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42 ANDANDO PER MOSTRE Inganni dello spazio, alfabeti e segni inquieti del comico di luca pietro nicoletti EMILIO TADINI: L’IMMAGINE E LA PAROLA parola» scriveva Emilio Tadini alla metà degli anni «La Ottanta, «è come se si sforzasse di approfondire le cose, di portarle più nel profondo. Le figure è come se si sforzassero di tenere le cose in superficie». Tadini è stato fra quegli intellettuali poliedrici che hanno condotto in parallelo l’attività artistica e quella letteraria, avendo la sorte curiosa di nascere scrittore ed essere poi ricordato soprattutto come pittore. In effetti, la copiosa produzione pittorica riempie il lungo intervallo fra un romanzo e il successivo. Le due attività, tuttavia, vanno tenute unite, poiché fra le due si verifica una osmosi continua: la pittura si nutre di spunti letterari, ed ha EMILIO TADINI 1985-1997. I PROFUGHI, I FILOSOFI, LA CITTÀ E LA NOTTE MILANO, FONDAZIONE MARCONI ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA 19 SETTEMBRE – 31 OTTOBRE 2012 http://www.fondazionemarconi.org/ quell’implicazione erudita tipica di quegli artisti di molte e articolate letture; di contro lo scrittore, nella sua sintassi sperimentale figlia del “Nouveau roman”, presta sempre attenzione all’immagine. È difficile infatti resistere alla tentazione di figurarsi, leggendo i romanzi, i personaggi che popolano il suo immaginario fantastico, specialmente quando si arriva all’inizio degli anni Ottanta. Se ne può avere riscontro nella la Biblioteca di via Senato Milano – settembre 2012 grande mostra che la Fondazione Giorgio Marconi di Milano dedica al pittore (a suo tempo fra gli artisti di punta dell’allora “Studio Marconi”), nel decennale della morte. Facendo seguito alla grande esposizione L’occhio della pittura del 2007, dedicata alla produzione compresa fra anni Cinquanta e inizio anni Ottanta, questa seconda tappa propone invece gli sviluppi dai primi anni Ottanta alla metà degli anni Novanta. Il periodo, insomma, in cui Tadini si lascia alle spalle le esperienze più propriamente “pop” per dare vita al suo immaginario fiabesco, ai suoi racconti fluttuanti in un mondo senza atmosfera, in cui, come osservò il pittore Dimitri Plescan recensendo la mostra alla Rotonda della Besana del 1986, «ridde di personaggi/oggetti si accavallano e disperdono percorse, percosse e squinternate da accelerazioni debitrici di qualcosa al cinema, ad uno Chagall velocizzato, al cubofuturismo». È il caso de Il ballo dei filosofi, già oggetto di una mostra presso lo Studio Marconi. L’immersione nel mondo della fiaba, ovviamente, non è sinonimo di disimpegno: con un tono apparentemente leggero, sotto l’apparenza del lazzo giocoso si celano le inquietudini del moderno uomo-automa. La lunga notte della ragione, insomma, lascia spazio all’invenzione più sfrenata: la fiaba, in fondo, è da sempre un modo leggero di raccontare cose serie. «Viene da pensare» scriveva sempre Plescan, «che, dopo le testimonianze totali e inevitabilmente desolanti di Giacometti e di Bacon, Tadini ritenga oggi possibile, nella concretezza del suo far quadri, una ricognizione significativa –e non effimera- dell’uomo nella storia, solo a passare per i caratteri, i meccanismi e le macchine del “comico”». Sopra: Il ballo dei filosofi, 1995, Acrilici su tela, 190x100 - 200 x 120 – 190x100 cm

settembre 2012 – la Biblioteca di via Senato Milano 43 SEGNI E ALFABETI DI CAPOGROSSI Fino al 1950, Giuseppe Capogrossi era un pittore figurativo della Scuola Romana. Solo allo scadere della metà del secolo scorso, a un’età già matura, avrebbe avuto una svolta radicale verso la non-rappresentazione, addentrandosi pienamente nei modi dell’Informale: era diventato un pittore nuovo, su cui si consoliderà la sua fisionomia d’artista più accreditata, al punto da far quasi dimenticare ai meno accorti il suo lungo percorso precedente. Ma di quella esperienza non aveva portato nulla nella nuova avventura astratta, a cui rende omaggio LA GEOMETRIA LEGGERA DI GRAZIA VARISCO La ricerca di Grazia Varisco gioca sui meccanismi della percezione e dello spazio. Per questo motivo, chi visiterà la mostra a lei dedicata presso la Permanente di Milano (Se…, fino al 14 ottobre), non troverà un’antologica cronologicamente ordinata, ma una mostra che concede molto alla suggestione poetica e al divertimento dell’esperienza estetica. Come dice Giorgio Verzotti nell’introduzione al catalogo (Mazzotta), il suo è un “compasso spaventato” che ridisegna l’ambiente in senso geometrico, lo risemantizza su un duplice piano: quello squisitamente visivo, messo in atto fin dalle prime opere di arte programmata, e quello “architettonico”. Nel primo caso la ricerca si spinge in direzione dell’“opera aperta”, che richiede una partecipazione attiva del fruitore nella costruzione dell’immagine (come nelle ta- Gnom-one, two, three, 1984, metallo verniciato, installazione al Museo d'Arte Contemporanea, Villa Croce, Genova vole magnetiche del 1959), senza disdegnare l’ausilio tecnologico che rende possibili gli Schemi luminosi variabili dell’inizio degli anni Sessanta: questi, infatti, consento una ciclicità processuale in continua variazione. Nel secondo caso, invece, la progettazione ambientale pone il problema delle strutture primarie in accezione grafico-disegnativa, annullando completamente la questione plastica: la Varisco costruisce con il ferro piegato situazioni di esperienza dello spazio, demarca confini e illusioni prospettiche: i suoi Gnomoni, della metà degli anni Ottanta, sembrano librarsi come spigolose libellule, ricordando che la scultura può essere anche linee e ombre portate. Sopra: Giuseppe Capogrossi, Sole di mezzanotte, 1950 circa, olio su tela la mostra curata da Luca Massimo Barbero alla Fondazione Guggenheim di Venezia (29 settembre 2012-10 febbraio 2013). Da quella data, e per i vent’anni successivi, Capogrossi metterà a punto un linguaggio basato sulla ripetizione, variazione e modulazione di un unico segno a forma di pettine, elemento base del suo “alfabeto”, come ebbe a definirlo Gillo Dorfles. Ma in quel frangente, tenendo unita una complicata rete di relazioni che lo porta fino negli Stati Uniti, posava gli occhi su di lui il critico francese Michel Tapié, che lo vorrà nel suo gruppo dell’art autre insieme a Michaux, Mathieu e molti altri artisti del panorama internazionale. «Troppi sono gli artisti» scriveva su di lui l’amico critico Gualtieri di San Lazzaro «che dieci anni or sono hanno adottato il nuovo linguaggio. Ma non hanno per questo rinunciato al “mestiere”, a tutte quelle scaltrezze che la mano, in mancanza d’altro, aveva appreso da sé. Capogrossi è il solo che, come Mondrian trent’anni prima, e quasi alla stessa età, si sia sbarazzato di tutto quello che aveva appreso, sia uscito interamente dall’equivoco in cui si trovava la pittura in Italia, conservando solo il sentimento iniziale, quello che lo aveva portato a preferire la pittura a tutti gli altri mezzi di espressione. […] Nella pittura contemporanea, la sua presenza, il suo segno, sono inconfodibili. Diceva Stendhal che l’arte è soprattutto un fatto di sensibilità. Ma perderemmo tempo, tentando di commentare la felicità di questo sego – che fra l’altro non deve nulla alla pittura francese o tedesca e ancor meno alla scuole del Pacifico – a chi per difetto di sensibilità non può “sentirlo”».

settembre 2012 – la <strong>Biblioteca</strong> <strong>di</strong> <strong>via</strong> <strong>Senato</strong> Milano 43<br />

SEGNI E ALFABETI<br />

DI CAPOGROSSI<br />

Fino al 1950, Giuseppe Capogrossi<br />

era un pittore figurativo della<br />

Scuola Romana. Solo allo scadere<br />

della metà del secolo scorso, a un’età<br />

già matura, avrebbe avuto una svolta<br />

ra<strong>di</strong>cale verso la non-rappresentazione,<br />

addentrandosi pienamente nei mo<strong>di</strong><br />

dell’Informale: era <strong>di</strong>ventato un pittore<br />

nuovo, su cui si consoliderà la sua<br />

fisionomia d’artista più accre<strong>di</strong>tata, al<br />

punto da far quasi <strong>di</strong>menticare ai meno<br />

accorti il suo lungo percorso<br />

precedente. Ma <strong>di</strong> quella esperienza non<br />

aveva portato nulla nella nuova<br />

avventura astratta, a cui rende omaggio<br />

LA GEOMETRIA LEGGERA DI GRAZIA VARISCO<br />

La ricerca <strong>di</strong> Grazia<br />

Varisco gioca sui<br />

meccanismi della<br />

percezione e dello spazio.<br />

Per questo motivo, chi visiterà<br />

la mostra a lei de<strong>di</strong>cata<br />

presso la Permanente <strong>di</strong><br />

Milano (Se…, fino al 14 ottobre),<br />

non troverà un’antologica<br />

cronologicamente<br />

or<strong>di</strong>nata, ma una mostra<br />

che concede molto alla<br />

suggestione poetica e al <strong>di</strong>vertimento<br />

dell’esperienza<br />

estetica. Come <strong>di</strong>ce Giorgio<br />

Verzotti nell’introduzione<br />

al catalogo (Mazzotta), il<br />

suo è un “compasso spaventato”<br />

che ri<strong>di</strong>segna<br />

l’ambiente in senso geometrico,<br />

lo risemantizza su un<br />

duplice piano: quello squisitamente<br />

visivo, messo in<br />

atto fin dalle prime opere <strong>di</strong><br />

arte programmata, e quello<br />

“architettonico”. Nel primo<br />

caso la ricerca si spinge in<br />

<strong>di</strong>rezione dell’“opera aperta”,<br />

che richiede una partecipazione<br />

attiva del fruitore<br />

nella costruzione dell’immagine<br />

(come nelle ta-<br />

Gnom-one, two, three, 1984, metallo verniciato, installazione<br />

al Museo d'Arte Contemporanea, Villa Croce, Genova<br />

vole magnetiche del 1959),<br />

senza <strong>di</strong>sdegnare l’ausilio<br />

tecnologico che rende possibili<br />

gli Schemi luminosi<br />

variabili dell’inizio degli<br />

anni Sessanta: questi, infatti,<br />

consento una ciclicità<br />

processuale in continua<br />

variazione. Nel secondo caso,<br />

invece, la progettazione<br />

ambientale pone il problema<br />

delle strutture primarie<br />

in accezione grafico-<strong>di</strong>segnativa,<br />

annullando completamente<br />

la questione<br />

plastica: la Varisco costruisce<br />

con il ferro piegato<br />

situazioni <strong>di</strong> esperienza<br />

dello spazio, demarca confini<br />

e illusioni prospettiche:<br />

i suoi Gnomoni, della<br />

metà degli anni Ottanta,<br />

sembrano librarsi come<br />

spigolose libellule, ricordando<br />

che la scultura può<br />

essere anche linee e ombre<br />

portate.<br />

Sopra: Giuseppe Capogrossi,<br />

Sole <strong>di</strong> mezzanotte, 1950 circa, olio su tela<br />

la mostra curata da Luca Massimo<br />

Barbero alla Fondazione Guggenheim <strong>di</strong><br />

Venezia (29 settembre 2012-10 febbraio<br />

2013). Da quella data, e per i vent’anni<br />

successivi, Capogrossi metterà a punto<br />

un linguaggio basato sulla ripetizione,<br />

variazione e modulazione <strong>di</strong> un unico<br />

segno a forma <strong>di</strong> pettine, elemento base<br />

del suo “alfabeto”, come ebbe a definirlo<br />

Gillo Dorfles.<br />

Ma in quel frangente, tenendo<br />

unita una complicata rete <strong>di</strong> relazioni<br />

che lo porta fino negli Stati Uniti,<br />

posava gli occhi su <strong>di</strong> lui il critico<br />

francese Michel Tapié, che lo vorrà nel<br />

suo gruppo dell’art autre insieme a<br />

Michaux, Mathieu e molti altri artisti del<br />

panorama internazionale. «Troppi sono<br />

gli artisti» scriveva su <strong>di</strong> lui l’amico<br />

critico Gualtieri <strong>di</strong> San Lazzaro «che<br />

<strong>di</strong>eci anni or sono hanno adottato il<br />

nuovo linguaggio. Ma non hanno per<br />

questo rinunciato al “mestiere”, a tutte<br />

quelle scaltrezze che la mano, in<br />

mancanza d’altro, aveva appreso da sé.<br />

Capogrossi è il solo che, come<br />

Mondrian trent’anni prima, e quasi alla<br />

stessa età, si sia sbarazzato <strong>di</strong> tutto<br />

quello che aveva appreso, sia uscito<br />

interamente dall’equivoco in cui si<br />

trovava la pittura in Italia, conservando<br />

solo il sentimento iniziale, quello che lo<br />

aveva portato a preferire la pittura a<br />

tutti gli altri mezzi <strong>di</strong> espressione. […]<br />

Nella pittura contemporanea, la sua<br />

presenza, il suo segno, sono<br />

inconfo<strong>di</strong>bili.<br />

Diceva Stendhal che l’arte è<br />

soprattutto un fatto <strong>di</strong> sensibilità. Ma<br />

perderemmo tempo, tentando <strong>di</strong><br />

commentare la felicità <strong>di</strong> questo sego –<br />

che fra l’altro non deve nulla alla pittura<br />

francese o tedesca e ancor meno alla<br />

scuole del Pacifico – a chi per <strong>di</strong>fetto <strong>di</strong><br />

sensibilità non può “sentirlo”».

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