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Il tempo come indicibile attesa - Edizioni Studium

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<strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> <strong>come</strong> <strong>indicibile</strong><br />

<strong>attesa</strong><br />

di Paola Ricci Sindoni<br />

1. <strong>Il</strong> miracolo segreto o l’<strong>attesa</strong> breve<br />

«<strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> è vicino».<br />

Ap 22, 10.<br />

«E tutto<br />

deve essere così piano<br />

<strong>come</strong> la lunga <strong>attesa</strong>».<br />

P. Salinas<br />

Perché attendere che il <strong>tempo</strong> si dia, quando smarriti e confusi ne<br />

percepiamo, <strong>come</strong> ai tempi di Agostino, tutta la sua fragile, corrosiva<br />

distensione? Appagati dall’idolatrica comparsa dell’attimo presente,<br />

che pare raccogliere ed esaurire tutte le energie vitali, in che<br />

modo ridire la fatica di un <strong>tempo</strong> che ama serbare in sé il suo <strong>indicibile</strong><br />

segreto, caricandosi dell’<strong>attesa</strong> della sua futura pienezza?<br />

In questo drammatico scenario è possibile leggere la provocazione<br />

mistica della Kabbalah 1 , secondo cui l’uomo è stato creato<br />

in mezzo al <strong>tempo</strong> «troppo tardi o troppo presto», in ritardo rispetto<br />

ad un dramma che gli è anteriore e di cui sente tragicamente<br />

l’urto; in anticipo sul finale di questo dramma, che gli impone<br />

il suo diretto intervento, quasi sempre esposto ad un inevitabile<br />

fallimento.<br />

A questa dolente condizione rispondono, in modo opposto e<br />

speculare, due scrittori del Novecento, Jorge Luis Borges e Franz<br />

Kafka, assai vicini nell’angustia a ridire lo spessore problematico<br />

del <strong>tempo</strong>, e assai diversi nel determinarne la struttura esistenziale,<br />

quella che ne costituisce il senso dell’<strong>attesa</strong>.


794 Paola Ricci Sindoni<br />

La storia di Borges si svolge a Praga 2 , dove lo scrittore Jaromir<br />

Hladik, arrestato dai tedeschi nel 1939 per aver studiato la mistica<br />

ebraica, vive i suoi ultimi dieci giorni in prigione, in <strong>attesa</strong><br />

dell’esecuzione capitale. Ciò che lo tormenta è l’impossibilità di<br />

poter condurre a termine il suo lavoro – una tragedia in tre atti intitolata<br />

I nemici –: «Aveva già terminato il primo atto e qualche<br />

scena del terzo; la natura metrica dell’opera gli permetteva di rivederla<br />

continuamente, di correggerne gli esametri, senza aver<br />

sott’occhio il manoscritto. Pensò che mancavano ancora due atti,<br />

e che tra brevissimo <strong>tempo</strong> sarebbe morto» 3 .<br />

La notte prima di essere ucciso – così continua il racconto –<br />

Hladik rivolge a Dio una preghiera perché gli doni un altro anno<br />

di vita per poter completare la sua tragedia. Ma il <strong>tempo</strong> scorre<br />

inesorabile: alle 9 del mattino del 29 marzo 1939 il condannato<br />

viene passato per le armi. Vale la pena rileggere integralmente la<br />

parte finale del racconto.<br />

«<strong>Il</strong> plotone si formò, s’inquadrò. Hladik, in piedi contro il muro della<br />

caserma, attese la scarica. Qualcuno temette che la parete restasse<br />

macchiata di sangue; ordinarono allora al condannato di avanzare di<br />

alcuni passi. Hladik, assurdamente, ricordò i vacillamenti preliminari<br />

ordinati dai fotografi. Una pesante goccia di pioggia gli sfiorò una<br />

tempia e lentamente rotolò sulla sua guancia; il sergente vociferò il<br />

comando finale.<br />

L’universo fisico si fermò.<br />

Le armi convergevano su Hladik, ma gli uomini che stavano per<br />

ucciderlo restavano immobili. <strong>Il</strong> braccio del sergente eternizzava un<br />

gesto inconcluso. Su un mattone del cortile un’ape proiettava un’ombra<br />

fissa. <strong>Il</strong> vento s’era arrestato <strong>come</strong> in un quadro. Hladik tentò un<br />

grido, una sillaba, la torsione di una mano. Comprese che era paralizzato.<br />

Non il più tenue rumore gli giungeva dal mondo impedito.<br />

Pensò sono all’inferno, sono morto. Pensò sono impazzito. Pensò il<br />

<strong>tempo</strong> si è fermato. Poi rifletté che, in questo caso, anche il suo pensiero<br />

si sarebbe fermato. Volle metterlo alla prova: ripeté (senza muovere<br />

le labbra) la misteriosa quarta ecloga di Virgilio. Immaginò che<br />

già i remoti soldati condividessero la sua angoscia; bramò di comunicare<br />

con loro. Si stupì di non sentire alcuna stanchezza, e neppure la<br />

vertigine della sua lunga immobilità. Dopo un <strong>tempo</strong> indeterminato,<br />

si addormentò. Quando si risvegliò, il mondo continuava immobile e<br />

sordo. Durava sulla sua guancia la goccia d’acqua; nel cortile, l’ombra<br />

dell’ape; il fumo della sigaretta che aveva fumato non finiva mai di disperdersi.<br />

Un altro “giorno” passò prima che Hladik comprendesse.


<strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> <strong>come</strong> <strong>indicibile</strong> <strong>attesa</strong> 795<br />

Un intero anno aveva chiesto a Dio per terminare il suo lavoro:<br />

un anno gli concedeva l’Onnipotente. Dio compiva per lui un miracolo<br />

segreto; l’ucciderebbe, all’ora fissata, il plotone tedesco, ma nella<br />

sua mente, tra l’ordine e l’esecuzione dell’ordine, trascorrerebbe<br />

un anno. Dalla perplessità passò allo stupore, dallo stupore alla rassegnazione,<br />

dalla rassegnazione a un’improvvisa gratitudine.<br />

Non disponeva d’altro documento che della memoria; il mandare<br />

a mente ogni esametro nuovo, gli impose un fortunato rigore, ignorato<br />

da coloro che arrischiano e dimenticano paragrafi provvisori e<br />

sconclusionati. Non lavorò per la posterità e neppure per Dio, delle<br />

cui preferenze letterarie poco sapeva. Minuzioso, immobile, segreto,<br />

ordì nel <strong>tempo</strong> il suo alto labirinto invisibile. Rifece il terzo atto due<br />

volte. Soppresse certi simboli troppo evidenti [...]. Nulla veniva ad<br />

importunarlo e a distrarlo. Soppresse, abbreviò, ampliò; in nessun caso<br />

preferì la versione primitiva. Giunse ad amare il cortile, la caserma.<br />

Terminò il suo dramma: non gli mancava di risolvere, ormai, che un<br />

solo aggettivo. Lo trovò; la goccia d’acqua riprese a scivolare sulla sua<br />

guancia. Gridò il principio di un grido, mosse il capo, la quadruplice<br />

scarica lo fulminò.<br />

Jaromir Hladik morì il 29 marzo alle nove e due minuti del mattino»<br />

4 .<br />

Come è potuto accadere in simultanea il <strong>tempo</strong> breve dell’esecuzione<br />

(due minuti) e il <strong>tempo</strong> lungo (un anno) della composizione<br />

dell’intero poema? <strong>Il</strong> senso del racconto sembra alludere ad un arresto<br />

dell’universo fisico («Le armi convergevano su Hladik, ma<br />

gli uomini che stavano per ucciderlo restavano immobili»), che<br />

non implica l’arresto del <strong>tempo</strong>, che anzi appare tanto qualitativamente<br />

condensato, quanto ricolmo di distensione cronologica (il<br />

«miracolo» di un anno intero).<br />

L’<strong>attesa</strong> della fine, insomma, raccoglie in sé segretamente (il<br />

miracolo è segreto anche perché nessuno conoscerà il completamento<br />

della composizione) la condensazione del «<strong>tempo</strong>-ora», là<br />

dove al <strong>tempo</strong> interno del condannato è concesso di separarsi dalla<br />

realtà esteriore del <strong>tempo</strong> fisico, quasi che, racchiuso in se stesso,<br />

possa proficuamente dilatarne l’<strong>attesa</strong>. In quei due minuti, che<br />

separano l’ordine di aprire il fuoco e l’esecuzione finale della sentenza,<br />

la coscienza di Hladik riesce miracolosamente a compiere il<br />

lavoro di un anno intero.<br />

C’è molto di più in questo racconto che l’apoteosi del <strong>tempo</strong><br />

psichico, qualitativo, creativo, su quello fisico, quantitativo, ripetitivo.<br />

È la densità dell’<strong>attesa</strong> che viene qui rappresentata narrati-


796 Paola Ricci Sindoni<br />

vamente, <strong>come</strong> tensione dinamica ad un «oltre», già raccolto nel<br />

<strong>tempo</strong>-ora, in quell’ora presente, cioè, in cui convivono all’esterno<br />

il tragico rituale della condanna a morte, e, all’interno, l’incompiutezza<br />

di un’opera che preme per essere ultimata.<br />

In questo ipotetico incrocio delle due differenti scansioni del<br />

<strong>tempo</strong>, prende dimora l’<strong>attesa</strong>, che è sempre tensione ad altro che<br />

non abita dentro il circuito finito dell’«ora», ma al con<strong>tempo</strong> si<br />

nutre del «già» dato, il cui spessore pare possedere in sé il germe<br />

segreto del compimento.<br />

È certo un miracolo segreto, <strong>come</strong> invita a considerarlo Borges,<br />

anche perché costitutivamente l’<strong>attesa</strong> preme in avanti, verso<br />

l’<strong>indicibile</strong> altro da sé; forma presente del futuro può essere chiamata,<br />

perché poggia su di un lampo di <strong>tempo</strong> – l’ora – la cui intensità<br />

dinamica proietta fuori, lontano.<br />

<strong>Il</strong> miracolo sta non soltanto nella possibilità di pre-vedere il<br />

futuro, ma, nel caso dello scrittore condannato a morte, di trascinarlo<br />

indietro, dentro quel presente condensato, che riassume in<br />

sé l’inevitabile tensione di quel <strong>tempo</strong> lungo che è il futuro imprevedibile.<br />

È il <strong>tempo</strong> vicino di cui parla Giovanni (Ap 22, 10), è il <strong>tempo</strong><br />

corto di Paolo (1 Cor 7, 29), il <strong>tempo</strong> che resta tra il «già» del<br />

presente, già colmo di futuro, e il «non ancora» che attende di essere<br />

com-preso nella totalità dell’«oggi». Ciò che vale è il <strong>tempo</strong> di<br />

«ora», quel presente che resta (Rm 11, 5) e che sembra costituire<br />

nell’orizzonte neotestamentario la forma interna e la verità di tutto<br />

il <strong>tempo</strong>, la sua «segreta» unificazione. Paolo non ha dubbi ad<br />

ammettere che, una volta accettata per fede la venuta e la resurrezione<br />

del Maestro nella «pienezza» del <strong>tempo</strong>, ciò che rimane –<br />

dopo questo Evento – è un <strong>tempo</strong> breve, un <strong>tempo</strong> contratto, il<br />

<strong>tempo</strong> che resta, insomma, <strong>come</strong> unico <strong>tempo</strong> reale. Ciò va inteso<br />

non tanto perché l’<strong>attesa</strong> del ritorno del Signore fosse percepita<br />

dalle prime comunità cristiane nella sua urgenza storica, successivamente<br />

delusa 5 , ma perché – <strong>come</strong> sembra dire Paolo – dopo<br />

Cristo tutto il <strong>tempo</strong>, totalmente condensato nel Messia, va raccolto<br />

totalmente nell’hodie, nel <strong>tempo</strong> che resta, più che proiettato<br />

in un incerto futuro escatologico 6 .<br />

La speranza che anima l’<strong>attesa</strong> del ritorno non rimanda perciò<br />

alla fine del <strong>tempo</strong>, ma al <strong>tempo</strong> della fine, al <strong>tempo</strong> cioè che ora<br />

prepara l’evento e lo custodisce con fiducia e pazienza 7 . E se pur<br />

dobbiamo restare immersi nel finito, nella pura precarietà del pre-


sente, là dove occorre rimanere agostinianamente fissi in un <strong>tempo</strong><br />

che di continuo trapassa nel non essere del futuro, non resta<br />

che riaffidarsi alla speranza, a quell’originario kairòs, che fa il <strong>tempo</strong><br />

pieno, non annullandone le contraddizioni, ma anticipando<br />

nell’oggi una dimensione altra di Essere che già «è» 8 .<br />

La questione che interessa Paolo e che dà filosoficamente da<br />

pensare, non è tanto quella di prefigurare la speranza in un futuro<br />

escatologico che punti al compimento del domani, quanto<br />

quella di ricentrare nell’oggi l’evento messianico, <strong>come</strong> <strong>tempo</strong> di<br />

quel presente condensato, <strong>tempo</strong> che resta e che – lo diceva già<br />

Ticonio che ebbe tanta influenza su Agostino – costringe ogni<br />

<strong>tempo</strong> a farsi ora messianica, non <strong>come</strong> fine cronologica del <strong>tempo</strong>,<br />

ma <strong>come</strong> esigenza di pienezza dell’oggi, <strong>come</strong> ciò che si pone<br />

«a titolo di fine» 9 .<br />

2. La torre di Babele o l’<strong>attesa</strong> lunga<br />

<strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> <strong>come</strong> <strong>indicibile</strong> <strong>attesa</strong> 797<br />

Ben differente appare l’intenzionalità filosofica che muove il racconto,<br />

Lo stemma cittadino, di Kafka 10 . In esso trova una sorprendente<br />

interpretazione la storia biblica relativa alla costruzione<br />

della torre di Babele. Compresa in soli nove versetti – Genesi<br />

11, 1-9 – la vicenda, detta altrimenti «la sfida a Dio», sottolinea<br />

«la tracotanza, l’autoesaltazione di un potere terrestre impaziente<br />

del giogo celeste e di ogni limite umano» 11 . La Bibbia lascia intendere<br />

che la costruzione procedeva molto rapidamente, così rapidamente<br />

da allarmare Dio per questa concentrazione di forze in<br />

una sola città. La distruzione dell’opera, con la conseguente confusione<br />

delle lingue, non è che la denuncia nei confronti della violenza<br />

totalitaria del potere omologante della tecnica, che pretende<br />

di autocentrarsi sostituendosi all’Unico 12 .<br />

Kafka, al contrario, sovverte alla radice il mito biblico: anziché<br />

descrivere l’edificazione della torre, narra la storia della sua<br />

non costruzione.<br />

«Infatti si ragionava così: il punto essenziale di tutta l’impresa è l’idea<br />

di costruire una torre che arrivi al cielo. Davanti a questa idea tutto il<br />

resto è secondario. L’idea, una volta concepita nella sua grandezza,<br />

non può più scomparire; finché ci saranno uomini ci sarà anche il desiderio<br />

di portare a termine la costruzione della torre. Non bisogna


798 Paola Ricci Sindoni<br />

però aver preoccupazioni per l’avvenire, anzi, al contrario, il sapere<br />

dell’umanità va aumentando, l’architettura ha fatto progressi e altri<br />

ne farà, un lavoro per il quale oggi occorre un anno tra cento anni si<br />

potrà fare in sei mesi e, oltre a tutto, in forma migliore e più resistente.<br />

Perché dunque affaticarci già oggi sino allo stremo delle forze? Siffatte<br />

considerazioni paralizzarono le energie e più che alla costruzione<br />

della torre si pensò a costruire i quartieri degli operai. Ogni nazione<br />

voleva il quartiere più bello, donde nacquero contese che finirono<br />

persino col diventare conflitti sanguinosi. Questi non cessavano più e<br />

i capi ne trassero un nuovo argomento per affermare che anche la<br />

mancanza del necessario raccoglimento imponeva di costruire la torre<br />

molto adagio, o meglio ancora soltanto dopo la conclusione della<br />

pace universale. Così passò il periodo della prima generazione, ma<br />

nessuna delle successive fu diversa, soltanto l’abilità industriale andò<br />

perfezionandosi e con essa la smania di menar le mani. Si aggiunga<br />

che già la seconda o terza generazione vide quanto fosse assurda la<br />

costruzione della torre celeste, ma troppi erano ormai i legami perché<br />

si potesse abbandonare la città» 13 .<br />

Ciò che conta per Kafka non è solo individuare una causa immanente<br />

di autodistruzione, implicitamente connessa al progetto<br />

di costruire la torre. La questione, insomma, non è quella relativa<br />

al fatto che non si «deve» erigere la torre, ma proprio non si «può»,<br />

a causa di un perturbamento che viene ad insinuarsi nella relazione<br />

con il <strong>tempo</strong>. Gli uomini di Babele, infatti, vivono e lavorano<br />

sulla scia di un <strong>tempo</strong> disteso all’infinito, sempre uguale, senza fine,<br />

e che attende soltanto di essere di volta in volta riempito con il<br />

lavoro. Per questo – <strong>come</strong> precisa Kafka – «non bisogna avere<br />

preoccupazioni per l’avvenire»; anzi, l’idea ottimistica del progresso<br />

in ambito architettonico suggerisce piuttosto di lavorare con<br />

molta lentezza, senza alcuna urgenza che preme e spinge al futuro,<br />

<strong>tempo</strong> speciale di <strong>attesa</strong>, di speranza e di impazienza 14 .<br />

Nella stagione babelica manca dunque la tensione: «perché<br />

affaticarsi già oggi sino allo stremo delle forze?»; basta lasciare<br />

che il <strong>tempo</strong> – <strong>come</strong> si dice – faccia il suo corso, corso interminabile,<br />

senza fine, «già oggi» uguale a domani. «Così passò il periodo<br />

della prima generazione, ma nessuna delle successive fu diversa».<br />

L’inesorabile scorrere del <strong>tempo</strong> sembra nullificare la densità<br />

anticipatrice dell’<strong>attesa</strong>: nulla avviene perché «niente di nuovo accade<br />

sotto il sole», <strong>come</strong> scetticamente ricorda il Qoèlet.<br />

Dentro questo scenario il futuro kafkiano, indefinitivamente


spostato in avanti, si incarica di sopportare la rassegnazione dell’oggi<br />

(«troppi erano ormai i legami perché si potesse abbandonare<br />

la città») e di predisporre questo flusso vuoto all’<strong>attesa</strong>, eventuale,<br />

dell’apocalisse, unico «<strong>tempo</strong>» possibile, nutrito della distruzione<br />

di tutti i tempi. Alla Babele biblica, <strong>come</strong> quella di Praga,<br />

in cui Kafka è nato e vissuto e a cui allude il racconto, non rimane<br />

che la prigionia di un <strong>tempo</strong> immobile, incapace com’è di<br />

vivere l’<strong>attesa</strong> <strong>come</strong> novità del futuro, tale da riempire di densità<br />

tutto il <strong>tempo</strong> umano. Non rimane perciò che l’esposizione alla<br />

violenza apocalittico-distruttiva. «Tutte le leggende e i canti – termina<br />

il racconto alludendo a Praga – formatisi in questa città sono<br />

pervasi dall’<strong>attesa</strong> di un giorno promesso in cui la città sarà<br />

spianata da un pugno gigantesco con cinque colpi in rapida successione.<br />

Perciò nello stemma della città figura un pugno» 15 .<br />

A differenza di Hladik, che vive l’<strong>attesa</strong> condensata in pochi<br />

attimi, gli unici capaci di donare un senso a tutta una vita, il cittadino<br />

babelico sopporta il peso del suo presente sfibrato, impotente<br />

a contenere in sé il carico del futuro. È il <strong>tempo</strong> avvenire, infatti,<br />

che dispone all’<strong>attesa</strong>; è ad esso che l’«ebreo» Kafka 16 guarda,<br />

disincantato e scettico, memore – se mai – del tono apocalittico,<br />

presente, in parte, nel messianismo ebraico 17 .<br />

Quest’ultimo, assai variegato nelle sue molteplici rappresentazioni<br />

storiche, appare più propenso, almeno nel filone del rabbinismo<br />

postesilico, a privilegiare l’<strong>attesa</strong> <strong>come</strong> «sogno del compimento»<br />

18 del <strong>tempo</strong>, il cui eschaton si nutre di futuro; è il «non<br />

ancora» che preme sul «già», se così si può dire, capovolgendo le<br />

coordinate messianiche presenti nel Nuovo Testamento. Quasi a<br />

dire che in questo scenario l’<strong>attesa</strong> si fa dicibile, perché la Parola<br />

prima ed ultima è stata «già» pronunciata. Diversamente dall’ebraismo,<br />

dove il <strong>tempo</strong> dell’<strong>attesa</strong> è consegnato, per dirla con Lévinas<br />

19 , ad un dire che non è mai componibile nell’assunzione del<br />

detto.<br />

3. L’<strong>attesa</strong> rituale nel <strong>tempo</strong> della natura<br />

<strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> <strong>come</strong> <strong>indicibile</strong> <strong>attesa</strong> 799<br />

È di sicuro interesse analizzare la primitiva concezione del <strong>tempo</strong><br />

ebraico, leggendola in parallelo con differenti visioni, cronologicamente<br />

vicine, che si svilupparono all’interno dei grandi sistemi<br />

religiosi mesopotamici, sumeri ed egiziani.


800 Paola Ricci Sindoni<br />

<strong>Il</strong> racconto babilonese del diluvio, ad esempio, o la supremazia<br />

delle forze cosmiche sugli uomini, che negli abitanti della Mesopotamia<br />

veniva sperimentata <strong>come</strong> modalità mitica di vivere le<br />

alterne vicende della natura, a cui in definitiva l’uomo poteva opporre<br />

solo la riconquista di un flusso <strong>tempo</strong>rale organizzato secondo<br />

i ritmi propri delle fondazioni delle dinastie o delle città, si<br />

differenziava profondamente dalla percezione del <strong>tempo</strong> vissuta,<br />

ad esempio, dai vicini abitanti dell’Egitto 20 .<br />

Avvezzi alla regolarità del clima e alla permanente fertilità del<br />

suolo attraversato dal Nilo, gli egiziani venivano così a disporsi<br />

verso un’<strong>attesa</strong> del <strong>tempo</strong> che finiva con il coincidere con il flusso<br />

dei doni della natura e con i desideri degli agricoltori. Tuttavia<br />

«malgrado le loro divergenze, le concezioni antiche hanno un modo<br />

comune di affrontare cultualmente il <strong>tempo</strong>. Esse immaginano<br />

e introducono nella vita religiosa tempi rituali, la cui esistenza manifesta,<br />

nello stesso <strong>tempo</strong>, l’angoscia dell’uomo davanti alla natura<br />

e la pacificazione degli elementi contrari che si affrontano nel<br />

<strong>tempo</strong>» 21 .<br />

Mircea Eliade ha del resto in modo eccellente mostrato <strong>come</strong>,<br />

mediante la ripetizione del rito, il <strong>tempo</strong> dell’<strong>attesa</strong> assumesse un<br />

valore pieno e solidale con i tempi precedenti e con quelli seguenti<br />

consacrati allo stesso rito: una sola durata ierofanica scorre attraverso<br />

tutti i tempi dedicati alla stessa funzione 22 . Non veniva sospeso<br />

il <strong>tempo</strong> profano, ma introdotto al suo interno qualcosa di assolutamente<br />

nuovo, il rituale appunto, che lo riempiva di significato<br />

e di valore, aprendolo alla comprensione e all’accettazione del<br />

mito. Basti pensare, ad esempio, alla liturgia del nuovo anno in Mesopotamia,<br />

al rituale della successione regale in Egitto, alle funzioni<br />

del lutto a Tammuz in Fenicia o a Canaan, per comprendere <strong>come</strong><br />

questi rituali manifestassero in modo sorprendente il ruolo svolto<br />

dall’<strong>attesa</strong> del <strong>tempo</strong> nella mentalità dell’antico Oriente.<br />

In definitiva – precisa al riguardo Neher –, quando è racchiuso<br />

nel rito, il <strong>tempo</strong> guadagna significato; «è moltiplicato da una<br />

serie di risonanze mitiche in cui la vita umana trova un accrescimento,<br />

doloroso talvolta, ma sempre prezioso. <strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> rituale è<br />

un <strong>tempo</strong> assunto» 23 . A differenza di un’altra concezione, rivelatasi<br />

negli orientamenti ciclici del <strong>tempo</strong> 24 e diffusa soprattutto<br />

nello spirito indiano, volto a rinunciare al <strong>tempo</strong>, a considerare<br />

trascurabile, inessenziale l’<strong>attesa</strong>, per viverla <strong>come</strong> estraneità<br />

a<strong>tempo</strong>rale.


<strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> <strong>come</strong> <strong>indicibile</strong> <strong>attesa</strong> 801<br />

In essi il <strong>tempo</strong> non è sentito <strong>come</strong> una qualità inerente al<br />

mondo, ma solo <strong>come</strong> un accidente particolare della condizione<br />

umana. La natura, invece, sfugge al <strong>tempo</strong>, è spaziale, cosicché<br />

l’antitesi non è posta tra due differenti tempi che si affrontano, ma<br />

fra un «uomo-<strong>tempo</strong>» e una «natura-spazio» 25 .<br />

Già gli studiosi delle antiche religioni orientali hanno messo<br />

in rilievo <strong>come</strong> progressivamente i grandi eventi dei popoli primitivi<br />

hanno sempre più marcato la distinzione e la dialettica del<br />

<strong>tempo</strong> e dello spazio. In modo emblematico è la filosofia greca<br />

che, anche sotto l’influenza del vicino Oriente, sembra aver sintetizzato<br />

questa tendenza con maggiore consapevolezza speculativa:<br />

contrapposto al mondo-cosmo, universo ordinato e immutabile,<br />

c’è un <strong>tempo</strong> che, in senso proprio e forte, non possiede una sua<br />

specifica realtà. Per i Pitagorici è ripetizione, identità; per Platone<br />

è «immagine» dell’eternità; per Aristotele moto circolare e uniforme.<br />

«Ne risulta che la vita e l’esistenza, cioè il <strong>tempo</strong> dell’uomo, la<br />

sua unicità e la sua storia non sono fonti di conoscenza» 26 , per cui<br />

è possibile conoscere l’uomo solo attraverso vie mediate – quali la<br />

filosofia e la scienza – che furono entrambe, almeno all’inizio,<br />

geometriche. Aristotele non fa che codificare ciò che, da Eraclito<br />

in poi, tutti i filosofi greci avevano percepito confusamente: rispetto<br />

all’immutabile, il mutevole è una diminuzione. Accettare e<br />

attendere il <strong>tempo</strong> è un venir meno» 27 . La storia altro non è che<br />

l’inevitabile scorrere degli avvenimenti, schiacciati dal ritmo ossessivo<br />

di una <strong>tempo</strong>ralità che, pur ripetendosi, rimane sostanzialmente<br />

estranea al destino del singolo.<br />

Non è un caso infatti che i Greci affidassero la storia ora all’indagine<br />

filosofica, ora alla retorica. «Fare la storia significava<br />

per essi sia ricreare un fatto del passato, sia esporlo in forma letteraria;<br />

non era “creare” della storia. I greci avevano certo una storia,<br />

ma non fondavano nulla su di essa» 28 .<br />

La comprensione di un <strong>tempo</strong> storico mal si accordava con la<br />

nozione dell’«eterno ritorno», e ciò avrebbe comportato, soprattutto<br />

in analoghe concezioni del <strong>tempo</strong> ciclico (si pensi al pensiero<br />

indù), delle gravi conseguenze sul piano del comportamento<br />

etico. Se il ciclo <strong>tempo</strong>rale è colto <strong>come</strong> «dolore» e trasmigrazione<br />

di miserie e di sofferenze, non esiste salvezza che nella liberazione<br />

dal flusso fatale del <strong>tempo</strong>, attraverso un atteggiamento di<br />

«indifferenza» generale, che finiva per mortificare ogni <strong>attesa</strong> e<br />

speranza nel futuro.


802 Paola Ricci Sindoni<br />

4. Ciò che tarda avverrà<br />

Sono gli ebrei gli autentici «costruttori del <strong>tempo</strong>», <strong>come</strong> icasticamente<br />

precisa Heschel 29 , a differenza dei costruttori dello spazio<br />

che sono stati gli Egiziani e i Greci, dei costruttori dello Stato e<br />

dell’Impero quali furono i Romani, dei costruttori del cielo quali<br />

furono i cristiani. Definizioni suggestive e sostanzialmente corrette,<br />

ma – <strong>come</strong> avverte Neher 30 – non prive di paradossalità, se non<br />

si tiene conto dell’ineliminabile punto di partenza storico che giustifica<br />

l’esistenza stessa del popolo di Israele. Quello rappresentato<br />

dal racconto biblico di Genesi, il solo orizzonte capace di concepire<br />

il <strong>tempo</strong> e la sua <strong>attesa</strong> nella loro portata universale, e di<br />

rappresentare un’autentica sfida alle leggi della sociologia e ai parametri<br />

delle attuali scienze religiose 31 .<br />

È con la Parola che JHWH spezza l’eternità tramite la creazione<br />

del <strong>tempo</strong>, cosicché parola di Dio e nascita del <strong>tempo</strong> formano<br />

un unicum indissolubile. Insieme al mondo, è creata la storia, la storia<br />

degli eventi che hanno condotto «di generazione in generazione»<br />

(Gn 5, 1-32) da Adamo a Caino, sino a Mosè e alla rivelazione<br />

dell’alleanza nel Sinai, la trama dell’incontro fra Dio e l’uomo.<br />

L’Essere che crea e dà la vita non è mai relegato all’interno<br />

dello spazio mitico del sacro, nella fissa rigidità degli oggetti o dei<br />

simboli, ma colto <strong>come</strong> potenza attiva, mobile, <strong>come</strong> presenza imprevedibile,<br />

che sfida ed attende l’uomo per una relazione che lo<br />

fonda e lo radica nel suo orizzonte storico. «Di conseguenza il<br />

<strong>tempo</strong> non è l’immagine mobile di una eternità immobile, bensì il<br />

prodotto dell’eternità in azione, ossia dell’eternità in movimento.<br />

In realtà il Dio della Bibbia è il Dio del pathos, dell’interessamento,<br />

e il <strong>tempo</strong> non è l’immagine mobile dell’eternità, ma l’eternità<br />

in movimento» 42 .<br />

Lungi dal rappresentare uno iatus con il <strong>tempo</strong>, <strong>come</strong> avviene –<br />

almeno in alcune tendenze teologiche – nella religione cristiana 33 ,<br />

l’eternità è la dimensione del <strong>tempo</strong> ininterrotto, del <strong>tempo</strong> divenuto<br />

<strong>attesa</strong>, collegamento, «catena», non soltanto relazione che<br />

passa sopra il flusso dei secoli sulle generazioni e sui grandi eventi<br />

del passato, ma «<strong>attesa</strong>» che significa «fusione, coesistenza, prolungamento»<br />

della propria vita con il <strong>tempo</strong> reale, che è il <strong>tempo</strong> assoluto.<br />

È l’esigenza di coprire, per così dire, quel «bisogno di sincronismo»<br />

34 , di equilibrio cioè fra la frammentaria esperienza della vita<br />

e il bisogno della sua unità nel <strong>tempo</strong>, fra la sete del sapere e il no-


<strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> <strong>come</strong> <strong>indicibile</strong> <strong>attesa</strong> 803<br />

minalismo della cultura, fra l’<strong>attesa</strong> del vero e la sua pienezza, fra<br />

l’amore della verità e il dubbio della filosofia, fra il dono dell’amore<br />

e l’angoscia dell’esistere, fra la nostalgia del poeta e l’evasione<br />

dell’artista. Tutte manifestazioni di quell’ansia metafisica dell’esistente,<br />

che possiede lo spazio, distrugge la terra, manipola le cose,<br />

ma non riesce a bloccare il <strong>tempo</strong>, a fissarlo dentro le sue strutture,<br />

nonostante i tentativi di Agostino o di Bergson di comporlo all’interno<br />

di un orizzonte speculativo.<br />

«<strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> è qualcosa che non potrà mai diventare un idolo; è<br />

una realtà che noi affrontiamo, ma non possediamo. Le cose dello<br />

spazio le possediamo; i momenti del <strong>tempo</strong> li condividiamo» 35 ,<br />

così che tramite l’ingresso del <strong>tempo</strong> si è <strong>come</strong> chiamati a mettere<br />

in causa il nostro stesso destino ontologico e storico.<br />

Grazie al rapporto con il <strong>tempo</strong>, la storia cessa di essere – <strong>come</strong><br />

per i greci – una relazione con i tempi passati, una collezione<br />

di aneddoti suscettibili di interesse e di interpretazione, per diventare<br />

storia unica e irripetibile, feconda, sovrabbondante di<br />

senso. L’<strong>attesa</strong>, insomma, lega il <strong>tempo</strong> non più costituito da momenti<br />

frammentati e distaccati, destinati a perdersi nella notte del<br />

passato. Attendere il <strong>tempo</strong> significa provocare e animare la storia,<br />

che ha certamente il suo collegamento con il passato (inteso<br />

<strong>come</strong> alleanza e contratto), ed anche con il presente (colto <strong>come</strong><br />

impegno e tensione), ma anche con il futuro av-venire, che deve<br />

venire cioè, <strong>come</strong> orientamento escatologico e vissuto messianico.<br />

«Considerate il <strong>tempo</strong> dell’esistenza: nel presente c’è l’angoscia, la<br />

coscienza del non possesso; nel passato e nell’avvenire c’è il destino<br />

e il mistero. Ma nel <strong>tempo</strong> biblico l’esistenza è una catena. È<br />

un momento del destino, ma si esprime <strong>come</strong> volontà, è un momento<br />

di angoscia ma si esprime <strong>come</strong> realizzazione, è un punto<br />

del mistero, ma è anche rivelazione» 36 .<br />

Come dire che il <strong>tempo</strong> biblico è simultaneità, dove il presente<br />

è a sua volta passato e avvenire, dove non c’è solo il momento<br />

che fugge via e che non è più afferrabile, ma dove esso diventa <strong>attesa</strong>,<br />

prolungamento, radicamento, memoria, coesistenza.<br />

Se si vuole acquisire l’intelligenza dell’<strong>attesa</strong>, bisogna imparare<br />

a comprendere «che il <strong>tempo</strong> non esiste in funzione dello spazio,<br />

ma al contrario è lo spazio che esiste in funzione del <strong>tempo</strong>» 37 , e<br />

che dunque è richiesto «di convertire le cose dello spazio in momenti<br />

del <strong>tempo</strong>», contando i giorni «in termini di atti e di eventi,<br />

anziché di luoghi e di cose» 38 .


804 Paola Ricci Sindoni<br />

Esistere – precisa Heschel – non significa essere heideggerianamente<br />

nel mondo senza <strong>attesa</strong>, «buttati lì passivamente. Esistere<br />

significa assistere assieme al mondo allo svolgersi del <strong>tempo</strong>, significa<br />

essere testimoni della creazione del mondo» 39 , perché è il<br />

<strong>tempo</strong> a qualificare ontologicamente e a permettere all’uomo di<br />

collocarsi in simultaneità di fronte alla presenza del Dio della storia,<br />

attraverso i modi dell’<strong>attesa</strong>, dell’anticipazione e del ricordo.<br />

In tale prospettiva si capisce perché la Bibbia permette al pensatore<br />

ebreo di recuperare un inedito orizzonte di senso attraverso<br />

un metodo che non è né ermeneutica, né esegesi, né speculazione,<br />

ma <strong>attesa</strong>, <strong>attesa</strong> di Dio che «parla» a singoli individui, e<br />

che si manifesta in un rapporto immediato con il suo popolo e i<br />

suoi profeti 40 . Per questo si deve attendere, nel senso che qualcosa<br />

debba darsi e compiersi, solo se l’uomo, ricordando le gesta di<br />

Dio per lui, si muove con lui verso il compimento dei giorni, del<br />

giorno universale, in cui Dio sarà Uno (Zc 14, 9).<br />

L’<strong>attesa</strong> si rende in tal senso <strong>indicibile</strong>, perché esposta al carico<br />

della memoria e, al con<strong>tempo</strong>, alla fatica di un futuro ancora<br />

imprevedibile. L’<strong>attesa</strong> la si deve vivere e solo raccontare, <strong>come</strong><br />

sosteneva il filosofo medievale Jehudah ha Levi 41 , recuperando<br />

nella memoria le tracce del Dio che messianicamente continua a<br />

venire, anche se tarda. Solo la memoria rappresenta l’appiglio sicuro<br />

dell’<strong>attesa</strong>, perché questa non divenga un’attitudine vuota e<br />

dispersiva della vita, là dove il ricordare non è un fissare la rievocazione<br />

di un evento passato, ma un imperativo etico presente<br />

lungo le pagine del Deuteronomio e dei profeti: «Ricorda i vecchi<br />

giorni, considera gli anni delle passate stagioni» (Dt 32, 7); «Ricorda<br />

queste cose, Giacobbe, perché tu, o Israele, sei il mio servo.<br />

Io ti ho creato in modo che tu fossi il mio servo, o Israele, non dimenticarmi<br />

mai» (Is 44, 21); «Ricorda quello che ti ha fatto Amalek»<br />

(Dt 25, 17). È la catena della trasmissione del ricordo degli<br />

eventi che non solo custodisce l’evento, ma lo riattiva in forma potenziata,<br />

lo restituisce ad una nuova vita al momento della sua rimessa<br />

nel circolo della narrazione 42 .<br />

Come dire che l’avvento di JHWH, la cui manifestazione è<br />

«già» presente nella storia del popolo eletto, va <strong>attesa</strong>, perché il<br />

<strong>tempo</strong> venga totalmente redento, così che il Messia giunga dentro<br />

le pieghe sconnesse della storia. La tradizione secolare di Israele è<br />

il segnale potente che l’<strong>attesa</strong> messianica, vera ossatura spirituale<br />

dell’ebraismo, resta <strong>indicibile</strong> non tanto perché molteplici e in


parte contraddittorie sono state nel <strong>tempo</strong> le illusorie speranze<br />

storiche, ma perché «ciò che tarda avverrà» 43 secondo il linguaggio<br />

nascosto di Colui il cui Nome, nel giorno universale, sarà Uno.<br />

Come recita il versetto di Zaccaria: «E il Signore sarà re di tutta la<br />

terra. In quel giorno il Signore sarà Uno e il suo nome sarà Uno»<br />

(Zc 14, 9).<br />

NOTE<br />

<strong>Il</strong> <strong>tempo</strong> <strong>come</strong> <strong>indicibile</strong> <strong>attesa</strong> 805<br />

Paola Ricci Sindoni<br />

1 Cfr. al riguardo G. Scholem, Zur Kabbalah und ihrer Symbolik, trad. it. La kabbala<br />

e il suo simbolismo, trad. it. Einaudi, Torino 1980.<br />

2 J. L. Borges, <strong>Il</strong> miracolo segreto, in Finzioni, trad. it. a cura di F. Lucentini, Einaudi,<br />

Torino 1978, pp. 133-140.<br />

3 Ibid., p. 133.<br />

4 Ibid., pp. 138-140.<br />

5 Cfr. V. Melchiorre, Sulla speranza, Morcelliana, Brescia 2000, pp. 78-82.<br />

6 E. Biser, Introduzione al cristianesimo, trad. it. a cura di L. Asciutto, Borla, Roma<br />

2000, pp. 439-465.<br />

7 «Intenzionando il futuro, la speranza è fiducia e con<strong>tempo</strong>raneamente pazienza»:<br />

P. L. Landsberg, <strong>Il</strong> silenzio infedele. Saggio sull’esperienza della morte, Vita e Pensiero,<br />

Milano 1995, p. 43.<br />

8 Su questo tema mi permetto di rinviare al mio: Tempo ebraico e <strong>tempo</strong> cristiano<br />

nell’orizzonte biblico, in Tempo sacro e <strong>tempo</strong> profano. Visione laica e visione cristiana del<br />

<strong>tempo</strong> e della storia, a cura di L. De Salvo e A. Sindoni, Rubbettino, Soveria Mannelli<br />

2002, pp. 269-280.<br />

9 Ticonio, The Book of Rules, ed. By W.S. Babcock, Scholar Press, Atlanta 1989,<br />

pp. 110 e ss.<br />

10 F. Kafka, Lo stemma cittadino, in Racconti, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano<br />

1990, pp. 431-432.<br />

11 Importanti osservazioni in S. Levi Della Torre, Zone di turbolenza. Intrecci, somiglianze,<br />

conflitti, Feltrinelli, Milano 2003.<br />

12 Ibid., pp. 27-34.<br />

13 F. Kafka, Lo stemma cittadino, cit., p. 432. Su questa tematica cfr. S. Moses, La<br />

storia e il suo angelo. Rosenzweig, Benjamin, Scholem, Anabasi, Milano 1993, pp. 13-32.<br />

14 Sul nesso <strong>attesa</strong>-speranza cfr. C.M. Martini, Una riflessione, in Figli di Crono, a<br />

cura di E. Sindoni e C. Sinigaglia, Cortina Raffaello, Milano 2001, pp. 137-149.<br />

15 F. Kafka, Lo stemma cittadino, cit., p. 432. Nello stemma della città di Praga campeggia<br />

infatti un pugno.<br />

16 Cfr. al riguardo: AA.VV., Kafka und das Judentum, hrsg. v. K. E. Grözinger-S.<br />

Moses-H.D. Zimmermann, Athenäum, Frankfurt a. M. 1987, pp. 35-70.<br />

17 Cfr. G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, in<br />

IDEM, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova 1986, pp. 105-147.<br />

18 L’espressione è di Franz Rosenzweig, cfr. F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung,<br />

trad. it. La stella della redenzione, trad. it. a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato<br />

1985, pp. 285-319.


806 Paola Ricci Sindoni<br />

19 E. Lévinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, trad. it. Altrimenti che essere<br />

o al di là dell’essenza, trad. it. a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1983, pp. 8-11.<br />

20 Cfr. A. Neher, L’essence du prophètisme, trad. it. L’essenza del profetismo, a cura<br />

di R. Fabris, Marietti, Casale Monferrato 1884, pp. 52-64.<br />

21 Ibid., p. 54.<br />

22 M. Eliade, Mytes, rèves et mystères, trad. it. Miti, sogni e misteri, a cura di G.<br />

Cantoni, Milano 1986, pp. 156-165.<br />

23 A. Neher, L’essenza del profetismo, cit., p. 64.<br />

24 Ibid., pp. 64-67; 204 e ss.<br />

25 Ibid., p. 65. Questo tema è particolarmente caro a A.J. Heschel, The Sabbath. Its<br />

Meaning for Modern Man, trad. it. <strong>Il</strong> sabato. <strong>Il</strong> suo significato per l’uomo moderno, Rusconi,<br />

Milano 1972.<br />

26 A. Neher, L’essenza del profetismo, cit., p. 66.<br />

27 Ibid., p. 205.<br />

28 Ibid., p. 66. Analoghe osservazioni in un intellettuale cristiano: J. Guitton, Les<br />

temps et l’eternitè chez Plotin et saint Augustin, Paris 1933, pp. 356-357.<br />

29 A.J. Heschel, The Insecurity of Freedom. Essays in applied Religion, Schocken<br />

Book, New York 1965. Su questo tema mi permetto di rinviare al mio: Heschel. Dio è<br />

pathos, <strong>Il</strong> Messaggero, Padova 2002, pp. 91-106.<br />

30 A. Neher, Vision du temps et de l’histoire dans la culture juive, in Les cultures et<br />

le temps, UNESCO, Paris 1975, p. 171.<br />

31 Cfr. M. Perani, La concezione ebraica del <strong>tempo</strong>: appunti per una storia del problema,<br />

in Rivista biblica, 4/1978, pp. 414 e ss.<br />

32 A. J. Heschel, The Prophets, trad. it. <strong>Il</strong> messaggio dei profeti, Borla, Roma 1981,<br />

pp. 145-146.<br />

33 Cfr. F.H. Brabant, Time and Eternity in Christian Thought, London 1937, pp. 6-43.<br />

34 A. Neher, L’existence juive. Solitude et affrontements, Paris 1962, p. 18.<br />

35 A.J. Heschel, <strong>Il</strong> Sabato, cit., p. 143.<br />

36 A. Neher, L’existence juive, cit., p. 18.<br />

37 A. J. Heschel, <strong>Il</strong> Sabato, cit., p. 150.<br />

38 Ibid., pp. 150-151.<br />

39 Ibid., p. 158.<br />

40 A. Neher, L’existence juive, cit., p. 19.<br />

41 Yehudah Ha-Lewi, Kuzari (1140), trad. it. <strong>Il</strong> re dei Khazari, a cura di E. Piattelli,<br />

Einaudi, Torino 1960, p. 208.<br />

42 H. Yerushalmi, Zakhor, trad. it. Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, Parma<br />

1983, pp. 22-23.<br />

43 Cfr. al riguardo P. De Benedetti, Ciò che tarda avverrà, Qiqajon, Bose 1992.

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