? Attraverso una persona di fiducia,<br />

<strong>Mesina</strong> dà appuntamento ai fuorilegge. Si tratta <strong>del</strong>l’ultimo<br />

incontro perché, a suo dire, il riscatto è già stato<br />

pagato. Concorda la liberazione <strong>del</strong> piccolo e, quel che<br />

più conta, il nome <strong>del</strong>la persona alla quale deve essere<br />

consegnato. Dettaglio finale è la definizione di un piano<br />

per depistare le forze <strong>del</strong>l’ordine attirandone l’attenzione<br />

su un versante opposto a quello <strong>del</strong> rilascio. Chi, se<br />

non <strong>Mesina</strong> personalmente, può fare da esca? Il suo racconto<br />

va avanti senza pause: «Erano convinti che, pedinando<br />

me, sarebbero arrivati al bambino». Per questo<br />

Graziano esce tardi quella sera e si avvia a passo sicuro<br />

verso la campagna attraversando, dice lui, uno schieramento<br />

militare impressionante. «C’era un uomo dietro<br />

ogni cespuglio, bisognava fare attenzione a non sfiorarli».<br />

Marcato a distanza di centimetri, s’intrufola nella<br />

boscaglia lasciando credere che di li a poco apparirà<br />

qualcuno <strong>del</strong>la banda. A qualche chilometro di distanza,<br />

intanto, Farouk viene liberato. <strong>Mesina</strong>, che ha programmato<br />

i tempi con precisione, a quel punto rientra a<br />

casa e chiama, come promesso, Pino Scaccia. «Il bambino<br />

è libero, puoi darne notizia in tivù». Per rafforzare la<br />

versione, rivela anche di aver telefonato subito dopo a<br />

Marion Kassam: «Signora, Farouk sta tornando a casa,<br />

è contenta?»<br />

Il confine tra verità e bugie si fa sottile. E partendo<br />

proprio da quest’ultima telefonata, si tenta di demolire<br />

la versione <strong>Mesina</strong>. «Quella chiamata effettivamente c’è<br />

stata, ma soltanto la mattina dopo, quando il bambino<br />

dormiva già da molte ore nel suo letto».<br />

134<br />

Ma “mattina dopo” cosa significa? A che ora squilla<br />

il telefono nella villa di Pantogia? Mentre i giornali sollevano<br />

un polverone senza precedenti, mentre Montanelli<br />

dice ai suoi lettori “ne sono sicuro, l’ha liberato<br />

<strong>Mesina</strong>”, parte la controffensiva <strong>del</strong>la magistratura. Il<br />

primo rimprovero riguarda “la stampa che non crede<br />

alle istituzioni”.<br />

Al di là <strong>del</strong> fatto che gli anni bui <strong>del</strong>le veline sono fortunatamente<br />

alle nostre spalle, non si tratta di mancare<br />

di rispetto alle istituzioni, al lavoro di magistratura, polizia<br />

e carabinieri. Si tratta più semplicemente, di rivendicare<br />

il diritto alla verità, insomma a penetrare in quei<br />

risvolti che “non saprete mai”, per dirla con le parole di<br />

Fateh Kassam.<br />

Il procuratore <strong>del</strong>la Repubblica, Franco Melis, riconosce<br />

a <strong>Mesina</strong> qualche merito. «Non credo che avrebbe<br />

tagliato l’orecchio a Farouk. È lontano anni luce dalla<br />

nuova criminalità». Cioè da una ferocia condannata<br />

senza appello dal galateo <strong>del</strong> banditismo. Aggiunge di<br />

non aver avuto alcun incontro con l’ex ergastolano che,<br />

nelle interviste, adopera frasi ambigue, strani ammiccamenti.<br />

«Ribadisco con la massima determinazione che il<br />

<strong>Mesina</strong> non ha avuto contatti di alcun genere con questa<br />

procura e con le forze <strong>del</strong>l’ordine. Non posso escludere<br />

che egli possa essersi attivato per ottenere informazioni<br />

o altro. Se lo ha fatto, è stato sollecitato da terzi».<br />

In un italiano meno ufficiale e più terra terra, il procuratore<br />

ha detto che le forze <strong>del</strong>l’ordine si sono guardate<br />

bene dall’avere qualunque tipo di collaborazione con<br />

<strong>Mesina</strong>. Che, se qualche informazione ha raccolto, è<br />

perché gliel’ha chiesta il padre <strong>del</strong> bambino e non certo<br />

la magistratura. La polemica è dura, talmente dura che<br />

135


si profila perfino uno scontro tra la Procura di Cagliari e<br />

il giudice Fornace di Torino che nel frattempo ha allentato<br />

le misure restrittive alla libertà vigilata di <strong>Mesina</strong> finendo<br />

addirittura per ringraziarlo a cose fatte.<br />

Detto questo, il procuratore Melis propone minuto<br />

per minuto l’altra ricostruzione dei fatti, quella <strong>del</strong>lo<br />

Stato, <strong>del</strong>le istituzioni snobbate dalla stampa. Per cominciare,<br />

la magistratura non è andata dietro <strong>Mesina</strong><br />

per scoprire dove stavano i banditi. I rapitori di Farouk<br />

erano stati grosso modo individuati già da qualche giorno<br />

e si stava progettando di farli finire nella rete. Come?<br />

Con un attacco di reparti speciali, rischi minimi e altissima<br />

probabilità di successo. Poi si decide per una sorta<br />

di stato d’assedio che costringa la banda ad arrendersi.<br />

Alle 0.45 <strong>del</strong>l’11 luglio – il nuovo giorno è cominciato<br />

da tre quarti d’ora – mentre l’accerchiamento continua,<br />

una pattuglia trova Farouk. È solo, non è bendato né incappucciato.<br />

In quel momento e soltanto in quel momento,<br />

l’ostaggio può considerarsi libero. E di <strong>Mesina</strong>,<br />

che dire? «Sta barando. È un venditore di gazzosa. Si<br />

mette le penne <strong>del</strong> pavone. Che l’altra sera ci fosse movimento<br />

lo avevano capito tutti. Dunque <strong>Mesina</strong>, che<br />

sapeva <strong>del</strong>la liberazione imminente <strong>del</strong> bambino, ha<br />

giocato d’anticipo». In pratica, avrebbe dato una notizia<br />

verosimile che sarebbe diventata vera solo cento minuti<br />

più tardi. Perché l’abbia fatto, è fin troppo evidente:<br />

riscattare una vita da bandito, conquistare la grazia e<br />

la benevolenza degli italiani.<br />

Tenuto conto <strong>del</strong>la scaltrezza <strong>del</strong> personaggio, la<br />

tesi <strong>del</strong> procuratore <strong>del</strong>la Repubblica non appare assurda.<br />

Se fosse vera, però, le cosiddette istituzioni<br />

avrebbero ben poco da esultare. Saremmo di fronte a<br />

136<br />

una beffa. <strong>Mesina</strong>, che non ha fatto assolutamente<br />

nulla per ottenere il rilascio di Farouk, è riuscito ad attribuirsi<br />

i meriti <strong>del</strong>le forze <strong>del</strong>l’ordine utilizzando la<br />

prima rete televisiva nazionale e il nuovo totem degli<br />

anni ’90, il telefonino cellulare. Sapendo che non<br />

avrebbe mai potuto sedersi al fianco <strong>del</strong>le autorità per<br />

la conferenza stampa post-liberazione, ha pensato di<br />

farne lui, una brevissima, addirittura fulminante, dai<br />

microfoni <strong>del</strong> Tg1 attraverso un improvvisato e ignaro<br />

portavoce, Pino Scaccia. Se questo non fosse vero,<br />

meglio archiviare la notte <strong>del</strong>le menzogne. In <strong>caso</strong><br />

contrario, bisognerebbe riconoscere a <strong>Mesina</strong> una geniale<br />

creatività criminale.<br />

Comunque non tutto torna, troppe circostanze appaiono<br />

sfuggenti e la verità parallela, quella <strong>del</strong>lo Stato,<br />

in qualche passo tentenna acrobaticamente. Le contraddizioni<br />

sono parecchie ed evidenti. Vincenzo Parisi,<br />

il capo <strong>del</strong>la polizia, assicura che la banda era stata individuata<br />

e che i fuorilegge non erano stati bloccati «per<br />

non mettere a repentaglio la vita <strong>del</strong> bambino». Il giorno<br />

dopo il rilascio <strong>del</strong>l’ostaggio, quando gli domandavano<br />

se è vero che si stava sul serio addosso ai banditi, il<br />

procuratore <strong>del</strong>la Repubblica risponde: «Forse c’è stato<br />

un rastrellamento, ma non ci è stato detto nulla». Ma<br />

come, la prigione viene individuata e nessuno lo comunica<br />

ai titolari <strong>del</strong>la indagine? Melis lascia pensare a una<br />

vaga sensazione di disagio quando ammette: «Avremmo<br />

dovuto saperlo». Non foss’altro perché dei rapitori<br />

si sono perse le tracce.<br />

Se è vero che era in corso un accerchiamento, organizzato<br />

e messo a punto con qualche giorno d’anticipo,<br />

come mai non s’è vista neanche l’ombra di un bandito?,<br />

137


come mai non si è riusciti a catturare nessuno? Non sono<br />

interrogativi provocatori, non è in discussione l’onestà<br />

intellettuale <strong>del</strong> procuratore <strong>del</strong>la Repubblica e tantomeno<br />

il rigore professionale di Mauro Mura, il sostituto<br />

antimafia che ha seguito dall’inizio alla fine la storia<br />

di questo rapimento. Le domande nascono spontanee<br />

ascoltando la stessa ricostruzione ufficiale e ripropongono,<br />

insieme ad alcune perplessità, il dubbio che attorno<br />

a Farouk abbia circolato troppa gente, troppa<br />

strana gente.<br />

Fateh Kassam racconta nel suo libro di aver appreso<br />

<strong>del</strong>la liberazione <strong>del</strong> figlio dal capo <strong>del</strong>la Mobile di Sassari,<br />

Antonello Pagliei, alle 0,45. Era a bordo <strong>del</strong>la sua<br />

Alfa a circa 150 chilometri da Porto Cervo quando<br />

squilla il solito telefonino. «Farouk è con me sta bene. È<br />

affamato, sembra che non mangi da giorni. Ora sta divorando<br />

un panino, una mela e una cocacola». Anche<br />

secondo il padre <strong>del</strong> bimbo, l’ostaggio è dunque libero<br />

soltanto quando manca un quarto all’una <strong>del</strong>l’11 luglio.<br />

Così gli comunicano, così riferisce.<br />

È possibile che fosse al corrente d’una trattativa<br />

parallela e, quindi, <strong>del</strong>la possibilità di un rilascio in luoghi<br />

e orari diversi da quelli ufficiali? È un altro mistero.<br />

Davanti all’ipotesi che Fateh possa aver giocato su due<br />

tavoli, il procuratore Melis dichiara che non ci crede.<br />

Ma non se la sente neppure di escluderlo.<br />

Impossibile inoltre ignorare gli aspetti, tutt’altro che<br />

secondari, che il <strong>caso</strong> Farouk fa scoppiare nella trincea<br />

istituzionale. Nella notte <strong>del</strong>le menzogne, <strong>del</strong>le conferme<br />

e <strong>del</strong>le smentite a distanza di un minuto una dall’altra,<br />

pochi hanno capito quale sia la rotta giusta. Certo è<br />

che Graziano <strong>Mesina</strong> approfitta <strong>del</strong>la confusione per<br />

138<br />

affondare i suoi colpi, per sbeffeggiare uomini e cose.<br />

«Il bambino l’ho salvato io», ripete con un sorriso fino<br />

alle orecchie.<br />

Casomai ce ne fosse bisogno, questa incredibile girandola<br />

all’italiana trascina in pista e fa ballare nuove,<br />

inquietanti comparse: si sente parlare di loro quando si<br />

affacciano i dubbi sul riscatto. Ma questo è un altro capitolo,<br />

un’altra sequenza. Serve a gettare fumo sul fumo,<br />

a intorbidire ancor più le acque. Gli elementi certi,<br />

sicuri, sono talmente pochi da lasciare il varco aperto a<br />

qualunque soluzione. Che arriverà, se arriverà, in un<br />

giorno impreciso di un anno da decidere.<br />

Comunque vadano a finire le cose, resta un’amarezza<br />

di fondo. Graziano <strong>Mesina</strong> deve essere considerato<br />

credibile fino a prova contraria. Dopo “anni ventinove<br />

e giorni sette” di reclusione ha il diritto di essere considerato<br />

un cittadino uguale agli altri. Se ha mentito, deve<br />

essere condannato, rispedito in quelle galere dove ha<br />

trascorso gran parte <strong>del</strong>la sua vita. La replica alle sue affermazioni<br />

non può essere quella squallida tiritera che,<br />

anziché rispondere fatto su fatto, colpo su colpo, rivanga<br />

un passato penitenziario che in questo contesto non<br />

ha alcun senso. Pretendere una sorta di certificato di<br />

inattendibilità soltanto perché <strong>Mesina</strong> è stato un detenuto<br />

(e, tra l’altro, un detenuto mo<strong>del</strong>lo) diventa estremamente<br />

scorretto, non serve a raggiungere la verità, a<br />

esorcizzare gli spettri che affollano questo <strong>caso</strong>.<br />

A nessuno può essere chiesto un certificato di credibilità.<br />

Neanche a chi, come Fateh Kassam, “rapisce”<br />

suo figlio subito dopo il rilascio per sottrarlo, dice, all’assalto<br />

macinatutto dei giornalisti. Salvo poi, pochissimi<br />

giorni dopo, concederlo in esclusiva ai settimanali e<br />

139


alle televisioni di Silvio Berlusconi. «È qualcosa a cui ho<br />

pensato dopo, soltanto dopo», si giustifica. Anche se diventa<br />

francamente molto difficile, è giusto credergli:<br />

non esiste prova contraria, non c’è la certezza che abbia<br />

venduto l’esclusiva sulla liberazione di Farouk in uno<br />

“scellerato” patto commerciale.<br />

Bisogna stare ai fatti. E i fatti dicono che la notte <strong>del</strong><br />

10 luglio, a ore 23,05, Graziano <strong>Mesina</strong> ha passato la<br />

palla alla tivù. È un po’ come se avesse scelto di apparire<br />

a reti unificate, come se avesse dimostrato che aveva<br />

la possibilità di prendersi la televisione pubblica. Proprio<br />

come un presidente, come un potente <strong>del</strong>la terra.<br />

Molti però questo lo hanno capito soltanto troppi giorni<br />

dopo.<br />

140<br />

XII<br />

Armi ad Asti<br />

Graziano <strong>Mesina</strong> viene arrestato la mattina <strong>del</strong> 29 luglio<br />

’93 ad Asti. Armi. «Mi hanno incastrato, dovevano<br />

farmi pagare la liberazione di Farouk Kassam», dice. Il<br />

pubblico ministero replica stizzito mentre chiede una<br />

condanna esemplare: «Per un bandito <strong>del</strong> suo calibro<br />

una pena bassa sarebbe quasi un affronto». Ma quello<br />

che gli preme sottolineare è ben altro, smontare la tesi<br />

<strong>del</strong>l’imputato, zittire le voci che parlano di trappola.<br />

«Non c’è stato complotto da parte di nessuno, tanto<br />

meno dei servizi segreti. <strong>Mesina</strong> è un <strong>del</strong>inquente abituale,<br />

seguendo la sua vocazione si è tradito».<br />

Il 10 ottobre <strong>del</strong> ’94 arriva la sentenza pesantissima:<br />

otto anni e mezzo di reclusione per “introduzione e detenzione<br />

illegale di armi da guerra”. I suoi complici, due<br />

genovesi molto speciali, se la cavano con pene al di sotto<br />

dei due anni, dunque al riparo dalla condizionale. L’avvocato<br />

Pier Navino Passeri, nominato difensore d’ufficio,<br />

accusa: «Intorno al mio cliente si respira un’aria carica<br />

di veleni, da quando sbugiardò le autorità <strong>del</strong>lo Stato<br />

e liberò il piccolo Farouk». Riappare, insomma, un<br />

vecchio scheletro che tormenterà l’intero processo con<br />

la sua presenza ingombrante e carica di misteri. <strong>Mesina</strong>,<br />

che ha abbandonato l’aula dopo alcune udienze, sem-<br />

141


a essersi definitivamente arreso. Ai carabinieri che lo<br />

accompagnano al cellulare durante una pausa <strong>del</strong> dibattimento,<br />

confida sconsolato: «Non vengo più, ormai è<br />

inutile. Hanno fatto tutto loro, completino pure l’opera,<br />

io non ci posso fare più nulla».<br />

Parte da lontano questa storia. Ha una premessa che<br />

va fatta per capire una <strong>del</strong>le chiavi interpretative. Ne<br />

parla il sostituto procuratore Francesco Saluzzo, pubblico<br />

ministero al processo di Asti. «Una vendetta da<br />

parte <strong>del</strong>lo Stato? <strong>Mesina</strong> mi disse che l’ex capo <strong>del</strong>la<br />

polizia Parisi, il giudice Mura e addirittura il ministro<br />

degli Interni, Nicola Mancino, avevano giurato di fargliela<br />

pagare. Troppi protagonisti sulla scena perché la<br />

cosa possa sembrare credibile».<br />

Non resta che rimettersi ai fatti.<br />

Rientrato nel soggiorno obbligato sulla scia <strong>del</strong>le<br />

polemiche legate al sequestro Kassam, <strong>Mesina</strong> rilascia<br />

un’intervista a un giornale di Asti: «Non mi stupirei se<br />

mi rischiaffassero dentro». Questa sgradevole sensazione<br />

lo perseguita, ne parla in ogni occasione, dovunque<br />

gli capiti di vedere gente. Si sta precostituendo un<br />

alibi? Certo è che adesso è tornato a una vita meno movimentata<br />

anche se stretta in angolo da rigorose misure<br />

di vigilanza. Trascorre parecchie ore nella casa di San<br />

Marzanotto, neanche cinque chilometri dalla città, dove<br />

fa il magazziniere per conto di Michele Quai, l’impresario<br />

edile di Fonni che, offrendogli un lavoro, l’ha<br />

fatto uscire in libertà condizionale. Un’occupazione vera<br />

e propria <strong>Mesina</strong> non ce l’ha, deve giusto badare (ma<br />

neanche tanto) agli attrezzi sistemati in garage e, quando<br />

ne ha voglia, coltivare pomodori e melanzane nel<br />

minuscolo orticello che si affaccia sulla strada provin-<br />

142<br />

ciale. Sebbene nessuno possa sostenerlo ufficialmente,<br />

è evidente che l’offerta di Quai sia un segno di solidarietà,<br />

una mano tesa verso un amico che stava da troppi<br />

anni in carcere.<br />

<strong>Mesina</strong>, che ha l’obbligo di rientrare entro una certa<br />

ora, ha un buon rapporto coi carabinieri <strong>del</strong> posto. La<br />

pattuglia incaricata di verificarne la presenza a casa, gli<br />

telefona con una mezz’ora d’anticipo. «Graziano, tra<br />

un po’ passiamo». <strong>Mesina</strong> li aspetta al balcone o sulla<br />

porta, qualche volta scambia una parola per combattere<br />

noia e solitudine, offre un bicchierino <strong>del</strong>la bottiglia di<br />

Vecchia Romagna che tiene su un pensile <strong>del</strong>la cucinotta.<br />

Non c’è moltissimo da fare, salvo osservare il passaggio<br />

veloce <strong>del</strong>le automobili o ascoltare il ronzìo permanente<br />

di zanzare giganti, più fastidiose e aggressive <strong>del</strong>le<br />

loro consorelle sarde.<br />

Di solito la mattina Graziano arriva ad Asti di buon’ora.<br />

Bussa all’appartamento di via Guttuari, proprio<br />

di fronte alla stazione ferroviaria, dove Michele Quai<br />

abita con la sua compagna Stella Bianco, il figlio Claudio<br />

e Annie, un vecchio e aristocratico levriero afgano<br />

nero. Porta la biancheria da lavare e aspetta il pranzo<br />

leggendo i giornali. Di pomeriggio, pennichella e poi rientro<br />

a San Marzanotto.<br />

I rapporti col padrone di casa sono eccellenti. Michele<br />

Quai, che ha passato i sessanta, è un sardo da manuale,<br />

bronzetto nuragico: carnagione scura, guance incavate<br />

e capelli ebano, il tutto concentrato in un’altezza<br />

che forse non va oltre il metro e sessanta. Emigrato <strong>del</strong>la<br />

prima generazione, è arrivato ad Asti nel ’62, muratore.<br />

Mattone su mattone, fatica su fatica, è riuscito con gli<br />

anni a metter su un’impresina edile che, nei momenti<br />

143


d’oro, ha avuto quattordici dipendenti. Poi l’onda lunga<br />

<strong>del</strong>la recessione ha cancellato più o meno tutto. Gli è<br />

rimasta soltanto la casa di San Marzanotto, acquistata<br />

quando sembrava che l’età <strong>del</strong> riscatto sociale non dovesse<br />

finire.<br />

Nell’estate <strong>del</strong> ’93 Michele Quai, incensurato e cittadino<br />

irreprensibile, vive di piccoli lavori; robetta che<br />

gli consente giusto di tirare a campare. Non si lamenta.<br />

Dice che i tempi sono grigi per tutti, perché dovrebbe<br />

essere fortunato lui che non lo è mai stato in<br />

vita sua? «Gente come me deve sempre lottare per stare<br />

in piedi».<br />

Alle 9,40 <strong>del</strong> 29 luglio, giovedì, è a San Marzanotto<br />

insieme a Claudio e a un geometra <strong>del</strong> Tribunale per<br />

una perizia tecnica. Alla stessa ora Stella Bianco è fuori,<br />

in giro tra i negozi di Asti a far la spesa. Graziano <strong>Mesina</strong><br />

è nell’appartamento di via Guttuari. Bussano, va ad<br />

aprire. Sul pianerottolo ci sono due <strong>signor</strong>i che fa entrare,<br />

li guida in un anditino che termina in un salotto: un<br />

divano, due poltrone, alla parete un arazzo col disegno<br />

d’una sfinge, sul comò una bottiglia artistica di liquore<br />

verde e la tivù, che troneggia vicino a vecchi orologi. I<br />

tre fanno appena in tempo a sedersi quando la porta<br />

d’ingresso viene giù, sfondata. «Polizia, fermi dove siete».<br />

Perquisizione lampo e un po’ rude. Quando rientra,<br />

Stella Bianco trova tutto sottosopra come se ci fossero<br />

ladri. «Lei non sa chi aveva in casa», dice un sottufficiale.<br />

«Chi, <strong>Mesina</strong>?», domanda lei. No, si riferiva agli<br />

altri. Chi sono gli altri? Si saprà solo qualche ora dopo<br />

che, tra stridio di gomme da filmetto americano, vengono<br />

tutti portati via.<br />

In quello stesso momento a San Marzanotto, Miche-<br />

144<br />

le Quai viene fermato dai carabinieri accanto all’ingresso<br />

di casa. «Documenti». Concluse le formalità <strong>del</strong>l’identificazione,<br />

iniziano a frugare nell’orto. Altri due,<br />

nonostante le chiavi siano a disposizione, preferiscono<br />

mandare in frantumi il vetro <strong>del</strong>la porta di un garage.<br />

Dentro, c’è la carcassa d’una vecchia macchina. Sulle<br />

prime pensano di smontarla, poi rinunciano. Troppo<br />

complicato, porta via parecchio tempo e tempo da perdere<br />

non ce n’è, neppure un minuto. Al piano terra rovistano<br />

un salottino per passare, subito dopo, alla cucina,<br />

una stanzetta quadrata con un piccolo tavolo al centro.<br />

Danno un’occhiata dappertutto, dietro i mobili, nei<br />

cassonetti <strong>del</strong>le serrande, tra riviste ingiallite, barattoli.<br />

Che cercano? Due rampe di scale ed eccoli al primo piano<br />

dove ci sono due stanze da letto e un bagno. Stessa<br />

operazione con moto ondoso in aumento: materassi rovesciati,<br />

un grande armadio messo di traverso, via i comodini,<br />

i cassetti. Quasi fossero pezzi di un’offerta speciale,<br />

ammonticchiano disordinatamente abiti, calze,<br />

mutande, un ombrello. Scattano un paio di fotografie a<br />

un armadio bianco inutilizzato, vuoto. Nello sprint finale<br />

salgono sul sottotetto, strappano qualche telo <strong>del</strong><br />

controsoffitto. Vanno via senza aver trovato nulla, sfiorano<br />

i pomodori, quasi maturi, e scompaiono senza<br />

neppure un buongiorno. Sconcertato e infastidito, Michele<br />

Quai continua a chiedersi cosa cercassero, senza<br />

trovare una risposta. Soldi? C’erano un milione e mezzo<br />

in contanti. Puliti.<br />

Alla fine di una giornata convulsa, finalmente i nomi<br />

degli arrestati. Insieme a <strong>Mesina</strong> finiscono in carcere i<br />

due sconosciuti che erano andati a trovarlo. Uno, Domenico<br />

Anfossi, 39 anni, fa il contabile in una piccola<br />

145


azienda <strong>del</strong>l’area industriale di Genova. L’altro, Elio<br />

Ferralis, 65 anni, è titolare di una piccola agenzia di import-export.<br />

Gli inquirenti sono avari di dettagli sull’operazione.<br />

Dicono comunque che i genovesi stavano<br />

consegnando a Graziano sei caricatori di kalashnikov<br />

comprati in Svizzera. Si sono fatti precedere da una telefonata:<br />

«Abbiamo trovato sei cioccolate. Te le portiamo<br />

domattina».<br />

E la mattina, puntuali, salgono su un rapido che parte<br />

alle 7,55 dalla stazione di Genova-Brignole. Arrivano<br />

ad Asti, dove il termometro segna 35 gradi, alle 9,35. In<br />

cinque minuti coprono, a piedi, la distanza e premono<br />

un campanello in via Guttuari 5. Ferralis, che non si è<br />

mai ripreso dopo un brutto incidente stradale, è invalido<br />

e non riesce a muoversi con sicurezza per via di una<br />

paralisi alle braccia. L’amico, che non ha di questi problemi,<br />

tiene una sacca dove ci sono le “cioccolate” commissionate<br />

(così dichiarano) da <strong>Mesina</strong>. Alle loro spalle,<br />

discreti e invisibili, decine di poliziotti. Due pistole, 500<br />

cartucce, un passamontagna e (pare) un mitragliatore<br />

vengono invece trovati a San Marzanotto. Da chi e<br />

quando? Il rigore non deve essere eccessivo se quella<br />

casa, visitata e fotografata dai cronisti <strong>del</strong> quotidiano<br />

«L’Unione Sarda» dopo il primo sopralluogo, viene<br />

perquisita una seconda volta il giorno successivo. Non<br />

c’erano sigilli, indicazioni di nessun tipo che vietassero<br />

l’ingresso o comunque informassero che l’accesso era<br />

proibito ai non addetti ai lavori. Nel mostrare l’appartamento<br />

sottosopra a uso e consumo <strong>del</strong>la stampa, Michele<br />

Quai rammenta che qualche tempo prima <strong>Mesina</strong><br />

aveva notato alcune stranezze: una serratura forzata, un<br />

vetro sostituito. Anche questo è un tentativo di preco-<br />

146<br />

stituirsi un alibi per scaricare tutto sui soliti, invadentissimi<br />

servizi segreti?<br />

Molti mesi più tardi, l’avvocato Pier Navino Passeri,<br />

che nonostante sia stato nominato d’ufficio profonde<br />

grande impegno in questo difficile processo, non mancherà<br />

di farlo rilevare in aula. «Perché non è stato fatto<br />

alcun accertamento per verificare se sulle armi vi fossero<br />

le impronte <strong>del</strong> mio cliente?». Una domanda che resta,<br />

insieme ad altre purtroppo, senza risposta. Favorendo,<br />

indipendentemente da quella che è la verità, la<br />

cultura <strong>del</strong> sospetto, la sindrome <strong>del</strong> complotto, come<br />

la chiama ironicamente un magistrato. Il sostituto procuratore<br />

Mauro Mura accetta intanto di dare qualche<br />

informazione alla pubblica opinione. E racconta che<br />

l’inchiesta sulle armi di Asti è nata «per pura casualità»<br />

durante intercettazioni telefoniche e ambientali disposte<br />

nel corso <strong>del</strong> rapimento di Farouk Kassam. «Questa<br />

storia viene fuori da una rilettura di quegli atti». Una rilettura,<br />

che significa? Il giudice <strong>del</strong>la procura antimafia<br />

spiega con chiarezza: «Avevamo acquisito materiale di<br />

vario genere che, a suo tempo, abbiamo vagliato con<br />

un’ottica particolare, quella di un’indagine su un sequestro<br />

di persona. Poi abbiamo rivisto tutto in chiave diversa.<br />

E da lì siamo partiti». Mura non si sbilancia su<br />

una vicenda che appare così improbabile, così poco credibile,<br />

così assurda per certi versi: a un passo dalla grazia,<br />

<strong>Mesina</strong> è impazzito? «Non ne ho idea. Io so che<br />

ognuno deve vivere facendo quello che sa fare. Gli incidenti<br />

di percorso capitano proprio a questa gente, ai vigilati<br />

speciali voglio dire».<br />

Man mano che ci si interroga su cosa possa essere<br />

realmente accaduto, emergono nuovi particolari. Pare<br />

147


cioè che i due genovesi abbiano chiesto a <strong>Mesina</strong> una<br />

vendetta contro Giorgio Men<strong>del</strong>la, telefinanziere che<br />

gli avrebbe soffiato risparmi per circa un miliardo. Graziano,<br />

sempre stando a voci incontrollate, non avrebbe<br />

soltanto garantito la rappresaglia ma si sarebbe spinto<br />

un po’ più in là: perché non sequestrare la fidanzata di<br />

Men<strong>del</strong>la, Patricia Palmero, a Montecarlo? Si potrebbe<br />

pretendere un riscatto di venti miliardi di lire e il gioco è<br />

fatto, risparmi restituiti a un interesse prodigioso. Solo<br />

che per mettere a segno un rapimento come questo in<br />

Costa Azzurra, servono caricatori per kalashnikov: potrebbero,<br />

visto che <strong>Mesina</strong> è quasi prigioniero nei confini<br />

<strong>del</strong> comune di Asti, andarglieli a comprare? Ne bastano<br />

sei, si acquistano facilmente in Svizzera.<br />

Per quanto possa apparire strana, questa è, grosso<br />

modo, la tesi <strong>del</strong>l’accusa. Tesi, importante ribadirlo,<br />

che si basa sulla testimonianza di Ferralis e Anfossi. Ad<br />

avvalorarla si aggiungono le intercettazioni telefoniche<br />

che vedono l’ex ergastolano, letteralmente scatenato, in<br />

crisi di astinenza da crimine.<br />

In una conversazione telefonica ascoltata dai carabinieri<br />

e inserita poi nel teorema <strong>del</strong>la pubblica accusa,<br />

sta parlando ad esempio con un certo Salvatore e gli<br />

chiede notizie a proposito di un banchiere di Alessandria<br />

ritenuto socio di Gianni Agnelli. È uno che ha molti<br />

quattrini, uno che può pagare? Gli interrogativi <strong>del</strong><br />

dialogo sono di questo tipo fino a quando non si scende<br />

nei particolari.<br />

<strong>Mesina</strong>: «Ma questo ne ha figli?»<br />

Salvatore: «Tre, e tutti sono grandi».<br />

<strong>Mesina</strong>: «E se se ne prendesse uno e ci si facesse portare<br />

un miliardo in giornata? Li recupera i soldi?»<br />

148<br />

Salvatore: «Sì, sì».<br />

La registrazione di questa chiacchierata è agli atti<br />

processuali. Porta la data <strong>del</strong> 13 luglio 1993. Roberto<br />

Piazza, un tecnico che a suo tempo si è occupato <strong>del</strong>le<br />

intercettazioni <strong>del</strong>le telefonate tra le Brigate Rosse e i familiari<br />

di Aldo Moro, conclude la perizia fonica: l’attendibilità<br />

sul fatto che si tratti <strong>del</strong>la voce di Graziano <strong>Mesina</strong><br />

oscilla tra il 95 e il 99 per cento. Margine di errore<br />

che va dall’uno al cinque per cento. Dunque non sembrano<br />

esserci dubbi su chi stia realmente parlando nei<br />

nastri registrati dalla procura distrettuale antimafia. Il<br />

fatto è, sostiene il pubblico ministero, che quello messo<br />

sotto osservazione è un periodo di grande libertà per<br />

<strong>Mesina</strong>. Contattato per fare l’emissario nel corso <strong>del</strong> rapimento<br />

Kassam, Graziano si muove senza problemi di<br />

sorta, disattiva i suoi personalissimi sistemi di vigilanza<br />

e di diffidenza. Non immagina che per la magistratura<br />

quello è invece il momento giusto per osservarlo con la<br />

lente d’ingrandimento, l’occasione propizia per verificare<br />

le vere intenzioni di un ergastolano in libertà vigilata.<br />

Una sola controdeduzione: durante il rapimento di<br />

Farouk non era stato proprio <strong>Mesina</strong> a lamentarsi dei<br />

continui pedinamenti, <strong>del</strong> telefono costantemente sotto<br />

controllo? Difficile far conciliare queste affermazioni<br />

con un uso <strong>del</strong>l’apparecchio a dir poco spregiudicato,<br />

oltre che ingenuo.<br />

Durante le indagini seguite ai clamorosi arresti di luglio,<br />

Elio Ferralis viene tenuto in carcere per appena<br />

dieci giorni: ottiene gli arresti domiciliari per ragioni di<br />

salute. Anfossi resta dentro per cinque mesi, in isolamento.<br />

Il primo marzo <strong>del</strong> ’94 concede un’intervista telefonica<br />

che apre ambigui squarci sulla vicenda.<br />

149


– Conosceva <strong>Mesina</strong>?<br />

«No. Io ed Elio Ferralis abbiamo pensato a lui quando<br />

ci siamo accorti che non avremmo mai più rivisto i<br />

soldi che avevamo dato a Men<strong>del</strong>la. Di mio c’erano cinquecento<br />

milioni, soldi che mi hanno lasciato mio padre<br />

e mie zie. Ho detto tutto alla polizia francese, sono in<br />

collegamento con un ispettore».<br />

– Che doveva fare <strong>Mesina</strong>?<br />

«Farci restituire i soldi. Dai giornali abbiamo saputo<br />

che abitava ad Asti e allora siamo andati a trovarlo. <strong>Lo</strong><br />

abbiamo incontrato complessivamente quattro volte.<br />

Una volta gli ho detto che la polizia ci aveva pedinato fino<br />

a casa sua. Non importa, ha risposto».<br />

– Lei è, come si dice, un collaboratore di giustizia?<br />

«No, all’inizio pensavo lo fosse <strong>Mesina</strong>. Sì, proprio<br />

lui. Mi faceva pensare non vederlo preoccupato per tutta<br />

quella gente che avevamo attorno. Poi, durante il terzo<br />

incontro, ha domandato se potevamo fargli un favore.<br />

Aveva bisogno di sei caricatori per kalashnikov».<br />

– E in cambio si sarebbe occupato di Men<strong>del</strong>la?<br />

Anfossi: «No, no. Men<strong>del</strong>la era un discorso a parte.<br />

Elio gli aveva portato una sua pistola, regolarmente denunciata.<br />

Non ricordo se gliel’avesse chiesta <strong>Mesina</strong>.<br />

Ricordo invece che ci disse dove avremmo potuto trovare<br />

i caricatori. In Svizzera».<br />

– Quando avete comprato i caricatori?<br />

«Subito dopo. Li abbiamo sistemati in una busta di<br />

pane, dentro uno zainetto. Poi abbiamo telefonato dicendogli<br />

abbiamo cioccolatini per te. Sapevamo che<br />

avrebbe capito. Nella casa <strong>del</strong> suo datore di lavoro, in<br />

via Guttuari, siamo arrivati puntualissimi. Subito dopo<br />

di noi, i carabinieri. In quel momento ho pensato: Mesi-<br />

150<br />

na ci ha fregato. Cosa ricordo di quel momento? La<br />

confusione e la ricerca di armi, che non sono state trovate».<br />

– Dopo l’arresto le hanno chiesto di accusare <strong>Mesina</strong>?<br />

«No. È successo di peggio. Mi volevano implicare in<br />

storie strane. Per sessanta giorni non mi hanno fatto<br />

dormire. Mi insultavano dallo spioncino <strong>del</strong>la cella oppure<br />

facevano rumore. Ininterrottamente, senza smettere<br />

un attimo. Credevo di impazzire. Ricordo rumori<br />

metallici contro la parete. Tutta la notte. Tutta. Ogni<br />

tanto arrivava qualcuno che, senza qualificarsi, mi chiedeva<br />

di firmare verbali in cui mi autoaccusavo di aver<br />

compiuto azioni terroristiche».<br />

– La interrogavano uomini dei Servizi?<br />

«Servizi segreti, vuol dire? Non lo so. L’ho detto, era<br />

gente strana. Mi hanno riferito di aver perquisito la mia<br />

casa. Ho scoperto poi che l’avevano praticamente distrutta.<br />

Non ho dimenticato, continuo a fare indagini».<br />

– Indagini su cosa?<br />

«Su Men<strong>del</strong>la, perché il <strong>caso</strong> Men<strong>del</strong>la e quello di<br />

Graziano <strong>Mesina</strong> marciano insieme. Al momento opportuno<br />

dirò di più».<br />

Al processo, che si apre sette mesi dopo, non dirà affatto<br />

di più. Anzi, dovrà superare qualche momento di<br />

evidente imbarazzo. Per esempio quando l’avvocato<br />

Passeri gli chiede se è un confidente <strong>del</strong>le forze <strong>del</strong>l’ordine.<br />

«A questa domanda preferirei non rispondere»,<br />

dice rivelando sicuramente molto più di quel che avrebbe<br />

voluto.<br />

A parare i colpi <strong>del</strong>la dietrologia pensa il pubblico<br />

ministero, Francesco Saluzzo, soprannominato Saluzzo<br />

151


il Duro per il suo rigore. Sventolando le dodici pagine<br />

che compongono la fedina penale di <strong>Mesina</strong>, taglia corto<br />

sostenendo che si tratta di un “<strong>del</strong>inquente abituale”<br />

eccessivamente fiducioso in se stesso, convinto che il<br />

ruolo di emissario nella vicenda Kassam gli desse una<br />

sorta di impunità. Nessun accenno all’ipotesi che possano<br />

essere entrati in gioco i servizi di sicurezza. Anche<br />

se, come si sa, non sarebbe una novità: nel marzo <strong>del</strong> ’93<br />

il Comitato parlamentare per i servizi di informazione<br />

aveva ascoltato a lungo Graziano sui risvolti <strong>del</strong>la liberazione<br />

di Farouk.<br />

Per Saluzzo non suscitano perplessità neppure le misteriose<br />

incursioni nella casa di San Marzanotto (una<br />

serratura forzata e la sostituzione di un vetro). La Corte,<br />

nella motivazione <strong>del</strong>la sentenza afferma: «Inequivocabili<br />

sono le espressioni usate nelle telefonate intercettate».<br />

La conseguenza è che «l’argomentare difensivo di<br />

<strong>Mesina</strong> è alquanto debole, soprattutto nelle ragioni che<br />

avrebbero determinato il complotto».<br />

«I falsi eroi finiscono nella polvere», dichiara, quasi<br />

stesse dettando un epitaffio, l’ex ministro degli Interni,<br />

Nicola Mancino. Per lui, come per altri <strong>del</strong> resto, il <strong>caso</strong><br />

è chiuso. Nessuno che si chieda come mai Ferralis e Anfossi,<br />

che pure sono dichiaratamente complici di <strong>Mesina</strong>,<br />

riescano a strappare una condanna così lieve. O almeno<br />

lieve quanto basta per non doverla scontare in galera.<br />

E Graziano, che dice? Prima di rientrare definitivamente<br />

nel carcere di Novara rifiutandosi di continuare<br />

ad assistere alle udienze, ha sostenuto di non aver<br />

commissionato a nessuno l’acquisto di armi. «Quella<br />

roba è stata sistemata da qualcuno nella villetta di San<br />

Marzanotto». Anfossi e Ferralis, conclude, sono soltan-<br />

152<br />

to pedine di una trappola organizzata a una manciata di<br />

settimane dalla concessione <strong>del</strong>la grazia. Un discorso<br />

che per il Tribunale non vale, si arrampica sugli specchi<br />

poiché, nei fatti, le tesi <strong>del</strong>l’imputato «appaiono astruse<br />

e contraddittorie».<br />

Sei anni e mezzo di reclusione. L’avvocato Pier Navino<br />

Passeri ha presentato ricorso in Appello. Forse il<br />

tempo può far sedimentare certe asprezze e consentire<br />

una riflessione più ponderata, comunque più attenta alle<br />

argomentazioni <strong>del</strong>la difesa.<br />

Il resto è fatto di impressioni, sensazioni che – fatto<br />

salvo il riconoscimento <strong>del</strong>la buona fede – spalancano<br />

la porta a troppe domande. Roberto Gonella, giornalista<br />

<strong>del</strong> quotidiano torinese «La Stampa», ha seguito<br />

passo passo il processo di Asti. «E debbo dire che ho<br />

avvertito qualcosa di <strong>strano</strong> fin dall’inizio. Ho visto i<br />

verbali di arresto di Anfossi e Ferralis: uguali, sembravano<br />

in fotocopia. A parte questo, mi stupisce un <strong>Mesina</strong><br />

che si fa trovare armi in casa. Ingenuo, no? Complessivamente<br />

debbo dire che il dibattimento mi ha lasciato<br />

perplesso. Ci sono molti punti a favore <strong>del</strong>la tesi<br />

<strong>del</strong>la colpevolezza, ma altrettanti che lascerebbero<br />

pensare a una montatura. Da quando faccio il cronista<br />

giudiziario, è senz’altro il processo più singolare che mi<br />

sia capitato di seguire. Adesso, a sentenza fatta, a vicenda<br />

dimenticata o comunque archiviata, mi succede di<br />

pensarci ancora. Mi succede di domandarmi, di interrogarmi<br />

e non trovare un percorso logico».<br />

Cioè un sufficiente ventaglio di prove che giustificasse<br />

la condanna, e una condanna così severa. Il pubblico<br />

ministero Francesco Saluzzo aveva addirittura<br />

sollecitato una pena più consistente: quattordici anni.<br />

153


Troppi? «Mai abbastanza per un <strong>del</strong>inquente abituale».<br />

Ne è convinto anche Fateh Kassam che, pur rifiutando<br />

qualunque commento sul verdetto, si limita a dire di<br />

non essere sorpreso. Grande amarezza, invece, nelle parole<br />

<strong>del</strong> giudice Pietro Fornace: «<strong>Mesina</strong> ha tradito la<br />

nostra fiducia, la simpatia che gli avevamo dimostrato.<br />

Non merita indulgenza».<br />

Inutile chiedere al magistrato un’opinione sulla sentenza<br />

di Asti, si asterrebbe – com’è giusto – da qualunque<br />

giudizio. Ma questo non dissolve i dubbi: chi ha<br />

forzato la serratura di San Marzanotto, chi ha sostituito<br />

il vetro? E ancora: davvero <strong>Mesina</strong> era così stupido da<br />

nascondere armi in casa, una casa visitata ogni giorno<br />

dai carabinieri? Se tutto questo è vero, perché non è<br />

stato eseguito dalla Scientifica un esame dattiloscopico,<br />

perché non sono state cercate le sue impronte digitali<br />

sull’arsenale nascosto nella villetta?<br />

Non si tratta di volere <strong>Mesina</strong> innocente a tutti i costi.<br />

La questione è più ampia. Si tratta di dimostrare fino<br />

in fondo la sua colpevolezza. L’inchiesta di Asti tradisce<br />

più di una fragilità e riempie di incertezze il cammino<br />

verso la sentenza. In una civiltà giuridica avanzata, come<br />

la nostra, non si può non tener conto dei veleni <strong>del</strong><br />

<strong>caso</strong> Kassam. Tanto, che piacesse o no, quei veleni sono<br />

comunque penetrati nell’aula <strong>del</strong> Tribunale.<br />

A chi ha giovato tanta fretta, qualche evidente superficialità<br />

d’indagine e alcune palesi manchevolezze? Per<br />

quanto possa apparire grottesco a causa di un amarissimo<br />

finale, tutto questo torna utile proprio a <strong>Mesina</strong>.<br />

Che rientra, certo, definitivamente in galera, ma si fa accompagnare<br />

dal dubbio che, in fondo in fondo, possa<br />

essere sul serio una vittima. Ancora una volta, se fosse<br />

154<br />

colpevole, sarebbe riuscito a beffare tutti: anche se poi<br />

avrà poco da esultare di tale vittoria. Ma questo è un altro<br />

problema.<br />

155


XIII<br />

Polvere di mito<br />

Nel suo studio di piazza Statuto ad Asti, l’avvocato<br />

Pier Navino Passeri legge e rilegge copia <strong>del</strong> ricorso in<br />

appello sullo <strong>strano</strong> <strong>caso</strong> <strong>del</strong> <strong>signor</strong> <strong>Mesina</strong>. <strong>Lo</strong>ntano<br />

per educazione dai toni apocalittici e roboanti, privilegia<br />

la riflessione alle urla. È stato designato d’ufficio.<br />

E la qualifica di “difensore d’ufficio” ha mantenuto<br />

per tutta la durata <strong>del</strong> processo. Il suo cliente, euforicamente<br />

querulo nei giorni <strong>del</strong> successo, lo ha quasi<br />

ignorato. Dai colloqui in carcere è riuscito a tirargli<br />

fuori ben poco, salvo un ritornello ossessivo: «Mi hanno<br />

incastrato».<br />

Nello <strong>strano</strong> <strong>caso</strong> <strong>del</strong> <strong>signor</strong> <strong>Mesina</strong>, dice l’avvocato<br />

Passeri, c’è innanzitutto un imputato che «ha rinunciato<br />

totalmente a difendersi». Potrebbe trattarsi di tattica<br />

processuale, finezze a effetto psicologico garantito da<br />

utilizzare nei momenti difficili. Resta il fatto che senza<br />

una linea difensiva diventa piuttosto difficile uscire vivi<br />

da un dibattimento come quello sulle armi trovate a<br />

San Marzanotto. «Può anche darsi che l’abbiano intrappolato,<br />

ma ci vogliono prove per dimostrarlo».<br />

E le prove ci sono? Più che prove vere e proprie, indizi,<br />

segnali inquietanti. Quando è stato arrestato, nell’estate<br />

<strong>del</strong> ’93, <strong>Mesina</strong> sapeva ad esempio che nell’ar-<br />

157


co di una ventina di giorni la sua pratica per la grazia<br />

avrebbe ricevuto la spinta finale. Possibile, s’interroga<br />

l’avvocato Passeri, che a un soffio dalla libertà definitiva,<br />

decida di attraversare un vespaio? L’altro mistero,<br />

ammesso che sia corretto definirlo così, riguarda a suo<br />

parere la rottura <strong>del</strong> rapporto tra <strong>Mesina</strong> e il vecchio<br />

difensore, Gabriella Banda. Nella fase immediatamente<br />

successiva all’arresto, quella dei primi interrogatori<br />

nel carcere di Novara, è anche comparso l’avvocato<br />

Giannino Guiso, designato con un telegramma difensore<br />

di fiducia. Avrebbe dovuto lavorare in tandem<br />

con Gabriella Banda. Invece accade qualcosa di singolare:<br />

Guiso assiste a un incontro tra imputato e pubblico<br />

ministero, poi si ritira. A distanza di pochi giorni, fa<br />

lo stesso l’avvocato Banda. Che sulla questione, come<br />

abbiamo già avuto occasione di dire, non intende parlare:<br />

«Il <strong>caso</strong> è chiuso». Rimanda i chiarimenti a un futuro<br />

vago e imprecisato, limitandosi a puntualizzare,<br />

quasi fosse davanti ad allievi che studiano diritto penale,<br />

che un difensore può rinunciare al mandato in qualunque<br />

momento. Perché non nascano dubbi di carattere<br />

personale o privato, rammenta di aver svolto il suo<br />

lavoro con impegno e partecipazione, augura «a Graziano<br />

buona fortuna, ne ha bisogno». Chiude con una<br />

frase enigmatica: «Mi dispiace».<br />

Cos’è accaduto? È uno degli interrogativi di questa<br />

vicenda. Alcuni hanno preso corpo nelle tesi che l’avvocato<br />

Passeri proporrà in Appello. A cominciare dalla<br />

mancanza di un esame dattiloscopico sulle armi. «Possibile<br />

che chi ha un’arma in casa non la maneggi, non la<br />

sfiori, non ne verifichi in qualche modo la funzionalità?»<br />

Deplorevole dimenticanza, nessuno ci ha pensato.<br />

158<br />

Poi c’è l’incongruenza <strong>del</strong>le perquisizioni eseguite a ridosso<br />

<strong>del</strong>la visita di giornalisti (e di chiunque altro avesse<br />

voluto approfittare), le piccole preoccupanti manomissioni<br />

a una serratura e a una finestra.<br />

«È tutto, tutto insensato» per un difensore, sia pure<br />

d’ufficio, con la pretesa di voler capire, possibilmente<br />

arrivare alla verità. Certo, resta la terribile prova <strong>del</strong>le<br />

intercettazioni, telefoniche e ambientali. <strong>Mesina</strong> ha detto<br />

che qualcuno ha imitato la sua voce. Ammesso che sia<br />

vero (ma non è possibile a meno che non si voglia sconfinare<br />

ai limiti <strong>del</strong>le conoscenze tecnologiche), potrebbe<br />

essere accaduto solo per le intercettazioni sul telefono.<br />

Ma che dire di quelle ambientali, cioè <strong>del</strong>le “pulci”<br />

nascoste nella villetta di San Marzanotto? Registrare<br />

dialoghi familiari e successivamente sovrapporre voci<br />

diverse per irrobustire il castello <strong>del</strong>l’accusa è impensabile,<br />

un’operazione che metterebbe in difficoltà perfino<br />

gli eroi polizieschi d’un romanzo.<br />

Tutto questo non impedisce di avvistare qualche<br />

nebbia. Domenico Anfossi, altro protagonista <strong>del</strong> processo,<br />

è stato sottoposto a perizia psichiatrica e dichiarato<br />

sano di mente. La sua, hanno detto i medici, è una<br />

personalità di tipo schizoide ma questo non ne altera<br />

l’attendibilità né la fondatezza <strong>del</strong>le deposizioni.<br />

Mettendo insieme tutti questi elementi, viene da<br />

pensare che nei suoi diciotto mesi di libertà Graziano<br />

<strong>Mesina</strong> abbia cercato inconsciamente di tornare in prigione:<br />

prima rischiando di bruciarsi (e difatti s’è bruciato)<br />

col sequestro Kassam e, subito dopo, con la storia<br />

<strong>del</strong>le armi ad Asti. Troppe domande restano senza risposta,<br />

sospese sul filo <strong>del</strong>la imperscrutabilità <strong>del</strong>l’anima<br />

o di qualcosa che le somiglia. La logica non aiuta a<br />

159


capire, a spiegare la scelta suicida di un uomo che cercava<br />

aria pulita dopo una vita da recluso.<br />

Un tarlo che rode anche la mente di Mario Borghezio,<br />

torinese di 46 anni, avvocato civilista ma, soprattutto,<br />

deputato <strong>del</strong>la Lega e sottosegretario alla Giustizia.<br />

È l’unico rappresentante ufficiale di un partito a essersi<br />

preso cura <strong>del</strong>la disavventura di <strong>Mesina</strong>. Oggi che non<br />

fa più parte <strong>del</strong>l’opposizione in Parlamento, non può ripetere<br />

le durissime dichiarazioni di un anno fa. Però,<br />

mostrando rispetto di se stesso e coerenza, non le rinnega.<br />

Cosa aveva detto? Gli appariva decisamente singolare<br />

che Graziano, arrestato alle 9,40 <strong>del</strong> mattino, avesse<br />

potuto vedere le armi sequestrate soltanto dopo mezzogiorno.<br />

«Ho rilevato troppi punti oscuri, già evidenti<br />

dalla testimonianza resa davanti alla Commissione parlamentare<br />

sui servizi di sicurezza. Negli ultimi tempi<br />

<strong>Mesina</strong> ha respinto una processione di ambigui personaggi<br />

che andavano a trovarlo, che volevano parlargli.<br />

Uno nascondeva perfino un registratore nella giacca».<br />

Borghezio, che tra l’altro aveva presentato un’interrogazione<br />

per conoscere quale forza di polizia avesse fermato<br />

<strong>Mesina</strong> il 29 luglio ad Asti, ha manifestato la necessità<br />

di una mobilitazione per scongiurare il pericolo<br />

che Graziano esca dalla galera coi piedi davanti.<br />

Chissà se il sottosegretario alla Giustizia, passato dai<br />

banchi <strong>del</strong>l’opposizione a quelli <strong>del</strong>la maggioranza e <strong>del</strong><br />

Governo, è rimasto nel frattempo <strong>del</strong>la stessa opinione.<br />

La violenza <strong>del</strong>le parole pronunciate poco più di un anno<br />

fa ha ceduto il passo al soffice dizionario ministeriale.<br />

Ma a ben guardare, non è cambiato nulla. Si attenua<br />

soltanto la brutalità dei colpi, la sostanza resta quella di<br />

sempre. A proposito <strong>del</strong>la voce che lo Stato possa aver<br />

160<br />

pagato un miliardo per il rilascio di Farouk, Borghezio<br />

aveva più di un sospetto non troppi mesi fa. Ora glissa<br />

sottolineando tuttavia che la deposizione di Broccoletti<br />

al processo sui fondi neri <strong>del</strong> Sisde «lascia pensare». Cosa<br />

lasci pensare non lo dice esplicitamente, un viceministro<br />

non può. Stesso discorso, anzi vagamente più ecumenico,<br />

per la condanna inflitta a <strong>Mesina</strong> dal Tribunale<br />

di Asti. «Il nostro ordinamento prevede diversi gradi di<br />

giudizio perché si possa, se occorre, aggiustare il tiro,<br />

essere più equi, più giusti». Ovvero: se avete sbagliato,<br />

per gentilezza rimediate.<br />

Borghezio deve aver fatto uno sforzo notevole per<br />

acquisire un linguaggio che ricorda le encicliche papali.<br />

Il 10 agosto <strong>del</strong> ’93, in un’intervista dal titolo provocatorio<br />

(“C’è da salvare un sudista”), parlava su registri<br />

assai differenti. Al ritorno da un incontro nel carcere di<br />

Novara, aveva sparato sicuro: «<strong>Mesina</strong> mi ha detto che<br />

vogliono fargli pagare le rivelazioni sul sequestro Kassam.<br />

Io so che ha creato enormi imbarazzi. Le sue rivelazioni,<br />

chiare e sincere, contrastano con la versione ufficiale,<br />

poco credibile. <strong>Mesina</strong> poi ha avuto il torto di<br />

opporsi al blitz che le forze <strong>del</strong>l’ordine volevano compiere<br />

per liberare l’ostaggio». Di più. Al ministro Mancino<br />

e alla sua certezza che prima o poi i falsi eroi finiscono<br />

nella polvere, Borghezio replicava: «Al ministro<br />

Mancino potrei dire che c’è più pulizia morale nelle parole<br />

di <strong>Mesina</strong> sul <strong>caso</strong> Kassam che nelle dichiarazioni<br />

di tanti politici». E a proposito di un certo mutismo che<br />

avvolgeva la vicenda, aveva concluso con un colpo di<br />

grazia alla sua stessa categoria. «La mia è una battaglia<br />

di principio. Anzi, debbo dire che mi stupisce il silenzio<br />

dei politici attorno a questo episodio».<br />

161


E qui tocca il cuore <strong>del</strong> problema. Perché la vicenda-<br />

<strong>Mesina</strong> non diventa un <strong>caso</strong> politico?, come mai le segreterie<br />

di partito, di solito così prodighe di commenti<br />

fluviali su qualunque tema, tacciono chiudendosi in difesa?<br />

A sostenere il diritto alla verità per il sardo <strong>Mesina</strong><br />

è soltanto un onorevole leghista. Perché in <strong>Sardegna</strong><br />

non ci si domanda cos’è veramente accaduto, se esista<br />

uno spartiacque tra colpevolezza e rappresaglia?<br />

Per capire, bisogna conoscere a fondo i meccanismi<br />

che regolano la vita dei partiti, almeno di quelli storici,<br />

istituzionali. Al di là <strong>del</strong>le buone intenzioni, <strong>del</strong>l’eventuale<br />

indignazione dei singoli, sopravvale su tutto e tutti<br />

una “ragion di partito” che è uguale e parallela a quella<br />

di Stato. <strong>Mesina</strong>, che in quei giorni pareva a buona parte<br />

degli italiani vittima di una clamorosa ingiustizia, è<br />

carne che scotta.<br />

In pieno caos, quando le fiamme si alzano pericolosamente<br />

minacciando i vertici <strong>del</strong>lo Stato, in <strong>Sardegna</strong> i<br />

partiti <strong>del</strong>la sinistra si avvicinano, annusano e si allontanano.<br />

Quelli di centro e di destra non si pongono neppure<br />

il problema: il <strong>caso</strong> non esiste, faccende quasi private<br />

che investono magistratura e giornali.<br />

A pensarci bene, cavalcare una campagna per sostenere<br />

l’innocenza <strong>del</strong> popolarissimo Grazianeddu avrebbe<br />

potuto far comodo. Allora perché, fatta eccezione di<br />

un soldato di Bossi, nessuno lo fa? Perché <strong>Mesina</strong> rappresenta<br />

una scommessa ad altissimo rischio. Nel senso<br />

che tutto potrebbe risolversi in una sconfitta bruciante:<br />

un partito che difende un criminale? Inammissibile. La<br />

verità è che, sia pure inconsciamente (nel senso che nessuno<br />

avrebbe mai il coraggio di confessarlo neppure a<br />

se stesso), il sistema dei partiti respinge di fatto il princi-<br />

162<br />

pio che l’espiazione <strong>del</strong>la pena renda davvero liberi,<br />

davvero uguali. Dopo centocinquant’anni di carcere,<br />

Graziano <strong>Mesina</strong> resta Graziano <strong>Mesina</strong>, non è affatto<br />

vero che abbia gli stessi diritti di un qualunque cittadino.<br />

O, più esattamente, ha gli stessi diritti soltanto in<br />

teoria. In pratica, nella pratica <strong>del</strong>la durissima battaglia<br />

politica quotidiana, è soltanto uno straccio, basta un alito<br />

di tramontana per farlo volare.<br />

I principi <strong>del</strong>l’ordinamento giuridico valgono finché<br />

restano nell’ambito dei dibattiti, <strong>del</strong>le tavole rotonde,<br />

<strong>del</strong>le aule di Tribunale. Valgono nei dispositivi<br />

<strong>del</strong>le sentenze, nelle solenni cerimonie d’inaugurazione<br />

<strong>del</strong>l’anno giudiziario. Poi bisogna fare i conti con la<br />

realtà. Manca la sensibilità e il coraggio culturale per<br />

fare il salto, accettare che un diverso possa essere uguale<br />

a noi.<br />

Un detenuto che sconta una pena, e soprattutto una<br />

pena come quella scontata da <strong>Mesina</strong>, non è molto differente<br />

da un handicappato. Ha davanti insormontabili<br />

barriere architettoniche: che non dovrebbero esistere,<br />

che non dovrebbero esserci in nome <strong>del</strong>la civiltà <strong>del</strong> diritto,<br />

ma che invece sono lì. A ricordargli, lugubre memento<br />

mori, che la galera può continuare anche fuori.<br />

Basta pensare ai casi di quegli ex reclusi che non riescono<br />

a trovare lavoro (ma il lavoro non lo trovano neppure<br />

quelli che hanno una fedina penale adamantina), che faticano<br />

a reinserirsi e allora bombardano i giornali di lettere<br />

piagnucolose e offese.<br />

Un accidente parallelo a quello di <strong>Mesina</strong> riguarda le<br />

disgrazie miliardarie di Marcello Scomazzon, ex cassiere<br />

capo <strong>del</strong>la Regione <strong>Sardegna</strong> colpevole di aver raschiato<br />

poco più di novemila milioni dalle pubbliche<br />

163


casse. Il dottor Scomazzon, funzionario al di sopra di<br />

ogni sospetto e ladro dichiarato, ha confessato le sue<br />

criminali acrobazie finanziarie ed è stato condannato.<br />

Quando è uscito dal carcere, dopo essersi detto pentito<br />

e redento, dopo aver presentato alla collettività le scuse<br />

di ex gentiluomo, ha trovato un posto di lavapiatti in<br />

una trattoria e, più tardi, di operaio in un’agenzia di pulizie.<br />

Il suo è stato un tonfo sordo, dalle stelle alle stalle,<br />

senza passaggi intermedi che potessero attutire l’urto.<br />

Ha fatto tutto quello che deve fare un cittadino disonesto<br />

che ammette le sue responsabilità. E poi? Vaga, nel<br />

disperato tentativo di trovare un impiego stabile (visto<br />

che ha moglie e due figlie), un futuro appena più solido<br />

di quello che gli si prospetta davanti, prigione all’aria<br />

aperta, dietro le sbarre tra gente libera di commiserarlo.<br />

Nel <strong>caso</strong> di Graziano <strong>Mesina</strong>, bandito con un certificato<br />

penale che va da pagina uno a pagina dodici, tutto<br />

diventa ancora più complicato. A difendere non un’ipotesi<br />

di innocenza ma la certezza <strong>del</strong> diritto è sceso in<br />

piazza soltanto l’onorevole Mario Borghezio. Gli altri si<br />

sono fatti in là, come una folla spaventata.<br />

Non avvicinarsi, pericolo. A molti deve essere sembrato<br />

che il semplice interrogarsi a voce alta, pubblicamente,<br />

potesse configurare una specie di favoreggiamento.<br />

Oppure, visto da tutt’altra prospettiva, l’affiancamento<br />

a quella curva sud che tifa un bandito proprio<br />

come si fa per un goleador. Con o senza trent’anni di galera<br />

sulla groppa, nonostante questo sia tutt’altro che<br />

marginale, un fuorilegge può suscitare al massimo indifferenza.<br />

Non troverà intellettuali disposti a sottoscrivere<br />

un manifesto per sollecitare indagini più approfondite,<br />

qualche autorevole penna disposta a valutare i fat-<br />

164<br />

ti, a far parlare le prove senza lasciarsi condizionare (o<br />

allontanare) dal nome <strong>Mesina</strong>.<br />

Nella breve parentesi di libertà, Graziano ha comunque<br />

sferrato un uppercut alla credibilità <strong>del</strong>le istituzioni.<br />

È stato molto più duro, e di conseguenza più dannoso,<br />

di quanto non fosse da latitante inafferrabile, da primula<br />

rossa <strong>del</strong> Supramonte. Lavorando fianco a fianco<br />

alle forze <strong>del</strong>l’ordine, senza far cantare mitragliette e<br />

bombe a mano come nella tempestosa gioventù, ha dimostrato<br />

che nel sequestro di Farouk una soluzione c’era,<br />

un’uscita di sicurezza che consentiva di riportare a<br />

casa il bambino senza scatenare l’inferno <strong>del</strong>le teste di<br />

cuoio.<br />

Poi forse s’è fatto prendere la mano da un ispido senso<br />

di balentìa: non gli bastava una vittoria ufficiosa, voleva<br />

anche provare l’ebbrezza <strong>del</strong>la beffa, l’incoronazione<br />

a campione per kappaò. Per questo ha scelto di<br />

sfidare magistrati, ministri e capo <strong>del</strong>la polizia. Quello<br />

sulla liberazione <strong>del</strong> piccolo Kassam è stato uno dei<br />

conflitti a fuoco più impegnativi <strong>del</strong>la sua lunga navigazione<br />

criminale.<br />

In ogni <strong>caso</strong>, quando verrà il momento di collocarlo<br />

nella galleria <strong>del</strong> banditismo, accanto al ritratto di tanti<br />

protagonisti di una millenaria civiltà di sangue e di vendetta,<br />

avrà la consolazione di essere considerato l’ultimo<br />

allievo d’una vecchia scuola. Più che vecchia, incartapecorita.<br />

Anzi, morta e sepolta nell’avanzata di un<br />

mondo nuovo, senza regole e senza dèi, dove la vita non<br />

vale più di una cartuccia.<br />

Altri tempi e altre storie sgomitano per conquistare<br />

spazio in cronaca. Il 6 ottobre <strong>del</strong> ’94, quindici anni dopo<br />

la scoperta di un gigantesco arsenale <strong>del</strong>le Brigate<br />

165


Rosse a Monte Pizzinnu, i carabinieri trovano una santabarbara<br />

agropastorale nelle campagne di Austis. È il<br />

più grosso quantitativo d’armi mai rinvenuto in <strong>Sardegna</strong>:<br />

fucili, pistole, bombe a mano, ottomila munizioni e<br />

perfino qualche pezzo d’amatore come un Beretta a siringa<br />

col calcio inciso (“Sesta brigata Nello”) perfettamente<br />

efficiente. Un campionario strepitoso che comprende<br />

silenziatori per pistola, caricatori per kalashnikov,<br />

Winchester, Mab, Garand, Mauser. L’operazione è<br />

grossa, tant’è che nei titoli di coda, quelli destinati ai<br />

ringraziamenti, figura anche il Sismi, il servizio segreto<br />

militare.<br />

A chi servivano le armi scovate dai carabinieri? Scartata<br />

l’ipotesi di un gruppo eversivo, un’improbabile riesumazione<br />

<strong>del</strong> cadavere d’un qualunque partito armato,<br />

resta quella di un’evoluzione <strong>del</strong>la criminalità organizzata.<br />

Le armi servono a garantire e proteggere il riciclaggio<br />

<strong>del</strong>le narcolire, gli investimenti immobiliari <strong>del</strong>la<br />

mafia, il mercato <strong>del</strong>l’eroina che vanta in <strong>Sardegna</strong><br />

almeno ventimila affezionati clienti. La piazza cresce,<br />

pare rastrelli risparmi da piccoli commercianti che non<br />

si accontentano degli interessi bancari o di quello che<br />

rendono i Bot. Una catena di montaggio: quello che ufficialmente<br />

è un banalissimo prestito, in realtà diventa<br />

un investimento in droga. Ma chi mette i quattrini non è<br />

tenuto a saperlo e può dunque continuare a indossare<br />

una maschera di rispettabilità. A distanza di tre-sei mesi<br />

riavrà indietro i suoi soldi con interessi che neanche l’avidità<br />

<strong>del</strong> miglior strozzino potrebbe garantirgli. Anni<br />

fa a Cagliari la Guardia di Finanza ha frugato tra i registri<br />

contabili di alcuni negozianti, ha raccolto qualche<br />

indizio ma non è riuscita a chiudere il cerchio. È proba-<br />

166<br />

bile che non abbia abbandonato la partita e ci stia riprovando:<br />

da tempo sta tentando di scoprire dove finisca il<br />

danaro sottratto al fisco, l’attivo di bilanci commerciali<br />

palesemente addomesticati.<br />

Nel mare piatto <strong>del</strong>la nuova <strong>del</strong>inquenza, cresciuta<br />

soprattutto sui profitti legati allo spaccio di stupefacenti,<br />

uno come <strong>Mesina</strong> non potrebbe fare neppure il bagnino.<br />

Durante la reclusione non ha mai legato con detenuti<br />

che provenissero da questo ambiente. Ha scelto<br />

la frequentazione di assassini famosi e guerriglieri messi<br />

in pensione dalla Corte d’Assise. Le amicizie forti, quelle<br />

che restano, le ha strette però con poveracci che valevano<br />

sì e no qualche anno di carcere. Per esempio, il<br />

compagno di Parma, quello che gli ha domandato una<br />

cortesia che poteva costare il ritorno all’ergastolo.<br />

L’inferno, che credeva di aver definitivamente lasciato,<br />

gli ha riaperto le porte all’improvviso. Travolgendolo.<br />

E travolgendo per l’ultima volta la sua sicurezza,<br />

ma soprattutto la sua paura, quel senso di solitudine<br />

che l’ha accompagnato passo dopo passo nell’avventura<br />

di un povero detenuto troppo famoso, sorvegliato<br />

speciale. Era solo, solo contro tutti verrebbe da<br />

dire, in uno sciagurato ruolo da emissario nella torrida<br />

estate ’92 in <strong>Sardegna</strong>; solo ad Asti, circondato da armi<br />

e da un progetto di sequestro al limite <strong>del</strong> possibile, addirittura<br />

con una sortita all’estero per la cattura <strong>del</strong>l’ostaggio.<br />

Sul serio pensava a un rapimento? Ritorno alle<br />

origini, al mestieraccio d’un tempo, ammesso che le cose<br />

stiano davvero così.<br />

A ripensarci su, questa breve cavalcata in libertà<br />

condizionale offre a tratti la sensazione di una corsa verso<br />

l’autodistruzione, come se irrompesse improvvisa-<br />

167


mente il bisogno, la volontà di perdere dopo l’ultima,<br />

grande smargiassata da attempato miles gloriosus <strong>del</strong>la<br />

Barbagia. Colpisce quel che ha detto il suo avvocato vedendolo<br />

andar via dall’aula <strong>del</strong> Tribunale dove lo stavano<br />

processando: «In pratica <strong>Mesina</strong> ha rinunciato a difendersi».<br />

Forse ha ragione Montanelli quando dice che bisognerebbe<br />

conservarlo in teca, esemplare da custodire<br />

con cura sotto vetro. Basso. Fragile. Maneggiare con attenzione.<br />

Di tutto quello che è stato, non è rimasta che<br />

polvere.<br />

168<br />

Capitolo XIV<br />

Dieci anni dopo<br />

Dieci anni dopo, primavera 2003, Graziano <strong>Mesina</strong><br />

è in carcere a Voghera: speranze d’uscita, nessuna. Ha<br />

scontato in abbondanza le ultime condanne – una per<br />

le armi trovate nel suo casale d’Asti, l’altra per aver fatto<br />

l’emissario nel sequestro Kassam – ma un perverso<br />

meccanismo giudiziario lo conserva in galera con l’esaltante<br />

prospettiva “fine pena mai”. Ergastolano, insomma.<br />

Anche se nessun Tribunale <strong>del</strong>la Repubblica ha<br />

mai pronunciato un verdetto <strong>del</strong> genere.<br />

Istinto di sopravvivenza e un lampo <strong>del</strong>la vecchia<br />

astuzia gli suggeriscono che non è il <strong>caso</strong> di fare resistenza,<br />

non servirebbe. Meglio star zitti, mantenere un comportamento<br />

esemplare, non fraternizzare. E seppellirsi<br />

in attesa di una fine che, a sessantadue anni compiuti,<br />

non può essere lontanissima. Il guaio è che il fisico,<br />

nonostante uno zavorramento di chili dovuto alla vita<br />

da recluso, continua a reggere. Finora ha marcato visita<br />

soltanto per un’ernietta e manifesta stress attraverso vistose<br />

macchie sulla pelle. Vitiligine? Macché vitiligine,<br />

dice lui: tutta colpa di un dopobarba scaduto che gli ha<br />

rovinato collo e guance. E il gomito? Beh, il gomito si è<br />

infettato perché «grattandosi, è inevitabile».<br />

Soffre di una seria forma di depressione, ma non lo<br />

169


ammetterebbe nemmeno in compagnia di uno specchio<br />

e nessun altro. Eppure la <strong>signor</strong>a sardo-emiliana che lo<br />

va a trovare con regolarità, svela che «per un certo periodo<br />

abbiamo addirittura temuto un gesto definitivo».<br />

Alla depressione accenna pure la direttrice <strong>del</strong> carcere<br />

per smentire poi, con energia e vigore, appena la faccenda<br />

arriva ai giornali. Durante una chiacchierata telefonica<br />

con un giornalista che aveva chiesto un incontro<br />

col detenuto <strong>Mesina</strong>, s’era detta assai preoccupata.<br />

I segnali, d’altra parte, sono eloquenti: nessun contatto<br />

coi vicini di cella, rifiuto di partecipare ad attività<br />

collettive, disinteresse verso i problemi comuni, allergia<br />

ai programmi di socializzazione. Non gioca neppure a<br />

calcio: durante le ore d’aria concesse per lo svolgimento<br />

di partitelle inserite in un campionato interno, preferisce<br />

passeggiare – solo e pensoso – ai bordi <strong>del</strong> campo.<br />

Teme che anche una partita di pallone possa trasformarsi<br />

in trappola, possa accendere inimicizie pericolose.<br />

«<strong>Lo</strong> sport, se non è sport veramente, può suscitare<br />

scontri, antipatie, vendette. Meglio evitare».<br />

Contrariamente al passato, nessuna voglia di vedere<br />

gente dei giornali. La sindrome da celebrità, la voglia di<br />

apparire e mostrare il cammino percorso in un’esistenza<br />

di travolgente solitudine, è totalmente scomparsa. Di<br />

più: al fratello Salvatore, che una volta al mese va a trovarlo,<br />

confida che i riflettori dei media gli hanno soltanto<br />

nuociuto. Meglio quindi, per il momento, tenerli lontani<br />

e allungare il silenzio-stampa iniziato all’indomani<br />

<strong>del</strong>l’arresto nel ’93. Pazienza se si continua ininterrottamente<br />

a scrivere di lui. Come fa, per esempio, Cristina<br />

Giudici che ne traccia sul “Il Foglio” un ritratto di elegante<br />

profondità: «In apparenza un detenuto come tan-<br />

170<br />

ti. Invece questo <strong>signor</strong>e anziano, piegato dalle continue<br />

sconfitte, dalla depressione e dal desiderio ossessivo<br />

di poter vivere ancora molti anni, ma da uomo libero,<br />

è l’ultima immagine di un mito non ancora corroso dagli<br />

anni. Perché Graziano <strong>Mesina</strong>, ex re <strong>del</strong> Supramonte,<br />

bandito e balente <strong>del</strong>la Barbagia, è un mito. Con tutti<br />

i rischi <strong>del</strong>la retorica. Fuorilegge e gentiluomo. Taciturno,<br />

solitario, orgoglioso, fiero, perdente e dannatamente<br />

famoso. Pastore per nascita, divo per vocazione».<br />

O per necessità, per rabbia, o addirittura per un disperato<br />

bisogno di non annegare in una vita miserabile e<br />

senza storia.<br />

La questione <strong>del</strong>le crisi depressive deve essere tuttavia<br />

davvero allarmante se finisce in un rapporto inviato<br />

dalla direzione <strong>del</strong> carcere – in via riservata – al Dipartimento<br />

di amministrazione penitenziaria, l’ufficio romano<br />

dove si ammonticchiano le proposte d’intervista<br />

che <strong>Mesina</strong> non ha voluto degnare.<br />

<strong>Lo</strong> stizzoso furore che anima le smentite («A noi risulta<br />

in buona salute, non ha chiesto visite specialistiche»)<br />

rafforza il sospetto che sia tutto vero e che lo si voglia<br />

tenere nascosto. Testimoni e familiari riferiscono<br />

intanto di strani colloqui: «A tratti, sembra che nemmeno<br />

ti stia ascoltando: distante, dietro pensieri che lo fanno<br />

muto e <strong>strano</strong>».<br />

Chiacchierone, Graziano non lo è mai stato. Più<br />

semplicemente, ha fatto due più due: preso atto che intorno<br />

gli si è creato il vuoto, tenuto conto che la libertà<br />

pare definitivamente irraggiungibile, tanto vale lasciarsi<br />

andare, imprigionarsi dentro una prigione.<br />

Fin dal giorno <strong>del</strong>l’ultimo arresto, sceglie una linea<br />

di passività assoluta: non rivendica un solo giorno di<br />

171


permesso e neanche altri benefici previsti dalla legge<br />

che pure gli spetterebbero. Unica eccezione nel ’98,<br />

quando muore sua madre, zia Caterina, chiede di poter<br />

assistere ai funerali: permesso negato, tanto più che aveva<br />

manifestato il desiderio di poterci andare con le guardie<br />

ma senza manette.<br />

Adesso pare quasi preferisca rimuginare su se stesso,<br />

imbrigliato in una cella singola e comoda nel braccio<br />

Eiv (Elevato indice di vigilanza), ascoltare per ore e ore<br />

la musica di Celine Dion. «Ha il potere di stregarmi,<br />

quella cantante. Una voce speciale, una voce che mi fa<br />

uscire da qui e mi porta in luoghi lontanissimi». <strong>Lo</strong>ntano,<br />

nei chilometri e nel tempo: «Mi rivedo a Orgosolo<br />

quand’ero ragazzino. Rivedo mia mamma che, in pratica,<br />

non ho conosciuto. Tornavo da scuola (ho fatto fino<br />

alla quarta elementare) e andavo al gregge: in casa non<br />

c’ero mai. Mio padre è morto che avevo tredici anni, lo<br />

ricordo benissimo perché era almeno un anno che non<br />

ci incrociavamo». Struggimento <strong>del</strong>la memoria, <strong>del</strong>le<br />

cose perdute. Nostalgia, in senso stretto, no: «Però non<br />

è che lo rimpiango tanto, il paese. Se penso a quand’ero<br />

davvero bambino, mi dico che la cultura era quella, il<br />

posto era quello, la povertà era quella: cosa poteva<br />

uscirne da uno come me?»<br />

Non ha consolazioni religiose perché non è credente:<br />

«In tutta la mia vita, ho sempre creduto solo in<br />

quello che ho visto e toccato». Perciò gli manca l’addolcimento<br />

interiore <strong>del</strong>la preghiera che in molti casi –<br />

soprattutto nelle prigioni – è un prozac efficiente e rasserenante,<br />

certamente meno pericoloso <strong>del</strong>le inalazioni<br />

dalle bombolette di gas che garantiscono un caritatevole<br />

rincretinimento di qualche ora.<br />

172<br />

Ogni tanto cena insieme a un compagno di braccio,<br />

conosciuto in carcere, che presenta così: «È un sardo<br />

trapiantato a Milano. Vegetariano. Certi giorni ci facciamo<br />

minestroni stupendi». E se da casa hanno mandato<br />

<strong>del</strong> vino rosso, si può fare perfino uno strappo alla<br />

regola: «Io sono astemio, il vino che passa lo spaccio fa<br />

schifo ma se ne arriva da fuori, un mezzo bicchiere me<br />

lo faccio volentieri».<br />

La casa circondariale di Voghera è un prefabbricato<br />

grigio, incorniciato da un reticolato alto. Riflette<br />

l’ortodossia integralista degli anni di piombo, massima<br />

sicurezza, massimo squallore, nessuna concezione all’estetica<br />

(per non dire all’umano). Chi ha un appuntamento<br />

– regolarmente autorizzato dal ministero – deve<br />

infilare la carta d’identità in una buca da lettere, unico<br />

punto di contatto esterno d’una garitta sigillata da cristalli<br />

antiproiettile. Oltre il vetro, un agente di custodia<br />

manovra il passaggio dei documenti e governa una serie<br />

di tasti e pulsanti che aprono e chiudono i cancelli<br />

come in una città spaziale. Se dietro il vetro ci fosse un<br />

pesce rosso, sembrerebbe tutto più ovvio e naturale.<br />

Ogni movimento avviene nel massimo silenzio, un<br />

cenno di saluto appena abbozzato. Consegnata la carta<br />

d’identità, l’attesa è di un minuto appena: quanto<br />

basta per verificare la corrispondenza tra la foto <strong>del</strong><br />

documento e il visitatore che sta lì davanti. Poi, un cigolìo<br />

annuncia la lentissima apertura di una porta blindata<br />

che immette in un bu<strong>del</strong>lo di pochi metri quadri,<br />

pareti scure e sporche, armadietti dove depositare telefonini<br />

cellulari e tutto quello che non può arrivare alla<br />

173


sala colloqui. Passano cinque-sei minuti, sufficienti a<br />

pensare che in un posto così un claustrofobico diventerebbe<br />

pazzo in un lampo. Arriva il comandante <strong>del</strong>la<br />

polizia penitenziaria. Cortese, sardo (come buona parte<br />

dei suoi colleghi), esordisce precisando che «<strong>Mesina</strong><br />

è come se non ci fosse: tranquillo, calmo calmo, mai<br />

che ci abbia dato noia». Prima cancellata, enorme. Il<br />

comandante preme un pulsante e inizia l’operazione di<br />

apertura alla moviola. Si finisce in un grande stanzone<br />

cieco, soffitti alti e unica via d’uscita un altro cancello<br />

che si trova dalla parte opposta, proprio di fronte.<br />

«Ancora un po’ di pazienza e siamo dentro il penitenziario»,<br />

avverte la guardia.<br />

Finora, dunque, si è trattato di attraversare sbarramenti<br />

preventivi. Nello stanzone senza finestre c’è un<br />

passaggio obbligato per i visitatori, un metal-detector<br />

dove (per evitare di perder tempo) si transita senza<br />

chiavi, senza monete, senza zaino, senza occhiali, senza<br />

un grammo di metallo. Altrimenti un fischio e un lampeggiante<br />

blu danno l’allarme.<br />

Nudi o quasi alla meta, dopo questa sorta di checkup<br />

che spinge verso un nuovo cancello. Movimentazione<br />

automatica. Oltre la porta, un immenso cortile grigio<br />

addolcito da alcune aiuole. Il braccio dove sta <strong>Mesina</strong> è<br />

in un caseggiato sulla sinistra, primo piano. Per arrivarci,<br />

bisogna fare una sosta operativa davanti a un ingresso<br />

sbarrato e attendere l’arrivo di un secondino che pesca<br />

con sicurezza da un cassetto di legno, appeso al<br />

braccio come un borsone, la chiave giusta.<br />

Le chiavi, di proporzioni medievali, sono decine: come<br />

fa a individuare in un secondo proprio quella che<br />

serve? Due rampe di scale si affacciano su un androne<br />

174<br />

chiuso da un’inferriata che rimanda ad altri androni, altre<br />

inferriate. Chissà se finiranno mai.<br />

Nella sala-colloqui, dove l’amministrazione carceraria<br />

mette a disposizione seggiole da camping e tavolino<br />

in plastica da picnic, arrivano i rumori sordi di<br />

chiavi che girano nelle serrature e il sinistro concerto<br />

di apertura-chiusura gabbie. La porta ha uno spioncino<br />

che consente la vigilanza in via permanente, l’ambiente<br />

– un’aula scolastica anni ’50 con la tinta lucida a<br />

mezzo muro, per non sporcare l’imbiancatura – è tutta<br />

un rimbombo. Per riuscire a capirsi, occorre parlare<br />

forte, scandire bene le parole. Graziano, che ha perduto<br />

il leggendario udito di gioventù (quello che gli segnalava<br />

a distanza l’avvicinarsi di un carabiniere), tiene<br />

la testa piegata e l’interlocutore vicino: solo così riesce<br />

a sentire senza eccessivo sforzo: «Sordo, io? Mannò, è<br />

che in questa stanza c’è l’eco». Vero, ma è altrettanto<br />

vero che i timpani hanno perduto quei sensori divenuti<br />

vitali durante la lunga stagione da latitante.<br />

Quarant’anni di prigione hanno fatto di <strong>Mesina</strong> un<br />

esperto di questioni carcerarie, un involontario storico<br />

<strong>del</strong>l’antropologia detentiva, un professore <strong>del</strong>la materia.<br />

Che scardina fin nei suoi più sacri principi: «Io dico, e<br />

posso dimostrarlo, che nessun penitenziario riuscirà a<br />

recuperare nessuno. Nessuno di nessuno si può salvare.<br />

Quella <strong>del</strong>la rieducazione è una balla, anzi una beffa.<br />

Chi rieduca chi? Ognuno gestisce se stesso e la propria<br />

vita. Quando ce la fa, se ce la fa». Assicura che il vero<br />

problema è reggere, stare a galla. Ci vuole tempo, molto<br />

tempo, per educarsi alla vita tra le sbarre, imparare ad<br />

175


avere rispetto di sé e degli altri. «Ogni mattina, quando ti<br />

svegli, devi autodisciplinarti perché ci sarà sempre un intoppo,<br />

una <strong>del</strong>usione, una contrarietà a buttarti giù. Ci<br />

puoi provare, ma non riuscirai mai, assolutamente mai,<br />

ad avere un giorno davvero sereno. Basta che un sorvegliante<br />

si svegli di malumore e ti becchi un rapporto».<br />

I numeri ufficiali gli danno ragione, sono moltissimi<br />

quelli che non ce la fanno. In una popolazione carceraria<br />

di oltre cinquantasettemila persone (dati ministeriali),<br />

i primi sei mesi <strong>del</strong> 2003 hanno fatto registrare quaranta<br />

suicidi. «Il fatto è che se vivi in un posto come<br />

questo non puoi permetterti il lusso di essere fragile, altrimenti<br />

crepi. La differenza rispetto a voi, voi <strong>del</strong> mondo<br />

libero, è che qui si muore piano piano. E a morire<br />

non sono soltanto quelli che trovano appesi a un lenzuolo<br />

e finiscono sui giornali accompagnati da un’immancabile<br />

interrogazione parlamentare. Anche noi altri<br />

togliamo il disturbo, senza fare rumore però».<br />

Dietro il velo <strong>del</strong> pugile messo definitivamente kappaò,<br />

<strong>Mesina</strong> nasconde una rabbia immensa. «Certe volte<br />

mi chiedo come ho fatto a vivere quarant’anni qui<br />

dentro senza prendere un ergastolo, un ergastolo vero<br />

dico». Il pericolo di spalancare le porte alla violenza sta<br />

dietro i ritmi quotidiani <strong>del</strong>la galera. «La tensione è nell’aria<br />

che respiri. Sperano sempre di farti passare dalla<br />

loro parte. Non te lo domandano apertamente, certi<br />

discorsi bisogna capirli. È quasi un miracolo riuscire a<br />

sopravvivere dentro posti come questi e non diventare<br />

<strong>del</strong>atore. Qui non sai mai chi ti avvicina, perché ti avvicina<br />

e cosa vuole. Certe volte ti capitano in cella compagni<br />

che puzzano di spia a un miglio di distanza». Altre<br />

volte la “collaborazione” di un detenuto viene stimolata<br />

176<br />

attraverso la concessione di piccoli benefici, privilegi<br />

infinitesimali che tuttavia contano molto in un ambiente<br />

dove di solito si hanno solo doveri e incidentalmente<br />

qualche diritto.<br />

A questo si aggiunge il fatto che per Graziano la fobìa<br />

da spione è una specie di malattia infantile mai <strong>del</strong><br />

tutto risolta. <strong>Lo</strong> ha accompagnato quando faceva il latitante<br />

ma anche (e soprattutto) quando si è trasferito in<br />

una prigione di Stato. Il DNA barbaricino ne ha fatto<br />

un impareggiabile malfidato, assolutamente incapace<br />

di stabilire un rapporto leale e aperto di primo acchito.<br />

Regola numero uno, diffidare. Regola numero due, evitare<br />

confronti. «Non è proprio il <strong>caso</strong> che io, proprio<br />

io, mi metta a dare pagelle». Manco una sillaba, dunque,<br />

sul banditismo degli anni ’80, sui nuovi soci <strong>del</strong>l’Anonima<br />

sequestri e l’affiorare di un inedito e imprevedibile<br />

icerberg malavitoso. «Posso dire soltanto di<br />

me. Donne? Non ne ho mai preso, ai miei tempi non si<br />

doveva. Bambini, neanche. Una volta me n’è capitato<br />

uno ma l’ho rimandato a casa: a me interessava il padre.<br />

Non mi ricordo quante persone ho rapito ma di una cosa,<br />

a parte il fatto che qualcuno se lo meritava pure, sono<br />

certo: le ho sempre trattate bene. Difatti mai una<br />

che si sia costituita parte civile ai processi. Neanche per<br />

un giorno, neanche quando le cose sembravano mettersi<br />

male, ho dimenticato che l’ostaggio è un uomo, che<br />

avevo davanti un cristiano. I sequestri non si fanno con<br />

entusiasmo: se hai coscienza, pesano, danno fastidio.<br />

Quando leghi a un albero uno come te non sei altro che<br />

un carceriere nel senso peggiore <strong>del</strong> termine. Se non sei<br />

una bestia, te ne rendi conto. Li ho fatti i rapimenti, li<br />

ho fatti. Non rinnego nulla».<br />

177


Il ravvedimento, per usare un termine che detesta, è<br />

evidente. Si coglie nelle sfumature di un discorso che<br />

per uno come lui è difficile da fare, complicato. Inutile<br />

sperare di poter andare oltre: Graziano <strong>Mesina</strong> non arriverà<br />

mai all’autoflagellazione, nessuno riuscirà a vederlo<br />

in ginocchio invocare perdono, peggio ancora<br />

contrattare la resa. Che pure c’è, sta dentro parole e<br />

pensieri che lascia liberi di volare durante un colloquio<br />

concesso nel mese di aprile 2003 a Voghera. Si tratta di<br />

un’intervista che non deve essere pubblicata subito.<br />

Vuole sia un assaggio, un rincontrarsi, riprendere il filo<br />

dove si era lasciato. Una questione quasi privata.<br />

Perché accade solo in quel preciso istante, dopo dieci<br />

anni di silenzio e infiniti no a qualunque richiesta di<br />

incontro? Probabilmente scambiare due parole con un<br />

cronista è l’unico modo per far uscire all’esterno furore<br />

e indignazione. In Parlamento si discute in quei giorni<br />

<strong>del</strong>la cosiddetta “pena certa” e <strong>Mesina</strong>, che l’ha scontata<br />

fino in fondo (anzi di più) non riesce a mostrare ancora<br />

una volta il solito distacco, un’indifferenza remota e<br />

indecifrabile, come se certi dibattiti non lo riguardassero<br />

affatto.<br />

In una personalissima guerra con se stesso, sta provando<br />

adesso a sconfiggere definitivamente lo spettro<br />

<strong>del</strong>la passività, <strong>del</strong>l’inerzia totale. Che ha, come tutti<br />

sanno, il retrogusto bruciante <strong>del</strong>la disfatta.<br />

Occorre tener conto poi che per non crollare, bisogna<br />

avere un sistema nervoso decisamente solido. Una<br />

buona via di fuga, per stare a galla e non compromettersi,<br />

è la lettura. Ma non sempre si può, non tutti i capi<br />

consentono. «Lei non se ne fa niente dei libri, mi diceva<br />

un vecchio direttore. E per due anni, due anni, non mi<br />

178<br />

hanno passato nemmeno lettere. Manco una per sbaglio».<br />

Per quanto tempo si può reggere una terapia come<br />

questa?, come si fa a non scoppiare? Stupisce che in<br />

una condizione così greve, così usurante, <strong>Mesina</strong> riesca<br />

a conservare un briciolo di humour. Quando gli domandano<br />

di pronunciare un verdetto su se stesso, imputato<br />

che ci vuole un treno a elencarne tutte le colpe, accetta<br />

la sfida, sorride, infila un’immaginaria toga e pronuncia<br />

serissimo in nome <strong>del</strong> popolo italiano: «Un bel po’ di<br />

anni me li darei». Quanti, per la precisione, vostro onore?<br />

«Un bel po’, non sottilizziamo».<br />

Durante l’ultima detenzione, l’apparato giudiziario<br />

comunque non lo dimentica a riprova che forse ha ragione<br />

quel partito giustizialista secondo il quale «<strong>Mesina</strong><br />

deve stare in carcere perché quello è il suo habitat».<br />

Agli inizi <strong>del</strong> ’97 riceve una comunicazione giudiziaria<br />

per “traffico di stupefacenti”. La faccenda riguarda il<br />

periodo di Asti, i giorni da vigilato speciale, subito dopo<br />

le polemiche e i veleni legati al ruolo di emissario durante<br />

il rapimento di Farouk Kassam.<br />

Contrariamente al solito, stavolta ha tuttavia un ruolo<br />

di secondo piano. I protagonisti sono altri: Carlo Ritrovato<br />

e il clan familiare che gestiva insieme a lui lo<br />

spaccio di droga nel basso Piemonte. La Dda (direzione<br />

distrettuale antimafia) lo ha intercettato e scoperto<br />

proprio mentre era in corso un sanguinoso regolamento<br />

di conti: il cadavere di un uomo <strong>del</strong> boss Epaminonda<br />

– tale Carmelo Nicosia – era stato fatto trovare in un<br />

cascinale vicino Alessandria. La proprietaria di quella<br />

casa si chiama Carmela Ritrovato, è la madre di Carlo.<br />

179


Nel mondo <strong>del</strong>la mala la chiamano affettuosamente “la<br />

cartomante” per la passione e l’abilità a farsi raccontare<br />

il destino da ori e bastoni.<br />

E <strong>Mesina</strong>? Entra nella storia da una porticina secondaria.<br />

A chiamarlo in causa, sia pure non direttamente,<br />

sono quattro collaboratori di giustizia ospitati in una località<br />

segreta e sottoposti al programma di protezione. I<br />

loro nomi servono per capire il teorema <strong>del</strong> pubblico<br />

ministero: Giovanni Ritrovato, Angelo Bertello, Alessandro<br />

Mancini e Sergio Ottaviano. Al pm riferiscono<br />

(perché non l’hanno saputo personalmente) di aver appreso<br />

dalla madre di Sergio Ottaviano che <strong>Mesina</strong> le<br />

aveva ceduto un chilo di eroina. Nell’operazione entra<br />

anche una <strong>del</strong>le figlie <strong>del</strong>la “cartomante”, Giuseppa.<br />

Che sa tutto, assicurano i pentiti. Ma la donna – sentita<br />

dal magistrato – nega con decisione. Altrettanto la madre<br />

di Ottaviano.<br />

Qual’è la verità? Tecnicamente, la loro è un’accusa<br />

per sentito dire: così la definirebbe chi non ha cultura<br />

giuridica e consuetudine col codice penale. Per il vocabolario<br />

forense ha ben altra etichetta e solennità: de relato,<br />

è un’accusa de relato. Cioé sempre per sentito dire,<br />

ma detto – bisogna riconoscerlo – in modo più elegante<br />

e un tantino ambiguo.<br />

Sono credibili i quattro pentiti? <strong>Mesina</strong>, che ha sempre<br />

condannato gli spacciatori, fa sentire la sua voce durante<br />

l’udienza davanti al giudice per le indagini preliminari:<br />

«Non so nulla di questa storia. È un’infamia per<br />

gettarmi altro fango addosso». A dargli una mano c’è<br />

qualche stranezza che affiora qua e là nel fascicolo processuale<br />

dove, per dirne una, la droga passa di mano in<br />

mano senza che venga versata una lira. Sembra una spe-<br />

180<br />

cie di catena di Sant’Antonio, eroina che corre dall’uno<br />

all’altro quasi per gioco. Quando le domandano quanto<br />

abbia speso per comprare il chilo di droga, Angela Ottaviano<br />

spiega di aver bruciato il fornitore (cioé <strong>Mesina</strong>)<br />

perché tanto «sapevo che doveva essere arrestato per<br />

una storia di armi». Previsione assolutamente esatta: di<br />

lì a poco la polizia farà irruzione nel casale di San Marzanotto,<br />

scoverà il misterioso arsenale e neanche una<br />

prova che possa collegarlo a Graziano.<br />

Al processo per la droga gli imputati sono complessivamente<br />

trentasette, alcuni latitanti, altri rottamati come<br />

criminali e riconvertiti in lavoratori socialmente utili<br />

per la giustizia. I quali ribadiscono le famose accuse<br />

de relato ma l’inconsistenza e la fragilità sono tali che diventa<br />

quasi impudico portarle in aula. Nell’estate <strong>del</strong><br />

2000 (a soli nove anni dall’apertura <strong>del</strong>l’inchiesta) <strong>Mesina</strong><br />

viene assolto. Il pubblico ministero non presenta<br />

appello, a dimostrazione che la cosa non stava né in cielo<br />

né in terra.<br />

Il verdetto fa esultare la vecchia primula rossa <strong>del</strong><br />

Supramonte che, a quel punto, si illude due volte: crede<br />

abbiano finito di tormentarlo e che la liberazione condizionale<br />

possa essere nuovamente vicina. Su queste speranze<br />

accoglie l’ennesimo trasferimento (da Novara a<br />

Voghera), accantona in via definitiva l’idea di approdare<br />

in un penitenziario sardo e si prepara a tornare in libertà.<br />

Su quest’obiettivo lavorano a tempo pieno un<br />

suo storico difensore (Gabriella Banda) e un nuovo,<br />

grintoso avvocato: Enrico Bucci. Il quale, sicuro <strong>del</strong>le<br />

carte che ha in mano, si limita a una breve dichiarazio-<br />

181


ne: «Il nostro assistito chiede, in base a precise disposizioni<br />

di legge, la revoca <strong>del</strong>l’ergastolo. La grazia? Non<br />

intende presentare un’istanza di questo tipo, per ora.<br />

Non sta cercando la pietà ma semplicemente l’applicazione<br />

di una norma».<br />

In realtà la questione non è così semplice: si tratta di<br />

ottenere l’alleggerimento previsto da un articolo <strong>del</strong> codice<br />

di procedura penale (il 671), entrato in vigore<br />

quando <strong>Mesina</strong> stava in carcere già da un pezzo, e questo<br />

assottiglia le possibilità di successo. A febbraio <strong>del</strong><br />

2001 si inizia a discuterne nel corso di un “procedimento<br />

di esecuzione” presieduto da Giovanni Mosca.<br />

Durata <strong>del</strong>l’udienza, assente l’imputato, quattro minuti:<br />

il tempo per depositare sul tavolo <strong>del</strong> Tribunale<br />

una rispettabile torre di carte e aspettare il responso.<br />

Che arriva, a strettissimo giro di posta: dieci giorni. Accogliendo<br />

le tesi <strong>del</strong> pm, il giudice Giovanni Mosca respinge<br />

l’istanza: improponibile. Secondo la sentenza,<br />

non è affatto dimostrabile che i vari reati compiuti da<br />

<strong>Mesina</strong> siano ascrivibili «a un medesimo disegno criminoso».<br />

Manca, direbbero i dottori <strong>del</strong>la legge, l’elemento<br />

<strong>del</strong>la continuazione. Dunque va bene il “cumulo”,<br />

niente revoca <strong>del</strong>l’ergastolo, ancora meno la liberazione<br />

condizionale. Fine.<br />

Discutere su questo tema richiede una sconfinata conoscenza<br />

<strong>del</strong>la dottrina. Di certo tutto si è giocato tra<br />

pieghe interpretative, busillis da specialisti ed è tempo<br />

perso cercare di andarci a fondo. Significativo che, a<br />

bocciatura incassata, l’avvocato Bucci annunci un (inutile)<br />

ricorso in Cassazione ma riconosca sportivamente<br />

d’essersi arrampicato sugli specchi: «Era tutto in salita,<br />

già in partenza».<br />

182<br />

E <strong>Mesina</strong>, che per un attimo ci aveva sperato, torna<br />

al palo. Nel frattempo, gli arriva anche una nuova condanna:<br />

stavolta dal tribunale di Nuoro. È colpevole di<br />

“favoreggiamento” per aver violato la legge sul blocco<br />

dei beni durante il <strong>caso</strong>-Kassam: due anni e tre mesi di<br />

reclusione. Si salva invece per un pelo (prescrizione)<br />

suo nipote, Raimondo Crissantu. Ed è proprio su questo<br />

che al momento <strong>del</strong> processo d’appello si registra un<br />

clamoroso patteggiamento tra accusa e difesa. Vale la<br />

pena di riportarlo com’è apparso sulle pagine dei giornali:<br />

La condanna di Graziano <strong>Mesina</strong> in cambio <strong>del</strong>la libertà<br />

per suo nipote, Raimondo Crissantu. Accordo senza<br />

precedenti...<br />

Già, senza precedenti. Il Procuratore generale Giovanni<br />

Antonio Mossa rinuncia a impugnare la sentenza<br />

di primo grado, in particolar modo nella parte che riconosce<br />

una serie di attenuanti per Crissantu evitandogli<br />

il carcere, a patto che <strong>Mesina</strong> accetti in silenzio la sua<br />

condanna. È un dannato gioco <strong>del</strong>le parti che accontenta<br />

tutti: <strong>Mesina</strong>, che vuole salvare un nipote colpevole in<br />

quella vicenda di avergli soltanto fatto da autista; il pm,<br />

che riesce in questo modo a chiudere una vicenda imbarazzante:<br />

per l’amministrazione <strong>del</strong>la giustizia, per lo<br />

Stato e una serie di figure istituzionali che, nel corso <strong>del</strong><br />

sequestro e <strong>del</strong>lo svolgersi <strong>del</strong>le trattative, hanno fatto<br />

sentire i loro fiati riuscendo a non apparire mai.<br />

L’intesa (un solo colpevole anziché due in cambio di<br />

una prescrizione) viene siglata a dicembre <strong>del</strong> 2000 di<br />

fronte al giudice monocratico. Tutto si svolge secondo<br />

gli accordi. Il pubblico ministero interviene brevemente<br />

per dire che <strong>Mesina</strong> ha certamente «posto in essere il<br />

reato di favoreggiamento poiché ci sono intercettazioni<br />

183


e testimonianze» che dimo<strong>strano</strong> il lavoro di emissario.<br />

Lavoro, detto tra parentesi, che Graziano ha svolto quasi<br />

alla luce <strong>del</strong> sole. Che si stesse occupando <strong>del</strong> piccolo<br />

Kassam erano al corrente anche le pietre <strong>del</strong> Supramonte:<br />

non era forse questo il motivo per cui il giudice di<br />

sorveglianza di Torino s’era adoperato per fargli ottenere<br />

la libertà condizionale?<br />

Un tardivo dovere di cronaca impone di ricordare<br />

che, in occasione <strong>del</strong>l’udienza col giudice monocratico,<br />

il difensore di <strong>Mesina</strong> (avvocato Bernardo Aste) ha lanciato<br />

qualche pietra nello stagno. «Ha pagato lo Stato,<br />

lo sanno tutti», ha detto in aula, «lo sanno alla Procura<br />

distrettuale di Cagliari, lo sa Vincenzo Parisi, che all’epoca<br />

era il capo <strong>del</strong>la polizia. Hanno nomi, cognomi e<br />

indirizzi eppure non si muove foglia, l’unico che deve<br />

pagare è <strong>Mesina</strong>».<br />

Sepolta frettolosamente nell’effimera cronaca dei<br />

quotidiani, questa frase non ha lasciato segno. Più o meno,<br />

lo stesso era avvenuto in Tribunale a Tempio Pausania<br />

quando <strong>Mesina</strong> venne sentito come testimone al<br />

processo contro i rapitori di Farouk Kassam. Le parole<br />

sono state, grosso modo, le stesse. La reazione in fotocopia.<br />

E non è finita. Nonostante lo spettacolare flop di<br />

Asti, il binomio droga & pentiti torna in nuova versione:<br />

cambiano i collaboratori di giustizia e le quantità di<br />

stupefacente, resta in piedi solo l’imputato di sempre,<br />

<strong>Mesina</strong>. Fossimo allo stadio in curva nord, finirebbe su<br />

uno striscione: Graziano forever.<br />

Ma qual’è, stavolta, la storia? Tutto comincia con un<br />

184<br />

pentito (tanto per cambiare), Paolo Littera. Che a un<br />

certo punto <strong>del</strong>la sua vita di trafficante trascina sotto<br />

processo nientemeno che un colonnello e un maresciallo<br />

<strong>del</strong>la Finanza. A ruota libera, finalmente loquace nello<br />

status di reo confesso, rivela un terribile intreccio tra<br />

forze <strong>del</strong>l’ordine e spacciatori. Mentre corre sul filo <strong>del</strong>la<br />

memoria nel lodevole tentativo di vuotare tutto il sacco,<br />

si ferma un attimo al 1992 (anno <strong>del</strong> sequestro Kassam<br />

e di <strong>Mesina</strong> in libera circolazione) per raccontare<br />

che quell’anno Graziano aveva ricevuto in agosto alcuni<br />

suoi amici campidanesi. Segue doveroso spuntino d’ospitalità,<br />

che di fatto si rivela una colazione di lavoro allorché<br />

<strong>Mesina</strong> comunica di essere stato incaricato dal<br />

clan calabrese dei Tornaghi di recuperare un vecchio<br />

debito di Littera e compagni: una partita di eroina non<br />

pagata. Tradotto in lire, quattrocento milioni. La risposta<br />

dei “campidanesi” è stata sincera, cuore in mano:<br />

vorremmo ma non abbiamo soldi. Per trovare una soluzione,<br />

si dichiarano tuttavia disponibili a rimboccarsi le<br />

maniche, a scendere (anzi a tornare) in campo. È stato a<br />

questo punto, sostiene Littera, che <strong>Mesina</strong> ha offerto<br />

tre chili di eroina a patto che quelli garantissero di saldare<br />

coi primi guadagni quel conticino rimasto in sospeso.<br />

Non si sa se le accuse di Littera abbiano centrato il<br />

bersaglio. Il sostituto procuratore di Cagliari, Mario<br />

Marchetti, ha spedito una comunicazione giudiziaria a<br />

<strong>Mesina</strong> e s’è tuffato in un’inchiesta che non è stata ancora<br />

chiusa. L’ipotesi da confermare è quella di un ruolo<br />

simil-gangster: trafficante e, nei ritagli di tempo, addetto<br />

al recupero credito per conto terzi. Dentro questo<br />

ipotetico ritratto è riconoscibile il più celebre orgolese<br />

185


d’Italia? Impossibile azzardare un pronostico, disegnare<br />

un finale che resta tutto da scrivere.<br />

Al di là dei confini fra teorie e verità, è comunque<br />

una nuova, pesante mattonata sui denti. Un bombardamento<br />

che non si ferma neppure dopo il ritorno in carcere<br />

<strong>del</strong> ’93. Qual’è il vero Graziano <strong>Mesina</strong>? Al palazzo<br />

di giustizia di Cagliari (e non solo) sono fermamente<br />

convinti che il vecchio bandito non sia mai morto. Dicono:<br />

è vero che appartiene alla vecchia generazione criminale<br />

ma è anche uno che sa adeguarsi rapidamente ai<br />

tempi: e se il traffico di droga ha sostituito i reati d’un<br />

tempo, perché non tentare?, perché non provarci? Dopotutto,<br />

ritengono in Procura, le coincidenze sono troppe<br />

per non destare sospetti.<br />

L’altra immagine è profondamente diversa: tratteggia<br />

un <strong>Mesina</strong> diverso dal fuorilegge che è stato in gioventù,<br />

rivela un vinto che da molti anni ha riscattato se<br />

stesso e che, soprattutto, ha scontato tutto ma proprio<br />

tutto. Quanto dovrà attendere perché un nuovo tribunale<br />

lo dichiari colpevole o lo assolva?, quanto possono<br />

valere le dichiarazioni (senza riscontro) di un pentito?<br />

Forse eccedono quelli che parlano di persecuzione<br />

giudiziaria: il fatto è che non se ne vede la fine. Tra clan<br />

Ritrovato e clan Tornaghi, tra armi custodite nel posto<br />

più sbagliato <strong>del</strong> mondo e fantasiosi progetti per sequestri<br />

internazionali, la figura di <strong>Mesina</strong> appare dilatata,<br />

ancora più mitica di quella relegata alle imprese in Supramonte.<br />

C’è da chiedersi quanto debba durare il purgatorio<br />

di un uomo, se quarant’anni di carcere non siano<br />

un’equa punizione. Proseguire su questa strada si-<br />

186<br />

gnifica mostrare la faccia incarognita di uno Stato che<br />

non sa perdonare e che in ogni <strong>caso</strong> non è stato in grado<br />

di favorire manco un’ombra di redenzione.<br />

È intorno a queste riflessioni che nasce con tutta<br />

probabilità l’idea di cedere, alzare bandiera bianca e<br />

chiedere la grazia. Se ne parlava da un po’, da quando a<br />

Torino gli avvocati Banda e Bucci l’avevano messo in<br />

conto nel <strong>caso</strong> fosse stata respinta l’istanza di revoca<br />

<strong>del</strong>l’ergastolo. Il problema è che <strong>Mesina</strong> non ne vuol sapere.<br />

Resiste alle pressioni dei familiari e pare quasi un<br />

“prigioniero politico” che voglia far arrivare alle estreme<br />

conseguenze, far esplodere, le contraddizioni di un<br />

sistema che da un lato ripudia la pena di morte e dall’altro<br />

finisce per applicarla, sia pure chiamandola in un altro<br />

modo e senza la distaccata assistenza di un boia. Nei<br />

primissimi mesi <strong>del</strong> 2003 continua a rifiutare incontri<br />

coi giornalisti e, visto che c’è, anche con avvocati che di<br />

volta vengono incaricati di ammansirlo, mostrargli l’unica<br />

via di salvezza: quattro righe indirizzate al Presidente<br />

<strong>del</strong>la Repubblica.<br />

Graziano prosegue coi suoi rifiuti («Ho detto no e<br />

no») e finirebbe col farcela se non commettesse un piccolo<br />

errore: sottovaluta la cocciuta testardaggine di una<br />

<strong>signor</strong>a che da qualche anno va a trovarlo con regolarità.<br />

E che sul tema <strong>del</strong>la grazia inizia a fargli il lavaggio<br />

<strong>del</strong> cervello.<br />

Greca Deiana è una sarda che abita da tempo a Modena.<br />

Sposata, madre di due figlie, è vecchia amica di famiglia<br />

dei <strong>Mesina</strong>. Non proprio lei ma suo padre, a voler<br />

essere precisi. Un incontro, che poi è una folgorazio-<br />

187


ne, lo ricorda però molto bene. «Ero una ragazzina,<br />

avrò avuto dodici, tredici anni. Non erano ancora iniziati<br />

gli anni ’70, lo rammento con precisione. Mio babbo<br />

mi teneva per mano, eravamo a Orgosolo...».<br />

Erano a Orgosolo quando d’un tratto appare Graziano.<br />

Se la memoria non tradisce e l’anno è giusto, in<br />

quel periodo Graziano aveva 26 anni, un fisico atletico a<br />

dispetto <strong>del</strong>l’altezza, capelli nerissimi e neppure un etto<br />

in più. Parlava poco (anche allora), in compenso mandava<br />

lampi con gli occhi. «Di lì a breve l’hanno preso e<br />

subito dopo ha cominciato a fare il latitante».<br />

Assicurando di parlare con la voce <strong>del</strong> cuore (ma<br />

senza sentimentalismi di genere), Greca Deiana giura<br />

che quella visione le si è stampigliata nel cervello. E<br />

moltissimi anni più tardi, quando quel giovanotto era<br />

ormai un detenuto “fine pena mai”, le è tornata in mente.<br />

Ha letto, s’è informata, ha scoperto che era tramontata<br />

anche quella certa pruderie intellettualistico-borghese<br />

che aveva coltivato epica e protezione.<br />

Quando decide di occuparsi <strong>del</strong> <strong>caso</strong>, <strong>Mesina</strong> è insomma<br />

finalmente solo, un detenuto qualunque, un numero<br />

nel casellario <strong>del</strong> Dipartimento <strong>del</strong>l’amministrazione<br />

penitenziaria. «Mi sono ricordata all’improvviso<br />

quegli occhi. A costo di sembrare ridicola, dico che erano<br />

occhi di un uomo buono, generoso, leale. Un uomo<br />

che ha pagato tutto quello che aveva da pagare e che ora<br />

deve tornare libero».<br />

Grazie a una serie di aderenze d’un certo peso, si<br />

muove per cercare una strada qualunque che porti alla<br />

libertà. Contatta deputati e senatori, di destra e di sinistra,<br />

parroci e principi <strong>del</strong>la Chiesa, rilancia il <strong>caso</strong> <strong>Mesina</strong><br />

con un fervore che forse non può vantare neanche<br />

188<br />

Adriano Sofri, che pure ha uno schieramento istituzionale<br />

di tutta eccezione in sua difesa. Visite a Roma, a<br />

Modena, a Milano, a Bologna. Nei tempi morti tra un<br />

incontro in carcere e l’altro, Greca Deiana batte inutilmente<br />

una pista diplomatica, sottotraccia, ma i risultati<br />

appaiono quasi subito <strong>del</strong>udenti. Resta, ultima spes, la<br />

grazia. Che, tenuto conto <strong>del</strong> comportamento da detenuto<br />

di Graziano e <strong>del</strong> fatto che non ha più nulla da<br />

scontare, potrebbe anche essere concessa. O quantomeno<br />

ci si può seriamente sperare. Il guaio è che la grazia<br />

bisogna chiederla, metterla per iscritto, nero su<br />

bianco. E quello non ci pensa manco lontanamente.<br />

Inizia così un silenzioso lavoro ai fianchi, fegato milza<br />

fegato milza, fino a quando si avvertono i primi segnali<br />

di cedimento. <strong>Mesina</strong> mostra disinteresse verso la<br />

strada politica e neanche un briciolo di curiosità verso<br />

la procedura per ottenere la grazia. Greca Deiana però<br />

insiste, incalza il fantasma <strong>del</strong> vecchio bandito e batte<br />

sul diritto-dovere di tornare libero, ricominciare in un<br />

posto qualunque con un lavoro qualunque. Non è indispensabile<br />

sistemarsi a Orgosolo, va bene un paese d’Italia<br />

purché sia. L’unica necessità, se proprio vogliamo<br />

chiamarla così, è trascorrere una giornata in campagna,<br />

almeno una. «Ho bisogno di sentire gli odori di quand’ero<br />

bambino, ho bisogno di vedere dall’alba al tramonto<br />

gli alberi e la luce dei monti».<br />

Il desiderio-campagna è una buona leva. Convinta<br />

com’è che in fondo la sua sia solo una battaglia di giustizia<br />

e civiltà, Greca Deiana se ne serve per far uscire Graziano<br />

dal torpore carcerario che lo sta lentamente allontanando<br />

dal mondo cancellandone sogni, convinzioni,<br />

speranze. Senza saltare un solo appuntamento, per due<br />

189


anni questa terapia va avanti con la pervicacia <strong>del</strong>l’analista<br />

che ha scovato la genesi <strong>del</strong> trauma: scava, insiste,<br />

lascia che la memoria faccia risalire da abissi profondi<br />

squarci di ricordo: la famiglia, i genitori, l’adolescenza.<br />

La vita. Non ce n’è abbastanza per reagire, finalmente?<br />

Conclusa la parte teorica, il salto verso quella pratica<br />

è un gioco. All’avvocato Enrico Aimi, consigliere regionale<br />

di An, viene affidato l’incarico di stendere la “domandina”<br />

da spedire al Capo <strong>del</strong>lo Stato. Aimi, penalista<br />

esperto e sensibile, si reca a Voghera un afoso lunedì<br />

di giugno. Alle agenzie di stampa affida un discorso efficace<br />

e scontato: un paese civile, una democrazia, non<br />

può tollerare che Graziano <strong>Mesina</strong> resti ancora in prigione.<br />

Battute invano tutte le strade contemplate dal<br />

codice penale, non resta che presentare istanza di grazia.<br />

«<strong>Mesina</strong> firmerà», assicura prima di varcare il cancello<br />

elettronico <strong>del</strong> penitenziario.<br />

In realtà non ne è sicurissimo. Sa che il suo cliente ha<br />

un carattere particolare, basta una frase sbagliata o una<br />

botta di cattivo umore e salta tutto.<br />

Il 21 luglio l’avvocato Aimi esce dal carcere intorno<br />

alle tredici. «Ha firmato», dice rifiutandosi di entrare<br />

nei particolari di un’istanza dove – per espresso volere<br />

di <strong>Mesina</strong> – sono elencati sprazzi di vita barbaricina, la<br />

<strong>Sardegna</strong> rovente <strong>del</strong>l’Anonima, gli incontri più o meno<br />

obbligati che un giovane balente doveva fare.<br />

Prima <strong>del</strong>la fine <strong>del</strong> mese, la pratica è a Roma, sul tavolo<br />

<strong>del</strong> ministro di Grazia e Giustizia che deve esprimere<br />

un parere. Per farlo, dovrà ricucire la carriera carceraria,<br />

le condanne, i comportamenti, le opinioni di<br />

190<br />

persone che sanno. Pronunciare, in buona sostanza,<br />

quello che in ogni <strong>caso</strong> sarà l’ultimo verdetto.<br />

In questa fase, l’unico senza diritto di parola è proprio<br />

<strong>Mesina</strong>. Che comunque non ruffianeggia. Per ragioni<br />

di dignità e di coerenza, ripete che di solito la grazia<br />

«la chiedono quelli che stanno scontando una condanna».<br />

Lui ha concluso, da un pezzo. E si appella (si<br />

appellava) al rispetto <strong>del</strong>le regole dimenticando che<br />

nella patria <strong>del</strong> diritto le regole esistono per costruirci<br />

intorno le eccezioni. Valide per tutti, quasi tutti.<br />

191


Capitolo XV<br />

La grazia negata<br />

Il giorno di sant’Ilaria, 12 agosto, il detenuto Graziano<br />

<strong>Mesina</strong> s’è svegliato alla solita ora: le cinque e mezzo.<br />

Ha acceso la tivù (televideo) e avviato le pulizie <strong>del</strong> suo<br />

domicilio coatto: cella numero 5, tre metri per uno e ottanta,<br />

secondo piano <strong>del</strong> carcere di massima sicurezza<br />

di Voghera, vista cielo. Che quella mattina era stranamente<br />

cupo, un tetto di nuvolaglia.<br />

La seccatura, in genere, riguarda i due mobiletti inchiodati<br />

al muro: non si sa da dove arrivi ma sono sempre<br />

pieni di polvere. Finito di rassettare cella e ritirata<br />

(water e lavandino protetti da una porticina, privilegio<br />

dei reclusi di lunga navigazione), <strong>Mesina</strong> s’è preparato<br />

l’unico caffè <strong>del</strong>la giornata, ha indossato jeans azzurri e<br />

una t-shirt nera un po’ elasticizzata: il che aiuta, visto<br />

che la muscolatura non è più quella di un tempo. Se è<br />

solo per questo, anche i capelli non sono più gli stessi:<br />

quelli nerissimi degli anni <strong>del</strong>la latitanza sono evasi mettendo<br />

in luce un cranio tondo, lucido.<br />

Alle 11,30 di quel giorno, proprio mentre incombeva<br />

la solita noia (solita, da quarant’anni), una guardia<br />

carceraria s’è materializzata davanti alla porta <strong>del</strong>la cella<br />

numero 5: «Ti vogliono all’Ufficio Matricola». In<br />

queste circostanze non è il <strong>caso</strong> di perdersi in chiacchie-<br />

193


e, anticipare domande che possano soffocare l’ansia.<br />

«Eppoi, l’ansia di chi? Io, anche quando sono furioso,<br />

sembro sereno».<br />

Sembrando sereno, il detenuto Graziano <strong>Mesina</strong> ha<br />

seguito la guardia in un percorso tutt’altro che familiare<br />

nonostante sia a Voghera dal 2000: androni tinteggiati<br />

di celeste madonna, cancellate fino al soffitto, portoncini<br />

blindati coi cristalli corazzati. Finché non si chiude<br />

una porta, quella successiva resta sprangata: dirige il<br />

traffico una lucetta gialla che lampeggia.<br />

Il turnista <strong>del</strong>l’Ufficio Matricola è gentile e sbrigativo.<br />

«È arrivata questa per te. Firma qui per ricevuta».<br />

La lettera ha lo stemma <strong>del</strong>la Repubblica ed è firmata<br />

dal magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale di Pavia.<br />

Pochissime righe indirizzate alla direzione <strong>del</strong>la Casa<br />

Circondariale di Voghera: «Per dovere d’ufficio, trasmetto,<br />

copia lettera <strong>del</strong> Ministero <strong>del</strong>la Giustizia, con<br />

la quale si comunica la risoluzione negativa adottata sull’istanza<br />

di grazia avanzata dal nominato in oggetto».<br />

Ora, al di là <strong>del</strong> fatto che la virgola non ci stava a far nulla<br />

dopo il verbo trasmettere, il significato resta ambiguamente<br />

chiaro: risoluzione negativa si riferisce al parere<br />

<strong>del</strong> Ministero o proprio al fatto che l’istanza <strong>del</strong> nominato<br />

in oggetto sia stata definitivamente rigettata?<br />

<strong>Mesina</strong>, che <strong>del</strong> pessimismo ha fatto una religione laica,<br />

approfitta immediatamente <strong>del</strong>la possibilità di poter<br />

chiamare casa (quattro telefonate al mese). 0784, prefisso<br />

di Orgosolo, e poi il numero di Peppedda, la sorella.<br />

«Non mi fanno uscire, niente grazia». Le comunica la<br />

brutta notizia parlando in fretta ma senza gridare per<br />

non far capire che dentro sta esplodendo. Peppedda<br />

però lo conosce bene: incassa il colpo, cerca inutilmente<br />

194<br />

l’avvocato per mettere a punto chissà quale reazione e<br />

avverte subito Ballore, il più anziano dei fratelli. Alla vigilia<br />

<strong>del</strong>l’Assunta, festa grande <strong>del</strong> paese, esce e probabilmente<br />

si sfoga con qualcuno svelando una notizia<br />

che, in un attimo, vola.<br />

Al Tribunale di Pavia il dottor <strong>Lo</strong>renzo Fabris è assente,<br />

ferie. Un cortesissimo cancelliere, che si occupa<br />

proprio di questo genere di pratiche, spiega il significato<br />

<strong>del</strong>la frase scritta in burocratese-giudiziario: «C’è poco<br />

da interpretare, il concetto è limpido. L’iter per ottenere<br />

la grazia si è concluso: l’istanza è stata rigettata».<br />

Significa che non c’è più speranza? «Certo, significa<br />

proprio questo». Sarebbe bello, a questo punto, sapere<br />

che ne dice il ministro di Giustizia, il leghista Roberto<br />

Castelli, che ha fatto smentire le voci sulla bocciatura di<br />

<strong>Mesina</strong>. Parole testuali <strong>del</strong> suo portavoce: «La pratica<br />

non è stata affatto respinta. È ancora in istruttoria».<br />

Una bugia, una pietosa bugia dettata da chissà quali ragioni<br />

politiche: la domanda di grazia è stata cestinata. Il<br />

nominato in oggetto torna al destino che gli spetta: fine<br />

pena mai.<br />

Mercoledì, 18 agosto, il carcere di Voghera è la solita<br />

gabbia color alluminio. Sbarre sottili, alte sei-sette<br />

metri, avvolgono un caseggiato grigio dove, ci fosse un<br />

filo d’aria, potrebbero sventolare orgogliosamente il<br />

tricolore d’Italia e la bandiera europea, appese stancamente<br />

a una finestra. Mentre si aspetta di poter entrare,<br />

in un angolo lontano appare un detenuto speciale: è<br />

un pastore tedesco male in arnese, spelacchiato, magro,<br />

occhi tristissimi e zampata senza energia. Esce da<br />

una cuccia sistemata sotto il sole a tenaglia, si trascina<br />

con fatica fino alle sbarre e ci infila la testa nella spe-<br />

195


anza di una carezza. Scodinzola, non abbaia: non<br />

sembra tagliato per i compiti di vigilanza. Avesse pure<br />

una ciotola d’acqua a disposizione forse sembrerebbe<br />

meno depresso.<br />

Dopo il controllo dei documenti, il passaggio sotto il<br />

metal detector, le verifiche di legge, gli scricchiolii dei<br />

cancelli che si aprono con inesorabile lentezza; dopo le<br />

porte blindate, la musica sinistra di enormi chiavi d’ottone<br />

e il rumore dei passi amplificato dall’eco in gallerie<br />

deserte, si arriva finalmente alla sala-colloqui: un tavolo<br />

impolverato, una vecchia poltrona d’ufficio (sfondata),<br />

due sedie che gemono al minimo movimento.<br />

Graziano <strong>Mesina</strong> passa per essere un detenuto tranquillo.<br />

Perfino solitario non fosse per l’amicizia con l’unico<br />

altro recluso sardo di Voghera, Mauro Addis (di<br />

Carbonia, in galera per terrorismo). Addis è vegetariano,<br />

<strong>Mesina</strong> astemio: per ferragosto si sono organizzati<br />

un pranzo che era una via di mezzo tra gli hippy e le orsoline.<br />

«Però poi c’è il problema degli extracomunitari.<br />

Sono tanti, non hanno un centesimo e dunque non possono<br />

comprare niente allo spaccio. E che faccio, mi<br />

metto a mangiare mentre uno mi guarda? A questi, da<br />

baby sitter bisogna fargli».<br />

L’amministrazione carceraria passa la colazione (anche<br />

dietetica), un pranzo (primo, secondo e frutta),<br />

una cena da ospedale (minestrina e un pezzo di formaggio).<br />

Il vino c’è, si può acquistare un quarto di litro<br />

alla volta «ma fa talmente schifo che bere acqua diventa<br />

un piacere». Le celle singole sono in dotazione ai soli<br />

detenuti anziani, cioè a gente come <strong>Mesina</strong> che sconta<br />

l’ergastolo nonostante nessun Tribunale abbia pronunciato<br />

una sentenza di questo tipo contro di lui. Sta<br />

196<br />

pagando, e continuerà a pagare, per un’aberrazione<br />

giuridica che ha equiparato la somma di pene diverse<br />

all’ergastolo. Vecchia storia, non vale la pena di perderci<br />

la testa. «Non parlare di me, parla <strong>del</strong> sistema<br />

carcerario».<br />

È un <strong>Mesina</strong> senza vanità e gonfio di livore quello<br />

che avanza, a piccoli passi, da un androne lontano. Saluta,<br />

sorride stretto stretto ed entra direttamente nella<br />

saletta-colloqui lasciando una leggera scia di deodorante.<br />

Sessantadue anni: e stavolta, a parte gli occhi che<br />

sembrano senza tempo, si vedono tutti. «Faccio quattro<br />

ore di aria al giorno, due al mattino e due alla sera.<br />

Poi, qualche movimento in cella». Per tornare (o quasi)<br />

quello di una volta servirebbe ben altro. «È la vita sedentaria<br />

che ti frega».<br />

Si siede, mette lo sguardo a fuoco, dà un’occhiata alla<br />

copertina di un libro che racconta la sua storia (e che<br />

ha già letto), ridacchia osservando un collage di foto<br />

che lo riporta agli anni calibro 12, alla stagione <strong>del</strong> fuorilegge<br />

balente. Non aspetta domande, non gli interessa<br />

soddisfare curiosità di cronaca. Va subito al dunque,<br />

a valanga. Come se aspettasse da sempre di gridare due<br />

o tre cose all’altro mondo, oltre le sbarre.<br />

«<strong>Lo</strong> sapevo che non mi avrebbero concesso la grazia.<br />

Non regalano mai nulla a persone come me. Con le<br />

ultime due condanne dovevo scontare otto anni e tre<br />

mesi. Ne ho fatto dieci, non bastano?»<br />

– Un’ultima speranza, Ciampi.<br />

«Sì, ma ci sono complicanze legate alla grazia per<br />

Adriano Sofri. Comunque: se vogliono farmi tornare<br />

in libertà, per quello che sono e per la galera che ho<br />

fatto, bene. Altrimenti, pazienza. Io non chiedo più<br />

197


niente. E non mi suicido, tranquilli. Aspetterò di morire<br />

in carcere».<br />

– Semilibertà?<br />

«Fossi in <strong>Sardegna</strong>, probabilmente sarei fuori, in libertà<br />

condizionata. Qui niente, qui non concedono<br />

niente a nessuno, manco a quelli che hanno poca roba<br />

da scontare...».<br />

– I diritti dei detenuti esistono.<br />

«Quali diritti, quale diritto? Il diritto non esiste, esiste<br />

invece la discrezionalità di un magistrato che diventa<br />

un giudice supremo, un dio che decide <strong>del</strong>la tua vita. E<br />

il guaio è che, intanto, qui si scoppia».<br />

– Chi scoppia?<br />

«Manco ve lo immaginate perché sui giornali finiscono<br />

solo quelli che s’ammazzano. Possibile che nessuno<br />

si sia accorto che c’è una drammatica emergenzacarceri?<br />

Ci sono malati terminali che non vengono assistiti<br />

come si dovrebbe, ci sono difficoltà ad avere medicine.<br />

E inoltre devi fare i conti con la testa».<br />

– Per sopravvivere?<br />

«Certo. Dipende dal carattere se riesci a tenere o a<br />

non tenere. Certi giorni sto male, sono incazzato per<br />

qualcosa ma ai miei compagni mostro sempre una faccia<br />

tranquilla».<br />

– Perché?<br />

«Perché se vanno giù anche i vecchi, buona notte. È<br />

per questo che dico e ripeto: non fatevi speranze, non illudetevi,<br />

pensate sempre al peggio che è meglio. Di solito<br />

l’orrore <strong>del</strong>la galera rimbalza sui giornali quando ci<br />

finisce dentro uno di serie A».<br />

– Chi sono quelli di serie A?<br />

«Avete presente quegli industriali che, appena gli<br />

198<br />

mettono le manette, si ammalano e finiscono in clinica?<br />

Poi trovi sempre uno che in televisione spiega che certa<br />

gente resta traumatizzata per una semplice ragione: non<br />

è abituata alla galera. Scusate, e io? Io non sono nato in<br />

galera e dopo quarant’anni, non so come non so perché,<br />

ma non mi ci sono ancora abituato. Sarò allergico?»<br />

– Come si affronta una giornata in carcere?<br />

«Un grande aiuto arriva dal lavoro, se te lo danno. Io<br />

ho fatto l’imbianchino per undici mesi, ho tinteggiato<br />

tutta la sezione. Non è che diventi ricco, tre euro all’ora,<br />

ma almeno passi il tempo».<br />

– Anche con l’ergastolo?<br />

«Anche con l’ergastolo, a patto che lo si chiami come<br />

deve essere chiamato: condanna a morte».<br />

– Altre distrazioni?<br />

«La televisione. Io ce l’ho in cella, prendo dodici-tredici<br />

canali. Mi piace tenermi aggiornato sulla politica,<br />

nazionale e internazionale. Poi seguo con interesse le<br />

trasmissioni che parlano di ambiente e animali: Geo &<br />

Geo, Quark, roba così».<br />

– Nient’altro?<br />

«Nient’altro, nient’altro: cosa volete che guardi un<br />

detenuto? Donne, trasmissioni dove ci siano donne:<br />

mettono malinconia e accendono bei ricordi».<br />

– A proposito di politica: che sa <strong>del</strong>la <strong>Sardegna</strong>?<br />

«So che nemmeno la miglior gelateria <strong>del</strong>la Costa<br />

Smeralda appartiene ai sardi. Perfino i gelati. E questo<br />

mi dà fastidio, mi fa dire che noi sardi dobbiamo riprendercela<br />

la <strong>Sardegna</strong>, nella legalità».<br />

– La fede attenua la solitudine?<br />

«Se ce l’hai. Io rispetto, anzi invidio quelli che credono<br />

perché si sentono più consolati. Ogni tanto mi ven-<br />

199


gono però dei dubbi: se, come dicono, l’aldilà è il posto<br />

ideale per ogni buon cristiano, perché nessuno ci vuole<br />

andare?»<br />

– Insomma, in chi ha fede lei?<br />

«Vivo giorno dopo giorno, senza illusioni. Ho fede<br />

nel chirurgo che mi ha riattaccato mezzo dito tranciato<br />

da una porta blindata. È proprio finito a terra, il dito. È<br />

successo l’anno scorso. Siamo andati di corsa all’ospedale<br />

io, le guardie e il dito. Il dottore mi ha detto: ci provo<br />

ma non ci spero. E io: vabbe’, intanto ci provi. Mi è<br />

andata bene».<br />

– Guarito?<br />

«Il dito è tornato al solito posto, non è sensibilissimo<br />

ma non si può avere tutto. Alla terapia dopo l’intervento<br />

chirurgico ho pensato io: ogni tanto, con una lametta<br />

tagliavo schegge di pelle morta. Lavoro di precisione, va<br />

fatto con cura. Togli oggi togli domani, tutto è tornato a<br />

posto. Capito? Per non morire devi deciderlo prima di<br />

tutto dentro di te: non voglio, non devo morire».<br />

200<br />

Capitolo XVI<br />

Ritorno a casa<br />

Respinta ad agosto, la grazia risorge inaspettatamente<br />

a novembre. In silenzio o quasi. Il direttore <strong>del</strong> carcere<br />

di Voghera convoca <strong>Mesina</strong> nel suo ufficio una settimana<br />

prima che la notizia esploda sulle agenzie di stampa.<br />

Gli dice, in via amichevole e riservata, che il ministro<br />

<strong>del</strong>la Giustizia ha depositato il suo fascicolo al Quirinale<br />

esprimendo parere favorevole. E quindi.<br />

Quindi Graziano, che ha fatto <strong>del</strong>la diffidenza e <strong>del</strong><br />

disincanto la sua seconda pelle, non ci crede. O meglio,<br />

dà una risposta che potrebbe apparire sprezzante e invece<br />

lascia trasparire soltanto un disperato senso d’attesa:<br />

«Parere favorevole? Bene, aspettiamo e vediamo».<br />

Nessuna emozione: i balentes, compresi quelli over sessanta,<br />

non devono mostrare debolezze.<br />

Il problema è che qualcosa non quadra, i conti non<br />

tornano. Nella sua cella, <strong>Mesina</strong> conserva la comunicazione<br />

<strong>del</strong> giudice di sorveglianza di Pavia che appena<br />

cento giorni prima gli aveva annunciato il peggio: istanza<br />

di grazia rigettata. Due righe secche, senza commento<br />

o un briciolo di spiegazione.<br />

Cos’è accaduto nel frattempo?, chi e perché ha cambiato<br />

idea? Nessun segnale apprezzabile dall’esterno,<br />

niente che aiuti a capire. A Roma, che è la città dove<br />

201


tutto succede e tutto si decide, il dibattito politico stagna<br />

sul <strong>caso</strong>-Sofri e sulla intenzione <strong>del</strong> Presidente <strong>del</strong>la<br />

Repubblica di decidere in autonomia. Ovvero infischiandosene<br />

<strong>del</strong> parere <strong>del</strong> ministro Guardasigilli.<br />

Che c’entra <strong>Mesina</strong> con tutto questo? A possibili sviluppi<br />

positivi <strong>del</strong> <strong>caso</strong> non accenna il deputato diessino<br />

Francesco Carboni che lo va a trovare in carcere. Non<br />

ne parla nemmeno il difensore, avvocato Enrico Aimi,<br />

che si limita a inviare una lettera di incoraggiamento:<br />

non darti per vinto. Non ne sa nulla, infine, neanche la<br />

crocerossina <strong>del</strong>la grazia, quella Greca Deiana di Modena<br />

che da anni bazzica per parrocchie, ministeri e segreterie<br />

di partito nella speranza di riuscire a tirarlo<br />

fuori dalla cella.<br />

Negli ambienti parlamentari si parla con una certa<br />

insistenza di un inciucino carcerario, un’operazione<br />

trasversale che mette insieme (una volta tanto) maggioranza<br />

e opposizione. Circola, circolerebbe, una lista di<br />

persone da graziare. Lista da girare a Ciampi in cambio<br />

di un benevolo silenzio-assenso non appena verrà concessa<br />

la libertà a Sofri. I leghisti gradirebbero, per esempio,<br />

la scarcerazione dei lagunari che hanno asssaltato<br />

anni fa il campanile di piazza san Marco a Venezia. Alleanza<br />

Nazionale invece vedrebbe volentieri il ritorno a<br />

casa di Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. Non<br />

trapela, stranamente, la lista dei candidati di Forza Italia:<br />

i maligni dicono che il premier avrebbe solo l’imbarazzo<br />

<strong>del</strong>la scelta, altri propendono per difficoltà su un<br />

accordo interno.<br />

Illazioni. Alla luce <strong>del</strong> sole non c’è nulla, men che<br />

meno ci potrebbe essere un elenco di detenuti che in<br />

nome di una perversa par condicio possono tornare li-<br />

202<br />

beri. Resta tuttavia una certezza: a <strong>Mesina</strong> la grazia è stata<br />

negata e nulla autorizza a credere ci possa essere un<br />

ripensamento. Eppure il ripensamento c’è stato ma nessuno<br />

ne chiederà conto al ministro. A cose ormai fatte,<br />

in piena euforia da celebrazione televisiva, Castelli va<br />

addirittura in tivù con <strong>Mesina</strong>. Officia un conduttore<br />

felice e curiale nella sua untuosità cardinalizia. Nel corso<br />

<strong>del</strong>la trasmissione tivù, si chiacchiera, si parla di taglie<br />

per favorire la cattura degli assassini di un benzinaio<br />

ucciso a Lecco, si litiga sulla riforma giudiziaria appena<br />

varata ma neppure una domandina semplice semplice<br />

sulla grazia che prima non c’era e adesso c’è. Non<br />

ha questo tipo di curiosità neanche Gavino Angius, presidente<br />

dei senatori Ds, che pure si dichiara soddisfatto<br />

per la liberazione di <strong>Mesina</strong>.<br />

L’interrogativo su cosa sia avvenuto tra agosto e novembre<br />

<strong>del</strong> 2004 resterà, con tutta probabilità, un mistero.<br />

Vietato dire che il ministro ha cambiato idea. Il<br />

suo portavoce ricorda di aver sempre sostenuto una sola<br />

tesi: «La pratica <strong>del</strong>la grazia è in itinere». Vorrà dire<br />

che avranno capito male i giornalisti, il direttore <strong>del</strong> carcere<br />

di Voghera e il giudice di sorveglianza di Pavia che<br />

s’è affrettato a comunicare un’informazione che evidentemente<br />

non aveva alcuna importanza: la grazia era<br />

in itinerere e lui ha creduto, anzi l’ha messo per iscritto,<br />

che fosse stata respinta.<br />

Il silenzio è desolante e assoluto quando l’Ansa lancia<br />

un flash alle 12,54 <strong>del</strong> 23 novembre: Ciampi grazia<br />

<strong>Mesina</strong>. Nient’altro.<br />

La procedura prevede la scarcerazione immediata<br />

ma bisogna fare i conti con un ultimo refolo di sfortuna:<br />

c’è sciopero dei magistrati e quindi nessuno invia l’ordi-<br />

203


ne di scarcerazione che da Roma deve arrivare a Pavia e<br />

da Pavia a Voghera. Castelli, che con la magistratura ha<br />

un fronte di guerra permanente, ne approfitta per dichiarare<br />

che «lo sciopero ritarderà di 24 ore l’uscita dal<br />

carcere di Graziano <strong>Mesina</strong>. Un giorno di libertà in meno,<br />

che non gli restituirà nessuno».<br />

Il 24 novembre l’assedio dei giornalisti inizia di<br />

buon’ora. Freddo, un cielo basso e nuvoloso abbraccia<br />

degnamente la casa circondariale di Voghera: c’è<br />

un grigio uniforme che non regala affatto aria di festa.<br />

I primi arrivati si piazzano accanto all’ingresso, qualche<br />

metro dalla garitta blindata, intorno alle 8 <strong>del</strong><br />

mattino. Per ingannare l’attesa, qualcuno va a chiedere<br />

notizie di un secondino speciale, un pastore tedesco<br />

che mesi prima sembrava passarsela male sotto il sole<br />

d’agosto. È il cane <strong>del</strong>le guardie carcerarie, una cuccia<br />

di fronte a sbarre alte sette metri e, sullo sfondo, una<br />

discarica. Aspettando <strong>Mesina</strong>, vale la pena di andare a<br />

trovarlo superando – con discrezione – il limite invalicabile<br />

<strong>del</strong>la prigione (alt, sorveglianza armata). Il cane<br />

c’è e sta bene, abbaia con determinazione, mostra agli<br />

estranei una sanissima dentatura. Però non è lui. L’altro,<br />

spelacchiato e malconcio, ha tirato le cuoia. Quello<br />

che parteciperà all’affollata partenza di Graziano<br />

<strong>Mesina</strong> è soltanto un successore.<br />

Intanto il piazzale <strong>del</strong>le auto in sosta si riempie rapidamente.<br />

Tra telecamere e taccuini, c’è una piccola legione,<br />

un centinaio di reporter in tutto. Di <strong>Mesina</strong> manco<br />

l’ombra. Quando manca un quarto d’ora alle 13 una<br />

vecchia Punto si avvicina lentamente, supera uno sbarramento<br />

e s’arresta davanti alle gigantesche inferriate<br />

da gabbia circense che avvolgono il penitenziario. Al<br />

204<br />

volante c’è Ballore, fratello maggiore di Graziano, coppoletta<br />

sarda di velluto, occhi immobili su un punto imprecisato<br />

davanti a lui. Ballore finge di non sentire chi<br />

bussa ai vetri, di non vedere le facce dei giornalisti che si<br />

spiaccicano sul parabrezza implorando una dichiarazione<br />

qualunque. Forse, ma proprio forse, sorride impercettibilmente<br />

quando qualcuno gli pone una domanda<br />

iper-cretina: scusi, è venuto a prendere suo fratello?<br />

Con aplomb ben diverso, passo sicuro e quasi marziale,<br />

qualche ora prima aveva fatto il suo ingresso in<br />

carcere l’avvocato Aimi. Tutti sicuri che entrasse e<br />

uscisse nel giro di qualche minuto insieme a Graziano.<br />

Invece nulla. Dopo quasi tre ore di permanenza, il legale<br />

si fionda all’esterno, rallenta davanti allo schieramento<br />

di microfoni e distilla un’ovvietà: «Ancora pochi passi<br />

e Graziano <strong>Mesina</strong> sarà un uomo libero». Poi si allontana,<br />

imbufalito.<br />

La verità salta fuori in un baleno. Aimi, se una certa<br />

ricostruzione sussurrata è vera, è entrato in carcere e ha<br />

chiesto di parlare col suo assistito. Siccome dal ministero<br />

non era ancora arrivato niente, la risposta <strong>del</strong> comandante<br />

<strong>del</strong>la polizia penitenziaria è stata gentile e<br />

veloce: «No». Per non mostrare contrarietà, a quel<br />

punto Aimi ha ripiegato con stile: «Vabbe’, fatemelo<br />

sentire almeno per telefono». E ha incassato il secondo<br />

no. «Col detenuto in questione potrà parlare quando<br />

verrà scarcerato. In assenza d’una richiesta di colloquio<br />

regolarmente autorizzata, non è possibile incontrarlo o<br />

mettersi in comunicazione con lui». Sconfitto su tutta<br />

la linea e per niente disposto a rivelarlo ai giornalisti,<br />

l’avvocato ha preferito a quel punto optare per una ful-<br />

205


minea ritirata al termine di quelle due parole che dicevano<br />

e non dicevano.<br />

E <strong>Mesina</strong>? Per arrivare, arriva. Ma con enorme ritardo.<br />

Si viene a sapere che di buon mattino, non appena<br />

gli avevano riferito che una muta di giornalisti lo<br />

stava aspettando al varco, ha telefonato a suo fratello<br />

Ballore per chiedergli aiuto: «Vieni a prendermi».<br />

Spera (e sbaglia) di poter evitare la stampa e trattare in<br />

condizioni privilegiate il ventaglio di esclusive che lo<br />

aspetta.<br />

Le cose gli vanno male a metà. Indimenticabile comunque<br />

l’immagine che offre quando l’ultimo cancello<br />

automatico lampeggia e si apre lentamente per lasciarlo<br />

passare. Tra lui e il mondo c’è a quel punto solo una cancellata<br />

immensa, stretta, robusta, ostile. Braccia appesantite<br />

da tre buste di plastica (il bagaglio di undici anni<br />

in galera), Graziano appare in tutta la sua fragilità. Resta<br />

immobile, per pochi secondi, guarda disorientato e<br />

scosso le truppe assatanate che lo aspettano al di qua<br />

<strong>del</strong>le sbarre. Ha la faccia stanca, gli occhi velati da un<br />

istante di commozione (ma lui dirà che è colpa <strong>del</strong> raffreddore),<br />

la tensione e la solennità dei grandi momenti.<br />

Non sposta un muscolo, statuario come una preda che<br />

ha fiutato l’aria e aspetta l’attimo <strong>del</strong>la fuga.<br />

La primula rossa <strong>del</strong> Supramonte, adesso, è quasi un<br />

vecchio acciaccato dagli anni, un <strong>signor</strong>e che ha bisogno<br />

di riposare, muoversi con calma. Papalina grigia,<br />

giacca a vento e jeans, potrebbe essere confuso per un<br />

qualunque pensionato se non fosse per quella zavorra<br />

colorata che raccoglie tutte le sue cose, il corredo: un<br />

206<br />

po’ di vestiario, libri, lettere, il curriculum giudiziario.<br />

Stringe le mani di una decina d’agenti, prima di affacciarsi<br />

timidamente all’esterno sognando di raggiungere<br />

la macchina di Ballore prima che quegli altri, telecamere<br />

e notes, sferrino l’attacco. «Graziano, Grazianooo...».<br />

Dalle retrovie qualcuno lancia un urlo. E lui si<br />

blocca, posa le buste per terra e aspetta che il primo incursore<br />

riesca a placcarlo. «Bentornato». <strong>Lo</strong> salutano<br />

un vecchio amico, il nipote, un parente-giornalista. Baci<br />

e abbracci, pochi secondi che tuttavia bastano a tutti gli<br />

altri per andare all’arrembaggio.<br />

Parte una raffica di domande, più o meno scontate.<br />

Cosa prova, cosa farà, come ha dormito l’ultima notte<br />

in cella, cosa ha detto a quelli che restano, chi gli piacerebbe<br />

ringraziare, vuole fare un appello agli italiani.<br />

<strong>Mesina</strong> risponde a monosillabi, costringendosi perfino<br />

a sorridere. Ma di un sorriso stretto, di circostanza.<br />

Non ne ha affatto voglia di ridere, lo stress sembra<br />

paralizzarlo. La voce di Ballore, che preme vanamente<br />

per fare manovra e andar via, affiora quando un cronista<br />

chiede quale sarà la prossima meta: «Destinazione<br />

segreta».<br />

Segreta? Con molta fatica e dopo molte insistenze,<br />

Graziano riesce a infilarsi in macchina, fendere la folla<br />

e allontanarsi. I più selvaggi <strong>del</strong>la muta lo tampinano,<br />

quasi fossero la scorta. Confidano che lungo strada tanta<br />

cocciutaggine venga premiata. E invece no. Ballore<br />

vola, si fa per dire, verso Crescentino e intanto interroga<br />

il fratello per rompere un silenzio fastidioso. Ma<br />

Graziano non ha voglia di parlare. Un nebbione da manuale<br />

gli chiude l’orizzonte <strong>del</strong> mondo che ha soltanto<br />

immaginato per tanti, lunghissimi anni: pioppi, frutteti,<br />

207


piccole aziende agrarie. E un traffico d’autostrada che<br />

preoccupa.<br />

Che odore ha la libertà?, che colori mostra? Stretto<br />

fra Tir e automobili avvolti dalla foschia, vede poco e<br />

immagina meno. Tanto, i profumi che aspetta di sentire<br />

e le immagini che vuole davvero vedere stanno altrove,<br />

molto lontano da qui.<br />

Arriva a Crescentino e siede a tavola insieme ai familiari<br />

e all’avvocato Aimi. A un tratto Ballore gli chiede se<br />

si vuol trattenere qualche giorno, giusto per alleggerire<br />

il peso di un momento sicuramente impegnativo e difficile.<br />

Riflette giusto un secondo: «Vado via. Domani mi<br />

imbarco da Livorno. Voglio tornare a Orgosolo».<br />

Il giorno dopo, nel corridoio <strong>del</strong> molo, è incappucciato<br />

a sufficienza per non essere riconosciuto. La macchina<br />

che lo trasporta infila lentamente la grande porta<br />

carraia <strong>del</strong> traghetto e prosegue fino al parcheggio.<br />

Graziano non è solo: non sa guidare e non ha nemmeno<br />

la patente. Confida di tapparsi in cabina fino all’arrivo a<br />

Olbia.<br />

Una <strong>signor</strong>a, giornale spalancato tra le mani, lo osserva<br />

per un attimo, fa ballare gli occhi su e giù, tra lui e<br />

la foto sul giornale, poi balbetta. «Scusi, ma lei non è,<br />

non è...». Il nome non riesce a pronunciarlo. Graziano<br />

le viene incontro: «Sì, sono io».<br />

“Io” che fa accorrere un camionista e subito dopo<br />

uno studente. “Io” che, mentre gli cresce intorno un capannello<br />

di visi sorridenti, si ritrova circondato. Di nuovo:<br />

prima i giornalisti, ora i viaggiatori d’una motonave.<br />

Parte un applauso, la proposta di un brindisi accolta all’unanimità<br />

e l’inevitabile coretto in lingua sarda. Il traghetto<br />

salpa mentre a bordo c’è festa grande. A un ra-<br />

208<br />

gazzo che lo guarda incantato quasi fosse un’apparizione,<br />

<strong>Mesina</strong> viene incontro avvertendolo: «Se vuoi ti racconto<br />

la mia vita, ma non prenderla ad esempio».<br />

Dopo lo sbarco e dopo molti bicchieri di spumante,<br />

comincia la lettura dei giornali mentre si viaggia<br />

verso Nuoro. Tutto come previsto: Orgosolo accoglie<br />

con freeddezza la notizia <strong>del</strong>la grazia (i vecchi sono indifferenti,<br />

i giovani giurano di non sapere chi sia), il<br />

paese non tradisce il minimo entusiasmo. E gli altri?<br />

Fateh Kassam dice che la notizia lo interessa quanto<br />

una macchina parcheggiata per strada e rifiuta di aggiungere<br />

qualsiasi commento ma si capisce (e bene)<br />

che non sta facendo i salti di gioia. Penalisti, poliziotti<br />

e frequentatori di <strong>Mesina</strong> (ragioni d’ufficio) stanno<br />

dentro il binario di un cauto ottimismo: giustizia è fatta,<br />

ma ora stacchiamo la spina, non trasformiamo tutto<br />

in uno show.<br />

Appena arrivato a Orgosolo, Graziano si nasconde a<br />

casa <strong>del</strong>la sorella, aggira l’appostamento dei fotografi<br />

entrando da una porta posteriore, la stessa che adoperava<br />

quando – durante il rapimento <strong>del</strong> piccolo Farouk<br />

Kassam – cercava di fare il lavoro <strong>del</strong>l’emissario nella<br />

maniera meno chiassosa possibile.<br />

Questo suo silenzio assoluto potrebbe far pensare al<br />

bisogno di calarsi nell’anonimato, al desiderio di riprendere<br />

la vita senza doverne rendere conto ai lettori<br />

dei giornali: finalmente. Il motivo di tanta riservatezza<br />

però è un altro: finché sono in corso le trattative per<br />

un’esclusiva televisiva e un’altra a un settimanale, meglio<br />

evitare anche i fotografi.<br />

209


Un settimanale pubblica “l’unica intervista rilasciata<br />

da <strong>Mesina</strong> in carcere”. È una bufala bella e buona, visto<br />

che di interviste ne ha dato più d’una, con grande<br />

generosità. Di corollario escono altre piccole e poco<br />

credibili esclusive (montate incollando vecchi articoli<br />

su Grazianeddu). Il quale non si stanca mai di avvertire<br />

che non intende rispondere soltanto a tre domande:<br />

sulla criminalità in <strong>Sardegna</strong> (e non solo in <strong>Sardegna</strong>),<br />

sulla vecchia faida di Orgosolo e sul rapimento di Kassam.<br />

Ad abundatiam non vuol parlare nemmeno <strong>del</strong>le<br />

armi trovate a suo tempo nel casale vicino Asti dove<br />

trascorreva una sorta di confino. In altre parole, non intende<br />

riaprire storie sepolte e dimenticate che possono<br />

accendere (riaccendere) polemiche. <strong>Mesina</strong> cerca un<br />

presente senza paura, possibilmente non avvelenato:<br />

per questa ragione, appena lasciata Voghera, si gestisce<br />

con grande autocontrollo. Tanto è vero che nel botta e<br />

risposta all’uscita dal carcere glissa più o meno su tutto<br />

e rinvia ad altra data perfino i dovuti ringraziamenti al<br />

Capo <strong>del</strong>lo Stato.<br />

La prima sortita ufficiale – prevista, programmata<br />

e, per quel che se ne sa, profumatamente pagata – è in<br />

tivù, su “Porta a Porta”. Per l’occasione gli fanno trovare<br />

in studio il ministro Castelli che arriva a frenare<br />

una lacrima dicendo d’aver «provato una gioia immensa<br />

a liberare un uomo». Il conduttore incalza, spera<br />

che pianga anche Graziano e quando s’accorge<br />

d’un battito di ciglia troppo accelerato uggiola di felicità.<br />

Due commozioni un colpo solo: il ministro e il<br />

bandito.<br />

Incassato in una poltroncina bianca, <strong>Mesina</strong> non<br />

sembra a suo agio. Sta ingessato, fa saettare gli occhi<br />

210<br />

dallo studio al monitor per capire quando lo stanno inquadrando.<br />

Per renderlo compatibile con la trasmissione,<br />

abbondano di fondo tinta: effetto anti-sudore sotto i<br />

riflettori ma soprattutto per coprire le macchie <strong>del</strong>la vitiligine.<br />

Non bastasse il cerone, a farlo sentire inadeguato<br />

e a disagio è anche l’abbigliamento: giacca e cravatta<br />

strizzata sul collo, un’arietta da parastatale in crisi. Si<br />

vede benissimo che sta subendo un martirio per causa<br />

di forza maggiore: dopo la scarcerazione, i quattrini non<br />

abbondano, tanto vale dunque mettersi sul mercato<br />

<strong>del</strong>le confessioni in esclusiva. Finché dura.<br />

Confessioni, poi, per modo di dire. Quando prende<br />

parte alla trasmissione su Rai 1, l’ex fuorilegge diventato<br />

mito leggenda eccetera eccetera dice poco: ringrazia<br />

Castelli e il presidente Ciampi ma senza perdersi in ruffianerie.<br />

Occhio asciutto, voce tesa, mani agganciate ai<br />

braccioli, parla il meno possibile, ascolta un reportage<br />

di qualche minuto sulla sua carriera criminale, rievoca<br />

(divertendo gli spettatori televisivi) l’evasione dal carcere<br />

sassarese di San Sebastiano con relativa fuga in taxi<br />

insieme all’amico spagnolo Miguel Angel Atienza.<br />

È probabile che nelle prossime settimane gli tornino<br />

in mente altri spezzoni <strong>del</strong>la lunga avventura dentro e<br />

fuori dalle prigioni, ma in sostanza è già stato sufficientemente<br />

prodigo da riferire più o meno tutto di sè. Meglio:<br />

più o meno tutto quello che ha voluto riferire.<br />

Salvo colpi di scena, la storia di Graziano <strong>Mesina</strong> finisce<br />

qui. Era giusto e corretto battersi perché ottenesse<br />

la grazia, tenere in piedi martellanti campagne di stampa,<br />

sottolineare il passato rispettoso d’una certa deon-<br />

211


tologia professionale. Ma continuare a parlarne significa<br />

davvero alimentare il mito, nel senso peggiore <strong>del</strong><br />

termine. Significa trascinare nello star-system una figura<br />

che, osservata anche con l’occhio più benevolo e distaccato,<br />

non può essere punto di riferimento. Il primo a<br />

esserne cosciente è proprio Graziano <strong>Mesina</strong> che, invitato<br />

da quattrocento studenti <strong>del</strong>le scuole superiori di<br />

Oristano, si è preparato a ribadire un concetto fondamentale:<br />

«Non fate come me». Non fate come lui che la<br />

vita se l’è quasi <strong>del</strong> tutto distrutta, scaraventata in una<br />

trincea da dove difficilmente si esce vivi. Forse ha ragione<br />

il suo amico Gigi Riva, calciatore patrono di <strong>Sardegna</strong>,<br />

quando dice che «in fondo Graziano è figlio <strong>del</strong>la<br />

sua epoca, di una periferia che doveva fare quotidianamente<br />

i conti con la miseria e la violenza. Non lo dico<br />

per giustificare, ma soltanto per capire».<br />

Di importante, davvero notevole, è stato il comportamento<br />

in carcere dove vendersi o annientarsi è questione<br />

di un attimo. <strong>Mesina</strong> ha un formidabile sistema<br />

nervoso, una forza interiore che meriterebbe un congresso<br />

scientifico: non ha mai avuto un verbale disciplinare,<br />

non ha mai litigato, non è mai entrato nelle grazie<br />

di un direttore. Non è un pentito (non potrebbe esserlo),<br />

ha custodito la dignità come un tesoro segreto, l’ha<br />

difesa contro tutto e contro tutti. Senza perdere la testa<br />

una sola volta. Quando gli hanno fatto sapere che l’istanza<br />

di grazia era stata respinta, non ha iniziato lo<br />

sciopero <strong>del</strong>la fame, non ha minacciato il suicidio, non<br />

si è sciolto in pianto sul palcoscenico di Maurizio Costanzo.<br />

Ha scelto, come sua abitudine, il silenzio.<br />

Non accade spesso che quando un detenuto va via<br />

lo saluti una specie di ovazione, il battimani frenetico<br />

212<br />

dei compagni di galera e quello degli agenti di polizia<br />

penitenziaria che hanno convidiviso con lui mille giornate<br />

senza fine. Con lui è successo.<br />

Non ha rinnegato neppure un minuto <strong>del</strong>la sua esistenza,<br />

non ha smentito qualche accusa palesemente<br />

falsa, accusa strumentale a una politica giudiziaria che<br />

puntava a seppellirlo vivo. Questo è un capitolo che<br />

non intende riaprire mai più.<br />

Fine <strong>del</strong>la guerra. Graziano <strong>Mesina</strong> entra nel ritrettissimo<br />

club dei graziati. A distanza di sicurezza dal<br />

mondo.<br />

Cagliari, dicembre 2004<br />

213


Cronologia <strong>del</strong>la vita<br />

di Graziano <strong>Mesina</strong><br />

1942<br />

4 aprile. Graziano <strong>Mesina</strong> nasce a Orgosolo. Famiglia<br />

povera, agropastorale.<br />

1958<br />

Minorenne, viene fermato dai carabinieri mentre spara<br />

con un fucile ai lampioni <strong>del</strong> paese.<br />

1960<br />

Viene nuovamente sorpreso a sparare contro i lampioni.<br />

Fermato dai carabinieri, fugge dalla camera di sicurezza<br />

e si dà alla latitanza. Condannato a sette mesi di<br />

reclusione.<br />

1961<br />

Agguato in un bar di Orgosolo sullo sfondo di un sequestro<br />

di persona. Viene arrestato e condannato a sedici<br />

anni.<br />

Litiga con un vicino che gli ha ucciso il cane: due anni<br />

e mezzo di reclusione per lesioni gravi.<br />

1962<br />

Tenta di fuggire dal carcere di Nuoro ma viene intercettato<br />

dagli agenti di custodia. Il colpo gli riesce poco<br />

215


dopo: ricoverato in ospedale, scappa appendendosi<br />

agli scolatoi <strong>del</strong>l’acqua.<br />

Suo fratello Giovanni viene assassinato.<br />

Entra in un bar e fulmina con una sventagliata di mitra<br />

il fratello <strong>del</strong>l’uomo sospettato di aver ucciso Giovanni.<br />

Una bottigliata in testa lo ferma mentre se ne sta andando.<br />

Ventisei anni di reclusione.<br />

1963<br />

Tenta di evadere ma viene scoperto e trasferito a Porto<br />

Azzurro.<br />

1964<br />

Si finge pazzo e finisce nel manicomio giudiziario di<br />

Montelupo Fiorentino. Ci resta poco: è trasferito prima<br />

a Viterbo e poi a Spoleto dove tenta la fuga dopo<br />

aver appiccato le fiamme a un magazzino.<br />

1965<br />

Prova a scappare durante un viaggio in treno, ma le<br />

guardie lo sorprendono.<br />

1966<br />

È l’anno <strong>del</strong>la più clamorosa <strong>del</strong>le sue nove evasioni.<br />

Insieme allo spagnolo Miguel Angel Atienza, riesce a<br />

scavalcare il muro di cinta <strong>del</strong> carcere di Sassari, si mescola<br />

alla folla e si allontana in taxi. Riprende il vecchio<br />

mestiere: rapine e sequestri.<br />

1967<br />

Rapisce a Nuoro un facoltoso commerciante. Un mese<br />

dopo ingaggia un conflitto a fuoco con i “baschi blu”.<br />

Colpito in pieno petto, Atienza muore dopo una breve<br />

216<br />

agonia. Seguono altri quattro scontri con polizia e carabinieri.<br />

1968<br />

Due sequestri e incontro con un ufficiale <strong>del</strong> Sifar,<br />

Massimo Pugliese. Alla fine di marzo viene arrestato a<br />

un posto di blocco <strong>del</strong>la polizia stradale.<br />

1969<br />

Sotto processo per diversi episodi legati alla latitanza,<br />

viene condannato all’ergastolo per “cumulo di pena”.<br />

In compenso, viene definitivamente scagionato per la<br />

morte di due poliziotti massacrati in un conflitto a fuoco.<br />

Si riuscirà a dimostrare che a ucciderli sono state<br />

pallottole in dotazione alle forze <strong>del</strong>l’ordine.<br />

1976<br />

Viene assassinato il fratello Nicola. In agosto fugge<br />

dal carcere di Lecce insieme al nappista Martino Zichitella.<br />

1977<br />

Rapisce un industriale calzaturiero ad Ascoli. A primavera<br />

viene sorpreso e arrestato in Trentino.<br />

1985<br />

Il boss Angelo Epaminonda racconta d’aver fatto insieme<br />

a lui una rapina. <strong>Mesina</strong> nega ma viene ugualmente<br />

condannato.<br />

Ottiene un permesso e non rientra in carcere. Dopo pochi<br />

giorni di ricerche, verrà arrestato in un appartamento<br />

a Milano. Con lui c’è una ragazza, Valeria Fusè, che<br />

gli aveva scritto molte lettere durante la detenzione.<br />

217


1991<br />

Il Tribunale di sorveglianza di Torino gli concede la liberazione<br />

condizionale. Ha l’obbligo di risiedere a San<br />

Marzanotto d’Asti ma viene sorpreso a Parma. In una<br />

valigetta ha dieci milioni in contanti: soldi puliti, verrà<br />

accertato.<br />

1992<br />

Sequestro <strong>del</strong> piccolo Farouk Kassam a Porto Cervo, in<br />

<strong>Sardegna</strong>. <strong>Mesina</strong> accetta di fare l’emissario per conto<br />

<strong>del</strong>la famiglia. Si scontra, anche se non direttamente,<br />

con Procura, polizia e servizi segreti.<br />

1993<br />

Viene arrestato: nel suo cascinale di San Marzanotto<br />

trovano armi. Dietro, c’è la storia di un improbabile sequestro<br />

a Montecarlo da mettere a segno con due strani<br />

personaggi.<br />

1994-1999<br />

Viene incriminato per favoreggiamento (sequestro Kassam),<br />

per la vendita di un chilo di eroina, per aver tentato<br />

un recupero-crediti per droga da malavitosi sardi.<br />

2000<br />

Trasferito dal carcere di Novara a quello di Voghera,<br />

apprende di essere stato condannato a due anni e otto<br />

mesi. Che, aggiunti ai sei per il rapimento a Montecarlo,<br />

precludono qualunque prospettiva d’uscita dal carcere.<br />

2003<br />

Su pressione dei familiari, firma la domanda di grazia al<br />

Presidente <strong>del</strong>la Repubblica.<br />

218<br />

2004<br />

Ad agosto gli comunicano che l’istanza di grazia è stata<br />

respinta. Contrordine a novembre, cento giorni dopo:<br />

la grazia è concessa.<br />

In conclusione, ecco l’elenco <strong>del</strong>le carceri italiane<br />

dove è stato detenuto Graziano <strong>Mesina</strong>:<br />

Regina Coeli, Badu ’e Carros, Lecce, Novara, Voghera,<br />

Buoncammino, Favignana, Porto Azzurro, Saluzzo, Alghero,<br />

Trani, Torino, Oristano, Sassari, Procida, Volterra,<br />

Viterbo, Spoleto, Montelupo Fiorentino, Augusta,<br />

Trento.<br />

219


INDICE


INDICE<br />

<strong>Lo</strong> <strong>strano</strong> <strong>caso</strong> <strong>del</strong> <strong>signor</strong> <strong>Mesina</strong><br />

7 I. A casa<br />

19 II. Ritratto di pentito<br />

31 III. Le regole <strong>del</strong> gioco<br />

43 IV. Affari riservati<br />

55 V. Fateh Kassam<br />

67 VI. Missione a rischio<br />

77 VII. Il dio tritolo<br />

91 VIII. Matteo Boe<br />

103 IX. La Coop dei sequestri<br />

117 X. Una star <strong>del</strong> crimine<br />

129 XI. La notte <strong>del</strong>le menzogne<br />

141 XII. Armi ad Asti<br />

157 XIII. Polvere di mito<br />

169 XIV. Dieci anni dopo<br />

193 XV. La grazia negata<br />

201 XVI. Ritorno a casa<br />

215 Cronologia <strong>del</strong>la vita di Graziano <strong>Mesina</strong>


Volumi pubblicati:<br />

Tascabili<br />

Grazia Deledda, Chiaroscuro<br />

Grazia Deledda, Il fanciullo nascosto<br />

Grazia Deledda, Ferro e fuoco<br />

Francesco Masala, Quelli dalle labbra bianche<br />

Emilio Lussu, Il cinghiale <strong>del</strong> Diavolo (2 a edizione)<br />

Maria Giacobbe, Il mare (3 a edizione)<br />

Sergio Atzeni, Il quinto passo è l’addio<br />

Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri<br />

Giulio Angioni, L’oro di Fraus (2 a edizione)<br />

Antonio Cossu, Il riscatto<br />

Bachisio Zizi, Greggi d’ira<br />

Ernst Jünger, Terra sarda<br />

Marcello Fois, Sempre caro (2 a edizione)<br />

Salvatore Niffoi, Il viaggio degli inganni (2 a edizione)<br />

Luciano Marrocu, Fáulas (2 a edizione)<br />

Gianluca Floris, I maestri cantori<br />

D.H. Lawrence, Mare e <strong>Sardegna</strong><br />

Salvatore Niffoi, Il postino di Piracherfa<br />

Flavio Soriga, Diavoli di Nuraiò (2 a edizione)<br />

Giorgio Todde, <strong>Lo</strong> stato <strong>del</strong>le anime (2 a edizione)<br />

Francesco Masala, Il parroco di Arasolè<br />

Maria Giacobbe, Gli arcipelaghi (2 a edizione)<br />

Salvatore Niffoi, Cristolu<br />

Giulio Angioni, Millant’anni<br />

Luciano Marrocu, Debrà Libanòs<br />

Giorgio Todde, La matta bestialità (2 a edizione)<br />

Sergio Atzeni, Racconti con colonna sonora e altri «in giallo»<br />

Marcello Fois, Materiali<br />

Maria Giacobbe, Diario di una maestrina<br />

Giuseppe Dessì, Paese d’ombre<br />

Francesco Abate, Il cattivo cronista


Gavino Ledda, Padre padrone<br />

Salvatore Niffoi, La sesta ora<br />

Jack Kerouac, L’ultima parola. In viaggio. Nel jazz<br />

Gianni Marilotti, La quattordicesima commensale<br />

Giorgio Todde, Ei<br />

Luigi Pintor, Servabo<br />

Marcello Fois, Tamburini<br />

Francesco Abate, Ultima di campionato<br />

Patrick Chamoiseau, Texaco<br />

Luciano Marrocu, Scarpe rosse, tacchi a spillo<br />

Alberto Capitta, Creaturine<br />

Romano Ruju, Quel giorno a Buggerru<br />

Peppinu Mereu, Poesie complete<br />

Narrativa<br />

Salvatore Cambosu, <strong>Lo</strong> sposo pentito<br />

Marcello Fois, Nulla (2 a edizione)<br />

Francesco Cucca, Muni rosa <strong>del</strong> Suf<br />

Paolo Maccioni, Insonnie newyorkesi<br />

Bachisio Zizi, Lettere da Orune<br />

Maria Giacobbe, Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanzia<br />

Giulio Angioni, Il gioco <strong>del</strong> mondo<br />

Aldo Tanchis, Pesi leggeri<br />

Maria Giacobbe, Scenari d’esilio. Quindici parabole<br />

Giulia Clarkson, La città d’acqua<br />

Paola Alcioni, La stirpe dei re perduti<br />

Mariangela Sedda, Oltremare<br />

Rossana Copez, Si chiama Violante<br />

Poesia<br />

Giovanni Dettori, Amarante<br />

Sergio Atzeni, Due colori esistono al mondo. Il verde è il secondo<br />

Gigi Dessì, Il disegno<br />

Roberto Concu Serra, Esercizi di salvezza<br />

Serge Pey, Nierika o le memorie <strong>del</strong> quinto sole<br />

Saggistica<br />

Bruno Rombi, Salvatore Cambosu, cantore solitario<br />

Giancarlo Porcu, La parola ritrovata. Poetica e linguaggio in<br />

Pascale Dessanai<br />

FuoriCollana<br />

Salvatore Cambosu, I racconti<br />

Antonietta Ciusa Mascolo, Francesco Ciusa, mio padre<br />

Alberto Masala - Massimo Golfieri, Mediterranea<br />

I Menhir<br />

Salvatore Cambosu, Miele amaro<br />

Antonio Pigliaru, Il banditismo in <strong>Sardegna</strong>. La vendetta barbaricina<br />

Giovanni Lilliu, La civiltà dei sardi<br />

Giulio Angioni, Sa laurera. Il lavoro contadino in <strong>Sardegna</strong><br />

Libristante<br />

Giorgio <strong>Pisano</strong>, <strong>Lo</strong> <strong>strano</strong> <strong>caso</strong> <strong>del</strong> <strong>signor</strong> <strong>Mesina</strong><br />

In coedizione con Edizioni Frassinelli<br />

Marcello Fois, Sempre caro<br />

Marcello Fois, Sangue dal cielo<br />

Marcello Fois, L’altro mondo<br />

Giorgio Todde, <strong>Lo</strong> stato <strong>del</strong>le anime<br />

Giorgio Todde, Paura e carne<br />

Giorgio Todde, L’occhiata letale


Finito di stampare<br />

nel mese di gennaio 2005<br />

dalla Tipolitografia ME.CA.<br />

Recco (GE)

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