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Metafore e topoi della letteratura carceraria nella memorialistica di ...

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MARIA PANETTA<br />

<strong>Metafore</strong> e <strong>topoi</strong> <strong>della</strong> <strong>letteratura</strong> <strong>carceraria</strong> <strong>nella</strong><br />

<strong>memorialistica</strong> <strong>di</strong> Pellico, Bini e Settembrini<br />

Nel suo saggio su La prison romantique 1 Victor Brombert sottolinea l’ambivalenza<br />

dell’immagine <strong>della</strong> reclusione perpetuata <strong>nella</strong> tra<strong>di</strong>zione occidentale.<br />

La prigione, oltre che oscuro e terribile luogo <strong>di</strong> cattività, è ivi rappresentata<br />

anche come spazio del sogno e <strong>della</strong> poesia: spesso, infatti, il poeta (definito da<br />

Brombert «anarchico spirituale» 2 ) finisce per considerare la vita stessa un esilio<br />

o una cattività.<br />

Si può senz’altro istituire un fecondo parallelo tra la figura del prigioniero e<br />

quella del monaco <strong>nella</strong> sua cella. Ne Le mie prigioni 3 , ad esempio, Pellico istituisce<br />

un esplicito parallelo tra carcere e cella <strong>di</strong> reclusione monastica, allorché ricorda<br />

come un giorno gli venne recato in prigione un foglio <strong>della</strong> Gazzetta <strong>di</strong> Augsburgo<br />

nel quale si dava notizia <strong>della</strong> monacazione <strong>della</strong> sorella minore, Maria Angiola:<br />

«Povera fanciulla! non ha voluto ch’io solo patissi le angustie del carcere» 4 .<br />

Temi privilegiati <strong>della</strong> rappresentazione romantica <strong>della</strong> prigione – in<strong>di</strong>ca<br />

Brombert – sono: «bellezza tragica <strong>della</strong> solitu<strong>di</strong>ne, in<strong>di</strong>vidualismo e inquietu<strong>di</strong>ne<br />

<strong>di</strong> fronte al problema dell’identità, angoscia esistenziale (Freud insisterà<br />

sulla relazione Angst-angustiae), problematica spazio-temporale (la detenzione<br />

come atemporalità utopica), esaltazione <strong>della</strong> rivolta che trasforma la società in<br />

prigione e il forzato in eroe del duplice dramma <strong>della</strong> caduta e <strong>della</strong> redenzione»<br />

5 . Dunque, in epoca romantica ci muoviamo in una <strong>di</strong>alettica <strong>di</strong> oppressione<br />

1 Cfr. V. BROMBERT, La prigione romantica. Saggio sull’immaginario, Bologna, Il<br />

Mulino, 1991.<br />

2 Ivi, p. 8.<br />

3 Per le citazioni tratte da quest’opera, si farà sempre riferimento all’e<strong>di</strong>zione Mondadori<br />

(Milano 2004), a cura <strong>di</strong> A. Jacomuzzi.<br />

4 Cfr. S. PELLICO, Le mie prigioni, op. cit., p. 186.<br />

5 Cfr. BROMBERT, La prigione romantica, op. cit., p. 11.<br />

203


Maria Panetta<br />

versus sogno <strong>di</strong> libertà, fatalità versus volontà, coscienza dei limiti versus desiderio<br />

d’infinito.<br />

Tra i <strong>topoi</strong> <strong>della</strong> <strong>letteratura</strong> <strong>carceraria</strong> dell’epoca, lo stesso Brombert annovera:<br />

cella sor<strong>di</strong>da e cella-rifugio, crudeltà dei carcerieri (ma anche presenza del «buon» carceriere),<br />

panorama e vista del cielo, contrasto fra lo squallore dell’“interno” e lo splendore<br />

intravisto o immaginato del paesaggio circostante, prigione <strong>nella</strong> prigione (l’immagine <strong>della</strong><br />

maschera <strong>di</strong> ferro), “follia” del prigioniero, scritte sui muri, simbolismo del muro come invito<br />

al superamento. Anche le attività svolte in prigione possono essere catalogate: addomesticamento<br />

<strong>di</strong> ragni, cure prestate ai fiori, atti <strong>di</strong> eroismo immaginari, rapporti con la figlia del carceriere,<br />

colpi <strong>di</strong> fulmine a <strong>di</strong>stanza, conversazioni con la creatura amata, impulso dello spirito<br />

del recluso verso un “esterno” che gli fa reinventare la comunicazione. L’Altro è infatti sempre<br />

presente. È in questo senso che dovrà essere il più delle volte interpretata la mania <strong>della</strong><br />

scrittura, l’ossessione degli alfabeti segreti e delle comunicazioni sotterranee 6<br />

ovviamente laddove non sia dettata da motivi pratici, soprattutto nel caso dei<br />

detenuti “politici”.<br />

Si possono in<strong>di</strong>viduare, dunque, in questa <strong>letteratura</strong>, due movimenti contrari<br />

e simultanei: quello verso l’interno (che sta a simboleggiare la ricerca dell’io,<br />

il bisogno <strong>di</strong> conoscenza, l’attività <strong>della</strong> memoria, e implica il paradosso per cui<br />

la reclusione conduce alla salvezza, favorendo il ripiegamento e la visione dell’invisibile)<br />

e quello verso l’esterno (che rappresenta, invece, la gioia dell’evasione<br />

spirituale e i voli <strong>della</strong> fantasia).<br />

Fissare dei limiti può, però, rappresentare anche una vera e propria esigenza:<br />

Robinson Crusoe, ad esempio, <strong>nella</strong> sua isola-prigione, si affretta a «determinare<br />

dei limiti entro i limiti: si costruisce una fortezza, si circonda <strong>di</strong> mura, circoscrive<br />

il proprio territorio» 7 . E, d’altro canto, fissare dei limiti implica anche il<br />

desiderio <strong>di</strong> superarli; forse, anche per questo la figura dell’uccello è, in genere,<br />

molto amata dai romantici: ogni volatile evoca insieme la gabbia minacciosa da<br />

cui è evaso e quella felice che rimpiange, ma anche il canto, che apporta gioia e<br />

alleggerisce l’oppressione senza speranza <strong>della</strong> reclusione.<br />

Attraverso l’analisi dettagliata <strong>di</strong> alcuni testi-chiave <strong>della</strong> <strong>letteratura</strong> <strong>carceraria</strong><br />

<strong>di</strong> epoca romantica, si è proceduto a una verifica delle conclusioni cui perviene il<br />

sempre utile saggio <strong>di</strong> Brombert: si presenta qui <strong>di</strong> seguito una sorta <strong>di</strong> breve<br />

repertorio <strong>di</strong> metafore, immagini e motivi ricorrenti nelle opere prese in esame.<br />

Il Pellico de Le mie prigioni<br />

Com’è noto, Pellico inizia a scrivere Le mie prigioni nell’estate del 1831 e il<br />

libro viene, poi, pubblicato nel novembre del 1832 presso l’e<strong>di</strong>tore torinese<br />

204<br />

6 Ivi, p. 12.<br />

7 Ibidem.


<strong>Metafore</strong> e <strong>topoi</strong> <strong>della</strong> <strong>letteratura</strong> <strong>carceraria</strong><br />

Bocca 8 . Nella prima e<strong>di</strong>zione del testo è presente una breve presentazione dell’autore,<br />

una vera e propria <strong>di</strong>chiarazione d’intenti:<br />

Ho io scritto queste Memorie per vanità <strong>di</strong> parlar <strong>di</strong> me? Bramo che ciò non sia, e […]<br />

parmi d’aver avuto alcune mire migliori: – quella <strong>di</strong> contribuire a confortare qualche infelice<br />

coll’esponimento dei mali che patii e delle consolazioni ch’esperimentai essere conseguibili<br />

nelle somme sventure; quella <strong>di</strong> attestare che in mezzo a’ miei lunghi tormenti non trovai pur<br />

l’umanità così iniqua, così indegna d’indulgenza, così scarsa d’egregie anime, come suol<br />

venire rappresentata; – quella d’invitare i cuori nobili ad amare assai, a non o<strong>di</strong>are alcun mortale,<br />

ad o<strong>di</strong>ar solo irreconciliabilmente le basse finzioni, le pusillanimità, la perfi<strong>di</strong>a, ogni<br />

morale degradamento […].<br />

L’opera <strong>di</strong> Pellico nasce, dunque, con l’intento dell’e<strong>di</strong>ficazione morale; ai<br />

propositi pedagogici espressi nell’introduzione si aggiunge la recisa affermazione<br />

del primo capitolo: «Mi si fece un lungo interrogatorio per tutto quel giorno<br />

e per altri ancora. Ma <strong>di</strong> ciò non <strong>di</strong>rò nulla. Simile ad un amante maltrattato<br />

dalla sua bella, e <strong>di</strong>gnitosamente risoluto <strong>di</strong> tenerle il broncio, lascio la politica<br />

ov’ella sta, e parlo d’altro». Al centro dell’opera è, dunque, «la storia interiore<br />

del prigioniero, la sua maturazione morale attraverso le sofferenze, le lunghe<br />

me<strong>di</strong>tazioni e le letture, l’auto<strong>di</strong>sciplina psicologica del carcere» 9 . Nel racconto<br />

<strong>di</strong> Pellico l’inferno <strong>della</strong> prigione <strong>di</strong>viene «il luogo dell’esperienza <strong>di</strong> rinnovamento,<br />

intima e nello stesso tempo esemplare» 10 e per questo il suo volume <strong>di</strong><br />

memorie può essere <strong>di</strong> certo considerato un “itinerario spirituale”.<br />

La formula del libro <strong>di</strong> memorie rispondeva a un gusto molto <strong>di</strong>ffuso in età<br />

romantica, anche se va riba<strong>di</strong>to che proprio Le mie prigioni contribuirono all’affermazione<br />

<strong>di</strong> tale gusto, <strong>di</strong>venendo – con il moltiplicarsi <strong>di</strong> e<strong>di</strong>zioni italiane e<br />

traduzioni – il libro italiano più conosciuto in Europa nell’Ottocento. Esso può<br />

esser letto anche come una sorta <strong>di</strong> romanzo <strong>di</strong> formazione ma, mentre questo<br />

genere solitamente si contrad<strong>di</strong>stingue per l’ambientazione in spazi ampi e vari,<br />

avvenendo la maturazione del personaggio anche tramite viaggi e vicende<br />

avventurose, qui «la metamorfosi è il frutto <strong>di</strong> una me<strong>di</strong>tazione per lunghi tratti<br />

solitaria, compiuta in un’immobilità fisica forzata e dolorosa» 11 e all’interno <strong>di</strong><br />

uno spazio angusto e delimitato.<br />

8 L’e<strong>di</strong>zione Jacomuzzi si rifà a quella dei Memorialisti dell’Ottocento, a cura <strong>di</strong> G.<br />

Trombatore, to. I, Milano-Napoli, Ricciar<strong>di</strong>, 1953, pp. 21-175; da tener presente, invece, per<br />

la nota introduttiva dell’autore riportata nel corpo del testo, anche l’e<strong>di</strong>zione de Le mie prigioni.<br />

Memorie <strong>di</strong> Silvio Pellico da Saluzzo, in Opere scelte <strong>di</strong> Silvio Pellico, a cura <strong>di</strong> C.<br />

Curto, 3ª ed., vol. I, Torino, UTET, 1978, pp. 393-620 (che riproduce il testo dato da G. Mazzoni<br />

per l’e<strong>di</strong>tore Barbèra, Firenze 1926). La suddetta presentazione si trova a p. 395 dell’e<strong>di</strong>zione<br />

UTET e viene riportata anche a p. 27 <strong>di</strong> quella Mondadori.<br />

9 Cfr. A. JACOMUZZI, Introduzione a S. PELLICO, Le mie prigioni, op. cit., p. 8.<br />

10 Ivi, p. 9.<br />

11 Ivi, p. 12.<br />

205


Maria Panetta<br />

L’opera <strong>di</strong> Pellico è libro insieme – mi sia concesso – mirabile e insopportabile:<br />

questa sua ambigua natura corrisponde ai due stili che Pellico vi profonde,<br />

efficacemente descritti da Jacomuzzi <strong>nella</strong> sua introduzione all’e<strong>di</strong>zione Mondadori<br />

delle memorie:<br />

i commenti e gli interventi moraleggianti risentono spesso <strong>della</strong> tendenza esclamativa e<br />

patetica più convenzionale e datata; il racconto dei fatti è invece condotto con severa sobrietà.<br />

Nell’articolazione delle parti più propriamente narrative Pellico rivela le sue doti autentiche<br />

<strong>di</strong> scrittore. L’enfasi e il sentimentalismo cedono il passo alla forza celata <strong>della</strong> litote e dell’ironia,<br />

<strong>di</strong> un «meno» stilistico che equivale a un «più» espressivo. Proprio quando gli avvenimenti<br />

consentirebbero il risentimento e l’esclamazione, Pellico aumenta il controllo sulla<br />

scrittura: lo stile denotativo, tutto concentrato sulle cose, senza commento, si rafforza là dove<br />

potrebbero suonare facilmente lo sdegno e il lamento.<br />

L’attenuazione stilistica a volte operata da Pellico ha un riscontro psicologico<br />

nel leitmotiv del controllo sull’«immaginativa», nell’auto<strong>di</strong>sciplina attraverso<br />

la quale il carcerato si abitua a reprimere le dolorose accensioni <strong>della</strong> memoria<br />

12 , i sogni, i principi <strong>di</strong> innamoramento (ad esempio, negli episo<strong>di</strong> <strong>di</strong> Maddalena,<br />

pura voce, e <strong>della</strong> «pietosa Zanze» 13 ).<br />

Lo spazio de Le mie prigioni è – ovviamente – esiguo e coatto, ma – come<br />

nota sempre Jacomuzzi – quanto più si restringe l’orizzonte fisico, tanto più la<br />

scrittura acquista forza e concentrazione: «proprio la <strong>di</strong>scesa nel “sepolcro”<br />

dello Spielberg 14 apre i capitoli letterariamente più riusciti» 15 . Infatti, mentre i<br />

perio<strong>di</strong> <strong>di</strong> detenzione a Milano e a Venezia (soprattutto presso i Piombi) sono<br />

più ricchi <strong>di</strong> contatti umani, mutamenti <strong>di</strong> cella, resoconti del processo, e, dunque,<br />

<strong>di</strong> inquietu<strong>di</strong>ne e senso <strong>di</strong> attesa, nell’ultima destinazione, invece,<br />

la metafora <strong>della</strong> sepoltura 16 , rafforzata dal buio profondo e costante che caratterizza le<br />

celle, esprime il senso <strong>di</strong> un destino che pare definitivo. La <strong>di</strong>mensione del tempo, durante la<br />

prigionia allo Spielberg, rischia <strong>di</strong> annullarsi. Proprio allora <strong>di</strong>venta fondamentale la scansio-<br />

12 Bella e commossa la rievocazione del felice passato alle pp. 126-27 dell’ed. Jacomuzzi.<br />

Cfr. anche p. 210 e p. 217.<br />

13 Ivi, p. 84. Per Zanze, cfr. le pp. 84-92.<br />

14 Cfr. pp. 139 e sgg.<br />

15 Cfr. A. JACOMUZZI, Introduzione cit., p. 15.<br />

16 Cfr. p. 206 del romanzo. «Invece d’una tomba, mi <strong>di</strong>vorò una prigione», commenta<br />

Pellico a p. 42. La metafora <strong>della</strong> prigione come «tomba» si ritrova anche nell’episo<strong>di</strong>o <strong>della</strong><br />

malattia <strong>di</strong> Zanze: «A’ tempi <strong>della</strong> Zanze, le sue visite, benché pur sempre troppo brevi, rompendo<br />

amabilmente la monotonia del mio perpetuo me<strong>di</strong>tare e stu<strong>di</strong>are in silenzio, intessendo<br />

alle mie idee altre idee, eccitandomi qualche affetto soave, abbellivano veramente la mia<br />

avversità, e mi doppiavano la vita. Dopo, tornò la prigione ad essere per me una tomba. Fui<br />

per molti giorni oppresso da mestizia, a segno <strong>di</strong> non trovar più nemmeno alcun piacere nello<br />

scrivere»: ivi, pp. 90-91.<br />

206


<strong>Metafore</strong> e <strong>topoi</strong> <strong>della</strong> <strong>letteratura</strong> <strong>carceraria</strong><br />

ne quoti<strong>di</strong>ana delle giornate, la serie minuziosamente annotata delle piccole abitu<strong>di</strong>ni, il<br />

ricordo degli anniversari. La me<strong>di</strong>tazione, la preghiera, la composizione letteraria, gli esercizi<br />

<strong>di</strong> memoria, insieme al conforto dell’amicizia, trasformano il «covile» nel luogo <strong>di</strong> una sfida<br />

durante la quale i prigionieri non ab<strong>di</strong>cano mai al coraggio e alla <strong>di</strong>gnità 17 .<br />

L’idea <strong>della</strong> morte 18 aleggia, comunque, fin dall’epoca <strong>della</strong> permanenza ai<br />

Piombi e riaffiora anche come tentazione del suici<strong>di</strong>o e come timore <strong>di</strong> morire<br />

arso vivo in un incen<strong>di</strong>o 19 o in conseguenza <strong>di</strong> un’epidemia <strong>di</strong> scorbuto.<br />

La narrazione si apre con l’arresto <strong>di</strong> Silvio a Milano, il giorno venerdì 13<br />

ottobre 1820: da notare che giorno <strong>della</strong> settimana e numero sembrano preannunciare<br />

sventura 20 , così come avviene a Venezia, per l’incontro col mendìco 21<br />

<strong>nella</strong> piazzetta, vicino al palazzo del Doge, in cui gli verrà letta la sentenza <strong>di</strong><br />

morte, nel febbraio del 1822.<br />

Condotto al carcere <strong>di</strong> Santa Margherita, Pellico si <strong>di</strong>chiara astemio al custode<br />

Angelo Cal<strong>di</strong>: «I custo<strong>di</strong> <strong>di</strong> carceri che tengono bettola inorri<strong>di</strong>scono d’un<br />

prigioniero astemio» 22 , commenta. Quello del vino è motivo molto presente, in<br />

questo genere <strong>di</strong> <strong>letteratura</strong>: il vino, assieme al tabacco 23 e al caffè 24 , è, infatti,<br />

uno dei pochi conforti talora concessi ai prigionieri.<br />

Uno dei primi pensieri <strong>di</strong> Silvio è la constatazione che il carcere in cui si<br />

ritrova rinchiuso era, un secolo prima, un monastero benedettino 25 : torna l’accostamento<br />

cella-prigione. Pellico piange come un fanciullo al pensiero dei suoi<br />

cari: anche il motivo del pianto ritorna, specie in quest’opera e nelle Ricordanze<br />

<strong>di</strong> Settembrini.<br />

Il primo conforto che Silvio ricerca è quello <strong>della</strong> comunicazione epistolare<br />

26 col suo amico Pietro Maroncelli 27 , co-protagonista dell’ultima, intensa e<br />

struggente parte de Le mie prigioni, allorché <strong>di</strong>viderà con Pellico la cella 28 ,<br />

recandogli conforto e finendo per <strong>di</strong>ventare sua unica ragione 29 per non arren-<br />

17 Cfr. A. JACOMUZZI, Introduzione cit., p. 16.<br />

18 Cfr. pp. 169-70 dell’ed. Jacomuzzi.<br />

19 Di due incen<strong>di</strong> si tratta: pp. 122 e 123-24.<br />

20 Sulla superstizione legata al mese <strong>di</strong> ottobre, cfr. p. 113.<br />

21 Cfr. S. PELLICO, Le mie prigioni, op. cit., pp. 72 e 133.<br />

22 Ivi, p. 32.<br />

23 Ivi, p. 37.<br />

24 Ivi, p. 189 e p. 74, nonché le pp. 83 e sgg., e p. 189.<br />

25 Ivi, p. 32.<br />

26 Ivi, pp. 38 e 40.<br />

27 Ivi, p. 38.<br />

28 A partire dal 1822, dopo la lettura <strong>della</strong> sentenza <strong>di</strong> morte, commutata in carcere duro:<br />

pp. 130 e sgg. Di nuovo, allo Spielberg, a partire dal 1823 (pp. 171 e sgg.).<br />

29 Cfr. p. 188. A p. 208 la separazione da Maroncelli.<br />

207


Maria Panetta<br />

dersi alla stanchezza e alla spossatezza funesta <strong>della</strong> malattia 30 (malattia che<br />

colpì anche Maroncelli stesso, sotto forma <strong>di</strong> tumore al ginocchio sinistro 31 ). A<br />

Pellico vengono concesse la lettura 32 <strong>della</strong> Bibbia 33 e <strong>di</strong> Dante, nonché <strong>di</strong> alcuni<br />

romanzi francesi <strong>di</strong> Madeleine de Scudéry e del veneziano Piazza: in particolare,<br />

l’utile esercizio <strong>della</strong> memoria, nell’imparare un canto <strong>di</strong> Dante al giorno 34 ,<br />

tornerà ancora durante la compresenza in cella con Maroncelli, abilissimo nel<br />

versificare 35 e nel «ritenere» 36 migliaia <strong>di</strong> versi a mente.<br />

Ne Le mie prigioni, più che nelle opere <strong>di</strong> Settembrini e <strong>di</strong> Bini, si insiste sul<br />

tema dell’amicizia come conforto supremo alla solitu<strong>di</strong>ne: l’orfanello sordomuto (il<br />

«mutolino» 37 ) che allieta il primo periodo <strong>di</strong> prigionia milanese fornisce a Silvio<br />

occasione per riflettere sul fatto che «puossi rendere l’umore in<strong>di</strong>pendente dal<br />

luogo. Governiamo l’immaginativa, e staremo bene quasi dappertutto» 38 ; consolatorio<br />

è, poi, l’incontro fugace, a <strong>di</strong>stanza, «la lontana vista d’un uomo <strong>di</strong> gran merito»<br />

39 , Melchiorre Gioia. Come già detto, una costante del libro è il saldo legame a<br />

doppio filo con il <strong>di</strong>letto Maroncelli 40 , «onesto, delicato, amantissimo» 41 ; breve ma<br />

molto intenso anche il colloquio con l’amico Luigi Porro Lambertenghi; e da ricordare<br />

pure le figure del mite conte Oroboni 42 , che riconduce Pellico sulla strada <strong>della</strong><br />

religione e del perdono, e del “burbero benefico” capocarceriere Schiller 43 .<br />

Nella seconda, «oscura, lurida» 44 cella milanese, il protagonista ritrova tante<br />

«iscrizioni» sui muri, tra cui due pensieri <strong>di</strong> Pascal sul Deus abscon<strong>di</strong>tus e sull’immortalità<br />

dell’anima (riferimenti, certo, non casuali), oltre a riflessioni sull’ingratitu<strong>di</strong>ne<br />

umana e a violente imprecazioni <strong>di</strong> un ateo; anche <strong>nella</strong> terza<br />

stanza può leggere «alcune memorie scritte, quali con matita, quali con carbone,<br />

quali con punta incisiva» 45 .<br />

30 Cfr. anche le pp. 118-19, p. 136, p. 140, p. 156 e p. 169, pp. 176 e sgg. A p. 196 i<br />

tumori glandulari <strong>di</strong> Pellico; a p. 197 ancora lo scorbuto.<br />

31 Cfr. pp. 192 e sgg., in particolare la descrizione dell’amputazione <strong>della</strong> gamba <strong>di</strong><br />

Maroncelli, alle pp. 194-95.<br />

32 Cfr. anche p. 166.<br />

33 Cfr. anche pp. 75 e sgg.<br />

34 Ivi, p. 41.<br />

35 Cfr. p. 134 e p. 186.<br />

36 Ivi, p. 174.<br />

37 Ivi, p. 62.<br />

38 Ivi, p. 44.<br />

39 Ivi, p. 49.<br />

40 Ivi, p. 58 e passim.<br />

41 Ivi, p. 59.<br />

42 Cfr. pp. 151 e sgg., p. 162 e pp. 174-76 (la morte).<br />

43 Cfr. pp. 141 e sgg. e p. 159 (sulla superbia); pp. 184-85 (la morte).<br />

44 Ivi, p. 47, come la cit. che segue.<br />

45 Ivi, p. 63.<br />

208


<strong>Metafore</strong> e <strong>topoi</strong> <strong>della</strong> <strong>letteratura</strong> <strong>carceraria</strong><br />

Con Melchiorre Gioia e con l’affettuosa famiglia 46 abitante vicino al Palazzo<br />

del patriarca il prigioniero comunica da lontano: «Gesticolavamo senza capirci,<br />

e colla stessa premura, come se ci capissimo: o piuttosto ci capivamo realmente;<br />

que’ gesti volevano <strong>di</strong>re tutto ciò che le nostre anime sentivano, e l’una non<br />

ignorava ciò che l’altra sentisse» 47 . Dopo che a Gioia viene proibito anche quel<br />

modo innocente <strong>di</strong> comunicare, ai due non resta che lo sguardo: «[…] guardavami<br />

egli spesso, ed io guardava lui, e così ci <strong>di</strong>cevamo ancora molte cose» 48 .<br />

Con Maddalena 49 , pura voce senza volto, creatura immaginata angelica (seppur<br />

rinchiusa nelle carceri femminili), compare il motivo delle canzoni, delle<br />

litanie, che recano conforto così come allevia la sofferenza il canto degli uccelli<br />

in Byron.<br />

La visita del padre 50 ritorna anche nel racconto <strong>di</strong> Settembrini: comune la<br />

preoccupazione <strong>di</strong> non farsi vedere afflitti, per non acuire lo strazio dei famigliari<br />

51 . Anche la conversazione con in<strong>di</strong>vidui ritenuti moralmente “indegni”<br />

apporta un minimo <strong>di</strong> conforto: il colloquio con i ladri 52 ; quello col detenuto<br />

impostore che si spaccia per Duca <strong>di</strong> Norman<strong>di</strong>a 53 , quello con il feroce ateo che<br />

si fa chiamare Giuliano 54 .<br />

Il trasferimento a Venezia offre occasione per la descrizione <strong>di</strong> alcune amene<br />

vedute 55 che, in Pellico, giovano sempre a ristorare l’animo afflitto, contrariamente<br />

a ciò che avviene nel Prigioniero <strong>di</strong> Chillon <strong>di</strong> Byron. La solitu<strong>di</strong>ne patita<br />

nei Piombi fa sì che egli si “affezioni” ad alcuni insetti, tra cui formiche 56 e<br />

«un bel ragno» 57 , che egli prende a cibare con moscerini e zanzare, o<strong>di</strong>ate anche<br />

per il loro «ronzìo infernale» 58 . Le punture <strong>di</strong> queste ultime per poco non lo<br />

inducono al suici<strong>di</strong>o 59 – «e talvolta temei d’impazzare» 60 (si affaccia timidamen-<br />

46 Cfr. pp. 112 e sgg.<br />

47 Ivi, p. 49.<br />

48 Ivi, p. 50.<br />

49 Ivi, p. 51.<br />

50 Ivi, pp. 55-58.<br />

51 A p. 216 la commozione del ritorno dalla prigionia e dell’incontro con i familiari.<br />

52 Ivi, pp. 52-55.<br />

53 Ivi, pp. 63-69.<br />

54 Ivi, pp. 93-108 e p. 165.<br />

55 Cfr. pp. 110-11 e la vista dalla gondola (nel tragitto verso le carceri <strong>di</strong> San Michele a Murano),<br />

alle pp. 125-26; cfr. anche le pp. 149 e 180 (lo steccato che oscura la vista). A p. 203 la veduta<br />

dopo la liberazione dallo Spielberg. Cfr. la delusione del paesaggio italiano, al rientro, a p. 206.<br />

56 Cfr. anche pp. 109-10.<br />

57 Ivi, p. 79. Cfr. anche p. 109.<br />

58 Ivi, p. 79.<br />

59 Come accadrà anche in vista <strong>della</strong> condanna a morte (cfr. le pp. 120-21) e del <strong>di</strong>lagare<br />

dell’epidemia <strong>di</strong> scorbuto (pp. 163-64).<br />

60 Ivi, p. 80.<br />

209


Maria Panetta<br />

te il motivo <strong>della</strong> follia) – ma, grazie alla religione, si persuade che «l’uomo dee<br />

patire, e patire con forza» 61 e che, pertanto, anche le zanzare potrebbero essere<br />

«stromenti <strong>della</strong> giustizia <strong>di</strong>vina» 62 .<br />

Il tema <strong>della</strong> scrittura come conforto emerge con prepotenza da Le mie prigioni:<br />

la pratica <strong>della</strong> scrittura viene perseguita, in primo luogo, come esercizio <strong>di</strong> “purificazione”<br />

dai sentimenti e dai pensieri contrari ai «retti giu<strong>di</strong>zi <strong>di</strong> Dio» 63 . Potendo<br />

<strong>di</strong>sporre solo <strong>di</strong> calamaio e <strong>di</strong> fogli <strong>di</strong> carta numerati, Pellico ricorre «all’innocente<br />

artifizio <strong>di</strong> levigare con un pezzo <strong>di</strong> vetro un rozzo tavolino» 64 e scrive con i guanti e<br />

i polsi fasciati, sempre per <strong>di</strong>fendersi dalle implacabili zanzare, raschiando il tavolo<br />

ogni volta che «la superficie adoprabile del tavolino era piena» 65 . Con quell’espe<strong>di</strong>ente<br />

compone anche cantiche e «parecchi scheletri <strong>di</strong> trage<strong>di</strong>e» 66 e <strong>di</strong> poemi,<br />

cedendo, a volte, il suo pranzo 67 ai secon<strong>di</strong>ni per ottenerne qualche foglio <strong>di</strong> carta in<br />

più. In certe notti insonni, la scrittura febbrile e forsennata <strong>di</strong> epistole che egli in<strong>di</strong>rizza<br />

a persone care gli provoca, a tratti, convulsioni violente per il «troppo eccitamento<br />

degli affetti» 68 , tanto che gli sembra <strong>di</strong> essersi sdoppiato in «uno che voleva<br />

sempre scriver lettere, e l’altro che voleva far altro» 69 : per darsi una ragione per continuare<br />

quell’esercizio non sempre benefico, decide, alla fine, <strong>di</strong> scrivere in tedesco,<br />

allo scopo almeno <strong>di</strong> imparare una nuova lingua.<br />

Nel periodo più cupo trascorso ai Piombi, travagliato anche dagli incubi notturni<br />

e dall’ossessione <strong>di</strong> poter essere strangolato 70 , Pellico arriva a u<strong>di</strong>re «gemiti»<br />

o «risa soffocate» 71 e teme <strong>di</strong> essere «lu<strong>di</strong>brio d’incognite maligne potenze»<br />

72 : ricompare, dunque, il motivo <strong>della</strong> follia («chiedeva a me stesso s’io fossi<br />

impazzato od in senno» 73 ).<br />

Il Manoscritto <strong>di</strong> Bini<br />

Esemplare, per l’arguzia e la raffinata ironia, è il Manoscritto <strong>di</strong> un prigioniero<br />

74 <strong>di</strong> Carlo Bini, che affronta la questione da un punto <strong>di</strong> vista – se così si<br />

61 Ibidem.<br />

62 Ibidem.<br />

63 Ivi, p. 81.<br />

64 Ibidem.<br />

65 Ivi, p. 82.<br />

66 Ivi, p. 83.<br />

67 Per il motivo <strong>della</strong> fame patita allo Spielberg, cfr. le pp. 154 e sgg.<br />

68 Ivi, p. 114.<br />

69 Ivi, p. 115.<br />

70 Ivi, p. 117.<br />

71 Ivi, p. 116.<br />

72 Ibidem.<br />

73 Ibidem.<br />

74 Cfr. C. BINI, Manoscritto in un prigioniero [1833], in Scritti e<strong>di</strong>ti e postumi <strong>di</strong> Carlo<br />

Bini, Livorno, Al Gabinetto Scientifico Letterario, 1843, pp. 3-91.<br />

210


<strong>Metafore</strong> e <strong>topoi</strong> <strong>della</strong> <strong>letteratura</strong> <strong>carceraria</strong><br />

può <strong>di</strong>re – “sociologico”, impostando la sua narrazione sulle <strong>di</strong>fferenze tra la<br />

detenzione del Signore e quella del povero: «Quando va in prigione un Signore<br />

– spiega Bini –, è un avvenimento che nessuno se lo aspettava» 75 ; la plebe,<br />

infatti, «non crede che la colpa possa vestirsi <strong>di</strong> panno fine» 76 . Nel caso in cui il<br />

prigioniero non sia un plebeo, anche in carcere «le piume sottentrano al pagliericcio,<br />

– le se<strong>di</strong>e all’unica panca, – i cristalli all’unico orciuolo <strong>di</strong> terra cotta. I<br />

valletti sudano attenti e in silenzio» 77 . Ad<strong>di</strong>rittura, il soprastante saluta il signore<br />

in carcere con un umile «servo devoto» 78 .<br />

Anche Bini si sofferma sul pranzo del Signore, come nell’esor<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Pellico,<br />

ma la situazione è nettamente <strong>di</strong>versa. Si produce, poi, in un’apostrofe ai poveri:<br />

«O poveri! Voi siete ricchi <strong>di</strong> pazienza, – e Dio.... vi mantenga perenne quel<br />

dono. Che se un giorno la perdeste, se rompeste le <strong>di</strong>ghe che al presente vi contengono,<br />

qual sarebbe allora la faccia del mondo?» 79 .<br />

Il povero viene condotto in prigione a pie<strong>di</strong> e spinto <strong>nella</strong> cella. Non ha<br />

denari e non riesce a pronunciare una sola parola. I figli, ignari del suo arresto,<br />

lo attenderanno invano, affamati e preoccupati: infatti, il «dolore non dorme<br />

mai; – veglia inesorabilmente, veglia come un marito geloso» 80 .<br />

L’attenzione de<strong>di</strong>cata ai trattamenti riservati al povero e quella rivolta ai<br />

riguar<strong>di</strong> usati al Signore procedono, nel Manoscritto, parallelamente e alternativamente:<br />

segue, dunque, la descrizione del lauto pranzo del Signore, i cui avanzi<br />

vanno al soprastante. Il ricco si concede caffè, pipa, tabacco, giornale e siesta.<br />

Può ad<strong>di</strong>rittura chiudere le imposte durante il sonno. Dopo aver riposato, si sveglia,<br />

fa accendere 6 lumi e scrive 4 lettere per essere liberato dalla prigione; gli<br />

viene anche augurata la buona notte.<br />

Bini inserisce, all’interno <strong>della</strong> narrazione, alcune considerazioni <strong>di</strong> carattere<br />

generale sulla natura umana, come: «L’egoismo è l’unico movente delle azioni<br />

umane. Distruggerlo non potete […]; potete bensì mo<strong>di</strong>ficarlo, […] sottomettendolo<br />

alla influenza potentissima <strong>della</strong> educazione» 81 ; oppure: «Lo scetticismo<br />

è il sistema degl’infingar<strong>di</strong>» 82 . Alludendo al potente, l’autore non perde occasione<br />

per esprimere la propria concezione del mondo: «Chi gl’insegna, che il dolore<br />

solo è re <strong>della</strong> terra in eterno, e che la Sorte dona colla destra, e toglie colla<br />

sinistra? Chi gli rammenta l’uguaglianza solenne, universale, del sepolcro?» 83 . Il<br />

75 Ivi, p. 7.<br />

76 Ivi, p. 8.<br />

77 Ivi, p. 9.<br />

78 Ivi, p. 10.<br />

79 Ivi, p. 16.<br />

80 Ivi, p. 24.<br />

81 Ivi, p. 42. Sull’educazione, cfr. le pagine <strong>di</strong> Pellico relative al «mutolino» (pp. 45-46).<br />

82 Ivi, p. 46. In Pellico, cfr. la pagina contro Giuliano e il suo scetticismo (pp. 103-104).<br />

83 Ivi, p. 49.<br />

211


Maria Panetta<br />

motivo dell’uguaglianza viene riba<strong>di</strong>to successivamente anche in un’apostrofe<br />

alla Sventura: «La vita ti appartiene intera; – tuo è il primo vagito dell’infante, –<br />

tue le tra<strong>di</strong>te speranze del giovane, – tuo il gemito estremo <strong>della</strong> vecchiaia...» 84 .<br />

Giunto al capitolo XV, Bini immagina una conversazione con un certo «ser<br />

saccente» 85 , che gli propina dei consigli non richiesti sullo stile, sostenendo che<br />

egli non sarà mai poeta:<br />

Dovete convenirne per maledetta forza, – l’enfasi, il far <strong>di</strong> Pindaro, a voi non si ad<strong>di</strong>ce; –<br />

voi non potete aspirare, che a una certa ironia, a una certa malizia, talvolta a un poco <strong>di</strong> grazia,<br />

a uno stile negligente giusto appunto come siete voi. Datemi ascolto: scrivete sempre alla<br />

buona, alla sans souci, e terminate la storia del Povero carcerato.<br />

A partire dal capitolo XVII, l’autore abbandona il tema delle <strong>di</strong>fferenze tra la<br />

detenzione dei poveri e quella dei ricchi, e si dà a descrivere la sensazione del<br />

carcere, a tutto tondo:<br />

I primi primi giorni, che l’uomo passa in prigione, sono per l’anima sua come giorni nebbiosi:<br />

– l’anima non ha peranche fatto l’occhio a quel clima; – vede confusamente, talvolta<br />

non vede gli oggetti, talvolta li vede a doppio; – il suo palato non ha sapore; – un ronzio continuo<br />

gli alberga le orecchie; – lo spirito giace stor<strong>di</strong>to, e non sa pensare; – il cuore sente <strong>di</strong><br />

star sotto a un fascio enorme <strong>di</strong> sensazioni; ma non sa darne ragione. Se la mente non gli crolla,<br />

è una prova so<strong>di</strong>sfacente <strong>della</strong> sua buona tempra; – se il corpo non gli si ammala, è una<br />

prova so<strong>di</strong>sfacente, che il corpo fu tessuto comme il faut. Sia come vuolsi, però in codesta<br />

alterazione dello stato normale dell’anima l’uomo ci guadagna qualche cosa; – la noja non<br />

trova luogo <strong>di</strong> abbarbicarsi così <strong>di</strong> leggieri; – il pensiere, che agisce eccentricamente, non è<br />

quell’avvoltojo insaziabile, come quando il senno si aggira sopra il suo pernio naturale; – e il<br />

dolore vibra il suo pungiglione sopra una carne mortificata. Questo stato <strong>di</strong> esaltazione, in cui<br />

tutte le nostre potenze superando il coperchio hanno dato <strong>di</strong> fuori, ha prodotto per legge <strong>di</strong><br />

reazione una pace stanca, un sopore, un dormiveglia nell’anima nostra, che volentieri ella<br />

afferrerebbe <strong>di</strong> nuovo quando si desta, e la pienezza del giorno le mostra a <strong>di</strong>ritto e a rovescio<br />

la sua posizione. Ma la natura vive d’eccezioni a controgenio, e quanto più presto può gradatamente<br />

rientra nel suo letto 86 .<br />

La prima cosa che ogni prigioniero avverte è, a detta <strong>di</strong> Bini, la «sconvenienza<br />

<strong>di</strong> una simil <strong>di</strong>mora, e il primo pensiere che se gli affaccia è quello <strong>di</strong> andarsene»,<br />

tanto che – aggiunge ironicamente l’autore – nel cervello dei prigionieri<br />

gli stu<strong>di</strong>osi potrebbero facilmente notare «fra le tante protuberanze buone e cattive»,<br />

«uno scavo fatto dall’idea <strong>della</strong> fuga» 87 . Le possibilità che si prospettano<br />

sono due: o aspetti che ti rilascino, o tenti <strong>di</strong> fuggire; e, in questa seconda ipote-<br />

212<br />

84 Ivi, p. 57.<br />

85 Ivi, p. 53, come la cit. che segue.<br />

86 Ivi, p. 58 (come la cit. che segue).<br />

87 Ivi, p. 59, come la cit. precedente.


<strong>Metafore</strong> e <strong>topoi</strong> <strong>della</strong> <strong>letteratura</strong> <strong>carceraria</strong><br />

si, o tenti <strong>di</strong> fuggire abbattendo la porta o segando i ferri, oppure «corrompendo<br />

a furia d’oro i custo<strong>di</strong>» 88 . Bini osserva:<br />

Io dopo molte considerazioni fatte colla coscienza, e non a caso, ho meco stesso deliberato<br />

effettivamente <strong>di</strong> rimanermi, finché un qualcheduno non venga a cavarmi. [...] Io mi protesto<br />

da capo, che non ho voglia nè [sic] modo <strong>di</strong> andarmene; e quando anche conseguissi la<br />

fuga, sarei costretto a tornarmene in<strong>di</strong>etro, perchè [sic] fuori è la stessa prigione; – avrei <strong>di</strong><br />

più a pagare il fitto d’una stanza, mentre adesso me ne godo un pajo, e <strong>di</strong> pigione non se ne<br />

<strong>di</strong>scorre, a meno che non facessero all’ultimo tutto un conto.<br />

Il capitolo XVIII descrive un altro mezzo d’evasione, il suici<strong>di</strong>o, «ma io<br />

m’attento poco a proporvelo» 89 – commenta Bini – perché «<strong>di</strong> rado un uomo<br />

dotato <strong>di</strong> facoltà temperate mette le mani nel proprio sangue» 90 . L’autore, infatti,<br />

si sofferma sull’atto estremo del Genio, che «si scava la fossa su quel gra<strong>di</strong>no,<br />

dove la Fatalità gli ha reciso l’ale; – e si scava la fossa per insegnare che il sistema<br />

del Bene va portato innanzi finchè [sic] si può, e non va rinnegato colla<br />

codar<strong>di</strong>a del tornare in<strong>di</strong>etro» 91 . E ancora sostiene che il suici<strong>di</strong>o <strong>di</strong> Catone, <strong>di</strong><br />

Bruto e <strong>di</strong> mille martiri <strong>della</strong> Verità è un atto <strong>di</strong> «eroismo, – un fatto <strong>di</strong> natura<br />

trascendentale, che sfugge al compasso <strong>di</strong> una volgare filosofia. È il punto culminante<br />

dell’umana grandezza, è il Sacrificio» 92 , ma poi si affretta a precisare<br />

ironicamente che la nota del Regio Censore aggiunta al suo manoscritto si <strong>di</strong>ssocia<br />

da queste convinzioni.<br />

L’autore del Manoscritto conferma <strong>di</strong> essere in prigione da 34 giorni e<br />

sostiene <strong>di</strong> aver già scritto 14 pagine <strong>di</strong> getto, non per calcolo ma per urgenza;<br />

ecco affacciarsi ancora il tema portante <strong>della</strong> scrittura come rime<strong>di</strong>o alla solitu<strong>di</strong>ne<br />

(come accade in Pellico):<br />

Scrivo per capriccio, – per far <strong>di</strong>ventare nero un foglio bianco. Scrivo perchè [sic] non ho<br />

da ciarlare con nessuno; chè [sic] se io potessi anche con una vecchia, anche con un bambino,<br />

non pensate, non toccherei la penna 93 .<br />

[...] La vita, a voler che sia bella, a voler che sia gaja, a voler che sia vita, dev’essere un<br />

arcobaleno, – una tavolozza con tutti i colori, – un sabbato dove ballano tutte le streghe [...]<br />

Viva la varietà! Per tutti questi motivi, io ho scritto quattor<strong>di</strong>ci pagine senza pensare, e non<br />

me ne pento 94 .<br />

88 Ibidem.<br />

89 Ivi, pp. 59-60.<br />

90 Ivi, p. 61.<br />

91 Ivi, p. 62.<br />

92 Ivi, p. 64.<br />

93 Ivi, p. 65.<br />

94 Ivi, p. 66.<br />

213


Maria Panetta<br />

Lo scrittore bene<strong>di</strong>ce i primi giorni <strong>della</strong> sua prigionia, perché, dopo più <strong>di</strong><br />

un mese <strong>di</strong> carcere, si sente «spossato dalla noja» 95 :<br />

La noja è l’asma dell’anima, – è una ruggine che può consumare la meglio temperata<br />

lama, che si <strong>di</strong>a; – è una cosa, che dai capelli alle piante ti fascia la cute d’un senso umido,<br />

fasti<strong>di</strong>oso, ti perverte l’occhio, e ti fa veder tutto in bigio; – toglie il sapore al gusto, – la fragranza<br />

ai fiori, – la dolcezza all’armonia. Schiaccia l’acume dell’intelletto, e lo rende bestialmente<br />

stupido, – e insugherisce il cuore, mortificandone la squisita sensibilità, <strong>di</strong>sseccandovi<br />

dentro la lacrima del piacere e del dolore. Oh! la noja è il più insopportabile dei nostri dolori,<br />

perchè [sic] è il dolore <strong>della</strong> stanchezza; perchè [sic] non eccita in noi una forza, che valga a<br />

combatterlo. Essa non è un vulcano, ma cuopre <strong>di</strong> fred<strong>di</strong>ssime ceneri il sorriso <strong>della</strong> Natura<br />

intera».<br />

La metafora dei grilli <strong>nella</strong> testa sta, poi, a simboleggiare l’inquietu<strong>di</strong>ne che<br />

si è ormai impadronita del prigioniero: «io non ho più pace, e non so come averne.<br />

Non posso più pensare nè [sic] al passato, nè [sic] all’avvenire, spazj così<br />

vasti, e così como<strong>di</strong> per il <strong>di</strong>porto dello spirito. Son confinato nel presente, – e il<br />

presente <strong>di</strong> un carcerato non è già il Tempo coll’ali snelle velocissime, – è una<br />

figura <strong>di</strong> piombo sdrajata in un canto» 96 .<br />

Lo stesso problema dell’appiattimento sul presente emerge con chiarezza nel<br />

Dernier jour d’un Condamné <strong>di</strong> Victor Hugo: anzi, la «novità del racconto <strong>di</strong><br />

Hugo consiste nel rinchiudere il condannato in un presente che lo separa dal<br />

passato e gli nega un avvenire» 97 , anche tramite l’uso del presente in<strong>di</strong>cativo e<br />

<strong>della</strong> prima persona singolare. La prigione <strong>di</strong>viene, dunque, architettura e<br />

metafora; la reclusione <strong>di</strong>mensione temporale e psicologica insieme: «l’essenza<br />

<strong>della</strong> metafora – ha osservato Brombert al riguardo – è <strong>nella</strong> reversibilità.<br />

L’ossessione <strong>della</strong> prigione <strong>di</strong>venta la prigione dell’ossessione, e viceversa» 98 .<br />

In Hugo, troviamo, infatti, l’equivalenza tra pensiero ed e<strong>di</strong>ficio 99 , condotta<br />

anche tramite la metafora del cranio-cella, in cui il ragno tesse la sua tela e in<br />

cui il poeta racchiude l’infinito <strong>della</strong> poesia e il segreto del mondo. E vi ritorna<br />

il motivo <strong>della</strong> scrittura collegato al limite fisico del supporto-parete.<br />

Anche Michelet considerava la Bastiglia la «prigione del pensiero», ma<br />

allargava questa sua riflessione a una concezione del mondo: «Ahimè! perché<br />

95 Ivi, p. 69, come la cit. che segue.<br />

96 Ivi, p. 70.<br />

97 Cfr. V. BROMBERT, op. cit., p. 112. Cfr. anche p. 111: «Due tra<strong>di</strong>zioni letterarie convergono<br />

nel Dernier jour d’un Condamné: quella del giu<strong>di</strong>zio universale, del <strong>di</strong>es irae cara<br />

all’immaginario occidentale, e quella, più specificamente romantica e moderna, dell’isolamento<br />

carcerario, cioè dell’inferno dell’autoreclusione, l’esperienza dell’alienazione».<br />

98 Ivi, p. 117.<br />

99 Cfr. G. BACHELARD, La Terre et les rêveries du repos. Essai sur les images de<br />

l’intimité, Paris, Corti, 1948; trad. it. La Terra e il riposo. Le immagini dell’intimità, a cura <strong>di</strong><br />

M. Citterio e A. C. Peduzzi, Como, Red e<strong>di</strong>zioni, 1994, p. 226: «L’incubo è una prigione».<br />

214


<strong>Metafore</strong> e <strong>topoi</strong> <strong>della</strong> <strong>letteratura</strong> <strong>carceraria</strong><br />

soffermarsi così a lungo sulle prigioni demolite [...]? Il mondo è pieno <strong>di</strong> prigioni,<br />

dallo Spielberg alla Siberia, da Spandau al Mont-Saint-Michel. Il mondo è<br />

una prigione» 100 .<br />

Altro problema angosciante in Bini risulta essere quello <strong>della</strong> misura del<br />

tempo: «.... E come fare per il resto <strong>di</strong> tempo, che dovrò starmi in prigione?<br />

Avessero almeno detto: – ci starai tre mesi, sei mesi, un anno, – manco male; –<br />

ogni sera con un sospiro <strong>di</strong> sollievo esclamerei: v’è un giorno <strong>di</strong> meno!» 101 .<br />

Questa riflessione fa riferimento alla necessità, tipicamente umana, <strong>di</strong> dare un<br />

confine al tempo, <strong>di</strong> poterlo “quantificare”, perché – e qui viene in mente<br />

Sant’Agostino – senza la percezione del passare del tempo non vi è coscienza. E<br />

forse proprio la possibilità <strong>di</strong> calcolare coscientemente il trascorrere dei minuti<br />

o delle ore ci rende <strong>di</strong>versi dalle altre specie animali.<br />

Frank Kermode nel suo Senso <strong>della</strong> fine 102 si sofferma sul romanzo <strong>di</strong><br />

Christopher Burney Solitary Confinement 103 , notando come in cella i principali<br />

interessi del personaggio prigioniero siano il suo appetito e i suoi pensieri, e<br />

come egli avverta la necessità dell’orologio: il protagonista afferma che «non si<br />

soffre per il trascorrere <strong>di</strong> un tempo vuoto, ma piuttosto per la lentezza dell’atteso<br />

evento che dovrebbe concluderlo» 104 ; infatti, «senza la sensazione del tempo<br />

che passa, si smette virtualmente <strong>di</strong> vivere, si perde “il contatto con la<br />

realtà”» 105 . Per questo motivo il prigioniero <strong>di</strong> Burney inventa un orologio:<br />

l’ombra proiettata da un tetto, su un muro che egli può scorgere attraverso i<br />

vetri rotti <strong>della</strong> sua finestrella. E per questo stesso motivo Bini arriva a sperare<br />

<strong>di</strong> contrarre una febbre acuta, che lo faccia uscir fuori <strong>di</strong> sé: «Ecco qui; tutti i<br />

giorni sono i medesimi, misurati dalle medesime vicende» 106 .<br />

La noia <strong>della</strong> ripetizione, infatti, uccide. Il Profosso conduce fuori il carcerato<br />

per l’ora d’aria, ed egli spera sempre <strong>di</strong> vederlo cambiato, o che gli <strong>di</strong>ca che è<br />

successo qualcosa nel mondo:<br />

E del mondo che n’è stato? – Cosa volete, ch’io ne sappia, io che son qua nel Limbo? Io<br />

ho lasciato il mondo con un segno a traverso, come si fa d’un libro non finito <strong>di</strong> leggere. E<br />

100 Cfr. J. MICHELET, Histoire de la Révolution française, in Oeuvres complètes, Paris,<br />

Flammarion, 1893, vol. I, pp. 7-8, 45-46, 239; trad. it. Storia <strong>della</strong> Rivoluzione francese,<br />

Milano, Rizzoli, 1955: cfr. V. BROMBERT, op. cit., p. 40.<br />

101 Cfr. C. BINI, op. cit., p. 70.<br />

102 Cfr. F. KERMODE, Il senso <strong>della</strong> fine. Stu<strong>di</strong> sulla teoria del romanzo [1966], trad. it. <strong>di</strong><br />

G. Montefoschi, Milano, Rizzoli, 1972.<br />

103 Cfr. C. BURNEY, Solitary Confinement, London, Clerk and Cockeran, 1952; ed. it.<br />

Cella d’isolamento, Milano, Adelphi, 1968.<br />

104 Cfr. F. KERMODE, op. cit., pp. 182-83.<br />

105 Ivi, p. 183.<br />

106 Cfr. C. BINI, op. cit., p. 71.<br />

215


Maria Panetta<br />

chi sa, se all’uscire troverò più il segno? Chi sa cosa sia seguìto del mondo? – potrebbe essere<br />

stato scosso da una sequenza <strong>di</strong> terremoti, – allagato da un nuovo <strong>di</strong>luvio, – potrebbe essere<br />

anche sparito, ed io non saperne nulla! Cosa volete sapere, o sentire, quassù nel Limbo, dove<br />

si sta un piano almeno sopra le nuvole? 107 .<br />

Infine giunge la notte:<br />

E la notte? – non me ne rammentate, per l’amore che portate a voi stessi. La notte è per<br />

me l’eternità <strong>di</strong> un dannato. La notte con quel suo vasto silenzio, così propizia ai fantasmi<br />

poetici, al me<strong>di</strong>tare profondo, per me non significa nulla; e mi scende sull’anima, fredda,<br />

piatta, e pesante come una lapide. Invoco il sonno coi nomi più lusinghieri, ma vanamente 108 .<br />

Altro motivo ricorrente è ancora quello delle zanzare e del tormento delle<br />

loro punture, <strong>di</strong>sagio che – come già detto – Pellico tratta per esteso, specie parlando<br />

<strong>della</strong> sua permanenza presso i Piombi <strong>di</strong> Venezia (e che rievoca alla<br />

memoria l’esperienza <strong>di</strong> Casanova): Bini lo apostrofa, domandandogli con<br />

impertinenza come sia riuscito ad essere tanto paziente durante la sua prigionia.<br />

La conclusione <strong>di</strong> Bini è un invito alla tolleranza, basato – forse non casualmente<br />

– sull’argomentazione che sulla terra vi è “spazio” sufficiente per accogliere<br />

tutti:<br />

Intanto tolleriamoci, – v’è spazio per tutti, – e permettiamo, che ognuno vi si svolga a suo<br />

grado. Il Genio può trasfondere nei suoi quadri l’armonia e l’iride dell’universo; – la follia<br />

può ridere, e saltar per le piazze; – il forte può andare a caccia al cinghiale, – il debole può<br />

recitare il suo rosario, – e tutti pacificamente. La terra è larga abbastanza: – L’UMANA SAPIEN-<br />

ZA STA NEL TOLLERARE 109 .<br />

Dopo un commosso ricordo <strong>della</strong> madre dell’autore, il Manoscritto termina<br />

110 con un meta-riferimento in versi alla pratica <strong>della</strong> scrittura: «LA PRIGIONE È<br />

UNA LIMA SÌ SOTTILE/ CHE AGUZZANDO IL PENSIER NE FA UNO STILE» 111 . Dunque,<br />

prigione come luogo <strong>della</strong> noia e <strong>della</strong> ripetitività, che fiacca lo spirito e assimila<br />

gli esseri umani alle bestie (che non hanno la percezione del trascorrere del<br />

107 Ivi, p. 75.<br />

108 Ivi, p. 73.<br />

109 Ivi, p. 77.<br />

110 Nella sezione finale dell’opera, Note e appen<strong>di</strong>ce (pp. 81-91), l’autore precisa che «gli<br />

era concesso <strong>di</strong> conversare scrivendo co’ suoi concaptivi» e raccoglie alcuni suoi versi in<strong>di</strong>rizzati<br />

a un certo Messer Agnolo, nei quali ritornano i motivi <strong>della</strong> scrittura come rime<strong>di</strong>o alla<br />

noia, del vino e dei sepolti vivi («Agnol, sentite: io vi farò la guerra,/ Se non mutate stil, se<br />

non cessate/ Di viver come un morto sotto terra./ Voglio sentirvi taroccar, le ingrate Stelle<br />

accusar/ voglio sentirvi, e un suono/ vo’ sentir misto d’urli, e <strong>di</strong> pedate/ Contro la porta […]»,<br />

pp. 83-4).<br />

111 Ivi, p. 79.<br />

216


tempo), ma anche prigione come <strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> reclusione che, impedendo il<br />

movimento verso l’esterno, spinge a inoltrarsi <strong>nella</strong> sfera interiore e risveglia<br />

l’ingegno, trasformandolo in «stile».<br />

Bini traduce Byron<br />

<strong>Metafore</strong> e <strong>topoi</strong> <strong>della</strong> <strong>letteratura</strong> <strong>carceraria</strong><br />

Carlo Bini ha anche tradotto Il Prigioniero <strong>di</strong> Chillon (1830) 112 <strong>di</strong> Byron.<br />

Il padre del protagonista del poema non sopravvive alle torture, e i suoi sei<br />

fratelli muoiono tutti, o in carcere o in guerra. Crudo è il riferimento alle catene:<br />

«e quel ferro rode, – perché il segno de’ suoi denti rimane in queste membra» 113 .<br />

Anche in Byron il prigioniero perde il conto dei giorni passati, dopo la morte<br />

<strong>di</strong> uno dei fratelli. Ne rievoca la fine: racconta come fu incatenato a delle colonne,<br />

accanto a due dei suoi fratelli. I tre potevano parlare tra loro, ma «quelle<br />

voci più non mi suonavano come nostre» 114 : ecco il motivo dell’alienazione e<br />

<strong>della</strong> <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> riconoscersi.<br />

«Presso alle mura <strong>di</strong> Chillon giace il Lago Lemano» 115 , spiega Byron. Il carcere<br />

era situato sotto il livello del lago e, per questo, la loro era come una «doppia<br />

prigione, – un sepolcro <strong>di</strong> vivi» 116 : ecco affacciarsi un altro tema già ritrovato<br />

sia in Pellico sia in Bini.<br />

Il fratello cacciatore, puro e forte, muore per primo, <strong>di</strong> stenti, e viene seppellito<br />

dai carcerieri <strong>nella</strong> terra <strong>della</strong> caverna; il fiore dei fratelli, invece, quello più<br />

piccolo, puro e fragile, appassisce lentamente. Solo la fede salva il sopravvissuto<br />

dal suici<strong>di</strong>o: «stetti una pietra fra le pietre» 117 , commenta. Ritorna il motivo<br />

<strong>della</strong> per<strong>di</strong>ta d’identità e dell’alienazione. E ritorna anche quello dell’immobilità:<br />

«Non v’erano stelle, né terra, né tempo, né legge, né vicenda, né bene, né<br />

male: ma silenzio; e un respiro insensibile, né <strong>di</strong> vita, né <strong>di</strong> morte; un mare <strong>di</strong><br />

ozio stagnante, oscuro, illimitato, muto, ed immobile» 118 .<br />

A un tratto, però, ecco filtrare dalle sbarre <strong>della</strong> prigione un raggio <strong>di</strong> sole, e<br />

poi un uccello dalle «ale azzurre» 119 fare capolino: «Pareva, che come a me gli<br />

mancasse un compagno; ma non era per metà così desolato: era venuto ad amarmi,<br />

nel punto che non viveva più nessuno per amarmi, – e consolandomi dalla<br />

112 Cfr. C. BINI, op. cit., pp. 325-38.<br />

113 Ivi, p. 326.<br />

114 Ivi, p. 327.<br />

115 Ivi, p. 328.<br />

116 Ibidem.<br />

117 Ivi, p. 331.<br />

118 Ibidem.<br />

119 Ivi, p. 332.<br />

217


Maria Panetta<br />

fessura <strong>della</strong> mia prigione, mi aveva ricondotto al sentimento, e al pensiere» 120 .<br />

Il prigioniero, all’inizio, si culla nel pensiero che quello sia, in realtà, il fratello<br />

venuto a consolarlo, ma poi decide <strong>di</strong> abbandonare anche questa illusione. I carcerieri<br />

<strong>di</strong>vengono pietosi e lo sciolgono dalle catene, lasciando che passeggi<br />

liberamente <strong>nella</strong> caverna, ma la conquistata possibilità <strong>di</strong> movimento lo strazia<br />

ancor <strong>di</strong> più perché lo costringe a cercare ogni modo per non calpestare la terra<br />

in cui sono sepolti i suoi due fratelli.<br />

A questo punto viene descritto il suo tentativo <strong>di</strong> gettare uno sguardo al <strong>di</strong><br />

fuori delle mura <strong>della</strong> prigione, altro motivo topico <strong>della</strong> <strong>letteratura</strong> <strong>carceraria</strong>:<br />

«Io feci nel muro una scala, non già per fuggire, perché io aveva sepolto tutti<br />

coloro, che mi amavano in forma umana; e quin<strong>di</strong> la terra intera non mi sarebbe<br />

apparsa, che una prigionia più vasta» 121 . Il prigioniero riesce a gettare una rapida<br />

occhiata fuori: vede il lago, il Rodano, le cime innevate, le aquile veloci. Poi<br />

si pente <strong>di</strong> essersi arrampicato fino alle sbarre: si rende conto, forse, che il guardare<br />

la libertà e il mondo da cui egli è ormai tagliato fuori acuirà ancor <strong>di</strong> più le<br />

sue pene. Meglio non vedere ciò che non si può raggiungere.<br />

Dopo anni il prigioniero viene liberato, ma commenta: «per me era tutt’uno,<br />

starmi sciolto o nei ferri; – io aveva imparato ad amare la <strong>di</strong>sperazione» 122 .<br />

Anche in Byron torna il topos <strong>della</strong> convivenza con ragni e topi: «Eravamo<br />

tutti abitanti <strong>di</strong> un luogo medesimo, ed io monarca d’ogni razza aveva potenza<br />

<strong>di</strong> uccidere; pur, cosa strana a narrarsi, noi avevamo imparato a vivere in pace.<br />

Perfino le mie stesse catene, ed io, eravamo <strong>di</strong>ventati amici, – talmente una<br />

lunga comunanza tende a farci quel che noi siamo» 123 . Dunque, la tendenza<br />

all’assuefazione a uno stato, sia esso <strong>di</strong> libertà o <strong>di</strong> cattività, sembra contrad<strong>di</strong>stinguere<br />

la natura dell’uomo, che spesso riesce ad adattarsi e a conservare,<br />

come per inerzia, la con<strong>di</strong>zione fisica e spirituale cui si è, in principio a fatica,<br />

adeguato.<br />

L’autobiografia <strong>di</strong> Settembrini<br />

Le Ricordanze 124 <strong>di</strong> Settembrini, successive alla metà del secolo, vengono<br />

pubblicate postume nel 1879: si <strong>di</strong>stinguono per lo stile brioso e per il ritmo<br />

vivace.<br />

120 Ibidem.<br />

121 Ivi, p. 333.<br />

122 Ivi, p. 334.<br />

123 Ivi, p. 335.<br />

124 Cfr. L. SETTEMBRINI, Ricordanze e altri scritti, a cura <strong>di</strong> G. De Rienzo, II ed. Torino,<br />

UTET, 1971 (I ed. UTET, 1955).<br />

218


<strong>Metafore</strong> e <strong>topoi</strong> <strong>della</strong> <strong>letteratura</strong> <strong>carceraria</strong><br />

Settembrini racconta la sua vita fin dalla nascita, avvenuta il 17 aprile 1813 a<br />

Napoli. La caratteristica più rilevante <strong>di</strong> queste memorie è che esse sembrano<br />

proprio impostate e costruite sulla metafora del carcere e <strong>della</strong> repressione, fin<br />

dal resoconto che Settembrini fa <strong>della</strong> narrazione dei fatti <strong>della</strong> repubblica<br />

democratica <strong>di</strong> Napoli del 1799, da parte del padre che, creduto un giacobino<br />

dai “lazzari”, i plebei napoletani, viene malmenato e condotto «scalzo e sanguinoso»<br />

125 al ponte <strong>della</strong> Maddalena, per essere rinchiuso nei Granili che allora<br />

erano <strong>di</strong>ventati un gran carcere. A tal proposito, Settembrini racconta due episo<strong>di</strong><br />

– quello del calabrese 126 e quello <strong>della</strong> sorella 127 – in<strong>di</strong>cativi delle crudeltà<br />

gratuite subite dai familiari in quell’occasione: «A questo racconto io non<br />

movevo palpebra, ma a quello spillone <strong>nella</strong> rosa 128 <strong>di</strong>e<strong>di</strong> un guizzo, e mia<br />

madre fermò la mano che cuciva e impallidì» 129 .<br />

Segue il racconto <strong>della</strong> sua permanenza nel collegio <strong>di</strong> Maddaloni, a tre<br />

miglia da Caserta, occasione per scagliarsi contro i meto<strong>di</strong> educativi dei preti:<br />

«Il collegio <strong>di</strong> Maddaloni passava per uno dei migliori del regno, ma era come<br />

gli altri: una prigione d’un centinaio <strong>di</strong> fanciulli che stanno inginocchiati o<br />

seduti la maggior parte del giorno ed apprendono dottrina cristiana e lingua latina»<br />

130 . Da notare l’accostamento tra il collegio e l’idea <strong>della</strong> prigione: «Educare<br />

lì non è altro che spezzare ogni volontà nei giovinetti, non farli ragionar mai,<br />

ridurli a stupida e fratesca obbe<strong>di</strong>enza».<br />

Il 14 marzo 1825 una trage<strong>di</strong>a si abbatte su casa Settembrini: la madre <strong>di</strong><br />

Luigi muore <strong>di</strong> parto. Anche in questo caso, è singolare l’immagine <strong>di</strong> oppressione<br />

e oscurità che viene scelta dall’autore per descrivere la sua <strong>di</strong>sperazione:<br />

«La nostra casa era una spelonca: per ogni stanza cercavo la mamma, e la<br />

mamma non c’era più» 131 .<br />

125 Ivi, p. 37.<br />

126 Ibidem: «Stava <strong>di</strong> senti<strong>nella</strong> innanzi la porta del carcere un calabrese con una gran rete<br />

turchina in capo ed una rosa in mano. Come ei mi vide: – Poveru giuvani, – mi <strong>di</strong>sse, – tu si<br />

mezzu mortu: addura sta rosa, rifriscati! –. E avvicinandomela al naso sentii entrarmi uno<br />

spillone nel cervello».<br />

127 Si recano a trovare il padre in prigione il nonno e la sorella Carmela, «la quale come<br />

lo vide a traverso i ferri, corse, gli strinse la mano forte forte, e svenne. Suo padre corse per<br />

un poco d’acqua, domandò aiuto al maggiore Baccher, che ora è generale, e allora si trovava<br />

lì, e passeggiava innanzi al carcere, e venne e <strong>di</strong>sse: – Oh è nulla, la farò rinvenire io –. E<br />

<strong>di</strong>ede due colpi <strong>di</strong> frustino in faccia a la povera Carmela. Suo padre se la prese tra le braccia,<br />

e senza <strong>di</strong>r parola la trascinò via, e non venne più» (pp. 37-38).<br />

128 Tutt’altro valore ha la rosa che compare in Pellico (op. cit., p. 195), come dono offerto<br />

da Maroncelli al vecchio chirurgo che gli ha appena amputato una gamba, liberandolo dal<br />

tumore.<br />

129 Cfr. L. SETTEMBRINI, op. cit., p. 38.<br />

130 Ivi, p. 40, come la cit. che segue.<br />

131 Ivi, p. 45.<br />

219


Maria Panetta<br />

Settembrini racconta <strong>di</strong> aver avuto, per un periodo, la vocazione <strong>di</strong> farsi<br />

frate, ma l’incontro con una bella ragazza lo <strong>di</strong>ssuade: «E così gli occhi <strong>di</strong> quella<br />

fanciulla mi scappuccinarono, e mi tornarono quel matto che io ero per natura»<br />

132 . Segue un’allocuzione al lettore che, con tono bonario, introduce il clima<br />

poliziesco che dominava in quegli anni:<br />

Oh, non ridete <strong>di</strong> queste fantasie fanciullesche. Se in vita tua non hai pensato mai <strong>di</strong> farti<br />

frate, o soldato, o <strong>di</strong> volerti ammazzare, se non hai fatta mai una corbelleria e sei stato sempre<br />

savio, io ti compiango, e non ti voglio per amico, perché se non l’hai fatta, la devi fare, e più<br />

tar<strong>di</strong> sarà più grossa, e la farai a me. La saviezza senza la pazzia sterilisce l’anima, ed è come<br />

il sole senza la rugiada <strong>della</strong> notte. E poi avete a sapere che a quegli anni la bacchettoneria<br />

era un andazzo; il governo voleva che gli uomini pensassero all’anima e non s’impicciassero<br />

delle faccende del mondo, e chi non <strong>di</strong>ceva i fatti suoi ad un confessore doveva <strong>di</strong>rli ad un<br />

commissario <strong>di</strong> polizia che te lo tappava in prigione.<br />

A 14 anni, Settembrini legge con gusto Chateaubriand (Atala) assieme a<br />

Salvatore, figlio del vicino don Angelantonio de Spagnolis, passeggiando nel<br />

bosco reale, e racconta che una volta,<br />

vedendo gli alberi tagliati in modo da parere una muraglia verde, avendo la fantasia a le<br />

foreste americane, <strong>di</strong>ssi al compagno: «Ve<strong>di</strong> come l’uomo guasta la natura e crede <strong>di</strong> correggerla.<br />

Io scriverei un libro su questo taglio degli alberi. – Un libro? vah! e che <strong>di</strong>resti? – Che<br />

è una tirannide, e che si potano gli uomini e gli alberi al modo stesso» 133 .<br />

Sempre nel bosco reale egli conosce Angelina, vezzosa figlia <strong>di</strong> un custode.<br />

Una volta che sta rincorrendo la fanciulla, voltando un viale s’imbatte <strong>nella</strong><br />

Regina Isabella, che sorride al suo saluto imbarazzato, compiaciuta del gioco.<br />

Settembrini commenta: «Che volete? ero bimbo ancora, ed ebbi paura: credetti<br />

<strong>di</strong> aver fatto un marrone 134 , e che mi avrebbero carcerato: onde stetti in casa, e<br />

per un pezzo non tornai al bosco» 135 .<br />

Dopo la morte del padre (26 settembre 1830), Settembrini si reca a Santa<br />

Maria <strong>di</strong> Capua, a fare l’avvocato, ma nel 1831 fugge e torna a Napoli:<br />

Mi parve adunque <strong>di</strong> essere fuggito <strong>di</strong> un carcere, <strong>di</strong> respirare aria più pura, u<strong>di</strong>re linguaggio<br />

più umano, non vedere più quelle facce brutte come la carta bollata, ma visi <strong>di</strong> cristiani,<br />

e un certo visetto che mi stava sempre innanzi agli occhi, e non l’avevo potuto <strong>di</strong>menticare<br />

mai 136 .<br />

220<br />

132 Ivi, p. 47, come la cit. che segue.<br />

133 Ivi, pp. 48-49.<br />

134 Forma <strong>di</strong>alettale lombarda per ‘errore’.<br />

135 Ivi, pp. 49-50.<br />

136 Ivi, p. 59.


<strong>Metafore</strong> e <strong>topoi</strong> <strong>della</strong> <strong>letteratura</strong> <strong>carceraria</strong><br />

La narrazione prosegue descrivendo l’inasprirsi del clima poliziesco, sotto il<br />

regno <strong>di</strong> re Fer<strong>di</strong>nando. Dopo il 1830 fioriscono i giornali che trattano <strong>di</strong> <strong>letteratura</strong><br />

italiana; si legge Botta, Colletta, Pellico, Berchet, D’Azeglio. Al riguardo<br />

delle sue scritture private, Settembrini puntualizza: «Ho fatto vari peccati in vita<br />

mia, e me ne pento; ma quello <strong>di</strong> sommettermi a un revisore no, neppure una<br />

volta. [...] Per serbarmi l’unico bene che avevo, la libertà del pensiero, mi tenevo<br />

chiuse le mie scritture, e le leggevo a pochissimi» 137 . Torna, a questo punto,<br />

la metafora <strong>della</strong> gabbia: «Allora io credevo il mondo una gabbia <strong>di</strong> matti, ed il<br />

matto ero io che non ci sapevo stare, non avevo garbo a viverci, e rimanevo in<br />

un silenzio salvatico: onde se togli pochissimi che mi volevano un po’ <strong>di</strong> bene,<br />

agli altri parevo piuttosto un asino» 138 .<br />

Riguardo ai professori privati, invece, scrive: «Questo libero insegnamento<br />

ci ha salvati dall’ultima servitù, dalla servitù del pensiero, ed ha favorito l’educazione<br />

dei gran<strong>di</strong> e liberi pensatori che noi avemmo in ogni tempo» 139 . Poi<br />

aggiunge che gli stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> lingua italiana «non furono loda letteraria, come ancor<br />

credono gli sciocchi, ma prima manifestazione del sentimento nazionale 140 »: ed<br />

è <strong>di</strong> certo in questa chiave che vanno lette anche le Ricordanze.<br />

L’occasione dell’arresto <strong>di</strong> Settembrini, l’8 maggio 1839, è legata alle rivelazioni<br />

del parroco <strong>di</strong> Crochi, Nicola Barbuto, relative alla setta <strong>della</strong> Giovane<br />

Italia fondata da Settembrini a Catanzaro. Viene condotto a Napoli, nel carcere<br />

<strong>di</strong> Santa Maria Apparente: non ci sono materassi; i più fortunati possono procurarsi<br />

un «farto», cioè un «sacco <strong>di</strong> capecchio, e si paga due grana il giorno» 141 .<br />

Gli recano una «ramaiolata <strong>di</strong> fave» e un pane nero e gli chiedono <strong>di</strong> consegnare<br />

«gli straccali che avete ai calzoni», ossia le bretelle, e «le legacce delle calzette»,<br />

per evitare che si strangoli.<br />

Settembrini confessa <strong>di</strong> essere stato preoccupato che andasse qualcuno a torturarlo,<br />

ma si <strong>di</strong>ce ancora più angosciato per sua moglie Gigia e per il suo<br />

bimbo Raffaele: «E se qualcuno li insultasse? Oh che dolore è questo che mi<br />

squarcia il petto! questa è tortura vera!» 142 . Compare ancora il motivo del pianto<br />

per i familiari.<br />

Luigi non tocca cibo e la notte se lo mangiano i topi 143 : tutti motivi comuni<br />

anche a Bini. Si fa comprare una sco<strong>della</strong> nuova e il giorno dopo consuma<br />

fagioli. Racconta, inoltre, che l’acqua «era verminosa, e bisognava chiudere gli<br />

137 Ivi, p. 73.<br />

138 Ivi, p. 74.<br />

139 Ivi, p. 81.<br />

140 Ivi, p. 86.<br />

141 Ivi, p. 115, come le due cit. a seguire.<br />

142 Ivi, p. 116.<br />

143 Cfr. anche p. 144.<br />

221


Maria Panetta<br />

occhi e non fiutare per bere quando la sete non si poteva più sopportare» 144 , ma i<br />

suoi carcerieri gli concedono <strong>di</strong> fumare tabacco con la pipa.<br />

Trasferito in una stanza migliore, Settembrini agli interrogatori nega tutto.<br />

Dopo 35 giorni <strong>di</strong> reclusione, finalmente gli permettono <strong>di</strong> incontrare la moglie,<br />

gravida <strong>di</strong> 8 mesi: gli sposi si scrivono, ogni volta che la donna si reca a fargli<br />

visita, usando il fondo <strong>di</strong> una bottiglia <strong>di</strong> vino. Ritorna il tema <strong>della</strong> scrittura<br />

clandestina, che si avvale dei più inusuali supporti.<br />

Si ritrova nelle Ricordanze anche il motivo delle conversazioni in co<strong>di</strong>ce con<br />

gli altri detenuti («formammo una lingua convenzionale che neppure il <strong>di</strong>avolo<br />

poteva intendere, e ci usammo a parlarla con una facilità mirabile» 145 ) e dei rimproveri<br />

del custode, che raccomanda loro <strong>di</strong> non parlare «turchesco» 146 che in<br />

certe ore del giorno. Il tema <strong>della</strong> lettura come sollievo alle angosce del carcere<br />

si affaccia in queste pagine: Settembrini chiede ai suoi carcerieri <strong>di</strong> poter leggere,<br />

ed essi gli recano il Nuovo Testamento e le poesie <strong>di</strong> Vincenzo Monti.<br />

Un giorno – altro motivo topico – sente la figlia <strong>di</strong> Liguoro che intona la<br />

canzone nuova Te voglio bene assai, E tu non pienze a me, ed esclama: «Tre<br />

cose belle furono in quell’anno, le ferrovie, l’illuminazione a gas, e Te voglio<br />

bene assai» 147 .<br />

Dopo 20 mesi nei criminali <strong>di</strong> Santa Maria Apparente, nel gennaio 1841<br />

viene condotto <strong>nella</strong> gran prigione <strong>della</strong> Vicaria, «un vasto ed antico e<strong>di</strong>fizio,<br />

che un tempo era fuori le mura <strong>della</strong> città, ed oggi è in una delle contrade più<br />

popolose presso la porta detta Capuana» 148 . Ritroviamo, <strong>nella</strong> descrizione <strong>della</strong><br />

Vicaria, ironici accenti che rimandano, almeno in apparenza, al Manoscritto <strong>di</strong><br />

Bini: «Il carcere superiore chiamasi de’ nobili, l’inferiore del popolo: e vi si<br />

entra per due porte <strong>di</strong>verse, sopra una delle quali è <strong>di</strong>pinto un Cristo che con la<br />

Croce addosso sale il Calvario, e sopra l’altro un altro Cristo nell’atto d’essere<br />

inchiodato su la croce, due pitture fatte con l’intenzione <strong>di</strong> dare conforto e speranza<br />

a chi entra» 149 .<br />

Il tema <strong>della</strong> malattia – molto presente in Pellico 150 – fa il suo ingresso anche<br />

nelle Ricordanze, allorché a Settembrini viene «un tumore su la mascella<br />

destra» 151 ; con un taglio del me<strong>di</strong>co si libera dal dolore, così come in seguito<br />

riesce a debellare anche la tenia, bevendo un decotto <strong>di</strong> ra<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> granato selvag-<br />

222<br />

144 Ivi, p. 117.<br />

145 Ivi, p. 129.<br />

146 Ibidem. Cfr. in Pellico il “gergo” dei carcerati: op. cit., p. 161.<br />

147 Cfr. L. SETTEMBRINI, op. cit., p. 134.<br />

148 Ivi, p. 139.<br />

149 Ivi, pp. 140-41.<br />

150 Cfr. ad esempio le pp. 118-19 e 136 de Le mie prigioni.<br />

151 Cfr. L. SETTEMBRINI, op. cit., p. 143.


<strong>Metafore</strong> e <strong>topoi</strong> <strong>della</strong> <strong>letteratura</strong> <strong>carceraria</strong><br />

gio, preparatogli dalla moglie. Dato che è malato, Settembrini viene condotto<br />

<strong>nella</strong> stanza del custode (come accade a Pellico), ove – contrariamente a Byron<br />

– si risolleva alla vista del mare e del porto militare.<br />

Al <strong>di</strong>battimento del 3 luglio 1841 viene assolto per insufficienza <strong>di</strong> prove e<br />

passa nel carcere dei nobili, stanza numero 5, a <strong>di</strong>sposizione <strong>di</strong> S. E. il ministro<br />

<strong>di</strong> polizia (per altri 15 mesi). Ivi «erano circa quattrocento uomini tormentati dal<br />

puzzo, dal buio, dagl’insetti, non mai confortati dal sole né dall’aria pura, chiusi<br />

per ogni parte da ferri, mescolati insieme giu<strong>di</strong>cabili e giu<strong>di</strong>cati, imputati politici<br />

ed assassini, lo studente che tardava a prendersi la sua carta <strong>di</strong> soggiorno, e<br />

chi aveva fatto in pezzi la moglie, i ladri, i falsari, gli uomini più perduti e<br />

nefan<strong>di</strong>: e spesso il letto dell’uno è vicino a quello dell’altro» 152 : ancora il motivo<br />

dell’uguaglianza.<br />

Il passare delle ore viene da Settembrini regolarmente segnalato: «Cinque<br />

volte il dì si battono i ferri, a ventiquattr’ore, a mezza sera, a mezza notte, al far<br />

del giorno, a ventun’ora» 153 . Torna l’angoscia per le con<strong>di</strong>zioni – stavolta economiche<br />

– dei famigliari 154 : il ministro <strong>di</strong> polizia, infatti, tarda a liberarlo.<br />

Finalmente, il 14 ottobre Settembrini viene rilasciato e torna dalla moglie, dopo<br />

3 anni e mezzo <strong>di</strong> prigionia.<br />

Uscito dal carcere, fino al 1848 egli fa il maestro <strong>di</strong> scuola. Nella sua narrazione<br />

viene, a questo punto, preso dall’ansia <strong>di</strong> riferire dei moti rivoluzionari e<br />

<strong>di</strong> tutti gli avvenimenti storici rilevanti (accaduti fino al 1849) con la massima<br />

esattezza: per questo motivo, le sue vicende personali passano in secondo piano<br />

e l’opera perde in interesse e in vivacità narrativa. Muta anche lo stile, che<br />

<strong>di</strong>viene frenetico e ricco <strong>di</strong> <strong>di</strong>aloghi inframmezzati, frasi brevi e punti fermi.<br />

152 Ivi, p. 151.<br />

153 Ivi, p. 152.<br />

154 Ivi, p. 155.<br />

223

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