DISPENSA Introduzione all'antropologia.pdf - Omero
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Università di Pisa – Facoltà di Lettere e Filosofia<br />
Corso di Antropologia culturale<br />
Anno accademico 2010-11<br />
Prof. Fabio Dei<br />
Dispensa didattica<br />
INTRODUZIONE ALL’ANTROPOLOGIA<br />
CULTURALE:<br />
STRUMENTI, METODI, CAMPI DI RICERCA<br />
Indice:<br />
1. <strong>Introduzione</strong> alle discipline demoetnoantropologiche<br />
2. Razza cultura etnia<br />
3. La comparazione fra le culture<br />
4. Camminare sul marae e le sue conseguenze. La ricerca sul campo e le esperienze<br />
straordinarie (di Matteo Aria)<br />
5. Orientamenti antropologici nello studio della memoria<br />
6. Fortuna e declino della categoria di cultura popolare negli studi antropologici italiani<br />
7. Dono (di Matteo Aria)<br />
8. Descrivere, teorizzare, testimoniare la violenza
1. INTRODUZIONE ALLE DISCIPLINE<br />
DEMOETNOANTROPOLOGICHE<br />
1. Cosa significa M-DEA/01?<br />
Lo studente di una Facoltà umanistica che si imbatte, nel proprio ordinamento didattico, nella sigla<br />
M-DEA/01, la troverà forse piuttosto misteriosa; e resterà magari ancora più perplesso di fronte<br />
allo scioglimento dell’acronimo: M-DEA significa “discipline demoetnoantropologiche”. Questa<br />
denominazione un po’ astrusa riprende e combina i nomi dei tre principali insegnamenti di questo<br />
settore scientifico-disciplinare, che sono:<br />
- Antropologia culturale<br />
- Etnologia<br />
- Demologia o Storia delle Tradizioni Popolari.<br />
Si tratta di tre scienze umane e sociali il cui oggetto è, sia pur vagamente, indicato dall’etimologia:<br />
studio dell’uomo e delle culture umane, nelle loro articolazioni etniche e nelle loro espressioni<br />
popolari. Il concetto di cultura è fondamentale per la definizione di queste discipline. In<br />
antropologia, diversamente dal linguaggio comune, parlando di cultura non si intendono soltanto gli<br />
alti prodotti del lavoro intellettuale, come l’arte, la letteratura e così via; si intende piuttosto il<br />
complesso degli elementi non biologici attraverso i quali i gruppi umani si adattano all’ambiente e<br />
organizzano la loro vita sociale. Fanno parte ad esempio della cultura gli attrezzi e le tecniche del<br />
lavoro, le istituzioni sociali, le forme della parentela, il linguaggio e i modi della comunicazione, le<br />
conoscenze, i valori e le credenze, i gesti e le più piccole pratiche quotidiane, e così via. Di fatto, è<br />
impossibile definire la cultura attraverso un elenco: del concetto sono state proposte numerosissime<br />
definizioni, ed è un punto sul quale torneremo.<br />
Occorre però sottolineare la distinzione tra aspetti biologici e culturali: per quanto nella nostra<br />
vita siano inestricabilmente intrecciati, essi sono tuttavia oggetto di scienze diverse. Le<br />
caratteristiche e l’evoluzione biologica della specie umana sono studiati dall’antropologia fisica, che<br />
nella classificazione accademica italiana è detta “Antropologia” senza ulteriori aggettivi, ed<br />
appartiene al settore scientifico-disciplinare L-BIO/08. Si tratta di una disciplina imperniata sui<br />
saperi delle scienze naturali, laddove l’antropologia culturale, come vedremo, si muove in una<br />
dimensione vicina a quelle della storia e della filosofia, giungendo spesso a rifiutare esplicitamente<br />
l’impiego di metodologie naturalistiche. Per quanto se ne auspichi spesso e giustamente<br />
l’integrazione, i due ambiti disciplinari – biologico e culturale – restano distanti e dialogano poco, a<br />
causa delle basi scientifiche e delle esperienze di ricerca assai diverse che caratterizzano i loro<br />
praticanti. Avremo tuttavia modo di vedere, in vari capitoli di questo libro, quanto sia difficile e<br />
ambiguo separare in modo netto l’ambito del “biologico” da quello del “culturale”: anzi, è proprio<br />
questa separazione che può impedirci di sciogliere alcuni fra i più importanti problemi<br />
dell’antropologia. .<br />
Tornando al settore DEA, i tre elementi che lo compongono non si differenziano oggi in modo<br />
netto, anche se rimandano a tradizioni di studio distintive. Con “Etnologia” ci si riferisce<br />
prevalentemente a studi settoriali su specifici popoli e culture in ogni parte del mondo;<br />
“Demologia” indica lo studio della cultura popolare e tradizionale nella nostra stessa società; nell’<br />
“Antropologia culturale”, infine, l’accento è posto su ampi approcci di tipo teorico e comparativo.<br />
La questione è ulteriormente complicata dal fatto che sul piano internazionale questi termini<br />
vengono usati con significati leggermente diversi: ad esempio in Francia è “Ethnologie” a indicare<br />
di solito l’intero ambito disciplinare; in Gran Bretagna prevale la denominazione “Social<br />
Anthropology”. “Demologia”, poi, è un termine solo italiano, e quasi dappertutto si usa il termine
“Folklore” a indicare sia gli studi sia il loro oggetto. In ogni caso, si tratta di distinzioni che oggi<br />
hanno poco senso, a fronte del processo di globalizzazione e dei mutamenti storici radicali dei<br />
contesti in cui gli antropologi si trovano a lavorare. Questo ci porta però a introdurre alcuni<br />
riferimenti storici, senza i quali è impossibile chiarire l’identità delle discipline DEA.<br />
2. L’origine dell’antropologia culturale<br />
E’ nella seconda metà dell’Ottocento che l’antropologia culturale si organizza come autonoma<br />
disciplina scientifica, con specifici insegnamenti universitari e un proprio peculiare statuto<br />
epistemologico. Di solito si fa corrispondere la sua “nascita” con il 1871, anno di pubblicazione di<br />
un libro di E.B. Tylor, dal titolo Primitive Culture, che definisce e mette a fuoco il campo di studi<br />
della nuova scienza – la cultura, appunto. Naturalmente, si tratta di una data convenzionale. Alcuni<br />
antropologi amano retrodatare le proprie origini, vedendo precursori in varie epoche della storia del<br />
pensiero: da Erodoto, a un filosofo come Montaigne, alla Societé des observateurs de l’homme.<br />
Altri, al contrario, pensano che non si possa parlare di una antropologia moderna prima del<br />
Novecento, prima cioè dello sviluppo di quelle metodologie di ricerca sul campo che diverranno nel<br />
XX secolo tratto distintivo della disciplina. Resta il fatto che sul piano istituzionale l’antropologia<br />
culturale si costituisce negli ultimi decenni dell’Ottocento, prima all’interno della scuola<br />
evoluzionista britannica e poi in altri paesi europei e negli Stati Uniti. E’ il periodo del positivismo,<br />
della grande fiducia nella scienza e nel progresso, e di uno sviluppo capitalistico visto come<br />
inarrestabile. E’ il periodo del trionfo dei nazionalismi e del colonialismo. I ceti dominanti europei<br />
si considerano punta di diamante di una civilizzazione irresistibilmente proiettata verso il futuro,<br />
separata dal resto del mondo dall’irreversibile spartiacque della modernizzazione.<br />
In questo clima, l’antropologia si definisce come la scienza di ciò che l’Europa si è lasciata alla<br />
spalle, di ciò che non ha superato lo spartiacque. Il titolo del libro di Tylor ne definisce<br />
puntualmente il campo: al concetto di cultura si aggiunge, appunto, l’aggettivo “primitiva”. Rispetto<br />
ad altre scienze umane, come la sociologia, l’antropologia si caratterizza per lo studio dei<br />
“primitivi” – cioè proprio di quei gruppi, non toccati dalla modernità, che sono al tempo stesso<br />
oggetto del dominio e della violenza coloniale. Ad essi sono in qualche modo assimilati i ceti<br />
subalterni delle stesse società occidentali, in particolare il mondo contadino, illetterato e calato in<br />
forme di vita tradizionali, spesso viste come vere e proprie “sopravvivenze” della cultura primitiva.<br />
Gli studi di folklore si presentano dunque come paralleli e complementari a quelli etnologici,<br />
impegnati sul fronte dei “dislivelli interni” di cultura piuttosto che su quelli “esterni”.<br />
Occorre subito notare come tutto ciò sia all’origine di una tensione intellettuale che dominerà,<br />
senza mai sciogliersi interamente in un senso o nell’altro, tutti i futuri sviluppi della disciplina. Da<br />
un lato, parlare di cultura dei primitivi significa contrapporsi a un senso comune che li considera<br />
semplicemente come “bestiali” e privi di ogni cultura; significa rivendicarne la comune umanità,<br />
mostrare anzi come siano più vicini a “noi” (all’Inghilterra vittoriana, ad esempio) di quanto ci<br />
piace pensare. In questo senso, l’antropologia sta fin dall’inizio dalla parte dei “primitivi”, contro il<br />
razzismo biologico che ne afferma l’inferiorità congenita e contro il dominio coloniale che ne fa un<br />
puro oggetto d’amministrazione. Fin dall’inizio, almeno in un certo senso, l’antropologia si schiera<br />
contro i pregiudizi etnocentrici che assolutizzano la “nostra” versione dell’umanità e distorcono in<br />
caricatura quella degli altri.<br />
Dall’altro lato, tuttavia, questo dominio - e la violenza con cui si esercita - non possono non<br />
influenzare a fondo le stesse categorie epistemologiche della disciplina. Quest’ultima può pensare i<br />
primitivi solo a partire da una fondamentale assunzione di disuguaglianza, tanto più profonda<br />
quanto più implicita, che ne plasma le categorie intepretative. Si è persino parlato, in proposito, di<br />
una “violenza epistemologica” insita nelle forme di rappresentazione, oggettivazione e<br />
classificazione degli “altri” che l’antropologia sviluppa fino alla fine del ventesimo secolo. Ciò non<br />
significa però che la storia dell’antropologia culturale possa esser letta (come pretenderebbe qualche<br />
semplicistica attuale critica) come una sorta di riflesso o copertura ideologica dell’imperialismo.
Come detto, l’ambivalente relazione con il colonialismo è invece un elemento di tensione che<br />
percorre l’intera vicenda del pensiero antropologico (come altri aspetti della cultura, della<br />
letteratura e dell’arte contemporanea), e ne determina gli elementi di chiusura come quelli di<br />
ricchezza e di potenzialità critica.<br />
3. Vocazione per la diversità<br />
Come detto, questa definizione dell’oggetto di studio (le culture “primitive”), e le partizioni<br />
disciplinari che ne derivano, non hanno più alcun senso negli scenari contemporanei. Nel contesto<br />
della globalizzazione, è ovvio che non esistono più “primitivi”, cioè popoli che vivrebbero<br />
letteralmente nel passato evolutivo; ed è chiaro che gli antropologi non possono più considerarsi le<br />
avanguardie della cultura “moderna” che per prime esplorano le culture di lontani esotici popoli,<br />
“riportandole a casa” sotto forma di descrizioni etnografiche. E’ difficile pensare oggi<br />
all’antropologia come a una scienza in cui “Noi” studiamo gli “Altri”. Ci troviamo di fronte a<br />
situazioni sociali in cui chi siamo “Noi” e chi sono gli “Altri” non è mai chiaro. Come vedremo<br />
meglio più avanti, non è possibile parlare di “culture” come di entità compatte e dai confini ben<br />
definiti, e per di più coincidenti con un “popolo” e un “territorio”.<br />
Ciò non significa tuttavia che le differenze culturali non esistano più. Al contrario: la<br />
globalizzazione per certi versi le moltiplica, pur frammentandone e mischiandone i contesti. Ora, in<br />
questa situazione l’antropologia culturale continua a definirsi in base alla sua vocazione per lo<br />
studio delle differenze. Se c’è qualcosa che accomuna le origini ottocentesche con gli studi attuali è<br />
per l’appunto questa vocazione. Qualunque sia l’oggetto di ricerca – i più lontani angoli di mondo o<br />
casa propria, per così dire - la comprensione antropologica non può fare a meno di passare<br />
attraverso il prisma della diversità culturale. Gli antropologi hanno coniato vari concetti per<br />
esprimere questa loro caratteristica. Claude Lévi-Strauss ha ad esempio usato l’immagine di un<br />
regard éloigné, lo sguardo da lontano proprio di chi si pone professionalmente nel ruolo di estraneo;<br />
Clyde Kluckhohn ha parlato del metodo antropologico come di un “giro lungo”, contrapposto al<br />
“giro breve” delle forme di conoscenza puramente speculative e che comunque non si pongono il<br />
problema del confronto con la diversità. L’antropologo italiano Francesco Remotti ha ripreso questa<br />
espressione in un importante libro, mostrando una fondamentale contrapposizione nella storia del<br />
pensiero occidentale: da una parte quegli approcci, da Platone a Cartesio a Kant, che attraverso<br />
l’analisi del nostro modo di pensare cercano di distallare un concetto assoluto di razionalità;<br />
dall’altra parte gli approcci che, da Erodoto a Montaigne al secondo Wittgenstein, pensano di poter<br />
definire la razionalità solo passando attraverso la molteplicità empirica delle consuetudini locali,<br />
dunque non assolutizzando il nostro punto di vista ma mettendolo costantemente alla prova della<br />
diversità. Pur non senza ambiguità (insite nella propria origine positivistica), l’antropologia si<br />
schiera dalla parte di questo giro lungo, tentando anzi di sistematizzare e di trattare scientificamente<br />
quei raffronti comparativi che la filosofia o la letteratura usavano in modo più occasionale e<br />
impressionistico.<br />
Da qui l’importanza che la comparazione riveste fin dall’inizio nel pensiero e nelle pratiche di<br />
ricerca antropologiche. Comparazione non significa necessariamente “metodo comparativo”,<br />
nell’accezione ingenuamente naturalistica che al termine attribuivano gli studiosi ottocenteschi –<br />
convinti di poter compiere le più ardite (e spesso improbabili) generalizzazioni comparative fra<br />
tratti culturali appartenenti ai contesti storici e sociali più distanti, e di poter estrarre da esse leggi<br />
universali dello sviluppo culturale. Come vedremo, molti indirizzi novecenteschi hanno<br />
esplicitamente polemizzato con un simile uso incontrollato del metodo comparativo. Tuttavia,<br />
l’atteggiamento comparativo non scompare mai dalla conoscenza antropologica, manifestandosi<br />
magari in forma implicita nelle stesse più elementari forme della descrizione etnografica, oppure in<br />
grandi sistemi formalizzati come gli Human Relations Area Files creati da George Murdock negli<br />
anni ’40 (un gigantesco archivio di dati etnografici ricondotti a formati standard, con la pretesa di<br />
registrare e di rendere comparativamente analizzabili tendenzialmente tutte le culture del mondo).
L’irresistibile attrazione per la diversità sta anche alla base di una vocazione intrinsecamente<br />
critica dell’antropologia nei confronti della propria stessa società e cultura. Il confronto con l’altro<br />
costringe a una continua revisione e ampliamento delle nostre categorie, di ciò che nel nostro senso<br />
comune si dà normalmente per scontato. In fondo, il compito dell’antropologia è sempre quello di<br />
mostrare che quanto ci sembra ovvio e naturale non lo è affatto. Il confronto con il diverso ci fa<br />
vedere le cose che ci sono familiari sotto una luce diversa, che le rende in qualche modo “strane”; ci<br />
fa vedere quello che di solito non vediamo proprio perché lo abbiamo costantemente sotto gli occhi<br />
(ecco il senso dello “sguardo da lontano”). Soprattutto, questo “estraniamento” ci suggerisce che le<br />
nostre istituzioni e i nostri modi di vivere non sono gli unici possibili, e non necessariamente i<br />
migliori. Ernesto de Martino, uno dei fondatori della moderna antropologia italiana, chiamava<br />
“scandalo etnografico” questo incontro-scontro con una diversità che manda in corto circuito i<br />
nsotri sistemi categoriali, e ci costringe a rivederli in un processo di costante “ampliamento della<br />
nostra consapevolezza storiografica”. Vedremo, nei capitoli successivi, come l’analisi di alcune<br />
pratiche sociali “primitive” e apparentemente bizzarre ci costringa a ripensare e a vedere in modo<br />
nuovo e fortemente critico alcuni dei fondamenti stessi della nostra vita sociale.<br />
4. La ricerca sul campo.<br />
Se la vocazione per la differenza culturale caratterizza costitutivamente l’antropologia, non ne è<br />
tuttavia esclusiva: è anzi un tratto che la disciplina condivide con importanti tradizioni del pensiero<br />
filosofico e del lavoro artistico e letterario. Per distinguere l’antropologia occorre allora introdurre<br />
un altro suo tratto peculiare, vale a dire la dimensione della ricerca sul campo. Quali che siano i<br />
problemi teorici che si pone, l’antropologia tenta di rispondervi attraverso indagini empiriche che<br />
passano attraverso, appunto, l’esperienza del fieldwork o lavoro di campo. Il modello classico di<br />
fieldwork antropologico si viene definendo con le prime scuole novecentesche, in particolare quelle<br />
anglosassoni, ed è legata ai nomi di padri fondatori della disciplina come Franz Boas negli Stati<br />
Uniti e Bronislaw Malinowski in Inghilterra. Gli antropologi vittoriani non erano invece ricercatori<br />
sul campo. Ritenevano che la raccolta dei dati empirici e il lavoro teorico di analisi e comparazione<br />
dovessero restare separati, affidati a persone con diversi ruoli e competenze. Svolgevano dunque il<br />
loro lavoro non “sul campo” ma in biblioteca, utilizzando come fonti i resoconti di viaggiatori,<br />
naturalisti, missionari, funzionari coloniali – persone quasi sempre senza una preparazione specifica<br />
ma che erano stati in contatto con lontane culture e ne avevano scritto. Dal loro punto di vista, il<br />
diretto impegno dello studioso su un terreno specifico di ricerca avrebbe contrastato con il respiro e<br />
l’ampiezza del lavoro comparativo. Ma ovviamente la loro “antropologia da tavolino”, come i loro<br />
successori spregiativamente la chiameranno, aveva l’inconveniente di poggiare su dati incerti,<br />
raccolti in modo spesso dilettantesco e privi di ogni seria attendibilità scientifica.<br />
Nelle scuole novecentesche, al contrario, la figura del teorico e quella del ricercatore sul campo si<br />
fondono in modo inestricabile, dando vita alla peculiare figura dell’antropologo – che<br />
nell’immaginario collettivo si presenterà come uno strano ibrido, per metà erudito accademico e per<br />
metà viaggiatore romantico e avventuroso. Il manifesto programmatico di questa nuova figura si<br />
trova in un libro che Malinowski pubblica nel 1922, con l’evocativo titolo Argonauts of Western<br />
Pacific (Argonauti del Pacifico occidentale). Studioso polacco ma di formazione inglese,<br />
Malinowski aveva condotto negli anni della prima guerra mondiale una approfondita ricerca presso<br />
l’arcipelago melanesiano delle Trobriand, di cui il libro costituisce un primo resoconto monografico<br />
(lo ritroveremo presto perché si tratta di un testo incentrato sulla descrizione del kula ring, un<br />
complesso sistema di scambio cerimoniale di oggetti preziosi ampiamente discusso da Mauss nel<br />
Saggio sul dono). Nell’introdurre la sua ricerca, Malinowski rivendica la necessaria compresenza<br />
nel lavoro antropologico delle due dimensioni finora distinte: la preparazione teorica e<br />
metodologica, da un lato, e dall’altro la diretta esperienza vissuta della cultura che si intende<br />
studiare. Senza la prima dimensione, l’osservatore non saprebbe osservare: non disporrebbe cioè<br />
della capacità di individuare i tratti rilevanti di un contesto culturale, non saprebbe trasformare in
“documenti” o “dati” la semplice esperienza vissuta. D’altra parte, senza l’esperienza di<br />
partecipazione diretta il teorico non comprenderebbe mai veramente un’altra cultura, non ne<br />
coglierebbe gli elementi “imponderabili”, non potrebbe entrare in rapporto empatico con essa.<br />
Occorre allora vivere all’interno di una comunità, condividerne la quotidianità, entrare in rapporti<br />
personali e ravvicinati con i suoi membri, partecipare alle più importanti pratiche sociali.<br />
Malinowski conia l’espressione “osservazione partecipante” per indicare questo stile di ricerca.<br />
Come spesso accade, è un’immagine ancor più delle parole a fissarne il senso: la fotografia che apre<br />
il libro di Malinowski e che ci mostra la sua tenda piantata nel bel mezzo del villaggio indigeno. Io<br />
sono stato là fra di loro, vuole dirci Malinowski, e questo mi autorizza a parlarne. L’etnografo, con<br />
la sua “mobilità” geografica e culturale, si presenta così come la perfetta (forse l’unica) figura di<br />
mediatore culturale, che mette in rapporto due mondi destinati altrimenti a non incontrarsi.<br />
Questo stile di osservazione partecipante diventerà lo standard per molte generazioni successive<br />
di antropologi. Esso implica una permanenza prolungata e intensiva sul terreno, non inferiore a un<br />
anno e condotta a stretto contatto con gli indigeni: ciò significa tagliare i rapporti con altri<br />
occidentali e vivere un’esperienza di radicale estraniamento dalla propria cultura di provenienza<br />
(esperienza che può provocare nei ricercatori vere e proprie crisi esistenziali; è il caso dello stesso<br />
Malinowski, come sarà testimoniato, con un certo “scandalo” negli ambienti antropologici, dalla<br />
pubblicazione postuma del suo diario di campo). In questo tipo di ricerca, occorre imparare il<br />
linguaggio locale e studiare non solo un aspetto della cultura, ma la vita sociale nel suo complesso:<br />
dagli aspetti economici, a quelli politici, alle strutture della parentela, alle pratiche religiose e così<br />
via. Nessun aspetto potrà infatti esser compreso se non collocato nel contesto complessivo<br />
(approccio “olistico”). Inoltre, l’accento sulla partecipazione vissuta non deve far dimenticare<br />
l’importanza dell’impiego di particolari strumenti metodologici: ad esempio gli schemi genealogici,<br />
le interviste strutturate (con l’accurata scelta di informatori privilegiati) e la loro trascrizione, alla<br />
schedatura dei manufatti, la documentazione fotografica, per finire con la redazione delle note e del<br />
diario di campo – forse il più tipico e distintivo strumento dell’indagine antropologica.<br />
Il modello di fieldwork tracciato da Malinowski è rimasto a lungo lo standard di riferimento per<br />
molte tradizioni antropologiche. Anch’esso, però, non è sopravvissuto alle trasformazio*ni degli<br />
ultimi decenni. Troppo diverse sono oggi le condizioni dell’incontro etnografico perché sia ancora<br />
possibile immaginare l’antropologo come eroe solitario che, con la sua tenda e il suo diario di<br />
campo, esplora una cultura intatta nella sua autenticità. Qualunque sia il campo che sceglie,<br />
l’antropologo lo trova oggi già “pieno” di altri saperi specialistici, di mass-media globali, di turisti,<br />
quasi sempre anche di antropologi nativi. Lo stesso concetto di “campo”, pensato nella fase classica<br />
sul modello di luoghi circoscritti e compatti (l’isola, la riserva indiana, il villaggio), rischia di venir<br />
meno. La singola località non può più essere l’unità privilegiata d’analisi, quando la cultura e le<br />
persone circolano con l’ampiezza e la rapidità delle comunicazioni globalizzate: l’equazione un<br />
territorio – un popolo – una cultura non funziona più, e le etnografie “multisito” divengono sempre<br />
più la norma. Inoltre i recenti dibattiti epistemologici hanno contribuito a scuotere la fiducia<br />
nell’oggettività della rappresentazione etnografica, rendendo meno rigidi i requisiti della ricerca e<br />
aprendo la strada a nuove configurazioni dei rapporti tra l’esperienza soggettiva di campo e la sua<br />
restituzione nella scrittura antropologica.<br />
Nondimeno, anche se in forme nuove e più variabili, la ricerca sul campo continua ad essere il<br />
nucleo centrale delle discipline DEA. I problemi che esse si pongono non sono talvolta diversi da<br />
quelli messi a fuoco dalla filosofia, e forse dalla letteratura e dall’arte. Ciò che caratterizza la<br />
risposta antropologica è però il fatto di passare attraverso il “campo”, cioè attraverso l’immersione e<br />
la condivisione di pratiche sociali, nonché attraverso il rapporto diretto e il dialogo con le persone<br />
che ne sono protagoniste.<br />
5. Le partizioni disciplinari<br />
Distinzione fra diversi specialismi antropologici in relazione a:
a) aree geografico-culturali. (Il modello classico di fieldwork sopra tratteggiato, con i requisiti della<br />
lunga permanenza, la necessità di imparere la lingua etc., implica che uno studioso, nella sua<br />
carriera, non può divenire esperto di più di una o due aree culturali, tre in casi eccezionali).<br />
Africanisti, oceanisti, americanisti, europeisti, studiosi dell’India, del Medio Oriente, del<br />
Mediterraneo etc., condividono magari basi e problemi teorici ma si costituiscono come specialismi<br />
diversi, con i loro specifici strumenti di comunicazione scientifica (riviste, convegni, associazioni<br />
etc.). Rari sono i casi di studiosi che si siano cimentati in più di una di queste grandi partizioni geoculturali.<br />
b) aspetti della cultura. Per quanto l’antropologia persegua come detto un approccio olistico, nel<br />
quale i diversi aspetti di una cultura si illuminano a vicenda, è assai frequente che gli studiosi si<br />
specializzino in ambiti specifici della vita socioculturale. Nella fase classica della disciplina, tali<br />
ambiti sono rappresentati principalmente da:<br />
- parentela, matrimonio, vita familiare<br />
- economia (incluse le forme del lavoro e gli aspetti della cultura materiale)<br />
- stratificazione sociale, forme della politica e del potere<br />
- linguaggio<br />
- religione e magia (rituali, miti, pratiche simboliche)<br />
- l’ambito estetico.<br />
Oltre a queste grandi partizioni, si sono costituiti specialismi antropologici ancora più specifici: ad<br />
esempio<br />
- l’antropologia medica, che studia le variazioni culturali delle concezioni e delle pratiche<br />
relative a corpo, salute, malattia, guarigione<br />
- l’etnoscienza, che studia le forme di saperi naturalistici e i processi cognitivi che ad essi si<br />
accompagnano<br />
- l’antropologia psicologica, che studia le variazioni interculturali nella definizione del<br />
concetto di persona, nella costituzione dei ruoli sociali e di genere, nella manifestazione<br />
delle emozioni<br />
- l’etnografia della conversazione, che si concentra sulle analisi delle microinterazioni<br />
linguistiche e comunicative;<br />
L’elenco potrebbe continuare. A questi specialismi disciplinari ne vanno aggiunti poi altri che, con<br />
l’ampliarsi degli orizzonti delle discipline DEA mettono a fuoco oggetti nuovi, legati ad esempio<br />
alla modernizzazione e al mutamento culturale, come l’antropologia urbana, l’antropologia del<br />
turismo, quella dello sport, dell’educazione, dei media, della violenza.<br />
Deve essere anche menzionata una suddivisione in specialismi riguardo alle fonti o ai tipi di<br />
rappresentazione culturale che gli studiosi scelgono di privilegiare. Ad esempio, l’ antropologia<br />
museale è oggi una delle branche più importanti e più compatte della disciplina. Lo stesso si può<br />
dire per l’antropologia visuale, che privilegia l’analisi delle fonti iconiche e modalità fotografiche o<br />
filmiche di documentazione e rappresentazione etnografica. Si parla anche di antropologia<br />
letteraria (uso di opere di letteratura come fonti per la conoscenza di una cultura, ma anche impiego<br />
di risorse antropologiche nella critica letteraria), antropologia storica (impiego di strumenti<br />
antropologici nell’analisi di fonti storiografiche). Da notare che invece l’espressione antropologia<br />
filosofica indica una tradizione di studi più prettamente filosofica e non appartiene all’ambito DEA;<br />
il suo insegnamento è infatti incluso nel raggruppamento scientifico-disciplinare di “Filosofia<br />
morale” (M-FIL/03).<br />
Infine, una notazione sul diffuso impiego dell’espressione antropologia applicata: con questa<br />
denominazione ci si riferisce a studi che non hanno una finalità puramente conoscitiva, ma sono fin<br />
dall’inizio pensati in relazione a interventi di tipo economico e sociale, in particolare come supporto<br />
alla elaborazione di progetti di cooperazione internazionale.<br />
6. A cosa serve l’antropologia.
Sbocchi professionali specifici:<br />
- mediazione culturale (nella scuola, nella sanità, nei servizi sociali);<br />
- cooperazione internazionale, gestione dei conflitti;<br />
- conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale etnografico (musei).<br />
7. I grandi indirizzi teorici<br />
(mi limito a ricordare quelli discussi nella lezione di mercoledì 15,mindicando alcuni dei nomi<br />
degli autori e dei concetti basilari discussi):<br />
- scuola evuluzionista britannica: Edward B. Tylor, James G. Frazer; unità intellettuale del<br />
genere umano, concezione al singolare della “cultura umana”, metodo comparativo, ricerca<br />
dell’origine dei fenomeni culturali (es. animismo come origine della religione),<br />
sopravvivenze, stadi dello sviluppo culturale (es. magia-religione-scienza), poligenesi dei<br />
fatti culturali simili, intellettualismo e individualismo metodologico;<br />
- scuole diffusioniste: monogenesi, interesse per i percorsi di diffusione dei tratti culturali da<br />
un’unica area d’origine<br />
- scuola sociologica francese (Emile Durkheim, Marcel Mauss): rappresentazioni collettive,<br />
radicamento sociale dei fatti culturali, apertura di una prospettiva funzionalista<br />
- particolarismo storico: Franz Boas e la fondazione della moderna scuola antropologica<br />
nordamericana. Anti-evoluzionismo, scetticismo verso la comparazione culturale a vasto<br />
raggio, ricerca sul campo e centralità degli aspetti linguistici. Determinismo culturale vs.<br />
determinismo psico-biologico (l’esempio del libro di Margaret Mead sull’adolescenza a<br />
Samoa)<br />
- funzionalismo inglese. B. Malinowski e la già ricordata ricerca alle Trobriand. Approccio<br />
sincronico (vs. diacronico) e olistico. Alfred Radcliffe-Brown e lo struttural-funzionalismo:<br />
cultura come entità organica. Spiegare un tratto culturale equivale a capire in che modo<br />
sostiene e preserva la struttura sociale. Edward Evans-Pritchard: gli studi della stregoneria<br />
fra gli Azande e del sistema segmentario tra i Nuer. Assenza della dimensione storica nelle<br />
rappresentazioni funzionaliste, che si trovano in difficoltà a dar conto dei fenomeni di<br />
mutamento culturale (ma reintroduzione della comprensione storica a partire proprio<br />
dall’ultimo Evans-Pritchard)<br />
- strutturalismo. Claude Lévi-Strauss e l’analisi delle “strutture elementari della parentela” e<br />
dei miti amerindiani. Influenza della linguistica strutturale. I diversi aspetti della cultura<br />
come costruzioni generate a partire da profonde (e inconsce) matrici cognitive, governate<br />
dai principi elementari dei sistemi cibernetici (logica binaria), che l’analisi strutturale<br />
puòscoprire penetrando l’apparente eterogeneità e caotica varietà delle loro manifestazioni<br />
empiriche.<br />
- Antropologia interpretativa. Clifford Geertz. L’essere umano come “animale che produce<br />
significati”. L’esempio dello “strizzare l’occhio”: l’impossibilità di una descrizione<br />
oggettiva che non passi attraverso i significati che gli attori sociali stessi attribuiscono alle<br />
loro pratiche. Etnografia come interpretazione di interpretazioni.
RAZZA, CULTURA, ETNIA.<br />
0. Premessa<br />
I tre termini che danno il titolo a questo intervento hanno svolto un ruolo fondamentale nei modi<br />
in cui il Novecento ha pensato la diversità umana. Più precisamente, mi riferisco qui al tipo di<br />
diversità che, per l'appunto, è difficile definire se non riferendosi circolarmente a quei concetti<br />
stessi; che non è ad esempio diversità di genere (maschile-femminile), di generazione (giovanianziani),<br />
di classe (borghesi-proletari). La diversità di volta in volta denominata razziale, culturale o<br />
etnica (le tre nozioni si sovrappongono in parte ma non coincidono, come vedremo) è marcata<br />
dall'appartenenza, quasi sempre data per nascita, a gruppi umani caratterizzati dalla collocazione<br />
geografica, da peculiarità somatiche, linguistiche e religiose, dalla condivisione di tradizioni o<br />
percorsi storici in grado di produrre (ma anche questo termine, come vedremo, è controverso)<br />
identità collettive. Razza, cultura, etnia sono stati i perni concettuali di altrettanti modi di concepire<br />
questa diversità; e le tradizioni di pensiero che tali nozioni fondano sono ancora oggi un riferimento<br />
essenziale (non importa se in positivo o in negativo) per comprendere i nuovi problemi che la<br />
diversità ci pone.<br />
In questo intervento, di cui sottolineo la natura didattica e non specialistica, vorrei dapprima<br />
esaminare separatamente le tre nozioni, tracciandone una breve storia e discutendo le rispettive<br />
implicazioni filosofiche, etiche e politiche. Nella seconda parte, mi concentrerò sui modi in cui,<br />
nella seconda metà del Novecento, un discorso "culturalista" e uno "etnicista" hanno soppiantato<br />
quel discorso "razzista" sulla diversità che affondava profonde radici nell'Ottocento e che aveva<br />
raggiunto la sua massima e drammatica realizzazione pratica nella Shoah. Vedremo come<br />
culturalismo ed etnicismo, pur superando definitivamente molti tratti del pensiero razzista, ne<br />
ereditano alcune caratteristiche, e non sono comunque esenti da tensioni e contraddizioni interne,<br />
tanto da poter fondare ideologie e pratiche di segno decisamente neo-razzista. Porrò infine il<br />
problema se, a fronte di tali difficoltà e contraddizioni, sia oggi possibile continuare a utilizzare -<br />
sia concettualmente che politicamente - i concetti di identità etnica e identità culturale in una<br />
prospettiva antirazzista.<br />
1. Razza<br />
Com'è noto, il termine “razza” ha una storia relativamente recente. Lo si trova usato a partire dal<br />
Cinquecento per indicare una discendenza, una schiatta, quello che in antropologia si chiamerebbe<br />
un lignaggio. L'etimologia è abbastanza incerta: probabilmente dal latino (gene)ratio. Ma solo nel<br />
secolo scorso il termine ha assunto l'attuale significato - un gruppo umano caratterizzato da<br />
specificità sia somatiche sia intellettuali e comportamentali che si suppongono fondate<br />
biologicamente e trasmesse per via ereditaria. La nozione di razza si afferma nell'Ottocento come<br />
strumento concettuale di una riflessione sull'origine del genere umano in cui il linguaggio<br />
scientifico si sostituisce progressivamente (anche se in modo non certo indolore) a quello religioso;<br />
e, dall'altra parte, come fulcro di una concezione etico-politica dei rapporti tra Occidente e resto del<br />
mondo che ha nel colonialismo il suo correlato pratico 1 .<br />
1 Sulle elaborazioni ottocentesche del concetto di razza si vedano fra gli altri G. Gliozzi (a cura di), La scienza della<br />
razza nell'età moderna, Torino, Loescher, 1986; M.Harris, L’evoluzione del pensiero antropologico. Una storia della<br />
teoria della cultura, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1971, capitoli 3-5; M.F.A. Montagu, La razza. Analisi di un mito,<br />
trad.it. Torino, Einaudi, 1966. Per una utile e recente sintesi storica si veda anche D. Petrosino, Razzismi, Milano, Bruno<br />
Mondadori, 1999, pp. 17 sgg.
La diffusione del termine razza fa dunque tutt'uno con quella delle dottrine razziste, che intorno<br />
alla metà dell'Ottocento dominano il pensiero antropologico e vengono elaborate in Europa e negli<br />
Stati Uniti in grande varietà. La più celebre di esse è probabilmente quella del francese conte de<br />
Gobineau, che nel 1856 pubblica il Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane. I punti cardine di<br />
questo testo, che godrà di grande diffusione, possono esser così schematizzati 2 :<br />
- la biologizzazione o naturalizzazione di ogni tipo di differenza tra culture o civiltà umane;<br />
- l'affermazione di una gerarchia rigida fra le razze, che vede naturalmente ai vertici la razza<br />
bianca ;<br />
- l'orrore per la mescolanza tra le razze.<br />
La superiorità della razza bianca sarebbe dimostrata non solo dai risultati della civiltà occidentale,<br />
ma anche e soprattutto da fattori estetici, come la bellezza, la giusta proporzione delle membra, la<br />
regolarità dei tratti del volto. La bellezza fisica appare come segno inequivocabile d'elezione -<br />
un'idea che Gobineau condivide con precedenti autori che avevano tentato classificazioni<br />
naturalistiche dei gruppi umani. Fra gli altri, lo stesso Linneo un secolo prima (1758) aveva<br />
proposto una tipologia di sub-specie umane, basata essenzialmente sul colore della pelle ma in cui si<br />
confondevano tratti fisici, mentali, sociali e culturali, pensata come una scala che conduceva dalle<br />
scimmie al "gradino più alto" dell'uomo europeo. Non sfiora neppure questi pensatori l'idea - che<br />
per noi è oggi senso comune - della relatività dei giudizi estetici e dei criteri di bellezza fisica.<br />
Gobineau ritiene che la razza bianca, che ha creato una civiltà e una morale superiore, in virtù del<br />
suo stesso successo sia minacciata dagli incroci con le altre razze, che ne contaminano e<br />
impoveriscono il patrimonio genetico. Egli è un tipico pensatore reazionario ottocentesco, nemico<br />
acerrimo della tradizione illuminista, che tenta soprattutto di opporsi all'idea della perfettibilità degli<br />
esseri umani. Il destino di ciascun gruppo umano è segnato dalla razza di appartenenza: nulla può<br />
esser modificato. Non solo egli non crede nel progresso, ma la sua visione è tendenzialmente<br />
degenerativa : la storia implica mescolamenti fra le razze che ne minano l'autenticità . La civiltà<br />
greca e quella romana erano ad esempio superiori alla civiltà attuale dell'Europa, per Gobineau,<br />
perché le rispettive popolazioni erano razzialmente più pure. La decadenza della razza bianca non<br />
può esser fermata. Già oggi, scrive Gobineau, essa è composta solo da ibridi: e "la parte di sangue<br />
ariano, suddivisa già tante volte, che ancora resiste nelle nostre contrade e che è la sola a sostenere<br />
l'edificio della nostra società, ogni giorno s'incammina verso il termine estremo del suo<br />
riassorbimento" 3 .<br />
Ma nel razzismo ottocentesco c'è un altro filone che si distanzia dal pessimismo reazionario e<br />
dalla visione degenerativa di Gobineau, e che per certi versi affonda le radici nel retaggio<br />
illuminista e nel positivismo ottocentesco, con tutta la sua fiducia nel progresso, nella perfettibilità<br />
degli esseri umani e in politiche di ingegneria biologico-sociale. E' un filone di pensiero che troverà<br />
piena espressione nelle teorie evoluzioniste, traendo in particolare alimento dall'opera di Darwin e<br />
di Herbert Spencer. Darwin e l'evoluzionismo mettono fine alla lunga disputa tra teorie<br />
monogenetiche e poligenetiche delle razze, che tanto spazio aveva avuto nella prima metà<br />
dell'Ottocento e che ereditava le discussioni cinquecentesche sulla natura - umana o meno - degli<br />
indios americani 4 . L'umanità ha un'origine comune, e le differenze attualmente riscontrabili sono<br />
dunque frutto di un processo di evoluzione o involuzione influenzato da circostanze storiche,<br />
condizioni ambientali e altri fattori "esterni"? Oppure, al contrario, le differenze attuali rimandano a<br />
origini diverse, dunque a peculiarità "interne" e irriducibili? L'evoluzionismo da un lato accredita la<br />
2 J.A. de Gobineau, Sull’ineguaglianza delle razze, trad. it Milano, Rizzoli, 1977: per una ricostruzione complessiva del<br />
pensiero di Gobineau si veda F. Castradori, Le radici dell’odio. Il conte de Gobineau e le origini del razzismo, Milano,<br />
Xenia, 1991<br />
3 cit. in R.Gallissot. A.Rivera, L’imbroglio etnico, Bari, Dedalo, 1997, p.104<br />
4 Testi fondamentali per la ricostruzione del dibattito sulla diversità dal XVI al XVIII secolo sono quelli di T. Todorov,<br />
La conquista dell’America, trad. it. Torino, Einaudi, 1992 e Noi e gli altri, trad. it Torino, Einaudi, 1991. Una rassegna<br />
ancora molto utile è quella di G. Gliozzi, La scoperta dei selvaggi. Antropologia e colonialismo da Colombo a Diderot,<br />
Milano, Principato, 1971. Per i rapporti tra evoluzionismo biologico e culturale nell’Ottocento v. G.W.Stocking, Razza,<br />
cultura e evoluzione. Saggi di storia dell’antropologia, trad.it. Milano, Il Saggiatore, 1985
teoria monogenetica; dall'altro, tuttavia, sembra legittimare le convinzioni poligenetiche nel<br />
carattere naturale e irriducibile della diversità. L'origine è unica, e le differenze si forgiano nel<br />
percorso evolutivo, nelle modalità di adattamento all'ambiente dei diversi gruppi umani. Ma ciò non<br />
abbatte la classificazione gerarchica delle razze: anzi, paradossalmente, la rafforza. Se tutte hanno la<br />
stessa origine, i diversi risultati storici che esse ottengono dipendono da un miglior adattamento, da<br />
una supremazia sul piano della naturale legge per la sopravvivenza. Si conferma dunque una<br />
gerarchia, per di più legittimata da una legge naturale, che in quanto tale è da un lato "oggettiva" e<br />
dall'altro "buona" o "giusta".<br />
Da metà Ottocento fino a buona parte del Novecento, fondamentali convinzioni razziste (pur con<br />
accenti e sensibilità diverse) accomuneranno il pensiero reazionario e quello progressista, la cultura<br />
cristiana e quella scientifica e secolarizzata, le pratiche sociali conservatrici e quelle riformatrici. Il<br />
razzismo conserva qualcosa di entrambe le tradizioni di pensiero. Per un verso, l'idea di differenze<br />
tra gli esseri umani saldamente radicate nella biologia fa parte delle reazioni ottocentesche alla<br />
modernità, all'egalitarismo rivoluzionario; ha inoltre a che fare con il consolidamento delle relazioni<br />
di potere coloniali. Per l'altro verso, poggia invece sul prestigio acquisito dalla scienze naturali,<br />
sulla convinzione di poter giungere attraverso i loro metodi a una conoscenza integrale degli esseri<br />
umani e della loro vita culturale e spirituale, e infine sull'ideale tipicamente illuminista della<br />
perfettibilità. Contrariamente a Gobineau, i razzisti progressisti ritengono di poter influire<br />
sull'evoluzione delle razze umane attraverso una programmazione scientifica. Le politiche<br />
biologiche appaiono ad alcuni una delle vie possibili verso l'utopia.<br />
E' questo il punto che più mi interessa sottolineare. Nell'Ottocento la conoscenza scientifica<br />
soppianta progressivamente altre forme di autorità (come la tradizione o l'autorità religiosa nelle<br />
società di antico regime) nella determinazione di gerarchie e di principi di ineguaglianza tra gruppi<br />
umani. Ma la fondazione così fornita a tali gerarchie è più assoluta e rigida che in passato, dal<br />
momento che le differenze naturali non sono modificabili come quelle morali o religiose. Per<br />
l'antisemitismo, ad esempio, questo fa una grande differenza. L'antisemitismo tipico del Novecento,<br />
che porterà all'ideologia e alla pratica nazista e alla Shoah, si innesta appunto su una definizione<br />
"scientifica" della razza di taglio ottocentesco, reinterpretando in termini nuovi una lunga tradizione<br />
di pregiudizio religioso. Per quest'ultimo, la differenza dell'ebreo è bensì radicale, ma trova un<br />
limite almeno teorico nella conversione. Per quanto colpevole di gravissime persecuzioni,<br />
l'antisemitismo cristiano avrebbe potuto difficilmente concepire l'idea dello sterminio totale, inteso<br />
come eliminazione dalla faccia della terra di un determinato patrimonio genetico 5 .<br />
Nel nazismo, il razzismo scientifico si salda con un'ideologia profondamente reazionaria e<br />
antimodernista. Ma anche il razzismo progressista diffuso nei paesi democratici fonda pratiche di<br />
ingegneria biologica, come l'eugenetica, che stanno probabilmente alla base delle più disastrose<br />
manifestazioni contemporanee del razzismo. Com'è noto, è legata al nome di Francis Galton la<br />
formulazione dei principi dell'eugenetica: perché non aiutare l'evoluzione naturale, favorendo la<br />
riproduzione degli organismi migliori e impedendo di riprodursi a quelli più deboli o difettosi?<br />
Sono finalità progressiste e di miglioramento sociale, anche se spesso mischiate a venature di<br />
razzismo conservatore, quelle che promuovono le varie esperienze eugenetiche o di biologia<br />
razziale che, nel ventesimo secolo, coinvolgono molte democrazie liberali come gli Stati Uniti o -<br />
fin nel secondo dopoguerra - la Svezia. Si tratta in molti casi di esperienze di sterilizzazione forzata<br />
di individui considerati svantaggiati o disadattati, supposti portatori di geni deboli o difettosi 6 .<br />
5 G.L. Mosse, Il razzismo in Europa dalle origini all'Olocausto, trad.it. Milano, Mondadori, 1992. Per la storia<br />
dell’antisemitismo, riferimento fondamentale è l’opera di L,. Poloiakov, Storia dell’antisemitismo, 4 voll, trad. it.<br />
Firenze, La Nuova Italia, 1974-1990; una buona sintesi divulgativa è R. Finzi, L’antisemitismo, Firenze, Giunti, 1997.<br />
Per una discussa ma efficace discussione delle radici dell’antisemitismo nazista v. D.J. Goldhagen, I volenterosi<br />
carnefici di Hitler, trad. it. Milano, Mondadori, 1997, parte prima. Sulla “razzializzazione” delle differenze tra<br />
“bianchi” e “negri” v. il recente contributo di A. Smedley, “«Race» and the construction of human identity”, American<br />
Anthropologist, 100 (3), 1998.<br />
6 Si veda una recente rassegna di questi esperimenti in G. Moriani, Il secolo dell’odio, Venezia, Marsilio, 1999
Considerato in questa prospettiva, l'hitleriano progetto eutanasia, che portò alla fine degli anni '30<br />
all'eliminazione fisica di centinaia di migliaia di devianti e di "inadatti", è solo la manifestazione<br />
estrema di una tendenza assai più largamente diffusa. Nel dopoguerra prevarrà un'immagine del<br />
nazismo come mostruosità unica e irripetibile della storia. In realtà, le politiche biologiche che esso<br />
persegue (e alle quali assegna importanza decisiva) non sono affatto uniche nel contesto culturale di<br />
quegli anni: il nazismo ne rappresenta una peculiare declinazione totalitaria, che si distingue per il<br />
carattere estremo, per l' "eroico" rifiuto di accettare compromessi con quei sentimenti umanitari che<br />
l' "uomo nuovo" deve imparare a lasciarsi alle spalle.<br />
Secondo una affascinante - anche se a mio parere parziale e poco equilibrata - interpretazione<br />
storiografica, la natura profonda dei regimi totalitari del XX secolo e dei principali orrori che ne<br />
accompagnano la storia rimanda proprio a una matrice progressista e illuminista. "Gli orrori del XX<br />
secolo derivano dai tentativi pratici di creare la felicità, l'ordine di cui la felicità aveva bisogno, e il<br />
potere totale necessario a instaurare quell'ordine", scrive ad esempio Zygmunt Bauman, uno degli<br />
autori più rappresentativi di questo punto di vista 7 . La Shoah, i genocidi e le politiche razziali del<br />
XX secolo non contraddicono dunque la modernità, non sono buchi neri in un processo di<br />
civilizzazione che va in direzione opposta: ne sono anzi la conseguenza, il prodotto, in molti sensi.<br />
Intanto, in un ovvio senso tecnologico, poiché la modernità produce armi dal potenziale distruttivo<br />
senza precedenti; quindi, in un senso amministrativo-burocratico, poiché solo una forte burocrazia<br />
di tipo moderno è in grado di attuare pratiche di ingegneria sociale, nonché di produrre quella<br />
deresponsabilizzazione morale degli individui che è condizione dello sterminio di massa; infine, in<br />
senso politico e culturale, poiché le ideologie che producono genocidi, quelle totalitarie, germinano<br />
storicamente dall'illuminismo, dalle aspirazioni utopiche a una società ideale e totalmente<br />
controllata dalla ragione e dalla scienza. E' su questo sfondo sinistro che si può leggere la vicenda<br />
contemporanea del concetto di razza.<br />
2. Cultura<br />
Anche il concetto cosiddetto scientifico di cultura si sviluppa e diviene di uso comune nella<br />
seconda metà dell'Ottocento, contemporaneamente all'affermarsi dell'antropologia culturale come<br />
autonoma disciplina di studi. Gli antropologi intendono per cultura non solo gli "alti" prodotti<br />
dell'intelletto, come arte, letteratura o scienza, ma l'insieme di tutte quelle pratiche, usi,<br />
consuetudini e conoscenze, per quanto banali e quotidiane, che una comunità umana possiede e<br />
attraverso le quali si adatta all'ambiente e regola le proprie relazioni sociali. Gli antropologi<br />
ottocenteschi, beninteso, sono tutti in qualche misura influenzati dalle teorie razziste: tuttavia, essi<br />
tengono fermo il presupposto della fondamentale unità intellettuale dell'intero genere umano, e sono<br />
interessati allo studio della cultura come elemento di differenziazione tra i gruppi. In termini<br />
evoluzionistici, la cultura è l'insieme degli elementi non biologici o somatici di adattamento<br />
all'ambiente. L'evoluzione culturale è il prolungamento di quella biologica, e si sostituisce<br />
progressivamente (anche se mai del tutto) ad essa nel determinare le caratteristiche dei gruppi<br />
umani, le loro modalità di sviluppo e differenziazione.<br />
Pur non facendo strettamente dipendere le differenze culturali da differenze naturali<br />
(biologiche, razziali) l'antropologia culturale ottocentesca non rinuncia all'idea di gerarchizzazione<br />
delle culture. Come si spiega la diversità culturale a fronte della originaria unità intellettuale del<br />
genere umano? La risposta sta nell'ipotizzare un unico processo di evoluzione culturale, che si<br />
muove però a velocità diverse in diverse parti del mondo e per diversi gruppi umani. La differenza è<br />
riletta in termini di avanzamento-arretratezza del processo evolutivo, di stadi successivi di un unico<br />
grande sviluppo culturale. I popoli "primitivi" stanno attraversando uno stadio evolutivo precedente;<br />
dunque, per quanto cronologicamente contemporanei delle civiltà più avanzate, sono situati<br />
letteralmente in un tempo passato rispetto ad esse.<br />
7 Z. Bauman, “I campi: Oriente, Occidente, Modernità”, in M. Flores, a cura di, Nazismo, fascismo, comunismo.<br />
Totalitarismi a confronto, Milano, Bruno Mondadori, 1998, p. 18
Tale concezione contrasta con le forme più crude del razzismo, ma resta compatibile con alcune<br />
delle sue funzioni ideologiche, in particolare con la legittimazione del dominio coloniale e con la<br />
giustificazione dell'ordine imperialista del mondo. I rappresentanti della civiltà occidentale -<br />
antropologi, imprenditori, ufficiali coloniali - stanno per così dire sul punto più alto di una piramide<br />
da cui possono guardare tutto il resto del mondo, certi di una superiorità che li pone per definizione<br />
dalla parte della verità e della giustizia. Il corso dell'evoluzione è segnato. Gli altri sono come noi,<br />
certo, ma solo nel senso in cui lo sono dei bambini che vanno educati e aiutati a crescere - anche<br />
con severità, quando ce n'è bisogno. L'equazione primitivi-bambini è centrale nell'immaginario<br />
antropologico ottocentesco, e rappresenta la variante culturalista del razzismo, il prezzo pagato al<br />
rifiuto del determinismo biologico.<br />
Si ha un mutamento radicale rispetto a questo quadro con gli sviluppi novecenteschi<br />
dell'antropologia, e con la relativa affermazione di un concetto pluralista e relativista di cultura. Lo<br />
sviluppo della ricerca sul campo e di una nuova sensibilità etnografica, insieme al crollo di molte<br />
delle certezze positivistiche dell'Ottocento, fa dell'antropologia un potentissimo strumento di critica<br />
all'etnocentrismo, alle pretese cioè della cultura europea di valere da metro di giudizio assoluto per<br />
tutte le altre. Quelli che per l'Ottocento erano assiomi, appaiono ora come pregiudizi. Laddove per<br />
l'evoluzionismo studiare la diversità culturale era un modo per riaffermare con forza sempre<br />
maggiore la superiorità dell'Occidente moderno, per la nuova sensibilità antropologica diviene un<br />
modo per contestarne e relativizzarne le pretese. All'immagine di una gerarchia piramidale di gruppi<br />
umani, che procedono a velocità diverse su un unico percorso di sviluppo culturale, si sostituisce<br />
quella di un mondo suddiviso in una irriducibile pluralità di culture, intese come entità autonome,<br />
ben distinte e di uguale dignità, classificabili in modo non gerarchico e per certi aspetti non<br />
commensurabili.<br />
Per il modernismo antropologico del nuovo secolo, le valutazioni negative delle altre culture sono<br />
per lo più conseguenza della incapacità di comprendere il funzionamento di codici linguistici,<br />
estetici, morali semplicemente diversi da quelli che ci sono più familiari. Da qui il principio del<br />
relativismo culturale: non si possono formulare giudizi etici, estetici e (in una variante) anche<br />
cognitivi al di fuori di un contesto culturale, poiché è il contesto culturale a stabilire i criteri di<br />
riferimento. Ciò che è bello o brutto, attraente o disgustoso, desiderabile o indesiderabile, giusto e<br />
ingiusto, e in un certo senso persino vero e falso, dipende dal contesto culturale, e non ci sono<br />
criteri esterni e neutrali di tipo sovra-culturale. Ogni tentativo di stabilire simili criteri è in definitiva<br />
etnocentrico. (Si può notare, per inciso, come questo atteggiamento sia erede di una tradizione<br />
scettica e anti-universalista presente nel pensiero occidentale fin dai suoi esordi, sia pure in modo<br />
minoritario; ma è solo nel Novecento che tale tradizione trova uno sbocco in termini di sapere<br />
positivo sulla diversità culturale) 8 .<br />
Lo sviluppo dell'antropologia moderna, in definitiva, potrebbe esser descritto come un<br />
progressivo approfondimento della critica anti-etnocentrica. Lo stesso concetto di etnocentrismo<br />
diviene un fondamentale strumento interpretativo. Se ne ha una prima celebre definizione da parte<br />
del sociologo americano William Graham Sumner, ai primi del secolo:<br />
"Il punto di vista secondo il quale il gruppo a cui si appartiene è il centro del mondo<br />
e il campione di misura cui si fa riferimento per giudicare tutti gli altri, nel linguaggio<br />
tecnico va sotto il nome di etnocentrismo [...] Ogni gruppo esercita la propria fierezza<br />
e vanità, dà sfoggio della sua superiorità, esalta le proprie divinità e considera con<br />
disprezzo gli stranieri. Ogni gruppo pensa che i propri costumi (folkways) siano gli<br />
8 v. F. Remotti, Noi primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Torino. Bollati Boringhieri, 1990. Per un’analisi in chiave<br />
filosofica del passaggio dalla “cultura” evoluzionista alle “culture” dell’antropologia novecentesca, v- P. Rossi, Cultura<br />
e antropologia Torino, Einaudi, 1983
unici ad essere giusti, e prova soltanto disprezzo per quelli degli altri gruppi, quando vi<br />
presta attenzione" 9 .<br />
Questo atteggiamento è per così dire naturale e universale, e anche utile alla coesione di un<br />
gruppo sociale, ma porta facilmente, dice Sumner, a "esagerare, ad accentuare i tratti particolari che<br />
appartengono ai propri costumi e che distinguono un popolo dagli altri". Quando ciò accade, il<br />
naturale atteggiamento etnocentrico si trasforma in pratiche discriminatorie verso gli altri.<br />
L'etnocentrismo sarà teorizzato in termini assai simili da altri importanti antropologi, quali fra gli<br />
altri l'americano Melville Herskowitz e il francese Claude Lévi-Strauss. Anch'essi riconoscono<br />
l'universalità dell'atteggiamento etnocentrico, ma vedono un segno distintivo del progresso culturale<br />
nella capacità di tenerlo sotto controllo, di combatterlo nelle sue forme esasperate, promuovendo<br />
non la contrapposizione ma la tolleranza e il dialogo tra le diverse culture. Lévi-Strauss è autore<br />
della famosa formulazione secondo la quale barbaro è anzitutto colui che crede nella barbarie - uno<br />
slogan rappresentativo, anche nelle sue implicazioni paradossali, della sensibilità antropologica<br />
moderna 10 .<br />
Il lessico antropologico, che interpreta la diversità tra gruppi umani in termini di culture<br />
autonome e distintive, e la sensibilità ai temi dell'etnocentrismo e del relativismo culturale, si<br />
diffondono e divengono senso comune nella seconda metà del secolo. Tale diffusione avviene anche<br />
come reazione al lessico e alla sensibilità razzista, screditati definitivamente dagli esiti cui erano<br />
stati condotti dal nazismo. Il tentativo nazista di instaurare un ordine del mondo su base razziale, e<br />
le pratiche genocide che ne seguono, destano profonda impressione nell'opinione pubblica<br />
internazionale e portano al progressivo abbandono delle teorie razziste in senso stretto - quelle che<br />
mirano a una gerarchizzazione dei gruppi umani sulla base di caratteristiche genetiche.<br />
Parallelamente, anche gli sviluppi della biologia e della genetica contribuiscono all'abbandono della<br />
nozione classica di razza, nonché delle teorie sulla determinazione razziale dell'intelligenza e dei<br />
tratti comportamentali 11 . Dopo la seconda guerra mondiale, repentinamente, la parola "razzismo"<br />
assume una connotazione negativa - laddove, fino a tutti gli anni '30, veniva usata in senso positivo,<br />
come sinonimo di politiche progressiste di miglioramento della specie umana, e di difesa delle<br />
popolazioni superiori dalla contaminazione. Ciò non significa che vengano abbandonate idee e<br />
pratiche di tipo fondamentalmente razzista, anche se espresse e sostenute con un altro tipo di<br />
linguaggio. Ma su questo tornerò più avanti.<br />
3. Etnia<br />
Negli ultimi anni, etnia è il termine prevalentemente usato per esprimere differenze tra gruppi<br />
umani, intese come differenze in qualche modo pre-politiche, cioè precedenti, più profonde o<br />
almeno indipendenti dalle suddivisioni politiche in Stati. Sentiamo parlare di conflitti etnici, di<br />
identità etniche, di pulizia etnica. I mass-media hanno cominciato a far largo uso di questo termine<br />
(accanto qualche volta al termine "tribale", quando oggetto del discorso sono realtà africane), che è<br />
progressivamente entrato nel linguaggio comune. Vediamo di approfondirne il significato.<br />
Il termine ha origine nel greco "ethnos", che indica un aggregato di individui distinto da proprie<br />
caratteristiche 12 (nota: Bernardi, ....) In greco, ethnos è usato prevalentemente per indicare gruppi<br />
altri e diversi, in modo cioè sostanzialmente discriminatorio, nello stesso senso in cui gli stessi greci<br />
9 W.G. Sumner, Folkways, Boston,. 1906, trad. it. Costumi di gruppo, Milano, 1962, p. 5<br />
10 C. Lévi-Strauss, “Razza e storia”, trad. it. in Razza e storia e altri studi di antropologia, Torino, Einaudi, 1967, p. 106<br />
11 Per un quadro aggiornato delle discussioni interne alle scienze naturali v. S. J. Gould, Intelligenza e pregiudizio.<br />
Contro i fondamenti scientifici del razzismo, trad.it. Milano, Il Saggiatore, 1998<br />
12 B. Bernardi, “Il fattore etnico: dall’etnia all’etnocentrismo”, Ossimori, 4, 1994, pp. 13-36; v. anche A. Rivera,<br />
“Etnia-etnicità”, in R. Gallissot, A. Rivera, L’imbroglio etnico, cit., pp. 77-98
e i romani parlavano di barbari. Con questo senso discriminatorio il termine passa nelle traduzioni<br />
greche della Bibbia e nel linguaggio del Nuovo Testamento, e da qui nelle lingue europee moderne.<br />
Nel linguaggio biblico e neotestamentario, ethne designa i non ebrei e i non cristiani, gli altri,<br />
dunque. Nelle lingue europee moderne, come italiano, inglese o tedesco, il derivativo ethnici si<br />
afferma con l'accezione spregiativa di pagani; quando il cristianesimo si identificherà con l'intera<br />
società occidentale, l'accezione negativa si estenderà a tutti i non occidentali.<br />
Un uso neutrale dei termini etnici, nel senso dell'etnologia (cioè descrizione e studio delle<br />
caratteristiche sociali e culturali di qualsiasi raggruppamento umano), si afferma progressivamente<br />
solo a partire dall'Ottocento, con lo sviluppo appunto dell'antropologia e delle scienze umane.<br />
Nell'uso attuale del termine i due sensi si intrecciano strettamente. Tende a prevalere l'accezione<br />
antropologica, che in sostanza definisce come etnia un gruppo che condivide un insieme di elementi<br />
culturali, quali la lingua, la religione, certi usi e costumi eccetera (l' eccetera è necessario, perché<br />
l'elenco può difficilmente esser esaurito). Tuttavia, questo uso neutrale e descrittivo si carica spesso<br />
di connotazioni valutative e discriminatorie: noi usiamo sempre l'aggettivo etnico (conflitti,<br />
identità) per gli altri, e in specie in riferimento a realtà minoritarie all'interno di un singolo Statonazione,<br />
o a realtà che storicamente si collocano al di fuori di chiare identità nazionali e statali. Noi<br />
non siamo mai "etnici", e non lo è mai la grande cultura, quella dominante. Etnici sono gli altri, i<br />
più arretrati o i più poveri, le minoranze.<br />
Ora, il rischio principale che corrono le nozioni di etnico e di etnia, come del resto la nozione di<br />
cultura, nel loro passare dal linguaggio specialistico delle discipline sociali al linguaggio politico e<br />
al senso comune, è la reificazione. L'aggettivo etnico, e ancor più il sostantivo etnia, tendono a esser<br />
letti secondo il modello delle cartine politiche degli atlanti: colori diversi punteggiano un mondo<br />
suddiviso in entità compatte e autonome, dalla consistenza quasi naturale, esclusive e distintive.<br />
Come si può appartenere a uno e ad un solo Stato, così si appartiene a una sola etnia-cultura. Più<br />
che come un processo costantemente in divenire, l'appartenenza culturale ed etnica è intesa come<br />
proprietà immutabile di un gruppo umano e di tutti gli individui che ne fanno parte.<br />
Di questa tendenza alla essenzializzazione o reificazione, peraltro, l'antropologia non è affatto<br />
innocente. Per una serie di ragioni, che sono al contempo epistemologiche, di metodo, teoriche e<br />
ideologiche), essa ha fornito un'immagine eccessivamente statica, compatta e "divisionista" delle<br />
culture, e di conseguenza delle etnie. Si potrebbe dire, con un paradosso, che l'antropologia ha<br />
naturalizzato le culture, ci ha abituato a pensarle come cose che esistono prima e indipendentemente<br />
dai processi storici, da un lato, e dall'altro dagli individui che ne fanno parte, i quali sarebbero quasi<br />
imprigionati al loro interno. I paradigmi che l'antropologia classica ha fornito per pensare la<br />
diversità culturale sono quelli dell'isola, della riserva indiana, del deserto, del villaggio isolato nella<br />
giungla; tutti modelli che accentuano l'esclusività, la compattezza interna, i confini netti, la staticità,<br />
e nascondono gli elementi di continuo mutamento, di scambio reciproco, di sincretismo, che<br />
caratterizzano invece la vita culturale 13 .<br />
Ora, ammesso (e non concesso) che questo modello divisionista fosse adeguato alle realtà<br />
esotiche e "primitive" classicamente studiate d<strong>all'antropologia</strong>, esso non è certo adeguato alla realtà<br />
attuale di un pianeta dominato da processi di globalizzazione, da flussi comunicativi e di<br />
circolazione di persone, merci e idee senza precedenti. La situazione economica, politica e culturale<br />
di questa fine secolo fa saltare completamente la coerenza del modello classico. Dar conto delle<br />
differenze e delle identità culturali di oggi a partire dalla nozione relativistica di etnie-culture<br />
originarie e autentiche è implausibile. L'antropologia ha dovuto rivedere in profondità la propria<br />
attrezzatura teoretica e, da alcuni decenni, si è impegnata in un processo di critica o decostruzione<br />
proprio dei concetti di cultura, etnia, identità. Oggi si riconosce comunemente che le realtà sociali<br />
indicate da tali termini non hanno nulla di essenziale o autentico, e sono sempre il frutto di<br />
13 Si vedano su questo punto U. Fabietti, L’identità etnica, Roma, NIS, 1995 e C. Geertz, Mondo globale, mondi<br />
locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Bologna, Il Mulino, 1999
contingenti processi storici e dinamiche politiche, spesso meno antichi e profondi di quanto si<br />
creda 14 .<br />
Nel senso comune e nel linguaggio dei media, tuttavia, l'uso reificato decisamente persiste.<br />
Quando si parla di conflitti etnici, come nel caso della ex-Jugoslavia, o di guerre "tribali", come si<br />
continua a dire per i contesti africani, con termine ancor più equivoco, si presuppone uno scontro fra<br />
realtà etniche chiare e distinte, che preesistono al conflitto attuale e anzi ne sono la causa. Si assume<br />
una essenza etnica più reale e più forte di ogni vicenda politica: un po' come se le appartenenze<br />
etniche fossero lo sfondo immutabile sul quale si articolano le contingenti e mutevoli faccende della<br />
politica. Non si prende abbastanza in considerazione la possibilità che, almeno in parte, il discorso<br />
etnico, i sentimenti di appartenenza, il senso delle differenze siano la conseguenza e non la causa<br />
dei conflitti.<br />
4. Razzismo differenzialista<br />
Ora, la tendenza alla reificazione dei termini etnici e culturali rischia di produrre una nuova<br />
assolutizzazione delle differenze, e finisce per avvicinarne l'uso a quello del vecchio concetto di<br />
razza. In particolare, il rischio è che il discorso etnico-culturale sia usato strumentalmente come<br />
supporto o giustificazione "scientifica" di pratiche di discriminazione che potremmo a pieno titolo<br />
chiamare razziste. Vorrei citare tre esempi di un simile uso strumentale, limitandomi però - per<br />
motivi di spazio oltre che di compentenza - a discutere solo l'ultimo. Il primo esempio riguarda il<br />
caso già ricordato dei conflitti etnici nella penisola balcanica. Qui la propaganda nazionalista -<br />
quella serba in modo e con forza particolare - ha fatto perno su una presunta irriducibilità<br />
dell'appartenenza etnica, ponendola alla base di rivendicazioni territoriali e di strategie di controllo<br />
politico. Ciò che più colpisce, nel caso della ex-Jugoslavia, è la facilità con cui le istanze identitarie,<br />
in sé per così dire innocenti, sono sfociate in strategie biopolitiche molto vicine a quelle del<br />
nazismo, con la pratica sistematica della deportazione di massa, del massacro, e di quella peculiare<br />
forma di violenza che è il cosiddetto "stupro etnico" 15 .<br />
Il secondo esempio, molto meno drammatico ma di altrettanta evidenza nell'ultimo decennio del<br />
Novecento, è quello dei regionalismi. Possiamo considerare il caso del leghismo italiano come<br />
emblematico dell'uso strumentale delle categorie dell'identità etnico-culturale. Un movimento nato<br />
in tempi assai recenti, attorno a rivendicazioni di ordine essenzialmente politico-economico, ha<br />
sentito il bisogno di una legittimazione ideologica che facesse riferimento alle essenze etniche<br />
“irriducibilmente” diverse del Nord e del Sud. Lo ha fatto attraverso grossolane operazioni di<br />
invenzione della tradizione, improvvisando improbabili rituali e richiamandosi a presunte radici<br />
"celtiche": con l'effetto di trasformare una rete di differenze socio-culturali che sono indubbiamente<br />
reali nella immaginosa e antistorica creazione di un'essenza padana 16 .<br />
Il terzo esempio, che vorrei brevemente discutere, riguarda certe forme odierne di ideologia e<br />
pratica razzista, in particolare quello che viene comunemente definito neorazzismo differenzialista<br />
o fondamentalismo culturale. Come detto, la vecchia accezione del termine razzismo si può dire<br />
oggi, nella seconda metà del XX secolo, sostanzialmente esaurita, insieme ad alcune sue<br />
14 Il dibattito degli ultimi venti anni su etnia ed etnicità è molto ampio e di difficile definizione. Fra i testi disponibili in<br />
lingua italiana, rimando per una sintesi teorica a L. Li Causi, “Ridimensionare l’etnia? Note metodologiche sul<br />
fenomeno etnico”, Ossimori, 6, 1995, pp. 13-19, e all’antologia curata da V. Maher, Questioni di etnicità, Torino,<br />
Rosenberg & Sellier, 1994. Per quanto riguarda lo smascheramento del carattere recente e “inventato” di molte<br />
tradizioni etniche, grande influenza ha esercitato il volume curato dagli storici E.J.Hobsbawm-T.Ranger, L’invenzione<br />
della tradizione, trad.it. Torino, Einaudi, 1987<br />
15 Una pratica, quest’ultima, che lo stesso nazismo non praticava, per la peculiarità del suo pensiero razzista,<br />
ossessionato dal timore della contaminazione; v. in proposito V. Nahoum-Grappe, “L’uso politico della crudeltà e<br />
l’epurazione etnica in ex-Jugoslavia (1991-1995)”, in F. Heritier (a cura di), Sulla violenza, trad.it. Roma,<br />
Meltemi,.1997, pp.190-227.<br />
16 V. R. Biorcio, La Padania promessa, Milano, Il Saggiatore, 1997
conseguenze - come l'orrore per la mescolanza biologica tra le razze e dunque per i matrimoni misti,<br />
l'idea di poter costruire gerarchie di popoli sulla base di caratteristiche biologiche ed ereditarie. E'<br />
oggi impensabile per qualsiasi attore politico - non importa quanto xenofobo o antisemita - adottare<br />
un linguaggio anche lontanamente imparentato a quello hitleriano, impregnato di metafore sugli<br />
ebrei come agenti infestanti, bacilli portatori di contagio e di impurità che devono essere distrutti<br />
per la buona salute della società intesa come un organismo. Ma da dove vengono allora le idee<br />
odierne di pulizia etnica ? Quali basi culturali fondano gli atteggiamenti discriminatori verso gli<br />
immigrati, le politiche xenofobe, il pregiudizio, la discriminazione - fatti sociali che non sono certo<br />
scomparsi insieme al concetto biologico di razza?<br />
Al posto del vecchio razzismo biologico si è affermata una forma di neo-razzismo, o, come alcuni<br />
studiosi lo chiamano, razzismo differenzialista 17 . Questa concezione, paradossalmente, riesce a<br />
volgere a sostegno di pratiche razziste proprio le tradizioni culturali che nel Novecento più si sono<br />
opposte al razzismo - come il discorso culturalista ed etnicista sopra descritto. La nuova destra<br />
xenofoba non parla più di razze e di differenze naturali ma di culture o etnie, per indicare le radici<br />
storiche e culturali che tengono insieme un popolo e lo distinguono da altri. Non si rivendica più la<br />
superiorità di alcuni popoli e culture su altre. Si accetta il principio del relativismo culturale, che<br />
come abbiamo visto è l'esatto opposto dell'etnocentrismo e per certi versi del razzismo: ogni cultura<br />
ha valore in sé, non può esser giudicata sulla base di criteri appartenenti a un'altra cultura: e tutte le<br />
culture del mondo hanno uguale dignità e in linea di principio uguale importanza.<br />
Ma, proprio sulla base di questi principi di apertura e tolleranza, si giunge a riaffermare l'antica<br />
esigenza xenofoba. Proprio per il valore intrinseco di ciascuna cultura; proprio perché la vita di<br />
ognuno di noi, i nostri valori, le nostre convinzioni morali sono radicate in una ben precisa identità<br />
culturale - per tutti questi motivi, le culture e le identità non devono essere confuse e mescolate.<br />
Occorre preservarne l'integrità e l'autenticità di fronte alla confusione, al mescolamento, e anche di<br />
fronte al rischio dell’omologazione che investe il mondo contemporaneo. Questo punto affonda le<br />
radici in alcune formulazioni antropologiche anche di grande prestigio, come quelle di Lévi-Strauss,<br />
che ha sostenuto la necessità di un certo grado di "sordità" reciproca fra le culture; se la diversità<br />
culturale è il bene massimo da preservare per l'umanità, poiché il progresso stesso è consentito non<br />
dalla prevalenza di una cultura su tutte le altre, ma dalla compresenza di molte culture diverse,<br />
allora occorre certo favorire il dialogo e lo scambio, ma anche difendere le rispettive identità e<br />
confini, evitare contaminazioni troppo profonde che facciamo perdere appunto il senso della<br />
diversità. L'omologazione culturale, il caotico mescolamento, sembrano per Lévi-Strauss i massimi<br />
pericoli della contemporaneità 18 . La sua posizione, opportunamente forzata, è stata utilizzata dai<br />
movimenti contrari all'immigrazione in molti paesi europei. Un ruolo di avanguardia in questa<br />
direzione è stato svolto dalla cosiddetta nuova destra francese, con il contributo di teorici piuttosto<br />
sofisticati come Alain de Benoist, secondo il quale "tutti i popoli devono preservare e coltivare le<br />
17 Questa definizione è stata esplorata in modo particolarmente sistematico nell’opera dello studioso francese Pierre-<br />
André Taguieff; si vedano P.-A. Taguieff, La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e l’antirazzismo, trad. it.<br />
Bologna, Il Mulino, 1988 e, per una più sintetica esposizione, Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, trad. it.<br />
Milano, Cortina, 1999. Per la nozione – per certi versi analoga – di “fondamentalismo culturale v. V. Stolcke,<br />
“Talking culture. New boundaries, new rethorics of exclusion in Europe”, Current Anthropology, 36 (1), 1995, pp. 1-<br />
24<br />
18 Posizioni espresse con forza particolare in C. Lévi-Strauss, Lo sguardo da lontano, trad. it. Torino, Einaudi, 1984,<br />
Prefazione e cap. 1, e che rivedono criticamente quanto sostenuto precedentemente dallo stesso autore nel daggiod egli<br />
anni ’50 “Razza e storia”, cit. Per una stimolante discussione dei rapporti tra il “primo” e il “secondo” Lévi-Strauss v.<br />
C. Geertz, “Gli usi della diversità”, trad.it. in La società degli individui, III (8), 2000. Per una feroce critica di segno<br />
“antirazzista” a Lévi-Strauss si veda M.G.O’Callaghan - C. Guillamin, “La moda «naturalistica» nelle scienze umane”,<br />
trad. it. In Democrazia e diritto, XXIX (6), 1989, pp. 181-202. V. anche G. Riccardo, “Immagini dell’etnologia e<br />
immagini della società. A proposito di alcune letture del razzismo contemporaneo”, Problemi del socialismo, 21, n.s.,<br />
1989, pp.45-59 e F. Dei, “Giudizio etico e diversità culturale nella riflessione antropologica”, in R. De Vita (a cura di),<br />
Società in trasformazione ed etica, Siena, 1992, pp. 53-79
proprie differenze", e "l'immigrazione è condannabile perché attenta all'identità della cultura di<br />
accoglienza così come all'identità degli immigrati" 19 .<br />
Il motto di questi movimenti, tradotto in linguaggio comune, potrebbe essere : "noi non siamo<br />
razzisti, ma pensiamo che, per il bene comune, ognuno se ne dovrebbe restare a casa propria". I<br />
movimenti migratori di massa, come quelli dall'Africa verso l'Europa, producono sradicamento e<br />
perdita delle identità culturali, sia per gli ospitanti che per gli ospiti. La chiusura delle frontiere,<br />
dunque, è necessaria per proteggere entrambi. L'argomento dell'inuguaglianza biologica è sostituito<br />
dall'assolutizzazione delle differenze tra le culture. Accade così che la separazione e la xenofobia<br />
possono esser sostenute in nome di valori come la tolleranza, il rispetto dell'altro e della sua<br />
dignità, il diritto alla differenza, senza bisogno di parlare né di razze né di superiorità-inferiorità.<br />
Se torniamo per un attimo al caso dei Balcani, possiamo trovare delle analogie. Milosevic è stato<br />
paragonato a Hitler. Si può osservare nel nazionalismo serbo qualche affinità con il pangermanismo<br />
e il nazionalismo tedesco (e non solo tedesco) della prima metà del secolo; c'è anche in comune una<br />
certa mistica della terra se non del sangue, e la tendenza a radicare in gloriose tradizioni storiche,<br />
più o meno inventate e deformate, il presunto destino della patria. Ma è interessante notare che in<br />
questo caso l'odio, la discriminazione e la pulizia etnica non si accompagnano a un linguaggio<br />
esplicitamente razzista, ad affermazioni di superiorità e inferiorità, limitandosi a rivendicare la<br />
differenza, a pretendere una segregazione integrale dei popoli che rispecchi la presunta assoluta<br />
differenza etnico-nazionale. Ciò non significa che ciò che accade ed è accaduto sia meno terribile.<br />
5. Caratteri distintivi dei neorazzismi<br />
Dunque, il neorazzismo si fonda oggi su nuove basi ideologiche, che si confondono con<br />
argomenti a favore della tolleranza, del relativismo, nonché con i richiami, di per sé giusti, alla<br />
valorizzazione delle identità culturali delle comunità umane. Ciò rende più difficile riconoscere<br />
oggi il razzismo, come atteggiamento sia ideologico sia pratico, rispetto alle sue più classiche ed<br />
evidenti manifestazioni che il senso comune generalmente condanna, dal nazismo al Ku Klux<br />
Clan. Non solo: diviene più complesso anche capire che cosa voglia dire essere antirazzisti, come in<br />
linea di principio la gran parte di noi aspira ad essere. Vorrei concludere l'intervento con alcune<br />
osservazioni su questi punti.<br />
Prima di tutto, come riconoscere un razzismo che non si dichiara come tale? E' facile prendere<br />
posizione, ed esempio, di fronte al "Manifesto della razza" del 1938 che invitava "gli italiani a<br />
proclamarsi francamente razzisti" 20 . Oggi nessuno (con eccezioni irrilevanti) si proclama<br />
francamente tale, né gruppi politici e culturali né individui; ciò non significa che non circolino<br />
largamente atteggiamenti ideologici e comportamenti pratici che presentano forti continuità con il<br />
razzismo classico, autorizzandoci a usare ancora questo termine (piuttosto che sostituirlo<br />
semplicemente con "pregiudizio", xenofobia" e simili 21 ). Dobbiamo riconoscere questi<br />
19 Cit. in R. Gallissot - A. Rivera, L’imbroglio etnico, cit., pp. 183, 187<br />
20 Sulle elaborazioni scientifiche del razzismo nell’Italia fascista si vedano R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo<br />
fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1999 e G. Israel - P. Nastasi, Scienza e razza nell'Italia fascista, Bologna, Il Mulino,<br />
1998<br />
21 Peraltro, a fronte della più comune rilettura in chiave etnica delle antiche differenze razziali, è importante rilevare la<br />
persistenza di una dinamica opposta: vale a dire, la tendenza a razializzare le differenze etniche e culturali. Questo<br />
fenomeno è stato rilevato spesso negli Stati Uniti, dove le categorie razziali prevalenti, quelle di “bianco” e “nero”, sono<br />
spesso proiettate su un mosaico etnico molto più vario e complesso. Questo è uno dei motivi che ha spinto l’attuale<br />
antropologia americana a restituire centralità alla nozione di razza. Un motivo parallelo ha a che fare col sostegno di<br />
molti antropologi alle strategie politiche delle minoranze di colore o afro-americane le quali, nel denunciare il<br />
persistente razzismo della società statunitense, rivendicano in positivo l’appartenenza razziale, sottolineandone i<br />
demarcatori somatici. A parere di molti, l’antirazzismo americano della seconda metà del secolo ha percorso una strada<br />
sbagliata, trasformando gli USA in un società “cieca ai colori” (color blind): questa indifferenza alle caratteristiche<br />
somatiche, il “fare come se non ci fossero”, è in realtà un modo di nascondere le profonde sperequazioni che ancora<br />
dividono gli afro-americani dai bianchi; dunque, una più effettiva pratica antirazzista ha oggi bisogno di recuperare e
atteggiamenti e comportamenti al di sotto della veste culturalista sotto cui si presentano; d'altra<br />
parte, non possiamo prendere troppo alla leggera l'imputazione di razzismo, attribuendola<br />
ciecamente a ogni discorso o atto politico che affronti criticamente il problema della diversità e del<br />
rapporto con gli "altri". Non ha molto senso considerare ipso facto razzista, ad esempio, ogni<br />
politica di controllo sull'immigrazione, o di limitazione allo sviluppo demografico per i paesi in via<br />
di sviluppo - un errore nel quale i movimenti antirazzisti si lasciano talvolta trascinare, come<br />
vedremo tra breve.<br />
Dunque, quali sono i punti in comune tra vecchio e nuovo razzismo, tra il razzismo biologico,<br />
gerarchizzante e "universalista" della prima metà del secolo e quello culturale, differenzialista e<br />
relativista della seconda metà? Una delle teorie più sistematiche avanzate in risposta a questa<br />
domanda è quella dello studioso francese Pierre-André Taguieff, che individua tre atteggiamenti<br />
intellettuali e tre tipi di pratiche come denominatori comuni, rispettivamente, dell'ideologia e del<br />
comportamento razzista.<br />
Partiamo dalle basi ideologiche. La prima di esse è per Taguieff la<br />
categorizzazione essenzialista degli individui o dei gruppi, che implica la riduzione<br />
dell'individuo allo statuto di un qualsiasi rappresentante del suo gruppo di appartenenza<br />
o della sua comunità d'origine elevata a comunità di natura o d'essenza, fissa e<br />
insormontabile. Nascere tali, significa essere e dover rimanere tali 22 .<br />
In altre parole, l'appartenenza a una categoria produce un giudizio aprioristico e totalizzante su<br />
un individuo, a cui sono associati immediatamente tutti gi attributi stereotipi della categoria. Così<br />
funzionava il termine "ebreo" nella cultura tedesca degli anni '30 e '40, o il termine "negro" in<br />
società (formalmente o di fatto) di apartheid ; così, anche se con conseguenze meno drammatiche,<br />
tendono a funzionare oggi da noi i termini "immigrato", extracomunitario", "albanese", e così via.<br />
Non è ad esempio razzista constatare gli alti tassi di criminalità fra certe categorie di immigrati; lo è<br />
considerare qualcuno criminale per il fatto di appartenere a quelle categorie. Taguieff coglie qui un<br />
punto importante: la sua definizione ha tuttavia bisogno di una integrazione. La riduzione degli<br />
individui a "essenze" è infatti un meccanismo assai diffuso nella vita sociale, in riferimento a ogni<br />
tipo di alterità e diversità, e su ordini di grandezza molto diversi: "i milanesi", "i romani", "gli<br />
americani", oppure "i politici", o "gli juventini" e così via. Perché tale meccanismo assuma carattere<br />
razzista occorre sia in gioco qualcos'altro, e cioè un'asimmetria di potere. In altre parole, razzista è<br />
l'essenzializzazione di una categoria debole o subalterna da parte di gruppi o individui relativamente<br />
privilegiati, che vedono in essa, a torto o a ragione, una minaccia per la propria posizione. Questo<br />
punto è colto efficacemente in un'altra celebre definizione di razzismo, proposta dal sociologo<br />
Albert Memmi. Il razzismo è a suo parere<br />
l'enfatizzazione, generalizzata e definitiva, di differenze, reali o immaginarie, che<br />
l'accusatore compie a proprio vantaggio e a detrimento della sua vittima, al fine di<br />
giustificare i propri privilegi o la propria aggressione. 23<br />
affinare la percezione del colore. In alcuni movimenti culturali, come il cosiddetto “afrocentrismo”, questa riscoperta<br />
della razza rischia di assumere la forma paradossale di un modello invertito di determinismo biologico: l’origine<br />
africana, visibile nel colore della pelle anche se non percepita storicamente, sarebbe il nucleo portante dell’identità<br />
culturale, fondando particolari propensioni e capacità. Per un richiamo radicale (e a mio parere non privo di ambiguità)<br />
dell’antropologia culturale alla riflessione e all’uso politico del linguaggio razziale si vedano i saggi raccolti in un<br />
recente numero monografico dell’autorevole rivista American Anthropologist: F.Harrison (a cura di), “contemporary<br />
issue forum: Race and racism”, American Anthropologist, 100 (3), 1998.<br />
22<br />
P.-A. Taguieff, Il razzismo, cit. , p. 64<br />
23<br />
A. Memmi, Il razzismo, trad.it. Genova, Costa & Nolan, 1989; cit. in R. Gallissot – A.Rivera, L’imbroglio etnico, cit.,<br />
p. 180
Il senso comune è pieno di enfatizzazioni ed essenzializzazioni, etniche e non: questi sono anzi i<br />
meccanismi retorici fondamentali per alcuni generi di discorso, come l'umorismo. Si pensi agli<br />
stereotipi sui tedeschi efficienti ma troppo rigidi, sugli statunitensi spacconi e presuntuosi, sui<br />
giapponesi conformisti e maniacali e così via. Se questi stereotipi sono innocui, lo stesso non si può<br />
dire di quelli, largamente correnti nell'Italia di oggi, sugli albanesi violenti, fannulloni, pretenziosi.<br />
Gli enunciati "i tedeschi sono tutti uguali" e "gli albanesi sono tutti uguali", pur identici nella<br />
sintassi, hanno implicazioni razziste profondamente diverse.<br />
Tornando a Taguieff, il secondo ingrediente ideologico del razzismo (che presuppone il primo) è a<br />
suo parere la stigmatizzazione. Una volta categorizzati secondo una presunta immutabile essenza,<br />
gli "altri" possono esser stigmatizzati, cioè subire un processo di esclusione simbolica, imperniato<br />
sulla "creazione di un certo numero di stereotipi negativi" 24 . Ad essi si attribuiscono difetti<br />
congeniti, "tare", impurità di vario tipo, qualità pericolose che li rendono minacciosi. Il "nemico"<br />
viene disumanizzato, demonizzato, bestializzato, e ciò crea una distanza psicologica e morale che<br />
spiega anche le manifestazioni di violenza, nonché il peculiare rapporto vittime-carnefici che<br />
caratterizza gli eccidi nazisti come i pestaggi degli immigrati di colore. Una conseguenza della<br />
stigmatizzazione è la mixofobia, cioè la paura della mescolanza e dell'ibridazione, che spesso si<br />
manifesta attraverso un linguaggio patologizzante, con l'ossessione di un "contagio" metaforico o<br />
reale - con il che si torna nelle immediate vicinanze del linguaggio hitleriano e dell'antisemitismo<br />
nazista.<br />
Il terzo elemento caratterizzante del razzismo viene chiamato da Taguieff "barbarizzazione", e<br />
consiste nella "convinzione che certe categorie di esseri umani non siano civilizzabili (e dunque,<br />
come presupposto, che non siano civilizzate), che non siano perfettibili, non siano educabili,<br />
convertibili, assimilabili" 25 . Taguieff sostiene che la teoria della inuguaglianza biologica tra le razze<br />
è solo una incarnazione storica di questa tendenza, che può manifestarsi attraverso altri linguaggi e<br />
teorie. Si tratta del più altro grado di distanziamento e esclusione dell'altro: in quanto "barbaro",<br />
esso non è solo diverso, inferiore, pericoloso, ma rappresenta l'antitesi stessa della civiltà: è colui<br />
che non riconosce i valori fondamentali, che non rispetta le distinzioni centrali all'esistenza stessa<br />
della civiltà. La barbarizzazione implica l'impossibilità di ogni assimilazione, e dunque apre la<br />
strada a politiche eliminazioniste, di radicale separazione xenofoba e persino di genocidio.<br />
Dal punto di vista degli atteggiamenti pratici, Taguieff distingue tre tipi o livelli di azioni<br />
logicamente giustificabili dalla precedenti condizioni, anche se non ne sono la necessaria<br />
conseguenza. Si tratta in primo luogo delle pratiche di segragazione, discriminazione, espulsione; in<br />
secondo luogo, di forme dirette di persecuzione e di violenza essenzialista (diretta cioè contro una<br />
categoria in quanto tale), e infine del genocidio, cioè dello sterminio di tutti i rappresentanti di una<br />
categoria di popolazione 26 . Come si vede, sembra quasi che Taguieff abbia costruito il suo schema<br />
teorico ricalcando i livelli successivi della persecuzione nazista contro gli ebrei. Rispetto alle<br />
interpretazioni che considerano la Shoah come un unicum storico, egli sembra però pensare che i<br />
nazisti non abbiano che condotto alle estreme - e per certi versi logiche - conseguenze un<br />
atteggiamento ideologico e pratico assai più diffuso; che, dunque, il genocidio sia sempre inscritto,<br />
come possibilità, nei livelli di base della discriminazione razzista.<br />
Naturalmente, Taguieff non sostiene che le pratiche di persecuzione violenta siano semplici<br />
conseguenze di convinzioni teoriche o ideologiche. Le cose sono più complesse. Da un lato, infatti,<br />
le idee e i comportamenti razzisti non insorgono da soli nella testa della gente, e possono esser<br />
ricondotti a una serie di cause "strutturali" (economiche, sociali, politiche, etc.). Dall'altro, anche sul<br />
piano soggettivo, lo sviluppo di atteggiamenti razzisti non discende semplicemente da "credenze" o<br />
convinzioni politiche, e neppure da dinamiche psicologiche più o meno universali. Citando ancora<br />
Memmi, si può dire che l'atteggiamento razzista ha tutta la complessità e la profondità di un'<br />
"esperienza vissuta", nella quale esperienze personali di vita, emozioni e passioni, credenze,<br />
24<br />
P.-A. Taguieff, Il razzismo, cit., pp. 64-5<br />
25<br />
Ibid., p. 66<br />
26<br />
Ibid., pp. 67-8
interessi economici, convinzioni politiche, ragioni e impulsi irrazionali, influenza della cultua di<br />
massa e dell'immaginario sociale e così via si legano in un groviglio difficile da districare 27 (v.<br />
Taguieff p. 69).<br />
6. Antirazzismo.<br />
Abbiamo visto prima come le mutate basi ideologiche del razzismo rendano più difficile non solo<br />
riconoscerlo, ma anche opporvisi coerentemente. L'antirazzismo corre oggi due tipi di rischi. Il<br />
primo è quello di usare gli stessi strumenti ideologici e culturali del neorazzismo differenzialista; il<br />
secondo è il rischio di riprodurre gli stessi meccanismi di essenzializzazione, stigmatizzazione e<br />
barbarizzazione che, come detto, caratterizzano il razzismo stesso. Partiamo anche qui da Taguieff,<br />
autore che più di ogni altro ha gettato le basi di una critica - per quanto costruttiva - all'antirazzismo<br />
contemporaneo.<br />
L'antirazzzismo classico, impregnato di culturalismo e di differenzialismo, non può<br />
più funzionare da dispositivo critico efficace, dal momento che le sue tesi e<br />
argomentazioni tendono a confondersi con quelle del neorazzismo, differenzialista e<br />
culturale. Di qui, la presa di coscienza della necessità di ripensare l'antirazzismo e di<br />
abbandonare la funzione rituale e il significato strettamente commemorativo di<br />
quest'ultimo. 28<br />
L'argomento è chiaro, anche se espresso in modo forse troppo radicale. Non è affatto detto che<br />
tutto l'antirazzismo classico, elaborato in risposta alle teorie sull'inuguaglianza biologica e sul<br />
naturale ordine gerarchico delle razze, sia da buttare; non è detto che i vecchi argomenti culturalisti<br />
e relativisti siano colpevoli di "connivenze" con il razzismo per il solo fatto di esser stati<br />
strumentalmente usati dai nuovi teorici della xenofobia. Tuttavia, il problema che Taguieff pone è<br />
reale: i vecchi argomenti non bastano più, e risultano anzi fortemente ambigui. L'antropologia<br />
culturale, che per buona parte del secolo è stata baluardo dell'antirazzismo relativista, risente<br />
particolarmente di tutto ciò. I testi classici che essa ha opposto al razzismo, da Modelli di cultura di<br />
Ruth Benedict a Razza e storia di Lévi-Strauss, rischiano di divenire oggi armi nelle mani del<br />
"nemico". Che fare, dunque?<br />
Mi si consenta di proseguire con una ulteriore citazione da Taguieff:<br />
L'antirazzismo non può limitarsi all'indignazione morale retrospettiva e all'anatema<br />
commemorativo se non per squalificarsi, collaborando alla propria scomparsa per la<br />
mancanza di "razzisti" conformi all'identikit consueto. Né i Gobineau né gli Hitler<br />
possono oggi esser trovati lì dove li si cerca, e i nuovi razzisti non somigliano più a<br />
queste figure del passato. L'antirazzismo militante deve finalmente cessare di<br />
commettere degli errori tattico-strategici, il principale dei quali è quello di sbagliare<br />
nemico, di non identificare il nuovo vero nemico, e di continuare a prendere come<br />
propri obiettivi i luoghi ripugnanti della memoria. 29<br />
Anche qui, il tono di Taguieff mi pare eccessivo. Egli sottovaluta forse il ruolo della memoria del<br />
passato e della celebrazione rituale: se è la memoria della Shoah ciò a cui si riferisce parlando di<br />
"indignazione morale retrospettiva" e di "anatema commemorativo", mi pare che non ne comprenda<br />
il giusto peso. Il fatto che la memoria del passato non sia sufficiente non implica che non sia<br />
necessaria: troppo spesso la cronaca ci rammenta come quelle "figure del passato" non siano poi<br />
27 Ibid., p. 69<br />
28 Ibid., p. 50<br />
29 Ibid.
così lontane (dal caso Haider alle periodiche “scoperte” della vitalità del neonazismo in Europa).<br />
Ma credo che il rischio di sbagliare nemico cui Taguieff fa cenno abbia un altro e più importante<br />
significato: si riferisce al rischio, per l'antirazzismo, di mettere in atto le stesse procedure di<br />
stigmatizzazione, di costruzione di un nemico assoluto e astratto - il "razzista" - tipiche del pensiero<br />
razzista stesso.<br />
Il "razzista" diviene figura negativa centrale di un grande mito repulsivo, seguace del Male<br />
assoluto, in un modello dicotomico che interpreta le vicende del mondo come scontro tra un Male<br />
assoluto e un Bene assoluto. Si sviluppa cioè un antirazzismo dogmatico, cui si aderisce su base<br />
meramente ideologica e rituale. In uno scritto precedente a quello finora citato, Taguieff scriveva<br />
che<br />
è un paradosso ormai comune dell'antirazzismo il fatto che i suoi sostenitori rovescino<br />
sull'avversario "razzista" i modi di rappresentazione e di stigmatizzazione che gli attribuiscono. Si<br />
pensi a espressioni come "Sporco razzista !", o come in Francia si è talvolta detto, "Gasiamo i<br />
lepenisti!". Gli spiriti antirazzisti sono impregnati di razzismo. 30<br />
Il rischio non è dunque solo combattere nemici che non ci sono più, ma anche scegliersi nuovi<br />
nemici su basi puramente ideologiche. Mi pare si tratti di un rischio estremamente reale per un certo<br />
antirazzismo militante, troppo preoccupato di dividere il mondo in buoni e cattivi. Ma è un rischio<br />
anche per l'analisi culturale del razzismo. Un solo esempio. Un importante filone di studi degli<br />
ultimi decenni è l'analisi retorica del discorso razzista. Dovendo scoprire un razzismo dissimulato e<br />
non esplicito, gli studiosi mettono a punto sofisticati strumenti d'indagine e vanno a cercarne le<br />
manifestazioni nei luoghi apparentemente più innocenti, nelle strutture della "conversazione"<br />
quotidiana, nei messaggi delle news televisive o della pubblicità, nell'umorismo o nei giornaletti per<br />
bambini, nei libri di testo scolastici e così via. 31 I risultati sono molto interessanti: un discorso<br />
comune che per lo più si dichiara antirazzista risulta di fatto impregnato di stereotipi, di pregiudizi,<br />
di valutazioni essenzialiste e stigmatizzanti verso gli altri (soprattutto, per quanto riguarda Italia ed<br />
Europa, verso gli immigrati "extracomunitari"). Valutazioni meno crude ed esplicite, ma in<br />
definitiva non troppo diverse da quelle che dominavano l'immaginario collettivo in epoca<br />
colonialista.<br />
Ogni studio che ci mostra la diffusione, in estensione come in profondità, di questo sostrato di<br />
pregiudizi, non manca di stupirci, e di mettere in crisi la nostra poco fondata convinzione di vivere<br />
all'interno di una cultura aperta, tollerante, sempre pronta a rispettare e valorizzare l'alterità. Tutto<br />
quanto può scalfire questa ingenua e autoindulgente immagine di noi stessi è certamente salutare.<br />
Tuttavia, vi sono in questi studi degli aspetti discutibili: almeno due di essi saltano immediatamente<br />
agli occhi. Il primo problema è per così dire la forza eccessiva degli strumenti analitici messi in<br />
campo: essi funzionano troppo bene, e riescono a scoprire razzismo dietro ogni tipo di discorso.<br />
Nulla può resistervi. I messaggi che si presentano esplicitamente come antirazzisti sono i preferiti<br />
di questo tipo di analisi: applicando ad essi interpretazioni ancor più raffinate, si dimostra come la<br />
loro struttura retorica profonda sia connotata da un più essenziale razzismo. Le analisi compiute da<br />
van Dijk sulla conversazione quotidiana e sulle notizie giornalistiche e televisive riguardanti<br />
l'immigrazione sono appunto di questo tipo: assai penetranti da un lato, ideologiche e pregiudiziali<br />
dall’altro. Partendo dall’assunto che l’intero universo della comunicazione di massa e della<br />
conversazione quotidiana è un meccanismo di trasmissione di pregiudizi razziali, funzionali alle<br />
politiche xenofobe dei governi democratici, è possibile dimostrare che qualsiasi discorso preso in<br />
30 P.-A. Taguieff, “Riflessioni sulla questione antirazzista”, trad. it. in Problemi del socialismo, 2, n.s. 1989, p.26<br />
31 L’autore probabilmente più rappresentativo di questo filone di studi è probabilmente Teun A. van Dijk, di cui si può<br />
vedere in traduzione italiana Il discorso razzista. La riproduzione del pregiudizio nei discorsi quotidiani, Messina,<br />
Rubbettino, 1994. Nel panorama antropologico italiano sono importanti i lavori di Clara Gallini, Giochi pericolosi.<br />
Frammenti di un immaginario alquanto razzista, Roma, Manifestolibri, 1996 e Paola Tabet, La pelle giusta, Torino,<br />
Einaudi, 1997.
esame ha finalità razziste, palesi o nascoste. Non c’è limite alle possibilità dell’interpretazione: anzi,<br />
quanto più un discorso si proclama antirazzista, più subdola e profonda è la sua intenzione razzista.<br />
Ci si può chiedere se sia possibile almeno immaginare un messaggio - un articolo di giornale, un<br />
servizio televisivo - che non risulti razzista secondo quel metodo interpretativo: e ho l'impressione<br />
che la risposta sarebbe negativa. In altre parole, si dà l’avvio alla caccia al discorso razzista senza<br />
stabilire in anticipo i requisiti minimi di un discorso non-razzista. Inoltre, come in molti sistemi<br />
teorici “chiusi”, ogni critica alle interpretazioni proposte può esser respinta sulla base di<br />
un’attribuzione di razzismo (proprio come si usava deridere come “borghesi” le critiche al<br />
marxismo, o attribuire le obiezioni alla psicoanalisi alle “resistenze inconsce” degli interlocutori).<br />
Se è così, tralasciando ogni considerazione di validità epistemologica, si può almeno dire che questa<br />
non sembra una strada molto promettente per riconoscere i "veri nemici".<br />
Il secondo problema posto dall'analisi del discorso razzista è la sua tendenza a non distinguere<br />
diversi livelli del pregiudizio: in particolare, a porre sullo stesso piano l'etnocentrismo e il razzismo<br />
vero e proprio, i pregiudizi depositati nel linguaggio dagli enunciati consapevolmente e<br />
aggressivamente discriminatori. E' vero che la distinzione può essere poco chiara in molti casi, e<br />
che i pregiudizi più profondi e pericolosi sono spesso proprio quelli più invisibili e inconsapevoli,<br />
incardinati in usi linguistici considerati come "naturali". E' vero anche che il richiamo a naturali<br />
tendenze etnocentriche può essere usato come giustificazione di reali atteggiamenti discriminatori.<br />
E tuttavia, non si può far coincidere l'analisi del discorso razzista con il rilevamento degli aspetti<br />
etnocentrici della nostra cultura, non foss'altro perché questi ultimi sono troppo numerosi e<br />
pervasivi. La cultura occidentale (come molte altre) si è costituita storicamente attorno alla<br />
distinzione di un ambito della "civiltà" da quello della "barbarie", della "normalita" dalla<br />
"anormalità", del "buon gusto" dal "cattivo gusto" e così via. Tali distinzioni, che informano<br />
profondamente la nostra esperienza quotidiana del mondo e della socialità e stanno alla base di<br />
grandi apparati simbolici, non hanno ovviamente nulla di "naturale": si sono anzi costituite in stretta<br />
relazione con la storia dell'Occidente e con le sue pratiche di dominio sugli altri. Hanno certamente<br />
a che fare con secoli e forse millenni di discriminazione e persecuzione, con il colonialismo, lo<br />
schiavismo, il razzismo. La loro diffusione ci dice molto sulla storia dell'Occidente (per inciso,<br />
questa stessa categoria è ovviamente etnocentrica); ma la stessa profondità del loro radicamento le<br />
rende inadatte a distinguere nell'attualità gli atteggiamenti razzisti da quelli non razzisti.<br />
Prendiamo un esempio. L'opposizione bianco-nero è per noi densa di connotazioni estetiche,<br />
morali ed emotive strettamente collegate ai temi della diversità etnica e potenzialmente razziste. Al<br />
bianco si associano la purezza, l'innocenza, il bene, al nero il male, il peccato, la sporcizia e<br />
l'impurità, la paura. Si minacciano i bambini con storie sull' "uomo nero"; si rappresenta il diavolo<br />
come un essere nero o scuro, e così via. E' ovvio che tali connotazioni sono prodotti di popoli di<br />
pelle chiara che storicamente hanno sottomesso e sfruttato popoli di pelle scura; ed è altrettanto<br />
evidente che questo ampio sistema di rimandi simbolici si proietta oggi sui nostri rapporti con gli<br />
immigrati di colore. E' importante analizzare quanto a fondo agiscano questi meccanismi nel nostro<br />
linguaggio e nel nostro senso comune, che in virtù di questa consapevolezza possono mutare con<br />
relativa rapidità e farsi, per così dire, politicamente più corretti. Ma l'ampia diffusione di simili<br />
connotazioni simboliche non può da sola rappresentare un indicatore di razzismo ideologico nel<br />
senso di Taguieff, cioè di meccanismi di riduzione essenzialista degli altri, di stigmatizzazione e di<br />
barbarizzazione; tanto meno, può rappresentare un indicatore di razzismo pratico, vale a dire di<br />
dominanti tendenze all'esclusione, alla segregazione, alla persecuzione violenta.<br />
In altre parole, le analisi del discorso razzista sembrano usare talvolta reti a maglie troppo strette,<br />
che catturano ogni tipo di pesce, e non sono in grado di discriminare il "vero nemico" da quegli<br />
atteggiamenti che, ispirati da un reale rispetto verso gli altri e da sentimenti autenticamente<br />
egalitari, non riescono tuttavia ad affrancarsi da quella rete di pregiudizi etnocentrici che pervade in<br />
profondità il nostro linguaggio e il nostro immaginario.<br />
7. Abbandonare l’identità culturale?
Per concludere, vorrei tornare <strong>all'antropologia</strong> culturale. Principale sostenitrice, per gran parte del<br />
Novecento, dell'approccio differenzialista e relativista contrapposto al razzismo biologico e<br />
gerarchizzante, l'antropologia sta oggi attraversando un periodo di profonda revisione concettuale e<br />
teoretica. La sua idea di un mondo suddiviso in un numero finito, per quanto ampio, di unità etnicoculturali<br />
discrete, distintive, simmetriche e per certi aspetti eticamente incommensurabili (nel senso<br />
di irriducibili a criteri di giudizio sovra-culturali), non sembra più un buon modello per pensare la<br />
diversità. Proprio mentre le categorie di "etnia" e "cultura" entravano a far parte del senso comune,<br />
l'antropologia ne sviluppava una profonda critica - in parte come reazione al loro uso strumentale in<br />
funzione neorazzista, in parte per la loro inadeguatezza di fronte ai fenomeni della globalizzazione e<br />
del meticciato culturale che caratterizzano la fine del ventesimo secolo. Negli ultimi vent'anni, gli<br />
studi antropologici si sono prevalentemente preoccupati di contrapporsi alle concezioni essenzialiste<br />
e naturalistiche di etnie e culture. Non esistono essenze etniche e culturali pure e oggettive,<br />
rintracciabili per così dire in natura. Se l'antropologia ha accreditato a lungo questo punto di vista,<br />
per una propria distorsione epistemologica, si tratta oggi di recuperare il terreno perduto e di<br />
decostruire tali concetti; si tratta cioè di mostrare come le identità etniche e culturali risultino<br />
sempre da processi storicamente contingenti, siano il frutto di pratiche sociali consapevolmente<br />
guidate da agenti particolari in riferimento a particolari interessi.<br />
Gli esempi sopra considerati - conflitti etnici, leghismo, razzismo differenzialista - non<br />
rappresenterebbero usi anomali, degenerati o meramente strumentali del vocabolario dell'etnicità. Si<br />
tratterebbe anzi di casi tipici e rivelatori. Alcuni agenti sociali vogliono far credere alla presenza di<br />
differenze etniche astoriche e irriducibili, che determinerebbero inevitabilmente strategie e conflitti<br />
politici. L'antropologia, con il suo linguaggio culturalista, è a lungo caduta in questo tranello,<br />
accreditando ingenuamente le pretese etniche. Si tratta oggi di cambiare rotta, riconoscendo un<br />
ordine delle cose esattamente inverso: interessi e conflitti in senso lato politici determinano<br />
l'accentuazione e persino la creazione di strategie di differenziazione etnica. Per riprendere<br />
un'affermazione di Ugo Fabietti, non di etnie o identità etniche è corretto parlare, bensì di "processi<br />
di etnicizzazione voluti o favoriti dall'esterno oppure dagli stessi gruppi che competono, in<br />
determinate circostanze sempre circoscrivibili sul piano storico, per l'accesso a determinate risorse<br />
materiali e simboliche" 32 . In altre parole: non esistono identità etniche pure e autentiche, e il<br />
linguaggio dell'etnicità rappresenta sempre una vernice ideologica che copre più profonde e<br />
strutturali dinamiche di tipo economico e politico.<br />
Ma di fronte a questa critica o auto-critica, ormai ampiamente diffusa nel discorso antropologico,<br />
si aprono due possibili e molto diversi atteggiamenti. Da un lato, la critica sembra sfociare nella<br />
completa dissoluzione del linguaggio dell'etnia e della particolarità culturale nel linguaggio<br />
dell'ecomomia politica, considerato come l'unico reale. Le rivendicazioni etniche e identitarie non<br />
sarebbero altro che strategie consapevolmente e strumentalmente adottate all'interno di scontri di<br />
potere e di controllo delle risorse economiche. Per quanto gli attori sociali avvertano come reale la<br />
propria o l'altrui etnicità, ne siano cioè investiti cognitivamente ed emotivamente, essa mantiene<br />
nondimeno carattere di "falsa coscienza" - non fa parte delle condizioni strutturali che determinano i<br />
conflitti e i comportamenti sociali, delle condizioni che in definitiva muovono la storia.<br />
Dall'altro lato, tuttavia, la critica alla naturalizzazione dell'identità etnica non contrasta<br />
necessariamente con la valorizzazione delle peculiarità culturali locali, e con la convinzione della<br />
loro irriducibilità rispetto al lessico politico-economico. Alcuni antropologi - come Clifford Geertz,<br />
per citare il nome più noto - pensano che sia vero esattamente il contrario: e cioè che per<br />
comprendere le complesse vicende del mondo attuale, con i processi di globalizzazione economica<br />
e culturale da un lato, e dall'altro l'esplosione di vecchi e nuovi particolarismi locali di tipo etnico,<br />
politico e religioso, occorra integrare le classiche categorie della politica con quelle dell'analisi<br />
culturale. In questa prospettiva le differenze culturali, per quanto disperse caleidoscopicamente e<br />
32 U. Fabietti, L’identità etnica, cit., p.19
non riducibili a identità compatte, stabili ed esclusive, mantengono una loro concretezza<br />
antropologica. L'esser nati in un certo luogo, parlare una lingua, credere in una religione e così via<br />
non sono residui di particolarismo che vengono a turbare la razionalità della sfera politica: sono<br />
invece elementi antropologicamente costitutivi di cui la teoria politica deve imparare ad occuparsi.<br />
Scrive dunque Geertz che abbiamo bosogno di una nuova politica:<br />
una politica che nell’autoaffermazione etnica, religiosa, di razza, linguistica o regionale<br />
non veda una mancanza di ragionevolezza arcaica o innata, da reprimere e da superare,<br />
una politica che non tratti questi generi di espressione collettiva come una spregevole<br />
follia o un abisso buio, ma sappia invece affrontarli come affronta la disuguaglianza,<br />
l’abuso di potere e altri problemi sociali. 33<br />
Dunque, si configura una fondamentale contrapposizione tra chi ritiene che l'analisi politica debba<br />
affinarsi sviluppando una sensibilità antropologica per le differenze e le identità culturali, e chi, al<br />
contrario, pensa che l'antropologia stessa debba esser depurata dal linguaggio vago ed equivoco<br />
dell'identità, per volgersi alle più concrete e reali dinamiche di potere che regolano i rapporti tra<br />
gruppi umani. Questa contrapposizione, che mi sembra dominare l'attuale dibattito antropologico,<br />
poggia su modi radicalmente diversi di intendere il soggetto della cultura e della storia, vale a dire<br />
l'agente umano. Da un lato si presuppone un agente umano astratto, universale, tendenzialmente<br />
cosmopolita, mosso da una razionalità in senso lato economica, rispetto alla quale ogni<br />
rivendicazione locale di identità appare come residuo di irrazionalità oscurantista e strumentale.<br />
Dall'altro, si sottolinea l'irriducibile pluralità delle culture e delle appartenenze etniche come<br />
costitutiva della soggettività umana: si pensa a una comunità che, come scriveva Lévi-Strauss, si<br />
realizza non in astratto ma all'interno e per la mediazione di culture particolari. 34<br />
Trovo, per concludere, che tutto questo ci riporti a ridosso del problema di una nuova fondazione<br />
teorica dell'antirazzismo. Quest'ultimo è oggi dibattuto tra un quadro di riferimento universalista e<br />
uno relativista - o perlomeno, come si è espresso Geertz, "anti-anti-relativista". 35 I sostenitori della<br />
prima ipotesi reagiscono al razzismo differenzialista assumendo un modello forte di comune<br />
umanità come riferimento; il dialogo, la tolleranza e il rispetto tra gruppi, etnie, culture diverse<br />
possono fondarsi solo sul comune riconoscimento di principi etici universali, come i fondamentali<br />
diritti umani. Questa prospettiva assume la sostanziale uniformità morale di tutti gli esseri umani, e<br />
interpreta i particolarismi come ostacoli storicamente contingenti che soggetti interessati<br />
frappongono al progetto di una integrale eguaglianza. Così ogni autocompiacimento particolaristico,<br />
ogni valorizzazione delle differenze e ogni "politica del riconoscimento" 36 , non importa con quanta<br />
buona fede siano sostenute, finiscono per apparire politicamente regressive o oggettivamente filorazziste:<br />
un principio, questo, che porta talvolta alla condanna dell'intera disciplina dell'antropologia<br />
culturale e, ancora più a monte, delle principali tradizioni di pensiero scettico e anti-universalista 37 .<br />
Il problema, con questo approccio, è chi e come stabilisce i principi universali che fondano la<br />
comune umanità. Come mettere d'accordo gli universalismi concorrenti di culture diverse? Come<br />
formulare principi universali in modo non-etnocentrico, oppure convincere gli altri che il nostro<br />
etnocentrismo è migliore del loro? Può sembrare si tratti di astrusità filosofiche, ma non è così.<br />
Basta considerare qualche esempio di rapporti pratici e di convivenza fra culture - cristiane e<br />
islamiche, poniamo - per convincersene. In linea di principio, il riconoscimento della diversità pone<br />
limiti ai principi universali (i quali, per definizione, non possono accettare eccezioni);<br />
33 C. Geertz, Mondo globale, mondi locali, cit., p. 52<br />
34 C. Lévi-Strauss, Razza e storia, cit., p. 107<br />
35 C. Geertz, “Anti-anti-relativismo”, trad it in Il mondo 3, 1 (2), 1994, pp. 72-86<br />
36 Per un approfondimento della nozione di politica del riconoscimento si veda J. Habermas – C. Taylor,<br />
Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento , trad. it. Milano, Feltrinelli, 1998<br />
37 Una posizione tanto radicale quanto densa di ambiguità in questo senso mi appare quella di V. Stolcke,<br />
“Talking culture. New boundaries, new rethorics of exclusion in Europe”, cit.
l'universalismo intransigente, d'altra parte, pone limiti inevitabili alla tolleranza per i<br />
particolarismi 38 . Dovremmo allora chiederci se sia possibile costruire un antirazzismo in grado di<br />
salvare al contempo l'istanza universalistica e la politica del riconoscimento; in grado di non<br />
rinunciare all'impegno per la universalizzazione di fatto di certi diritti, e neppure all'ideale di una<br />
comune umanità integralmente realizzata, senza per questo ignorare il fatto che non esistono<br />
"cittadini del mondo", e che le persone vivono all'interno di condizioni locali caratterizzate talvolta<br />
da grumi irriducibili di differenze culturali.<br />
38 Si veda su questi punti A. Santiemma (a cura di), Diritti umani. Riflessione e prospettiva antropologica, Roma,<br />
Editrice Universitaria La Goliardica, 1999.: in particolare, per una critica agli assunti universalisti, il saggio d P.<br />
Clemente, “La muffa la sentono gli stranieri. Qualche nota perplessa sui «diritti umani» degli immigrati”, ivi, pp. 57-74.
LA COMPARAZIONE FRA LE CULTURE<br />
(edito in P. Clemente, C. Grottanelli, a cura di, Comparativa/mente, Firenze, SEID, 2009, pp. 105-<br />
44)<br />
0 . [<strong>Introduzione</strong>]<br />
L’antropologia è una forma di sapere intrinsecamente comparativo. Si basa sul principio che per<br />
conoscere noi stessi (o più in generale, secondo la sua etimologia, gli “esseri umani”) non basta<br />
guardarsi dentro, attraverso un metodo introspettivo di tipo cartesiano. Occorre invece volgere lo<br />
sguardo fuori da noi e lontano da noi, verso persone e gruppi sociali diversi, e mettere a confronto la<br />
loro razionalità, la loro morale, i loro rapporti politici e istituzionali con i nostri. Maggiore è la<br />
diversità, maggiore potrà essere lo spettro della nostra comprensione. E’ il metodo che è stato<br />
chiamato del “giro lungo” o della “via esterna” – in contrapposizione al “giro breve” e alla “via<br />
interna” che caratterizzano invece, da Platone a Kant e oltre, l’approccio speculativo dominante<br />
nella filosofia occidentale (Kluckhohn 1949, Remotti 1990).<br />
Certo, in un’accezione così generale, il giro lungo e lo stile comparativo non sono affatto<br />
invenzioni dell’antropologia: sono invece radicati in una tradizione di pensiero che risale perlomeno<br />
ad Erodoto. L’antropologia cerca però di uscire dall’uso generico e impressionistico della<br />
comparazione e di farne un metodo scientifico. Insieme al concetto di cultura, il metodo<br />
comparativo è infatti il cruciale punto di partenza dell’antropologia al momento del suo costituirsi<br />
in disciplina scientifica, nella seconda metà dell’Ottocento; e, in tutta la sua storia, resterà uno dei<br />
principali temi di discussione e, spesso, di scontro metodologico. Quali sono le condizioni e i limiti<br />
(spaziali, storici, socio-culturali) della comparazione? Che cosa si può comparare – vale a dire,<br />
quali sono le appropriate “unità” del processo comparativo? Ai risultati della comparazione si può<br />
attribuire il valore di generalizzazioni, di spiegazioni e persino di leggi scientifiche? Attorno a<br />
questi problemi le diverse scuole antropologiche si sono profondamente divise, teorizzando e<br />
soprattutto praticando versioni molto diverse del metodo comparativo. Nella prima parte di questo<br />
capitolo ripercorreremo alcuni momenti cruciali del dibattito sulla comparazione nella storia degli<br />
studi antropologici. Nella seconda parte, faremo invece il punto sullo stato attuale della discussione<br />
e sugli usi della comparazione nella produzione etnografica ed antropologica contemporanea.<br />
PARTE PRIMA<br />
1.1 [Le basi del metodo comparativo]<br />
Come detto, il metodo comparativo rappresenta lo strumento principe della prima grande scuola<br />
antropologica, quella tardo ottocentesca di ispirazione evoluzionista. E’ attraverso la comparazione<br />
che gli antropologi dell’epoca pensano di poter trasformare la loro disciplina in una vera e propria<br />
scienza, in grado di andar oltre la pura descrizione dei fenomeni culturali e di scoprire le leggi che<br />
ne regolano il funzionamento e lo sviluppo. In cosa consiste dunque il metodo comparativo? Prima<br />
del suo uso antropologico, esso era stato sviluppato tra XVIII e XIX secolo almeno in due grandi<br />
ambiti disciplinari: da un lato le scienze naturali, dall’altro gli studi di linguistica storica e di storia<br />
delle religioni. Partiamo dalle prime. Scienze come la biologia, la geologia e la paleontologia si<br />
erano completamente rifondate tra Settecento e Ottocento sulla base di un progetto di ricostruzione<br />
della “storia naturale” del pianeta e delle specie viventi, individuandone l’origine e ripercorrendo i<br />
processi di sviluppo evolutivo che avevano condotto alle forme attuali. Per un progetto del genere,<br />
il grande problema era ovviamente la mancanza o almeno la scarsità di documentazione riguardante<br />
il passato. Come si esprimeva il geologo Charles Lyell, la storia del mondo viene registrata in modo<br />
imperfetto . Tema, questo, ripreso da Charles Darwin come fondamento epistemologico della teoria<br />
evoluzionista. “For my part, following Lyell’s metaphor, I look at the natural geological record, as<br />
history of the world imperfectly kept, and written in a changing dialect; of that history we possess
the last volume alone, relating only to two or three countries. Of this volume, only here and there a<br />
short chapter has been preserved; and of each page, only here and there a few lines” (Darwin 1861;<br />
v. Fabiam 1983, pp. 11-14).<br />
Dunque, in un lungo e continuativo processo di sviluppo, noi troviamo tracce solo di pochi<br />
momenti, dispersi nel tempo e nello spazio, che danno l’impressione di discontinuità e impediscono<br />
di “leggere il testo”. Come riempire i vuoti? Come in un gigantesco crittogramma, possiamo partire<br />
dall’analisi dei dati più completi per ricavare un codice, da applicare poi alle parti meno<br />
documentate (i precedenti volumi, secondo la metafora darwiniana). Si possono così rendere<br />
intelligibili dati in sé dispersi e frammentati. Ciò implica però dei presupposti fondamentali: in<br />
primo luogo, il presupposto cosiddetto “uniformista”, secondo il quale il corso dell'evoluzione<br />
segue alcune grandi leggi che restano invariate nel tempo, e si attua in modo graduale e<br />
continuativo. Inoltre, il principio per cui l'evoluzione non si articola in catene di singoli e irripetibili<br />
eventi, ma in fasi o stadi che sono dappertutto gli stessi. E’ questo il fondamento del metodo<br />
comparativo: dati provenienti da ogni punto del tempo e dello spazio possono essere accostati e<br />
gettar luce gli uni sugli altri, completarsi a vicenda, in quanto parte di un unico grande disegno.<br />
E’ importante tener conto di due aspetti di questo uso della comparazione, che influenzeranno<br />
enormemente l’antropologia. Il primo è la struttura tabulare del tempo evolutivo. Il tempo non è il<br />
capriccioso incedere di una storia sempre incerta e irripetibile, ma l’uniforme svolgimento di una<br />
successione logicamente fondata di fasi. Solo che fra il trascorrere cronologico del tempo e lo<br />
sviluppo logico-evolutivo non vi è perfetta coincidenza, e può accadere che nello stesso momento<br />
storico convivano fasi diverse dell’evoluzione. Questo è un punto cruciale nella biologia<br />
darwiniana, che può inferire i più antichi capitoli della storia naturale a partire dall’osservazione di<br />
specie attuali che appaiono però evolutivamente arretrate, o anche soltanto di tratti morfologici<br />
degli organismi viventi che sembrano non avere alcuna funzionalità attuale e giustificarsi soltanto in<br />
relazione a fasi evolutive precedenti. Un ruolo analogo giocherà, nell’antropologia ottocentesca, lo<br />
studio dei “primitivi attuali”, considerati come testimonianze viventi di più antichi stadi<br />
dell’evoluzione culturale, nonché lo studio delle sopravvivenze (survivals), cioè tratti presenti nelle<br />
culture attuali ma spiegabili solamente in riferimento al passato (l’uso di coprirsi la bocca quando<br />
sbadigliamo è un esempio semplice ed efficace del concetto ottocentesco di sopravvivenza. Non c’è<br />
nessuna spiegazione apparente per questa norma di comportamento nella cultura moderna: essa si<br />
spiegherebbe invece in riferimento all’antica credenza magico-religiosa e al connesso timore che<br />
l’anima possa uscire dal corpo attraverso gli orifizi. Scomparsa la credenza con il progredire<br />
dell’evoluzione culturale, è tuttavia rimasto l’uso protettivo privato del suo valore funzionale, come<br />
un vero e proprio fossile).<br />
Dunque, il presente è costellato di segni del passato, che si nascondono sotto la più immediata<br />
superficie delle cose, oppure nelle lontananze geografiche (come le Galapagos per Darwin o, per gli<br />
antropologi, gli aborigeni australiani, considerati all’epoca le popolazioni più primitive – dunque<br />
evolutivamente più distanti - al mondo). Al tempo tabulare corrisponde, come ha osservato J.<br />
Fabian, una tendenza a comprendere certe differenze naturali o culturali nel mondo attuale in<br />
termini di relazioni temporali (prima/dopo, arretratezza/progresso): cosicché “dispersal in space<br />
reflects directly, which is not to say simply or in obvious ways, sequence in Time” (Fabian 1983, p.<br />
12). E’ questa corrispondenza delle relazioni spaziali e temporali che consente l’ottica comparativa<br />
di larghissimo (praticamente infinito) respiro che l’evoluzionismo impiega. Un secondo importante<br />
aspetto di un metodo comparativo così inteso è la sua aspirazione a scoprire relazioni causali fra i<br />
fenomeni. L’accostamento di fatti provenienti da luoghi e tempi diversi produce generalizzazioni, e<br />
da queste si può risalire per via induttiva a rapporti causali e infine alle grandi leggi che guidano lo<br />
sviluppo evolutivo. La comparazione fonda così un sapere di carattere nomotetico, che parte da fatti<br />
particolari per giungere alla scoperta di leggi universali. In realtà, nel campo dei fenomeni culturali<br />
lo stabilire relazioni causali è molto più complesso che nel campo naturalistico, per la maggiore<br />
difficoltà di tenere sotto controllo le variabili. Tuttavia, il comparativismo antropologico sarà<br />
fortemente permeato da istanze causaliste: e, come vedremo, le critiche che esso riceverà sono
prevalentemente critiche al suo linguaggio causale e deterministico. Anche nei grandi dibattiti<br />
novecenteschi, la comparazione sarà sistematicamente associata a un’idea di scienza nomotetica; al<br />
contrario le metodologie idiografiche (che pensano cioè l’antropologia come un sapere su contesti<br />
localmente e storicamente situati, non generalizzabili e non riconducibili a leggi universali)<br />
tenderanno a scartare la comparazione. Un equivoco, questo, dagli effetti disastrosi: come vedremo<br />
oltre, metodo comparativo e approccio causalista non sono necessariamente coestensivi.<br />
Come detto, oltre alle scienze naturali, il metodo comparativo viene sviluppato tra Settecento e<br />
Ottocento anche nell’ambito degli studi linguistici, filologici e storico-religiosi. Anche in questo<br />
caso, la comparazione è lo strumento che dovrebbe permettere di ovviare alle lacune nella<br />
documentazione del passato. In particolare, il boom della linguistica comparativa è legato<br />
all’affermarsi dell’ipotesi indoeuropea: all’idea cioè di una lingua originaria da cui sarebbero<br />
storicamente scaturiti il greco e il latino, il celtico, il gotico e il sanscrito. Mancando qualsiasi<br />
documentazione di una simile lingua, essa può esser ricostruita per illazione solo attraverso la<br />
sistematica comparazione delle lingue esistenti o comunque documentate, in cerca di somiglianze<br />
che non potrebbero esser spiegate se non da una comune derivazione. Suggerita per la prima volta<br />
nel 1786 da W. Jones, l’ipotesi indoeuropea si afferma largamente nell’Ottocento; e l’operazione<br />
svolta per la linguistica viene replicata per altri campi della cultura. Soprattutto gli studiosi che si<br />
occupano di mitologia e di materiali storico-religiosi, come Max Müller, rappresenteranno una<br />
importante cerniera tra filologia storico-comparativa e antropologia.<br />
La matrice filologica del metodo comparativo è contigua a quella naturalistica, ma se ne<br />
differenzia per alcuni aspetti. In entrambi i casi la comparazione è volta a scoprire un’origine<br />
lontana e nascosta dei fenomeni. Tuttavia, nelle scienze naturali la ricerca dell’origine sta alla base<br />
della formulazione di relazioni causali e di leggi universali di sviluppo, mentre negli studi filologici<br />
l’obiettivo è l’interpretazione di testi, il chiarimento del significato di forme di espressione<br />
simbolica. In questo secondo caso, gli accostamenti comparativi sono posti al servizio di<br />
un’ermeneutica testuale più che di una logica della scoperta o della dimostrazione di una teoria<br />
scientifica. Si tratta di finalità dalle implicazioni epistemologiche molto diverse (anche se nel<br />
contesto positivistico del tardo Ottocento l’istanza interpretativa si maschera sotto un linguaggio<br />
scientista). L’antropologia le eredita entrambe, il che sta alla base di una tensione interna alla<br />
disciplina che ancora oggi è lontano dall’essere sciolta.<br />
1.2. [Il metodo comparativo in antropologia]<br />
L’antropologia culturale adotta dunque il metodo comparativo da un ampio spettro di discipline,<br />
sia scientifiche sia umanistiche, e ne esplora le possibilità fino ai limiti estremi. Lo applica infatti a<br />
ogni tipo di fenomeno culturale, non accontentandosi di raffronti mirati e circoscritti, e spingendo<br />
invece il livello di generalizzazione al di là di ogni confine spaziale e temporale. La comparazione<br />
che interessa agli antropologi ottocenteschi è di scala universale. Al principio uniformista essi<br />
aggiungono quello dell’unità intellettuale del genere umano (contro i pregiudizi razzisti che<br />
caratterizzano invece buona parte della cultura dell’epoca). Ma se gli esseri umani sono dotati della<br />
stessa attrezzatura cognitiva, in ogni tempo e in ogni luogo, e se l’evoluzione segue sempre la stessa<br />
linea di sviluppo, come si spiegano allora le differenze culturali? Come si spiega, ad esempio, lo<br />
spettacolare scarto tra le più avanzate culture occidentali e quelle dei popoli cosiddetti “primitivi”?<br />
La risposta è semplice: si tratta di differenti velocità evolutive. I “primitivi di oggi” si collocano in<br />
una fase più arretrata dell’evoluzione culturale: vivono nello stesso tempo storico della civiltà<br />
vittoriana, ma in un diverso tempo evolutivo. E proprio questo ne assicura la comparabilità. Anzi, in<br />
virtù di questa concezione tabulare del tempo, i primitivi di oggi corrispondono all’umanità arcaica,<br />
e ci forniscono quelle informazioni sul passato che i documenti storici e archeologici non possono<br />
mettere a disposizione.<br />
Per questi motivi, la comparazione evoluzionista non ha bisogno di esercitarsi all’interno di<br />
contesti omogenei e ben definiti: al contrario, accostare tratti culturali provenienti dai più distanti ed<br />
eterogenei contesti garantisce risultati più significativi e di più ampio profilo teorico.
L’evoluzionismo si distingue in ciò dagli studi di orientamento diffusionista. Anche questi ultimi<br />
usano la comparazione al fine di scoprire le origini di un certo fatto culturale; seguono tuttavia la<br />
tesi della monogenesi, secondo cui fatti culturali simili hanno sempre una ed una sola origine, dalla<br />
quale discendono attraverso processi di trasmissione nel tempo e nello spazio. La comparazione ha<br />
qui lo scopo di delineare processi storici di diffusione, nel tentativo di risalire fino all’ipotetico<br />
punto originario. La somiglianza morfologica tra due fatti culturali segnala la possibilità di una<br />
relazione storica, che dev’essere dimostrata ricostruendo una catena di trasmissione con il maggior<br />
numero possibile di anelli intermedi. L’evoluzionismo, al contrario, crede nella possibilità della<br />
poligenesi, cioè della nascita indipendente di fatti culturali simili, semplicemente in virtù del<br />
principio di uniformità. La comparazione non ha allora nessun bisogno di attenersi a criteri di<br />
contiguità spazio-temporale. Se si scoprono analogie, senza che vi sia la possibilità di contatto e<br />
trasmissione culturale, allora ci saremo avvicinati a qualcosa di molto profondo e molto universale.<br />
Prendiamo l’esempio delle credenze religiose, uno dei temi che più affascina e preoccupa<br />
l’antropologia ottocentesca. Come nasce la religione? Il problema è posto in tutta la sua ampiezza<br />
già nel primo grande libro che nel 1871 segna la nascita dell’antropologia culturale, Primitive<br />
Culture di E.B. Tylor. Per rispondere, Tylor procede più o meno così: prende un gran numero di<br />
credenze religiose dai più svariati contesti storico-sociali (dalle culture “primitive” alle civiltà<br />
antiche e classiche alla contemporaneità) e si chiede se c’è qualche elemento che tutte queste<br />
diverse credenze hanno in comune, una sorta di massimo comun denominatore dell’atteggiamento<br />
religioso. Crede di riconoscere questo elemento comune nell’idea di anima, e ne conclude che l’<br />
“animismo” è lo stadio originario, da cui tutte le altre forme di religione si sono evolute. Su questa<br />
base, può disporre l’universo delle credenze religiose in un ordine morfologico, da quelle più<br />
“semplici” a quelle più complesse: e poiché l’evoluzione procede dal semplice al complesso,<br />
l’ordine logico o morfologico deve corrispondere a quello cronologico o storico. Gran parte del<br />
libro di Tylor è così dedicato alla ricostruzione congetturale dei processi di sviluppo che portano da<br />
uno spoglio e primitivo animismo, attraverso una complicata serie di stadi intermedi, fino alle più<br />
“evolute” forme di monoteismo delle culture occidentali.<br />
Dello stesso tipo è il lavoro che altri studiosi dell’epoca compiono a proposito del matrimonio<br />
(J.F. McLennan), delle forme della parentela e della famiglia (L.H. Morgan), delle forme giuridiche<br />
(H.S. Maine) e così via. Ma il vero e proprio tour de force di questo comparativismo universalista è<br />
probabilmente The Golden Bough di James G. Frazer, un’opera uscita in diverse e sempre<br />
accresciute edizioni tra il 1890 e il 1913, fino ad assumere dimensioni enciclopediche (ma nota oggi<br />
soprattutto nella edizione abbreviata del 1922). Qui il punto di partenza non è (almeno in<br />
apparenza) un problema teorico, ma l’interpretazione di una enigmatica usanza documentata da<br />
autori classici nella Roma tardo-imperiale: la carica di “re del bosco”, sacerdote di un tempio di<br />
Diana, poteva essere ottenuta sfidando a duello e uccidendo il precedente sacerdote. Per<br />
comprendere il senso di questa pratica rituale, e di una serie di suoi elementi che sarebbe qui troppo<br />
lungo dettagliare, Frazer intraprende un percorso comparativo di incredibile ampiezza, allinenando<br />
centinaia e centinaia di “usanze” o “credenze” simili documentate nelle civiltà antiche, nelle culture<br />
primitive, nel folklore europeo dell’età moderna e contemporanea. Ne risulta l’affresco di una<br />
concezione magica del mondo, al cui centro sta il complesso mitico-rituale dell’uccisione e<br />
resurrezione di un dio (o di un re divino) che rappresenta la forza vitale e la fecondità della natura,<br />
la cui riproduzione ciclica deve essere aiutata magicamente. Le tesi frazeriane sulle origini magiche<br />
della cultura umana hanno lo stesso livello di generalità speculativa di quelle di Tylor. Ma il suo<br />
modo di procedere è in parte diverso. Le sue comparazioni sono vere e proprie pratiche<br />
interpretative. Accostando casi simili tratti dai contesti più diversi, egli crea configurazioni di senso<br />
che mostrano i fenomeni in una luce nuova. Ad esempio, nell’analizzare le feste del fuoco<br />
largamente diffuse nella cultura popolare europea, le pone accanto alle pratiche sacrificali del<br />
mondo antico, ai riti primitivi di fertilità, al tema del capro espiatorio e così via, costruendo grandi<br />
catene di somiglianze e differenze che ridefiniscono il significato dell’oggetto iniziale, portandoci a<br />
vederlo in una nuova luce. Questi accostamenti comparativi, occorre insistere, avvengono su base
analogica e non storico-filologica. Il loro scopo non è documentare processi reali di circolazione<br />
culturale, ma scoprire le profonde configurazioni di senso che si celano sotto la superficie di<br />
pratiche e oggetti culturali apparentemente banali e insignificanti. Attraverso il metodo<br />
comparativo, noi possiamo giungere a vedere l’ombra del sacrificio umano dietro le gioiose feste<br />
del fuoco, i temi della morte e della resurrezione dietro i più innocenti costumi natalizi o<br />
carnevaleschi, e così via. E’ questo aspetto della comparazione antropologica che, come vedremo,<br />
affascinerà la psicoanalisi e le avanguardie artistiche e letterarie del Novecento, che lo porranno al<br />
centro stesso della loro poetica (Dei 2001).<br />
1.3 [La comparazione modellizzante di Marcel Mauss]<br />
Troviamo un uso della comparazione di scala universale in un’altra grande scuola: quella francese<br />
comunemente definita come “sociologica”, che ha in Emile Durkheim il leader e in Marcel Mauss il<br />
principale esponente sul terreno antropologico. Soprattutto Mauss, in molti dei suoi saggi più<br />
famosi, utilizza e raffronta materiali tratti dai resoconti di etnologi, dalle culture classiche e da<br />
molte culture antiche, sia europee che orientali, con un’ampiezza che sembra avvicinarlo al metodo<br />
degli evoluzionisti. A differenza di questi ultimi, tuttavia, la straordinaria erudizione e la vastità dei<br />
riferimenti non è messa al servizio della ricerca delle origini, né della dimostrazione di grandi leggi<br />
di sviluppo. Il metodo di Tylor o Frazer consisteva nell’allineare il maggior numero possibile di<br />
esempi (o “prove”) a sostegno di semplici tesi o passaggi argomentativi. Ad esempio, si vuole<br />
mostrare come a un certo stadio dello sviluppo culturale sia diffusa la credenza nell’anima come<br />
animale che risiede nel corpo e che in certe situazioni critiche potrebbe sfuggire attraverso gli<br />
orifizi. Si enuncia la tesi e si procede quindi a “dimostrarla” allinenando decine o centinaia di<br />
esempi presi da ogni parte del mondo, da ogni epoca e da ogni tipo di fonti o testimonianza. Ciò<br />
che conta è il numero degli esempi: il che spiega il format tipico dei libri degli evoluzionisti, che è<br />
quello del trattato di dimensioni tendenzialmente enciclopediche. Mauss scrive invece saggi<br />
relativamente brevi, nei quali gli accostamenti comparativi non rispondono mai a una logica<br />
puramente cumulativa; essi sono volti piuttosto a rendere possibile l’analisi di una istituzione<br />
culturale come sistema.<br />
Possiamo comprendere meglio questo punto riferendoci a quello che è considerato il capolavoro<br />
di Mauss, un testo del 1924 intitolato Essai sur le don. Qui viene analizzata una tipologia di<br />
pratiche sociali o “prestazioni totali”, come l’autore le definisce, basate sul “dono” di oggetti di<br />
prestigio e sull’obbligo di ricevere e ricambiare ciò che viene offerto. Mauss procede analizzando<br />
esempi mirati di istituzioni di questo tipo, tratti da numerose aree culturali: parte con la Polinesia e<br />
la Melanesia, soffermandosi in particolare sul fenomeno del kula ring descritto da Malinowski nelle<br />
isole Trobriand; passa quindi alle culture indiane del nord-ovest americano, dedicando ampio spazio<br />
all’istituzione del potlach descritta da Boas fra i Kwakiutl. Ancora, procede analizzando il tema del<br />
dono (scambio in cui “si fondono persone e cose”) nel diritto romano antico, nel diritto indiano<br />
classico, in quello germanico, in quello celtico e cinese, concludendo con osservazioni sul destino<br />
del dono nelle società occidentali contemporanee. Dunque anche Mauss, come Tylor e Frazer, fa “il<br />
giro del mondo”; e anch’egli vuol mostrare l’universalità del tema del dono nelle culture umane, e<br />
anzi affermare una tesi generale sull’ “evoluzione sociale”, secondo cui le “prestazioni totali”<br />
dominano le culture e il diritto arcaico, lasciano delle tracce nella civiltà romana e in molte culture<br />
indoeuropee, e sono infine abbandonate nella modernità, con la netta distinzione tra diritti reali e<br />
diritti personali e quella fra obbligazione e dono (Mauss 1924, pp.240-1). Ma, come detto, gli<br />
accostamenti comparativi non sono affatto pensati come un accumulo di “prove”. La loro funzione<br />
è quella di evidenziare tratti del fenomeno culturale del dono che non emergerebbero interamente da<br />
un unico caso empirico. Ad esempio, il kula melanesiano fa risaltare il tema del prestigio sociale<br />
connesso al temporaneo possesso di certi beni che non sono soggetti a baratto o commercio; il<br />
potlach degli indiani nordamericani mostra il prestigio insito nello “spreco”, cioè nella distruzione<br />
rituale e socialmente ostentata di beni di grande valore economico; la credenza maori nello hau (lo<br />
spirito della cosa donata) mette in evidenza l’obbligo di contraccambiare i doni ricevuti e le
sanzioni che l’infrazione di questo obbligo può comportare. E così via. Nessun caso etnografico<br />
metterebbe da solo in luce tutti gli elementi che invece contribuiscono a definire il dono come<br />
sistema culturale: la combinazione comparativa consente invece di scorgere il sistema nella sua<br />
completezza.<br />
Si può obiettare che in questo modo il “dono” che Mauss descrive non è un fenomeno reale, ma<br />
una pura costruzione teorica. In effetti è proprio così: Mauss procede astraendo dai casi etnografici<br />
delle caratteristiche che vanno a costituire un modello. Nella prospettiva sociologica aperta da<br />
Durkheim o da Max Weber, la costruzione di simili modelli (o idealtipi, come li definiva Weber) è<br />
lo strumento principale delle scienze sociali e l’obiettivo delle procedure comparative.<br />
Naturalmente i modelli non si sostituiscono alla realtà empirica, ma si proiettano nuovamente su di<br />
essa consentendo (se il modello funziona) di vederne e comprendere caratteristiche che resterebbero<br />
altrimenti nascoste o in secondo piano. Il successo della categoria maussiana di dono nelle scienze<br />
sociali novecentesche dimostra se non altro la grande fecondità euristica del modello. Partendo da<br />
esso, vale a dire da un concetto astratto elaborato su base comparativa, alcuni autori contemporanei<br />
hanno potuto ad esempio mostrare la pervasività delle pratiche di dono nelle società occidentali di<br />
oggi, penetrando al di sotto delle ideologie ufficiali che leggono tutte le relazioni economiche nei<br />
termini del duplice sistema del mercato e dello stato (Godbout 1992).<br />
1.4 [la critica al metodo comparativo nell’antropologia novecentesca]<br />
Col Saggio sul dono ci siamo spinti fino agli anni ’20 del Novecento. Facciamo un passo indietro,<br />
per constatare come, a parte Mauss, le maggiori scuole antropologiche all’inizio del XX secolo si<br />
caratterizzano per una decisa reazione critica contro il metodo comparativo nella sua accezione<br />
universalista. Mi riferisco in particolare alla scuola nordamericana del “particolarismo storico”, il<br />
cui capostipite è Franz Boas, e agli studi britannici di orientamento funzionalista che fanno capo a<br />
personaggi come Bronislaw Malinowski e Alfred R. Radcliffe-Brown. Sono da un lato le pratiche di<br />
ricerca, dall’altro gli orientamenti teorici ad allontanare questi studi dalla comparazione di tipo<br />
universalista. Per quanto riguarda la ricerca, la nuova antropologia si lega indissolubilmente alla<br />
pratica della ricerca sul campo. Gli evoluzionisti ottocenteschi erano per lo più studiosi “da<br />
tavolino”: essi differenziavano nettamente il loro ruolo di teorici e comparativisti da quello dei<br />
ricercatori sul campo, i quali si riteneva non avessero bisogno di una particolare formazione<br />
scientifica e dovessero limitarsi a osservare e descrivere le forme culturali in modo neutrale e<br />
oggettivo. Nel Novecento le due figure si saldano invece strettamente insieme. Per comprendere<br />
un’altra cultura non basta averne conoscenza dall’esterno, attraverso altrui testimonianze: occorre<br />
invece viverla dall’interno, parlarne direttamente il linguaggio, comunicare con i suoi membri,<br />
avere esperienza delle sue istituzioni. D’altra parte, questa conoscenza diretta richiede una rigorosa<br />
formazione scientifica: per fare etnografia bisogna sapere dove e come guardare, ed essere in grado<br />
di trasformare pure esperienze vissute in fonti e documenti. La ricerca sul campo, nella versione che<br />
Malinowski chiamava “osservazione partecipante”, diviene il canone metodologico della nuova<br />
antropologia. Si tratta di una ricerca che privilegia lo specialismo areale, e che produce una scrittura<br />
di tipo monografico. I libri di antropologia abbandonano il format del trattato comparativo per<br />
assumere quello della monografia etnografica: vale a dire la descrizione e l’analisi non più di un<br />
tratto culturale specifico (p.es. la religione, o ancor più in dettaglio un certo tipo di credenza o<br />
rituale) nelle più svariate culture, ma di un unico contesto socio-culturale considerato in tutti i suoi<br />
aspetti, dall’economia, alle relazioni sociali, ai sistemi simbolici.<br />
Contesto è anche la parola chiave sul piano degli orientamenti teorici. E’ vero che la scuola<br />
americana e quella britannica muovono da assunti e metodologie assai diverse. La prima sviluppa<br />
un approccio idiografico alle culture, sostenendo la necessità di studiarle nella loro unicità e<br />
peculiarità storica; la seconda è interessata all’analisi sociologica dei sistemi culturali come entità<br />
sincroniche in qualche modo sottratte al tempo storico. Entrambe rivolgono tuttavia un’analoga
critica al comparativismo universalista. Non accettano in primo luogo le finalità stesse della<br />
comparazione di tipo ottocentesco, cioè la ricerca di ipotetiche origini e la formulazione di leggi<br />
generali dello sviluppo culturale. Ma soprattutto, sostengono che non è possibile comparare tratti<br />
culturali avulsi dal loro contesto di appartenenza. Infatti il significato di un tratto (un oggetto, una<br />
istituzione, una pratica, una forma simbolica) non può esser stabilito se non in riferimento al più<br />
complessivo sistema culturale di cui fa parte. La somiglianza morfologica, che per gli evoluzionisti<br />
fondava le catene comparative, da sola non ha alcun valore: oggetti simili possono rivestire<br />
significati completamente diversi in diversi contesti: solo un’etnografia specifica e mirata lo può<br />
stabilire.<br />
Boas marcava questo punto già in un famoso articolo del 1896, “The Limitations of the<br />
Comparative Method of Anthropology”, facendo notare come ad esempio le maschere in alcune<br />
culture servono come travestimento protettivo nei confronti degli spiriti; in altre sono indossate per<br />
terrorizzare le persone o gli spiriti stessi; in altre ancora per commemorare i morti; e così via ( Boas<br />
1896, p.132, cit. in Harris 1968, p. 348). La somiglianza degli oggetti non garantisce in sé la<br />
possibilità della generalizzazione: cosicché comparare le maschere non è possibile senza comparare<br />
le intere culture di riferimento. Allo stesso modo, Malinowski rifiuterà il concetto di sopravvivenza:<br />
solo l’incomprensione del significato o della funzione di un oggetto o di una pratica (si pensi ancora<br />
all’esempio dello sbadiglio) nel suo contesto attuale può farlo considerare come un inerte fossile. La<br />
somiglianza con oggetti del passato nasconde in realtà profondi mutamenti di significato<br />
(Malinowski 1944, p. 37 sgg.).<br />
Queste posizioni si collocano nel quadro di una più complessiva reazione delle scienze sociali<br />
all’evoluzionismo, agli eccessi speculativi e alle generalizzazioni prive di solide basi empiriche che<br />
lo avevano caratterizzato. Si pone adesso l’accento sul rigore della documentazione etnografica,<br />
contro le troppo grandi e troppo facili teorizzazioni. Il metodo comparativo, fino ad allora punto di<br />
forza dell’antropologia culturale, diviene semmai fonte di imbarazzo, apparendo ai più la caricatura<br />
di un approccio scientifico. E’ significativo il giudizio espresso da Ruth Benedict, una delle più<br />
importanti allieve di Boas, sul Golden Bough di Frazer: “Opere come Il ramo d’oro e i normali<br />
volumi di etnologia comparata sono esami analitici di elementi separati, e ignorano tutti gli aspetti<br />
dell’integrazione culturale […] Il risultato finale dell’esposizione è una specie di mostro di<br />
Frankenstein con un occhio destro preso dalle isole Figi, un occhio sinistro dall’Europa, una gamba<br />
dalla Terra del fuoco e una da Tahiti, e dita delle mani e dei piedi da regioni ancor più diverse”<br />
(Benedict 1934, pp. 54-5). In definitiva, la basilare fallacia del metodo comparativo sta nel<br />
comparare “fatti” che secondo i moderni standard etnografici sono assolutamente privi di valore<br />
documentario. Non è tuttavia la comparazione in sé ad esser rifiutata a priori. Del resto, il giudizio<br />
appena citato si trova in un libro, Patterns of Culture, che segna il deciso ritorno della stessa<br />
tradizione particolarista boasiana a un’antropologia dalle grandi ambizioni comparative. Di che tipo<br />
di comparazione si tratta, dunque?<br />
1.5 [La comparazione di insiemi culturali]<br />
Se “contesto” è la parola chiave della nuova antropologia, la comparazione non potrà fare a meno di<br />
assumere i “contesti” come unità d’analisi. Mentre non ha senso raffrontare singoli tratti avulsi dal<br />
sistema culturale di cui fanno parte, è invece utile e produttivo analizzare comparativamente e in<br />
modo mirato due o al massimo tre-quattro tali sistemi, laddove naturalmente si disponga di una<br />
documentazione etnografica adeguata. In particolare, una simile comparazione su base olistica<br />
consente di utilizzare il metodo delle variazioni concomitanti, codificato nell’Ottocento da Stuart<br />
Mill e applicato da Durkheim e Weber agli studi sociali. Tra gli anni ’20 e gli anni ’50, tali metodi<br />
sono largamente impiegati, in modo più o meno formalizzato, in molti ambiti dell’antropologia. Gli<br />
esempi più noti vengono probabilmente dagli studi cosiddetti di “cultura e personalità”, che<br />
lavorano sul rapporto fra tratti culturali e caratteristiche psicologiche. Vediamone qualche aspetto.<br />
Occorre intanto considerare che nei primi decenni del secolo l’antropologia si batte per affermare<br />
i temi del relativismo e del determinismo culturale in un clima che è invece fortemente permeato da
idee razziste e dalla tendenza ad attribuire a cause “naturali” (biologiche o psicologiche) i<br />
comportamenti umani. Ora, un simile programma relativista trova nella comparazione un<br />
formidabile strumento. Mostrare con esempi tratti da altre culture che certi tratti comportamentali<br />
(ad esempio l’espressione dei sentimenti, il ricorso alla violenza, le differenze di ruolo legate al<br />
genere e all’età, e così via) non sono universali ma variano storicamente e culturalmente, è già di<br />
per sé una confutazione del determinismo biologico o psicologico; lo è ancora di più la<br />
dimostrazione che tali variazioni si collegano a ben precise differenze nei sistemi socio-culturali.<br />
Qui la comparazione può assumere due forme. Può trattarsi di un semplice raffronto che<br />
l’antropologo istituisce tra la cultura da lui/lei studiata e la propria (ovvero quella dei suoi lettori),<br />
oppure di un accostamento formalizzato fra più unità culturali. Un esempio celebre ed efficace del<br />
primo tipo è quello di Malinowski che, partendo da osservazioni sulla vita familiare dei<br />
trobriandesi, giunge a mettere in discussione la teoria freudiana del complesso edipico. Com’è noto,<br />
per Freud il rapporto ambiguo con il padre, caratterizzato da amore e timore, emulazione e rivalità,<br />
sta alla base della costituzione psicologica degli individui (almeno dei maschi), e rappresenta la<br />
base delle nevrosi da un lato, dall’altro di formazioni culturali come la religione. Malinowski nega<br />
l’universalità di questa teoria, considerandola valida solo in relazione al contesto storico-sociale in<br />
cui Freud lavorava (la Vienna, o se si preferisce l’Europa, di fine Ottocento). Alle Trobriand,<br />
caratterizzate da un sistema di discendenza matrilineare, semplicemente non esistono le condizioni<br />
socioculturali per il manifestarsi del complesso edipico. L’ambivalente figura freudiana del padre si<br />
scinde qui in due distinte figure: da un lato il genitore naturale, del cui gruppo di parentela il figlio<br />
non fa parte, e che ha con lui un rapporto di affetto non autoritario e non repressivo, dall’altro lo zio<br />
materno, al cui gruppo il bambino appartiene e che esercita su di lui l’autorità, l’imposizione delle<br />
regole e il controllo sociale (Malinowski 1927). La comparazione mostra dunque come Freud abbia<br />
sì colto in modo geniale un aspetto della propria cultura, non rendendosi però conto di quanto esso<br />
fosse radicato in una specifica configurazione socio-culturale (la famiglia moderna e la discendenza<br />
patrilineare).<br />
Rivolto contro l’universalismo psicologico è anche Coming of Age in Samoa di Margaret Mead<br />
(1928), uno dei più famosi libri di antropologia del periodo prebellico. Si tratta di una monografia<br />
etnografica sulle isole Samoa, in cui l’intento comparativo è fin dall’inizio trasparente. Anch’essa<br />
allieva di Boas, la Mead parte per le Samoa con l’intento di dimostrare una tesi ben precisa: il<br />
carattere socialmente e culturalmente determinato delle crisi adolescenziali, vale a dire delle<br />
difficoltà di integrazione e dei comportamenti spesso violenti e devianti che caratterizzavano<br />
l’adolescenza americana dell’epoca, e che gli psicologi interpretavano in relazione a problemi<br />
psicofisici di portata universale. Tutto il libro tende a porre in netto contrasto l’esperienza<br />
esistenziale samoana (e in specie del gruppo di giovani ragazze con cui la Mead lavora) con quella<br />
statunitense. La prima è dominata da un’etica della tranquillità, dall’assenza di comportamenti<br />
autoritari e repressivi nei confronti dei giovani, e soprattutto da ruoli sociali fortemente determinati<br />
fin dalla nascita, che non creano ansie e rivalità riguardo al conseguimento di status; la seconda, al<br />
contrario, è dominata da un’ossessione per il raggiungimento di status sociali più elevati, e pone i<br />
giovani in costanti situazioni di competizione e conflitto, di stress, di scelte difficili da compiere. Ne<br />
consegue l’insorgere di ansie, disturbi psicologici, reazioni violente e abnormi nella società<br />
americana; tutti elementi che, secondo la Mead, sono assenti nella società samoana. Per inciso, gli<br />
stessi dati etnografici della Mead saranno successivamente messi in discussione, e altri studiosi<br />
sosterranno che Samoa non è una società così immune da ansie, frustrazioni, violenza. Ma qui<br />
interessa semplicemente rilevare l’uso della comparazione per dimostrare la dipendenza delle<br />
variabili psico-comportamentali da quelle socio-culturali.<br />
Questa strategia apre una corrente di studi che sono comunemente detti di “cultura e personalità”,<br />
interamente basata sulla correlazione comporativa fra tratti psicologici e differenze culturali. Il già<br />
ricordato libro di Ruth Benedict, Patterns of Culture (1934), ne è uno dei risultati più<br />
rappresentativi, e mostra all’opera un metodo comparativo diverso da quello della Mead o di<br />
Malinowski, più complesso e formalizzato. La tesi della Benedict è che ogni cultura, all’interno
delle vaste possibilità del comportamento e dei tratti caratteriali degli esseri umani, ne sceglie e<br />
privilegia alcuni scartandone altri; per mezzo dell’inculturazione (dalle pratiche di allattamento e<br />
svezzamento, all’educazione, alle cerimonie di iniziazione alla vita adulta etc.) vengono plasmate<br />
delle configurazioni psico-culturali, che sono in qualche modo incommensurabili da cultura a<br />
cultura. Pur non determinando in senso meccanico il comportamento e il modo di essere di tutti i<br />
membri di una determinata cultura, queste configurazioni costituiscono una “personalità di base”<br />
che è una sorta di terreno comune, e che è chiaramente riconoscibile nelle istituzioni, nelle relazioni<br />
sociali e nelle produzioni simboliche. A dimostrazione di questa tesi, la Benedict analizza tre<br />
società “primitive”, le cui personalità di base sono contrapposte sulla base di una terminologia<br />
psicologica, e poste in relazione con una serie di caratteristiche culturali distintive. Particolarmente<br />
suggestiva è la contrapposizione fra la personalità “apollinea” degli indios Zuñi del New Mexico,<br />
tutta volta al controllo delle emozioni, alla cerimonialità delle relazioni pubbliche e alla condanna<br />
degli eccessi, e quella “dionisiaca” di altri gruppi amerindi, come i Kwakiutl della costa americana<br />
nord-occidentale, che valorizza invece le esperienze violente ed estatiche e la trasgressione dei<br />
limiti usuali della quotidianità (Benedict 1934, p. 84). I Kwakiutl sono categorizzati anche come<br />
“megalomani”, in virtù della loro ossessione per il conseguimento di status e per gli eccessi di<br />
consumo e distruzione evidenziati da un rito come il già citato potlach; mentre gli abitanti dell’isola<br />
melanesiana di Dobu sono diagnosticati come “paranoici” in quanto “tetri e musoni”, con rapporti<br />
sociali “consumati dalla gelosia, dal sospetto e dal risentimento” (ibid., p. 171). L’autrice presenta<br />
questa come una comparazione organica fra “culture come coerenti organizzazioni di<br />
comportamento”, contrapponendola allo “sguardo d’insieme a tutto il mondo” che caratterizzava il<br />
vecchio metodo comparativo. Non si può però fare a meno di notare come le sue tipizzazioni<br />
psicologiche, per quanto suggestive, appaiano oggi non meno ingenue delle speculazioni<br />
evoluzioniste.<br />
Più cauto e controllato è l’uso della comparazione olistica nella social anthropology britannica,<br />
dove il metodo delle variazioni concomitanti è applicato al rapporto fra sistemi simbolici e struttura<br />
sociale. Ad esempio, fra anni ’40 e ’50 numerosi studi cercano di usare questo approccio nella<br />
analisi del grande tema della stregoneria, considerata, sulla scia dell’opera di Evans-Pritchard, come<br />
forma di espressione e risoluzione del conflitto sociale. Se è possibile dimostrare comparativamente<br />
che, in aree socio-culturali omogenee, le credenze nella stregoneria variano parallelamente al<br />
variare di tratti del sistema sociale, sarà confermato il ruolo funzionale che la stregoneria svolge, e il<br />
fenomeno risulterà dunque “spiegato”. Prendiamo, seguendo un classico testo di S.F.Nadel (1952),<br />
due popolazioni nigeriane, i Nupe e i Gwari: le due hanno sistemi sociali e credenze nella<br />
stregoneria assai simili, ma per i primi le streghe sono solo donne, per i secondi indifferentemente<br />
donne o uomini. C’è una variabile sociale in grado di spiegare questa differenze specifica? Nadel la<br />
individua nel fatto che fra i Nupe le donne, praticando autonomamente il commercio, si sono<br />
arricchite e hanno acquisito potere, creando una situazione di conflitto fra sessi che non esiste<br />
invece fra i Gwari. Dal momento che è un assioma della social anthropology che la stregoneria sia<br />
connessa alle ansie determinate dal conflitto sociale e dalla necessità di regolarlo, ecco che la<br />
variabile sociale e quella culturale entrano in un rapporto causale, che la comparazione fa risaltare<br />
rispetto al “caso di controllo” negativo.<br />
Vale la pena soffermarsi su questa argomentazione, per notare come il metodo della variazioni<br />
concomitanti non “scopre” il valore funzionale della stregoneria; al contrario, anzi, lo presuppone e<br />
ne è reso possibile. Nadel finge di usare una procedura induttiva, ma in realtà conosce in anticipo la<br />
risposta, e da essa risale all’indietro fino a individuare le variabili rilevanti nei dati di partenza. Se<br />
non sapessimo fin dall’inizio che la stregoneria è un’espressione del conflitto e una difesa che la<br />
società mette in atto contro i suoi possibili effetti disgreganti, l’intera argomentazione non avrebbe<br />
senso e, soprattutto, sarebbe impossibile attribuirle valore causale. In altre parole, la scoperta delle<br />
cause è già implicita nelle premesse. Questa è una caratteristica frequente della comparazione<br />
antropologica, che non per questo, tuttavia, costituisce un mero inganno. Lo stesso Nadel, nel<br />
costruire in forma induttiva la propria argomentazione, riorganizza i materiali etnografici in modo
da gettare nuova luce su alcune loro interne caratteristiche. Ed è qui che il suo contributo produce<br />
un incremento di conoscenza. La procedura comparativa non può scoprire nulla di nuovo, ma non<br />
lascia intatti i dati su cui si esercita: li arricchisce e li rende più densi, ovviamente se si tratta di una<br />
buona comparazione. Fingendo di lavorare sul piano dell’astrazione e della generalizzazione<br />
causale, agisce in realtà su quello della stessa descrizione etnografica.<br />
1.6 [La comparazione quantitativa]<br />
Questi ultimi esempi riguardano il tentativo, emerso nella parte centrale del Novecento, di costruire<br />
modelli di comparazione fra insiemi socio-culturali complessi all’interno di aree relativamente<br />
omogenee. Ma anche in questo periodo lo “sguardo d’insieme a tutto il mondo”, come lo definisce<br />
la Benedict, non scompare affatto dalle prospettive antropologiche. Non pochi studiosi si sentono<br />
insoddisfatti dei risultati raggiunti dagli indirizzi particolaristici e relativistici che, pur<br />
richiamandosi al rigore scientifico, avevano allontanato la disciplina dal modello nomotetico delle<br />
scienze naturali avvicinandola piuttosto alla storia e agli studi umanistici. Essi ritengono: a) che per<br />
dirsi scienza (e non storiografia, o pura letteratura descrittiva) l’antropologia debba recuperare gli<br />
obiettivi della generalizzazione e della formulazione di leggi; b) che una scienza dell’uomo non<br />
possa limitarsi allo studio di singole e separate culture, ma debba tentare una ricostruzione<br />
complessiva dell’evoluzione culturale della specie; c) che, anche in campi più settoriali e specifici<br />
dell’antropologia, compito della disciplina sia la ricerca degli universali culturali; d) che tutto ciò<br />
debba necessariamente passare attraverso la quantificazione dei dati e l’uso di forme ampie e<br />
sistematiche di comparazione transculturale. Questi obiettivi sono fatti propri, da un lato, da<br />
indirizzi neoevoluzionisti vicini alla biologia e all’antropologia fisica che, sulla base di un<br />
programma radicalmente antiumanistico, spiegano la cultura in termini di comportamenti adattivi,<br />
sottoponendola agli stessi criteri di analisi che vigono nello studio dell’evoluzione naturale.<br />
L’ecologia culturale, il materialismo culturale, e più di recente l’ecologia comportamentale o<br />
sociobiologia sono i più noti fra questi indirizzi, che fanno largo uso di tecniche di comparazione<br />
riprese dalla biologia o dall’archeologia ma che non discuterò qui, perché pongono problemi di<br />
ordine assai diverso da quelli fin qui affrontati.<br />
Dall’altro lato, la problematica della comparazione universalista e su larga scala viene ripresa<br />
anche all’interno degli approcci socio-culturali all’antropologia. L’esempio più noto e per così dire<br />
più spettacolare è probabilmente quello del Cross-Cultural Survey fondato negli anni ’30 da George<br />
Murdock presso la Yale University, conosciuto poi, dal 1949, con la denominazione di Human<br />
Relations Area Files (HRAF) e tuttora in corso (http://www.yale.edu/hraf). Si tratta del tentativo di<br />
costruire un colossale archivio di un gran numero di culture (se fosse possibile, tutte le culture del<br />
mondo) descritte in modo uniforme e standardizzato, in modo da consentirne la comparabilità e<br />
soprattutto la permeabilità a forme di analisi statistica. Le culture attualmente descritte nei files<br />
sono quasi 400. La descrizione è organizzata per mezzo di un soggettario codificato secondo un<br />
sistema decimale (Cultural Materials Codes), composto da 88 voci a loro volta suddivise in<br />
sottocampi, che intendono coprire tutti gli aspetti di una cultura, dalla demografia all’economia,<br />
dall’architettura alla religione e così via. Ad esempio, una ricerca del codice 584 porterà a<br />
informazioni sulle modalità di organizzazione del matrimonio in tutte le società descritte; il codice<br />
778 conterrà informazioni su luoghi e oggetti considerati sacri; e così via.<br />
L’interesse sul piano documentario di una simile organizzazione dei materiali è indubbia. Ma quali<br />
operazioni comparative rende possibile questa forma di schedatura? Come detto, Murdock e i suoi<br />
seguaci sono interessati principalmente alla formulazione di correlazioni statistiche, viste da un lato<br />
come indicazioni di relazioni causali, dall’altro come indicatori in grado di suscitare<br />
approfondimenti della ricerca in una particolare direzione. Prendiamo due esempi dell’uso degli<br />
Human Relations Area Files, uno classico e uno più recente. Il primo è uno studio di Beatrice<br />
Whiting (1950), che analizza il rapporto tra pratiche di magia nera (sorcery, distinta nella tradizione<br />
anglosassone dalla witchcraft o stregoneria in base alla volontarietà dell’attacco magico e all’uso di<br />
riti specifici) e modalità di composizione sociale dei conflitti in 50 società non occidentali.
L’autrice suddivide le 50 società in due parti, a seconda della presenza o assenza di un’autorità<br />
superiore con il compito di risolvere i conflitti e punire i reati. Tra le 25 società prive di una simile<br />
autorità politico-giuridica, la magia nera è definita “importante” in 24 casi, dunque la quasi totalità;<br />
tra le 25 che ne sono dotate, la magia nera è “importante” solo in 11 casi. Su base statistica si può<br />
dunque stabilire un nesso fra presenza di credenze, timore e accuse di sorcery da un lato, e dall’altro<br />
assenza di strumenti istituzionali di risoluzione dei conflitti. Si può allora supporre che la sorcery<br />
costituisca di per sé un mezzo di risoluzione dei conflitti, ovvero che la paura di essa rappresenti<br />
uno strumento di controllo sociale (cit. in Borowski 1994, p. 81).<br />
L’esempio più recente riguarda il lavoro di Carol e Mervin Ember su guerra e violenza.<br />
Utilizzando i dati del HRAF, i coniugi americani pongono in relazione la frequenza delle guerre<br />
nelle varie culture con altre variabili, quali ad esempio l’inserimento in sistemi di alleanze e di<br />
rapporti commerciali, la frequenza di carestie, la frequenza di disastri naturali, la densità<br />
demografica, il tipo di sistemi politici etc. Per le società preindustriali, la principale correlazione<br />
che ne ricavano è quella fra guerra e calamità naturali come siccità o alluvioni. Come spiegano<br />
questo dato? “It seems that people, particularly in nonstate societies, may try to protect themselves<br />
against future disasters by going to war to take resources from enemies” (Ember-Ember 1992, p.<br />
242). In altre parole, la mancanza di fiducia nel futuro e il timore di inattesi disastri spingerebbero<br />
ad andare in guerra per accaparrarsi risorse che, non si sa mai, potrebbero sempre servire. Un punto<br />
corroborato, secondo gli Ember, dall’assenza di una correlazione significativa tra frequenza delle<br />
guerre e carestie ricorrenti e dunque prevedibili.<br />
Come commentare queste conclusioni? In entrambi i casi si potrebbero porre infiniti problemi<br />
metodologici su come i materiali etnografici e storici sono stati ricondotti a numeri confrontabili su<br />
una tabella, espungendone completamente la dimensione del “significato”; così come si potrebbe a<br />
lungo discutere sulla legittimità delle unità di comparazione, le “culture” considerate come entità<br />
autonome e chiuse su se stesse (se queste unità si influenzano a vicenda, è chiaro che il valore delle<br />
correlazioni va perduto). Ma anche dando per buona la metodologia, colpisce la povertà delle<br />
conclusioni raggiunte. Nel caso della magia, la correlazione proposta è assai ragionevole ma è<br />
tutt’altro che una scoperta: come nel già discusso caso di Nadel, la conclusione dimostra<br />
semplicemente l’interpretazione di magia e stregoneria che l’etnografia non quantitativa aveva già<br />
ampiamente mostrato. Inoltre il rapporto fra le due variabili correlate, pervasività della sorcery e<br />
presenza/assenza di istituzioni per la risoluzione dei conflitti, è spiegato con il ricorso a ipotesi di<br />
tipo psicologico o di senso comune (la paura della magia come motivazione alla conformità<br />
all’ordine sociale), che non hanno nulla di scientifico o di misurabile. Ciò vale a maggior ragione<br />
per la tesi degli Ember, che mi sembra sfiorare il ridicolo nella sua pretesa di far passare per grandi<br />
verità nomotetiche delle assolute banalità. A interpretarla nel modo più favorevole, la loro<br />
conclusione equivale a dire che le guerre vengono combattute per motivi economici e per l’accesso<br />
alle risorse – una tesi ampiamente discussa e altrettanto ampiamente criticata in ambito<br />
antropologico. Anche qui, nessuna teoria collega i due elementi della correlazione, se non l’idea<br />
che “per proteggersi anticipatamente da questi disastri che distruggono le risorse alimentari<br />
potrebbe essere vantaggioso accaparrarsi i beni dei nemici sconfitti”(Ember-Ember 1997, p. 9).<br />
Cioè, le motivazioni degli uomini che muovono la guerra riguardano la paura di possibili alluvioni<br />
o carestie? La sproporzione fra la grande complessità storica, politica e generalmente umana della<br />
guerra e la banalità della presunta spiegazione scientifica è sconcertante, e può solo ricordare certe<br />
ingenuità ottocentesche, quelle che spingevano Wittgenstein a commentare: “nei libri per le scuole<br />
elementari sta scritto che Attila intraprese le sue grandi guerre perché credeva di possedere la spada<br />
del dio del tuono” (Wittgenstein 1967, p. 28). Non c’è nulla di male nell’analisi statistica e<br />
nell’approccio nomotetico: solo che qui siamo di fronte a una loro caricatura. Cosicché non sembra<br />
poi ingiustificato il fatto che Edmund Leach, rigorosissimo e misurato antropologo della tradizione<br />
britannica, parlasse di questo tipo di comparazione come “tabulated nonsense” (cit. in Holy 1987, p.<br />
3) .
1.7 [Storicismo e strutturalismo]<br />
Per concludere questa sommaria tipologia storica di forme della comparazione antropologica,<br />
occorre almeno accennare al ruolo della comparazione nello strutturalismo e nello storicismo.<br />
Quest’ultimo termine è per la verità inusuale nel dibattito antropologico. Mi riferisco qui all’uso che<br />
ne ha fatto l’etnologo e storico delle religioni italiano Ernesto de Martino, che fra anni ’40 e ’60 ha<br />
cercato di rifondare su basi appunto storicistiche lo studio delle culture, contrapponendosi<br />
all’approccio “naturalistico” prevalente nelle grandi scuole internazionali. Per naturalismo de<br />
Martino intende la riduzione degli eventi umani a “cose”, oggetti cui applicare le procedure<br />
classificatorie e generalizzanti tipiche delle scienze naturali; e intende anche quell’aspetto<br />
particolare dell’etnocentrismo che consiste nell’avvicinarsi alle altre culture dando per scontata la<br />
concezione del mondo propria della nostra scienza o del nostro senso comune. Nello studio dei<br />
fenomeni magico-religiosi, dei quali de Martino prevalentemente si occupa, proprio questi sono<br />
stati a suo parere i grandi e pregiudiziali errori delle discipline sociali di tradizione positivistica; lo<br />
storicismo che gli oppone è basato sulla comprensione individuante dei fenomeni culturali (inclusi<br />
quelli “primitivi” o folklorici) nella loro unicità e dinamicità storica.<br />
In apparenza, la comparazione è del tutto esclusa da un simile approccio, poiché sembra<br />
implicare le procedure oggettivanti, classificatorie, astrattive proprie del naturalismo. Di fatto, però,<br />
de Martino ne fa ampio uso. Si è tentati di dire che come antropologo non può farne a meno. Ad<br />
esempio, la comparazione appare nel bel mezzo dell’intelligenza storicista nella sua opera più<br />
famosa, La terra del rimorso, uno studio sulla pratica pugliese del tarantismo, un tradizionale<br />
rituale di guarigione coreutico-musicale che implica possessione e trance estatica. De Martino è<br />
interessato prevalentemente a ricostruire la storia del rituale, collocandolo nella tensione fra cultura<br />
egemonica e cultura subalterna che percorre l’età moderna e contemporanea. Ma è al contempo<br />
colpito dalle analogie con analoghi rituali estatici documentati in altre epoche storiche e in altre aree<br />
culturali: ad esempio i culti orgiastici del mondo classico, e un’ampia serie di culti e riti diffusi in<br />
ambito mediterraneo, africano e afro-americano, come zar, condomblé, vodu. Ci sono molti temi<br />
comuni, tanto che sembrerebbe trattarsi di esempi di una stessa pratica; ed ovviamente la<br />
comunanza ha a che fare con contatti culturali solo parzialmente documentati. Ma de Martino ci<br />
pone in guardia sull’uso da fare di questi raffronti comparativi: non dobbiamo correre il rischio di<br />
ridurre il fenomeno del tarantismo a un “tipo” etnologico o a un antecedente storico, considerandolo<br />
come una semplice sopravvivenza oppure come un esempio fra i tanti di una classe di fenomeni<br />
culturali da spiegare nella sua generalità. A cosa serve allora comparare? La risposta di de Martino<br />
è che serve appunto a evidenziare “la originalità storica del tarantismo” (1961, p. 187), la sua<br />
irriducibile autonomia. In altre parole, sono le differenze che contano molto più delle similarità –<br />
diversamente da quanto accade nelle forme più classiche di comparazione. Le somiglianze sono<br />
palesi, ma de Martino non è interessato a formulare a partire da esse un sapere universalistico. Al<br />
contrario, parte dalla constatazione di una comunanza culturale (riconducibile per lui alla<br />
comunanza di esperienze esistenziali elementarmente umane) e usa la comparazione per meglio<br />
delineare le peculiarità storiche dello specifico fenomeno che sta studiando. Un punto di vista che<br />
mi sembra di poter estendere anche ad altri autori e correnti che, nella seconda metà del Novecento,<br />
hanno privilegiato l’approccio storico e individuante in contrapposizione a quello generalizzante e<br />
naturalistico. E’ il caso dell’antropologia cosiddetta interpretativa, per la quale, come è stato scritto,<br />
“lo scopo principale della ricerca comparativa…è di facilitare la nostra comprensione dei significati<br />
culturalmente specifici, vale a dire identificare o focalizzare la specificità culturale”. Ciò significa<br />
(ed è un punto su cui tornerò più avanti), che “si rovescia completamente la relazione fra<br />
descrizione e comparazione propria dell’antropologia positivistica, nella quale lo scopo ultimo di<br />
ogni descrizione era raccogliere fati per l’analisi interculturale” (Holy 1987, p. 10).<br />
Con le differenze, più che con le similarità, ha a che fare anche lo strutturalismo, la corrente<br />
fondata da Claude Lévi-Strauss che ha esercitato una enorme influenza sull’antropologia e sulle<br />
scienze sociali fra gli anni ’50 e gli anni ’70. I motivi sono però molto diversi – anche perché lo<br />
strutturalismo si contrappone per molti versi allo storicismo e mira per l’appunto a una conoscenza
generalizzante e non legata alle contingenze storiche. Il punto cruciale riguarda l’identificazione<br />
dell’oggetto primario dell’analisi culturale. Per Lévi-Strauss tale oggetto non consiste in singoli<br />
tratti, e neppure in “culture organiche” o in “strutture sociali”, ma in sistemi semiotici i cui confini<br />
non coincidono necessariamente con quelli di singole culture o società. Pensiamo ad esempio allo<br />
studio della mitologia amerindia, un tema cui Lévi-Strauss dedica alcune delle sue opere più<br />
importanti. I miti sono per lui il prodotto di una facoltà ordinatrice dell’intelletto che si esprime per<br />
mezzo di una logica non astratta ma “concreta”, che fa uso cioè di elementi dell’esperienza<br />
quotidiana come operatori simbolici. Il miele, i giaguari, i pappagalli ara, i cacciatori e tutti gli altri<br />
simboli che sono combinati in forma narrativa in una narrazione mitologica sono da intendersi<br />
dunque in relazione a un codice, che per Lévi-Strauss è in definitiva un codice cibernetico – guidato<br />
ciooè da una logica binaria, procedente per disgiunzioni oppositive. Ora, per comprendere il codice<br />
non è mai sufficiente analizzare un solo mito, e neppure il corpus mitologico presente in un solo<br />
gruppo. Nei suoi lavori sugli indios amazzonici, Lévi-Strauss (1964) procede attraverso progressive<br />
estensioni comparative, disponendo i testi mitologici come in un gioco a incastro, nel quale nessuno<br />
è autosufficiente ma ciascuno contiene degli elementi che possono servire a capire gli altri. E’ solo<br />
attraverso i confronti comparativi che si rivela la sintassi dell’intero sistema.<br />
In questo caso il confronto resta all’interno di un’area omogenea come quella amazzonica, ma il<br />
metodo strutturale non ha di per sé bisogno di restare entro confini areali. In un altro dei suoi più<br />
suggestivi scritti, Lévi-Strauss (1952) cerca di comprendere la figura di Babbo Natale<br />
nell’occidente contemporaneo ponendola in relazione con alcuni suoi antecedenti storici e con<br />
alcuni rituali degli indiani del sud-ovest degli Stati Uniti, nei quali i katchina, spiriti di antenati,<br />
tornano sulla terra ciclicamente per compiere cerimonie e per punire o premiare i bambini. Qual è il<br />
senso di un simile accostamento “esotizzante”? Lévi-Strauss non intende ridurre Babbo Natale né<br />
agli antecedenti né a una tipologia generalizzante. Parte invece dalla identificazione di alcuni trattichiave<br />
della sua simbologia (i bambini come mediatori fra generazioni e come elementi di<br />
passaggio tra vita e morte, tra mondo terreno e aldilà), e cerca di chiarire meglio la sintassi dei riti<br />
natalizi accostandoli ad altri che sembrano appartenere allo stesso ambito semantico, che sembrano<br />
cioè volti a elucidare le stesse strutture dell’esperienza umana e sociale. Non ha qui alcuna<br />
importanza la contiguità storica o socio-culturale fra Babbo Natale e i katchina: la loro<br />
comparazione serve a chiarire la struttura logica dei riti, i quali, nonostante la loro distanza,<br />
sottendono analoghe procedure ordinatrici e plasmatrici dell’esperienza.<br />
PARTE SECONDA<br />
2.1 [La comparazione nell’antropologia interpretativa]<br />
Questa sommaria e incompleta carrellata storica ha inteso mostrare in primo luogo che<br />
l’antropologia culturale ha conosciuto una grande varietà di pratiche comparative, senza che alcun<br />
metodo condiviso e standardizzato sia riuscito ad affermarsi. Anzi, col termine comparazione si<br />
sono intese procedure molto diverse di analisi e trattamento dei materiali etnografici, difficilmente<br />
riconducibili a unità. Abbiamo anche visto come attorno al problema della comparazione si siano<br />
divise due diverse idee della disciplina: l’una più vicina al modello delle scienze naturali, che ha<br />
creduto nella comparazione come strada maestra per conseguire una conoscenza di tipo nomotetico,<br />
generalizzabile e oggettivamente verificabile; l’altra di tipo più umanistico, scettica verso la<br />
formulazione di leggi generali e volta piuttosto a un sapere etnografico denso e individuante. La<br />
prima proiettata su una scala universalista e interessata a rilevare i tratti comuni alle diverse culture;<br />
la seconda immersa nell’irriducibilità dei contesti storico-locali, e maggiormente interessata alle<br />
differenze. Queste due prospettive si sono alternate nella storia degli studi, o hanno convissuto in<br />
una tensione tutto sommato fruttuosa.<br />
Negli ultimi decenni, con l’affermarsi dell’antropologia interpretativa e (come viene talvolta un<br />
po’ impropriamente chiamata) postmodernista, la prospettiva storico-particolarista sembra aver di<br />
nuovo prevalso. Come conseguenza, la problematica comparativista è passata almeno in parte in
secondo piano; già alla fine degli anni ’80 si notava un radicale crollo del termine “comparazione”<br />
negli indici delle riviste scientifiche o dei manuali di antropologia (Holy 1987, pp. 6-7), e oggi la<br />
tendenza pare ancor più accentuata. Non che la comparazione non sia usata in una forma o<br />
nell’altra; solo che, rispetto agli anni ’60-’70, sta un po’ meno al centro delle preoccupazioni<br />
metodologiche. Il suo posto è stato preso dal problema della costituzione del sapere etnografico<br />
stesso: più che chiedersi come trattare comparativamente i dati, le scienze sociali interpretative<br />
tornano a chiedersi come i dati stessi si producono. Al centro della loro riflessione stanno i problemi<br />
della ricerca sul campo e delle sue condizioni in senso lato “politiche”, della trasformazione<br />
dell’esperienza di ricerca in scrittura, del rapporto tra soggettività dell’osservazione partecipante e<br />
oggettività della descrizione etnografica. Lo scetticismo nei confronti della qualità “oggettiva” dei<br />
dati non supporta certo la fiducia nella comparazione formalizzata. Se la rappresentazione<br />
etnografica è una forma di sapere così delicato e controverso, “politicamente” conteso e<br />
“retoricamente” plasmato, prodotto in modo più artistico che scientifico, frutto dei negoziati sempre<br />
provvisori tra i significati dei “nativi” e quelli dell’antropologo, non sembra possibile farne la<br />
materia prima per operazioni di generalizzazione e astrazione. Rischiamo di cadere nello stesso<br />
vecchio errore degli evoluzionisti: procedure comparative in massimo grado ambiziose ma<br />
esercitate su dati privi della minima attendibilità etnografica. Si possono al massimo comparare le<br />
esperienze, non gli oggetti etnografici - come fa Clifford Geertz, che in uno dei suoi più recenti<br />
lavori ci presenta una comparazione sistematica di Marocco, Giava e Bali sulla base del fatto che<br />
sono stati i suoi tre terreni di ricerca, e dunque può raffrontarli – lui solo – tenendo conto della<br />
complessità della formazione della conoscenza etnografica (Geertz 1995).<br />
Tutto ciò non significa affatto che la comparazione non sia praticata nell’antropologia di oggi,<br />
inclusa quella interpretativa. Anzi, la sfiducia verso la formalizzazione e la standardizzazione<br />
metodologica apre la strada a un uso più libero di svariate modalità comparative. Nelle pagine che<br />
seguono, cercherò di individuarne alcune, discutendo a) l’uso della comparazione come risorsa<br />
descrittiva; b) l’uso comparativo dei case-studies; c) le ricerche di impostazione transculturale c)<br />
alcune forme di ripresa del metodo comparativo classico; d) infine, i nuovi problemi che la<br />
globalizzazione apre alla comparazione antropologica.<br />
2.2. [Comparazione e descrizione]<br />
I manuali classici insistono sulla distinzione fra due fasi della ricerca sociale: da un lato la<br />
raccolta dei dati, dall’altro il loro trattamento. La prima fase può includere ricerca sul campo,<br />
spoglio di materiali d’archivio e altre modalità di rilevazione o produzione di fonti, nonché la<br />
presentazione di questi dati in forma puramente documentaria; la seconda si riferisce alle varie<br />
forme di analisi, e trova nella comparazione il suo momento principe. Questi due momenti, per<br />
quanto possano intrecciarsi sul piano pratico, sono concepiti come rigorosamente separati sul piano<br />
epistemologico e normativo: rispondono a regole diverse di validità, e si collocano rigidamente in<br />
successione cronologica nel processo di ricerca. Prima si rilevano e si presentano i dati, poi li si<br />
analizza e semmai li si compara con altri. I dati rappresentano, sempre secondo questa concezione<br />
classica, l’aspetto più solido della conoscenza conseguita: le ipotesi interpretative possono mutare,<br />
venir confutate e abbandonate, ma i “fatti” restano la loro base permanente. Il presupposto<br />
positivistico di questo punto di vista, cioè la separazione tra fatti e teoria, è un vero e proprio filo<br />
rosso nella storia dell’antropologia: se c’è qualcosa che accumuna evoluzionismo ottocentesco,<br />
scuola boasiana e moderna antropologia sociale è proprio questo. Già Frazer riteneva che le teorie<br />
esposte nei suoi libri rappresentassero un traballante castello di ipotesi, forse destinate a crollare, ma<br />
che invece i fatti da lui raccolti fossero destinati a durare nel tempo. Boas, come abbiamo visto,<br />
richiamava al rigore documentario in contrapposizione a eccessivi ardimenti teorici. E Radcliffe-<br />
Brown, nel momento di maggior fortuna del funzionalismo socioantropologico, si spingeva a<br />
pensare questi due momenti della ricerca come correlati a discipline radicalmente diverse:<br />
“…l’antropologia, lo studio delle società primitive, comprende sia le indagini di tipo storico che<br />
quelle volte alla generalizzazione. Le prime includono l’etnografia e l’etnologia, le seconde sono
note con il nome di antropologia sociale, che è una branca speciale della sociologia comparativa.<br />
Noi auspichiamo quindi che gli obiettivi e i metodi dei due tipi di ricerche rimangano distinti”<br />
(Radcliffe-Brown 1952, p. 145). Questo appello arriva in conclusione di un saggio dedicato proprio<br />
al metodo comparativo, che il maestro britannico considerava tanto ineliminabile dall’idea del<br />
sapere antropologico quanto nettamente distinto dai problemi della rappresentazione storicoetnografica.<br />
Questa suddivisione discende da una fiducia nell’oggettività dei dati e nella loro autonomia<br />
rispetto alle categorie teoriche che oggi, dopo quasi un secolo di epistemologia post-empirista, non<br />
possiamo più avere. Ma, ciò che più conta, la dicotomia tra sapere nomotetico e idiografico tracciata<br />
da Radcliffe-Brown non descrive affatto il modo in cui si produce (ed è sempre stato prodotto) il<br />
sapere antropologico. Non è difficile oggi riconoscere, alla luce dei dibattiti interpretativi, quanto al<br />
livello apparentemente basilare e “innocente”della descrizione etnografica svolgano una parte<br />
importante la teoria in generale e, più in particolare, la comparazione. Non solo nel senso che un<br />
eventuale progetto comparativo influenza fin dall’inizio la presentazione dei dati, e in qualche caso<br />
persino la loro raccolta (è chiaro ad esempio che, se si lavora all’interno della cornice delle Human<br />
Relations Area Files, si tenderà a produrre fatti etnografici di un certo tipo, con un certo format, in<br />
modo da renderli adeguati alla forma della procedura comparativa che li attende). Ma, più in<br />
generale, il punto è che la comparazione rappresenta una fondamentale risorsa descrittiva di cui<br />
nessuna impresa etnografica sembra poter fare a meno.<br />
Nel tentativo di rappresentare una cultura “aliena”, l’etnografo fa costantemente ricorso (in modo<br />
più o meno esplicito) a raffronti e analogie con elementi della propria cultura, o meglio di quella<br />
che condivide con i suoi lettori. Per far comprendere l’atteggiamento dei trobriandesi di fronte alle<br />
collane e ai bracciali dello scambio cerimoniale kula, oggetti di grande prestigio che sono trattenuti<br />
solo temporaneamente dal possessore e devono esser sempre di nuovo scambiati, Malinowski<br />
(1922, cap. 3.3) li raffronta alle coppe e ai trofei sportivi; e per rappresentare il nesso fra<br />
l’ammirazione reverenziale per questi oggetti e la loro inutilità pratica, rammenta ai suoi lettori il<br />
culto britannico per i gioielli della corona. Lévi-Strauss (1962, cap. 8), nel descriverci i churinga<br />
degli aborigeni australiani, oggetti sacri rappresentativi del passato mitico dei gruppi sociali, li<br />
accosta a ciò che per noi sono gli archivi storici. Meyer Fortes, un grande esponente della scuola<br />
funzionalista britannica, intitola un suo saggio sulla religione dei tallensi “Oedipus and Job in West<br />
African Religion” (Fortes 1959). Si tratta di tre esempi molto diversi. La comparazione di<br />
Malinowski fa semplicemente notare al lettore come ciò che in apparenza sembra strano e persino<br />
irrazionale, cioè dedicare grandi sforzi e investimenti sia economici sia emotivi nel possesso<br />
temporaneo di cose inutili, è qualcosa di ben conosciuto anche nella nostra società, nelle nostre<br />
pratiche di vita. Perché dovremmo trovare strano il kula melanesiano e non i nostri tornei sportivi<br />
volti all’aggiudicazione di una coppa, che viene poi orgogliosamente esibita? Sullo sfondo<br />
dell’accostamento con le coppe o con i gioielli della Corona c’è poi anche un punto teorico<br />
decisivo per l’autore, vale a dire la critica ai modelli utilitaristi di agente razionale - quelli fondati su<br />
un’idea di homo oeconomicus che imposta tutte le sue azioni in vista di un profitto o di un’utilità<br />
pratica.<br />
La comparazione di Lévi-Strauss è più complessa: l’accostamento tra churinga e archivi è<br />
spiazzante, è qualcosa che il lettore non si aspetterebbe. Non è un semplice accostamento empirico,<br />
ma presuppone un forte modello interpretativo. Churinga e archivi storici avrebbero in comune non<br />
solo il fatto di rappresentare il passato, ma, nel linguaggio strutturalista, la capacità di inscrivere<br />
l’ordine della diacronia in quello della sincronia. Sarebbero cioè punti di articolazione fra<br />
l’esperienza dello spazio e quella del tempo, dotati entrambi di una particolare qualità rituale. Si<br />
tratta dunque di una comparazione che ci mostra in una luce diversa gli stessi archivi, spiazzando il<br />
nostro senso comune, o meglio consentendoci di guardare più in profondità dentro noi stessi:<br />
“quando un’usanza esotica ci attira a dispetto (o a cagione) della sua apparente singolarità, il motivo<br />
generalmente sta nel fatto che ci suggerisce, come fosse uno specchio deformante, un’immagine<br />
familiare che riconosciamo confusamente come tale senza però riuscire a identificarla” (Lévi-
Strauss 1962, p. 260). Per quanto riguarda Fortes, è interessato a discutere la religione dei tallensi<br />
come un sistema di riflessione etica sul posto dell’uomo nell’universo e sul suo rapporto con<br />
potenze superiori. Le figure di Edipo e Giobbe gli servono a costruire una cornice di significato che<br />
appaia ai lettori familiare e immediatamente comprensibile, compensando l’effetto di “stranezza”<br />
della teologia nativa. Edipo è per lui rappresentativo del tema del Fato, Giobbe del tema della<br />
giustizia divina – due elementi che ritiene dominanti nel pensiero dei tallensi come in tutte le<br />
religioni-filosofie dell’Africa occidentale. La comparazione ha un effetto fortemente universalista,<br />
poiché suggerisce che analoghe preoccupazioni morali fondano il pensiero e la vita degli esseri<br />
umani, al di là di pur enormi differenze culturali.<br />
Si tratta di tre esempi diversi l’uno dall’altro, ma caratterizzati dall’uso della comparazione come<br />
risorsa descrittiva. In tutti e tre i casi, la comparazione non viene dopo l’identificazione dell’oggetto<br />
etnografico, ma contemporaneamente, fa anzi parte di questa identificazione. Lo spazio del sapere<br />
etnografico si mostra qui come intrinsecamente comparativo. Ciò è particolarmente evidente nel<br />
caso della religione, dove lo stesso più basilare livello di traduzione dei termini nativi è altamente<br />
problematico. Quando traduciamo questi termini con “Dio”, “spiriti”, “anima” e così via stiamo<br />
ovviamente accostandoli a significati che fanno parte della nostra storia culturale; non<br />
diversamente, quando usiamo termini come “mana”, “totem”, “tabu”, presi da culture specifiche e<br />
promossi a una valenza più generale, stiamo istituendo implicite comparazioni. Né sarebbe possibile<br />
fare diversamente: i concetti “alieni” possono essere almeno in parte compresi solo a partire<br />
dall’accostamento con concetti che ci sono già familiari, che già fanno parte della nostra vita.<br />
2.3 [I case-studies]<br />
Naturalmente, nel rivolgere l’attenzione a queste procedure esplicitamente o implicitamente<br />
comparative, non stiamo più parlando di comparazione come di uno speciale metodo scientifico, ma<br />
come di una procedura tipica del linguaggio ordinario, che si colloca su un piano non molto diverso<br />
da quello della similitudine, della metafora e di altre figure retoriche. Dunque, una strategia<br />
discorsiva che ha segnato fin dall’inizio la produzione antropologica e continua a svolgere in essa<br />
un ruolo decisivo. Ma che ne è di forme più esplicite e sistematiche di comparazione?<br />
Nell’antropologia di oggi la comparazione sistematica prende soprattutto una forma che potremmo<br />
definire come accostamento di case-studies. Il case-study è un metodo di ricerca tipicamente<br />
individuante, che prende in esame monograficamente una realtà specifica ma, a partire da essa,<br />
tenta di far emergere categorie interpretative di più ampio interesse. E’ un metodo che non mira<br />
affatto a produrre dati in forma comparabile; eppure, l’accostamento di più case-studies dedicati a<br />
una medesima problematica può produrre un effetto di “accerchimento” del tema in questione dagli<br />
effetti illuminanti. La diffusione di questo stile di lavoro nella produzione antropologica<br />
internazionale è visibile nel format stesso dei libri che vengono pubblicati. La “monografia<br />
etnografica”, cioè l’ampio resoconto di ricerca che tenta di rappresentare tutti o almeno alcuni dei<br />
più rilevanti aspetti di una cultura, non è più oggi il principale genere di libro in campo<br />
antropologico. Un ruolo centrale è invece svolto dalle raccolte di saggi che affrontano una<br />
particolare tematica attraverso, appunto, un’ampia varietà di case-studies.<br />
Farò un esempio da un campo di cui mi sono personalmente occupato, quello dell’antropologia<br />
della violenza. Negli ultimi due decenni l’antropologia culturale ha cominciato ad affrontare<br />
sistematicamente il problema delle violenze di massa che hanno caratterizzato il ventesimo secolo,<br />
dagli stermini coloniali, alle guerre mondiali, ai genocidi, alle guerre cosiddette etniche, al<br />
terrorismo su larga scala. Questi drammatici eventi, al di là dei motivi storici specifici che li hanno<br />
prodotti, pongono profondi problemi di natura antropologica, sia che cerchiamo di comprendere il<br />
comportamento (in apparenza “disumano”) dei carnefici, sia che ci poniamo dal punto di vista delle<br />
vittime. Ad esempio, le esplosioni di violenza sono una sorta di uscita dalla cultura oppure<br />
rispondono a orientamenti culturali? Come comprendere i patterns ricorrenti di violenza di massa,<br />
talvolta decisamente ritualizzata, che si ritrovano in modo quasi universale nei più diversi contesti?<br />
In che modo le comunità colpite da eccidi e violenze di massa riescono a eleborare il lutto, e in che
modo viene costruita una memoria pubblica degli eventi traumatici? E ancora: quali questioni etiche<br />
e conoscitive si pongono all’antropologo che si trovi a lavorare in contesti scossi dalle guerre e dalle<br />
violenze o dalle loro memorie? Problemi di questo tipo invitano naturalmente ad approcci di tipo<br />
comparativo: si avverte con forza la limitatezza di un’analisi che si limiti a studiare e a spiegare i<br />
singoli casi isolatamente. Eppure si avverte anche il rischio di generalizzazioni semplicistiche, che<br />
apparirebbero tanto più banali (come già notato per gli Human Relations Area Files) a fronte della<br />
drammaticità e dell’immenso impatto morale degli eventi in questione. Inoltre, su un piano più<br />
pratico, la vastità delle conoscenze storiografiche che ciascun evento mette in gioco rendono<br />
impossibile a un singolo studioso, o anche a una piccola équipe, abbracciare con sufficiente<br />
competenza il quadro d’insieme. Come conciliare dunque sguardo d’insieme e peculiarità<br />
storiografica?<br />
La risposta è consistita, appunto, nel raffronto tra case-studies unificati da cornici molto generali<br />
di spunti problematici e di categorie interpretative. Dall’inizio degli anni ’90 ad oggi, i principali<br />
contributi del dibattito internazionale a questi temi sono costituiti da raccolte di saggi storicoculturali<br />
o etnografici che affrontano problemi analoghi ma a ridosso di contesti diversissimi. Si<br />
possono contare decine di pubblicazioni antologiche, numeri monografici di riviste, atti di convegni<br />
in cui si trovano allineati, uno dopo l’altro, contributi riguardanti le “guerre sporche” dell’America<br />
Latina, il terrorismo in Irlanda e nei Paesi Baschi, i genocidi del Ruanda e della ex-Jugoslavia, le<br />
guerre civili africane, i conflitti etnico-religiosi nel Sud-est asiatico, la Shoah, i massacri di civili<br />
durante la Seconda Guerra Mondiale – e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Spesso sono aspetti<br />
ancora più specifici a costituire l’oggetto dei case-studies: la memoria della guerra civile in un<br />
villaggio greco, la politica della memoria tra le famiglie dei desaparecidos argentini, i bambinisoldato<br />
in Mozambico, e così via (per una più sistematica introduzione al tema rimando a Dei<br />
2005). Non si tratta di comparazione formalizzata, ma neppure di contributi autonomi e separati.<br />
Senza alcuna pretesa di generalizzazione, c’è però un intreccio di categorie interpretative, una<br />
giustapposizione delle storie narrate e dei loro attori, tanto da poter leggere i diversi casi come un<br />
unico testo.<br />
2.4 [Analisi quantitativa e qualitativa nella ricerca tranculturale]<br />
Non mancano, nel quadro dell’antropologia contemporanea, ricerche comparative più<br />
formalizzate e basate su metodologie di tipo quantitativo e sperimentale. Non mi riferisco tanto alle<br />
prospettive neoevoluzioniste o sociobiologiche, sui cui limiti e sulla cui sostanziale estraneità al<br />
versante cultrale dell’antropologia mi sono già espresso; quanto, piuttosto, a ricerche di taglio<br />
transculturale (cross-cultural) che impiegano strumenti di rilevazione o misurazione empirica<br />
suscettibili di analisi in termini statistici o comunque quantitativi. Si tratta di metodologie maturate<br />
soprattutto nell’ambito di scienze sociali come la sociologia e la psicologia, nei loro tentativi di<br />
applicare alla dimensione transculturale strumenti di ricerca inizialmente elaborati in riferimento<br />
alle società occidentali. Ad esempio, cosa succede se cerchiamo di usare con persone socializzate in<br />
culture diverse test psicologici come quelli per la misurazione del quoziente d’intelligenza, o test<br />
reattivi come quello di Rorschach (l’interpretazione delle macchie d’inchiostro); oppure, ancora,<br />
questionari sull’adesione a certi valori, come la lealtà, l’amore per i bambini, la pietà filiale e così<br />
via? E’ chiaro che questi strumenti di rilevazione sono stati inizialmente costruiti sulla base di<br />
indicatori e parametri tarati su una “normalità” propria di una particolare cultura (tanto che spesso<br />
risultano difficilmente generalizzabili anche all’interno dello stesso mondo occidentale), che non<br />
funzionano dunque in culture diverse. Così, la misurazione del “quoziente d’intelligenza” avviene<br />
attraverso l’esecuzione di performance intellettuali di natura prevalentemente logico-formale,<br />
implicando abilità che non sono affatto universali e che non sono coltivate, poniamo, nelle culture<br />
africane tradizionali. Gli studi sull’amore per i figli o per i genitori si basano su indicatori<br />
socialmente determinati, che risultano inservibili in società che dettano o ritengono accettabili<br />
norme di comportamento diverse – per cui uno stesso atto può assumere significati opposti.
La sociologia e la psicologia transculturale hanno elaborato complessi e assai interessanti<br />
metodologie per eliminare simili fonti di errore: vale a dire per tarare gli strumenti di rilevazione,<br />
con gli opportuni adattamenti locali, in modo da produrre dati omogenei sul piano trans-culturale<br />
(van der Vijver 2002). Dal punto di vista dell’antropologia, proprio le fonti di errore sono forse<br />
l’aspetto più interessante, in quanto indicatori di diversità. I settori della disciplina più inclini a<br />
questo tipo di ricerca sono l’antropologia psicologica e cognitiva, l’antropologia medica,<br />
l’etnopsichiatria – cioè, gli studi che hanno a che fare col rapporto tra condizioni culturali e<br />
caratteristiche individuali. In tali settori, è possibile combinare strumenti di rilevazione diagnostica<br />
e persino setting sperimentali assai rigorosi con raffinate analisi interpretative dei problemi di<br />
traduzione interculturale. Per l’antropologia medica, ad esempio, la comparazione transculturale<br />
non è solo una fra le possibili metodologie da adottare: è invece centrale e indispensabile per il suo<br />
progetto di mostrare l’azione della cultura laddove le scienze biomediche vedono solo processi<br />
naturali di portata universale. Le discrepanze che le categorie nosologiche della moderna<br />
biomedicina incontrano quando sono usate in altre società sono il segno inequivocabile che “siamo<br />
in presenza della cultura”, come si esprimono Arthur Kleinman e Byron Good, due noti esponenti<br />
della scuola medico-antropologica nordamericana. Un caso in cui tali discrepanze si mostrano in<br />
modo particolarmente clamoroso, studiato da questi due autori, è quello della depressione. La<br />
moderna psichiatria definisce questa malattia in base a una serie ben definita di sintomi (sia<br />
comportamenti, sia percezioni di sofferenza da parte del paziente), i quali cessano di risultare validi<br />
appena fuori da confini culturali molto ristretti. Basta pensare al grado di variabilità dei sentimenti<br />
che costituiscono la “disforia”, il principale indicatore della depressione (tristezza e malinconia,<br />
senso di infelicità e di vuoto, assenza di motivazioni e di piacere per le attività sociali, etc.). Vi sono<br />
culture che ad esempio valorizzano in termini religiosi o morali questi sentimenti, considerandoli<br />
segno di saggezza o di profondità: è il caso di alcune società buddiste, per le quali “una consapevole<br />
disforia è il primo passo verso la salvezza”, mentre al contrario provare piacere per le attività<br />
mondane è visto come radice della sofferenza. Vi sono società che valutano positiviamente<br />
l’espressione piena e drammatica di sentimenti di tristezza e dolore; altre che, al contrario, invitano<br />
a celare questi sentimenti e a presentare in pubblico un self calmo e privo di increspature<br />
(Kleinman-Good 1985, p.3). Non si tratta solo di esprimere in modo diverso gli stessi sentimenti.<br />
Possiamo invece pensare che le esperienze stesse sono diverse: mancano chiari equivalenti<br />
semantici, ed è questo che rende così difficile la traduzione interculturale dei criteri diagnostici. In<br />
altre parole, “descrivere cosa significa essere addolorato o malinconico in un’altra società ci porta<br />
immediatamente ad analizzare differenti modi di essere persone in mondi radicalmente differenti”<br />
(Ibid.). Tutto ciò non esclude tuttavia forme sistematiche di rilevazione empirica delle<br />
sintomatologie su scala transculturale: le rende anzi necessarie. Il grande problema che gli<br />
antropologi così come gli psichiatri transculturali si pongono – quello della relatività o universalità<br />
della categoria stessa di disturbo depressivo – ha bisogno non di soluzioni di principio, ma di<br />
risposte empiriche circostanziate, che sappiano combinare all’analisi epidemiologica e statistica una<br />
adeguata sensibilità etnografica.<br />
Un secondo esempio di ricerche transculturali di taglio empirico e sperimentale, che vorrei<br />
brevemente discutere, riguarda il campo dell’antropologia cognitiva e linguistica. Si tratta dei<br />
celebri studi sulla percezione e sulle denominazioni dei colori, svolte a partire dagli anni ’60 da<br />
Brent Berlin e Paul Kay. Il problema che questi antropologi si ponevano è il seguente. Le lingue e le<br />
culture umane riconoscono e nominano i colori in modi radicalmente differenti: varia il numero di<br />
colori primari che sono individuati (da due a undici) e variano i modi di stabilire confini tra i settori<br />
dello spettro cromatico. Ora, queste variazioni sono arbitrarie e puramente dipendenti dai contesti<br />
locali, oppure si può riconoscere al di sotto di esse un modello cognitivo e percettivo unitario?<br />
Berlin e Kay, lavorando comparativamente su novantotto lingue (venti per analisi diretta e<br />
settantotto attraverso resoconti già editi), hanno ritenuto di poter individuare appunto alcune<br />
caratteristiche comuni nella formazione dell’area semantica relativa ai colori. Le differenze sono<br />
tutt’altro che incoerenti, e si dispongono invece attorno ad un pattern preciso. Prima di tutto,
“ciascuno dei termini di colore principali in tutte le lingue era riconducibile ad uno fra undici colori<br />
di riferimento” (Kay 2001, p. 54). In altre parole, al linguaggio si imporrebbe una universale<br />
modalità percettiva che tende a scomporre la gamma cromatica secondo determinate unità<br />
percettive: sono dunque queste ultime a determinare il significato dei termini di colore. In secondo<br />
luogo, esisterebbe una precisa progressione evolutiva nello sviluppo e nella differenziazione dei<br />
termini di colore. Si parte, nei linguaggi meno “ricchi”, da una differenziazione essenziale tra due<br />
soli colori fondamentali, che sono bianco/nero (o chiaro/scuro), e si procede poi ad ulteriori<br />
scomposizioni secondo un ordine regolare. Quando viene introdotto un terzo termine, quasi<br />
invariabilmente sarà il rosso; seguiranno verde e giallo, e quindi nell’ordine blu, marrone, viola,<br />
rosa, arancio e grigio (Ibid.). Berlin e Kay presentano la loro ricerca come una confutazione del<br />
relativismo linguistico (rappresentato dalla cosiddetta tesi Sapir-Whorf, secondo la quale le visioni<br />
del mondo sono sottodeterminate dalle categorie linguistiche); un punto su cui è tuttora aperta una<br />
discussione serrata. Resta il fatto che si tratta di un esempio importante di comparazione<br />
trasculturale, che si è imposto come decisivo nel campo degli studi sul colore; il suo punto di<br />
maggior forza sta proprio nella delimitazione del campo d’indagine, che consente di definire in<br />
modo preciso ed operativo gli indicatori empirici delle nozioni studiate.<br />
2.5 [Il ritorno del metodo mitico]<br />
Cambiamo completamente scenario. Per quanto possa apparire paradossale, l’orizzonte<br />
interpretativo riapre spazi di praticabilità anche per il metodo comparativo di scala universale, che<br />
l’antropologia aveva abbandonato già dagli inizi del XX secolo in nome del rigore scientifico. Nella<br />
letteratura recente, l’esempio forse più significativo e per certi versi spettacolare di uso del metodo<br />
comparativo è rappresentato dal libro di Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del<br />
sabba (1990). Ginzburg è uno storico con forti interessi per l’antropologia, che si è dedicato fin<br />
dall’inizio della sua carriera allo studio dei processi per stregoneria nell’età moderna. In particolare,<br />
ha centrato il suo lavoro sul seguente problema: le credenze nella stregoneria che emergono dalle<br />
accuse e dalle confessioni (estorte con la tortura, è bene ricordare) documentate negli atti dei<br />
processi sono di origine colta o popolare? In altre parole, rappresentano una ideologia ufficiale<br />
elaborata e imposta dalla Chiesa e dal Tribunale dell’Inquisizione, oppure riflettono, sia pure in<br />
modo distorto, un autentico sostrato di cultura popolare? La storiografia classica propende per la<br />
prima ipotesi, mentre Ginzburg, fin dai suoi primi lavori, tenta di districare dal complesso intreccio<br />
ideologico un filone di credenze e pratiche folkloriche, sostanzialmente pagane e non derivate dalla<br />
cultura egemonica.<br />
In Storia notturna, in particolare, l’autore tenta di rintracciare le origini folkloriche di uno dei<br />
principali nuclei dell’ideologia stregonesca, quello del sabba, il raduno notturno delle streghe che,<br />
nella versione cristiana, incontrano e rendono omaggio al Diavolo. Il problema che Ginzburg deve<br />
affrontare è ovviamente la carenza di documentazione. Per definizione, la cultura che resta<br />
documentata nelle fonti scritte è quella ufficiale; la cultura folklorica, trasmessa per via orale e<br />
spesso osteggiata dalle classi dominanti, non viene registrata e sembra condannata all’oblio. Ma non<br />
è esattamente così: anche la cultura dei “vinti” lascia tracce di sé, e queste tracce possono essere<br />
seguite, sia pure con grande difficoltà e con la necessità, appunto, di “decifrarle”. Dove non arriva<br />
la documentazione diretta, può arrivare un metodo indiretto basato sulla comparazione. Ginzburg<br />
procede così: individua una serie di nuclei tematici presenti nel complesso del sabba, come ad<br />
esempio il volo notturno, l’estasi, il mascheramento da animali etc., e passa a rintracciare temi<br />
analoghi in una vastissima documentazione mitografica, folklorica, storico-religiosa. Il libro si<br />
sviluppa come un gigantesco gioco di domino, dove catene di mitemi o “figure” si collegano tra<br />
loro lungo il duplice asse della sequenzialità cronologica e della somiglianza morfologica, con un
effetto di progressivo ampliamento dell’orizzonte storico-geografico. La tesi di Ginzburg è che il<br />
sabba rappresenta una tarda formulazione di una serie di temi e motivi che rimandano in ultima<br />
analisi all’esperienza della trance sciamanica e al nucleo immaginativo del viaggio nel mondo dei<br />
morti. Ma ogni nesso diretto fra sciamanismo e sabba è scomparso: fra i due si estende un intero<br />
universo di produzioni culturali nel quale la più cauta filologia o i più prudenti approcci contestuali<br />
non riescono a procedere, e dove invece solo il metodo comparativo riesce ad aprirsi la strada.<br />
Storia notturna ha subito molte critiche, sia riguardo la sua metodologia complessiva sia in<br />
relazione a specifiche questioni filologiche: ma ha senz’altro avuto il merito di dimostrare il fascino<br />
e la fecondità della comparazione su vasta scala – nonché la sua legittimità, qualora la si disincagli<br />
dalle ingenue premesse positivistiche ed evoluzioniste che ne hanno segnato la nascita. Ginzburg si<br />
rende conto delle scomode somiglianze tra il suo metodo e quello di opere come The Golden<br />
Bough, e si cautela avvertendo che “il mio Frazer ha letto Wittgenstein” (1989, p. 189 nota). Il<br />
riferimento è qui alle osservazioni critiche che il filosofo austriaco ha mosso proprio a The Golden<br />
Bough, in un testo che ha molto influenzato l’antropologia contemporanea (Wittgenstein 1967) .<br />
Wittgenstein è estremamente critico nei confronti delle “superstizioni” positiviste di Frazer, verso la<br />
sua ossessione per la ricerca delle origini e la sua tendenza a considerare “errori” le credenze<br />
religiose dei primitivi. Al tempo stesso, tuttavia, è affascinato dal metodo comparativo e dagli<br />
accostamenti che esso propone, nei quali vede un significato al di là degli obiettivi esplicativi che<br />
Frazer assegna loro. Depurati dall’ipotesi evolutiva, tali accostamenti possono esser letti come<br />
forme di “rappresentazione perspicua” (übersichtliche Darstellung), secondo il termine coniato<br />
dallo stesso Wittgenstein: cioè modalità di presentazione dei materiali che lasciano emergere i loro<br />
nessi interni attraverso la ricerca di anelli intermedi e rendono visibili le “somiglianze di famiglia”<br />
che li accomunano. Il concetto di rappresentazione perspicua non è certo per Wittgenstein una<br />
metodologia della ricerca sociale o della comparazione antropologica (si colloca invece, nella<br />
riflessione del filosofo, nella dimensione della percezione estetica): tuttavia è un modo efficace per<br />
pensare gli accostamenti comparativi di larga scala al di fuori del quadro esplicativo<br />
dell’evoluzionismo o del diffusionismo. Se faccio notare la somiglianza fra un cerchio e un’ellisse,<br />
dice Wittgenstein, non è per affermare che l’uno è nato dall’altro: o meglio, l’ipotesi evolutiva è<br />
solo un modo di presentare i dati, di mostrare una loro relazione - che resta però una relazione<br />
interna. E’ la relazione interna che fonda la plausibilità delle ipotesi esteriori di collegamento<br />
(evoluzione, diffusione), non viceversa.<br />
Sono queste “relazioni interne”, mi sembra di poter dire, che muovono la stessa ricerca di<br />
Ginzburg, e che rappresentano un problema irrinunciabile per l’antropologia – che pure, come<br />
conseguenza della critica agli eccessi del relativismo, si è a lungo interdetta la possibilità di<br />
parlarne. E’ la “compattezza morfologica” dei materiali su cui lo storico lavora a suggerirgli ipotesi<br />
di ricostruzione di nessi cronologici e geografici (“mi ero servito dell’indagine morfologica come di<br />
una sonda, per scandagliare uno strato profondo altrimenti inattingibile”; ibid., p. xxx). Proprio per<br />
reazione ai “limiti soffocanti” del funzionalismo contestualista, le scienze sociali contemporanee<br />
ritengono dunque legittimo “riproporre alcune domande formulate da Frazer, senza accettarne le<br />
risposte” (ibid., p. 184 nota). Questa linea d’indagine è complessa non solo per la delicatezza<br />
metodologica, ma anche perché richiede una erudizione amplissime e di tipo interdisciplinare<br />
(sempre più rara alla luce degli odierni processi formativi, inclini all’ultraspecialismo); la si trova<br />
raramente praticata, e difficile è prevederne i futuri sviluppi.<br />
2.6 [Comparazione e globalizzazione]<br />
C’è un ultimo punto che mi sembra importante toccare. Comunque la si intenda, la comparazione<br />
antropologica presuppone l’esistenza di entità culturali distinte e relativamente autonome, che cioè<br />
esistono indipendentemente l’una dall’altra. La diversità è il dato iniziale, a partire dal quale si<br />
possono operare raffronti per scoprire eventuali elementi di contatto, universali antropologici,<br />
origini comuni nel tempo o nello spazio. Soprattutto la comparazione di tipo contestuale si basa sul<br />
dogma dell’esistenza di un certo numero di unità culturali discrete e nettamente definite: si tratti
delle 4 culture di Ruth Benedict, o delle 186 su cui i coniugi Ember basano le loro generalizzazioni<br />
statistiche su guerra e violenza, occorre che le unità di comparazione restino ben distinte e non si<br />
confondano l’una con l’altra. Ora, nel dibattito antropologico degli ultimi decenni, questo concetto<br />
di cultura come essenza esclusiva e distintiva di un popolo o di un gruppo sociale è stato posto<br />
radicalmente in discussione. Le culture, si è detto, sono per certi versi invenzioni degli stessi<br />
antropologi, che sono servite loro a introdurre cesure e discontinuità in quello che si può invece<br />
definire il continuum delle differenze culturali. Questa sottolineatura della discontinuità poteva<br />
almeno apparire plausibile quando i campi di studio dell’antropologia erano le remote isole<br />
oceaniche, le riserve indiane, le cosiddette “tribù” africane, e piccoli gruppi umani relativamente<br />
isolati e compatti; ma certo non lo è più nella moderna società globalizzata, in un mondo dalle<br />
dimensioni ridotte in virtù delle tecnologie di comunicazione, con una circolazione senza precedenti<br />
di persone, oggetti, idee. La dimensione antropologica della globalizzazione e le sue conseguenze<br />
sulle concezioni classiche di cultura e di identità o appartenenza culturale sono al centro di un<br />
ampio dibattito, cui non posso qui neppure accennare. Il problema che interessa è, semmai, che ne è<br />
della comparazione tra culture se non vi sono più culture? Che aspetto può assumere la<br />
comparazione antropologica nel villaggio globale?<br />
Occorre rimarcare subito un punto. Contrariamente ad alcune sue semplicistiche letture, la<br />
globalizzazione culturale non si presenta solo come un processo di omologazione che afferma una<br />
monocultura mondiale (ad esempio quella occidentale o “capitalistica” promossa dai grandi mezzi<br />
di comunicazione di massa) distruggendo al tempo stesso le differenze tradizionali. In parte ciò<br />
avviene; ma al tempo stesso i processi di circolazione e le nuove potenzialità comunicative hanno<br />
l’effetto di dar voce alle diversità culturali, di farne esplodere di nuove, di innescare una<br />
molteplicità di processi di differenziazione. Molte culture “tradizionali”, ad esempio, hanno trovato<br />
per mezzo del turismo o dei mass-media una nuova vitalità e nuovi motivi di valorizzazione e di<br />
rivendicazioni distintive. Il villaggio globale sembra poter contenere molti mondi locali. Si dirà che<br />
queste differenze sono “inautentiche” o di seconda mano rispetto a quelle tradizionali: ma sappiamo<br />
oggi che la purezza e autenticità di queste ultime era stata esagerata dagli antropologi stessi. Le<br />
differenze che percorrono la globalità, tuttavia, non si lasciano inquadrare facilmente all’interno di<br />
insiemi omogenei e organici, e soprattutto non coincidono affatto con le classiche unità di analisi<br />
antropologica (un territorio, un popolo, un linguaggio, una cultura): sono invece caleidoscopiche, si<br />
intrecciano secondo percorsi inaspettati seguendo flussi migratori, mercati e mode culturali,<br />
rivendicazioni politiche e religiose. Gli individui e i gruppi le mobilitano attivamente più che<br />
subirle in modo passivo. Non è raro oggi trovare le culture tradizionali consapevolmente promosse<br />
e seguite fra gruppi di immigrati dispersi nei più lontani paesi che non in madrepatria.<br />
Quali sono dunque, in questa situazione, le unità di comparazione? La risposta è complessa, e<br />
probabilmente variabile a seconda delle tematiche studiate. Si possono però indicare un paio di<br />
elementi, che mi sembrano caratterizzare in generale le possibilità di procedure comparative<br />
nell’antropologia del XXI secolo. Il primo punto, in sé banale, è che la comparazione dovrà<br />
prendere in esame non tanto insiemi dati di differenze, quanto i processi della loro costituzione. Gli<br />
individui o i gruppi sociali non possono più esser considerati come inerti “portatori” di cultura –<br />
dunque “informatori”, come si era soliti definirli fino a non molto tempo fa; essi ne sono piuttosto i<br />
creatori. Compito di una etnografia e di un’antropologia della contemporaneità è documentare<br />
questi processi di creazione (talvolta è possibile farlo in tempo reale) e raffrontarne modalità e<br />
risultati. Il secondo punto ci pone di fronte a una sorta di inversione rispetto alle procedure della<br />
comparazione classica. Queste ultime partivano da differenze nettamente segnate, cercando di<br />
risalire alla profondità di universali antropologici o, come si è detto, di origini comuni nello spazio<br />
o nel tempo. Oggi partiamo dal dato di flussi culturali compatti che percorrono il mondo intero,<br />
come quelli diffusi dai mass-media e dall’industria culturale, e da questa unitarietà dobbiamo<br />
scoprire le modalità di costituzione delle differenze. Ad esempio, si può dire che in quasi tutto il<br />
mondo il gioco del calcio ha soppiantato molti sport o giochi tradizionali; che, ugualmente, la<br />
televisione e in particolare generi come soap operas, telenovelas o cartoons hanno soppiantato le
forme della tradizione orale, la fiabistica, la narrativa popolare. Dunque, una monocultura avrebbe<br />
spazzato via una molteplicità di forme culturali locali, producendo una colossale omogeneizzazione<br />
antropologica. Eppure, se ci poniamo sul piano della dettagliata osservazione etnografica, possiamo<br />
accorgerci che il gioco del calcio, le soap operas o i film di Walt Disney si sono diffusi con<br />
modalità assai disuguali, adattandosi ai contesti locali e agli specifici gruppi sociali che ne sono<br />
praticanti o fruitori. La cultura di massa è una sorta di materia prima che si impone globalmente,<br />
certo, ma che viene anche costantemente plasmata in modi peculiari, in nuove configurazioni di<br />
differenze. Nella sua circolazione globale, si “indigenizza” in una molteplicità di usi e significati<br />
locali.<br />
Ho citato lo sport e la televisione perché negli ultimi anni sono stati al centro di una notevole<br />
attenzione in prospettiva transculturale. Cosa significa vedere una soap opera, magari la stessa, in<br />
paesi diversi o fra diversi gruppi sociali? Le contadine egiziane che guardano Beautiful vedono la<br />
stessa cosa delle casalinghe americane o delle filippine emigrate in Europa come collaboratrici<br />
domestiche? E cosa vede nelle telenovelas sudamericane l’appassionato pubblico dei paesi dell’Est<br />
europeo? Il “testo” originario si fa strada verso i particolari spettatori filtrato da traduzione e<br />
doppiaggio, dall’inserimento in diversi palinstesi, ma soprattutto dal contesto di fruizione e dal<br />
background socioculturale degli spettatori stessi. E’ chiaro come si apra qui un grande terreno<br />
comparativo che, come detto, procede in senso inverso rispetto al metodo comparativo classico:<br />
laddove quest’ultimo ricercava il testo originario o archetipico sotteso alla disseminazione di storie<br />
diverse, nello studio della cultura di massa si parte dal testo originario per scoprire<br />
etnograficamente i modi in cui esso si scinde in molte storie diverse (Allen 1995).<br />
E, se passiamo da un genere culturale prevalentemente femminile a uno prevalentemente<br />
maschile, non racconta una infinità di storie anche la diffusione globale dello spettacolo calcistico?<br />
Il gioco è indubbiamente lo stesso, con regole codificate da una Federazione internazionale, e una<br />
platea globale di spettatori assiste in televisione ai grandi eventi come i campionati del mondo. Ma<br />
le articolazioni culturali locali di questo sport globale sono numerosissime. Recenti pubblicazioni<br />
sul tema, ad esempio, mettono a confronto contesti e “casi” diversi quali il culto argentino per<br />
Maradona, la natura “multirazziale” del calcio in Brasile, il nesso fra calcio, politica e violenza<br />
etnica in Camerun e Sierra Leone, il rapporto tra calcio e stregoneria in Tanzania, il rapporto tra<br />
calcio e politiche identitarie in paesi come le isole Mauritius, Yemen, Malta, l’intreccio tra tifo<br />
sportivo e dinamiche autonomiste in Irlanda del Nord e nei Paesi Baschi, e così via (Armstrong-<br />
Giulianotti 1997, 2001). Il metodo è anche qui quello dei case-studies: l’orizzonte comparativo fa<br />
emergere da un lato gli aspetti di globalizzazione, per cui nessun contesto è mai chiuso<br />
ermeticamente su se stesso, e d’altra parte la grandissima varietà di significati simbolici che il calcio<br />
può prestarsi a veicolare in situazioni locali che non sono mai fotocopie l’una dell’altra.<br />
Questi esempi, fra i tanti che si potrebbero citare, mostrano come la globalizzazione non cancelli<br />
affatto le possibilità della comparazione antropologica, e apra anzi nuovi e stimolanti orizzonti. Si<br />
noti che nei casi discussi ciò che viene analizzato e comparato non sono tanto i “testi” (la partita di<br />
calcio o la soap-opera come “oggetti” culturali), quanto le pratiche della loro fruizione da parte di<br />
persone e gruppi sociali specifici. Queste pratiche sono accessibili solo attraverso lo spessore opaco<br />
e scarsamente formalizzabile della ricerca qualitativa, cioè dell’etnografia. Tutto ciò sembra<br />
ulteriormente rafforzare le linee di tendenza che ho cercato di mostrare nel corso dell’intero<br />
capitolo, e cioè che, da un lato, la pratica comparativa è e resta al centro dell’intera impresa<br />
antropologica; dall’altro lato, che è sempre più improbabile la sua riduzione a un metodo unitario,<br />
formalizzato, generalizzante. Abbandonate certe illusioni scientiste, la comparazione antropologica<br />
del XXI secolo potrà riconoscere con maggior franchezza la sua natura di “acto de invención, un<br />
procedimiento para imaginar que no dipenda da un catáclogo de reglas”; un atto che “viene de la<br />
práctica, se aprende en ella, es un arte…No hay un modo de procedimiento sino toda una gama de<br />
determinaciones concretas y vuelos de pensamiento que dan respuestas estratégicas a particulares<br />
problemas” (Lisón Tolosana 2001, p. 22)
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pp. 233-53
CAMMINARE SUL MARAE 39 E LE SUE<br />
CONSEGUENZE.<br />
La ricerca sul campo e le esperienze straordinarie.<br />
di Matteo Aria<br />
(una versione di questo testo è pubblicata in C. Gallini, G. Satta, a cura di, Incontri etnografici.<br />
Processi cognitivi e relazionali nella ricerca sul campo, Roma, Meltemi, 2007).<br />
L’antropologo e le esperienze straordinarie<br />
La ricerca sul campo e la conseguente immersione prolungata in un’“altra cultura” hanno talvolta<br />
portato gli etnografi ad imbattersi in vicende, in narrazioni e in esperienze soggettive che sono<br />
state definite come straordinarie (Young e Goulet 1994), anomale (Mcclenon e Nooney 2002) o<br />
estatiche (Fabian 2001, Goulet 2007). I sogni, le visioni, le premonizioni e altre percezioni non<br />
ordinarie di questo tipo hanno posto i ricercatori di fronte al rischio di veder messe in discussione<br />
le proprie certezze epistemologiche, ontologiche e morali, ma al contempo hanno rappresentato per<br />
alcuni un significativo momento di coinvolgimento e di trasformazione necessario per accedere ad<br />
una comprensione più profonda della società studiata 40 .<br />
È in particolare a partire dai primi anni Settanta che, all’interno dei resoconti antropologici sulla<br />
stregoneria e sulle pratiche rituali, si sono moltiplicate le testimonianze di studiosi che hanno avuto<br />
accesso alle conoscenze condivise delle popolazioni indagate attraverso stati alterati di coscienza o<br />
esperienze paranormali (Goodman 1972, Harner 1973, Myerhoff 1974, Laughlin-D'Aquili 1974,<br />
Owen 1981). Come è emerso ancor più chiaramente nella letteratura prodotta negli anni successivi<br />
(Favret Saada 1977, Peters 1981, Grindal 1983, Stoller e Olkes 1987, Jackson 1989, E.Turner<br />
Blodgett, Kahona e Benwa 1992), non si tratta più di dar conto degli episodi straordinari raccontati<br />
dai propri informatori e di individuare dei modelli funzionalisti, strutturalisti o simbolici che<br />
permettono ad un osservatore, empatico ma distaccato, di spiegare le strane credenze ed esperienze<br />
di un altra cultura. Gli antropologi non appaiono più “intoccabili”, né impermeabili a quello che<br />
accade intorno a loro 41 . Iniziano invece a raccontare di aver visto con i propri occhi (Edith Turner<br />
1994: 83) e soprattutto di aver sentito con il proprio corpo (Grindal 1983: 60) fenomeni<br />
assolutamente incredibili o inspiegabili che sovvertono il proprio modo di concepire la realtà.<br />
Che fare dinanzi a simili eventi, scioccanti e al contempo imbarazzanti? Come interpretarli? Quale<br />
contributo possono dare alla conoscenza scientifica? In che modo influiscono sul rapporto tra<br />
"soggetto" e "oggetto" della ricerca?<br />
39 Il marae può essere sommariamente descritto come la tradizionale struttura in pietra all’aperto polinesiana dove<br />
avvenivano, fino all’avvento del cristianesimo nei primi decenni dell’Ottocento, le pratiche cerimoniali di mediazione<br />
tra il mondo degli uomini e quello degli dei.<br />
40 All’inizio degli anni Settanta si sviluppano parallelamente i contributi antropologici allo studio degli stati alterati di<br />
coscienza e dei fenomeni paranormali (Lang 1974, Angoff e Barth 1974 e Van de Castle1974).<br />
41 Secondo Young l’antropologia è stata a lungo dominata da «un’attitudine imperialista che ha permesso agli<br />
antropologi di descrivere serenamente le strane credenze ed esperienze dei loro informatori, ma di scioccarsi quando<br />
sono colpiti da un esperienza straordinaria. Se sono i nativi che raccontano di vedere gli spiriti ciò viene accettato e<br />
ordinato attraverso precisi schemi interpretativi che spiegano come tale narrazione rientri nella struttura della società<br />
studiata. Se è invece l’antropologo a vederli tale esperienza non è considerata come un dato antropologico appropriato<br />
e di conseguenza non è analizzata»(1994: 167).
Da un lato tali esperienze straordinarie possono essere considerate come episodi fortuiti, irripetibili<br />
e incontrollabili che riguardano la sfera soggettiva e intima del ricercatore e dunque ininfluenti (o<br />
perturbativi) al fine dell’elaborazione oggettiva dei dati e alla costruzione di una corretta<br />
metodologia di ricerca. Da questo punto di vista porle all’interno dei resoconti etnografici si rivela<br />
molto spesso non solo inutile, ma anche dannoso per il ricercatore che può essere indotto o a<br />
concentrare troppo l’attenzione sul sé, allontanandosi inevitabilmente dalla comprensione<br />
dell’alterità di cui vuol dar conto, o, viceversa, a rimanere intrappolato negli orizzonti culturali dei<br />
soggetti studiati, perdendo così la propria vocazione specialistica.<br />
Dall’altro lato si può invece ritenere necessario esplicitare le esperienze vissute e passarle al vaglio<br />
della riflessione scientifica proprio perché costituiscono un elemento ineliminabile della ricerca<br />
etnografica che permette di entrare in contatto con quelle parti più significative del sapere e del<br />
discorso indigeni, altrimenti inaccessibili. Riconosciuta l’utilità dell’esperienza straordinaria e<br />
coinvolgente si pone il problema di come giungere alla sua comprensione. L’antropologo può<br />
allora scegliere di ricorrere alle proprie griglie concettuali capaci di spiegare le stranezze<br />
dell’accaduto, oppure può sostenere che siano proprio queste esperienze a offrire dei validi banchi<br />
di prova per allargare la propria consapevolezza dei limiti inerenti alle categorie analitiche con cui<br />
osserva e giudica le culture aliene. Il mettersi in discussione non significa in questo caso<br />
necessariamente abbandonare il proprio modo di ordinare la realtà, ma aprirsi (come direbbe<br />
Winch) ad altre possibilità di dare senso al mondo.<br />
In ogni caso, uno degli aspetti più problematici per l’etnografo che scelga di avventurarsi nel<br />
campo delle esperienze straordinarie riguarda il ritorno a casa e il difficile e scomodo compito di<br />
convincere gli altri che i propri resoconti sono accurati, veritieri e significativi per la disciplina.<br />
Come hanno fatto notare Young e Goulet (1994: 8), il ricercatore, sia che decida di «sopprimere<br />
l’esperienza straordinaria, minimizzando la minaccia», sia che l’accetti come valida, trasformando<br />
i propri schemi intellettuali, può decidere – e ciò si verifica nella maggior parte dei casi - di non<br />
raccontare agli altri ciò che è accaduto. La scelta prevalente del non dire e la rinuncia a mettersi<br />
pubblicamente in discussione sono dovute, a loro avviso, «alla paura dell’ostracismo», ossia al<br />
timore di andare incontro alle severe critiche dei propri colleghi, propensi a giudicare le vicende<br />
narrate come meri prodotti dell’immaginazione soggettiva e dunque privi di qualunque valore<br />
conoscitivo scientifico. Tale preoccupazione è ancor più giustificata se non si possiedono gli<br />
strumenti che permettono di padroneggiare ciò che è stato vissuto e di tradurlo “in modo credibile”<br />
ad una comunità accademica tradizionalmente diffidente e scettica. È stato, però, lo stesso<br />
ostracismo, così ben radicato nella disciplina, che ha a lungo impedito una seria e approfondita<br />
analisi critica di simili fenomeni straordinari e di conseguenza l’elaborazione di un corpus coerente<br />
di concetti specifici per affrontarli in modo adeguato. L’antropologia ha, infatti, tradizionalmente<br />
giudicato con sospetto questo tipo di esperienze, perché, come hanno sostenuto Stoller e Olkes<br />
(1987: IX-XII) e Tedlock (1991: 71-72), le ha ritenute responsabili di una possibile deriva verso<br />
«le credenze superstiziose della mente» che porta a rigettare la ragione e la conoscenza scientifica,<br />
e ad aprirsi al peggior rischio in cui il ricercatore occidentale può imbattersi: il farsi nativo. La<br />
diffidenza si è ulteriormente acutizzata all’inizio degli anni Settanta in reazione alle finzioni<br />
letterarie di Carlos Castaneda (Grindal 1983: 78) e al diffondersi di orientamenti controculturali<br />
che hanno romanticamente assunto l’incontro etnografico come apertura al sacro e all’alterità<br />
radicale (Dei 1996: 357). Le rappresentazioni etnografiche che hanno insistito sulle esperienze<br />
straordinarie sono state così a maggior ragione considerate come non scientifiche e relegate ai<br />
margini della disciplina. A tale “ostracismo si accompagna la consolidata propensione<br />
dell’antropologia a mettere fra parentesi la soggettività per perseguire un distacco oggettivante in<br />
grado di trasformare l'esperienza in dato. Da questo punto di vista tutte le narrazioni personali<br />
dell’etnografo, e non solo quelle straordinarie, sono state giudicate come non necessarie,<br />
autoindulgenti, banali se non addirittura eretiche (Pratt 1986: 31), proprio perché tradizionalmente<br />
l’etnografia è il resoconto degli altri e delle loro visioni del loro mondo. Di conseguenza, sono
state a lungo omesse dai resoconti etnografici, o comunque ricondotte ad una dimensione<br />
soggettiva della ricerca, rigidamente separata dal piano oggettivo dei dati.<br />
Sono stati, però, gli importanti ripensamenti critici introdotti dall’antropologia interpretativa e<br />
dialogica che, capovolgendo le impostazioni classiche e concedendo agli aspetti autobiografici<br />
della ricerca sul campo un ruolo fondamentale nella costruzione del sapere etnografico, hanno<br />
offerto agli studi sulle esperienze straordinarie nuove possibilità teoriche e metodologiche.<br />
“L’ermeneutica del comportamento” vs l’antropologia dell’esperienza<br />
Lo scandalo seguito alla pubblicazione dei diari di campo di Malinowski ha influenzato ha<br />
contribuito ad aprire, come è noto, un fecondo dibattito epistemologico sulla natura della<br />
comprensione antropologica, che ha spinto gli antropologi a porre maggiore attenzione al rapporto<br />
tra i dati e l’esperienza soggettiva compiuta sul campo e a ritenere la soggettività non tanto un<br />
impaccio da cui liberarsi quanto una delle condizioni necessarie per la conoscenza etnografica. I<br />
primi anni Ottanta, con le riflessioni critiche avviate da Writing Culture, hanno segnato in questo<br />
senso un momento particolarmente significativo nel panorama degli studi anglosassoni che ha<br />
visto emergere, all’interno di un comune orientamento ermeneutico, due differenti modi<br />
d’intendere la ricerca sul campo e la complicata relazione tra l’immedesimarsi e il comprendere. È,<br />
infatti, con la pubblicazione del volume The Anthropology of Experience curato da Bruner e<br />
Turner (1986) che si è resa più evidente la distinzione tra la prospettiva interpretativa e “anti<br />
empatica” di Clifford Geertz, e quella “esperenziale” e partecipativa di Victor Turner.<br />
Per il primo, di fronte al «venir meno dell’einfuhlen» - così come testimoniato dai diari di<br />
Malinowski - ma pressati dalla costante necessità di «rimanere fedeli all’ingiunzione di vedere le<br />
cose dal punto di vista dei nativi» (1988: 74), gli antropologi possono ugualmente arrivare al<br />
verstehen se si sbarazzano delle suggestioni magiche del mettersi nella pelle degli altri, esaltate<br />
invece dall’empatia (1986: 373 e 1988: 74). A suo avviso non possiamo vivere la vita degli altri<br />
popoli, né tanto meno percepire quello che loro percepiscono. Ne consegue che non si giunge alla<br />
comprensione antropologica introducendosi nelle coscienze dei propri interlocutori, ma solo<br />
attraverso l’analisi delle loro espressioni (1986: 373), ascoltando e interpretando cosa ci<br />
raccontano della propria vita. Geertz ci rivela che «il trucco sta nel capire cosa loro pensano di<br />
stare facendo» e non nell’immaginare di essere qualcun altro per poi analizzare cosa si pensa.<br />
Occorre invece ricercare e analizzare le forme simboliche – parole, immagini, istituzioni,<br />
comportamenti - nei termini in cui le persone si rappresentano a se stesse e agli altri (1988: 75). Il<br />
suo è così un invito a non immedesimarsi, a «non entrare in una sintonia di spirito troppo stretta<br />
con il proprio informatore», ad assumere una “giusta distanza” – «restare nascosti ai margini del<br />
bosco per osservare ciò che accade» (2005: 13-14), - per poter ottenere una conoscenza<br />
significativa della realtà che s’intende investigare.. L’astenersi dal partecipare, il rimanere sulla<br />
soglia, permette a Geertz di sostenere, nel suo intervento che chiude The anthropology of<br />
Esperience, l’idea di un “ermeneutica del comportamento”, che, come ha fatto notare Bruner<br />
(1986: 4), presuppone di assumere proprio la prospettiva dell’osservatore esterno che descrive e<br />
interpreta le azioni di qualcun altro.<br />
Turner, invece, ispirandosi al concetto diltheyano di Erlebnis, propone una antropologia<br />
dell’esperienza centrata sullo studio non solo delle rappresentazioni e dei testi, ma soprattutto delle<br />
pratiche e delle performance, da realizzarsi attraverso la condivisione dell’azione, strumento<br />
indispensabile per la sua comprensione 42 .<br />
42 Brumer (1986), ripercorrendo il pensiero di Dilthey, ha sottolineato come una condizione insuperabile risiede nel<br />
fatto che si può fare esperienza della propria vita, ma non possiamo mai conoscere completamente quelle degli altri.<br />
Per trascendere i limiti dell’esperienza, che è individuale, occorre interpretare e comprendere le espressioni: le<br />
rappresentazioni, le performance, le oggettivazioni e i testi. Le espressioni vengono definite da Brumer come<br />
incapsulamenti dell’esperienza degli altri e da Turner come secrezioni cristallizzate delle esperienze della vita umana.<br />
A loro avviso comprendiamo le espressioni degli altri popoli sulla base della nostra esperienza e della nostra<br />
autocomprensione. La comprensione presuppone l’esperienza che è culturalmente costruita.
Pur consapevole dei limiti dell’esperienza - irriducibilmente individuale - e dell’impossibilità di<br />
vivere la vita degli altri, Turner ritiene che l’etnografo non si debba limitare a intervistare le<br />
persone al di fuori del contesto rituale o pratico in cui sono implicati o a studiarne i comportamenti<br />
come uno spettatore che assiste ad una rappresentazione. Pensa invece che per giungere al<br />
significato di certe pratiche sia indispensabile prendervi parte insieme ai suoi attori ed accedere a<br />
quella esperienza emotiva, cognitiva e intersoggettiva di coinvolgimento che caratterizza il teatro<br />
come il rituale 43 . È nel contesto del partecipare insieme ai propri interlocutori, di essere nel mezzo<br />
alle attività sociali messe in scena, che l’etnografo è costretto aprirsi a dimensioni esistenziali<br />
diverse da quelle che gli sono più familiari, sospendendo per quanto possibile i propri<br />
condizionamenti culturali e le proprie nozioni di ciò che è reale e razionale (1985:205). Così<br />
facendo, ci si allontana dalla concezione dell’etnografia come osservazione (Fabian 1979: 26) e si<br />
abbraccia quella della partecipazione che permette al ricercatore, resosi totalmente vulnerabile non<br />
solo all’impatto con un’altra cultura, ma anche alle intricate esistenze di coloro che sono stati<br />
assunti a oggetto di studio, di giungere ad una conoscenza mentale e sensoriale di ciò che<br />
realmente accade intorno a lui e agli altri (Turner 1985: 205). In determinate situazioni la<br />
conoscenza etnografica sembra così possibile solo grazie alla partecipazione radicale e alla<br />
“vulnerabilità” e non attraverso la distanza e il distacco.<br />
Le posizioni teoriche a cui giunge l’antropologia dell’esperienza turneriana si ritrovano nelle<br />
ricerche degli anni Settanta di Favret-Saada (1977), che costituiscono un altro fondamentale punto<br />
di riferimento per i successivi studi sulle esperienze straordinarie. Alla luce delle sue esperienze di<br />
campo sulla stregoneria nel Bocage (Normandia), l’etnologa francese ritiene che l’unico modo per<br />
giungere alla comprensione di certe pratiche e di certe credenze segrete e sotterranee, sia quello di<br />
diventarne protagonista in prima persona, subendo tutti gli effetti che questo comporta. È solo<br />
dopo essere stata stregata, e successivamente adottata come “antistregona” capace di togliere il<br />
male, che Favret-Saada, trasformatasi in informatrice di se stessa, riesce ad accedere a<br />
quell’insieme di conoscenze di cui i nativi non parlano e che gli scienziati sociali non sono in<br />
grado di cogliere. La confortevole e sicura postura dell’etnografo che come osservatore esterno<br />
cerca di vedere le cose dal punto di vista dei nativi, è in questo caso impossibile. Nel mondo della<br />
stregoneria del Bocage, infatti, «parlare non è mai per informare» (1977: 26) perchè la parola non<br />
è sapere, ma è sempre potere, ed «è letteralmente incredibile informare un etnografo, ossia<br />
qualcuno che assicura di non voler fare alcun uso di queste parole che riceve» (1977: 26). Per<br />
questo, «quando la parola è la guerra, è necessario praticare un’altra etnografia» (1977: 30)<br />
Occorre allora situarsi all’interno del discorso magico, viverlo sul proprio corpo ed essere così in<br />
grado di cercare dentro di sé quei significati altrimenti inaccessibili.<br />
Queste nuove prospettive testimoniano ciò che Tedlock ha definito come «lo slittamento<br />
dall’osservazione partecipante all’osservazione della partecipazione» (1991: 69), a cui si<br />
accompagna una riformulazione della visione classica della ricerca sul campo come iniziazione.<br />
Teorizzare la necessità di un’apertura soggettiva a forme di esperienza radicalmente aliena, per<br />
poter sentire – e quindi comprendere - ciò che gli altri sentono e vivono, implica l’ineluttabilità<br />
della profonda trasformazione – “l’essere cambiato da” - a cui il ricercatore va incontro durante il<br />
suo lavoro sul campo. La conoscenza etnografica diviene possibile solo se si è capaci di passare<br />
attraverso le tre fasi tipiche di ogni rito di passaggio: l’abbandono iniziale del proprio ruolo di<br />
antropologo, la susseguente immersione totalizzante in un altro sistema di vita (la stregoneria), e il<br />
conclusivo (e non sempre facile) ritorno, attraverso il racconto della propria esperienza in un libro<br />
di antropologia.<br />
Antropologia dell’esperienza straordinaria: dallo straordinario all’estasi<br />
I contributi di Turner e di Favret-Saada hanno consentito alla riflessione antropologica sulle<br />
esperienze straordinarie di acquisire una nuova legittimità e di dotarsi di validi strumenti<br />
43 Come hanno mostrato Goulet e Miller (2007), in questa prospettiva è implicita l’idea che il corpo diventi<br />
estremamente significativo nell’interazione con gli altri.
concettuali che hanno permesso di superare le intemperie e gli imbarazzi provocati dall’“effetto<br />
Castaneda”. È, infatti, a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta che si viene<br />
progressivamente affermando, all’interno dell’antropologia nordamericana, una nuova corrente di<br />
studi denominata Experiential Approach (o antropologia dell’esperienza straordinaria), impegnata<br />
a comprendere, a interpretare e ad analizzare scientificamente le esperienze straordinarie narrate<br />
dagli informatori o vissute direttamente dagli stessi ricercatori. In questo spazio epistemologico i<br />
sogni, le visioni e altri fenomeni inspiegabili, vengono considerati come dati reali indispensabili<br />
alla conoscenza antropologica e non come prodotti dell’immaginazione e delle credenze<br />
irrazionali. Di conseguenza, non solo non vengono più omessi dai resoconti etnografici ma, come<br />
attestano i lavori di Peters (1981) sull’estasi e la guarigione in Nepal, di Stoller e Olkes (1987)<br />
sulla stregoneria Songhai, di Lederman (1991) sullo sciamanismo malese e di E. Turner –<br />
Blodgett - Kahona e Benwa (1992) sulla guarigione in Africa, diventano i punti privilegiati per<br />
accedere alla cultura altra.<br />
Nel 1994, la pubblicazione del volume Being changed by cross-cultural encounter. The<br />
anthropology of extraodinary experience, curato da Young e Goulet, ha permesso di compattare e<br />
rendere visibile l’ampia letteratura sulle esperienze non ordinarie, e di elaborare un quadro teorico<br />
e metodologico adeguato a collocarle all’interno della riflessione antropologica.<br />
Le prospettive che emergono sono varie e disuguali in quanto a serietà e spessore. In alcuni<br />
interventi si manifesta in modo esplicito la forte disposizione dell'antropologo a provare<br />
un'esperienza straordinaria, che spesso viene attivamente ricercata nel quadro di interessi più<br />
esistenziali che scientifici. Come commenta Dei, «si ha così spesso l'impressione, che le visioni<br />
narrate (non diversamente dai prototipi di Castaneda) appartengano più al contesto della cultura<br />
psichedelica della West Coast che non a quello delle culture tradizionali a cui fanno riferimento»<br />
(1996: ). I curatori del libro, invece, impegnati a definire cosa si debba intendere per “esperienze<br />
straordinarie” 44 , non hanno solo cercato di far chiarezza sui possibili fraintendimenti<br />
terminologici, distanziandosi da facili ingenuità misticheggianti e da scorciatoie irrazionalistiche 45 ,<br />
ma hanno anche messo in evidenza i giudizi dogmatici e le categorie etnocentriche con cui sono<br />
state spiegate le “verità degli altri”. Secondo Young e Goulet (1994) le visioni e i fenomeni<br />
anomali che possono prendere forma negli incontri transculturali, permettono all’etnografo sia di<br />
costruire delle rilevanti interazioni sociali con i popoli studiati, sia di accedere ad un differente<br />
modo di percepire la realtà e di sviluppare una nuova consapevolezza critica delle proprie griglie<br />
interpretative. A loro avviso lo sconvolgimento che si attua in questi momenti spesso drammatici,<br />
se accettato e vissuto fino in fondo, porta il ricercatore sul campo a mettere in discussione la<br />
nozione stessa di realtà, così com’è stata teorizzata [all’interno delle scienze sociali] dalla<br />
tradizione scientifica occidentale e ad aprirsi a nuove visioni che si avvicinano «all’idea di realtà<br />
multiple così com’è stata formulata da Mead, Schutz, e Goodman» (1994: 9). Tale teoria<br />
fenomenologica (Schutz 1967), riletta dai curatori in modo talvolta troppo riduttivo e semplicistico<br />
rispetto alla sua complessità, non implica che la realtà stessa sia multi-dimensionale, ma che se ne<br />
possa fare esperienza in modi differenti, che dipendono dal tempo, dallo spazio e dalle circostanze.<br />
Le esperienze straordinarie riportate nel libro, come vedere gli spiriti (E.Turner), partecipare ad un<br />
rituale di possessione, acquisire i poteri di uno sciamano (Guédon 1994), assistere alla<br />
riapparizione di un morto (Goulet 1994), non significano per Young e Goulet entrare in contatto<br />
con un’altra dimensione della realtà, ma aprirsi a aspetti precedentemente ignorati o repressi.<br />
L’esperienza straordinaria, infatti, non è altro che il normale risultato di una attiva partecipazione<br />
alle performance rituali e sociali attraverso cui le realtà sono generate o costituite.<br />
44 I curatori precisano che il concetto stesso di esperienze straordinarie è un concetto situato e relativo allo sguardo<br />
dell’osservatore occidentale, dato che in molte delle società studiate tali esperienze sono considerate ordinarie<br />
45 Secondo Goulet e Young i fenomeni in questione non devono essere definiti come paranormali o soprannaturali,<br />
perchè tali espressioni portano con sé una distinzione tra ciò che è reale tra ciò che è reale e ciò che non lo è, tra ciò che<br />
è normale e ciò che è anormale, che tende ad allontanare il tema trattato da ogni seria considerazione intellettuale
All’interno di questo orientamento condiviso, confluiscono posizioni che interpretano gli stati<br />
alterati di coscienza, i sogni e le visioni verificatesi nella relazione etnografica in modo<br />
differente 46 . Per Edith Turner (1992, 1994 e 1996), come per Stoller e Olkes (1987: 229), la via da<br />
seguire è quella di accettare il racconto nativo di ciò che è accaduto e far proprie le credenze e i<br />
fenomeni che il nostro sistema di conoscenza considera ridicoli. D’Aquili (1979) e Laughlin<br />
(1994), ritengono invece che per spiegarli in modo soddisfacente sia indispensabile ricorrere al<br />
linguaggio e alle categorie scientifiche attraverso un nuovo modello neurologico che definiscono<br />
come lo strutturalismo bioenergetico. Altri ancora (Obeyesekere 1990, Young 1994, Coffey 1999<br />
...) si schierano su posizioni intermedie sostenendo che gli antropologi dovrebbero prendere sul<br />
serio questo tipo di esperienze senza però limitarsi alle spiegazioni date dai nativi. Secondo questa<br />
prospettiva, le posizioni come quelle di Stoller e Olkes si rivelano incapaci di distinguere<br />
l’esperienza dalla struttura interpretativa al cui interno acquisisce il suo significato. Ciò non<br />
significa, però, rigettare i fenomeni e le esperienze narrate dagli altri o vissute dagli antropologi.<br />
Per riuscire ad essere «uno con loro e non uno di loro» (Obeyesekere 1990: 11) 47 , occorre<br />
abbandonare temporaneamente l’incredulità, seguire i resoconti delle esperienze straordinarie e le<br />
spiegazioni che ne vengono date, e infine collocarli in connessioni illuminanti con quelli che<br />
Geertz ha definito come concetti lontani dall’esperienza 48 .<br />
Per Goulet (1994:) e per Yuong (1994: 191), tuttavia, il metodo ermeneutico di tradurre i<br />
significati da un sistema ad un altro non è di per sé sufficiente per realizzare una buona etnografia.<br />
A loro avviso, infatti, le impostazioni interpretative ed etnometodologiche, teorizzando la necessità<br />
di un distanziamento dai soggetti studiati, precludono la possibilità di considerare come dati validi<br />
alcune esperienze straordinarie che permettono invece «l’istaurarsi di un piano comune tra le<br />
proprie visioni scientifiche del mondo e quelle di coloro che vedono la realtà in modo differente»<br />
(Young 1994:191). Goulet sostiene a questo proposito che l’etnografo, oltre a seguire la pratica<br />
turneriana della “partecipazione radicale”, deve rivelare ai suoi interlocutori i propri sogni e le<br />
proprie esperienze straordinarie, prestando attenzione alle interpretazioni che gli vengono offerte.<br />
Questo perchè gli studiosi immersi in una società e in un linguaggio altro dal proprio, possono<br />
iniziare a sognare e a pensare attraverso i simboli e le categorie della cultura in cui si sono venuti a<br />
situare. La narrazione di queste vicende personali e la discussione con gli attori locali permette<br />
così di accedere ad una più profonda comprensione di alcuni aspetti significativi della cultura in<br />
cui si è immerso.<br />
Negli ultimi anni all’interno dell’antropologia dello straordinario si è assistito a quello che può<br />
essere definito come un progressivo slittamento dallo straordinario all’estatico, in cui si stempera<br />
l’interesse per gli interrogativi e le spiegazioni di ordine fenomenologico e al contempo si attenua<br />
la preoccupazione di superare l’ostracismo accademico nei confronti delle esperienze straordinarie.<br />
Allontanandosi dalle suggestioni e dagli imbarazzi delle etnografie «appartenenti al genere<br />
apprendista stregone» (Marcus e Fischer 1986: 136) e vinto il rischio di farsi nativi, la riflessione si<br />
è spostata sui prerequisiti che consentono la conoscenza etnografica. Partendo dalla ormai<br />
consolidata certezza epistemologica che l’autobiografia è una condizione dell’obbiettività<br />
etnografica, intesa come frutto dell’interazione tra l’antropologo e i suoi interlocutori (Fabian<br />
2000) 49 , si è concessa maggiore attenzione agli impatti esercitati sul ricercatore dai contesti sociali,<br />
46 Mcclenon e Nooney (2002), passando in rassegna quaranta esperienze anomale riportante da sedici antropologi,<br />
hanno messo in evidenza l’esistenza di tre differenti tipi di reazioni a questi eventi: la razionalizzazione, la<br />
razionalizzazione parziale e, in ultimo, il suo rifiuto che implica l’accettazione delle spiegazioni paranormali.<br />
47 Analogamente Obeyesekere ha sostenuto che si comincia a comprendere un’altra cultura non in base ai dati<br />
accumulati, ma quando è si è in grado di relazionarsi dialogicamente con propri informatori, «in modo tale che le loro<br />
azioni diventino per me comprensibili come le mie per loro» (199: 226).<br />
48 Young (1994: 191-192) a questo proposito sostiene la necessità d’individuare dei meta-modelli in grado di<br />
comprendere le visioni degli informatori e quelle di un pubblico scientifico<br />
49 Barth è stato tra i primi ha sottolineare come la permanenza prolungata sul campo produca non solo osservazioni ma<br />
anche concettualizzazioni e intuizioni che sono una creazione a più mani realizzata dagli antropologi e dai loro<br />
interlocutori nel processo di interazione (1992: 65)
politici, ed economici in cui si viene a trovare. Soffermare lo sguardo su questi aspetti porta a<br />
rendere più comprensibili i processi conoscitivi e le circostanze in cui divengono operativi 50 .<br />
Fabian è stato il primo a sostenere come «nella maggior parte dei casi la ricerca etnografica esprima<br />
il meglio di sé quando siamo fuori dalla nostra mente, quando ci lasciamo andare e dimentichiamo i<br />
nostri impegni di ricerca. [...] In breve c’è un lato estatico della ricerca sul campo che dovrebbe<br />
essere annoverato tra le condizioni necessarie alla produzione della conoscenza» (2001: 31).<br />
Secondo tale prospettiva il ricercatore sperimenta questo lato estatico nel momento in cui, messa da<br />
parte temporaneamente la tensione a ottenere i dati che si era prefissato, si apre alla possibilità di<br />
entrare profondamente nel mondo in cui è ospitato 51 . Come sostengono Goulet e Miller, è attraverso<br />
questi cruciali momenti esperienziali che si rende possibile la comprensione antropologica, perché<br />
si ridefiniscono le relazioni con gli altri, si approfondiscono le proprie abilità a interagire con loro in<br />
modo più significativo e si sollevano importanti quesiti epistemologici e ontologici (2007: 3) 52 .<br />
Secondo questo punto di vista la conoscenza sembra dover [necessariamente] passare attraverso<br />
delle fasi liminali, che comportano il momentaneo abbandono della postura razionale e distaccata<br />
dell’osservatore per abbracciare la prospettiva del “conoscere attraverso il perdersi”. Per Fabian,<br />
l’estasi come l’empatia, la comunicazione e il dialogo, allo stesso modo dell’età, del genere, della<br />
classe sociale e delle relazioni di potere, devono essere tenuti in considerazione quando riflettiamo<br />
criticamente su ciò che ci permette di comprendere gli altri nel momento in cui interagiamo con loro<br />
(2000: 280). L’estasi non deve essere intesa come un comportamento irrazionale, erratico e<br />
d’evasione perchè, come precisa, «non è un tipo di comportamento che si adotta, ma una qualità<br />
dell’azione e dell’interazione umana che crea un terreno comune per l’incontro con l’altro» (2000:<br />
8). Non rappresenta così un ostacolo alla produzione etnografica, ma ne costituisce il suo<br />
prerequisito fondamentale. È la condizione, suggeriscono Goulet e Miller, che ci permette di<br />
avventurarci nel viaggio etnografico, trasportandoci in territori incerti e facendoci entrare realmente<br />
in un’altra forma di vita. Il suo valore epistemologico è realmente colto quando scopriamo, mentre<br />
ci abbandoniamo, che siamo anche in grado di elaborare impreviste abilità di fare esperienza della<br />
realtà. L’estasi non è il contrario logico e teoretico del controllo, ma diventa la sua negazione<br />
pragmatica ed esistenziale (Goulet e Miller 2007: 8).<br />
Alla luce di ciò, gli etnografi esperenziali si sforzano di scrivere i resoconti delle loro esperienze<br />
personali sul campo, non solo cercando di evitare l’accusa di essere narcisisti e di ricevere il<br />
rimprovero dei nativi: “Basta parlare di te, parliamo di me”, ma muovendo nuovamente delle<br />
precise critiche alla posture distanzianti dell’antropologia interpretativa geertziana.<br />
Per Goulet e Miller tale prospettiva, nell’associare «il muoversi tra gli altri in modo furtivo per<br />
evitare di essere scoperti» con l’obiettività scientifica o la chiarezza interpretativa – come emerge, a<br />
loro avviso, più volte nell’opera di Geertz (1971 e 2005) -, sottende non solo il controllo di sé ma<br />
anche degli altri. È una metodologia in cui il ricercatore guarda sempre dall’esterno, attraverso<br />
procedure che impediscono la condivisione di esperienze. Di conseguenza la domanda da porsi è<br />
quale tipo di conoscenza si realizza se si resta così lontano dagli altri? Quale tipo di racconto<br />
proverrà dagli intervistati che parlano a qualcuno che non ha esperienza? Rifacendosi a Turner e<br />
contrapponendolo a Geertz, Goulet e Miller ritengono che gli antropologi esperenziali debbano<br />
invece riflettere sulle conoscenze che si producono partecipando attivamente alle performance in<br />
atto. L’esperienza non è fine a se stessa, ma è vista come strumento che permette di apprendere<br />
direttamente ciò di cui la gente parla quando descrive la propria esperienza vissuta. Imparare<br />
50<br />
Come sinonimo di parte estatica della ricerca sul campo viene utilizzato il termine di partecipazione radicale al<br />
mondo degli altri, che implica l’adozione delle prospettive epistemologiche ed etiche dei nativi come strumenti<br />
indispensabili di conoscenza.<br />
51<br />
Un concetto non troppo dissimile da quello espresso da Fabian può essere ritrovato anche nella nozione di<br />
“perduzione” di Piasere (2002: 56).<br />
52<br />
In modo analogo, Amanda Coffey (1999, 33) ritiene che l’esclusione dai resoconti etnografici delle intuizioni<br />
raggiunte attraverso la parte estatica della ricerca sul campo è infondata e dannosa per lo sviluppo della disciplina.
significa necessariamente partecipare - non solo ascoltando e parlando ma anche agendo insieme - e<br />
trasformarsi (2007: 8).<br />
Camminare sul marae<br />
Alla luce di questa ampia letteratura – di cui in questa sede ho potuto dar conto solo in modo<br />
parziale - e degli interrogativi emersi vorrei tornare a riflettere su una delle vicende non<br />
propriamente ordinarie che hanno segnato la mia ricerca sul campo e soprattutto le successive<br />
scelte di scrittura 53 .<br />
All’inizio del settembre del 1999 ebbi l’opportunità di soggiornare in Polinesia Francese come<br />
skipper a bordo di un cabinato di quindici metri. Un gruppo di charteristi l’aveva noleggiato per<br />
veleggiare tra le lagune dell’Arcipelago della Società. Dopo ventuno giorni di lavoro, decisi di<br />
fermarmi per una settimana di vacanza e di riposo tra Raiatea e Tahaa. Al tempo, a parte le<br />
caratteristiche nautiche e meteorologiche, e la letteratura sui vagabondi dei mari del Sud,<br />
conoscevo pochissimo della Polinesia Francese, anche perché le mie ricerche antropologiche si<br />
erano fino ad allora svolte in Africa 54 . Insieme a Chiara, che con me aveva condiviso le fatiche e le<br />
gioie del lungo charter, decisi di visitare l’isola con lo scopo di giungere fino al marae di<br />
Taputapuatea, che ci era stato descritto da più parti come un grande cumulo di pietre privo di<br />
fascino. Questo genere d’informazioni così pessimistiche rispecchiano bene quel senso comune<br />
condiviso da molti “occidentali”, secondo cui la Polinesia è meravigliosa per i suoi tramonti, per le<br />
sue acque cristalline e per l’ospitalità degli abitanti, ma è anche altrettanto vuota e triste per<br />
“l’assenza di cultura” e di memoria, e perché, a parte qualche riedizione buona solo per i turisti in<br />
viaggio di nozze, tutto quel passato, che aveva invitato alla fuga molti artisti, scrittori e<br />
vagabondi 55 , sembra essere andato irrimediabilmente perduto. Di “vero” e di “autentico” non<br />
resterebbe più niente e il viaggio a Taputapuatea ne sarebbe stata una conferma.<br />
Grazie ad un passaggio offertoci dal postino dell’isola, raggiungemmo velocemente il marae. Lo<br />
scenario era assai desolante. Camminai a lungo sulle pietre delle differenti piattaforme, convinto di<br />
trovarmi di fronte ad un luogo “vuoto”, “senza vita”, senza pathos. Se a quel tempo avessi letto<br />
Les Immémoriaux di Segalen o gli scritti di Buck sui “Vichinghi del Pacifico”, avrei pianto anch’io<br />
su queste mute rovine, per un passato forse glorioso, ma sicuramente irrimediabilmente perduto.<br />
Tornati nella piccola pensione dove alloggiavamo, decidemmo di fare un’escursione sul fiume<br />
circostante e raccogliemmo dei fiori di zucca, i frutti dell’albero del pane (uru) e altri ortaggi con<br />
cui preparammo la cena. Ero contento sia della giornata passata che delle settimane precedenti,<br />
trascorse a destreggiarmi tra i groppi tropicali e i pericoli della barriera corallina, assaporando le<br />
gioie di una navigazione a lungo desiderata. Questo quadro così idilliaco fu turbato<br />
improvvisamente da un crescente disagio che avvertii pochi minuti dopo aver finito di mangiare.<br />
Cominciai, infatti, a sentirmi male, senza riuscire a capire cosa mi stesse succedendo. La testa fu<br />
inaspettatamente avvolta in tristi e tormentati pensieri, che man mano si fecero sempre più<br />
devastanti, tanto da non riuscire più ad arginarli. Avevo la sensazione che quello stato non fosse<br />
passeggero: non ne comprendevo le ragioni, ma contemporaneamente ero ossessionato dal timore<br />
che non ne sarei più uscito. A nulla valsero i tentativi di Chiara di tranquillizzarmi, anzi avevo<br />
l’impressione che le sue mani protese verso di me diventassero sempre più grandi e più nere.<br />
Tralascio la descrizione delle mie successive fasi allucinatorie. Ricordo che con gran fatica riuscii<br />
a addormentarmi. La mattina seguente le mie condizioni continuavano ad essere molto precarie.<br />
Ero perseguitato da pensieri ricorrenti, spesso senza senso. Uno in particolare non mi dava tregua:<br />
«Se mi si presenta un testimone di Geova alla porta di casa, cosa devo fare? Dedicargli tempo e<br />
53 Il racconto che qui presento fa parte del libro........<br />
54 Tra il 1995 e il 1997 avevo condotto delle ricerche sui pescatori Nzema del Ghana Sud-Occidentale, all’interno della<br />
Missione Etnologica Italiana in Ghana, guidata dal Professor Mariano Pavanello.<br />
55 Melville, Gauguin e Brel, per citare, in ordine cronologico, solo alcuni dei più noti.
ascolto, permettendogli di entrare in casa, oppure sbarazzarmene velocemente con le classiche<br />
frasi del caso?».<br />
Sorpreso e stremato dalla ricorrenza di questo strano e incessante ritornello mentale, mi diressi<br />
insieme a Chiara alla banchina del porto, per imbarcarci alla volta di Tahaa e far visita a Madame<br />
Taipo, una rubiconda ed espansiva coltivatrice di vaniglia che abitava nel distretto di Haamene e<br />
che si era offerta di ospitarci per alcuni giorni. Appena sbarcati ci incamminammo lungo una<br />
strada sterrata e polverosa, dove per più di un’ora non incontrammo alcuna macchina, finché<br />
comparve, in senso opposto alla nostra direzione, un camioncino che distribuiva alcuni generi<br />
alimentari. Al volante c’era una giovane donna polinesiana, che, avvicinatasi, ci chiese dove<br />
fossimo diretti. Saputo il nostro itinerario, ci disse che Madame Taipo era sua cugina e si offrì di<br />
accompagnarci. Iniziammo una lunga e vivace conversazione, che ebbe però una brusca<br />
interruzione quando le raccontai dell’escursione fatta il giorno precedente a Taputapuatea e della<br />
mia camminata sulle pietre del marae. La donna fermò di colpo il furgone, mi guardò, mi chiese se<br />
stessi bene e se la notte avessi avuto dei problemi. Non potei che rivelarle le vicende della sera<br />
prima e il mio persistente stato confusionale. La cugina di Madame Taipo mi disse, preoccupata,<br />
che non solo non si doveva andare a Taputapuatea da soli, ma che soprattutto non si poteva<br />
camminare sul marae, perché era un luogo tutt’altro che morto e abbandonato. Era invece un luogo<br />
tapu, “carico di mana”, che molto probabilmente “si era impossessato di me” 56 . Aggiunse, inoltre,<br />
che una delle manifestazioni di questo «stato di possessione» era rappresentata sia dai «deliri<br />
mentali», sia dalle visioni di grandi mani nere. Era assolutamente necessario che per tre giorni di<br />
seguito facessi delle abluzioni con dell’acqua dove erano state fatte bollire delle foglie di ti’ 57 .<br />
Questo era l’unico modo per purificarmi e per “staccarmi” dal mana, altrimenti le conseguenze<br />
avrebbero potuto essere terribili.<br />
Arrivati a destinazione, Madame Taipo, informata immediatamente dalla cugina dell’accaduto, si<br />
preoccupò di andare a cogliere le foglie necessarie e nei giorni successivi preparò le infusioni<br />
affinché mi potessi «liberare dal mana di Taputapuatea». Strano a dirsi, ma la donna che ci aveva<br />
dato queste precise indicazioni per proteggermi dai possibili effetti nefasti del mana, era una<br />
Testimone di Geova 58 . Da allora cominciai a parlare dell’accaduto alle persone con cui riuscii a<br />
stabilire delle relazioni. Cercai di approfondire le vicende che mi erano capitate, domandando cosa<br />
mi potesse essere successo, se fosse vero che non si doveva camminare sul marae e se, oltre ai<br />
bagni con gli infusi di ti’, fosse necessario fare qualcos’altro. Le mie indagini non proseguirono a<br />
lungo perché, di lì a qualche giorno, rientrai in Italia.<br />
Negli anni successivi la Polinesia, il marae di Taputapuatea, il mana e i tapu rimasero un ricordo<br />
opaco di qualcosa che avevo lasciato incompiuto, fino a quando vinsi un dottorato in Scienze<br />
antropologiche e analisi dei mutamenti culturali all’Università di Napoli l’Orientale. Approfittai<br />
dell’occasione per elaborare un progetto di ricerca sulla relazione tra il turismo e la tradizione nella<br />
rivalorizzazione del marae di Taputapuatea. In veste di antropologo, potei così tornare a Tahiti e a<br />
56 Nella società tradizionale tahitiana i concetti di mana e di tapu erano elaborati all’interno del sistema di controllo<br />
politico e sociale, di cui parlerò più avanti. Entrambi continuano oggi ad essere frequentemente utilizzati, trascinando<br />
con sé, come ha osservato Levy, anche i significati di un tempo: «Il mana è qualcosa che viene usato oggi per designare<br />
il potere o l’autorità personale. Può significare potere secolare, come il mana del governo territoriale, o essere legato ad<br />
un potere soprannaturale: il mana che permette ad un uomo d’influenzare gli spiriti. Gli effetti nefasti prodotti da<br />
un’infrazione o violazione di un tapu, come l’attraversamento di un confine interdetto, sono ritenuti spesso derivanti dal<br />
mana» (1973: 158). In realtà, a suo avviso, anche se il mana di una persona o di un oggetto è spesso indicato come il<br />
responsabile immediato di determinate malattie e sciagure, vi è frequentemente la consapevolezza che alle sue spalle<br />
siano individuabili gli spiriti degli antenati o quelli legati ad un luogo particolare. Levy attesta, inoltre, come persista e<br />
sia molto diffusa la convinzione che la violazione degli antichi luoghi sacri, il loro inadeguato rispetto, come il<br />
“disturbare” le pietre antiche, producano sanzioni soprannaturali inevitabili.<br />
57 Il ti’ (cordyline fruticosa) è una pianta dalle larghe foglie verdi (o rosso-verdi) diffusa in tutto il Pacifico, dalle<br />
Hawaii, alla Cina fino alla Papua Nuova Guinea. Generalmente è fatta crescere intorno alle case e ai luoghi di culto.<br />
58 Come ho potuto constare nella mia ricerca sul campo, i testimoni di Geova, come gli Avventisti del Settimo Giorno,<br />
sono, tra le numerose congregazioni cristiane presenti, le più intransigenti nei confronti sia degli antichi culti e dei<br />
costumi pre-europei, sia della loro recente riscoperta, dietro a cui vedono celarsi il ritorno di Satana.
Raiatea nel settembre del 2003. La narrazione della camminata sul marae e delle sue conseguenze<br />
divennero uno degli elementi che caratterizzarono lo strutturarsi della relazione etnografica.<br />
Gli studi a Parigi e a Londra mi avevano reso consapevole dell’importanza del marae di<br />
Taputapuatea non solo per le isole della Polinesia Francese, ma anche per tutti gli arcipelaghi di<br />
quello che nel Pacifico è conosciuto come il grande triangolo polinesiano 59 . Il suo carattere<br />
internazionale è dovuto al fatto di essere narrato e vissuto come la mitica Hawaiki, grande madre<br />
di tutte le isole, la terra di origine della grande migrazione dei popoli polinesiani, il luogo da cui<br />
tutti partirono. Dopo un lungo periodo di abbandono, seguito ai contatti con gli europei e alla<br />
conversione al cristianesimo nei primi decenni dell’Ottocento, nel 1995 il marae di Taputapuatea<br />
fu di nuovo immaginato come una stella che orientava gli itinerari e guidava i pellegrinaggi alle<br />
sorgenti dei Maori della Nuova Zelanda, degli Hawaiani e dei Polinesiani delle Isole Cook e di<br />
Rapa Nui. In quell’anno, infatti, da queste isole – mete dell’emigrazione di un tempo – una nuova<br />
generazione di navigatori attraversò, a bordo delle proprie piroghe tradizionali, il Grande Oceano<br />
per ritornare a Taputapuatea e partecipare ad una cerimonia che doveva segnare la ritrovata unità<br />
di tutti i popoli dispersi del grande triangolo polinesiano. Per riflettere su questo evento, e più in<br />
generale per approfondire il tema del recupero delle tradizioni, decisi di incontrare Raymond<br />
Graffe, conosciuto non solo come uno dei principali protagonisti della riscoperta del passato, ma<br />
anche per aver svolto un ruolo decisivo nella manifestazione del 1995. In tale occasione si era,<br />
infatti, assunto il compito di togliere i tapu – che da tempo immemorabile impedivano a tutti i<br />
popoli partiti da Taputapuatea di ritornare – rendendo così possibile lo svolgersi della cerimonia.<br />
Durante la prima conversazione che ebbi con lui al Service du Patrimoine et de la Culture di<br />
Tahiti, oltre a presentargli gli intenti della mia ricerca, gli raccontai quello che mi era accaduto<br />
quattro anni prima a Taputapuatea. Gli precisai come quelle vicende avessero rappresentato per me<br />
una delle spinte iniziali per comprendere e per conoscere i marae, il mana, i tapu e coloro che vi si<br />
relazionavano.<br />
Da principio Graffe si mostrò perplesso perché, come mi disse, «sono tanti i turisti e gli<br />
Occidentali che ci camminano sopra senza che gli sia successo niente. I problemi di solito<br />
riguardano le donne, che non devono attraversarlo». Cambiò, poi, atteggiamento e cominciò a<br />
pormi molte domande. Mi chiese se prima di andare a Taputapuatea avessi visitato qualche altro<br />
marae. Vi avevo camminato a torso nudo? A che ora era accaduto? Quali piattaforme avevo<br />
attraversato? Ero salito sull’ahu? Mi accompagnava una guida tahitiana? Avevo litigato con<br />
qualcuno? Avevo detto o pensato qualcosa di cattivo?<br />
Di fronte alla mia memoria frammentaria, imprecisa e opaca, e ai miei molti “non ricordo”, Graffe<br />
mi domandò se il giorno dopo ero disposto ad andare con lui davanti al mare «a fare una cosa<br />
insieme». Gli risposi che sarei partito per Raiatea il pomeriggio stesso e che non potevo rimandare<br />
il viaggio. Graffe mi suggerì allora di ritornare a Taputapuatea, cercando di ri-camminare negli<br />
stessi luoghi dove ero stato quattro anni addietro. Prima di compiere questa azione, però, sarei<br />
dovuto andare sulla spiaggia davanti al marae per:<br />
Raccogliere dei fiori dagli alberi, che crescono lì nei pressi, da offrire allo squalo, il dio dell’Oceano. Devi<br />
restare lì davanti senza immergerti, ma ripensando al percorso che avevi fatto e a tutti i cattivi pensieri di<br />
allora. A quel punto devi entrare in acqua immergendoti completamente, anche con la testa, donando al dio<br />
dell’Oceano, insieme ai fiori, tutto quello che è accaduto quel giorno.<br />
Dovevo poi uscire dall’acqua senza voltare le spalle al mare e quindi ricamminare sul marae.<br />
Graffe non mi dette spiegazioni su quello che mi era accaduto, né io gliele chiesi, ma rimasi un po’<br />
perplesso riguardo alle pratiche cerimoniali che mi aveva suggerito. Mi imbarcai il pomeriggio<br />
stesso sul cargo Vaeanu, che tre volte alla settimana collega Tahiti con le Isole Sottovento 60 , alla<br />
59<br />
Tale rappresentazione mitica ha ai vertici le Hawaii, la Nuova Zelanda e Rapa Nui (l’isola di Pasqua), e al centro<br />
Raiatea e le Isole della Società.<br />
60<br />
Nella parte occidentale, tra i 15° e i 18° di latitudine Sud e i 148° e i 154° di longitudine Ovest, l’arcipelago delle<br />
Isole della Società, dove ho condotto le mie ricerche, è composto da quattordici isole (di cui sei disabitate), divise a loro<br />
volta tra le cinque isole Sopravvento (Moorea, Tahiti, Mehetia, Maiao e Tetiaroa) e, a settecento chilometri più a Nord
volta di Raiatea, dove giunsi poco prima dell’alba del giorno successivo. Sulla banchina del porto<br />
cominciai a scambiare alcune parole con una coppia di tahitiani, Malona e Anne Marie Teura,<br />
anch’essi scesi dal Vaeanu e diretti a Tahaa, dove abitavano. La conversazione si fece ben presto<br />
molto intensa e Malona mi disse di essere un indipendentista, sostenitore di Oscar Temaru 61 , ma<br />
allo stesso tempo di aver fatto il militare per diciotto anni nei reparti d’assalto della Marina<br />
Militare Francese. Aveva poi deciso, nel 1993, di andare anticipatamente in pensione per accudire<br />
la mamma malata e tornare a vivere nella sua terra a Faaaha 62 . Aveva costruito la propria casa su<br />
quello che definì come il marae école, dove Hiro, l’eroe leggendario, il grande navigatore, il<br />
fondatore di Taputapuatea, era cresciuto e aveva appreso tutte le sue infinite conoscenze e astuzie.<br />
Conosciuti i motivi della mia ricerca e la storia della mia camminata a Taputapuatea, Malona, con<br />
uno sguardo severo a lui assai abituale, mi invitò ad andare per un po’ di tempo ospite loro nella<br />
valle di Faaaha. Quando gli raccontai dei suggerimenti fornitemi da Raymond Graffe, mi disse che<br />
lo conosceva bene, ma le sue indicazioni non avevano alcun peso perché:<br />
Graffe è uno di Tahiti e ha il potere solo sui marae che sono laggiù. Su Taputapuatea non ha alcuna<br />
autorità. Se devi fare qualcosa a Taputapuatea è necessario che sia qualcuno di là a guidarti.<br />
Questo incontro fu l’inizio di un’amicizia importante e profonda che orientò, poi, gran parte delle<br />
mie ricerche. Trascorsi, infatti, molto tempo, durante la mia permanenza alle Isole Sottovento,<br />
insieme a Malona e alla sua famiglia, nelle terre dove coltivano la vaniglia, i cocchi e “il rapporto<br />
con gli antenati”. La mia permanenza nella valle fu segnata da sogni e visioni (v. Aria 2007, pp.<br />
255-308) e dalle successive interpretazioni e narrazioni di Malona che mi permisero di addentrarmi<br />
nell’universo dei tapu, degli animali protettori e uccisori, dei marae di adorazione e dei loro spiriti<br />
guardiani altrimenti inaccessibile.<br />
Fu invece Jean Mere che, pochi giorni prima della mia partenza da Raiatea, mi accompagnò e mi<br />
guidò a Taputapuatea per ripercorrere insieme la camminata di un tempo. Lo incontrai la prima<br />
volta al comune di Avera, dove mi ero recato per presentarmi ufficialmente al sindaco e ai suoi<br />
collaboratori, dopo che il Ministero della Cultura aveva annunciato, via fax, la mia presenza<br />
sull’isola. Conosciuti i motivi della mia visita, decise di trasferirsi in un’altra stanza, dove<br />
cominciammo a discutere. Jean mi paragonò ad un’anziana donna francese, protagonista con le sue<br />
visioni e con i suoi viaggi ipnotici delle recenti scoperte di alcuni marae della valle alle spalle di<br />
Taputapuatea, e a Jérôme, uno svizzero trentaseienne, che da circa un anno si era trasferito a vivere<br />
a Raiatea ed era impegnato a creare l’associazione internazionale Le Monde Sacré, carica di visioni<br />
fortemente influenzate dalla mistica new age. Jean Mere affermò, infatti:<br />
Sono delle persone come la “metropolitana”, come Jérôme e come te, che hanno dei legami. Forse in<br />
un’altra vita siete stati polinesiani. Questa è la forza che vi spinge a cercare le radici. È bizzarro che avete<br />
ricevuto delle cose, nonostante non siate di qua. Ci sono delle persone per cui è facile. È come se fossero<br />
state scelte per ricevere. L’ambizione che avete è forte. Forte in voi è la volontà di conoscere la cultura<br />
polinesiana, come se fosse qualcosa che è già in voi, ma avete bisogno delle persone che vi aiutino a<br />
sentire, che vi guidino. Oggi ci sono molti metropolitani 63 europei che vengono per conoscere, perché<br />
hanno avuto delle sensazioni. Ne ho conosciuti molti quando facevo la guida al marae di Taputapuatea, che<br />
mi hanno detto che erano venuti a Raiatea per conoscere questo marae, perché avevano avuto queste<br />
sensazioni.<br />
Mi spiegò, però, che «non sempre quello che accade è positivo, anzi spesso si verificano delle<br />
tragedie perché Taputapuatea è allo stesso tempo un luogo fortemente interdetto e inaccessibile in<br />
molte sue parti a chi viene da fuori, siano essi originari dei distretti e delle isole vicine, o<br />
dell’Europa».<br />
Ovest, le nove isole Sottovento (Tahaa, Raiatea, Bora Bora, Huahine, Maupiti, Tupai, Maupihaa, motu one e Manuale),<br />
dove “sopra” e “sotto” sono riferiti alla propria posizione rispetto direzione del vento prevalente sud-orientale.<br />
61<br />
Oscar Temaru, leader del partito indipendentista della Polinesia Francese Tavini Huiraatira, è dal 2004 il presidente<br />
del governo della Polinesia Francese.<br />
62<br />
Faaaha è uno dei distretti dell’isola di Tahaa.<br />
63<br />
Il termine metropolitano è impiegato generalmente dagli abitanti di queste isole per definire i francesi che non sono<br />
residenti in Polinesia Francese, ma che vi giungono per restare solo un periodo limitato.
Dopo avermi narrato alcune tristi vicende accadute agli stranieri che non avevano rispettato il<br />
marae, Jean tornò a parlare del nostro incontro, dicendomi:<br />
Quando sei arrivato ho avuto una sensazione, per questo sono venuto verso di te e ti ho accompagnato. Io<br />
non racconto a tutti, non dico niente a coloro che utilizzano queste conoscenze per la propria gloria. Spesso,<br />
ci sono dei momenti in cui la gente viene e io non riesco a dire, a far uscire niente. Non è perché non<br />
voglio, ma perché non me la sento. Se non mi esce niente... io sono un po’ superstizioso, allora vuol dire<br />
che gli antenati non vogliono condividere con le persone che ho davanti. Con te non è stato così.<br />
Senza che gli ponessi alcuna domanda, iniziò allora a parlarmi di tutti i marae della valle di Opoa e<br />
della storia di Taputapuatea. Alla fine del suo lungo racconto disse che sarebbe stato necessario<br />
tornare insieme al marae di Taputapuatea e che mi avrebbe aiutato nelle mie ricerche. Dopo quel<br />
primo incontro ci rivedemmo molte volte e l’ultima domenica della mia permanenza sull’isola<br />
ripercorremmo insieme i luoghi su cui avevo incautamente camminato quattro anni prima.<br />
Al termine del nostro lungo “pellegrinaggio”, Jean mi disse: «Sei stato accettato e questo vuol dire<br />
che farai un buon uso di ciò che hai appreso, altrimenti ci sarebbero stati dei segni contrari».<br />
Dovevo così interpretare le conseguenze della camminata del 1999 come un segno che ero stato<br />
scelto e che avevo una missione da compiere: «I nostri antenati hanno voluto mettersi in contatto<br />
con te perché tu parli, perché tu diffonda, come è accaduto a me».<br />
Di tutt’altro avviso fu invece Tavana Salmon, il grande rivale di Graffe nella gestione della messa<br />
in scena della antica cultura ma’ohi, che conobbi nella sua casa, costruita su dei pali di fronte al<br />
mare, a pochi chilometri dal distretto di Papara (nell’isola di Tahiti). Il nostro primo incontro<br />
s’incentro prevalentemente sulle menzogne che, a suo dire, caratterizzavano costantemente<br />
l’operato di Raymond Graffe, e che si ripresentavano anche nelle azioni riparatrici che mi aveva<br />
consigliato di svolgere a Taputapuatea. Mi disse, però, che «il marae Taputapuatea è veramente<br />
pericoloso ed è interdetto camminarci sopra, ma se non sei polinesiano, non è grave. I Tahitiani<br />
dopo essere stati sul marae di solito si buttano in mare per purificarsi, per impedire di essere<br />
attaccati» e per potersi così separare dal mondo degli spiriti con cui sono entrati in contatto. Per<br />
sottolineare la gravità dell’infrazione di certi tapu sul camminare, aggiunse: «Alle Hawaii nessuno<br />
può entrare liberamente nel marae. Tutti i marae sono restaurati e le persone che vi si avvicinano<br />
non possono mangiare un panino se non ad un chilometro di distanza. Sono pieni di targhe e di<br />
cartelli con scritto: vietato». I marae, a suo avviso, non erano solo dei luoghi tuttora viventi, ma<br />
erano anche molto pericolosi:<br />
I più potenti e cattivi sono quelli di Tahaa e di Maupiti. Io li rispetto, so che quando mi avvicino ad un<br />
luogo molto sacro c’è qualcosa che mi avverte e mi allontano. Io so parlare loro, so come donare le offerte<br />
ai marae e quello che c’è da espiare. Quando un tauh’a consacra il marae e la grande pietra viene messa<br />
sopra. Le persone e i tauh’a allora dicono: “Tutto resta là!” Che vuol dire che lo spirito e il potere sono<br />
sempre là, che vanno sempre nutriti e che è molto pericoloso.<br />
Nonostante la potenza del marae di Taputapuatea, Tavana Salmon mi disse: «Non penso che ti sei<br />
ammalato a causa del marae, altrimenti lo vedevo subito». Tra quello che mi era successo e la mia<br />
passeggiata sul marae, non poteva esserci una relazione, perché, nonostante fosse proibito<br />
camminare su quelle pietre, che erano tutt’altro che un mucchio di vecchi sassi, «il tauh’a tahitiano<br />
non può uccidere i missionari, solo lo stregone bianco può uccidere i bianchi, solo lo stregone<br />
maori può tatuare o uccidere i maori, e così vale anche per te, ed è per questo che ti dico che non ti<br />
puoi essere ammalato a causa di questa cosa. Hai pensato così, ma ti sei sbagliato». A differenza di<br />
ciò che aveva sostenuto Jean Mere, secondo Tavana Salmon il mana dei marae era radicato in un<br />
luogo specifico e trasmetteva i suoi effetti solo a coloro che vi appartenevano. Chi invece era hotu<br />
painù, cioè straniero, non ne poteva «essere toccato».<br />
Le mie esperienze non ordinarie vissute a Raiatea e a Tahaa mi hanno così spinto a entrare in una<br />
“forma di vita” e a cercare di comprenderne le regole, agendo al contempo sulla mia percezione<br />
del mondo e- analogamente a quanto indicato da Goulet e Miller (2007)- coinvolgendomi<br />
direttamente attraverso il corpo, la mente e i sogni. Se, come ha osservato Rosaldo in sintonia con<br />
gli antropologi esperenziali precedentemente trattati, «rifarsi alla propria esperienza personale<br />
come categoria analitica, significa correre il rischio di vedere rifiutate le proprie affermazioni»
(1989: 49), nel mio caso il timore era di apparire immerso in una sorta di egocentrismo mistico e<br />
iniziatico o di esibire un ipersoggettivismo sterile e incapace di prendere distanza (da me e dagli<br />
altri) e quindi di comprendere Da questo punto di vista la paura dell’ostracismo evocata da Young<br />
e Goulet (1994) ha condizionato a lungo le mie riflessioni su cosa poteva essere lecito dire e<br />
scrivere. La scelta dell’epormi e del raccontare è stata presa, però, senza conoscere l’abbondante<br />
letteratura sulle esperienze straordinarie, ma con la consapevolezza che la narrazione della<br />
camminata sul marae poteva essere interpretata come uno strumento performativo che mi aveva<br />
permesso di costruire e di vivere dei legami, a volte conflittuali e altre volte empatici, con coloro<br />
con cui avevo condiviso gran parte della mia esperienza di ricerca. Attraverso di essa si sono<br />
stabiliti “tratti d’immedesimazione” indispensabili alla comprensione reciproca e alla conoscenza<br />
di quelle realtà altrui, che, in alcuni casi, mi hanno portato a scontrarmi con le parti della storia e<br />
della cultura che generalmente “non possono uscire”, che non possono essere mostrate e che sono<br />
state, al contempo, seppellite dalla dilagante convinzione che le tradizioni siano andate perdute per<br />
sempre. Allo stesso tempo le reazioni e le interazioni prodotte dal racconto e “dentro di esso” sono<br />
state tra loro assai diverse. Ne sono emersi differenti modi d’interpretarmi, di accogliermi e di<br />
spiegarmi, che non solo rispecchiano le specifiche strade intraprese da ciascuno dei miei<br />
interlocutori nel recuperare il proprio passato e nel relazionarsi con gli stranieri, ma che attestano<br />
anche la lotta per legittimare la propria autorità di parola e di posizione.<br />
Tutto ciò riflette infine l’interesse della mia ricerca, volta a dar voce alle politiche e alle poetiche<br />
dei celebri senza memoria, che sono stati a lungo ignorati dagli studiosi perché ritenuti eredi<br />
“impuri” di quel passato “autentico” che avrebbero dimenticato per sempre.<br />
Le “mie esperienze straordinarie” mi hanno consentito di entrare in un universo di significati e di<br />
seguire il percorso narrativo e retorico che ha permesso a Malona Teura, Raymond Graffe e Jean<br />
Mere di riscoprire il proprio rapporto con gli antenati. Da questo punto di vista il racconto della<br />
camminata sul marae ha rappresentato una strategia performativa e teatrale da me messa in atto per<br />
costruire una relazione, per comprendere e per immergermi nei modi con cui gli stessi Malona<br />
Teura, Raymond Graffe e Jean Mere danno ordine e senso al mondo e alla vita (Winch 1964, p.<br />
154).<br />
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ORIENTAMENTI ANTROPOLOGICI<br />
NELLO STUDIO DELLA MEMORIA.
(edito in Novecento, 10, 2004 [2005], pp. 27-46)<br />
0. Premessa<br />
In questo articolo cercherò di rispondere all’invito di “Novecento” a riflettere sullo stato degli<br />
studi riguardanti la memoria nell’antropologia e nelle scienze sociali, e su come, attorno al nodo<br />
della memoria, si possa ripensare oggi il rapporto di queste discipline con la storia. E’ un compito<br />
particolarmente gradito ma anche difficile, per almeno due motivi. Il primo riguarda la grande<br />
proliferazione di studi su questo tema nel recente dibattito internazionale: una quantità e una varietà<br />
che rendono difficile costruire un quadro bibliografico e una mappa degli indirizzi teorici e di<br />
ricerca di qualche sistematicità. Il secondo motivo riguarda il fatto che, in molti lavori<br />
contemporanei sulla memoria, si perdono quasi completamente i tradizionali confini delle<br />
discipline: gli apporti della psicologia, dell’antropologia o della sociologia, della storia, come<br />
vedremo, si fondono fino a risultare non più distinguibili. Soprattutto quando in discussione sono<br />
concetti quali memoria sociale o culturale, non ha molto senso pensare di affrontarli dal punto di<br />
vista dell’antropologia, piuttosto che da quello della storia o di altre scienze umane: e tuttavia, ciò<br />
significa che per comprenderli occorre confrontarsi con intere, e spesso molto ampie, tradizioni<br />
disciplinari.<br />
In questa sede, mi pare utile proporre una rassegna di indirizzi di studio e di orientamenti<br />
bibliografici, con la segnalazione di alcuni temi rilevanti emersi nel recente dibattito internazionale<br />
– senza alcuna pretesa, è superfluo specificarlo, di completezza. Inizierò dalla constatazione che,<br />
nel dibattito sulla memoria nella seconda metà del Novecento, due acquisizioni sono<br />
progressivamente emerse come centrali. In primo luogo, il riconoscimento che la memoria non è un<br />
singolo e specifico fenomeno o facoltà psichica: al contrario, in ciò che noi comunemente<br />
intendiamo per memoria, si intrecciano processi, individuali e sociali, di tipo diverso e non<br />
riconducibili a unità. In secondo luogo, uno spazio sempre maggiore è stato assegnato dalla ricerca<br />
alla dimensione sociale e culturale della memoria, più che a quella puramente individuale; per<br />
meglio dire, a partire almeno dall’opera di Maurice Halbwachs, si è cercato di mostrare come anche<br />
i processi individuali di memoria siano inevitabilmente plasmati da una dimensione “collettiva” e<br />
abbiano a che fare non solo con eventi psichici ma anche con pratiche (comportamenti e discorsi)<br />
situate nello spazio delle relazioni e delle istituzioni pubbliche.<br />
1. Sistemi di memoria.<br />
Occorre intanto delimitare come oggetto di analisi storica e antropologica la memoria a lungo<br />
termine, i cui meccanismi di funzionamento sembrano del tutto diversi da quella a breve termine.<br />
Con quest’ultima espressione gli psicologi intendono la capacità di richiamare informazioni appena<br />
assunte nel giro di pochi secondi. La psicologia cognitiva ha elaborato modelli piuttosto complessi<br />
di funzionamento della memoria a breve termine: in particolare, essa viene a sua volta distinta da<br />
una memoria a brevissimo termine, o memoria sensoriale, consistente nella capacità immediata di<br />
gestione degli stimoli esterni, i quali divengono memoria a breve termine solo quando siano stati<br />
selezionati dall’attenzione. Memoria sensoriale e memoria a breve termine sarebbero ricomprese,<br />
secondo una diversa terminologia, nella memoria di lavoro, costituita, secondo le teorie di A.D.<br />
Baddeley 64 , da una “centrale esecutiva” con funzioni di direzione dell’attenzione e da due<br />
“servosistemi”, un circuito fonologico (dove sono trattate le informazioni linguistiche) e un blocco<br />
per appunti spazio-visuale (per l’immagazzinamento e il trattamento dell’informazione visuale e<br />
64 A.D. Baddeley, La memoria di lavoro, trad. it. Milano, Cortina, 1990 (ed. orig. 1986) ; Id., La memoria umana.<br />
Teoria e pratica, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1992 (ed. orig. 1990)
sensoriale). E’ interessante notare la tendenza – più propriamente, la necessità – di descrivere tali<br />
meccanismi cognitivi per mezzo di metafore tratte dall’ambito delle pratiche sociali: la memoria<br />
come attività di immagazzinamento sembra la metafora portante della teoria degli anni ’60, il<br />
“centro di controllo” connesso a servosistemi specifici si afferma successivamente, mentre dagli<br />
anni ’80-’90 diviene dominante il linguaggio della programmazione informatica.<br />
Il concetto di memoria a lungo termine indica invece la capacità di ritenere informazioni per un<br />
tempo superiore ai pochi secondi che caratterizzano la memoria di lavoro. Si è soliti suddividere la<br />
memoria a lungo termine, sulla base dei lavori di E. Tulving 65 , in tre diversi sistemi: la memoria<br />
procedurale, quella semantica e quella episodica. La prima consiste in capacità o competenze<br />
incorporate, che operano quasi sempre in modo implicito e che spesso non sono facilmente<br />
verbalizzabili. Molte attività basate su tecniche del corpo, dallo svolgere determinati lavori,<br />
all’andare in bicicletta, al digitare sulla tastiera di un computer, presuppongono una memoria di<br />
questo tipo, che viene acquisita in modo lento e progressivo e che difficilmente, o comunque in<br />
tempi assai lunghi, può esser dimenticata. Si tratta di una componente fondamentale del concetto<br />
antropologico di cultura, se è vero, come scrive Paul Connerton, che la nostra esistenza sociale ha<br />
una natura “essenzialmente corporea” 66 .<br />
La memoria semantica consiste nel nostro sapere generale sul mondo, e contiene sia una<br />
“enciclopedia”, sia i segni e le regole che permettono l’uso e la comprensione del linguaggio. Come<br />
afferma Tulving, essa “registra non le proprietà percettive degli stimoli, ma piuttosto i loro referenti<br />
cognitivi” 67 . La memoria episodica, infine, registra eventi o episodi, collocabili con relativa<br />
precisione in termini spazio-temporali, di cui il soggetto ha avuto esperienza. Per questo nesso con<br />
l’esperienza diretta, viene talvolta definita memoria personale o autobiografica – anche se è un<br />
problema controverso nella psicologia cognitiva se memoria episodica e autobiografica siano<br />
coestensive: vi sono infatti in quest’ultima elementi non strettamente episodici e, d’altra parte, non<br />
tutte le fonti della memoria episodica risalgono a reali esperienze biografiche.<br />
Memoria semantica ed episodica sono congiuntamente definite anche come memoria dichiarativa,<br />
in quanto mirano a rappresentare il mondo o il passato – in contrapposizione alla memoria abituale<br />
o procedurale, che rappresenta il requisito di abilità pratiche e non ha obiettivi rappresentativi. La<br />
prima aspira alla verità ed è di solito formulabile verbalmente, la seconda aspira all’efficacia e,<br />
come detto, è di solito incorporata in tecniche del corpo di cui non si ha consapevolezza linguistica.<br />
Parzialmente sovrapposta alla distinzione dichiarativa-procedurale è quella tra memoria esplicita e<br />
implicita. Quest’ultimo concetto è stato introdotto dalla psicologia sperimentale per dar conto di<br />
quei casi in cui si è influenzati da un’esperienza passata senza essere consapevoli di ricordare (come<br />
negli esperimenti sul priming, in cui l’apprendimento di certi stimoli risulta migliore quando vi sia<br />
stata una precedente esposizione, non ricordata esplicitamente, a quegli stessi stimoli). La memoria<br />
implicita riguarda non solo abilità procedurali incorporate, ma anche episodi e stimoli verbali,<br />
iconici, sensoriali: il lavoro con persone colpite da amnesia suggerisce trattarsi di un sistema<br />
mnestico che funziona in modo indipendente da quello della memoria esplicita 68 .<br />
Rientra in quest’ambito problematico anche il concetto di memoria involontaria, coniato, com’è<br />
noto, da Marcel Proust a proposito del celebre episodio della madeleine che apre La ricerca del<br />
tempo perduto: uno stimolo, in questo caso gustativo, che apre improvvisamente un intero scenario<br />
di ricordi dimenticati, con un forte alone affettivo e l’immediata associazione a immagini e a<br />
65 E. Tulving, “Episodic and semantic memory” in E. Tulving, D. Donaldson (eds.), The Organization of memory, 1972;<br />
E. Tulving, Elements of episodic memory, Oxford University Press, 1983. Com’è stato notato, questa tripartizione<br />
ricalca quella stabilita dalla filosofia di inizio secolo tra memoria abituale o operativa, memoria proposizionale e<br />
memoria dei ricordi; v. John Sutton, “Memory”, in Stanford Encyclopedia of Phylosophy, 2003,<br />
66 Paul Connerton, Come le società ricordano, trad. it. Roma, Armando, 1999 (ed. orig. 1989), p. 89<br />
67 Tulving, “Episodic and semantic memory”, cit., p. 386<br />
68 Daniel L. Schachter, Alla ricerca della memoria. Il cervello, la mente e il passato, trad. it. Torino, Einaudi, 2001 (ed.<br />
orig. 1996), p. 169 sgg.
luoghi 69 . La psicologia sperimentale rivolge invece scarsa attenzione al tema psicoanalitico del<br />
rimosso. La psicoanalisi, in effetti, problematizza non tanto le modalità cognitive di acquisizione<br />
della memoria, quanto le dinamiche psichiche che consentono o impediscono l’accesso alla<br />
memoria, oppure consentono un accesso in forme oblique e distorte; oppure, ancora, producono<br />
“fantasie”, cioè ricordi di episodi non realmente accaduti. Si tratta di una cornice che rende il<br />
rapporto col passato assai più complesso e mediato rispetto al modello dell’immagazzinamento e<br />
recupero di informazioni.<br />
2. Memoria come processo interpretativo.<br />
Questi modelli di sistemi di memoria elaborati dalla psicologia sperimentale sono per lo più basati<br />
sulla “misurazione” di performance mnemoniche in situazioni controllate di laboratorio, secondo<br />
una metodologia che si fa risalire allo psicologo tedesco Hermann Ebbinghaus. Lavorando a cavallo<br />
tra Ottocento e Novecento, quest’ultimo ideò un metodo di studio del lavoro della memoria<br />
consistente nella ripetizione di sillabe senza senso da parte di soggetti individuali – con l’obiettivo<br />
di isolare il funzionamento della memoria “pura” da “contaminazioni” di ordine contestuale,<br />
relative alle conoscenze pregresse e al mondo vitale dei soggetti stessi. In questo isolamento<br />
consiste la forza del metodo ma al contempo, ovviamente, la sua debolezza, dal momento che non è<br />
affatto chiaro quanto i modelli costruiti in laboratorio possano dirci sull’uso della memoria in<br />
contesti di vita reale. Nella psicologia novecentesca, a questo orientamento metodologico se ne<br />
oppone uno centrato invece sulla osservazione di contesti pragmatici e socioculturali reali di uso<br />
della memoria, che ha il suo riferimento classico nell’opera di Frederic C. Bartlett. Docente a<br />
Cambridge negli anni ’30, Bartlett sostiene una visione che oggi chiameremmo “interpretativa”<br />
della memoria, concependola come uno “sforzo verso il significato” (an effort after meaning): vale<br />
a dire, “non come la capacità di immagazzinare dati passati, ma come un processo di ricostruzione<br />
che, partendo dagli interessi e dalle conoscenze presenti del soggetto, tenta di ricostruire a posteriori<br />
il significato del ricordo” 70 .<br />
L’orientamento di Bartlett, poco seguito intorno alla metà del secolo, quando gli studi psicologici<br />
erano dominati dal comportamentismo, ha ispirato successivamente alcuni orientamenti di ricerca<br />
che hanno assegnato un ruolo metodologico centrale all’osservazione delle modalità pratiche di uso<br />
della memoria in contesti di vita quotidiana, in contrapposizione agli esperimenti di laboratorio. Di<br />
particolare importanza il lavoro di Ulrich Neisser, fondatore di un approccio cosiddetto “ecologico”<br />
alla ricerca sulla memoria – espressione che si riferisce appunto alla necessità di collegare le<br />
prestazioni mnemoniche al contesto pratico di vita in cui esse sono impiegate, proprio quel contesto<br />
che la ricerca di laboratorio mira invece ad eliminare 71 . Questa metodologia apre la psicologia<br />
cognitiva all’analisi delle componenti sociali, culturali e storiche della memoria: un punto decisivo,<br />
sul quale mi soffermerò tra un istante.<br />
Vorrei prima osservare come l’approccio di Bartlett, così come quello ecologico o pragmatico di<br />
Neisser, attribuiscano centralità a fenomeni che hanno importanti implicazioni per la storiografia e<br />
69<br />
Giovanna Leone, La memoria autobiografica. Conoscenza di sé e appartenenze sociali, Roma, Carocci, 2001, pp. 50-<br />
1.<br />
70<br />
G. Leone, La memoria autobiografica, cit., p. 80. L’opera principale di Bartlett è Remembering, del 1932 (trad. it.<br />
F.C. Bartlett, La memoria. Studio di psicologia sperimentale e sociale, Milano, Angeli, 1974). L’idea di un rapporto di<br />
determinazione inversa tra passato e presente non era peraltro nuova alla riflessione umanistica: ne è un interessante<br />
esempio quanto Italo Svevo scriveva ai primi del secolo: “Il presente dirige il passato come un direttore d’orchestra i<br />
suoi suonatori. Gli occorrono questi e quei suoni, non altri. E perciò il passato sembra ora tanto lungo ora tanto breve.<br />
Risuona o ammutolisce. Nel presente riverbera solo quella parte ch’è richiamata per illuminarlo o per offuscarlo” (cit.<br />
in Aleida Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, trad. it. Bologna, Il Mulino, 2002 [ed. orig.<br />
1999], p. 18).<br />
71<br />
Di Neisser è disponibile in traduzione italiana il volume Psicologia cognitivista, Firenze, Giunti, 1976 (ed. orig.<br />
1967); ma il testo probabilmente più rappresentativo dell’approccio ecologico è U. Neisser (ed.), Memory Observed:<br />
Remembering in Natural Contexts, San Francisco, Freeman & Co., 1982. V. anche G. Cohen, Memory in the Real<br />
World, London, Lawrence Erlbaum.
l’antropologia, vale a dire quelli della falsa memoria e delle distorsioni del ricordo. Si tratta di<br />
aspetti del funzionamento della memoria che non possono esser interpretati come pura perdita o<br />
incompletezza di informazioni, bensì come il prodotto di attive strategie di ricostruzione del passato<br />
sulla base non solo delle esperienze e del sapere presente, ma di strutture di senso. Bartlett ha<br />
introdotto il concetto di schema per indicare simili strutture relativamente stabili e resistenti<br />
all’oblio, sulle quali i ricordi si innestano e si plasmano; la ricerca cognitiva più recente preferisce<br />
parlare di copioni (scripts), un termine che sottolinea maggiormente la natura narrativa delle<br />
strutture, che tendono a configurarsi come sequenze di eventi attorno ai quali le informazioni si<br />
organizzano. Schemi e copioni svolgono una funzione di filtro rispetto alla possibilità di integrare<br />
esperienze o contenuti della memoria a breve termine nella memoria a lungo termine; ma, ciò che<br />
più conta, essi sembrano in grado di plasmare i ricordi in configurazioni coerenti. E’ in questo<br />
quadro della costruzione di narrazioni significative sul passato che i fenomeni dei “falsi” ricordi,<br />
delle distorsioni e dello stesso oblio vanno compresi.<br />
Questa prospettiva è piuttosto diversa da quella psicoanalitica, la quale suppone invece che il<br />
ricordo reale (ad esempio, un evento traumatico) continui ad esistere, intatto, nelle profondità della<br />
psiche, schermato tuttavia da elaborazioni secondarie che lo rendono invisibile o irriconoscibile. La<br />
distorsione e il falso ricordo rappresentano una forma patologica, i cui prototipi possono essere<br />
riconosciuti nel sintomo nevrotico e nel lavoro onirico. Il percorso analitico di scavo e decifrazione<br />
(si pensi alla pervasività delle metafore archeologiche nel discorso freudiano) è in grado di riportare<br />
alla superficie il ricordo reale, dissolvendo le coperture di superficie. Nella prospettiva cognitivista,<br />
invece, non si può parlare di un ricordo “reale” che sarebbe celato dal ricordo falso o dall’apparente<br />
oblio: il lavoro di plasmazione degli schemi o degli scripts è costitutivo del normale<br />
funzionamento della memoria, e non esiste al di fuori di esso (se non nella sperimentazione di<br />
laboratorio) un livello di maggiore autenticità, di ricordi-copia perfettamente fedeli all’originale.<br />
Tuttavia, la psicologia cognitiva riprende dalla psicoanalisi alcune idee chiave sui meccanismi che<br />
guidano il lavoro degli schemi: ad esempio lo spostamento e la condensazione. Neisser ha<br />
introdotto il concetto di memoria “repisodica” (repisodic) per indicare la tendenza a ricordare più<br />
eventi analoghi come se si trattasse di un unico episodio: una strategia di condensazione che<br />
produce un ricordo in sé falso, il quale conserva tuttavia un fondamentale elemento di verità 72 .<br />
Dovremmo forse chiamare questi ricordi non tanto falsità quanto finzioni, nel senso del termine<br />
che Clifford Geertz usa per definire le descrizioni etnografiche nel loro rapporto con la “realtà”:<br />
qualcosa di costruito, di modellato attraverso strategie rappresentative (prevalentemente linguistiche<br />
e retoriche) alle quali non si applica facilmente la dicotomia vero/falso 73 . E’ ovvia la rilevanza di<br />
questi temi per le discipline che fanno uso di fonti orali: essi influenzano a fondo il problema della<br />
verità della testimonianza e del suo rapporto con il sapere storico o etnografico. In sostanza, ed è un<br />
punto sul quale tornerò più avanti, la consapevolezza del carattere “costruito” delle memorie, in<br />
particolare di quelle autobiografiche, ci impedisce di assumere le testimonianze in un’ottica realista,<br />
spingendoci invece ad esaminarne la configurazione retorica e discorsiva e la contestualizzazione<br />
pragmatica: a cercare di capire, in altre parole, quanto sono influenzate da modelli narrativi, dalla<br />
72 Neisser ha studiato questa strategia della memoria a proposito del caso della testimonianza resa al processo Watergate<br />
da un collaboratore di Nixon, John Dean: le sue deposizioni, confrontate con prove documentali oggettive,<br />
dimostravano che egli univa in singoli episodi una serie di fatti e informazioni che appartenevano a situazioni fra loro<br />
slegate. Gli episodi riferiti erano fattualmente falsi, mai avvenuti: tuttavia, si trattava di “drammatizzazioni” che<br />
rappresentavano in modo esemplare la sequenza di eventi reali, il “significato” delle vicende indagate. Come commenta<br />
Giovanna Leone (I confini della memoria. I ricordi come risorse sociali nascoste, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998,<br />
p. 15), “questo ricordo va considerato non come un errore di trascrizione, ma come una rielaborazione creativa, che<br />
permette di cogliere il succo dell’intera sequenza, seppure espresso in un ricordo formalmente ‘sbagliato’”. V. U.<br />
Neisser, “John Dean’s memory: A case study”, Cognition, 9, 1981, pp. 1-22. Per un’ampio esame dal punto di vista<br />
psicologico dei problemi della falsa memoria v. D.L. Schacter (ed.), Memory Distortion. How Minds, Brains and<br />
Societies Reconstruct the Past, Harvard, Harvard University Press, 1995.<br />
73 C. Geertz, Interpretazione di culture, trad. It. Bologna, Il Mulino, 1987 (ed. orig. 1973), p. 53
situazione comunicativa in cui emergono, dalle finalità in senso lato “politiche” dei narratori, e così<br />
via.<br />
Negli anni ’90, il problema dei falsi ricordi è però emerso nell’attualità politica, oltre che nel<br />
dibattito scientifico, in relazione a un altro tipo di testimonianza, quella giudiziaria. In particolare<br />
negli Stati Uniti si sono sviluppate accese dispute attorno alla cosiddetta “sindrome da personalità<br />
multipla”, un disturbo psichico di natura dissociativa che insorgerebbe in individui che hanno subìto<br />
e rimosso abusi sessuali nell’infanzia (quasi sempre in ambito familiare), i quali vengono<br />
“ricordati” in seguito a trattamento analitico o psichiatrico. Sulla base di questi ricordi traumatici,<br />
molti pazienti hanno intentato cause giudiziarie contro loro stessi familiari, e ciò ha evidentemente<br />
portato in primo piano il problema della attendibilità di una memoria “recuperata”, e della<br />
possibilità che, sia pure con la totale buona fede degli interessati, simili memorie siano indotte sulla<br />
base di modelli “narrativi” condivisi dallo psichiatra e da un più ampio ambiente culturale di<br />
appartenenza 74 . Nel 1992 è stata fondata negli Stati Uniti una False Memory Syndrome Foundation,<br />
che riunisce genitori colpiti, o che intendono cautelarsi, da accuse sulla base di memorie recuperate<br />
a seguito di trattamento psichiatrico. Una controversia politica e mediale che ha coinciso con “la<br />
polarizzazione tra psicologi clinici che difendevano la necessità e la validità del memory recover e<br />
gli psicologi cognitivisti [...] i quali mostravano, sulla base di risultati sperimentali, quanto<br />
facilmente si possano provocare ricordi sbagliati mediante gli effetti della comunicazione<br />
posteriore” 75 .<br />
3. Memoria collettiva.<br />
Ciò che interessa di più sottolineare, tuttavia, è un altro punto; la concezione bartlettiana della<br />
memoria come “sforzo verso il significato”, come attiva interpretazione del passato sulla base di<br />
schemi psicologici connessi alla vita concreta del presente, apre la strada alla considerazione degli<br />
aspetti sociali del ricordare. In questa prospettiva, e ancor più in quella ecologica, l’atto psichico del<br />
ricordare non può essere inteso separandolo dal contesto del mondo vitale e delle pratiche<br />
comunicative, che è per definizione un contesto sociale e culturale. Gli stessi concetti di schema e<br />
script non possono esser concepiti, in una prospettiva ingenuamente empirista, come proprietà della<br />
mente individuale: essi si riferiscono piuttosto a un elemento strutturante che preesiste al pensiero<br />
individuale e che trae forme e contenuti dalla dimensione della cultura. E’ questa la cerniera, o<br />
meglio ancora il punto di profonda saldatura, fra lo studio psicologico della memoria e gli studi<br />
storici e sociali.<br />
E’ su questo punto di giuntura che insiste il contributo di un altro importante studioso, questa<br />
volta di provenienza sociologica, che può esser considerato il precursore degli studi sociali della<br />
memoria. Mi riferisco naturalmente a Maurice Halbwachs, seguace di Durkheim scomparso nel<br />
1945 nel lager di Büchenwald, e autore di tre importanti libri sul tema della memoria 76 . Per lungo<br />
tempo largamente ignorato, soprattutto in Italia, Halbwachs è oggi al centro di una rinnovata<br />
attenzione anche al di fuori degli studi strettamente sociologici. L’idea centrale del suo lavoro è<br />
74 Ipotesi, questa, resa assai probabile dal fatto che la MPD ( Multiple Personality Disorder ) è un classico esempio di<br />
ciò che gli antropologi chiamano culture-bound syndrome, cioè una malattia presente solo in uno specifico contesto<br />
culturale. L’MPD è infatti stata diagnosticata massicciamente negli Stati Uniti negli ultimi 15-20 anni, e sembra del<br />
tutto assente da ogni altra epoca e cultura medica. Si veda in proposito la discussione contenuta in Ian Hacking, La<br />
riscoperta dell’anima. Personalità multipla e scienze della memoria, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1996 (ed. orig. 1995) e<br />
Paul Antze, “Telling stories, making selves: Memory and identity in Multiple Personality Disorder”, in P.Antze-<br />
M.Lambek (eds.), Tense Past. Cultural Essays in Trauma and Memory, New York-London, Routledge, 1996, pp. 3-24.<br />
Si veda anche il cap. 9, “Guerre della memoria”, in D. L. Schachter, Alla ricerca della memoria, cit., pp. 269-306<br />
75 Gerald Echterhoff, “Falso ricordo (false memory)”, in Nicolas Pethes-Jens Ruchatz (a cura di), Dizionario della<br />
memoria e del ricordo, trad. it. Milano, Bruno Mondadori, 2002 (ed. orig. 2001), pp. 190-91.<br />
76 I quadri sociali della memoria, trad. it. Napoli, Ipermedium, 1997 (ed. orig. 1925); La memoria collettiva, trad. it.<br />
Milano, Unicopli, 1996 (ed. orig. postuma 1950, ma scritto negli anni ’30); Memorie di Terrasanta, trad. it. Venezia,<br />
Arsenale, 1988 (ed. orig. La tipographie légendaire des Evangelis en Terre Sainte, 1941).
l’applicazione al campo della memoria del concetto durkheimiano di “rappresentazione collettiva”,<br />
intesa come una categoria del pensiero che precede l’elaborazione individuale e che è radicata nelle<br />
istituzioni e nelle pratiche sociali. Durkheim, Mauss e altri esponenti della scuola francese avevano<br />
letto in questa direzione numerose forme di quello che si chiamava allora il “pensiero primitivo”,<br />
dalla religione, alla magia, alle forme più elementari di classificazione del mondo naturale. Il loro<br />
programma era di rottura radicale con l’empirismo socio-antropologico, che pensava di poter<br />
dedurre le credenze e le istituzioni culturali dai processi speculativi della mente individuale, ma<br />
anche con il razionalismo kantiano, le cui categorie venivano di fatto relativizzate e ricondotte a un<br />
più fondamentale determinismo sociale.<br />
Halbwachs tenta di spingere questo programma sociologico fin all’interno della psicologia,<br />
dunque proprio sul terreno in apparenza più prossimo alla dimensione puramente individuale. L’atto<br />
individuale del ricordare è a suo parere possibile solo sulla base di “quadri sociali” (cadres sociaux)<br />
che sono logicamente antecedenti a qualsiasi singolo ricordo. Tali quadri non si limitano a<br />
selezionare i ricordi: piuttosto, li producono. Halbwachs rovescia infatti la filosofia della memoria<br />
prevalente nella Francia di inizio secolo, quella di Bergson, secondo la quale tutte le esperienze di<br />
un individuo sono sempre presenti sotto forma di ricordi latenti o inconsci nella sua mente, senza<br />
che nulla si perda mai veramente. A suo parere, al contrario, non c’è nulla che propriamente si<br />
“conserva”, e i ricordi sono ricostruzioni sempre orientate sul presente:<br />
… al di fuori del sogno il passato, in realtà, non ricompare allo stesso modo, anzi tutto<br />
sembra indicare che esso non si conserva affatto, a meno che non lo si ricostruisca a<br />
partire dal presente. […] I quadri collettivi della memoria non sono costituiti dalla<br />
combinazione dei ricordi individuali, non sono delle semplici forme vuote dove i<br />
ricordi, venuti da altrove, si inseriranno, ma sono, al contrario, esattamente gli strumenti<br />
di cui la memoria collettiva si serve per ricomporre un’immagine del passato che si<br />
accordi in ogni epoca con il pensiero dominante nella società 77 .<br />
In questo passo si coglie anche la differenza rispetto al concetto bartlettiano di “schema”,<br />
qualcosa di più simile a una “forma vuota” in cui ricordi venuti da altrove trovano (o non trovano,<br />
venendo quindi eliminati) una loro collocazione. I quadri sociali non sono pure strutture cognitive:<br />
hanno invece un forte contenuto di senso, una “sostanzialità” che corrisponde a quella del gruppo<br />
sociale cui si riferiscono. Infatti, come nota Paolo Jedlowski in una densa introduzione all’edizione<br />
italiana di La memoria collettiva, nell’ottica di Halbwachs “ricordare, per un individuo, corrisponde<br />
a riattualizzare la memoria di un gruppo sociale cui egli appartiene o ha appartenuto in passato” 78 . Il<br />
che significa che la memoria del gruppo è in qualche modo più reale – perlomeno sociologicamente<br />
– della memoria individuale (anche se la memoria individuale, soprattutto nelle società complesse,<br />
può sovrapporre al proprio interno più quadri sociali, dal momento che ogni individuo appartiene a<br />
molteplici e differenziati gruppi, come la famiglia, i pari età, la cerchia professionale, quella<br />
associativa etc.).<br />
Qui la riflessione di Halbwachs apre una linea di ricerca assai diversa da quella cognitivista – pur<br />
condividendone, come si è detto, alcuni punti di partenza. Halbwachs è interessato prevalentemente<br />
alle funzioni sociali della memoria: la vede come un aspetto delle pratiche sociali, non come un loro<br />
prerequisito. La memoria esprime la solidarietà fra l’individuo e il gruppo o i gruppi sociali cui<br />
appartiene. Il che significa, in altre parole, che il ricordare è una pratica performativa e non<br />
puramente rappresentativa, la cui logica si intreccia cioè con quella delle altre pratiche sociali e in<br />
senso lato politiche. Significa, inoltre, che la memoria interna, cioè i meccanismi psichici del<br />
ricordare, non può esser studiata separatamente dalla memoria esterna, vale a dire da quei<br />
dispositivi tramite i quali le società incorporano tramite una codificazione simbolica la memoria del<br />
77 M. Halbwachs, I quadri sociali della memoria, cit., p. 3<br />
78 P. Jedlowski, “<strong>Introduzione</strong>”, in M. Halbwachs, La memoria collettiva, cit., p. 26
passato in oggetti, in luoghi o in pratiche; dispositivi che includono le tecnologie comunicative,<br />
dalla scrittura a Internet, i processi di monumentalizzazione, i rituali celebrativi e commemorativi.<br />
E’ vero, come nota lo stesso Jedlowski 79 , che Halbwachs non è particolarmente interessato a una<br />
sistematica storia delle tecnologie di esteriorizzazione della memoria, di conservazione e<br />
riproduzione di immagini del passato tramite oggetti materiali: tuttavia, la sua opera apre lo<br />
scenario per una simile storia e antropologia delle forme concrete e mutevoli che la memoria<br />
assume nelle società. Uno scenario che finirà per saldarsi con quelli aperti dalla psicologia sociale, e<br />
sul quale si avventureranno nuovi indirizzi di studio soprattutto nell’ultimo quarto del Novecento.<br />
Nei paragrafi che seguono, vorrei esplorare tre aspetti di queste analisi sociali della memoria, o,<br />
meglio ancora, indagini sulla memoria come fenomeno sociale: l’indirizzo di analisi del discorso, le<br />
indagini empiriche sui rituali celebrativi e quelle sull’incorporazione della memoria in luoghi e<br />
oggetti materiali.<br />
4. La costruzione linguistica del ricordo.<br />
L’analisi del discorso, come gli indirizzi della sociologia di orientamento fenomenologico<br />
(interazionismo simbolico, etnometodologia), tende a considerare le pratiche quotidiane di<br />
interazione fra le persone come l’unica realtà sociologica che è possibile descrivere in modo<br />
oggettivo. I costrutti e le astrazioni teoriche di cui ci serviamo normalmente nella vita quotidiana<br />
non fondano quelle interazioni, ma ne sono il prodotto; il che vale anche per i concetti utilizzati<br />
dalle scienze sociali, come “società” o “cultura”, e dalla psicologia, come “mente” o, appunto,<br />
“memoria”. La psicologia sociale giunge ad assumere questo punto di vista riprendendo e<br />
radicalizzando le posizioni di Bartlett. Per quest’ultimo, come abbiamo visto, la memoria non è il<br />
ripescaggio di informazioni in un magazzino “interno”, ma l’attiva costruzione di resoconti del<br />
passato sulla base di schemi culturali condivisi; e tuttavia, questa attività costruttiva avviene<br />
comunque all’interno della testa delle persone. L’analisi del discorso, invece, colloca la memoria<br />
“là fuori”, all’interno delle pratiche discorsive e simboliche quotidiane e di precise circostanze<br />
comunicative, prescindendo da ogni ipotesi sull’esistenza di “facoltà” o processi mentali e di entità<br />
interne quali i “ricordi”, concepiti come oggetti da immagazzinare e ritirar fuori al momento giusto.<br />
I “ricordi”, in questa chiave, sono un sottoprodotto del nostro modo di parlare del passato.<br />
E’ curioso come a Bartlett si richiamino oggi sia gli approcci cognitivisti, come quello<br />
rappresentato da Neisser, sia quelli che potremmo definire socio-costruzionisti. I due approcci si<br />
contrappongono sul piano del riconoscimento del proprio oggetto di studio: il cognitivismo è<br />
interessato a processi mentali che per l’orientamento etnometodologico sono finzioni discorsive.<br />
Occorre infatti chiarire che l’analisi del discorso intende il linguaggio in modo radicalmente antirealista:<br />
esso è uno strumento di gestione, di creazione e mantenimento delle relazioni sociali, prima<br />
ancora che una forma di rappresentazione del mondo. Secondo la lezione di Wittgenstein, il<br />
significato delle parole consiste nel loro uso. Ciò può apparire controintuitivo, dal momento che<br />
siamo abituati a un uso del linguaggio in cui certe parole rappresentano certe cose: occorre però<br />
considerare che ciò accade “solo all’interno di forme di vita sociale già costituite da modi di parlare<br />
in cui queste parole sono usate” 80 . Seguire fino in fondo questo approccio richiede al ricercatore,<br />
nella tradizione fenomenologica, di sospendere l’assunzione di una serie di categorie che fanno<br />
parte dell’ordinario orizzonte della propria esperienza in quanto attore sociale. Tutti viviamo<br />
all’interno di mondi “naturali” che sono di fatto costituiti dalle nostre ordinarie pratiche linguistiche<br />
e relazionali: tanto più è profonda questa costituzione, tanto più difficilmente riusciamo a uscirne e<br />
a coglierla come oggetto di descrizione sociologica. Il costruzionismo sociale richiede dunque uno<br />
sforzo di estraniamento che presenta importanti affinità con l’esperienza antropologica. Il passo<br />
forse più difficile da accettare è la rinuncia a utilizzare l’idea di un soggetto stabile e di una coerente<br />
79<br />
Ibid., p. 27<br />
80<br />
J. Shotter, “The social construction of remembering and forgetting”, in D. Middleton - D. Edwards (eds.), Collective<br />
Remembering, London, Sage, 1990, p. 121
e continuativa “esperienza vissuta” come risorse della propria comprensione dei fenomeni mentali e<br />
sociali. Ciò che prendiamo normalmente come un assunto, deve esser visto come un problema: il<br />
problema del<br />
perché, in questo momento della storia, noi immaginiamo noi stessi in un certo modo:<br />
pensiamo di esistere fin dalla nascita come individui isolati e separati, di racchiudere al<br />
nostro interno un “pensiero” o una mentalità” contrapposta a un mondo materiale a sua<br />
volta privo di ogni processo mentale. Ciò vale anche per i nostri ricordi: nella nostra<br />
esperienza del ricordare (o, perlomeno, in ciò che noi diciamo la nostra esperienza del<br />
ricordare) sembra che facciamo sempre riferimento a qualcosa che sta dentro di noi,<br />
come un’immagine o un’impressione, un oggetto di qualche tipo 81 .<br />
Mi sembra difficile accusare queste posizioni, come fa Giovanna Leone in un suo pur ottimo<br />
libro sulla memoria autobiografica, di “scarsa attenzione per la soggettività individuale” 82 : al<br />
contrario, la soggettività è posta al centro di un programma di ricerca, di cui è però l’oggetto e non<br />
la risorsa o assunto implicito. La psicologia sociale riprende qui pienamente l’insegnamento di<br />
Goffman, secondo il quale l’Io contemporaneo è il prodotto e non la condizione dei microrituali<br />
dell’interazione che costellano la nostra vita quotidiana; e apre uno scenario che si interseca, fino a<br />
risultarne indistinguibile, con quello dell’antropologia culturale. Quest’ultima non mira soltanto a<br />
studiare le forme esteriorizzate e pubbliche di memoria, in contrapposizione a quelle interne e<br />
private, secondo un approccio che manterrebbe ferma l’autonomia di entrambe. L’antropologo<br />
Maurice Bloch, ad esempio, critica quegli approcci alla memoria esterna che la vedono come una<br />
semplice estensione evolutiva della memoria interna, allo stesso modo in cui gli utensili sono una<br />
estensione (o una esteriorizzazione, nel linguaggio di André Leroi-Gourhan) della mano. In questo<br />
modo, si assumerebbe in modo acritico l’esistenza di una memoria interna, pura rispetto ai<br />
condizionamenti storici e sociali, e si guarderebbe alle istituzioni culturali come ad una specie di<br />
hard disk che aumenta le capacità di immagazzinamento al di là di quanto è possibile all’individuo.<br />
Occorre invece, sostiene Bloch, considerare come l’influenza sociale operi all’interno stesso delle<br />
facoltà mnemoniche individuali; il che implica capire che la produzione fenomenologica della realtà<br />
degli stati di cose passati (dei ricordi) è “largamente influenzata dalla storia, o per meglio dire dalla<br />
visione che le persone hanno di sé nella storia e, attraverso le nozioni di persona e di luogo, dalle<br />
loro varie concezioni dell’etica e delle intenzioni” 83 . In altre parole, vi sono molte possibili folk<br />
psychologies (concezioni della persona, del suo rapporto con la società e con la storia, delle sue<br />
motivazioni all’agire) che influenzano il significato che il ricordare ha nelle varie culture: e con esse<br />
la psicologia, non meno che l’antropologia, non può fare a meno di confrontarsi.<br />
Il problema della discourse analysis non consiste dunque nella scarsa attenzione al livello<br />
soggettivo del ricordare, poiché essa mira a una integrazione metodologicamente nuova del livello<br />
individuale e di quello sociale. Sul piano epistemologico, semmai, il costruzionismo radicale si<br />
scontra con il problema della verità. Se ogni resoconto sul passato è una costruzione plasmata dalle<br />
esigenze di senso del presente, e guidata da criteri non di esattezza rappresentativa ma di efficacia<br />
pragmatica, che ne è del problema della verità fattuale e oggettiva del ricordo? Non rischiamo di<br />
sostituire al concetto di verità quello di accordo consensuale, con le difficoltà e i paradossi, sia<br />
81 Ibid., pp. 121-2<br />
82 G. Leone, La memoria autobiografica, cit., p. 30<br />
83 M. Bloch, “Internal and external memory: different ways to be in history”, in P.Antze – M.Lambek (eds.), Tense<br />
Past, cit., p. 217. L’obiettivo esplicito della crititca di Bloch è il celebre libro di Jack Goody, L’addomesticamento del<br />
pensiero selvaggio, trad. it. Milano, Angeli, uno studio del ruolo della scrittura come dispositivo mnemonico, e del<br />
suo ruolo nella plasmazione delle forme del pensiero razionale. La più classica trattazione del ruolo della memoria<br />
esterna nel quadro più generale dell’evoluzione umana, vista come sequenza di successive esteriorizzazioni che liberano<br />
progressivamente la mano dal peso delle funzioni biologiche e del lavoro materiale, e la mente dal peso della<br />
memorizzazione interna, è probabilmente quella offerta da A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, trad. it. Torino,<br />
Einaudi, 19 (ed. orig. ), vol. II.
epistemologici sia etici, che ciò implicherebbe? Non sentiamo forse tutti l’importanza decisiva di<br />
mantenere separato il piano della verità oggettiva – “come sono andate veramente le cose” – da<br />
quello dell’utilità o funzionalità di una certa versione degli eventi, o del consenso comune su di<br />
essa? E non è forse su questa separazione che si basa la storia, in quanto conoscenza<br />
scientificamente fondata del passato?<br />
Qui si aprono naturalmente problemi riguardanti lo statuto epistemologico del sapere storico, che<br />
porterebbero molto lontano e implicherebbero tipi diversi di considerazione (p.es. la natura e la<br />
varietà delle fonti impiegate, i modi del loro trattamento critico, le regole della costituzione della<br />
narrazione storiografica come “genere” distinto da rievocazioni del passato nel discorso comune) 84 .<br />
L’analisi del discorso forse trascura la possibilità che in ogni resoconto del passato prodotto in<br />
“buona fede” (ma il concetto di “buona fede” è di per sé assai problematico, e presuppone una<br />
trasparenza e una autonomia della coscienza individuale difficile, come abbiamo appena visto, da<br />
assumere) vi sia una autentica istanza rappresentativa, una irriducibile pretesa di affermare la verità<br />
oggettiva.<br />
Tuttavia, senza bisogno di spingerla alle sue estreme conseguenze epistemologiche, l’analisi del<br />
discorso ci mostra al di là di ogni dubbio come l’istanza rappresentativa e quella pragmatica siano<br />
inestricabilmente mischiate nel discorso quotidiano (se non in quello storiografico); e come<br />
l’appello alla “verità oggettiva” sia proprio una delle principali strategie retoriche impiegate per far<br />
prevalere una versione su un’altra. Ciò apre programmi di ricerca di grande interesse sulle pratiche<br />
del ricordare insieme. Ne è un esempio il lavoro di Middleton e Edwards dedicato all’analisi<br />
linguistica e relazionale della diffusa pratica domestica del guardare gli album fotografici di<br />
famiglia. Siamo abituati a pensare a questa attività come a una contemplazione di ricordi già<br />
compiutamente e stabilmente presenti nella memoria individuale dei membri della famiglia, con le<br />
foto che servono da richiami o esche per l’estrazione di materiali mnemonici solidamente<br />
immagazzinati. Questi autori mostrano in modo assai convincente, sulla base dell’analisi<br />
etnografica, come al contrario sia qui in gioco la costruzione cooperativa – e talvolta conflittuale e<br />
negoziata – dei ricordi; come anzi, soprattutto per i bambini, si tratti di situazioni in cui si impara a<br />
ricordare, vale a dire si acquisiscono le regole del gioco linguistico e delle reazioni emotive<br />
associate al “ricordare insieme” e alla rappresentazione del passato comune 85 .<br />
La metodologia impiegata in queste analisi tende a mettere in luce le strategie retoriche, nonché i<br />
microcontesti di potere, nel cui quadro si interpretano fonti (le foto e i souvenir, ad esempio) per<br />
sostenere particolari versioni del racconto del passato. E’ un’analisi che può applicarsi non solo ai<br />
contesti di vita quotidiana, ma anche alle situazioni di produzione formalizzata di memoria, come<br />
quello giudiziario o quello storiografico. La concezione stessa delle fonti orali e della<br />
“testimonianza”, ad esempio, muta fortemente qualora si assuma il punto di vista della etnografia<br />
della conversazione. Per quest’ultima, le narrazioni autobiografiche prodotte dai testimoni non solo<br />
sono costruzioni interpretative che ricostruiscono selettivamente il passato per mezzo di strategie<br />
retoriche e del riferimento a generi o modelli che danno forma al racconto; di più, esse sono il<br />
prodotto del contesto comunicativo in cui vengono “raccolte”, vale a dire della relazione linguistica<br />
e “politica” fra narratore e ricercatore. La pragmatica dell’incontro etnografico, in altre parole,<br />
influenza ciò che viene detto e il suo significato in misura assai maggiore di quanto la pur raffinata<br />
metodologia della storia orale di solito riconosca 86 Ciò non rende meno importanti le fonti orali per<br />
84<br />
Rimando in proposito a F. Dei, “La libertà di inventare i fatti: antropologia, storia, letteratura”, Il gallo silvestre, 13,<br />
2000, pp. 180-96<br />
85<br />
David Middleton, Derek Edwards, “Conversational remembering; A social psychological approach”, in D.<br />
Middleton, D. Edwards (eds.), Collective Remembering, cit,, p. 3 sgg.; Degli stessi autori si veda anche “Conversational<br />
remembering and family relationships: How children learn to remember”, Journal of Social and Personal<br />
Relationships, 5, 1988, pp. 3-25.<br />
86<br />
Si vedano ad esempio le considerazioni metodologiche in Giovanni Contini, Alfredo Martini, Verba manent. L’uso<br />
delle fonti orali per la storia contemporanea, Roma, NIS, 1993, pp.12 sgg., e in Alessandro Portelli, “Problemi di<br />
metodo. Sulla diversità della storia orale”, in C. Bermani (a cura di), <strong>Introduzione</strong> alla storia orale, vol. I, Roma,<br />
Edizioni Odradek, 1999, pp. 149-66: in questi contributi il problema della produzione congiunta del significato da parte
la conoscenza storica ed etnografica: ci rende però consapevoli della particolare complessità del<br />
trattamento critico che esse richiedono quando vengono assunte come documenti, e della<br />
molteplicità di piani ermeneutici cui rinvia la loro interpretazione.<br />
5. Oggetti e riti commemorativi<br />
“Per fissarsi nella memoria di un gruppo, una verità deve presentarsi sotto la forma concreta di un<br />
avvenimento, di una figura personale o di un luogo”, scrive Halbwachs in Memorie di Terrasanta 87 .<br />
In quest’opera del 1941, egli studia attraverso la documentazione storica la complessa vicenda del<br />
riconoscimento e della ricostruzione, dopo le Crociate, di una “topografia leggendaria” che risulta<br />
dal compromesso tra la fisicità reale dei luoghi e dei percorsi dei pellegrinaggi, da un lato, e<br />
dall’altro la tradizione teologica e l’immaginario cristiano medioevale. I luoghi santi sono il<br />
principale terreno di plasmazione di un passato che gioca un ruolo cruciale per l’identità e per la<br />
memoria culturale cristiana.<br />
Agli antropologi, abituati a lavorare in società senza scrittura, l’incorporazione della memoria in<br />
luoghi e oggetti è abbastanza familiare. Ne sono un classico esempio le “vie dei canti” della<br />
mitologia australiana, percorsi naturali costellati dalle tracce lasciate dagli antenati o eroi culturali,<br />
rievocate attraverso performance coreutiche e musicali. Il paesaggio è qui la materia prima in cui si<br />
inscrive il passato, e costituisce la vera e propria struttura della memoria collettiva. A proposito<br />
degli Aranda, l’etnologo T.G.H. Strehlow scriveva negli anni ’40 che<br />
le montagne, i ruscelli, le sorgenti e gli stagni non sono per lui aspetti del paesaggio<br />
piacevoli o interessanti. Ognuno fu creato da uno degli antenati da cui egli discende. Nel<br />
paesaggio che lo circonda, legge la storia dei fatti e delle gesta degli esseri immortali<br />
che venera […] Tutto il paese è per lui come un albero genealogico antico e sempre<br />
vivo 88 .<br />
Claude Lévi-Strauss, commentando questo passo nella sua opera forse più importante, vi scorge<br />
un esempio della capacità del “pensiero selvaggio” di integrare la storia all’interno di un ordine<br />
spaziale, di ricomprendere la diacronia all’interno della sincronia. Un ulteriore esempio di questa<br />
modalità di trattamento del tempo e della storia, da parte dei sistemi (sociali e intellettuali) che egli<br />
definisce classificatori, è rappresentato dai churinga. Si tratta di oggetti rituali, anche in questo caso<br />
australiani, che rappresentano il corpo fisico di un antenato, detenuto dalla persona vivente che ne è<br />
ritenuta la reincarnazione; sono tenuti usualmente nascosti e usati solo in occasioni cerimoniali. La<br />
loro funzione, per Lévi-Strauss, è quella di “rendere vero, in forma tangibile, l’essere diacronico<br />
della diacronia entro la sincronia stessa” 89 : essi sono una manifestazione diretta e materiale del<br />
passato all’interno del presente. Per farli apparire meno esotici, Lévi-Strauss li raffronta ai moderni<br />
archivi, non tanto per le conoscenze che in essi sono contenute, ma per la loro materialità, la loro<br />
natura di oggetti che ci mettono direttamente in contatto con la “pura storicità”. Se gli archivi<br />
andassero distrutti una volta che le fonti sono state tutte pubblicate, egli osserva, noi non<br />
di narratore e ricercatore è affrontato con chiarezza, ma non inquadrato nella cornice sociolinguistica ed<br />
etnometodologica propria dell’etnografia della conversazione. Il che implica il rischio di sopravvalutare la<br />
“trasparenza” del discorso del testimone. Per una recente discussione in chiave costruttivista del ruolo del contesto di<br />
ricerca nella produzione di narrazioni autobiografiche, si vedano gli articoli di K.Tschuggnall, H. Welzer, “Rewriting<br />
memories: Family recollections of the National Socialist past in Germany”, e di Alessandra Fasulo, “Hiding on a glass<br />
roof, or a commentator’s exercise on ‘Rewriting memories’”, entrambi in Culture and Psychology, 8, 2002, pp. 132-45,<br />
146-52.<br />
87<br />
Cit. in Ugo Fabietti,Vincenzo Matera (a cura di), Memoria e identità. Simboli e strategie del ricordo, Roma, Meltemi,<br />
1999, p. 40<br />
88<br />
Cit. in Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, trad.it. Milano, Il Saggiatore, 1964, p. 263 (ed. orig. 1962; il testo<br />
di Strehlow è del 1947)<br />
89<br />
Ibid., p. 258
perderemmo alcuna conoscenza, ma il passato resterebbe privo del suo “sapore diacronico”: sarebbe<br />
pensabile ma non fisicamente testimoniato 90 .<br />
Sia gli archivi che i churinga incorporano dunque la memoria di un gruppo sociale, in un senso<br />
che va ben al di là delle specifiche informazioni che veicolano: ne sono i materiali portatori, e<br />
questo fa di loro degli oggetti in qualche modo sacri, da conservare e maneggiare con modalità<br />
rituali. L’accostamento tra churinga ed archivi trova tuttavia un limite nella fondamentale<br />
distinzione che lo stesso etnologo francese avanza tra due modelli di società, contrapposte proprio<br />
intorno al modo di considerare il tempo passato e di elaborazione sociale della memoria. Da un lato<br />
vi sono le società “calde”, come quella occidentale moderna, che “interiorizzano risolutamente il<br />
divenire storico per farne il motore del loro sviluppo”; dall’altro le società “fredde”, che<br />
“cercano…di annullare, in modo quasi automatico, l’effetto che i fattori storici potrebbero avere sul<br />
loro equilibrio e la loro continuità”. Un obiettivo conseguito non attraverso l’impossibile negazione<br />
del divenire storico, ma attraverso la sua ammissione “come una forma senza contenuto: c’è sì un<br />
prima e un dopo, ma il loro solo significato è di riflettersi l’un l’altro” 91 . In altre parole, il presente è<br />
visto come la costante ripetizione di eventi già accaduti e agiti dagli antenati in un passato mitico. Il<br />
tempo è concepito in modo circolare più che vettoriale, e si presta dunque particolarmente ad essere<br />
inscritto nell’ordine spaziale, sincronico e stabile del mondo materiale, sotto forma di elementi del<br />
paesaggio o di oggetti duraturi; oppure, nell’ordine altrettanto stabile e metastorico del rituale.<br />
La contrapposizione tra società fredde e calde è uno dei tentativi tramite cui gli studi sociali hanno<br />
cercato di dar conto di una fondamentale trasformazione della memoria sociale nel passaggio dalla<br />
tradizione alla modernità. Alcuni autori l’hanno riletta in termini di differenza tra oralità e scrittura<br />
come modalità prevalenti della comunicazione sociale. Nel primo caso la memoria ha una coerenza<br />
rituale, è cioè depositata in riti (e in narrazioni mitologiche ad essi strettamente legate) che si<br />
tramandano secondo il principio di una integrale e meccanica ripetizione; nel secondo si può parlare<br />
di una coerenza testuale che apre lo spazio dell’esegesi e dell’interpretazione 92 . L’idea chiave in<br />
queste e simili teorie è che la modernità, in virtù della discontinuità che istituisce nei confronti del<br />
passato, sviluppi una consapevolezza della storicità, del trascorrere inesorabile e irreversibile del<br />
tempo, che sarebbe sconosciuta alle culture tradizionali, immerse invece in un tempo genealogico o<br />
strutturale 93 dominato dal mito dell’eterno ritorno. Proprio questo senso di discontinuità con il<br />
passato, avvertito sul piano storico generale come su quello generazionale e autobiografico, pone un<br />
problema di ricostruzione della memoria tramite istituzioni e pratiche sociali specifiche.<br />
Un’idea analoga sta anche alla base della distinzione proposta da Pierre Nora tra milieu de la<br />
mémoire e lieux de la mémoire, che sta alla base del suo noto progetto di studio sistematico dei<br />
luoghi della memoria francese 94 . Nora, per la verità, ha in mente una discontinuità che si produce<br />
negli ultimi due secoli nella cultura di massa: ma il concetto su cui lavora resta quello del passaggio<br />
da una comunità che vive un tempo circolare ed è costantemente immersa nella memoria, tanto da<br />
90<br />
Ibid., p. 262.<br />
91<br />
Ibid., pp.254-5<br />
92<br />
La rilettura delle contrapposizioni tra pensiero selvaggio e addomesticato, o fra società fredde e calde, in termini di<br />
evoluzione della scrittura, è sostenuta ad esempio da Jack Goody, L’addomesticamento del pensiero selvaggio, trad. it.<br />
Milano, Angeli, 19 (ed. orig.). Di coerenza rituale e testuale parla Jan Assman nel suo importante lavoro sulla memoria<br />
culturale (La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, trad.it. Torino,<br />
Einaudi, 1997 (ed. orig. 1992), vedendone degli esempi nelle antiche culture, rispettivamente, egiziana ed ebraica.<br />
93<br />
La più classica trattazione antropologica del tempo “strutturale” è probabilmente quella di Edward E. Evans-<br />
Pritchard, I Nuer: un’anarchia ordinata, trad. it. Milano, Angeli, 1985 (ed. orig. 1940), p. 160: nella società pastorale<br />
africana dei Nuer, “la storia valida termina a un secolo e la tradizione…ci porta indietro soltanto a dieci o dodici<br />
generazioni nella struttura del lignaggio”, così che “la distanza tra l’inizio del mondo e il giorno d’oggi rimane<br />
inalterata. Il tempo, in tal modo, non è un continuum, ma una relazione strutturale costante tra due punti: la prima e<br />
l’ultima persona in una linea di discendenza agnatica […] Al di là del ciclo annuale, il calcolo del tempo è una<br />
concettualizzazione della struttura sociale e i punti di riferimento sono una proiezione nel passato delle relazioni attuali<br />
fra gruppi di persone”.<br />
94<br />
Pierre Nora, “Entre mémoire et histoire. La problematique des lieux”, in P. Nora (sous la direction de), Les lieux de<br />
mémoire, vol. I, Paris, Gallimard, 1984
non percepirla come problema e da non essere neppure consapevole della sua esistenza, a una<br />
comunità che vive un tempo vettoriale ed è ossessionata dallo sfuggire inesorabile del tempo,<br />
organizzando la propria cultura attorno alla produzione di memoria. Una dicotomia così netta è<br />
difficilmente sostenibile, così come quella tra società calde e fredde. In realtà, le scienze sociali<br />
contemporanee tendono oggi a un deciso scetticismo nei confronti di tutte quelle categorie che<br />
assolutizzano la distanza fra “modernità” e “tradizione” (incluso freddo e caldo, oralità e scrittura e,<br />
come per Nora, memoria vissuta e consapevolezza storica): vedono anzi nel concetto stesso di<br />
tradizione una proiezione etnocentrica dell’autoconsapevolezza della modernità. Sistematicamente,<br />
le indagini etnografiche (ma potrei aggiungere, credo, anche quelle storiche) su società<br />
“tradizionali” mostrano una complessità irriducibile al modello sociologico – anche e soprattutto in<br />
relazione alle concezioni del tempo e alla gestione sociale della memoria 95 .<br />
Nondimeno, il concetto di “luogo di memoria” si è dimostrato straordinariamente fecondo, per la<br />
capacità di aprire nuovi scenari alla comprensione della struttura simbolica degli spazi sociali e<br />
delle pratiche celebrative e commemorative – in contesti “moderni” come in quelli “tradizionali”.<br />
Sviluppando fino in fondo le intuizioni di Halbwachs, lo studio della memoria collettiva dei gruppi<br />
sociali ha abbandonato il terreno delle “rappresentazioni” mentali o puramente discorsive, per<br />
praticare vasti progetti di etnografia degli spazi pubblici e del loro “arredo” simbolico, e, al<br />
contempo, delle pratiche rituali di tipo commemorativo. Gli ultimi anni hanno così visto una grande<br />
fioritura di studi su monumenti, musei, memorial, denominazioni di luoghi e strade, elementi del<br />
patrimonio culturale, raduni, cortei e manifestazioni celebrative, festival, tradizioni più o meno<br />
inventate, film e programmi televisivi. Jay Winter ha parlato di un “boom della memoria” nella<br />
storiografia contemporanea, sostendendo che, sia nel mondo anglosassone sia in molte scuole<br />
europee, il tema della memoria è divenuto “il concetto centrale attorno al quale si organizzano gli<br />
studi storici, una posizione un tempo occupata dalle nozioni di razza, classe, e gender” 96 . Qualcosa<br />
di simile si potrebbe dire per antropologia, sociologia e psicologia sociale, discipline nelle quali la<br />
memoria non rappresenta più soltanto un tema teorico di rilievo, ma diviene spesso il motivo<br />
strutturante della stessa ricerca empirica. Anzi, come accennato, in molti studi recenti i confini<br />
disciplinari divengono difficilmente distinguibili: è come se scegliere la memoria come asse<br />
portante della ricerca costringesse non tanto a un’apertura interdisciplinare, quanto a una vera e<br />
propria rottura delle partizioni classiche del sapere umanistico.<br />
6. Memoria ufficiale e vernacolare.<br />
Se la distinzione di Nora tra “ambiente” e “luoghi” di memoria, o tra comunità vivente della<br />
memoria e commemorazioni del passato storico, è in sé assai dubbia, essa suggerisce però la<br />
presenza di diversi livelli o modalità di costruzione pubblica della memoria, che vanno meglio<br />
precisate. Possono risultare più utili in questa chiave distinzioni come quella formulata da Assman<br />
tra “memoria comunicativa” e “memoria culturale”, intese come modalità che non si succedono<br />
evolutivamente ma coesistono in ogni compagine sociale. La prima è basata principalmente sulla<br />
comunicazione orale quotidiana e su un ambito relazionale relativamente ristretto (famiglia,<br />
comunità locale, gruppi associativi), ha un basso grado di istituzionalizzazione e gerarchizzazione<br />
(non vi sono cioè membri del gruppo che per principio detengono maggiori diritti interpretativi), e<br />
95 Per una critica assai radicale su questi punti a Nora, accusato di “ignoranza storica e pregiudizio”, si veda Elizabeth<br />
Tonkin, Raccontare il nostro passato. La costruzione sociale della storia orale, trad. it. Roma, Armando, 2000 (ed.<br />
orig. 1992), p. 166.<br />
96 Jay Winter, “The generation of memory: Reflections on the ‘Memory Boom’ in contemporary historical studies”,<br />
Bulletin of the German Historical Institute, 27, 2002, p. 1 (http://www.ghi-dc.org/bulletin27F00/b27winterframe.html).<br />
A questo boom Winter ha dato del resto il suo notevolissimo contributo con un celebre testo sui monumenti della<br />
Grande Guerra: J. Winter, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, trad. it. Bologna, Il<br />
Mulino, 1998 (ed. orig. 1995). Si vedano anche i contributi raccolti in J. Winter, E. Sivan (eds.), War and Remembrance<br />
in the Twentieth Century, Cambridge, Cambridge University Press, 2000.
isale indietro nel tempo per poche generazioni: più indietro vi è solo un indistinto passato che tende<br />
a trascorrere nell’oblio. La memoria culturale si determina quando un evento del passato supera<br />
questa barriera dell’oblio ed entra nel patrimonio di ricordi istituzionalizzati di una comunità. Alla<br />
caducità del tempo, essa contrappone dunque elementi di permanenza e di stabilità, che<br />
rappresentano fattori di identificazione di un gruppo, consentendogli – in senso durkheimiano – di<br />
percepirsi come un’unità. La memoria culturale è dunque fortemente istituzionalizzata, legata alle<br />
forme di potere, gestita da specialisti o professionisti, e tende a costituire un “canone” di ciò che nel<br />
passato è prezioso, fondativo, esemplare. Nelle culture antiche studiate da Assman tale canone ha<br />
carattere “sacro”, è cioè separato dal sapere e dalle pratiche ordinarie e quotidiane: ma la sua<br />
funzione sociale resta analoga anche all’interno di culture secolarizzate 97 .<br />
Troviamo qui la contrapposizione tra una memoria istituzionale e formalizzata e una che<br />
potremmo chiamare popolare o quotidiana; un punto chiarito ancora meglio da un’altra coppia di<br />
concetti, memoria “ufficiale” e “vernacolare”. John E Bodnar, nel contesto di uno studio sul<br />
patriottismo e la memoria pubblica americana del Novecento, ha formulato così queste nozioni:<br />
La memoria pubblica emerge al punto di intersezione fra espressioni culturali ufficiali e<br />
vernacolari. Le prime derivano dagli interessi di leader o autorità culturali a tutti i livelli<br />
della società, in posizioni di preminenza in piccole città o in comunità etniche, oppure<br />
nelle burocrazie educative, governative o militari. Questi leader sono accomunati<br />
dall’interesse per l’unità sociale e per la continuità delle istituzioni esistenti, e dalla<br />
lealtà allo status quo. […] La cultura ufficiale si fonda su una riaffermazione della realtà<br />
in termini ideali, evitando la complessità e l’ambiguità: essa presenta il passato su basi<br />
astratte, sacrali e senza tempo […] Dall’altra parte, la cultura vernacolare rappresenta<br />
una gamma di interessi particolari, che affondano le radici in parti dell’insieme sociale.<br />
I difensori di tali culture sono numerosi, e mirano a proteggere valori e a riaffermare<br />
visioni della realtà derivate da esperienza diretta in piccole comunità, piuttosto che<br />
dalle comunità “immaginate” di una vasta nazione. […] Le espressioni vernacolari<br />
trasmettono il senso di come la realtà sociale è avvertita, non come dovrebbe essere. La<br />
loro stessa esistenza è una minaccia per la natura sacra e atemporale delle espressioni<br />
ufficiali 98<br />
Nonostante una certa ambiguità nella nozione di “vernacolare”, e la assunzione per nulla<br />
scontata di una omogeneità della cultura “ufficiale”, questa impostazione del problema introduce<br />
opportunamente l’elemento del conflitto nella comprensione dei luoghi e delle pratiche della cultura<br />
ufficiale. Questo è un progresso importante rispetto alle più classiche nozioni di schemi o quadri<br />
sociali della memoria, che Bartlett e Halbwachs sembravano intendere come ampi scenari di<br />
condivisione, espressione dell’unità del gruppo sociale e non delle sue fratture interne. Luoghi,<br />
oggetti e riti della memoria si configurano dunque non come meccaniche strategie di affermazione<br />
di valori identitari indiscussi e obbligatori, ma come scenari di confronto, di contestazione, di<br />
negoziati fra “voci”, interessi e interpretazioni diverse. Essi sono sì espressione del potere, ma in un<br />
senso che include le dinamiche conflittuali che percorrono il tessuto sociale sull’asse egemoniasubalternità.<br />
Il “memory boom” di cui parla Winter si è occupato però prevalentemente del livello istituzionale<br />
e egemonico, concentrandosi in particolare sulle strategie della memoria usate dagli Stati-nazione in<br />
età contemporanea per costruire un consenso e un senso di identità e appartenenza di massa. Su<br />
97 Jan Assman, La memoria culturale, cit. passim; v. anche Dietz Bering, “Memoria culturale”, in N. Pethes, J. Ruchatz<br />
(a cura di), Dizionario della memoria e del ricordo, cit., pp. 316-19.<br />
98 John E. Bodnar, Remaking America. Public Memory, Commemoration, and Patriotism in the Twentieth Century,<br />
Princeton, Princeton University Press, 1992, pp. 14-15; si veda anche S. M. Rowe, J.V. Wertsch, T. Y. Kosyaeva,<br />
“Linking little narratives to big ones: Narrative and public memory in history museums”, Culture and Psychology, 8<br />
(1), 2002, pp. 96-112.
questo piano, l’interesse per il concetto di memoria si è saldato con l’influenza di studi come quelli<br />
di Mosse sulla nazionalizzazione delle masse e di Hobsbawm e colleghi sull’invenzione della<br />
tradizione 99 . Secondo una diffusa interpretazione, il modello di memoria culturale che oggi ci è più<br />
familiare, legata a un’ampia identità nazionale (o alla sua immaginazione), nasce con le grandi<br />
rivoluzioni moderne, l’americana e la francese. Prima, quelle che si registrano sono memorie<br />
puramente locali oppure memorie dinastiche di respiro cosmopolita. Sono le rivoluzioni, con il loro<br />
culto di un “nuovo inizio” e con il loro senso di rottura con il passato, a dar luogo a espressioni<br />
topografiche e rituali di memoria in grado di coinvolgere la totalità dei “cittadini”. Monumenti,<br />
parate militari e civili, raduni di massa, comizi nei luoghi pubblici più rappresentativi, bandiere e<br />
inni nazionali, insieme al dispiegamento di un’ampia gamma di simboli dalla forte capacità di<br />
coinvolgimento emotivo, sono gli strumenti che consentono l’immaginazione di una comunità<br />
moderna, secondo la celebre espressione di Benedict Anderson: gli strumenti che consentono a<br />
persone lontane, che non si sono mai viste né sentite, di considerarsi legate da un medesimo passato<br />
e da una memoria comune 100 . Questo processo raggiungerà il suo apice nella mobilitazione<br />
militare di massa in occasione delle grandi guerre, soprattutto della Prima Guerra Mondiale, e nelle<br />
celebrazioni di vittoria o di lutto che ad esse fanno seguito.<br />
Questa plasmazione nazionalista di una memoria comune presuppone ovviamente, al tempo<br />
stesso, una condivisione di oblio. Un oblio non solo nei confronti del passato (ad esempio delle<br />
divisioni che contrastano con l’attuale senso di unità), come nella citatissima espressione di Ernest<br />
Renan 101 , ma anche di componenti del presente che non sono viste come fondanti del più profondo<br />
nucleo identitario. Le minoranze etniche, le donne, le classi lavoratrici entrano raramente a far parte<br />
delle memorie ufficiali della nazione, né sono soggetti attivi delle pratiche simboliche di<br />
commemorazione: questo ruolo è per lo più riservato alle élites maschili. Colpisce particolarmente<br />
l’assenza delle donne, alle quali in età moderna non si erigono monumenti, e il cui ruolo è<br />
prevalentemente allegorico (come nelle immagini della Libertà o delle Repubbliche), o di gestione<br />
del lutto per i morti delle guerre. John Gillis fa notare ad esempio come in Francia e Inghilterra, con<br />
l’eccezione della regina Vittoria, gli unici monumenti eretti a donne riguardino figure dei tempi<br />
pre-moderni. La modernità sembra ricordare le donne solo per il loro impersonale ruolo di mogli e<br />
madri, e non per le loro specifiche azioni e personalità 102 .<br />
7. I luoghi della memoria oltre il nazionalismo.<br />
La fase classica delle politiche celebrative nazionaliste esalta dunque la memoria pubblica<br />
istituzionale, lasciando in secondo piano le memorie private e vernacolari, almeno nella misura in<br />
cui non si collocano nel quadro della grande narrazione nazionale (la biografia e la storia locale, in<br />
questo quadro, acquistano senso solo come declinazioni particolaristiche della “storia patria”). Si<br />
tratta tuttavia di una fase che sembra progressivamente esaurirsi nella seconda metà del XX secolo.<br />
Una serie di fattori politici e culturali indeboliscono il ruolo dello Stato nazione, che non è più<br />
l’esclusivo detentore dei mezzi di comunicazione e degli strumenti per la costruzione di<br />
immaginazione comunitaria. La religione civile degli Stati-nazione, che venerano sé stessi<br />
attraverso il proprio passato, è messa in discussione dai disastri della Seconda guerra mondiale; e i<br />
movimenti degli anni ’60 indirizzano la loro critica proprio alle istituzioni fondanti la memoria<br />
99 Gorge L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-<br />
1933), TRAD. IT. Bologna, Il Mulino, 1975 (ed. orig. 1974); E.J. Hobsbawm, T. Ranger (a cura di), L’invenzione della<br />
tradizione, trad. it. Torino, Einaudi, 1987 (ed. orig. 1983).<br />
100 V. John R. Gillis, “Memory and identity: The history of a relationship”, in J. R. Gillis (ed.), Commemorations. The<br />
Politics of National Identity, Princeton, Princeton University Press, 1994, p. 7.<br />
101 “L’oblio, e dirò perfino l’errore storico, costituicono un fattore essenziale nella creazione di una nazione”; E. Renan,<br />
Che cos’è una nazione, trad. it. Roma, Donzelli, 1993, p. 7 (ed. orig. 1882).<br />
102 J. R. Gillis, “Memory and identity…”, cit., pp. 11-12.
culturale del nazionalismo (esattamente come la rivoluzione borghese l’aveva rivolta ai luoghi e ai<br />
tempi sacri della Chiesa e dell’Antico Regime). Inoltre la globalizzazione, la creazione di “sfere<br />
pubbliche diasporiche”, come le chiama l’antropologo Arjun Appadurai, il flusso di “immagini in<br />
movimento che incrociano spettatori deterritorializzati” 103 , aprono nuove possibilità per la<br />
costituzione di memorie e identità trasversali, cosmopolite o etniche, transnazionali o<br />
particolaristiche. La memoria culturale si fa assai più complessa rispetto alla descrizione di Assman:<br />
non è più controllata strettamente da specialisti accreditati, non si concentra in luoghi e spazi ben<br />
delimitati: nei decenni finali del Novecento, si presenta come ulteriormente secolarizzata e come<br />
“più democratica”.<br />
Contemporaneamente, la polverizzazione e desacralizzazione della vita pubblica, insieme<br />
all’etica fortemente individualista della società tardo-moderna, conducono a una personalizzazione<br />
delle pratiche di memoria. Coltivare memorie autobiografiche e familiari, in precedenza prerogativa<br />
dei ceti aristocratici o delle élites alto-borghesi, diviene un fenomeno di massa. I diari, le<br />
celebrazioni dei compleanni e degli anniversari di famiglia, la raccolta e periodica consultazione di<br />
fotografie o di videoriprese, la conservazione sistematica di archivi personali (con epistolari, vecchi<br />
quaderni di scuola, documentazione di viaggi e altri eventi significativi), le collezioni di souvenir -<br />
queste e altre pratiche rievocative e rivolte al passato sono cospicuamente presenti nella<br />
quotidianità della vita privata e domestica nel mondo contemporaneo.<br />
E’ come se, indebolendosi le forme pubbliche e istituzionali della memoria culturale, la funzione<br />
del ricordare ricadesse più direttamente sugli individui, i quali si sentono obbligati a registrare, a<br />
collezionare, a salvare il più possibile i ricordi dalla loro caducità. “Mai in passato si è ricordato e<br />
collezionato così tanto, e mai il ricordare è stato così compulsivo”, scrive ancora Gillis 104 . Si<br />
conserva di tutto, e in questo siamo aiutati dallo sviluppo delle tecnologie di registrazione e di<br />
archiviazione delle informazioni: con la diffusione di magnetofoni, videocamere, personal computer<br />
e supporti digitali a basso costo diviene possibile realizzare archivi personali e familiari di grande<br />
ampiezza. Nell’incertezza su cosa sia più importante ricordare, si può registrare e mettere da parte<br />
tutto, e ci sentiamo in dovere di farlo, come se le nostre esperienze perdessero autenticità se non<br />
lasciano traccia in un supporto archiviabile. In una certa misura, si vive in funzione della futura<br />
memoria: si cercano cioè, ad esempio nell’ambito del turismo, certe esperienze allo scopo di poterle<br />
poi ricordare, rievocare, narrare.<br />
Questa diffusione e polverizzazione delle pratiche di memoria, che saturano la vita quotidiana di<br />
individui e famiglie, ha a che fare con la più generale natura diffusa e privata della ritualità nel<br />
mondo contemporaneo. I piccoli rituali della quotidianità, come ha mostrato Erving Goffman,<br />
possono essere ancora letti secondo la chiave durkheimiana della “produzione del sacro”. Solo che<br />
il sacro non è in questi casi la società, la comunità nella quale l’individuo tendenzialmente si<br />
annulla fondendosi con gli altri, ma lo stesso self individuale. Alla narrazione nazionale del passato,<br />
come origine del significato della storia, si sostituisce la moltitudine delle narrazioni<br />
autobiografiche, tendenzialmente tutte registrabili e raccoglibili in un unico grande archivio, che<br />
attraverso la rete può divenire immediatamente accessibile a tutti.<br />
In qualche modo, dunque, la grande corrente di studi sulle politiche e le poetiche della memoria<br />
dei moderni Stati-nazione finisce per ricongiungersi con gli interessi per la cultura popolare, per le<br />
pratiche vernacolari e quotidiane di gestione del ricordo: due livelli che è sempre più difficile tenere<br />
oggi distinti. Così come è difficile tenere distinti, per riprendere un punto toccato in apertura di<br />
questo articolo, gli approcci, le metodologie, gli strumenti concettuali, di diverse discipline.<br />
8. L’uso pubblico di memoria e identità.<br />
103<br />
Arjun Appadurai, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, trad. it. Roma, Meltemi, 2001<br />
(ed. orig. 1996), p. 17<br />
104<br />
“Memory and identity..:”, cit., p. 14
Vorrei concludere questa rassegna accennando ad alcuni rilevanti problemi che emergono dalle<br />
correnti di studio fin qui esaminate – problemi che avrebbero naturalmente bisogno di una<br />
trattazione di ben altra ampiezza. Intanto, se è vero che viviamo oggi in uno scenario mnestico<br />
post-nazionale, saturo di autobiografia e di oggetti, luoghi e discorsi della memoria tanto<br />
frammentati quanto pervasivi, ciò sembra creare un problema, come si è espresso Charles Maier 105 ,<br />
di “eccesso di memoria”. Rischiamo un po’ di assomigliare a Funes, il personaggio di J.L. Borges<br />
dalla memoria ipertrofica, che ha “più ricordi da solo di quanti non ne avranno avuti gli uomini tutti<br />
insieme, da che mondo è mondo “, e che “due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non<br />
aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva richiesto un’intera giornata” 106 . Funes è citato<br />
spesso come esempio della necessità dell’oblio; ma l’immagine della sua mente “come un deposito<br />
di rifiuti” si presta bene anche a rappresentare il nostro ambiente di memoria, ingombro da icone del<br />
passato formato usa e getta.<br />
L’eccesso di memoria riguarda però anche la produzione storiografica e antropologica. Abituate a<br />
lavorare in regime di relativa scarsità di fonti, queste discipline non si trovano a loro agio in scenari<br />
di fonti sovrabbondanti, in universi archivistici che non potranno mai esser controllati in modo<br />
integrale. Ma soprattutto, ciò che più conta, storia e antropologia sono inevitabilmente coinvolte nei<br />
processi sociali di produzione di memoria: anzi, all’interno del discorso pubblico esse godono di<br />
uno statuto privilegiato – in quanto produttrici scientificamente accreditate di resoconti sul passato,<br />
sulla tradizione, sull’identità culturale. Storici e antropologi sono gli specialisti di quella memoria<br />
culturale che, per altri versi, è invece il loro oggetto di studio. Lo dimostra il loro frequente<br />
coinvolgimento (soprattutto degli storici: il ruolo pubblico degli antropologi è almeno in Italia assai<br />
meno importante) come arbitri o periti tecnici in casi di conflitti nella memoria sociale: ad esempio,<br />
nelle situazioni di “memoria divisa” che ancora oggi dibattono le comunità colpite da eccidi<br />
nazifascisti nell’Italia del ’43-’45. Mentre gli storici studiano la memoria divenendo consapevoli dei<br />
complessi processi culturali tramite i quali essa si costruisce e si plasma, e dunque della sua natura<br />
politicamente e retoricamente strutturata, essi sono chiamati nell’arena pubblica e istituzionale a<br />
testimoniare la semplice e assoluta “verità”, a farsi interpreti di una versione tecnica (cioè non<br />
politica) e oggettiva (cioè non retorica) del passato. In questo ruolo, si trovano fra l’altro a<br />
“competere” con altre figure di portatori o specialisti della memoria, in particolare con quella del<br />
“testimone”, divenuta centrale nello scenario mediatico degli ultimi decenni. Annette Wieviorka, in<br />
un brillante saggio, ha mostrato l’emergere progressivo del testimone come figura-chiave nella<br />
memoria culturale dell’Occidente – un fenomeno legato soprattutto alla memoria della Shoah e<br />
databile, a suo parere, a partire dal processo Eichmann. Wieviorka ha insistito sulla profonda<br />
tensione che si determina fra il sapere e il discorso del testimone e quelli dello storico: la<br />
prospettiva soggettiva, autobiografica ed empatica del primo può rappresentare una fonte per il<br />
secondo, che deve tuttavia trascenderla per conseguire un punto di vista generale, collettivo,<br />
criticamente analitico. Il processo di Gerusalemme inaugura il sogno di una storia costruita come<br />
somma di autobiografie, come “giustapposizione di racconti d’orrore”; e Wieviorka si chiede se<br />
“questa volontà di non pensare in termini generali, o in termini collettivi, non rappresenti in realtà la<br />
negazione stessa della storia. Essa distruggerebbe proprio quell’operazione intellettuale che consiste<br />
nel costruire un racconto e che chiamiamo, per l’appunto, fare storia” 107 .<br />
Per un antropologo è difficile accettare una così severa riserva nei confronti della prospettiva<br />
soggettiva del testimone, e una divaricazione così netta fra la prospettiva autobiografica e quella<br />
storica: quest’ultima, secondo la tradizione epistemologica della disciplina, non può essere<br />
raggiunta se non passando per la prima. Tuttavia il problema che Wieviorka pone è reale: ella si<br />
riferisce al rischio che lo spettacolo del racconto emotivamente partecipato delle esperienze di vita<br />
si sostituisca a un sapere del passato costruito in modo scientifico, che sia cioè possibile sottoporre<br />
105<br />
C. Maier, “Un eccesso di memoria? Riflessioni sulla storia, la malinconia e la negazione”, Parolechiave, 9, 1995, pp.<br />
29-43y<br />
106<br />
Jorge Luis Borges, “Funes, o della memoria”, in Finzioni, trad. it. Milano, Mondadori, 1980 (ed. orig. 1944), p. 90<br />
107<br />
A. Wieviorka, L’era del testimone, trad. it. Milano, Cortina, 1999 (ed. orig. 1998), pp. 105-6
a costante critica e falsificazione secondo criteri condivisi dalla comunità degli studiosi. La grande<br />
sofferenza che emana dai racconti dei sopravvissuti alla Shoah, come i testimoni del processo<br />
Eichmann, può esser considerata come sintomo di autenticità e “verità” della narrazione del passato,<br />
ma anche come un muro di fronte al quale il metodo storiografico non può che infrangersi 108 . E<br />
questo problema sembra porsi con grande forza nello scenario mediale attuale, caratterizzato<br />
appunto dalla spettacolarizzazione dell’intimità biografica e in particolare della esperienza del<br />
dolore. Per inciso, si può ritenere che anche il dibattito odierno sul revisionismo storico risenta di<br />
questa modalità della memoria, confondendo il problema della comprensione di percorsi<br />
autobiografici legati al fascismo (“i ragazzi di Salò”) con il problema del giudizio storico.<br />
Nel loro ruolo di specialisti nella gestione pubblica della memoria, storici e antropologi si<br />
trovano inoltre coinvolti in un ulteriore dilemma, relativo al tema dell’identità. Memoria e identità<br />
sono strettamente legate. Com’è evidente, quella che un gruppo sociale percepisce come propria<br />
identità si concretizza nelle produzioni – discorsive, monumentali, rituali – della sua memoria<br />
collettiva; d’altra parte, il modo in cui la memoria viene pubblicamente costruita e gestita dipende<br />
in larga misura da quella stessa percezione di identità, dai significati, dai valori, dalle finalità che si<br />
ritengono fondamentali indicatori di appartenenza. Elaborato e sostenuto nel corso del Novecento<br />
dall’antropologia, il concetto di identità culturale è da alcuni decenni al centro di una radicale<br />
revisione critica all’interno della disciplina. Pur nato da una irrinunciabile istanza anti-etnocentrica,<br />
il concetto è stato reificato, inteso come una sorta di proprietà sostantiva dei gruppi sociali –<br />
qualcosa che si può ad esempio”perdere”, “recuperare”, una qualità inscritta nei “caratteri”<br />
personali o nel patrimonio culturale. Una simile idea essenziale di cultura si è ampiamente diffusa<br />
dal discorso delle scienze sociali a quello comune, politico e mediale. Ci si raffigura il mondo come<br />
naturalmente diviso in una molteplicità finita di unità culturali discrete, dai confini più o meno netti<br />
e stabili; un immaginario che si lega strettamente alle strategie di autolegittimazione del moderno<br />
Stato-nazione. Richard Handler, un antropologo che ha spinto assai in profondità la critica all’idea<br />
stessa di identità culturale, parla in proposito di<br />
una diffusa teoria della cultura e della società che sostiene una ideologia nazionalista<br />
globalmente egemonica. In questa prospettiva, le nazioni sono immaginate come oggetti<br />
o cose naturali che esistono nel mondo reale. In quanto oggetti naturali, esse possiedono<br />
una identità unica, che può esser definita in relazione a precisi confini spaziali,<br />
temporali e culturali 109<br />
L’odierna critica antropologica si appunta sul fatto che tali identità “naturali” sono in realtà<br />
costruite in base a interessi ed esigenze del contesto presente, e si salda con la discussione che<br />
abbiamo cercato di seguire sul concetto di memoria sociale: fino a riconoscere che “siamo<br />
costantemente impegnati a rivedere le nostre memorie per adattarle alle nostre attuali identità”, nel<br />
quadro di “complesse relazioni di classe, di genere e di potere che determinano ciò che viene<br />
ricordato (o dimenticato), da chi, e a quale scopo” 110 .<br />
Non solo: nata come “innocente” strumento di auto-riconoscimento e immaginazione di comunità<br />
nazionali, l’ideologia identitaria diviene progressivamente sostegno di politiche di esclusione e<br />
aggressione; in epoca di globalizzazione, la troviamo all’opera nel quadro di movimenti xenofobi e<br />
neorazzisti, di fondamentalismi culturali di vario tipo, e soprattutto nei fenomeni della violenza<br />
108<br />
Come nota Wieviorka (Ibid., p. 100), neppure l’avvocato difensore di Eichmann osava contestare la veridicità e la<br />
pertinenza delle numerosissime testimonianze che intervengono nel processo, tanto forte è la loro intensità emotiva ed<br />
etica. Eppure proprio quelle testimonianze pongono problemi riguardo l’ “autenticità” della memoria, se è vero che già<br />
Hannah Arendt notava l’assenza in esse della “capacità di distinguere tra ciò che l’interessato aveva vissuto sedici o<br />
forse vent’anni prima e le cose che aveva letto e udito e immaginato nel frattempo” (H. Arendt, La banalità del male.<br />
Eichmann a Gerusalemme, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1999 (ed. orig. 1963), p. 231.<br />
109<br />
R. Handler, “Is ‘identity’ a useful cross-cultural concept?”, in J.R. Gillis (ed.), Commemorations, cit., pp. 28-29<br />
110<br />
J R. Gillis, “Memory and identity”, cit., p. 3
cosiddetta etnica e dei genocidi – dalla Shoah alla ex-Jugoslavia 111 . Il problema è dunque: in quale<br />
misura storici e antropologi coinvolti nelle pratiche di costruzione, gestione, valorizzazione della<br />
memoria e dell’identità pubblica si fanno “complici”, per quanto inconsapevolmente, delle<br />
ambiguità etico-politiche, oltre che epistemologiche, dell’ideologia nazionalista? In che misura il<br />
lavoro sul patrimonio culturale, sulla tradizione folklorica, sugli archivi scritti o orali,<br />
apparentemente mosso da motivazioni innocenti e da alti e puri ideali culturali, si può rivelare<br />
dipendente da presupposti ideologici che supportano un ordine egemonico, un potere dagli effetti<br />
discriminatori? E’ quanto sostiene un’ampia letteratura che, a partire dagli anni Ottanta, ha<br />
“decostruito” il concetto di patrimonio culturale (heritage) e le pratiche di tutela e di rivendicazione<br />
identitaria ad esso legate, mostrandone i nessi strettissimi con le politiche nazionaliste e insistendo<br />
sugli effetti deleteri dell’esportazione su scala globale del modello euro-americano dei beni culturali<br />
come icone della identità di gruppo:<br />
In tutto il mondo, il patrimonio culturale risponde a comuni esigenze e incorpora tratti<br />
comuni. Ma esigenze e tratti sono definiti sulla base di una gelosia sciovinista. Ci<br />
confrontiamo gli uni con gli altri corazzati all’interno di identità, le cui somiglianze<br />
ignoriamo o non vogliamo vedere, inventando o distorcendo invece le differenze per<br />
sottolineare la nostra superiorità. Esaltando le nostre eredità ed escludendo quelle degli<br />
altri, creiamo una situazione endemica di rivalità e conflitto 112 .<br />
Anche qui si manifesta il difficile rapporto che storici e antropologi intrattengono con le pratiche<br />
sociali di costruzione della memoria e dell’identità: protagonisti direttamente coinvolti in tali<br />
pratiche da un lato, in quanto “specialisti” del passato o dell’identità culturale, dall’altro distaccati e<br />
critici osservatori. La storia, come osserva Assman, è una fra le molte forme di produzione di una<br />
memoria pubblica, differenziandosi semmai per il suo carattere “freddo” da quelle “culture del<br />
ricordo” i cui contenuti sono sempre in stretta relazione con l’identità del gruppo che ricorda 113 .<br />
Essa è allora stretta in un duplice rischio: il rischio di appiattirsi sulle auto-rappresentazioni e sulle<br />
istanze identitarie egemoniche e, inversamente, quello di un distacco critico che separa<br />
completamente il ricercatore dalla partecipazione alle politiche culturali della società in cui vive. Se<br />
entrambi questi approdi sono inaccettabili, non v’è tuttavia alternativa a muoversi all’interno della<br />
tensione che essi definiscono. Partecipare alle pratiche di costruzione della memoria pubblica e del<br />
patrimonio culturale, restando consapevoli dei complessi meccanismi che li costituiscono<br />
retoricamente e politicamente nel presente, è il difficile compito che accomuna oggi, a me pare,<br />
storici e antropologi.<br />
111 La letteratura antropologica sul nesso tra la violenza etnica e le politiche di identità del moderno Stato-nazione è<br />
assai estesa. Per una visione d’insieme rimando ai contributi raccolti in A.L. Hinton (ed.), Genocide. An<br />
Anthropological Reader, Oxford, Blackwell, 2002; A.L. Hinton (ed.), Annihilating Difference. Anthropology and<br />
Genocide, Berkeley, California University Press, 2002. Per una formulazione sintetica e ormai in qualche modo classica<br />
della tesi che attribuisce alle ideologie identitarie e culturaliste un’ampia parte di responsabilità nella violenza e nelle<br />
pratiche di pulizia etnica si veda A. Appadurai, “Dead certainty: Ethnic violence in the era of globalization”, Public<br />
Culture, 10 (2), 1998, pp. 225-47. Per un mio più ampio commento su questa letteratura, rimando a F. Dei,<br />
“Antropologia del genocidio”, Parolechiave, numero monografico dedicato a “Occidentalismo”, in corso di stampa.<br />
112 David Lowenthal, “Identity, heritage, and history”, in J. Gillis (ed.), Commemorations, cit., p. 41. Questo autore ha<br />
dedicato alla critica dell’heritage alcuni importanti studi, tra i quali Past is a Foreign Country, Cambridge, Cambridge<br />
University Press, 1985, e The Heritage Crusade and the Spoils of History, Cambridge, Cambridge University Press,<br />
1998; v. anche P.Gathercole, D.Lowenthal (eds.), The Politics of the Past, London, Unwin Hyman, 1990. In campo<br />
strettamente antropologico, l’analisi delle implicazioni nazionaliste del patrimonio culturale è stata sviluppata<br />
soprattutto dall’antropologia critica nordamericana: particolarmente significativo lo studio di Richard Handler sul<br />
Quebec (Nationalism and the Politics of Culture in Quebec, Madison, Wisconsin University Press, 1988). Per<br />
un’applicazione di un simile approccio al contesto italiano v. Berardino Palumbo, L’Unesco e il campanile.<br />
Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia orientale, Roma, Meltemi, 2003.<br />
113 J. Assman, La memoria culturale, cit., p. 18
FORTUNA E DECLINO DELLA<br />
CATEGORIA DI CULTURA POPOLARE<br />
NEGLI STUDI ANTROPOLOGICI<br />
ITALIANI<br />
(una versione tedesca di questo saggio è uscita in Jahrbuch fur Europaeische Etnologie, 5,<br />
2010)<br />
1. <strong>Introduzione</strong> e piano espositivo.<br />
Nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale l’antropologia culturale conosce in Italia un<br />
significativo sviluppo, incentrato attorno all’interesse per la cultura popolare e a un paradigma<br />
teorico tratto dall’opera di Antonio Gramsci. Nei Quaderni del carcere, Gramsci aveva suggerito di<br />
considerare il folklore in termini di cultura delle classi subalterne. Questa mossa sembrò poter<br />
rifondare radicalmente una tradizione di studi che si era collocata fino ad allora in un ristretto<br />
quadro di positivismo filologico, e che durante il ventennio fascista si era prestata a fiancheggiare le<br />
iniziative di propaganda populista del regime e le sue avventure coloniali. Tra gli anni ’50 e ’70 il<br />
nuovo paradigma produce una ricca letteratura etnografica sulle forme della cultura popolare<br />
tradizionale e soprattutto contadina, proponendone interpretazioni nuove rispetto al passato e<br />
costruendo forti legami con il dibattito antropologico internazionale.<br />
Tutto ciò accade, tuttavia, negli stessi decenni che vedono un rapido e impetuoso processo di<br />
modernizzazione, caratterizzato da industrializzazione diffusa nelle regioni del Centro-Nord, da<br />
inurbamento e spopolamento delle campagne, da diffusione delle nuove tecnologie comunicative;<br />
dunque, dalla scomparsa di quel mondo contadino che era da sempre l’oggetto privilegiato degli<br />
studi folklorici. Le forme della cultura rurale tradizionale divengono sempre più marginali – sempre<br />
più confinate in un passato di cui si può fare magari storia ma non etnografia. Il paradigma<br />
gramsciano imporrebbe di volgere lo sguardo verso nuove forme di cultura delle classi subalterne,<br />
ad esempio quelle della classe operaia o dei ceti medio-bassi urbani. Qui gli antropologi si trovano<br />
però di fronte ad un nuovo e complesso dilemma. Nei contesti industriali, urbani e “moderni” le<br />
classi subalterne non producono un proprio folklore specifico e distintivo, ma per lo più consumano<br />
i prodotti dell’industria culturale. Le premesse teoriche imporrebbero allora di rivolgere l’attenzione<br />
alla cultura di massa, o perlomeno alle modalità del suo consumo. Ma l’antropologia italiana non<br />
accetterà di compiere questo passo, per una serie di motivi che discuteremo oltre. La cultura di<br />
massa sarà vista come estranea al folklore – per certi versi, verrà anzi contrapposta ad esso in<br />
quanto inautentica, artificiosa, oppressiva e repressiva, portatrice di istanze egemoniche. A questo<br />
atteggiamento contribuisce l’ampia ricezione nella cultura italiana delle teorie critiche sull’industria<br />
culturale, in specie quelle della Scuola di Francoforte; ma anche il timore di perdere la specificità<br />
degli studi antropologici e folklorici, che indirizzandosi su un oggetto “moderno” rischierebbero di<br />
“annegare” nell’indistinto campo della sociologia delle comunicazioni di massa.<br />
Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 si sviluppa un ampio dibattito sui confini e sulla natura<br />
della cultura popolare in una società post-contadina; un dibattito che tuttavia non troverà sbocchi e<br />
soluzioni comunemente accettate, finendo per porre gli studi italiani in una situazione di empasse. Il<br />
paradigma gramsciano si esaurisce progressivamente, e così l’interesse per una teoria generale della<br />
cultura popolare. Le reazioni sono diverse. Alcuni studiosi e scuole si indirizzano verso esperienze<br />
di ricerca più propriamente etnologiche in aree extraeuropee, saldandosi a filoni di studio francesi e
anglosassoni. Altri, continuando a interessarsi di cultura “popolare”, si concentrano sulle forme di<br />
rappresentazione museografica di tratti della cultura contadina e artigiana; oppure sulla tutela e<br />
valorizzazione di un patrimonio di generi tradizionali (feste, forme di spettacolo) che si sono<br />
mantenuti o sono stati talvolta reinventati nel contesto attuale. Queste pratiche intellettuali sono<br />
spesso assai raffinate sul piano epistemologico e metodologico, e hanno una forte consapevolezza<br />
riflessiva riguardo la natura “costruita” del proprio oggetto. Tuttavia si accontentano di lavorare sui<br />
temi classici consegnati dalla tradizione folklorica (la tradizione orale formalizzata, il lavoro<br />
contadino, le feste e i riti rurali del ciclo dell’anno), abbandonando l’aspirazione a una teoria<br />
generale della cultura popolare e a una sua più ampia rappresentazione etnografica.<br />
In questo saggio, seguirò alcuni passi di questo percorso dell’antropologia italiana dalla metà del<br />
Novecento ad oggi. In conclusione, cercherò di mostrare come una coerente interpretazione del<br />
paradigma gramsciano spingerebbe invece oggi a riformulare una visione della cultura popolare che<br />
tenga conto dei processi di circolazione globale e di comunicazione di massa, sforzandosi di<br />
riconoscere al loro interno una sempre mobile frattura fra egemonico e subalterno.<br />
2. Folklore, etnografia, “popolaresca”: gli studi sulle tradizioni culturali dall’Ottocento al<br />
fascismo.<br />
Nel 1911, per il cinquantennale dell’unità d’Italia, si tenne a Roma una ambiziosa Esposizione<br />
Universale. Tra le principali iniziative, vi fu una Mostra Etnografica delle Regioni, organizzata da<br />
Lamberto Loria, una eclettica figura di viaggiatore e intellettuale che aveva aperto pochi anni prima<br />
a Firenze il primo museo etnografico italiano. La mostra era volta a rappresentare<br />
il documento vivo della spontanea vita popolare, negli usi, abitudini, fogge, negli<br />
utensili e negli strumenti del lavoro […] Nessun paese può, quanto il nostro, offrire<br />
tante varietà e così tenace persistenza di tradizioni locali, tradizioni manifestatesi con<br />
bellezza di colori, di poesia e anche di musica 114 .<br />
Mentre si celebrava l’unità politica, la Mostra intendeva ricordare le caleidoscopiche differenze<br />
culturali ancora presenti nel paese: assumendole tuttavia non come limite ma come ricchezza o<br />
come diremmo oggi “bene culturale”, accanto ai più prestigiosi beni archeologici e storico-artistici.<br />
Come questi ultimi, anche i beni etnografici erano pensati come oggetto di una specifica disciplina<br />
scientifica. Alla Mostra si affianca infatti un ampio Congresso di Etnografia, cui partecipano molti<br />
antropologi, storici delle religioni, linguisti e folkloristi; un congresso che mostra la vivacità di un<br />
settore culturale apparentemente in piena espansione, attento ai dibattiti e alle correnti internazionali<br />
e impegnato su un ampio fronte di ricerche empiriche.<br />
Mai prima l’etnografia e il folklore avevano ricevuto in Italia un così vistoso riconoscimento<br />
pubblico – e per certi versi, mai più lo riceveranno dopo. La Mostra e il Congresso del 1911<br />
rappresentano il culmine di una lunga stagione di studi di impronta positivistica. Nella seconda<br />
metà dell’Ottocento, molti studiosi in campo umanistico (come Alessandro D’Ancona e Costantino<br />
Nigra) si erano dedicati alla raccolta e all’analisi della poesia e della narrativa popolare. Verso la<br />
fine del secolo, soprattutto con il lavoro di Giuseppe Pitrè, l’interesse dei folkloristi si amplia fino<br />
ad includere una più ampia gamma di tratti culturali: le feste e gli spettacoli, il lavoro e la cultura<br />
materiale, la medicina e la religione popolare, le cerimonie del ciclo dell’anno e della vita. Nascono<br />
società di studi, riviste specialistiche, musei e collezioni, nonché specifici insegnamenti universitari<br />
(inaugurati dallo stesso Pitré a Palermo sotto la denominazione di “Demopsicologia”).<br />
Vi sono dunque le condizioni per il consolidamento del campo di studi etnografico; sottratto<br />
all’approccio puramente filologico della folkloristica ottocentesca, esso sembra indirizzarsi con<br />
decisione verso il più vasto ambito delle scienze sociali, anche attraverso fecondi rapporti con le<br />
114<br />
Rassegna Illustrata dell’esposizione, 6/2010, p. xii; cit. in S. Puccini, Itala gente dalle molte vite, Roma, Meltemi,<br />
2005, pp. 16-7
principali scuole europee. Tuttavia, ciò non accadrà. La Prima Guerra Mondiale interrompe<br />
bruscamente questa stagione creativa. Negli anni Venti e Trenta, poi, due fattori di diverso ordine<br />
interverranno a bloccare lo sviluppo di forme moderne di etnografia e antropologia. Il primo fattore<br />
è l’influenza culturale dello storicismo idealistico di Benedetto Croce. Implacabile critico del<br />
positivismo, Croce diffida di ogni pretesa “naturalistica” nella conoscenza dei fenomeni umani e<br />
sociali: vale a dire, di ogni studio che intenda applicare i metodi delle scienze naturali a un ambito<br />
che si presta invece esclusivamente a una intelligenza storica. Colpevoli di questo equivoco sono<br />
soprattutto le scienze sociali, che Croce svaluta come pseudo-scienze, forme di sapere prive di<br />
autonomia epistemologica. Sociologia e antropologia sono dunque messe da parte; ma anche<br />
folklore ed etnografia appaiono al più come discipline meramente documentarie, ancillari rispetto<br />
alla storia e di basso profilo teorico.<br />
Il secondo fattore che contribuisce allo stallo della ricerca antropologica nel periodo fra le due<br />
guerre è l’affermazione del fascismo. Le politiche autarchiche del regime isolano la cultura italiana<br />
dai più vivaci contesti internazionali, in particolare dai dibattiti francesi e anglosassoni.<br />
Praticamente nulla arriva dei fermenti che altrove stanno profondamente mutando le scienze umane.<br />
La cultura italiana si provincializza; il discorso antropologico, oltre a risultare marginale, si attarda<br />
su un paradigma evoluzionista (che peraltro, agli occhi dello storicismo, non può che confermarne<br />
l’ingenuità). D’altra parte il fascismo, analogamente a quanto accade in Germania con le politiche<br />
culturali naziste, è interessato ad appropriarsi del folklore sul piano ideologico. La valorizzazione<br />
della tradizione regionale è un punto di forza delle politiche fasciste di educazione di massa e<br />
costruzione del consenso. Ciò significa da un lato ripresa o invenzione di feste tradizionali, come ad<br />
esempio le Feste dell’Uva in occasione della vendemmia, intese come riti partecipativi di massa;<br />
dall’altro, lo sviluppo di una ideologia ruralista e conservatrice, volta ad esaltare i valori chiave del<br />
regime come il nazionalismo, la devozione cattolica, la concezione della donna come madre e<br />
casalinga. Questa politica fu svolta da una apposita istituzione, l’OND (Opera Nazionale<br />
Dopolavoro), che stabilì stretti legami con il campo degli studi e della ricerca folklorica.<br />
Alcuni dei principali studiosi del periodo, come Raffaele Corso e Giuseppe Cocchiera, aderirono<br />
esplicitamente al fascismo, giungendo persino alla fine degli anni ’30 a sostenerne l’ideologia<br />
razzista e a giustificare con argomenti “antropologici” le sue pretese coloniali. Altri, come Paolo<br />
Toschi, videro nell’attenzione delle istituzioni una possibilità di consolidamento della disciplina,<br />
che poteva essere sfruttata pur mantenendo autonomia scientifica. Speranza, quest’ultima, che<br />
doveva dimostrarsi illusoria. Di fatto, la folkloristica italiana fu quasi interamente inglobata<br />
nell’apparato ideologico del regime (fino ad accettare di cambiare la propria stessa denominazione<br />
in “popolaresca”, evitando per ragioni di autarchia l’uso del termine sassone “folklore”) 115 . Fu<br />
costituito un Comitato Nazionale Italiano per le Arti Popolari (CNIAP), nel quale il ruolo degli<br />
studiosi era decisamente subalterno a quello dei politici.<br />
La rivista Lares, fondata da Loria nel 1912 e interrotta con la Grande Guerra, riprese le<br />
pubblicazioni nel 1930 divenendo strumento di questa visione pesantemente ideologizzata del<br />
folklore: fino a impegnarsi nel sostegno alle politiche della razza (anche attraverso un gemellaggio<br />
con la tedesca Zeitschrift für Volkskunde, nel 1939). “Si vedono rispecchiati nella millenaria<br />
tradizione del nostro popolo i caratteri genuini inconfondibili della razza italiana. Lo studio delle<br />
tradizioni popolari si potenzia quindi in un rinnovato interesse e plasma, oltre tutto, il suo vero<br />
valore sotto l’aspetto politico e sociale”. In queste righe scritte dal direttore Paolo Toschi su Lares<br />
nel 1938 si manifesta, in modo che difficilmente potrebbe essere più esplicito, la metamorfosi<br />
fascista del folklore – e, al tempo stesso, l’esaurimento dell’impresa scientifica che la Mostra e il<br />
Congresso del 1911 avevano fatto sperare.<br />
3. Il paradigma gramsciano<br />
115 Su questo punto si vedano Stefano Cavazza, Piccole Patrie. Feste popolari fra regione e nazione durante il<br />
fascismo, Bologna, Il Mulino, 1997; Roberto Cipriani, “Cultura popolare e orientamenti ideologici”, in R. Cipriani, a<br />
cura di, Sociologia della cultura popolare in Italia, Napoli, Liguori, 1979, pp. 13-57
In effetti, dopo la Seconda guerra mondiale l’interesse per la cultura popolare ripartirà su basi<br />
completamente nuove. Per la verità, un filone di interesse erudito e classificatorio di impianto<br />
positivista per le “tradizioni popolari” non si esaurirà mai completamente, soprattutto sul piano<br />
della ricerca locale; tuttavia, altre saranno le linee-guida teoriche. La prima tra queste consiste in<br />
alcune paginette di “Osservazioni sul folclore” che Antonio Gramsci scriveva nelle carceri fasciste,<br />
negli stessi anni in cui i folkloristi istituzionali si dedicavano all’esaltazione della razza e<br />
dell’impero.<br />
Com’è noto, i Quaderni del carcere furono pubblicati a partire dal 1948, ed esercitarono una<br />
grande influenza sulla cultura italiana dell’epoca (e, successivamente, sugli indirizzi marxisti e<br />
postcoloniali internazionali). In essi, Gramsci offriva un’ampia visione sia della storia e della<br />
cultura italiana che degli scenari economico-politici mondiali, alla luce di una originale<br />
interpretazione della teoria marxista. L’aspetto forse più innovativo del suo approccio consiste nel<br />
sottolineare la complessità degli apparati culturali attraverso i quali le classi dominanti esercitano il<br />
loro potere. Gramsci si lascia alle spalle il determinismo meccanicistico con cui il marxismo<br />
classico affrontava i rapporti tra “struttura” e “sovrastruttura”: intende invece il dominio di classe<br />
come un ampio e capillare processo di “egemonia”, che investe il ruolo dei ceti intellettuali e forgia<br />
in profondità (e in modi spesso non lineari e contraddittori) tutti gli aspetti della vita culturale –<br />
inclusa la cultura, la consapevolezza e la soggettività delle stesse classi subalterne. Nella sua<br />
visione, ogni aspetto della cultura – dalla letteratura all’arte, dalle avanguardie più colte alla cultura<br />
popolare e di massa – si apre a un’analisi storico-politica; e, al tempo stesso, l’emancipazione delle<br />
classi subalterne può apparire come un progetto in certa misura culturale ed educativo.<br />
Come detto, alcune pagine dei Quaderni sono dedicate al folklore; un tema la cui importanza<br />
consiste nel segnalare scarti o dislivelli nel campo culturale che hanno a che fare con le differenze<br />
di classe. Gramsci parte da una netta seppur rispettosa critica alla tradizione di studi erudita e<br />
classificatoria, che “raccoglie” il folklore come “materiale pittoresco” sulla base di un ambiguo e<br />
indifferenziato concetto di popolo. Occorrerebbe invece studiarlo, egli afferma, come<br />
«concezione del mondo e della vita», implicita in grande misura, di determinati strati<br />
(determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per<br />
lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo «ufficiali»…che si<br />
sono succedute nello sviluppo storico 116<br />
Il popolo (cioè “l’insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora<br />
esistita”) non può avere – per definizione – concezioni del mondo elaborate, sistematiche e<br />
organizzate. Le risorse per produrre questa elaborazione sono infatti nelle mani dei ceti dominanti.<br />
Per questo il folklore si configura come<br />
agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si<br />
sono succedute nella storia, della maggior parte delle quali, anzi, solo nel folclore si<br />
trovano i superstiti documenti mutili e contaminati 117 .<br />
In altre parole, il folklore si costituisce per “caduta” di elementi residuali e talvolta fossilizzati della<br />
cultura alta. Fin qui, la caratterizzazione è negativa. Il folklore è un insieme disorganico, chiuso e<br />
angusto, che merita di esser studiato solo per poterlo meglio combattere e superare. Finché<br />
l’orizzonte culturale delle classi dominate vi resterà impigliato, esse saranno condannate alla<br />
subalternità e nessun processo emancipativo potrà scattare. Ma non è tutto. In altri passi del testo<br />
116<br />
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975 (Quaderno 27, vol. III, p.<br />
2311)<br />
117<br />
Ibid., p. 2312
gramsciano il folklore non è soltanto un deposito inerte di disorganiche sopravvivenze: esso è anche<br />
in grado di.esprimere<br />
una serie di innovazioni, spesso creative e progressiste, determinate spontaneamente da<br />
forme e condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddizione, o<br />
semplicemente diverse, dalla morale degli strati dirigenti” 118 .<br />
In quanto “riflesso delle condizioni di vita culturale del popolo”, il folklore manifesta dunque una<br />
differenza irriducibile rispetto al progetto culturale egemonico: ne rappresenta il limite, ne segnala<br />
la parzialità e introduce se non altro la potenzialità di un’alternativa.<br />
Vi è una tensione interna al pensiero gramsciano sul folklore. Da un lato agglomerato indigesto,<br />
fardello di cui liberarsi lungo la strada della emancipazione dei ceti subalterni; dall’altro, oggettiva<br />
espressione di una resistenza alle strategie egemoniche, forma di cultura non puramente inerte o<br />
fossilizzata ma capace di svilupparsi creativamente e in direzioni progressiste. Del resto, in altri<br />
suoi scritti come le Lettere, Gramsci propone valutazioni sempre assai positive della cultura locale e<br />
popolare (ad esempio, insiste sull’importanza del dialetto nell’educazione scolastica, sulla funzione<br />
espressiva dei canti e del teatro popolare, e così via 119 ). Si può ipotizzare che egli intendesse<br />
distinguere una cultura popolare viva, dinamica e storicamente presente da quella pittoresca, arcaica<br />
e residuale raccolta (o meglio “prodotta”) dagli stessi studi folklorici. In effetti, come vedremo<br />
meglio più avanti, nulla in Gramsci sembra legittimare l’idea di una “scienza” che assuma il<br />
folklore come proprio oggetto isolandolo dal più complessivo processo culturale 120 .<br />
Tuttavia, le Osservazioni furono lette come una possibile nuova fondazione degli studi sulla cultura<br />
popolare. In particolare, due aspetti del discorso gramsciano furono decisivi. Il primo è<br />
l’indentificazione del “popolo” con le classi subalterne. Per quanto scontato in una prospettiva<br />
marxista e più in generale sociologica, questo passo rappresentò una rottura radicale rispetto alle<br />
precedenti concezioni romantiche (il popolo-nazione come entità misticamente collettiva) ed<br />
evoluzioniste (il popolo come “primitivi interni”, deposito di sopravvivenze arcaiche). Da<br />
collezione erudita di “antichità”, l’etnografia della cultura popolare si trovò proiettata a pieno titolo<br />
nel cuore del sapere storico-sociale e persino della pratica politica. Il secondo aspetto più influente<br />
riguarda appunto il potenziale anti-egemonico del folklore: studiarlo e valorizzarlo può apparire una<br />
pratica progressista, un modo di dar voce ai ceti subalterni e di contribuire alla loro educazione ed<br />
emancipazione. È curioso osservare, dalla prospettiva odierna, come in soli dieci anni si sia passati<br />
da un folklore conservatore, volto ad esaltare i valori fascisti della guerra, della razza e della<br />
sottomissione della donna, a un folklore contestativo e rivoluzionario, implicitamente socialista. Un<br />
salto mortale che rimanda all’aspro clima politico del tempo, certo, ma che testimonia anche di un<br />
radicale mutamento di paradigma.<br />
4. Ernesto De Martino e le “plebi rustiche del Mezzogiorno”<br />
Il tema del folklore progressivo richiede di introdurre un altro protagonista della ripresa postbellica,<br />
indiscusso padre fondatore della moderna antropologia italiana, vale a dire Ernesto De Martino. Di<br />
formazione filosofica e storico-religiosa, De Martino fu tra gli allievi di Benedetto Croce. Nei suoi<br />
primi scritti degli anni ’40, si dedicò alla critica dei presupposti “naturalistici” dell’etnologia<br />
classica e al tentativo di una sua rifondazione in senso storicista. Nel volume Il mondo magico,<br />
edito nel 1948, propose un originale approccio al tema del pensiero magico e delle pratiche rituali,<br />
118 Ibid., p. 2313<br />
119 Si veda su questo punto Giovanni M. Boninelli, Frammenti indigesti, Roma, Carocci, 2007.<br />
120 Ho cercato di sviluppare meglio questo punto in Fabio Dei, “Un museo di frammenti. Ripensare la rivoluzione<br />
gramsciana negli studi folklorici”, Lares, LXXIV (2), 2008, pp. 445-66
considerate nell’ottica di una heideggeriana “presenza” (in-der-Welt-sein) che nel mondo arcaico<br />
rischia di smarrirsi e trova nella magia una forma di collettiva protezione o riscatto 121 .<br />
De Martino comincia a occuparsi di cultura popolare negli anni successivi, influenzato da<br />
Gramsci e dal marxismo ma soprattutto dalle esperienze di ricerca e di attivismo politico che<br />
compie nel Mezzogiorno d’Italia. Frequenta aree rurali della Lucania e della Puglia come dirigente<br />
dei partiti socialista prima e comunista poi, e sviluppa un forte interesse per la cosiddetta “questione<br />
meridionale” – considerandola nei suoi aspetti culturali oltre che in quelli strettamente economici.<br />
Il “sottosviluppo” del Sud restava in quegli anni un inconcepibile scandalo per un paese<br />
risolutamente avviato a intraprendere la strada della modernizzazione. Era un problema<br />
difficilmente gestibile anche dai partiti della sinistra, che puntavano sulla classe operaia delle grandi<br />
città del Nord come soggetto dinamico e trasformatore, ed avevano difficoltà a confrontarsi con<br />
masse di contadini analfabeti, isolati dal punto di vista comunicativo e immersi in una<br />
Weltanschauung magico-religiosa.<br />
Questo disagio era stato espresso molto bene da un romanzo che conobbe grande fortuna<br />
nell’immediato dopoguerra, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Medico e intellettuale<br />
torinese, Levi era stato confinato nel 1935 per la sua attività antifascista in un villaggio lucano; nel<br />
libro, edito nel 1945, descrive la sua esperienza come una sorta di incontro antropologico con una<br />
alterità radicale. La piccola società del paese è rappresentata come fuori dalla storia, sospesa in una<br />
dimensione di miseria, immobilità e fatalismo e in una “mentalità primitiva” in cui la realtà si<br />
confonde inestricabilmente con le rappresentazioni magico-religiose. La primitivizzazione dei<br />
contadini del Sud fu assai criticata dalla sinistra marxista, perché l’insistenza su questioni di<br />
“mentalità” rischiava di nascondere le condizioni storiche e materiali dell’arretratezza e<br />
dell’oppressione 122 . Critiche condivise da De Martino, che tuttavia era interessato ad evidenziare la<br />
dimensione culturale della “questione meridionale” contro un troppo schematico determinismo<br />
economico. Il che apriva la possibilità di studiare la cultura, il folklore e la religione delle “plebi<br />
rustiche del Mezzogiorno” non come una collezione di tratti arcaici e pittoreschi, bensì come<br />
aspetti centrali della loro condizione storica e sociale.<br />
È quanto De Martino cerca di fare nelle tre grandi monografie sul Mezzogiorno che pubblica tra la<br />
fine degli anni ’50 e i primi anni ’60, dedicate rispettivamente alle pratiche del lutto e al pianto<br />
rituale 123 , alla fenomenologia magica popolare in Lucania 124 , e infine – in quello che è<br />
probabilmente il suo capolavoro – al complesso mitico-rituale del tarantismo, una forma di culturebound<br />
syndrome diffusa nel Salento (Puglia) e curata attraverso riti collettivi di tipo coreuticomusicale<br />
125 . In queste opere di grande respiro, il mondo magico-religioso dei contadini poveri<br />
appare come tutt’altro che irrazionale o residuale: De Martino ne mostra in modo assai convincente<br />
la natura di dispositivo di radicamento esistenziale e di protezione della “presenza” in un mondo<br />
dominato dall’incombere quotidiano della miseria e dell’oppressione. Non manca inoltre di porre in<br />
costante relazione le pratiche popolari e subalterne con lo sviluppo storico del discorso egemonico.<br />
I due livelli ridefiniscono costantemente l’uno rispetto all’altro i propri confini: tanto che la<br />
persistente vivacità dell’elemento magico e del paganesimo sincretico, evidente ad esempio nel<br />
culto miracolistico dei santi o della Vergine, può esser letto come una forma di resistenza alla forza<br />
di penetrazione della cultura dominante (sia quella della Chiesa che quella dello Stato secolare<br />
moderno).<br />
Ne emerge quindi una valorizzazione di quanto alla folkloristica positivista appariva come pura<br />
sopravvivenza di superstizioni e pregiudizi arcaici. La religione e la magia popolare sono razionali<br />
e persino efficaci: svolgono bene il lavoro della cultura, che è quello di tener radicati gli esseri<br />
121<br />
Ernesto De Martino, Il mondo magico, Torino, Einaudi, 1948.<br />
122<br />
Per una ricostruzione di questo dibattito si veda P. Clemente, M.L. Meoni, M. Squillacciotti, Il dibattito sul folklore<br />
in Italia, Milano, Edizioni di Cultura Popolare, 1980<br />
123<br />
E. De Martino, Morte e pianto rituale, Torino, Boringhieri, 1958<br />
124<br />
Id., Sud e magia, Milano, Feltrinelli, 1959<br />
125<br />
Id., La terra del rimorso, Milano, Il Saggiatore, 1961
umani nel mondo. Lo fanno, per De Martino, attraverso un meccanismo di “destorificazione”. In<br />
una quotidianità dominata dalla minaccia del negativo, rito e mito aprono una dimensione<br />
metastorica che conferisce sicurezza, permettendo di “stare nella storia come se non ci si fosse”.<br />
D’altra parte, proprio in ciò consiste il limite storico della magia: essa protegge esistenzialmente le<br />
comunità subalterne mentre, al tempo stesso, le tiene confinate fuori dalla storia. Vale a dire, fuori<br />
dalla possibilità di risolvere i loro problemi nella dimensione della politica, attraverso un reale<br />
processo emancipativo. Per questo De Martino finisce per auspicare in ultima analisi la scomparsa e<br />
il superamento del proprio stesso oggetto di studio: la magia lucana o il tarantismo pugliese sono<br />
istituti di riscatto esistenziale che tengono tuttavia i ceti rurali intrappolati nelle condizioni reali<br />
della propria oppressione. Per De Martino, come peraltro per Gramsci, nella rivoluzione non c’è<br />
posto per la magia. L’emancipazione richiede la conquista, da parte delle classi subalterne, dell’alta<br />
cultura.<br />
Eppure, in alcuni scritti, De Martino apre alla possibilità di un uso progressivo del folklore. Nelle<br />
sue attività sia politiche che di ricerca si imbatte spesso in canti popolari e altre forme<br />
dell’espressione orale che sono creativamente modificati per esprimere contenuti di protesta e di<br />
supporto alle lotte contadine 126 . Un folklore apparentemente immobile e fossilizzato dimostrava qui<br />
vitalità, capacità di dar voce a quella che i marxisti chiamavano allora “coscienza di classe”. Nel<br />
“folklore progressivo” De Martino vedeva la soluzione al dilemma posto da Gramsci – se e in che<br />
modo le classi subalterne possono usare una propria distintiva e oppositiva cultura nella lotta per la<br />
liberazione. Fra l’altro, questa convinzione lo portava a valorizzare esperienze di confine tra cultura<br />
alta e popolare, come quella di Rocco Scotellaro, il poeta-contadino lucano che rappresenta un’altra<br />
figura-chiave del meridionalismo postbellico, e la cui opera Contadini del Sud costituisce un<br />
pionieristico esempio di uso delle storie di vita nell’analisi sociale 127 .<br />
Per la verità, lo stesso De Martino non coltivò a lungo la nozione di folklore progressivo. Tuttavia<br />
essa ebbe larga influenza, non solo nel campo della ricerca ma anche e soprattutto in quello della<br />
produzione culturale e artistica. Ad un uso contestativo e politicamente impegnato di forme<br />
espressive della tradizione popolare si dedicarono a partire dagli anni ’50 vari progetti artistici,<br />
come Cantacronache, il Nuovo Canzoniere Italiano e I dischi del sole. In essi era centrale l’idea di<br />
una produzione culturale dal basso, fondata su una diretta presa di parola dei ceti subalterni, e al<br />
tempo stesso una idea brechtiana di spettacolo popolare come forma di educazione e presa di<br />
coscienza delle masse. Un tema che cercherò di chiarire nella prossima sezione.<br />
5. “Elogio del magnetofono”: Gianni Bosio e la storia dal basso<br />
Nella prospettiva che abbiamo visto finora aprirsi, un aspetto cruciale è la posizione engagé assunta<br />
dal ricercatore. Studiare la cultura popolare non è come raccogliere farfalle: nel far emergere tratti<br />
distintivi dei ceti subalterni, il ricercatore necessariamente partecipa alla battaglia educativa e<br />
politica per la loro emancipazione. Il nuovo folklorista, per usare la celebre espressione di Gramsci,<br />
si fa dunque “intellettuale organico” alle classi subalterne. È ancora De Martino ad esprimere con<br />
la massima efficacia questo biunivoco rapporto tra conoscenza e impegno, quando scrive, a<br />
proposito del suo lavoro in Salento:<br />
Io entravo nelle case dei contadini pugliesi come un 'compagno', come un cercatore di<br />
uomini e di umane dimenticate istorie, che al tempo stesso spia e controlla la sua<br />
propria umanità, e che vuol rendersi partecipe, insieme agli uomini incontrati, della<br />
fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti, io che cercavo<br />
e loro che ritrovavo 128 .<br />
126<br />
E. De Martino, “Intorno a una storia del mondo popolare subalterno”, Società, V (3), 1949, pp. 411-35; Id., “Note<br />
lucane”, Società, VI, (4), pp. 650-67.<br />
127<br />
Rocco Scotellaro, Contadini del Sud, Bari, Laterza, 1954<br />
128<br />
E. De Martino, “Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni”, Società, IX (3), 1953, p. 319
Questo “rendersi partecipe” consiste in primo luogo nel “dar voce” ai contadini poveri del Sud,<br />
operando una mediazione altrimenti impossibile fra il livello subalterno e quello egemonico. “Non<br />
ci abbandonare tu che sai, tu che puoi, tu che vedrai” – dice un vecchio contadino a De Martino: o<br />
almeno questa è la storia che lui racconta 129 , una sorta di mito d’origine dell’intellettuale organico.<br />
La poetica e la politica del “dar voce” sta al centro degli interessi per la cultura popolare tra anni<br />
’50 e ’60, ispirando molte altre esperienze che tentano di coniugare la passione etico-politica con<br />
una nuova visione della storia e delle scienze umane. E ciò non vale soltanto nell’“arretrato”<br />
Mezzogiorno. Nell’Italia del Nord occorre almeno ricordare il lavoro di Gianni Bosio, singolare<br />
figura di intellettuale, politico e organizzatore di cultura che persegue il progetto radicalmente<br />
anticrociano di una storia dal basso. Scomparso prematuramente all’età di 48 anni, Bosio non ha<br />
lasciato opere di ampio respiro, ma una serie di scritti e soprattutto un’attività di ricerca sul<br />
territorio che hanno fatto scuola 130 . Particolarmente influente è stato il suo “Elogio del<br />
magnetofono”, testo introduttivo a una raccolta di fonti orali che esprime una poetica (per non dire<br />
un metodo) che sarà condiviso da generazioni di studiosi:<br />
L’avvio degli studi sulla cultura del mondo popolare e proletario segna col<br />
magnetofono una datazione nuova. Il magnetofono documenta la presenza costante<br />
della cultura oppositiva la quale proviene non soltanto dalla obiettiva presenza storica<br />
delle classi popolari e della classe operaia, ma anche dalle forme di consapevolezza […]<br />
La possibilità di fissare col magnetofono modi di essere, porsi e comunicare (così come<br />
la pellicola permette di fissare in movimento feste riti e spettacoli) ridona alla cultura<br />
delle classi oppresse la possibilità di preservare i modi della propria consapevolezza,<br />
cioè della propria cultura. 131<br />
Bosio, diversamente da De Martino, lavorava in contesti contadini e operai con consolidate<br />
tradizioni di organizzazione politica e sindacale; il che lo portava ad accentuare il tema della<br />
“consapevolezza”, cioè delle forme culturali assunte dalla coscienza di classe. Il carattere<br />
progressivo non era per lui una occasionale eccezione; anzi l’esplicito impegno oppositivo e di<br />
protesta rispondeva ad una interna logica di sviluppo creativo del folklore. Bosio era interessato<br />
molto di più ai fenomeni di trasformazione che a quelli di permanenza. E sembrava non esservi per<br />
lui soluzione di continuità tra la registrazione “sul campo” di canti o performance di teatro popolare<br />
e l’organizzazione di spettacoli destinati al pubblico “colto” delle città, nei quali i motivi della<br />
tradizione si fondevano con i repertori socialisti o anarchici e con canzoni di protesta attualizzanti.<br />
È il caso di “L’altra Italia”, rassegna della “canzone popolare e di protesta vecchia e nuova”, dello<br />
spettacolo “Ci ragiono e canto”, dei concerti del Nuovo Canzoniere Italiano e della importante serie<br />
discografica “I dischi del sole”: tutte iniziative degli anni ’60, fondative di quello che potremmo<br />
chiamare il folk politicamente impegnato, un genere ancora oggi ben vivo e che ha trovato in Ivan<br />
Della Mea, cantante e intellettuale recentemente scomparso, il suo più denso interprete 132 .<br />
L’immagine dell’ “intellettuale rovesciato”, con cui Bosio titola la sua più importante raccolta di<br />
saggi 133 , esprime perfettamente il rapporto tra cultura popolare e mondo engagé della ricerca di<br />
quegli anni. Il magnetofono è lo strumento magico che consente di invertire il rapporto tra cultura<br />
“alta” e “bassa”, che spinge l’intellettuale a imparare dalle classi subalterne e non (o non solo) a<br />
insegnare. Si apre qui una intensa stagione di lavoro sulle fonti orali. La diffusione di mezzi di<br />
129<br />
Ibid.<br />
130<br />
Una scuola rappresentata soprattutto dall’Istituto Ernesto De Martino, fondato a Milano dallo stesso Bosio nel 1966 e<br />
ancora oggi operante (con sede a Sesto Fiorentino) come centro di ricerca e archivio di fonti orali<br />
131<br />
Gianni Bosio, “Elogio del magnetofono”, in Id, L’intellettuale rovesciato, Milano, Edizioni Bella Ciao, 1975, pp.<br />
169-81 (ed. orig. 1970)<br />
132<br />
Per una accurata ricostruzione della biografia di Bosio e delle sue iniziative culturali si veda Cesare Bermani,<br />
“Gianni Bosio: cronologia della vita e delle opere”, http://www.iedm.it/bio_bosio.php (7-02-2010)<br />
133<br />
Gianni Bosio, L’intellettuale rovesciato, Milano, Edizioni Bella Ciao, 1975 (ed. orig. 1967)
egistrazione audio a costi relativamente accessibili fa intravedere nuove e sterminate possibilità<br />
documentarie. Queste sono relative da un lato alle forme classiche della tradizione orale, come il<br />
canto e la fiaba; per quest’ultima, ad esempio, si svolge tra il 1968 e il 1972 - per iniziativa della<br />
Discoteca di Stato - una grande campagna di raccolta in tutte le regioni italiane 134 , che apre a una<br />
più vasta visione della narrativa orale popolare anche al di là del genere fiabistico in senso stretto.<br />
Dall’altro lato, le possibilità documentarie del magnetofono si estendono ai racconti di guerra e<br />
della Resistenza, alle storie di vita, alla fenomenologia della vita quotidiana. Si tratta spesso di<br />
iniziative locali, mosse da passione etico-politica e non sempre supportate da competenze<br />
metodologiche; mancano standard tecnici condivisi, così come criteri comuni di conservazione,<br />
catalogazione e trattamento delle fonti. Prevale però il carattere “eroico” di un’impresa che viene<br />
percepita come di radicale rottura rispetto al passato.<br />
Non è solo l’antropologia a “scoprire” le fonti orali, ma ovviamente anche la storia. E anche nella<br />
storiografia la nozione di cultura popolare ha grande fortuna soprattutto a partire dagli anni ’60. Le<br />
fonti di questo interesse erano molteplici: fra le altre, la “storia dal basso” delle classi subalterne<br />
proposta da marxisti inglesi come Eric Hobsbawm e Edward P. Thompson, e l’ampia influenza<br />
della scuola francese delle Annales, con la sua insistenza sui temi della vita quotidiana, delle<br />
“mentalità” e delle strutture di lunga durata. Come sottolineava Carlo Ginzburg in un testo scritto<br />
nel 1979 135 , nei 15-20 anni precedenti la cultura popolare era stata quasi una moda nella storiografia<br />
internazionale: una moda arrivata in Italia in modo non sistematico, ma che si era solidamente<br />
innestata, appunto, nei dibattiti aperti dai testi gramsciani e dal tipo di antropologia praticata da De<br />
Martino. Proprio Carlo Ginzburg è stato il principale (o almeno il più noto) interprete dell’interesse<br />
storico per il popolare, in particolare nei suoi primi lavori come I Benandanti, del 1966, e Il<br />
formaggio e i vermi, pubblicato 10 anni dopo 136 . Lavorando su fonti del XVI secolo, Ginzburg<br />
tentava di delineare un sostrato di cultura popolare e subalterna distintivo e resistente rispetto alla<br />
cultura egemonica, e che poteva però rivelarsi indirettamente solo attraverso l’esame di documenti<br />
egemonici, come i verbali dei processi dell’Inquisizione. Proprio questa necessità di leggere le fonti<br />
per così dire in traslucido, interpretando il non detto e lavorando sulle incongruenze del discorso<br />
egemonico, accentua il contrasto fra le due culture e fa immaginare che i frammenti subalterni oggi<br />
ancora accessibili fossero parte di un insieme organico e strutturato. Certo, il lavoro sulle fonti<br />
storiche è assai diverso da quello sulle fonti orali contemporanee: eppure fra i due si è potuto<br />
stabilire un rapporto forte, ed è persino possibile rivendicare una fondamentale unità del campo di<br />
studi 137 .<br />
6. Alberto M. Cirese e il consolidamento della nuova demologia.<br />
Abbiamo visto finora quanto poco si possa separare la storia degli studi dalla più generale storia<br />
politica e sociale in cui si colloca. Questo vale a maggior ragione per il periodo cui siamo arrivati,<br />
gli anni ’60. Qui il dibattito sul folklore ha ormai preso le sembianze della passione per la “storia<br />
dal basso” e per il progetto di dar “voce” (letteralmente, attraverso il magnetofono) alle classi<br />
subalterne; a loro volta tali passioni e tali progetti si alimentano dei fermenti sociali, delle ideologie<br />
politiche, delle trasformazioni culturali dell’epoca. E non è solo il clima del Sessantotto a farsi<br />
134 Discoteca di Stato, Tradizioni orali non cantate; primo inventario nazionale per tipi, motivi o argomenti, a cura di<br />
A. M. Cirese e L. Serafini,Roma, Ministero dei beni culturali e ambientali, 1975.<br />
135<br />
Si tratta della introduzione alla traduzione italiana al volume di Peter Burke, Cultura popolare nell’Europa moderna,<br />
Milano, Mondadori, 1979, pp. i-xv<br />
136<br />
C. Ginzburg, I benandanti. Ricerche sulla stregoneria e i culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Torino Einaudi,<br />
1966; Id., Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1976.<br />
137<br />
Lo ha sostenuto Gian Paolo Gri a proposito proprio del tema dei Benandanti, rinvenendo nella tradizione orale del<br />
Friuli attuale temi assai vicini a quelli documentati da Ginzburg per il ‘500 (G.P. Gri, “Fonti orali di oggi per la storia di<br />
ieri? Il caso dei Benandanti”, in C. Bermani, a cura di, <strong>Introduzione</strong> alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e<br />
problemi di metodo, vol. 1, Roma, Odradek, 1999, pp. 191-209.
sentire: come vedremo, le discussioni sulla cultura popolare saranno ugualmente influenzate (sia<br />
pure in modi obliqui) dai mutamenti economici e demografici, dall’accentuata mobilità sociale, dal<br />
rapido incremento dei livelli di istruzione, dalla diffusione del consumo e della cultura di massa.<br />
Restiamo però ancora un po’ nell’ambito della definizione accademica del campo di studi. De<br />
Martino muore improvvisamente nel 1965. Per quanto avesse costantemente lavorato sulla cultura<br />
popolare, non si era mai sentito o dichiarato un folklorista (forse anche in contrapposizione ad<br />
alcuni folkloristi suoi contemporanei, come Paolo Toschi, che si attardavano in una visione<br />
puramente filologica, positivista e “pittoresca” della disciplina) Per De Martino, la cultura popolare<br />
non definiva una disciplina: era semmai un ingrediente fondamentale di un sapere che di volta in<br />
volta definiva come etnologico, storico-religioso o storico tout court.<br />
Dopo di lui, verso la fine degli anni ’60, alcuni studiosi sentono invece il bisogno di dare nuova<br />
sistematicità e unità allo studio della cultura popolare, recependo le impetuose ma talvolta caoticihe<br />
innovazioni postbelliche, ma al tempo stesso stabilendo una continuità con una tradizione<br />
folklorica italiana risalente almeno al romanticismo ottocentesco. Il principale interprete di questa<br />
esigenza è probabilmente Alberto M. Cirese. Figlio d’arte (il padre Eugenio era poeta dialettale e<br />
editore di una rivista di tradizioni popolari molisane, La lapa), Cirese è studioso di ampio respiro:<br />
pratica il campo del folklore regionale (occupandosi in particolare di canti e proverbi), ma è molto<br />
attivo anche nel dibattito politico-culturale attorno al meridionalismo ed è tra i primi a traghettare in<br />
Italia importanti indirizzi dell’antropologia internazionale (in particolare la semiotica e lo<br />
strutturalismo, curando tra l’altro la traduzione italiana di Le strutture elementari della parentela di<br />
Lévi-Strauss). Per quanto la sua produzione fra gli anni ’60 e ’70 sia vasta e influente, il suo testo<br />
più noto è probabilmente un manuale, dal titolo Cultura egemonica e culture subalterne 138 , su cui si<br />
sono formate intere generazioni di antropologi in Italia (inclusa quella di chi scrive, studente alla<br />
fine degli anni ’70). Manuale che, come spesso accade, meglio della produzione saggistica riesce ad<br />
esprimere un paradigma teorico, una intera concezione di una disciplina.<br />
Già il titolo del manuale è programmatico. Cirese ritiene la pubblicazione delle “Osservazioni sul<br />
folclore” di Gramsci il “momento teorico determinante” per il rinnovamento degli studi demologici<br />
italiani:<br />
l’impostazione marxista di Gramsci opponeva allo storicismo idealistico il<br />
ristabilimento del legame tra fatti culturali e fatti sociali che viceversa Croce aveva così<br />
recisamente negato; liquidava in modo definitivo le ibride eredità della nozione<br />
romantica del «popolo-anima» o «popolo-nazione»,…ed introduceva una<br />
determinazione storico-sociale precisa: quella del «popolo-classi subalterne», inteso<br />
ovviamente come «variabile storica» 139 .<br />
Cirese era convinto che la definizione gramsciana potesse offrire una rigorosa delimitazione<br />
dell’oggetto di studio della rinnovata disciplina, che preferiva chiamare “demologia” (un termine<br />
che col tempo diventerà la denominazione ufficiale nell’insegnamento universitario, pur<br />
sopravvivendo fino ad oggi anche la precedente etichetta “Storia delle tradizioni popolari”). Ed era<br />
anche convinto che, come accade nelle rivoluzioni scientifiche, il nuovo paradigma fosse in grado<br />
di riassorbire il vecchio: in altre parole, il corpus di studi folklorici dell’Ottocento e della prima<br />
metà del Novecento poteva essere utilmente integrato all’interno della più complessa e raffinata<br />
visione aperta da Gramsci. Cirese riformula i principi gramsciani attraverso la teoria dei “dislivelli<br />
interni di cultura”: riferendoci “ai comportamenti e alle concezioni degli strati subalterni e periferici<br />
della nostra stessa società” ci troviamo di fronte a dislivelli culturali interni, mentre con dislivelli<br />
esterni intendiamo il rapporto con le “società etnologiche o «primitive»” 140 . Una definizione da cui<br />
scaturisce una chiara delimitazione delle discipline: l’etnologia studia i dislivelli esterni, la<br />
138<br />
Alberto M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, Palermo, Palumbo, 1971<br />
139<br />
Ibid, p. 218<br />
140<br />
Ibid, p.10
demologia quelli interni. Più precisamente, quest’ultima studia la diversità culturale che si<br />
accompagna alla diversità della condizione sociale: diversità nella quale “si manifesta la disuguale<br />
partecipazione dei diversi strati sociali alla produzione ed alla fruizione dei beni culturali” 141 .<br />
Accurato lettore di Gramsci, Cirese evita di stabilire un rapporto troppo meccanico e deterministico<br />
tra appartenenza di classe e livelli culturali; è attento, come diremmo oggi, a non essenzializzare la<br />
cultura subalterna. Parla piuttosto di fatti culturali “popolarmente connotati”, dove “connotazione”<br />
indica un “rapporto di solidarietà” tra aspetti della cultura e gruppi sociali o classi 142 . La sua è<br />
dunque una definizione relazionale. Se un oggetto è popolare o no dipende dal suo posizionamento<br />
nella dinamica egemonico-subalterno all’interno di un preciso contesto storico: può anche accadere<br />
che il medesimo “fatto culturale” risulti egemonico in un contesto e popolare in un altro (ad<br />
esempio il pianto rituale, oggetto di studio di Cirese come di De Martino, è egemonico nella società<br />
omerica ma subalterno nel Mezzogiorno italiano di oggi).<br />
Tuttavia, come detto, Cirese è anche preoccupato di delimitare la disciplina sulla base di un oggetto<br />
peculiare e distintivo; il che lo porta a sovrapporre alla definizione relazionale una più essenziale o<br />
sostantiva. La prima spingerebbe a studiare non un “oggetto” specifico, ma le dinamiche storiche<br />
che producono la frattura egemonico-subalterno; vale a dire, i processi di differenziazione e le<br />
relazioni fra classi nella produzione e nel consumo culturale. La seconda definizione spinge invece<br />
a porre al centro dell’attenzione alcuni “fatti culturali”, che poi in buona parte coincidono con quelli<br />
studiati dalla tradizione folklorica. Questi “fatti” costituirebbero una “cultura” popolare che può e<br />
deve esser studiata in modo autonomo e separato rispetto a quella egemonica. Cirese rafforza<br />
questo punto quando afferma degli studi demologici che “tra tutti i comportamenti e le concezioni<br />
culturali essi isolano e studiano quelli che hanno uno specifico legame di «solidarietà» con il<br />
«popolo» (in quanto distinto dalle «élites»)” 143 .<br />
Cirese adotta qui una epistemologia naturalistica, secondo la quale ogni scienza deve “isolare” con<br />
chiarezza un proprio oggetto (sul quale compiere operazioni di descrizione, classificazione,<br />
generalizzazione). Ma naturalmente isolare certi fatti culturali dalla dinamica storica complessiva<br />
che attribuisce loro una connotazione egemonica o popolare è proprio quanto la teoria gramsciana<br />
vieta di fare. Cirese conclude il suo manuale esortando gli studi demologici – a “fare in conti – e<br />
non genericamente – con la realtà socio-culturale contemporanea, con le forze e le ideologie che la<br />
animano…, trasformandosi in conseguenza” 144 . Al tempo stesso, sembra però convinto che<br />
l’oggetto della demologia sia costituito essenzialmente dai repertori tradizionali del folklore<br />
contadino. Una contraddizione, o almeno una tensione, che come vedremo si farà pesantemente<br />
sentire negli sviluppi degli anni successivi.<br />
7. La questione della cultura operaia.<br />
Verso la fine degli anni ’70, la rifondazione della demologia sulla base del “paradigma” gramsciano<br />
è largamente condivisa nel panorama degli studi italiani. Sono anni di intenso sviluppo della<br />
disciplina, sia nel campo della ricerca che in quello dell’insegnamento universitario. Beninteso, gli<br />
orientamenti e gli stili di ricerca sono tutt’altro che compatti: vi è anzi una geografia accademica<br />
complessa e frastagliata, che sarebbe impossibile restituire qui anche solo per tratti fondamentali.<br />
Ad esempio, la scuola di Cirese si differenzia piuttosto nettamente dagli studiosi, specie<br />
meridionalisti, che più direttamente si riconoscono nell’eredità di De Martino; quest’ultima è a sua<br />
volta frammentata, e combinata in diversi studiosi con dosi diverse di marxismo, strutturalismo,<br />
semiologia (è il caso di figure come Clara Gallini, Annabella Rossi, Luigi M. Lombardi-Satriani,<br />
Antonino Buttitta, Elsa Guggino). Ulteriori orientamenti sono quelli più influenzati<br />
dall’antropologia culturale anglosassone, per lo più antistoricisti e vicini alla sociologia (una<br />
141 Ibid, p. 12; corsivo nell’originale.<br />
142 Ibid, pp. 13-4.<br />
143 Ibid. p.13; corsivo mio.<br />
144 Ibid., p. 310; corsivo nell’originale.
tradizione aperta in Italia da Tullio Tentori). Vi sono poi singole figure di studiosi, scarsamente<br />
riconducibili a schieramenti, che sviluppano gli interessi per la cultura popolare in relazione a<br />
specifici ambiti tematici – come Vittorio Lanternari e Alfonso Di Nola per l’antropologia della<br />
religione, Tullio Seppilli per l’antropologia medica, Diego Carpitella e Roberto Leydi per<br />
l’etnomusicologia.<br />
Questa generazione di studiosi nati per lo più negli anni ’20 e ’30, pur con accenti molto diversi,<br />
sembra tuttavia condividere il progetto della nuova demologia, ed è accomunata dal considerare la<br />
questione della cultura popolare come fulcro della tradizione antropologica italiana. Nel 1980 nasce<br />
una nuova rivista antropologica, La ricerca folklorica (che esce ancora oggi e ha rappresentato<br />
un’esperienza significativa in un panorama editoriale ricco ma frammentato e sempre molto<br />
precario); il primo numero è dedicato appunto a “La cultura popolare. Questioni teoriche”. Il<br />
direttore, Glauco Sanga, aveva proposto ad alcune decine di studiosi, soprattutto antropologi ma<br />
anche filosofi, storici e sociologi, di rispondere a un questionario che enunciava i principali<br />
problemi aperti nel dibattito sul “paradigma gramsciano”. Tutti davano per scontato che si trattasse<br />
di un tema condiviso, che accomunava orientamenti teorici diversi e sul quale si misuravano i<br />
rapporti dell’antropologia con le altre discipline e con il grande campo – certamente egemone nella<br />
cultura e nell’accademia italiana del tempo – del marxismo 145 .<br />
Il questionario, dopo un rapido accenno ai problemi sollevati dal concetto di cultura per la<br />
molteplicità delle sue accezioni, si sofferma sulla nozione di popolo. Accettando la<br />
caratterizzazione gramsciana del popolo come classe, come si configura la “cultura del popolo”? Si<br />
tratta di una entità unitaria, legata alla qualità subalterna di tale cultura, oppure si dovrà pensare che<br />
ad ogni ceto sociale corrisponde una particolare cultura, e dunque che le culture subalterne sono<br />
molte? 146 Il questionario si sofferma sulla questione cruciale della classe operaia: “Va o no<br />
collocata nell’ambito della cultura popolare? Se si esclude la cultura operaia l’ambito della cultura<br />
popolare viene ridotto alle classi precapitalistiche residuali, recuperando in pieno l’elemento della<br />
tradizione, in misura sostanziale quello dell’oralità, e recuperando la teoria dell’antico” 147 . In altre<br />
parole, escludere la cultura operaia garantisce la continuità con la tradizione folklorica. Ma – si<br />
chiede il questionario – si può applicare il concetto moderno di classe alle realtà rurali<br />
precapitalistiche, per le quali si invocano invece spesso nozioni interclassiste come quelle di<br />
“mentalità”? E d’altra parte, se si considera la cultura operaia parte integrante del campo di studi<br />
demologico (coerentemente con la definizione di popolo come classe), sorgono altre difficoltà. È<br />
possibile attribuire ad essa quel carattere di alterità, quella natura peculiare e distintiva che si è soliti<br />
attribuire alla cultura contadina tradizionale?<br />
Dobbiamo considerare la cultura popolare come “altra” rispetto a quella egemone,<br />
facendo prevalere il criterio della distinzione, e secondo alcuni anche della<br />
contrapposizione (oggettiva o anche soggettiva)? O dobbiamo preferire una concezione<br />
dinamica, che veda nei contatti tra culture diverse momenti di integrazione e di<br />
scambio, regolati dalla dialettica egemonia/subalternità? 148<br />
145<br />
A rafforzare questa impressione contribuiscono due numeri della prestigiosa rivista Problemi del socialismo, usciti<br />
l’anno precedente e dedicati a “Orientamenti marxisti e studi antropologici italiani. Problemi e dibattiti” (15 e 16,<br />
1979), anch’essi in buona parte incentrati attorno al problema della cultura popolare.<br />
146<br />
“<strong>Introduzione</strong>”, La ricerca folklorica, 1 (1980), p.3.<br />
147<br />
Ibid, p. 4.<br />
148<br />
Ibid. Il riferimento alla “contrapposizione oggettiva o anche soggettiva” della cultura popolare rinvia alla tesi del<br />
folklore come cultura di contestazione, che per la sua stessa esistenza segnala i limiti della cultura egemone e che<br />
contiene perlomeno in germe l’istinto di classe. A cavallo fra anni ’60 e ’70, questa prospettiva era stata sviluppata in<br />
particolare in alcuni lavori di L. M. Lombardi-Satriani (Il folklore come cultura di contestazione, Messina, Peloritana,<br />
1966; Menzogna e verità nella cultura contadina del Sud, Napoli, Guida, 1972; Antropologia culturale e analisi della<br />
cultura subalterna, Rimini, Guaraldi, 1974).
In altre parole, sia pure forzando un po’ le parole del questionario: ha senso considerare quella<br />
operaia come una cultura in senso antropologico – cioè autonoma, “altra”, compatta e demarcata da<br />
confini relativamente netti? Queste qualità sembravano appartenere alla cultura contadina, in virtù<br />
del suo isolamento geografico, comunicativo e sociale. Ma non è questo il caso per il mondo<br />
operaio, specie in quella fase della sua storia caratterizzata dall’accesso al consumo e ai mezzi di<br />
comunicazione di massa e da confini sempre più sfumati rispetto ad altri segmenti sociali come i<br />
ceti medio-bassi. Questi aspetti appaiono cruciali al questionario, che li riunisce sotto due<br />
“delicatissime questioni: che rapporto c’è tra popolo e ceti medi? […] Che rapporto c’è tra cultura<br />
popolare e comunicazione di massa?”. Il che porta lucidamente a concludere:<br />
Accogliere l’impostazione gramsciana, che vede come essenziale il momento<br />
dell’assunzione di un fatto culturale e come non rilevante il momento della produzione<br />
non significa forse mettere in discussione l’autonomia della cultura popolare e<br />
ridimensionarne in qualche misura l’alterità, per concentrare l’attenzione sui<br />
meccanismi della dinamica culturale all’interno di una societa complessa, considerata<br />
come un tutto interagente, con una sola storia e non come una somma di parti (la<br />
cultura egemone e la sua storia più la cultura subalterna e la sua storia)? 149<br />
Il questionario di La ricerca folklorica, mentre finge di porre domande ad ampio spettro partendo da<br />
un nucleo teorico condiviso, mette a fuoco una contraddizione profonda che mina quello stesso<br />
nucleo. La visione gramsciana non legittima affatto l’assunzione di una “cultura subalterna” come<br />
sfera separata e autonoma, che possa rappresentare l’oggetto distintivo di una scienza specifica.<br />
L’illusione ottica di questa possibilità deriva dal guardare al mondo contadino come paradigma<br />
della subalternità: in questo caso, le sue condizioni di relativo isolamento portano la frattura<br />
egemonico-subalterno a prendere le sembianze di un’alterità culturale in senso antropologico. Ma<br />
non appena si volga lo sguardo a realtà industriali e urbane, caratterizzate da confini sociali più<br />
fluidi e dalla diffusione mass-mediale di contenuti culturali, le cose cambiano. A quel punto, non è<br />
più possibile ricomprendere la vecchia disciplina folklorica sotto le nuove insegne. Tra uno studio<br />
classificatorio dei repertori della tradizione contadina e una teoria della cultura popolare nella realtà<br />
contemporanea si apre una irreversibile disgiunzione.<br />
.<br />
8. Cultura popolare e cultura di massa.<br />
Gli antropologi che rispondono al questionario di La ricerca folklorica girano largamente attorno a<br />
questa contraddizione, apparentemente senza volerla affrontare. In pochi rispondono in modo<br />
diretto alle domande del questionario. Guido Bertolotti, ad esempio, si rende conto che<br />
l’identificazione dei contadini come portatori per eccellenza della cultura popolare ha creato una<br />
sorta di illusione prospettica. Per questo autore, la centralità contadina sarebbe una conseguenza<br />
dell’origine meridionalistica degli studi italiani – una osservazione interessante che però inverte<br />
forse la causa e l’effetto. Il mezzogiorno rurale e “arretrato” è stato visto come luogo privilegiato<br />
della demologia in virtù di una certa concezione della cultura popolare. In ogni caso, Bertolotti fa<br />
notare come il ruralismo folklorico si è col tempo trasformato in una “pesante ipoteca” per gli studi<br />
di cultura popolare: una ipoteca “che ha ridotto le possibilità di cogliere i violenti processi di<br />
trasformazione della società italiana, e di contribuire in modo specifico al dibattito sul mutamento<br />
che sociologi ed economisti hanno assai più consapevolmente affrontato” 150 .<br />
Ma è soprattutto Pietro Clemente, da allievo di Cirese, a entrare nel vivo della teoria dei dislivelli<br />
interni. Già in un articolo di poco precedente aveva sostenuto la necessità di un “ridimensionamento<br />
del concetto di folklore, carico di implicazioni arcaicizzanti e ruraliste, e l’assunzione del<br />
149 Ibid.<br />
150 Guido Bertolotti, “Verso un’antropologia delle società complesse”; La ricerca folklorica, 1, 1980, p. 18
proletariato industriale (nella sua faccia subalterna) dentro l’area di interesse demologico” 151 . Nel<br />
dibattito su La ricerca folklorica Clemente scrive: “Credo che non abbia giustificazione espungere<br />
dallo studio delle classi subalterne la classe operaia industriale; proponendo semmai per<br />
l'assunzione alla demologia di un 'versante' specifico della vicenda del proletariato: quello della<br />
vita quotidiana, della routine, dei livelli primari della organizzazione…” 152 . La prospettiva che<br />
propone è quella del “cannocchiale sulle retrovie” – dove retrovie è da intendere come richiamo non<br />
tanto agli aspetti “progressisti” dello status operaio (le lotte sindacali, o la funzione di guida<br />
rivoluzionaria che il marxismo-leninismo assegna a questa classe), quanto “la vita familiare, la riproduzione<br />
della esistenza collettiva, i modi del permanere, innovarsi, ibridarsi delle ideologie, i<br />
circuiti culturali che mantengono (mi pare) una certa peculiarità anche nell’epoca dei massmedia”<br />
153 .<br />
Clemente vuole qui trarre fino in fondo le conseguenze della visione gramsciana della demologia:<br />
una disciplina che dovrebbe allontanarsi decisamente dalle “implicazioni arcaicizzanti e ruraliste”<br />
del folklore per sconfinare in una antropologia della dimensione quotidiana dei ceti subalterni<br />
contemporanei. Una mossa quasi ovvia, potremmo oggi dire, viste le premesse. Eppure di questa<br />
svolta non c’è grande traccia nella ricerca di quegli anni. L’attenzione alla cultura operaia è<br />
praticamente inesistente, e le forme culturali di massa restano un oggetto opaco, presente nella<br />
consapevolezza degli studiosi ma inafferrabile, difficile da aggredire sul piano della teoria come su<br />
quello del metodo. È vero che la stessa rivista La ricerca folklorica dedica pochi anni dopo, nel<br />
1983, un numero al tema “Cultura popolare e cultura di massa”, a cura di Amalia Signorelli 154 . Nei<br />
numerosi contributi presentati nel fascicolo, l’accento è prevalentemente posto sulla critica alla<br />
visione interclassista della cultura di massa, e alle capacità di resistenza opposta ai media e<br />
all’industria culturale da parte delle tradizioni locali e delle istanze subalterne. Sono presentate<br />
ricerche assai interessanti sui modi in cui la “modernizzazione” si insinua all’interno di forme della<br />
tradizione, quali le feste e i riti contadini, i movimenti religiosi carismatici, le pratiche del lutto, le<br />
leggende e la narrativa orale. Ma è come se l’antropologia fosse legittimata a occuparsi di cultura di<br />
massa solo per i modi in cui essa interviene a modificare il suo oggetto classico, oppure lo assorbe<br />
nei propri prodotti (come nel caso di film, pubblicità, programmi televisivi che incorporano tratti<br />
del folklore contadino). Sembrano invece assenti dal panorama italiano degli studi i riferimenti alla<br />
prospettiva che in quegli stessi anni veniva sviluppata – a partire proprio da una rilettura di Gramsci<br />
– dai cultural studies inglesi: vale a dire uno studio delle culture subalterne basato sull’etnografia<br />
del consumo della cultura di massa tra gli strati popolari.<br />
In realtà la “nuova demologia” italiana sembra preoccupata soprattutto di demarcare con nettezza il<br />
proprio oggetto e il proprio campo di studi da quello della cultura di massa. In modo più o meno<br />
esplicito, gli antropologi e i demologi sentono i contorni della cultura di massa come un confine<br />
invalicabile: superarlo significherebbe tradire le fondamentali motivazioni che li spingono a<br />
studiare, ma anche a tutelare e valorizzare, la cultura popolare. Le motivazioni di questo<br />
atteggiamento sono almeno di tre ordini. Il primo ordine è quello accademico: assumere a proprio<br />
oggetto la cultura di massa sarebbe una mossa rischiosa per l’autonomia della disciplina:<br />
avvicinandosi pericolosamente al terreno della sociologia, della semiotica e delle scienze della<br />
comunicazione mass-mediale, resterebbe schiacciata dalla loro preponderanza quantitativa. Un<br />
secondo ordine di motivazioni ha a che fare con l’influenza delle teorie critiche dell’industria<br />
culturale, come quella francofortese, molto forte negli anni ’70. Autori come Adorno e Marcuse<br />
sono assai letti, e l’idea che il consumo culturale di massa costituisca una forza ideologica al<br />
servizio del dominio e una forma di anestetizzazione delle coscienze è in quel decennio un luogo<br />
comune intellettuale. Se il folklore è almeno in qualche misura espressione di una coscienza di<br />
151<br />
Pietro Clemente,<br />
152<br />
Pietro Clemente, “Il cannocchiale sulle retrovie. Note su problemi di campo e di metodo di una possibile<br />
demologia”, La ricerca folklorica, 1, 1980, p. 40<br />
153<br />
Ibid.<br />
154<br />
La ricerca folklorica, 7, 1983
classe, questa qualità non può certo appartenere ai prodotti dell’industria culturale, i quali si<br />
impongono semplicemente al “popolo” che ne subirebbe passivamente la forza egemonica. Se la<br />
“vera” cultura popolare dev’essere studiata e valorizzata, è proprio in contrasto al consumo<br />
culturale di massa.<br />
Il che conduce a un terzo e connesso ordine di motivazioni. Per gli intellettuali, la cultura di massa<br />
è al tempo stesso oggetto di critica teorico-politica e di disgusto estetico, nel senso sociologico che<br />
a questo termine attribuiva Pierre Bourdieu. Una caratteristica cruciale dell’Italia degli anni ’60 e<br />
’70 è l’accesso di larghe fasce di popolazione giovanile, anche quella di origine contadina e operaia,<br />
all’istruzione superiore e universitaria e a pratiche di consumo culturale nel campo della musica, del<br />
teatro, del cinema e dell’arte. Una parte importante degli italiani sceglie di investire in capitale<br />
culturale; una parte non lo farà, investendo piuttosto in altre forme di consumo vistoso, in beni di<br />
lusso e nei simboli di status promossi dai media. Differenti strategie che creano nel paese una<br />
frattura antropologica molto profonda, che sta fra l’altro alla base delle odierne insanabili divisioni<br />
politiche. I nuovi “ceti medi riflessivi” che così si formano centrano le proprie strategie distintive,<br />
appunto, sulla raffinatezza dei consumi culturali. È una raffinatezza che si può manifestare a molti e<br />
diversi livelli, che hanno però in comune il “disgusto” per gli aspetti seriali, artificiosi, in autentici e<br />
kitsch della cultura di massa.<br />
Gli intellettuali guidano questo movimento di estetica sociale. Per alcuni di loro l’alternativa<br />
all’industria culturale consiste nelle tradizioni della grande arte, letteratura e musica, in specie nelle<br />
loro elitarie manifestazioni di avanguardia. Per altri, in genere quelli meno radicati in forme<br />
accreditate di “nobiltà” o in “rendite di posizione” culturale, l’alternativa può consistere<br />
nell’autentica spontaneità del folklore e della tradizione contadina. È in questa chiave che il “folk”<br />
assume un valore distintivo rispetto ai modelli di consumo promossi dai media: le case coloniche e<br />
l’arredamento in stile “rustico”, considerati come spazzatura fino a pochi anni prima, divengono<br />
agognati simboli di status; il canto, il teatro e le feste popolari sono oggetto di riletture e<br />
riproposizioni che si saldano con lo spettacolo d’avanguardia. È in questa cornice di significati<br />
sociali che la stessa demologia si trova ad agire e a demarcare un certo tipo di oggetti culturali.<br />
9. L’antropologia culturale italiana oggi: quale spazio per la cultura popolare?<br />
Le vicende dello specialismo disciplinare si intrecciano qui con quelle di una storia socio-culturale<br />
dell’Italia degli ultimi decenni del ‘900: un punto su cui occorrerebbe andare ben oltre questi<br />
sintetici accenni. Sta di fatto che la demologia nasce attorno a una cruciale tensione sia teorica che,<br />
per così dire, poetica. Da un lato vi è la fondazione teorica gramsciana, che la spingerebbe a<br />
concentrarsi sui mutamenti culturali più recenti, cercando di seguire le nuove articolazioni della<br />
frattura egemonico-subalterno attraverso una etnografia della vita quotidiana dei ceti popolari e<br />
delle pratiche del consumo di massa. Dall’altro, vi sono invece la poetica e la politica della tutela e<br />
della valorizzazione di tratti culturali tradizionali, rappresentativi di una diversità e meglio ancora di<br />
una resistenza rispetto alla penetrazione dei media e dell’industria culturale: ad esempio le pratiche<br />
terapeutiche magico- religiose, i canti popolari e le varie forme di improvvisazione e gara poetica, il<br />
teatro e le feste di origine contadina. Questi non sono solo fenomeni del passato, certo: sono spesso<br />
vivi e creativi, nel quadro di processi di persistenza e di revival che tuttavia interessano realtà<br />
minoritarie o marginali, potremmo dire persino elitarie, lontane comunque da una dimensione<br />
veramente “popolare”.<br />
Questa tensione irrisolta finisce per indebolire la stessa categoria di “cultura popolare”. Se alla fine<br />
degli anni ’70 essa appariva il centro unificante dell’antropologia italiana, nonché il principale<br />
tramite dei suoi rapporti con la storia, con la sociologia e la semiologia, a partire dagli anni ’80 la<br />
situazione cambia. I tentativi di definire e demarcare il “popolare” sembrano condurre in vicoli<br />
ciechi, oppure fuori dai confini invalicabili della disciplina; di conseguenza, sia la ricerca che<br />
l’elaborazione teorico-metodologica vanno in cerca di altri centri di gravità. Quali sono questi
nuovi elementi di aggregazione? In primo luogo, nel quadro antropologico italiano assumono<br />
sempre maggiore importanza le ricerche di etnologia extraeuropea: una conseguenza, questa, delle<br />
più forti relazioni internazionali e della maggiore accessibilità dei più lontani terreni. Rispetto agli<br />
anni ‘70, oggi si è probabilmente invertito il rapporto tra chi pratica forme di fieldwork<br />
extraeuropeo e gli studiosi di “dislivelli interni”; da larga maggioranza, questi ultimi sono divenuti<br />
una minoranza intimorita, che si tiene decisamente sulla difensiva e non sembra più credere in uno<br />
statuto forte del proprio campo. Così, le discussioni sulla demarcazione del “popolare” sono<br />
accuratamente evitate; lo stesso vale per il rapporto tra differenze culturali e appartenenze sociali.<br />
Problemi che rischiano per così dire di far mancare il terreno sotto ai piedi.<br />
Gli sviluppi della demologia hanno dunque imboccato altre direzioni. La strategia è stata quella di<br />
continuare a porre al centro dell’attenzione gli oggetti “classici” della disciplina, in particolare le<br />
feste locali e religiose, le performance di spettacolo legate alla tradizione folklorica, le forme<br />
dell’espressione orale. Questi “oggetti” sono stati però collocati in quadri interpretativi innovativi e<br />
spesso assai raffinati, influenzati dai dibattiti sull’invenzione della tradizione, dalla decostruzione<br />
del concetto di cultura operata dall’antropologia critica e postcoloniale, dagli approcci riflessivi alla<br />
descrizione etnografica. Queste influenze, forti soprattutto a partire dagli anni ’90, hanno da un<br />
lato portato alla rinuncia di ogni ricerca di autenticità: a proposito di pratiche come le feste, le forme<br />
religiose carismatiche o le performance di tradizione orale, gli studi hanno piuttosto sottolineato le<br />
capacità di rinnovamento e la tendenza ad intrecciarsi con le dinamiche della cultura mediale e<br />
globalizzata. Dall’altro lato, l’attenzione dei demologi si è spostata sulle pratiche di<br />
rappresentazione e patrimonializzazione della tradizione. In particolare, a partire da una<br />
pionieristica opera dello stesso Cirese 155 , si è sviluppato un cospicuo filone di antropologia<br />
museale, che ha trovato i suoi punti di forza non solo nelle università ma anche e soprattutto in una<br />
rete di musei etnografici locali. Piccoli ma spesso allestiti con grande finezza e consapevolezza<br />
epistemologica, questi musei sono oggi riuniti nella vivace associazione SIMBDEA 156 – il cui<br />
presidente, Pietro Clemente, ha teorizzato attraverso la formula del “terzo principio della<br />
museografia” uno stile espositivo radicalmente antirealista, volto ad evocare le risorse immaginative<br />
dello spettatore più che a produrre discorsi compiuti di ordine classificatorio o narrativo 157 . Alle<br />
pratiche museali si è inoltre accompagnata una riflessione sui processi di patrimonializzazione della<br />
tradizione e dei beni etnografici, in dialogo critico con le politiche culturali dell’UNESCO relative<br />
ai “tesori viventi” e al “patrimonio intangibile” 158<br />
Non è qui possibile approfondire neppure per grandi linee questi sviluppi. Vorrei solo sottolineare<br />
che, malgrado la loro ricchezza, si tratta di studi che continuano ad assumere la tradizione contadina<br />
e folklorica come oggetto distintivo dell’approccio demologico o antropologico. Certo, è una<br />
tradizione considerata non come pura persistenza ma nelle sue relazioni con i contesti<br />
contemporanei di mutamento; e, d’altra parte, come forma di resistenza alla deculturazione prodotta<br />
dallo strapotere dei media e del consumo di massa. Non è che la demologia si chiuda alla società<br />
mediale e globalizzata. Al contrario: ma è come se i meccanismi della cultura di massa potessero<br />
esser legittimamente affrontati solo attraverso il prisma delle forme più classiche del folklore. Pena<br />
lo scadimento in una generica “sociologia” – un timore assai diffuso fra gli antropologi italiani, che<br />
deriva forse dalla percezione di schiacciamento da parte di una disciplina più giovane che si è<br />
costruita però un potere accademico assai più grande.<br />
155 A.M. Cirese, Oggetti, segni, musei. Sulle tradizioni contadine, Torino, Einaudi, 1977<br />
156 “Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici”, costituita nel 2001 (www.simbdea.it)<br />
157 P. Clemente, E. Rossi, Il terzo principio della museografia. Antropologia, contadini, musei, Roma, Carocci, 1999. In<br />
questa linea occorre citare anche il lavoro di Vincenzo Padiglione, allestitore di alcuni musei decisamente<br />
d’avanguardia nella regione Lazio e direttore della rivista AM. Antropologia museale, periodico che esce dal 2002 e<br />
rappresenta il principale strumento di dibattito in quest’area degli studi.<br />
158 Per un quadro del dibattito su questo tema si veda AA.VV., Il patrimonio culturale, numero monografico di<br />
Antropologia Annuario (Roma, Meltemi), 7, 2006. Per una assai dibattuta critica in chiave di antropologia politica ai<br />
processi di patrimonializzazione v. B. Palumbo, L’Unesco e il campanile, Roma, Meltemi, 2003.
Tutto questo fa perdere di vista, in definitiva, l’obiettivo teorico attorno al quale la nuova<br />
demologia si era costruita fra anni ’60 e ’70: vale a dire l’ambizione di porre in relazione le<br />
differenze culturali con quelle sociali, e il tentativo di seguire l’articolazione (e la linea di frattura)<br />
egemonico-subalterno ben oltre la dissoluzione del mondo contadino tradizionale, all’interno dei<br />
mutamenti culturali contemporanei. In conclusione di questa sintetica ricostruzione storica, vorrei<br />
chiedermi se è possibile e opportuno recuperare oggi una centralità della categoria di cultura<br />
popolare, in un quadro di studi focalizzato sulle pratiche della quotidianità e sulle forme del<br />
consumo di massa. Negli ultimi vent’anni, sia l’antropologia che la sociologia culturale e qualitativa<br />
hanno prodotto in Italia studi di taglio etnografico su aspetti della cultura di massa, quali lo<br />
spettacolo sportivo, il turismo, il consumo della televisione, della musica e del cinema, le pratiche<br />
alimentari, la cultura materiale e l’uso degli oggetti ordinari in ambito domestico, le “culture della<br />
rete” e le pratiche comunicative legate ad Internet. Queste ricerche sono spesso pensate come ambiti<br />
tematici specialistici e separati l’uno dall’altro, accomunati semmai da generiche e ambigue<br />
etichette come “antropologia del contemporaneo” o delle “società complesse” (come se tutte le<br />
società studiate dall’antropologia non fossero “complesse” e”contemporanee”). Di solito non viene<br />
percepita alcuna continuità tra tali studi e quelli folklorici. È come se si trattasse di oggetti<br />
completamente diversi, piuttosto che di manifestazioni storicamente differenziate di uno stesso<br />
campo – vale a dire forme della cultura quotidiana di ceti popolari. A questa incomunicabilità<br />
contribuisce la distanza degli impianti teorici e metodologici. Mentre la demologia, nella sua<br />
definizione ciresiana, aveva come punti di forza il marxismo, la semiologia e lo strutturalismo, gli<br />
attuali studi di antropologia della cultura di massa poggiano piuttosto sugli approcci interpretativi di<br />
stampo geertziano, oppure su una qualche forma di “teoria delle pratiche” nella linea Bourdieu-De<br />
Certeau. E ancora, mentre la prima tendeva a produrre repertori documentari e filologici, i secondi<br />
puntano piuttosto sull’etnografia in profondità di singoli casi.<br />
Riallacciare questa recente stagione di ricerche al nucleo forte della tradizione demologica, vale a<br />
dire al nodo gramsciano della frattura egemonico-subalterno, è la scommessa teorica che a mio<br />
parere ci sta oggi di fronte. Ciò significherebbe recuperare il terreno perduto rispetto ad altri<br />
indirizzi, come i cultural studies anglosassoni, che hanno usato Gramsci per costruire una solida<br />
cornice interpretativa della cultura di massa; e significherebbe altresì restituire al campo degli studi<br />
demologici in Italia una compattezza e forse una originalità che sembra oggi lontana. In definitiva,<br />
la scommessa è quella di arrivare a pensare cose apparentemente inconciliabili - il teatro contadino<br />
e le partite di calcio, i canti popolari e le soap-operas, le fiabe tramandate oralmente e quelle di<br />
Walt Disney, i pellegrinaggi e le gite turistiche, la medicina dei guaritori e quella New-Age -<br />
all’interno di una medesima cornice interpretativa.
DONO<br />
di Matteo Aria<br />
(pubblicato in Antropologia Museale, 22, 2009, pp. 39-41)<br />
Per lungo tempo occultato, relegato a retaggio di un passato irrimediabilmente estinto, il dono è<br />
stato negli ultimi anni oggetto di una riscoperta pluridisplinare che ha coinvolto e entusiasmato<br />
filosofi, critici letterari, economisti, sociologi, storici e teologi. Da esclusivo campo d’indagine<br />
degli etnologi, impegnati sulla scia di Mauss (1924) a evidenziarne l’importanza nello studio delle<br />
società arcaiche e tradizionali, il dono è divenuto un tema “attuale” largamente dibattuto all’interno<br />
delle scienze sociali contemporanee. A partire dalla crisi dello strutturalismo e delle altre grandi<br />
narrazioni, e con il crollo definitivo dei sogni socialisti, un numero crescente di studiosi è tornato a<br />
riflettere sulle complessità sociali, politiche ed etiche del donare per riscoprire la dimensione<br />
simbolica e non utilitaria dell’agire sociale o, al contrario, per riaffermare la validità universale<br />
delle teorie dell’azione razionale e dell’individualismo metodologico. Nell’ambito di questa<br />
diffusione oltre i confini classici della riflessione antropologica, il problema della definizione del<br />
dono rispetto allo scambio e all’ambigua dialettica tra interesse e gratuità, tra reciprocità e assenza<br />
di restituzione, ha costituito una delle questioni centrali attorno alla quale si è catalizzata un’intera<br />
stagione culturale. L’analisi dell’abbondante letteratura prodotta permette di distinguere tre<br />
principali risoluzioni.<br />
Da un lato, assimilato alla logica dell’interesse, il dono è stato ridotto allo scambio equivalente, o<br />
rigettato perchè offuscamento ideologico che maschera le più profonde e strutturali “ragioni”<br />
economiche e politiche. In questo ambito possono essere collocate anche le recenti prospettive<br />
utilitariste di alcuni economisti e sociologi (Akerloff 1984; Camerer 1988) che, impegnati a<br />
espandere il paradigma microeconomico ad un’ampia varietà di campi sociali, hanno spiegato la<br />
consistente presenza del dono all’interno delle società capitalistiche come fatto economico<br />
funzionale allo sviluppo del mercato[1].<br />
Dall’altro, costruendosi in opposizione al concetto di mercato, ha rappresentato l’elemento chiave<br />
per una critica epistemologica radicale “all’imperialismo della scienza economica neoclassica” e, da<br />
un punto di vista etico-politico, l’ultimo baluardo delle alternative alla logica di profitto del<br />
capitalismo. Sono state in particolare le riflessioni critico-letterarie ed estetiche di Hyde (1979) e i<br />
successivi contributi sociologici di Cheal (1988) e dei ricercatori francesi facenti capo al<br />
movimento detto M.A.U.S.S.[2] a riproporre la validità degli insegnamenti maussiani per<br />
sottolineare il divario irriducibile tra lo scambio mercantile (emanazione del logos) che aliena i<br />
contraenti, e il dono (manifestazione dell’eros) che esprime e crea i legami sociali. A partire dagli<br />
anni Novanta del secolo scorso le prospettive antiutilitariste di Caillé (1989) e di Godbout (1992),<br />
hanno riaffermato la centralità della sfera del dare, ricevere e ricambiare nelle società occidentali<br />
contemporanee, individuandone l’essenza nel suo porsi a uguale distanza dall’egoismo e<br />
dall’altruismo. Per i teorici della “Revue du M.a.u.s.s.” il dono, ibrido tra interesse e disinteresse,<br />
obbligatorietà e libertà, si contrappone al mercato e allo stato in quanto i beni e i servizi circolano al
servizio del legame senza garanzia di restituzione. Parallelamente si distingue dalla pura gratuità e<br />
dalla carità cristiana, perché è motivato dal “desiderio del legame” e contiene in sé la rivalità e<br />
l’ostilità proprie del competere in generosità.<br />
Infine, la prospettiva volta a svincolare il dono dalla reciprocità e dall’aspettativa di ritorno ha<br />
messo in evidenza sia i possibili avvelenamenti e perversioni presenti in molte relazioni<br />
asimmetriche e unilaterali (Starobinski 1994), sia le connessioni con la semantica dell’amore<br />
agapico (Boltanski 1990), con l’ideologia del “dono puro” o “perfetto” (Belk 1996) e con la<br />
generosità illimitata descritta da Levinas. All’interno di questa tensione verso un radicale<br />
trascendimento dell’utile, si inscrive la critica decostruzionista di Derrida (1991) agli aspetti<br />
economicisti della teoria maussiana, incapace di distinguere il dono dallo scambio. Secondo<br />
Derrida, per essere tale il dono deve affrancarsi da ogni complicità, non solo con la logica<br />
utilitarista dello scambio economico, ma anche con quella maussiana dello scambio simbolico,<br />
respingendo ogni forma di restituzione sia immediata che differita nel tempo[3].<br />
Prospettive analoghe si sono alternate anche all’interno dell’evoluzione del pensiero antropologico<br />
sul dono. Alla scoperta, nell’etnografia di Malinowski (1922) e nelle riflessioni socioantropologiche<br />
di Mauss, della realtà del “dono arcaico” che sconfessava inequivocabilmente le astratte e fallaci<br />
teorie sull’universalità dell’homo oeconomicus, è seguita per oltre quarant’anni la sua progressiva<br />
marginalizzazione a favore del concetto di reciprocità e della teoria dello scambio. Le differenti<br />
letture da parte di Firth (1929) e di Lévi-Strauss (1950) del celebre Saggio sul dono, mostrando i<br />
limiti e gli errori della riflessione maussiana sullo hau, ne hanno rigettato la spiegazione “mistica”<br />
per elaborare un’interpretazione in un caso economicista e nell’altro strutturalista del “dare, ricevere<br />
e ricambiare”. All’interno dell’antropologia sociale britannica il principio di reciprocità - inteso<br />
come sequenza senza fine di scambi simmetrici ed equivalenti tra individui volti al proprio<br />
tornaconto personale - è diventato il meccanismo regolatore che assicurava il funzionamento e la<br />
stabilità di quelle società sprovviste di sistemi giuridici e di autorità politiche centralizzate. Si è così<br />
affermato un orientamento consonante ai modelli della scienza economica formalista focalizzati sul<br />
calcolo e sulla massimizzazione dell’utile. Nell’impostazione di Lévi-Strauss invece, il carattere<br />
eversivo e sbilanciato del dono-potlach, esaltato da Mauss come da Bataille perchè capace di<br />
rendere evidenti i limiti della razionalità economica e del principio di utilità, si è eclissato<br />
all’interno di un approccio oggettivista che, abbandonando l’indeterminatezza e le complessità delle<br />
nozioni maussiane sull’intreccio tra libertà e obbligo, e tra interesse e disinteresse, ha finito per<br />
“schiacciare” il dono sullo scambio simmetrico.<br />
La sovrapposizione di queste due nozioni ha cominciato a essere messa in discussione all’inizio<br />
degli anni Settanta attraverso alcuni contributi di Bourdieu (1972) e di Sahlins (1972), che hanno<br />
influenzato in modo significativo e antitetico l’ampia e diversificata produzione bibliografica degli<br />
ultimi venticinque anni. Il primo, nel tentativo di sviluppare una scienza generale dell’economia<br />
delle pratiche, ha favorito una lettura orientata a sottolineare le continuità della relazione tra il dono<br />
e la merce[4], mentre il secondo, avvicinando Mauss a Polanyi e a Marx, ne ha permesso un’<br />
interpretazione dicotomica[5].<br />
A partire dai primi anni Ottanta si è assistito ad un generale ripensamento delle categorie fino ad<br />
allora impiegate, che ha portato ad una significativa rivalorizzazione dello “spirito del dono” e della<br />
relazione tra le persone e le cose. La rielaborazione di queste nozioni maussiane in termini di<br />
alienabilità e inalienabilità degli oggetti e dei relativi differenti modi di concepire le persone, ha<br />
permesso di criticare radicalmente l’essenzialismo della norma di reciprocità e la sua eccessiva<br />
enfasi posta sulla razionalità economica definita attraverso valori occidentali. All’interno di questo<br />
comune ritorno a Mauss e al dono liberati da ogni connotazione strutturalista ed economicista, il<br />
dibattito antropologico contemporaneo si è, a mio avviso, articolato intorno a tre principali
orientamenti teorici a cui sono corrisposti altrettanti campi di ricerca: la prospettiva “discontinuista”<br />
degli studi sul dono melanesiano; l’approccio culturale “continuista” volto a addomesticare<br />
antropologicamente le merci e l’organizzazione capitalistica occidentale; le riflessioni sulle pratiche<br />
asimmetriche che non prevedono restituzione, proprie delle indagini etnografiche indiane.<br />
Nel primo caso l’attenzione si è focalizzata sulla persistenza delle “tradizionali” culture o economie<br />
del dono, intese non come sopravvivenze arcaiche ma come prodotti storici, frutto delle interazioni<br />
con il colonialismo e capaci paradossalmente di espandersi in un mondo dominato dalla produzione<br />
e dallo scambio mercantile. In questo ambito Gregory (1982), rileggendo Mauss attraverso Marx, ha<br />
individuato nel Saggio sul dono la centralità del concetto di inalienabilità che gli ha permesso di<br />
distinguere in modo netto le economie di mercato - dove le persone e le cose assumono la forma<br />
sociale di oggetti - da quelle del dono - dove sono entrambe personificate. Weiner (1992) a sua<br />
volta, ha mostrato il ruolo universale di quei possessi che, come indicato da Mauss, non possono<br />
essere facilmente dissociati dal loro proprietario originario, ma devono essere trasmessi solo<br />
all’interno del proprio gruppo e sono, pertanto, il fondamento delle identità collettive e<br />
individuali[6].<br />
Nel secondo, l’interesse si è concentrato sul mostrare come le riletture del testo maussiano e della<br />
stretta connessione tra gli oggetti e le relazioni sociali non sono solo importanti per lo studio delle<br />
culture tradizionali, ma offrono anche dei validi strumenti per indagare le società capitalistiche<br />
industriali. In sintonia con le riflessioni di Bourdieu (1972) sulle connessioni tra il dono e le<br />
pratiche economiche, Appadurai (1986) e Marcus (2002), orientati a estendere la riflessione<br />
antropologica agli ambiti di pertinenza della scienza economica[7], hanno contrapposto alla<br />
dicotomia dono-merce, una visione capace di coglierne gli elementi comuni[8]. La parallela<br />
rivendicazione della presenza del dono in tutte le società (Carrier 1995) ha permesso invece di<br />
interpretarlo come uno dei significativi ambiti di produzione e manifestazione della cultura popolare<br />
all’interno della società di massa, da studiare anche attraverso le etnografie delle pratiche<br />
quotidiane.<br />
Nel terzo, gli studi indiani di Parry (1986) e di Laidlaw (2000) hanno criticato sia la rigida<br />
separazione tra il dono e le merce, sia le prospettive “continuiste” incapaci di scorgerne le<br />
differenze. Le pluralità delle forme e dei significati del dono sono stati invece interpretati come<br />
espressione di specifici contesti storici, politici, religiosi e culturali. Le loro etnografie hanno infatti<br />
evidenziato l’esistenza e l’importanza sociale di doni che, a differenza di quelli maussiani, non<br />
creano obblighi, non sono personali e non costruiscono legami sociali. Si tratta di pratiche rare che<br />
esprimono però la tensione comune a tutti i sistemi religiosi verso il supremo valore delle donazioni<br />
anonime della carità e della filantropia.<br />
[1] In modo ancora più radicale e provocatorio, l’economista americano Gilder (1981) ha utilizzato<br />
Mauss e Bataille per realizzare una legittimazione postmoderna del capitalismo contemporaneo che,<br />
al pari delle società primitive, ha come centro morale e pulsione vitale il modello del dono.<br />
[2] Il M.A.U.S.S è l’acronimo di Movimento Antiutilitaristico delle Scienze Sociali<br />
[3] Le dissertazioni di Derrida sul dono come figura dell’impossibile e come perdita assoluta e<br />
incondizionata sono state all’origine di un intenso ripensamento filosofico e critico-letterario<br />
interessato da una parte a riproporre criticamente la riflessione di Bataille sul sacrificio, sulla<br />
poesia e sulla morte come archetipi di una dépense antiutilitaria, e dall’altra a riscoprire una feconda
tradizione di studi non antropologici sul dono che da Seneca arriva, attraverso Emerson e Nietzche,<br />
fino a Heidegger.<br />
[4] Le ricerche di Bourdieu sulle pratiche del dono a partire dal caso etnografico della Kabilia<br />
hanno per la prima volta aperto uno squarcio nella dominante interpretazione strutturalista del<br />
Saggio di Mauss, individuando nella temporalità la linea di distinzione tra il dono e lo scambio. Per<br />
Bourdieu (1972), infatti, la prospettiva lévistraussiana focalizzata sulla relazione di reciproca<br />
equivalenza tra il dono e il controdono si rivela incapace di distinguere lo scambio di doni dal<br />
baratto - dove il dono e il controdono sono condensati nello stesso istante - o dal prestito - regolato<br />
dagli atti legali. L’oggettivismo di Lévi-Strauss ignora o abolisce il fatto che “in tutte le società, a<br />
rischio di costituire un’offesa, il controdono deve essere differente e differito, dato che la<br />
restituzione immediata di un oggetto equivale molto chiaramente ad un rifiuto” (Bourdieu 1972, p.<br />
283).<br />
[5] Sahlins (1972) se da un lato ha rappresentato il momento culminante del paradigma<br />
antropologico della reciprocità e dello scambio riletti in chiave antiformalista, dall’altro ha<br />
contribuito a decretarne il superamento attraverso la rivalorizzazione delle idee maussiane sullo hau<br />
e sulla relazione tra le persone e le cose. Ha, infatti, riconosciuto la validità della riflessione sullo<br />
spirito incarnato del donatore maori perchè capace di cogliere come tratto essenziale delle<br />
prestazioni totali interclaniche l’intima relazione tra le persone e le cose. L’indissolubilità tra gli<br />
uomini e gli oggetti materiali è propria di un mondo (quello primitivo) in cui la sfera sociale e<br />
quella economica non sono mai completamente separabili. L’hau rappresenta così la più valida<br />
esemplificazione di questo intreccio che segna al contempo anche la differenza con lo scambio<br />
mercantile, fondato sulla netta distinzione tra i beni e le persone e sull’autonomia dell’economico.<br />
[6] Godelier (1996) ha sviluppato questo spostamento dalla circolazione alla conservazione<br />
avvicinando il dono al sacro e ponendo come presupposto di ogni società la triplice distinzione tra<br />
oggetti sacri inalienabili e inalienati, doni inalienabili ma alienati e merci alienabili e alienate.<br />
[7] Marcus (2002) ha sostenuto la possibilità dell’antropologia di indagare il capitale finanziario<br />
contemporaneo e le sue mentalità. Appadurai (1986) ha utilizzato Bourdieu per evidenziare gli<br />
aspetti culturali i dilemmi morali dei processi economici della globalizzazione.<br />
[8] L’impostazione continuista proposta da Appadurai è volta da un lato a sottolineare la<br />
dimensione culturale degli scambi contro il riduzionismo economicista, e dall’altro a individuare, in<br />
opposizione alle semplificazioni sostantivistiche, la presenza del calcolo in tutti i tipi di transazioni<br />
dei beni.<br />
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DESCRIVERE, TEORIZZARE,<br />
TESTIMONIARE LA VIOLENZA<br />
(Pubblicato come introduzione al volume Antropologia della violenza, a cura di F. Dei, Roma,<br />
Meltemi, 2005)<br />
La letteratura etnografica e il dibattito antropologico internazionale degli ultimi 15-20 anni si sono<br />
caratterizzati per una diffusa attenzione al tema della violenza di massa. Singolarmente trascurata<br />
nelle più classiche fasi degli studi (sia pure con rilevanti eccezioni), la violenza sembra trovarsi oggi<br />
al centro della riflessione antropologica; non solo come “nuovo” oggetto, o come una ulteriore<br />
“antropologia speciale”, ma come campo decisivo per i complessivi scenari teorico-epistemologici<br />
della disciplina, così come per i problemi legati al suo “uso pubblico” e all’etica della ricerca e<br />
della scrittura. Questo volume presenta ai lettori italiani una scelta di saggi che di tale dibattito sono<br />
in qualche modo rappresentativi, sia per la rilevanza degli autori che per la varietà dei temi trattati.<br />
Nelle pagine introduttive, cercherò di ricostruire per grandi tratti il contesto in cui la moderna<br />
antropologia della violenza si sviluppa, discutendo alcuni fra i numerosi problemi che essa solleva.<br />
1. Perché la violenza?<br />
Il Novecento, il secolo in cui la scienza antropologica è diventata adulta e ha conosciuto il suo<br />
massimo sviluppo, è stato anche un’epoca di guerre, genocidi e violenze di massa di straordinarie<br />
dimensioni e intensità. L’appellativo di “secolo delle tenebre” (Todorov 2001) è forse unilaterale ed<br />
eccessivo; ma è indubbio che l’applicazione della razionalità tecnologica e amministrativa agli<br />
obiettivi dello sterminio di grandi masse di persone è stata senza precedenti. Inoltre, il grado<br />
altissimo di violenze e atrocità ha prodotto uno stridente e scandaloso contrasto con le<br />
autorappresentazioni in termini di progresso e di civiltà in cui la cultura novecentesca si è a lungo<br />
cullata. Ma di tutto ciò nella letteratura antropologica non c’è praticamente traccia. Inutilmente, o<br />
quasi, si sfoglierebbero gli autori più classici o le riviste più prestigiose in cerca di riferimenti alla<br />
Shoah, a Hiroshima, alle carneficine delle due guerre mondiali – fenomeni che pure hanno scosso<br />
l’opinione pubblica e la coscienza contemporanea, modificando profondamente quella che ben<br />
potremmo chiamare l’autopercezione antropologica della contemporaneità.<br />
Ancora più sorprendente è la scarsità dei riferimenti alle violenze subite dai popoli cosiddetti<br />
indigeni – il principale e caratterizzante soggetto di studio della disciplina. Almeno da Malinowski<br />
in poi gli antropologi si sono posti l’obiettivo prioritario di “salvare” – descrivendole<br />
etnograficamente – le culture diverse e “primitive” che rischiavano di scomparire; ma hanno quasi<br />
sempre trascurato il fatto che questa scomparsa era il frutto non solo dell’inarrestabile incedere della<br />
civiltà e del progresso, ma anche e soprattutto di politiche palesemente etnocide, talvolta di vere e
proprie pratiche di sterminio, da parte dei poteri coloniali. Il “moderno assalto globale degli stati-<br />
nazione contro popolazioni tribali di piccola scala e autosufficienti”, con i suoi effetti spesso<br />
devastanti e con sistematici episodi di violenza e atrocità, e con un numero di vittime che nel secolo<br />
d’oro dell’imperialismo si conta nell’ordine delle decine di milioni (Bodley 1992, p. 37), è un<br />
macro-fenomeno storico che gli antropologi hanno avuto sotto gli occhi senza apparentemente<br />
riuscire a vederlo, e comunque senza tematizzarlo nei loro lavori.<br />
Molti critici contemporanei, soprattutto nell’ambito dei post-colonial studies, vedono in questo<br />
silenzio un sintomo di complicità, perlomeno passiva, dell’antropologia. Ė un giudizio che a me<br />
sembra quantomeno parziale in termini di storia delle idee, e sul quale tornerò oltre. Si può intanto<br />
osservare che la mancata tematizzazione della violenza è strettamente legata alle principali<br />
condizioni pratiche ed epistemologiche del lavoro antropologico novecentesco. Sul piano pratico,<br />
sia per ragioni di sicurezza che per l’esplicita proibizione delle autorità locali o coloniali, gli<br />
antropologi lavorano spesso in aree pacificate, nelle quali il conflitto non è presente o perlomeno<br />
non si manifesta apertamente; e abbandonano il terreno quando le condizioni si fanno difficili. Ma<br />
anche quando guerra e violenza si manifestano apertamente, è raro che esse emergano alla<br />
superficie dei resoconti etnografici. Se ne parla magari nei diari di campo, nei corridoi delle Facoltà,<br />
e al massimo nelle prefazioni di monografie dedicate a più comuni temi antropologici, sempre però<br />
dando per scontato che si tratta di elementi estranei al vero nucleo scientifico della disciplina. Il<br />
caso forse più noto, e certamente emblematico, di questo atteggiamento è costituito dal lavoro di<br />
Evans-Pritchard fra i Nuer, condotto in un periodo di forte tensione fra questi ultimi e il governo del<br />
Sudan anglo-egiziano, per conto del quale l’antropologo conduceva la sua ricerca. A tali conflitti<br />
egli fa cenno soltanto nell’introduzione alla sua fortunata monografia del 1940, nel contesto di una<br />
esposizione delle difficoltà incontrate nella ricerca sul campo, e attribuite principalmente alla<br />
“intrattabilità” di carattere dei Nuer. “Al momento della mia visita – scrive – essi erano<br />
particolarmente ostili perché la sconfitta recente e le misure adottate dal governo per assicurarsi la<br />
loro sottomissione finale avevano suscitato profondo risentimento”. Il livello di tensione è<br />
testimoniato dall’unico episodio di cui Evans-Pritchard riferisce: “un giorno, all’alba, truppe<br />
governative circondarono il nostro campo, lo perquisirono per cercare due profeti che avevano<br />
capeggiato una recente rivolta, e portarono via alcuni ostaggi minacciando di prenderne molti altri,<br />
se i profeti non fossero stati consegnati”. Con una buona dose di understatement, l’antropologo<br />
commenta di essersi sentito “in una posizione equivoca”, e di aver deciso poco dopo di lasciare il<br />
villaggio (Evans-Pritchard 1940, p. 44) 159 .<br />
Di tutto ciò non v’è altro cenno nel resto del libro. Perché Evans-Pritchard non sente il bisogno, o<br />
l’obbligo, di tematizzare una situazione di guerra e violenza che palesemente domina la vita del<br />
popolo presso cui si trova, e che inevitabilmente sottodetermina l’incontro etnografico? L’obiettivo<br />
dell’antropologia, dal suo punto di vista, è descrivere e spiegare le normali strutture sociali e<br />
159 La rilevanza di questo passo de I Nuer dipende non solo dall’importanza dell’autore e dallo statuto di classico che il<br />
libro si è guadagnato, ma anche dal fatto che negli anni Ottanta queste pagine sono divenute emblema dei limiti del<br />
realismo etnografico, ed oggetto di feroci critiche da parte degli autori del movimento di Writing Culture (si veda in<br />
particolare Rosaldo 1986, p. 132 sgg. e, per una difesa di Evans-Pritchard, Free 1991).
istituzioni culturali del popolo studiato: l’organizzazione ecologico-economica, la parentela, il<br />
sistema politico, la religione, e così via. L’antropologia che Evans-Pritchard rappresenta è<br />
interessata cioè a cogliere caratteristiche strutturali, indipendenti dagli episodi e dalla contingenza<br />
storica. Rispetto a queste finalità, i conflitti possono apparire puri elementi di disturbo che, oltre ad<br />
ostacolare un regolare fieldwork, sconvolgono l’ordinario andamento della vita indigena e non<br />
consentono di coglierne, appunto, la normalità 160 . Quello che a noi oggi appare come un<br />
atteggiamento reticente e irriflessivo, che nasconde al lettore le condizioni politiche dell’incontro<br />
etnografico, era per l’antropologia classica un requisito di pertinenza disciplinare, nonché di<br />
oggettività e di dovuto distacco scientifico.<br />
In altre parole, sono state le condizioni della produzione antropologica descritte come “realismo<br />
etnografico” – con la tendenza a non tematizzare il carattere storicamente e politicamente situato<br />
della ricerca – a ostacolare la visibilità dei fenomeni della violenza, e a impedire un loro<br />
riconoscimento come problemi centrali della rappresentazione culturale e del dibattito teorico.<br />
Questo riconoscimento è infatti iniziato proprio nel momento in cui le convenzioni del realismo<br />
etnografico hanno cominciato a incrinarsi. La svolta riflessiva che ha investito l’antropologia a<br />
partire dagli anni ’80, per quanto tutt’altro che pacificamente accolta e causa di infinite discussioni,<br />
ha profondamente cambiato il modo di fare etnografia: o meglio, il modo di intendere il rapporto tra<br />
scrittura etnografica e ricerca, tra la soggettività dell’esperienza di campo e l’oggettività della<br />
rappresentazione culturale. E’ vero che la sperimentazione di nuove forme di autorità etnografica,<br />
sbandierata negli anni ’80 da autori come James Clifford e George Marcus, è rimasta qualcosa di<br />
assai vago; tuttavia l’imperativo di tematizzare, piuttosto che nascondere, le condizioni soggettive e<br />
politiche della ricerca, nonché le retoriche rappresentative adottate, si è diffuso in modo ampio e<br />
irreversibile.<br />
Gli antropologi che si sono trovati a lavorare in contesti dominati dalla violenza, dunque, non<br />
hanno più potuto fingere di ignorarne gli effetti sul loro campo di studio e sul proprio stesso ruolo<br />
di ricercatore. Del resto, nello stesso periodo (più o meno, l’ultimo quarto di secolo), altre<br />
condizioni hanno contribuito a far emergere in primo piano il problema della violenza etnica e<br />
politica. Non mi sembra irrilevante il fatto che protagonista di questa stagione degli studi sia stata<br />
una generazione di antropologi formatasi negli anni ’60, nel clima della contestazione studentesca,<br />
dei movimenti di liberazione antiimperialista, dell’opposizione alla guerra in Vietnam, di ampia<br />
diffusione di una cultura pacifista e dei movimenti per i diritti umani. Sono anche gli anni in cui<br />
160 Nell’antropologia classica, gli unici lavori che tematizzano esplicitamente la violenza sono infatti quelli che la<br />
considerano non come un fenomeno storico ma come una caratteristica strutturale delle “società primitive”. Penso ad<br />
esempio all’opera di Clastres (1977), che vede una condizione di guerra permanente come necessaria all’esistenza delle<br />
società senza Stato; o a una tradizione di studi neoevoluzionisti e sociobiologici che spiegano naturalisticamente la<br />
guerra in termini di strategia adattiva e di selezione del patrimonio genetico (per un quadro di tali approcci v. Knauft<br />
1987, 1991; rimando anche a Dei 1999, pp. 290-4, per una valutazione critica degli approcci naturalistici<br />
all’antropologia della guerra). Per certi versi pionieristica per il suo accento sull’uso sistematico del terrore, ma legata<br />
comunque all’idea della violenza politica come caratteristica strutturale di società premoderne (in senso weberiano), è<br />
l’opera di E.V. Walter (1969). L’antologia curata da D. Riches (1986) segnala l’apertura di un sistematico interesse<br />
antropologico per la violenza, senza tuttavia ancora aprirsi a quelli che saranno i temi predominanti del dibattito degli<br />
anni ’90.
nella cultura occidentale emerge progressivamente la memoria della Shoah come tema portante<br />
della coscienza contemporanea, e le figure della vittima e del testimone divengono emblemi della<br />
soggettività tardo-moderna (Wieviorka 1998). Molti di questi studiosi, in aperto contrasto con gli<br />
ideali di distacco e neutralità scientifica che avevano guidato generazioni precedenti, hanno cercato<br />
di coniugare il rigore della ricerca scientifica con la passione dell’impegno etico-politico –<br />
sostenendo anzi che il primo non è veramente tale se non fa i conti (“riflessivamente”, appunto) con<br />
il secondo. Al centro di questo impegno non poteva non collocarsi la denuncia e l’analisi delle<br />
forme di sopraffazione e violenza – sia quella palese sia quella “simbolica” connessa alle forme del<br />
potere e ai relativi campi del sapere, secondo la lezione di teorici in questi anni assai influenti come<br />
Foucault e Bourdieu. Ciò non significa affatto, o almeno non necessariamente, trasformazione<br />
dell’antropologia in una disciplina militante (un esito, come vedremo, auspicato invece da una delle<br />
autrici di questo volume; v. Scheper-Hughes 1995): significa però una profonda trasformazione<br />
dell’agenda teorica e del modo stesso di concepire il compito della rappresentazione etnografica.<br />
Un terzo grande ordine di motivi, ancora, contribuisce all’inevitabile incontro di antropologia e<br />
violenza nell’ultima parte del Novecento. Mi riferisco ai mutamenti nella natura delle guerre e della<br />
violenza che affligge molte parti del mondo, soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda. I conflitti<br />
regionali cosiddetti a “bassa intensità”, così come gli scontri etnici o religiosi, le “guerre sporche”<br />
latino-americane e la violenza di stato, la pratica sistematica del terrorismo cancellano<br />
progressivamente il confine tra guerra e non guerra, tra militari e civili, tra “normalità” dei rapporti<br />
sociali e straordinarietà o emergenza dello stato di guerra. Nei conflitti di fine secolo, come è noto,<br />
la gran parte delle vittime (tra ottanta e novanta per cento) si conta fra i civili; il monopolio statale<br />
della violenza si allenta a favore della proliferazione di gruppi paramilitari; colpire e terrorizzare le<br />
popolazioni non è più un effetto collaterale, ma l’obiettivo stesso delle strategie belliche e dei nuovi<br />
metodi di combattimento (Kaldor 1999, pp. 15-18, 117; v. anche Lutz 1999, p. 610). In ciò gioca un<br />
ruolo anche la diffusione di particolarismi e di politiche dell’identità etnica, che trapassano in alcuni<br />
casi in pratiche sistematiche di pulizia etnica e talvolta di vero e proprio genocidio, come nei due<br />
casi paradigmatici del Ruanda e della ex-Jugoslavia, discussi in alcuni saggi di questo volume.<br />
La violenza assume dunque un carattere più diffuso nel tempo e nello spazio, penetra a fondo nella<br />
quotidianità, inverando la citatissima ottava tesi sulla filosofia della storia di Walter Benjamin - “La<br />
tradizione degli oppressi ci insegna che lo "stato di emergenza" in cui viviamo non è più l’eccezione<br />
ma la regola”. Anche un’antropologia tutta concentrata sulle strutture piuttosto che sugli eventi non<br />
può più fare a meno di ignorarla. Anche perché la natura etnica dei conflitti e il loro intrecciarsi con<br />
politiche dell’identità chiamano direttamente in causa le categorie antropologiche di analisi, in<br />
alcuni casi, come vedremo, persino accusate di complicità nella costruzione di una cultura di<br />
discriminazione e di terrore. Si deve anche considerare, fra le differenze rispetto alle condizioni<br />
classiche della ricerca, che nel contesto tardo-moderno l’etnografo non è più solo sul campo, ma<br />
lavora accanto a giornalisti, troupes televisive, attivisti della cooperazione internazionale e dei diritti<br />
umani che proprio sui fenomeni di violenza dirigono la loro attenzione. Secondo alcuni (Avruch<br />
2001, p. 645), è stato proprio l’impatto del movimento dei diritti umani ad esercitare un’influenza
decisiva sugli sviluppi dell’antropologia contemporanea – in particolare, con la grande diffusione di<br />
relazioni sulle violazioni di diritti, i tentativi di dar voce alle vittime, la circolazione di<br />
testimonianze spesso assai dense sul piano etnografico.<br />
Se una simile influenza è plausibile, è però anche vero che l’antropologia ha mantenuto un<br />
rapporto spesso assai critico nei confronti delle organizzazioni umanitarie, nelle cui politiche ha<br />
scorto assunti etnocentrici e una scarsa comprensione delle culture locali (v. ad esempio Malkki<br />
1996). La cultura umanitaria e buona parte del discorso mediale sembrano considerare le<br />
manifestazioni della violenza nel mondo contemporaneo come legata a sacche di arretratezza, alla<br />
permanenza di una barbarie e di una irrazionalità che stridono scandalosamente rispetto alle<br />
conquiste della civiltà. Vi è alla base di ciò quella visione progressista della storia cui Benjamin<br />
reagiva, al culmine dell’aggressione fascista all’Europa, parlando di stato di emergenza<br />
permanente. “Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è<br />
tutt’altro che filosofico. Non è all'inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l'idea di storia<br />
da cui proviene non sta più in piedi”. Al contrario, il filosofo tedesco esortava a “giungere a un<br />
concetto di storia che corrisponda a questo fatto”, cioè alla consapevolezza di un’emergenza come<br />
regola e non come eccezione (Benjamin 1955, p.76). In qualche modo, aggiungendo “cultura” a<br />
“storia”, questo è il programma dell’antropologia contemporanea, che non solo attribuisce<br />
significati alla violenza, ma cerca di comprenderla come costitutiva di una teoria della società e<br />
della cultura.<br />
2. Scrivere la violenza<br />
Lo sviluppo di una sistematica attenzione alla violenza avviene dunque in relazione, da un lato, ai<br />
mutamenti delle condizioni strutturali nelle quali il lavoro antropologico ha luogo, dall’altro alla<br />
svolta riflessiva della disciplina e alla “crisi della rappresentazione” che la investe. Chi decide di<br />
affrontare questo campo si trova così di fronte, in primo luogo, al problema di come scrivere la<br />
violenza. I modelli discorsivi classici, dalle trasparenze etnografiche di Evans-Pritchard ai cristalli<br />
semiotici di Lévi-Strauss, sembrano poco appropriati; né vengono molto in aiuto le vaghe formule<br />
postmoderne che suggeriscono rappresentazioni dialogiche e polifoniche. Ciò che occorre ripensare<br />
è il presupposto usuale della scrittura etnografica, che – classica o postmoderna – si pone l’obiettivo<br />
di scoprire e restituire un ordine culturale, l’ethos di una società, la profonda coerenza di un modo<br />
di vita. È proprio quest’ordine che viene disintegrato nelle situazioni di violenza radicale.<br />
Soprattutto nelle “nuove guerre” di fine XX e inizio XXI secolo, la distruzione delle più basilari<br />
strutture antropologiche non è più soltanto un effetto collaterale dei combattimenti, ma un obiettivo<br />
consapevolmente perseguito. Le operazioni di pulizia etnica, come osserva Mary Kaldor (1999, p.<br />
116), mirano a rendere un territorio inabitabile, non solo colpendone l’organizzazione produttiva,<br />
ma anche “istillando ricordi insopportabili sulla patria di un tempo oppure profanando tutto ciò che<br />
ha un significato sociale”: ad esempio “attraverso la rimozione dei punti di riferimento fisici che<br />
definiscono l’ambiente sociale di particolari gruppi di persone”, oppure “la contaminazione
attraverso lo stupro e l’abuso sessuale sistematico…o mediante altri atti di brutalità pubblici e molto<br />
visibili”.<br />
L’antropologa Carolyn Nordstrom, a proposito delle sue esperienze in Sri Lanka e in<br />
Mozambico, parla di guerre in cui il controllo del territorio è perseguito disseminando paura,<br />
brutalità e assassinio. La “cultura del terrore” che ne risulta si basa sulla “forzata decostruzione<br />
delle realtà accettate nella vita quotidiana, in modo da disabilitare i sistemi basilari di significato e<br />
di conoscenza, quelli che definiscono i mondi della vita delle persone e rendono comprensibile<br />
l’azione [...] Se la cultura fonda la società, e la società fonda la costruzione sociale della realtà,<br />
allora disabilitare le cornici culturali equivale a disabilitare, per la popolazione civile, il senso stesso<br />
di una realtà vivibile, nonché la capacità individuale di agire…” (Nordstrom 1992, p. 261). Se<br />
l’obiettivo della scrittura antropologica è farci cogliere il punto di vista dei nativi, cioè ricostruire la<br />
compattezza fenomenologica del loro mondo, di fronte alla violenza radicale si tratta piuttosto di<br />
restituire il senso della dissoluzione di un mondo culturale. E’ come se l’etnografo, abituato a<br />
cercare di seguire faticosamente la via che porta al significato, dovesse adesso ripercorrerla a<br />
ritroso. E in questo tornare indietro la stessa nozione di “ragione etnografica” viene messa in<br />
discussione. Nordstrom nota come il tentativo di capire le ragioni della guerra e della violenza “si<br />
avvicini pericolosamente all’obiettivo di rendere la guerra ragionevole”, e rischi di fatto di “mettere<br />
a tacere la realtà della guerra” (1995, p. 138). Dunque, la ricerca di significati e ragioni della<br />
violenza contrasterebbe profondamente con l’obiettivo etnografico di comprendere il ruolo della<br />
violenza nel mondo-della-vita degli attori sociali.<br />
Qui tocchiamo un punto importante. Si può ben sostenere, naturalmente, che in quanto attività<br />
umana la violenza è una pratica significativa e governata-da-regole come tutte le altre, e che<br />
comprenderla equivale a scoprire tali regole e significati; se pensassimo che comprendere equivalga<br />
a perdonare, confonderemmo “l’idioma disciplinare delle scienze sociali con il linguaggio<br />
quotidiano” (Abbink 2000, pp. xii-xiii). Ma l’argomento sollevato da Nordstrom mette proprio in<br />
discussione l’adeguatezza del normale linguaggio delle scienze sociali, con i suoi effetti distanzianti<br />
e generalizzanti, con la sua ricerca di un coerente insieme di motivi, ragioni, cause 161 . Un ulteriore<br />
problema si pone per quegli etnografi che lavorano in contesti dominati dalla violenza di stato, dove<br />
le atrocità, le torture e la repressione sono al tempo stesso supportati e celati da un ordine discorsivo<br />
normalizzante, che le mostra appunto come ragionevoli e necessarie (ad esempio presentando il<br />
terrore come contro-terrore; v. Chomski 2004). Alcuni autori, in particolare M. Taussig, hanno<br />
avvertito il rischio di parlare del terrore con un linguaggio eccessivamente contiguo a quello che il<br />
terrore copre – contiguo se non nei contenuti, almeno nella forma di un ordine discorsivo<br />
161 Peraltro, sembra eccessivo e inutile spingere questa critica fino al concetto stesso di ragione, come fa Nordstrom, o<br />
contro la tendenza antropologica alla “ricerca del senso”. Quest’ultima oscurerebbe i concreti “individui che vivono,<br />
soffrono e muoiono, i quali sono la guerra”; e le ragioni, di fronte alle questioni di vita e di morte, sono rimpiazzate da<br />
una “cacofonia di realtà” (1995, p. 137). A parte la vaghezza di quest’ultima formula, non è chiaro dove stia la<br />
contraddizione fra la ricerca del senso e il metodo etnografico della studiosa, centrato sulla raccolta di storie individuali<br />
e sull’analisi del simbolismo della violenza e di quello della resistenza quotidiana. Proprio il suo sforzo di attingere la<br />
realtà soggettiva del dolore, del “disfacimento del mondo” e i tentativi di ricostruirlo con i mezzi della cultura<br />
testimonia a favore di una nozione di comprensione antropologica come elucidazione delle ragioni e dei significati che<br />
rendono umane certe pratiche. Cfr. anche Nordstrom 1997, 2004, Finnström 2001.
conciliante, di una asettica chiusura nelle convenzioni accademiche, di un realismo che normalizza<br />
lo status quo. La complicità è reale, non soltanto simbolica, dal momento che il fatto stesso di<br />
parlare della violenza (ad esempio la diffusione di un repertorio di storie di atrocità) è parte<br />
integrante della “cultura del terrore”, è anzi ciò che le permette di funzionare. Il legame<br />
indissolubile di violenza e ragione che fonda lo Stato moderno (il “discorso della ragione come<br />
guanto di velluto che nasconde il pugno d’acciaio”) è per Taussig 162 all’origine dell’inevitabile<br />
aporia in cui cadono i tentativi delle scienze sociali di parlare della violenza. Aporia che prende la<br />
forma di mimesi tra la rappresentazione e ciò che viene rappresentato 163 .<br />
Costruire un controdiscorso, scrivere del terrore contro il terrore, diventa allora una faccenda<br />
assai complicata, che richiede – almeno per Taussig - una sovversione delle convenzioni<br />
compositive e della “poetica del bene e del male” radicata nel discorso egemonico; per accostarsi<br />
invece a quella poetica dello sciamanismo e della guarigione cui fa cenno in conclusione del saggio<br />
qui presentato, e che svilupperà nella sua più nota monografia (Taussig 1987). Ne risulta una<br />
scrittura frammentaria, discontinua, più evocativa che analitica e peraltro non sempre facile da<br />
seguire – soprattutto nelle opere degli anni Novanta. Non tutti gli etnografi sono, come Taussig,<br />
ossessionati dalla compenetrazione tra discorso e potere, e dai tranelli mimetici di una violenza che<br />
può infiltrarsi nelle forme stesse della sua rappresentazione e persino della sua denuncia. Tutti sono<br />
però alla ricerca di forme di scrittura adeguate a restituire la particolare tensione fra aspetti<br />
epistemologici, emozionali ed etici della propria esperienza di ricerca. I problemi sollevati<br />
dall’etnografia della violenza non sono forse diversi da quelli che caratterizzano oggi l’etnografia<br />
tout court; si manifestano però in modo più accentuato e spesso decisamente drammatico. Ad<br />
esempio, la classica tensione malinowskiana fra l’esperienza di partecipazione soggettiva del<br />
ricercatore, da un lato, e dall’altro le esigenze di oggettività della rappresentazione, cambia aspetto<br />
quando il ricercatore è coinvolto in esperienze di altissimo impatto emotivo, di terrore, di rabbia, di<br />
odio che annullano ogni possibile margine di distacco scientifico.<br />
Ancora, uno dei problemi sollevati dalla svolta riflessiva dell’antropologia – il diritto<br />
dell’etnografo di parlare in nome dei soggetti della sua ricerca – assume qui caratteristiche<br />
peculiari. Non si tratta solo del fatto, ormai ampiamente affermato dalla tradizione dei cultural e<br />
postcolonial studies, che la presa di parola antropologica per conto degli “Altri” si fonda su<br />
presupposti di potere non analizzati, collocando i prodotti antropologici nell’ambito del discorso<br />
coloniale. Il posizionamento politico e discorsivo degli etnografi della violenza è più complesso e<br />
ambiguo di quello classico analizzato da critici come E. Said e G. Chakrabarti Spivak. In molti casi,<br />
la “presa di parola” è concordata con gli attori sociali, i quali possono vedere nel rapporto con<br />
l’etnografo, nella scelta di affidare alla sua scrittura informazioni riservate, segrete o magari<br />
162 1992, p. 115. Questo tema è di fatto l’asse portante dell’intera opera dello studioso, che esplora il nesso violenzaragione-stato<br />
in una serie assai compatta di volumi degli anni ’80 e ’90 (Taussig 1983, 1987, 1992, 1993, 1997, 1999).<br />
163 A proposito dei resoconti di Handenburg e Casement sulle atrocità coloniali nel Putumayo, discussi nel saggio qui<br />
presentato, Taussig osserva come, per quanto critici nell’intenzione, essi “presuppongono e rafforzano quegli stessi<br />
rituali dell’immaginazione coloniale cui gli uomini soccombevano torturando gli indiani. Nel loro cuore immaginativo,<br />
queste critiche erano complici con ciò a cui si opponevano” (Taussig 1987, p. 133). Sulla stessa linea si collocano le<br />
osservazioni mosse da Taussig alla poetica conradiana di Cuore di tenebra.
strettamente intime, un importante ritorno comunicativo e pragmatico. I terroristi nord-irlandesi che<br />
concordano con l’etnografo le modalità di scrittura di un libro a loro dedicato (Sluka 1989, 1995a); i<br />
parenti dei desaparecidos argentini che confidano nel ricercatore, straniero e scientificamente<br />
obiettivo, perché si faccia portatore di una denuncia che in patria non riesce a farsi sentire (Robben<br />
1995); i rifugiati che vedono nell’intervista biografica una legittimazione della loro storia e un<br />
riconoscimento del loro status (Malkki 1995a), sono solo alcuni fra gli esempi di un rapporto non<br />
unilaterale, di un complesso negoziato tra gli “interessi” dell’etnografo e quelli dei suoi<br />
interlocutori.<br />
Il problema che si pone è di tipo diverso, e riguarda la messa in scena dello spettacolo del dolore e<br />
della sofferenza. Proprio per la sua pretesa di mantenersi vicina all’esperienza vissuta, di mostrare<br />
la violenza non nella genericità delle sue “ragioni politiche” ma negli effetti sui corpi e sulle<br />
soggettività degli attori sociali, l’etnografia lascia emergere in primo piano i dettagli delle atrocità e<br />
i tormenti della memoria di chi è sopravvissuto. Questo sguardo ravvicinato, sia sull’orrore della<br />
violenza fisica e della tortura, sia sull’umiliazione e la disperazione di persone colpite alle basi<br />
stesse della propria dignità e dei propri affetti, produce per il lettore un effetto irriducibilmente<br />
ambiguo. La descrizione puntigliosamente dettagliata delle sevizie subite dagli indios del<br />
Putumayo, nel saggio qui presentato di Taussig, ne è un esempio; non meno forti e disturbanti sono<br />
i resoconti delle scene di genocidio, degli stupri e delle torture eseguite pubblicamente, delle<br />
mutilazioni dei corpi che punteggiano le etnografie delle “nuove guerre” contemporanee. Da un<br />
lato, lo shock emotivo che tutto ciò provoca può diventare strumento di testimonianza e di<br />
denuncia: la scrittura consegue il suo scopo scuotendo e indignando il lettore, e combattendo così<br />
quell’indifferenza che troppo spesso ha accompagnato le violenze di massa nella modernità.<br />
Dall’altro lato, tuttavia, lo spettacolo ravvicinato della violenza può suscitare effetti pornografici e<br />
voyeuristici, e la scrittura etnografica degenerare in una messa in scena in cui corpi e anime afflitti<br />
sono arbitrariamente e talvolta oscenamente esposti nella loro più profonda intimità 164 . Ci si chiede<br />
allora se la trasparenza etnografica sia un atteggiamento moralmente legittimo di fronte alla<br />
sofferenza, e se l’indignazione militante non possa troppo facilmente trapassare in morbosità: tanto<br />
più all’interno di un contesto comunicativo e mass-mediale che ci ha fin troppo abituati allo<br />
sfruttamento delle immagini di violenza e alla penetrazione morbosa dell’intimità emotiva a fini di<br />
audience e di successo commerciale (Sontag 2003, p. 83 sgg.). Non è forse immorale usare quel<br />
dolore per sostenere la nostra impresa rappresentativa? Non sarebbe più corretto e rispettoso tacere,<br />
164 Un esempio tanto noto quanto drammatico di questa ambiguità è rappresentato da una foto di Kevin Carter,<br />
vincitrice nel 1993 del premio Pulitzer: una bambina sudanese denutrita, crollata a terra con un avvoltoio appostato a<br />
pochi passi di distanza. La foto, di grande impatto comunicativo, ha svolto un ruolo importante nel mobilitare<br />
l’opinione pubblica internazionale attorno ai problemi della carestia provocata in quegli anni nel Sudan meridionale<br />
dalla guerra civile. D’altra parte, la stessa realizzazione della foto sembra implicare profondi problemi etici. Lo stesso<br />
fotografo ha raccontato di aver atteso venti minuti che l’avvoltoio spiegasse le ali. Non ha forse strumentalizzato la<br />
situazione, anteponendo la ricerca di un’immagine di successo all’imperativo dell’aiuto? Inoltre, la diffusione mediale<br />
della foto non finisce per spettacolarizzarla, rendendo la stessa sofferenza della bambina una forma di intrattenimento?<br />
Il dilemma è reso più drammatico dal suicidio, nel 1994, dello stesso autore della foto – un suicidio che, come hanno<br />
commentato A. e J. Kleinman (1997, p. 7), sembra disintegrare la dicotomia morale tra soggetto e oggetto di quella foto,<br />
fondendo le rispettive sofferenze.
itrarre lo sguardo in nome di una pietà che non è forse del tutto compatibile con la ragione<br />
etnografica? Naturalmente, tacere non serve però a portare testimonianza, a rendere o almeno a<br />
chiedere pubblicamente giustizia per le vittime.<br />
Il confine tra i due aspetti dell’etnografia della violenza – testimonianza e spettacolo, denuncia e<br />
pornografia – non è mai ben definito. N. Scheper-Hughes e P. Bourgois (2004, p. 1) lo fanno<br />
dipendere dalla capacità di tener conto delle “dimensioni sociali e culturali” che conferiscono<br />
significato alla violenza, non limitandosi a rilevarne i soli “aspetti fisici”. Ma per lavori<br />
antropologici questa è poco più di una tautologia. Più che dalla natura del testo (o dalle intenzioni<br />
dell’autore), la risoluzione in un senso o nell’altro dell’ambiguità sembra dipendere da effetti di<br />
lettura e dalle diverse sensibilità dei lettori. E’ curioso che uno stesso autore, ad esempio il già<br />
citato Taussig, possa esser considerato da alcuni come ossessivamente volto a sottolineare “il<br />
perverso erotismo della violenza estrema” (Avruch 2001, p. 643); da altri (e a mio parere più<br />
sensatamente), come portatore, “con la sua capacità di raffigurare il terrore visceralmente”, di “una<br />
istanza morale contro il potere esercitato nelle sue forme più grottesche” (Green 1995, p. 107).<br />
Una possibile uscita dall’ambiguità può consistere in una etnografia centrata attorno alle voci<br />
dirette dei testimoni, in grado di aggirare (almeno in apparenza) i rischi di effetti estetizzanti e<br />
voyeuristici. In effetti, questa strategia è cospicuamente presente nella letteratura recente – a fronte<br />
di un uso assai limitato delle fonti orali nella tradizione etnografica anglosassone. L. Green (1995,<br />
p. 108) sintetizza questo atteggiamento nella formula dell’ “antropologo come uno scriba, che<br />
documenta fedelmente le storie narrate dalla gente, ciò che essi hanno visto, sentito, annusato,<br />
toccato, interpretato e pensato”. Qui sorgono tuttavia nuove difficoltà. Intanto, quando i testimoni<br />
sono i perpetratori della violenza piuttosto che le vittime, la posizione morale del ricercatore si fa<br />
ancora più complessa ed equivoca. Ciò accade in numerosi lavori sul terrorismo o su gruppi di<br />
guerriglia (dove gli interlocutori sono quasi sempre al tempo stesso esecutori e vittime) 165 , sulla<br />
violenza di stato, o su crimini comuni in contesti non bellici. La tensione fra le convinzioni e il<br />
senso di giustizia dell’etnografo, da un lato, e dall’altro la sua propensione professionale a<br />
empatizzare con gli informatori e a guardare il mondo dal loro punto di vista, si fa qui fortissima. Le<br />
riflessioni di A. Robben (1995) sulle interviste ai militari argentini responsabili della “guerra<br />
sporca”, su cui tornerò oltre, ne sono un esempio. Ancora più forte, per l’ampio uso di trascrizioni<br />
di intervista e per il dilemma morale consapevolmente sollevato dall’autore, è il lavoro di P.<br />
Bourgois (1995) sugli stupri di gruppo nei quartieri portoricani di New York. Lo spazio lasciato al<br />
racconto diretto ed esplicito dei violentatori lascia emergere per intero il loro inquietante universo<br />
morale, e produce un profondo effetto etnografico e pornografico al tempo stesso 166 .<br />
165 Si vedano ad esempio i lavori sui guerriglieri sick di J. Pettigrew (1995) e C.K. Mahmood (1996), quelli sui<br />
terroristi nord irlandesi di Feldman (1991, 2000) e Sluka (1995a, 1995b), sul contesto israelo-palestinese di<br />
Swedenburg 1995 e Bornstein 2001.<br />
166 Il lavoro di Bourgois (1995; v. anche Bourgois 1996) è incentrato su un gruppo di spacciatori di crack portoricani.<br />
L’autore fa un lungo periodo di osservazione partecipante: diventa loro amico, ci fa sentire le loro voci, ricostruisce una<br />
cultura subalterna la cui violenza esteriore è sottodeterminata dalla violenza emarginante e discriminante della cultura<br />
egemonica. Ma l’empatia e la solidarietà politica dell’etnografo vacillano quando i suoi amici iniziano a raccontargli<br />
degli stupri di gruppo che compiono abitualmente. Per quanto disgustato, continua a fare il suo lavoro, e ci offre le voci<br />
narranti degli stupratori, con il loro gusto da bravata, i loro risolini, le usuali patetiche giustificazioni (“è quello che lei
Il problema della voce dei testimoni ha però una dimensione più ampia, che riguarda anche le<br />
vittime stesse e che è stato messo a fuoco in primo luogo dagli storici. La storiografia<br />
contemporanea sulla Shoah, ad esempio, ha guardato con un certo disagio al ruolo crescente assunto<br />
nei media dalla narrazione autobiografica come strumento principale di rappresentazione degli<br />
eventi. Se la storia di vita e la memoria individuale sono fonti importanti per il sapere storico, esse<br />
non possono tuttavia sostituirlo e rendersi del tutto autonome, come sembra accadere in quella che<br />
A. Wieviorka ha chiamato “l’era del testimone”. Ora, contrapporre nettamente il discorso storico e<br />
la testimonianza biografica, il primo rivolto alla ragione e alla ricerca critica della verità, la seconda<br />
al “cuore” e alla costruzione del senso (Wieviorka 1998, pp. 153-54), è una semplificazione<br />
inaccettabile dal punto di vista antropologico. I dubbi sollevati da Wieviorka e da altri storici sono<br />
però tutt’altro che infondati. Non si tratta tanto di deplorare il carattere parziale e soggettivo della<br />
testimonianza e della memoria. Il perseguimento dell’ “imparzialità” sembra non avere molto senso<br />
in contesti di violenza estrema; e passare attraverso il piano degli effetti soggettivi della violenza e<br />
del terrore è indispensabile, come abbiamo visto, per un approccio che si voglia definire etnografico<br />
(ne è un ottimo esempio il saggio di V. Das incluso in questo volume).<br />
Ciò che occorre evitare è però l’assolutizzazione delle versioni testimoniali come rappresentazioni<br />
realistiche della verità. Il lavoro antropologico sulle storie di vita, così come gli studi psicologici<br />
sulla memoria individuale e collettiva, ci mostrano la complessità delle procedure di plasmazione<br />
culturale del ricordo autobiografico, di fusione tra esperienze personali e modelli culturali diffusi 167 .<br />
Ciò rende i racconti testimoniali documenti di inestimabile valore antropologico, senza che tuttavia<br />
il discorso etnografico stesso si possa esaurire in essi o nascondersi dietro la loro autorità. Il rischio<br />
del ventriloquismo etnografico denunciato in un famoso passo di C. Geertz (1988, p. 145) si fa qui<br />
particolarmente forte; così come peraltro si fa forte, se non insormontabile, la difficoltà di<br />
sottoporre a critica delle fonti e ad esercizi di distaccato scetticismo i racconti drammatici ed<br />
emotivamente esplosivi delle vittime di violenza estrema. Ancora una volta, l’impatto con il dolore<br />
e la sofferenza, oltre che con l’implicita o esplicita richiesta di solidarietà e partecipazione umana,<br />
sembra paralizzare l’atteggiamento “scientifico” e porre in questione le più consolidate forme di<br />
scrittura.<br />
Vorrei far notare la prossimità tra questi problemi e quelli posti dal dibattito storiografico ed<br />
epistemologico sulle modalità di rappresentazione della Shoah – un ambito con il quale<br />
l’antropologia ha finora dialogato troppo poco. Anche in questo caso, sono centrali i dilemmi etici<br />
voleva”), la loro “cosmologia”. Ci troviamo immersi in un universo di relazioni sociali, di rapporti uomo-donna, di<br />
principi morali particolarmente rivoltanti, e la distaccata testimonianza etnografica sconfina a tratti nella pornografia più<br />
oscena. Assai inquietante è anche il contributo dell’antropologa americana Cathy Winkler (1991, 1995), che descrive<br />
uno stupro da lei stessa subito cercando di utilizzare le tecniche di osservazione etnografica, dunque con una<br />
sconcertante attenzione per il dettaglio, e con il tentativo di capire e restituire il punto di vista dell’aggressore. Sono<br />
ricostruiti i gesti, i dialoghi, l’atteggiamento dello stupratore, il terrore della vittima. Per l’autrice, questo racconto è<br />
evidentemente una delle risposte possibili al trauma: oggettivare se stessi e le proprie emozioni, riconquistare la<br />
padronanza della situazione, e anche raccogliere elementi che possano servire ad ottenere giustizia. Per il lettore, è una<br />
costante e dolorosa oscillazione fra l’identificazione narrativa con la vittima e una sorta di effetto morbosamente<br />
pornografico, l’impressione di star assistendo a qualcosa che non si dovrebbe vedere, perlomeno non così da vicino.<br />
167 Per una più approfondita discussione del rapporto tra ricordo individuale e sociale, in relazione a una ricerca sulla<br />
memoria degli eccidi nazifascisti di civili nella Toscana del 1944, rimando a Dei 2005.
sollevati dalla rappresentazione della sofferenza e quelli relativi al rapporto tra scrittura ed eventi<br />
estremi. Quale forma espressiva consente di parlare legittimamente della Shoah – nel senso di<br />
restituire la natura terribile e peculiare dell’evento, e rispettare al contempo la memoria delle<br />
vittime? Come Adorno sosteneva che è barbaro fare poesia dopo Auschwitz, non potremmo<br />
considerare ugualmente inappropriata sul piano etico la scrittura saggistica e accademica, con il suo<br />
sfoggio di erudizione, le sue note a piè di pagina, il suo compiacimento intellettualistico (Kellner<br />
1994, p. 409)? L’oggettivazione e il distanziamento storiografico non contrastano forse con le<br />
istanze della memoria e del lutto? E, soprattutto, il medium ordinante e normalizzante della scrittura<br />
non tradisce di per sé l’essenza estrema della pratica genocida, che consiste proprio nello spezzare<br />
l’ordine e la normalità culturale? Come osserva J. Young (1988, p. 16), “una volta scritti, gli eventi<br />
assumono l’aspetto della coerenza che la narrativa necessariamente impone loro, e il trauma della<br />
loro non assimilabilità è superato” – laddove è proprio la traumatica straordinarietà ciò che la<br />
testimonianza intenderebbe restituire.<br />
Sulla base di queste premesse, il dibattito si concentra sul realismo come strategia di<br />
rappresentazione. Si sostiene da un lato la necessità di rappresentare la Shoah attraverso uno stile<br />
“fattuale”, che conceda il meno possibile alla costruzione letteraria e agli interventi esplicitamente<br />
autoriali 168 . Dall’altra, si obietta che quando la realtà stessa diventa così estrema e aberrante,<br />
straordinaria rispetto al contesto culturale comune, un semplice linguaggio fattuale non è più in<br />
grado di restituirne la qualità. Il primo argomento è molto forte: l’esperienza della Shoah<br />
segnerebbe il limite invalicabile oltre il quale non può spingersi la decostruzione postmoderna<br />
dell’oggettività e della verità storica. Come pensare di mettere in discussione la fondamentale realtà<br />
dell’evento, o meglio, come accettare la possibilità di una medesima “infondatezza” di più versioni<br />
narrative, ad esempio quella dei carnefici e quella delle vittime? La ripugnanza morale per gli esiti<br />
relativistici del decostruzionismo, potenzialmente di supporto alle tesi negazioniste, ha spinto molti<br />
autori in questa direzione 169 ; e l’argomento è spesso ripreso nella letteratura etnografica sulla<br />
violenza. Di fronte all’enormità delle stragi, delle torture e degli stupri, e alla profondità della<br />
sofferenza incontrata, sembra intollerabile l’idea di una pluralità di versioni possibili degli eventi e<br />
della dipendenza dell’idea stessa di verità da finzioni retoriche 170 .<br />
Tuttavia, come detto, la letteratura etnografica è ben lontana dal seguire modelli di scrittura<br />
cronachistica e fattuale. Al contrario, proprio lo sforzo di cogliere la verità ultima della violenza,<br />
l’autenticità di una esperienza straordinaria e non convenzionale, spinge i ricercatori verso forme di<br />
168 Si vedano ad esempio le posizioni del filosofo B. Lang (1990), che ammette solo la possibilità di una cronaca<br />
fattuale degli eventi della Shoah, condannandone ogni resa attraverso un linguaggio figurato e stilizzato, o attraverso<br />
forme narrative e di emplotment, colpevoli di introdurre un significato e un’intenzione autoriale estranee all’autentico<br />
contesto del genocidio e irrispettose dell’esperienza delle vittime. Sul piano etico, è come se un persistente lutto<br />
imponesse di tenere sotto stretto controllo l’impulso all’espressione artistica e creativa, a favore di uno stile impersonale<br />
in cui il linguaggio è per quanto possibile trasparente.<br />
169 Fondamentali sono i saggi raccolti in Friedlander (ed.) 1992, e in particolare la discussione fra H. White e C.<br />
Ginzburg (per la traduzione italiana dei loro due testi v. White 1999 e Ginzburg 1992)<br />
170 “Chi sostiene un’idea dell’etnografia come puro racconto pone l’autorità degli studiosi (sia pure involontariamente)<br />
al servizio dei sinistri tentativi di negare l’Olocausto, la «guerra sporca» latino-americana e altri recenti episodi di<br />
distruzione organizzata. Attraverso la lente postmoderna, essi divengono semplicemente «racconti» o «finzioni», il che<br />
è repellente in termini sia intellettuali che morali..:” (Suárez-Orozco, Robben 2000, p. 12 nota).
scrittura varie e complesse – di tono più modernista che realista, con ampio uso di riflessioni<br />
soggettive e di estratti di diari e note di campo, con lo stretto intreccio tra narrazioni di eventi e<br />
sollecitazioni teoriche e interpretative, la giustapposizione di contesti ottenuta attraverso i frequenti<br />
riferimenti letterari. Un’analisi in questo senso del corpus etnografico prodotto dagli anni ’90 ad<br />
oggi sarebbe estremamente interessante. Il piano etnografico non è tuttavia centrale nei saggi di<br />
questo volume, che mirano piuttosto a costruire una cornice teorica in cui inquadrare i fenomeni<br />
della violenza di massa contemporanea. Nel resto dell’introduzione, vorrei discutere appunto alcuni<br />
aspetti del dibattito teorico.<br />
3. Identità e violenza<br />
Un tratto peculiare delle “nuove guerre”, forse il tratto peculiare, è la loro connessione con politiche<br />
dell’identità, vale a dire con “movimenti che muovono dall’identità etnica, razziale o religiosa per<br />
rivendicare a sé il potere dello stato” (Kaldor 1999, p. 90). Nel linguaggio giornalistico e<br />
nell’opinione pubblica occidentale, si è infatti parlato prevalentemente di conflitti etnici o, nel caso<br />
dell’Africa, tribali, intendendo con questo che:<br />
a) i gruppi in conflitto sono definiti sulla base di un’appartenenza e di vincoli pre-politici, cioè<br />
della condivisione di certi tratti razziali e culturali (il “sangue”, la lingua, la religione, etc.)<br />
concepiti come patrimonio antichissimo e primordiale;<br />
b) le cause del conflitto, al di là di specifiche contingenze storiche, sono da individuarsi in odii<br />
ancestrali tra gruppi etnici, che covano costantemente sotto la cenere per emergere<br />
periodicamente in modo esplosivo.<br />
In molti casi, una simile concezione primordialista dell’appartenenza e del conflitto è<br />
esplicitamente sostenuta e usata come forza ideologica e strumento di consenso dalle parti in lotta:<br />
un caso paradigmatico è naturalmente quello della ex-Jugoslavia, dove i diversi nazionalismi hanno<br />
alimentato la guerra sostenendo che i croati non possono vivere insieme ai serbi, questi non possono<br />
vivere insieme ai musulmani e così via, rivangando presunti motivi di divisione che si perderebbero<br />
nella storia.<br />
Ora, laddove non assuma tinte decisamente razziste, una simile concezione dell’appartenenza<br />
sembra poggiare su categorie antropologiche quali cultura, tradizione, identità. Più di ogni altra<br />
scienza, l’antropologia si è battuta nel corso del Novecento per l’affermazione dell’idea di culture<br />
compatte, autonome e distintive, di pari dignità e tendenzialmente incommensurabili, come<br />
patrimonio dei diversi popoli. L’elaborazione di una nozione pluralista e relativista di “culture” è<br />
avvenuta nel quadro di un deciso impegno antietnocentrico, sul piano epistemologico come su<br />
quello etico-politico. Impegno volto al riconoscimento della dignità delle culture cosiddette<br />
“primitive”, nonché alla valorizzazione e salvaguardia della diversità culturale a fronte<br />
dell’omologazione prodotta dall’imperialismo e dalla occidentalizzazione. Il discorso sulle culture e<br />
sulle identità, plasmato all’interno dello specialismo disciplinare, ha incontrato resistenze ma è<br />
lentamente entrato a far parte del linguaggio comune. In questo passaggio i concetti si sono però
fortemente reificati: culture e identità sono state intese come essenze più o meno immutabili, quasi-<br />
naturali, non costruite nella storia e nei rapporti politici ma date prima e indipendentemente dalla<br />
politica e dagli eventi storici. Inoltre il loro segno è progressivamente cambiato: se ne sono<br />
appropriati ideologie xenofobe e fondamentaliste, aggressivi nazionalismi e regionalismi,<br />
movimenti volti più al mantenimento del privilegio che al riconoscimento delle differenze. Una<br />
volta naturalizzati, tali concetti sono stati posti a fondamento di politiche di pregiudizio e<br />
intolleranza – in una parola, di un atteggiamento neo-razzista, in un’epoca in cui il razzismo<br />
classico di impronta biologica, screditato dall’uso fattone dal nazismo, non sembrava più<br />
sostenibile.<br />
A questi usi pubblici dell’identità culturale ha fatto riscontro una radicale critica (o autocritica) da<br />
parte degli studi antropologici. Nel dibattito disciplinare degli ultimi decenni del Novecento ha<br />
giocato un ruolo centrale la revisione del concetto di cultura, secondo linee argomentative molto<br />
note che è qui appena il caso di rammentare. Da un lato, si è reagito alla essenzializzazione della<br />
identità culturale, insistendo sulla sua natura di costrutto teorico o di finzione retoricamente<br />
prodotta all’interno della scrittura etnografica: non una peculiarità dell’oggetto, dunque, ma una<br />
modalità dello sguardo antropologico. Dall’altro lato, si è cercato di mostrare che le rivendicazioni<br />
identitarie, laddove si diffondono in determinati contesti storico-sociali, lo fanno in relazione a<br />
precisi interessi o conflitti di potere, ai quali forniscono un supporto ideologico. Ne risulta che i<br />
discorsi dell’identità possono accompagnare i conflitti, ma non ne sono la causa: non rappresentano<br />
condizioni prepolitiche dei rapporti tra gruppi umani, e dai rapporti politici sono invece determinati.<br />
“Quando gli uomini entrano in conflitto non è perché hanno costumi o culture diverse, ma per<br />
conquistare il potere, e quando lo fanno seguendo schieramenti etnici è perché quello dell’etnicità<br />
diventa il mezzo più efficace per farlo” (Fabietti 1995, p. 151). Nelle sue forme più radicali,<br />
l’autocritica antropologica giunge a denunciare le basi stesse dell’impresa disciplinare, cioè il<br />
discorso sulle differenze culturali, in quanto correlato ideologico delle strategie di potere nei<br />
confronti dell’Altro: dal momento che non esistono differenze culturali date, il discorso che<br />
pretende di descriverle contribuisce in realtà alla loro costruzione e perpetuazione. La differenza<br />
sarebbe dunque l’altra faccia della disuguaglianza e del dominio: e un’antropologia critica dovrebbe<br />
porsi come obiettivo non quello di scrivere sulle culture e sulle differenze ma di scrivere contro di<br />
esse (Abu-Lughod 1991).<br />
L’argomento che si delinea è abbastanza chiaro. Le politiche dell’identità sono uno strumento<br />
della violenza; l’antropologia ha contribuito in modo determinante a forgiare un discorso su identità<br />
e differenze culturali; di conseguenza, l’antropologia è oggettivamente complice della violenza. Per<br />
meglio dire, è una di quelle “discipline della violenza” che accompagnano – secondo l’analisi di<br />
Foucault – l’esercizio del potere nel regime della modernità. Nella letteratura recente sulla violenza,<br />
diversi contributi sono stati dedicati a queste forme di complicità. Ne è un esempio l’intensa<br />
discussione di N. Scheper-Hughes, nel saggio qui presentato, del ruolo ambiguo dell’antropologia<br />
nello sterminio degli indiani californiani – chiaramente visibile nel singolare rapporto tra Alfred<br />
Kroeber e Ishi, l’ultimo sopravvissuto di un silenzioso ma implacabile etnocidio. Di particolare
interesse sono inoltre i lavori sul supporto delle scienze umane ai programmi razzisti e genocidi del<br />
nazismo e di altri regimi totalitari (Dow-Lixfeld 1994, Conte-Essner 1995, Linke 1997, 1999,<br />
Arnold 2002, Shaff 2002); nonché le ricostruzioni degli atteggiamenti intellettuali e delle prese di<br />
posizione istituzionale dell’antropologia accademica di fronte alla scomparsa progressiva dei popoli<br />
indigeni, causata in modo talvolta involontario, ma più spesso volontariamente e consapevolmente,<br />
dall’imperialismo occidentale (Bodley 1990, 1992, Maybury-Lewis 2002). Nel leggere questi<br />
lavori, siamo in effetti colpiti dalla facilità con cui consistenti settori ed esponenti di spicco della<br />
disciplina abbiano aderito a ideologie di regime, e abbiano assunto posizioni di più o meno aperta<br />
giustificazione delle pratiche genocide. Ciò vale non solo per il nazismo e per i contesti totalitari,<br />
ma anche per le grandi tradizioni antropologiche dei paesi liberali. Di fronte all’evidenza dei<br />
genocidi indigeni, queste ultime li hanno per lo più accettati come una condizione inevitabile dell’<br />
“incontro” fra civiltà e culture diverse, contribuendo, come scrive John Bodley (1992, p. 47), a<br />
“mascherare la dimensione politica della violenza contro i gruppi tribali”. Questo autore sintetizza<br />
così le posizioni delle diverse scuole antropologiche in proposito:<br />
Gli antropologi sono stati ovviamente consapevoli del destino dei gruppi tribali. Per<br />
un secolo, essi sono stati a guardare mentre un gruppo dopo l’altro veniva sterminato<br />
dalle politiche governative, senza fare tuttavia alcun tentativo per fermare la violenza,<br />
dal momento che la prevalente teoria evoluzionistica considerava naturale e inevitabile<br />
la scomparsa dei gruppi tribali. Con il declino dell’evoluzionismo, gli antropologi hanno<br />
scoperto che la teoria funzionalista facilitava “l’intervento scientifico” nel processo di<br />
conquista, aiutando a ridurre, ma non a eliminare, la violenza della conquista politica.<br />
Gli antropologi dello sviluppo in contesto postcoloniale hanno teso ad accettare la<br />
conquista delle aree tribali interne in stati indipendenti come un inevitabile progresso<br />
del processo di costruzione nazionale (Ibid.).<br />
Ma non si tratta solo del mancato o troppo tiepido impegno politico dei singoli antropologi o delle<br />
loro associazioni. Come detto, è la stessa epistemologia della disciplina, il suo apparato concettuale,<br />
il suo modo di rappresentare, classificare, oggettivare e astrarre (Comaroff, Comaroff 2003) gli<br />
“altri” che al tempo stesso presuppone e sostiene la politica del dominio violento. In ambito<br />
evoluzionista, ciò è passato soprattutto attraverso l’idea di progresso e la primitivizzazione<br />
dell’altro; nella fase relativista, attraverso la reificazione delle culture e il sogno di una loro<br />
descrizione e classificazione universale – un censimento o anagrafe antropologica globale, in grado<br />
di incasellare ogni differenza e di renderla disponibile al controllo di un’unica intelligenza, la<br />
nostra. Come nell’analisi dell’orientalismo di Said (1978), il discorso antropologico incorpora ed è<br />
reso possibile da quegli stessi presupposti che, sul piano dell’azione politica, producono<br />
l’oppressione e la violenza. Non è questione dunque di buona volontà dei singoli studiosi: la<br />
disciplina non è riformabile, secondo tale concezione, e può esser solo completamente rifondata a<br />
partire da una prospettiva antiegemonica.<br />
L’ambito dei post-colonial studies lega strettamente l’interesse per la violenza con questo<br />
approccio radicalmente critico all’intera tradizione antropologica. Portare in primo piano la<br />
violenza, soprattutto quella che percorre l’asse egemonia-subalternità (nel senso sia di violenza di
classe che di relazioni internazionali neo-imperialiste), farebbe esplodere le contraddizioni interne<br />
all’antropologia classica, colpendo quello che è forse il suo principale nucleo epistemico – la<br />
necessità di nascondere dietro una maschera culturalista la natura politica, oppressiva e in ultima<br />
analisi genocida dell’ “incontro” con gli altri. A mio parere questo tipo di critica, per quanto<br />
ineludibile, va accolto con molte cautele. In primo luogo, non trovo giustificata la sua pretesa di<br />
rovesciare la tradizione ermeneutica o interpretativa dell’antropologia in nome di un<br />
neomaterialismo tutto volto a identificare le cause “reali” dei fenomeni storici al di sotto delle<br />
“apparenze” sovrastrutturali (la cultura, il significato). In secondo luogo, mi pare che occorra<br />
distinguere l’analisi dei presupposti retorico-politici del discorso antropologico da un giudizio<br />
storico ed etico sulla disciplina – una confusione, questa, che ha caratterizzato anche alcune letture<br />
di Said. Le denunce di complicità rivolte all’antropologia accademica non sembrano tener conto dei<br />
contesti storici in cui essa si sviluppa. Occorre chiedersi quale ruolo abbia svolto il discorso<br />
antropologico, nelle varie fasi del suo sviluppo, in relazione al senso comune e alle posizioni<br />
prevalenti dell’opinione pubblica o di altre scienze. Storicizzando, possiamo forse formulare un<br />
giudizio più prudente e articolato, senza fare di ogni erba un fascio. Possiamo constatare, ad<br />
esempio, come l’antropologia si sia in prevalenza caratterizzata per la promozione di una sensibilità<br />
antietnocentrica a fronte di istituzioni politiche e di un’opinione pubblica apertamente razzista;<br />
come abbia sostenuto le ragioni della comprensione e del dialogo contro quelle del puro dominio<br />
economico e militare 171 .<br />
Lasciando per il momento sullo sfondo questa discussione, quel che è certo è che molti<br />
antropologi contemporanei hanno reagito alle interpretazioni di senso comune delle nuove guerre<br />
contestandone la natura e l’origine specificamente etnica, e denunciando la strumentalizzazione che<br />
del discorso etnico e identitario fanno alcune parti in conflitto. I saggi di J. Bowen e di R. Hayden<br />
qui presentati sono esempi chiari e molto netti di questa reazione antropologica all’interpretazione<br />
etnicista sostenuta dalla maggior parte dei media. Entrambi sostengono che i conflitti cosiddetti<br />
etnici sono il prodotto di scelte politiche compiute dall’alto e non del naturale scontro fra identità<br />
precostituite. Bowen sviluppa un argomento generale, in riferimento a una pluralità di casi ma con<br />
l’attenzione particolarmente rivolta a Ruanda e Balcani; Hayden si concentra sulla ex-Jugoslavia,<br />
sottolineando il ruolo cruciale dei nazionalismi e della loro convinzione (non solo serba e croata)<br />
che un’aggregazione statale sia possibile solo su base etnica. Il rapporto tra eventi politici, violenza<br />
e quella che potremmo chiamare realtà antropologica dei territori interessati è qui capovolta<br />
rispetto all’interpretazione comune. Non abbiamo a che fare con strutture antropologiche<br />
(separazioni etniche, divisioni identitarie) che rendono impossibile la convivenza e l’accordo<br />
politico e che, venuto meno l’oppressivo dominio comunista (Balcani) o coloniale (Africa),<br />
esplodono producendo disgregazione politica e conflitti violenti. Al contrario, la violenza è l’unico<br />
modo in cui i nazionalismi possono imporre il proprio modello ideale di uniformità etnica su una<br />
realtà sociale e su strutture antropologiche che sono ormai divenute multietniche. Vittime reali per<br />
171 Per un approfondimento di questa argomentazione rimando a Dei 2004a.
comunità immaginate, appunto, come si esprime Hayden parafrasando la celebre formula di<br />
Benedict Anderson.<br />
Se l’argomentazione dei due saggi è nel complesso convincente, ci sono però alcuni aspetti che<br />
meriterebbero di essere approfonditi. D’accordo, le appartenenze etniche non sono mai<br />
precostituite, e producono conflitti solo dove vengano spinte in questo senso dall’ “alto”, vale a dire<br />
dai leader politici e da campagne propagandistiche che fanno leva su sentimenti di paura e odio.<br />
Ma queste analisi lasciano in secondo piano il problema antropologico forse più importante, vale a<br />
dire una valutazione del reale grado e dei motivi della diffusione del sentimento di appartenenza<br />
etnica. Hayden, come detto, imposta la sua argomentazione attorno al contrasto tra i modelli di<br />
purezza etnica “immaginati” e promossi dai nazionalismi e la “cultura vivente” dei territori<br />
jugoslavi – vale a dire le strutture antropologiche realmente diffuse. Queste ultime sarebbero state<br />
dominate, fino al crollo del comunismo, dalla eterogeneità, dal mescolamento, da pratiche<br />
quotidiane che rendevano sempre più irrilevante la questione dell’appartenenza etnica. Proprio il<br />
solido radicamento di una “realtà della vita” così difforme dai modelli essenzialisti avrebbe reso<br />
necessario il ricorso alla violenza estrema della pulizia etnica. Ora, questa tesi di un<br />
multiculturalismo realizzato nella “cultura viva” della Jugoslavia sarebbe tutta da dimostrare sul<br />
piano empirico ed etnografico: non possono bastare i riferimenti statistici di Hayden al crescente<br />
numero di matrimoni misti e di cittadini che nei censimenti si dichiaravano “jugoslavi” piuttosto<br />
che appartenenti a un’etnia particolare 172 . Ma, se anche così fosse, come potrebbe spiegarsi il<br />
grande consenso, anche elettorale, suscitato dai movimenti e dalle idee nazionaliste? E soprattutto,<br />
come potrebbe spiegarsi l’apparente facilità con cui si è trascorsi dalla tranquilla convivenza<br />
all’odio e a una inaudita pratica di violenza? Il controllo dei mezzi di comunicazione di massa,<br />
l’adesione di buona parte del mondo intellettuale, le campagne propagandistiche, gli effetti<br />
devastanti della crisi economica sono fattori chiave, certo, per il successo del nazionalismo più<br />
sciovinista e per lo scatenamento dei conflitti: ma possono bastare, da soli, a dar conto della<br />
formazione di un così vasto appoggio e di una così immediata adesione ai progetti di pulizia etnica?<br />
E’ difficile pensare che tutto sia potuto avvenire così rapidamente senza solide basi nella “cultura<br />
vivente” di quei territori 173 .<br />
172 Oltretutto, i dati che Hayden riporta potrebbero esser letti in opposizione alla sua tesi. Se è vero che nel dopoguerra<br />
questi indici di integrazione sono in progresso, si tratta tuttavia di un progresso molto lento. Le percentuali restano<br />
basse, mostrando la persistenza nella gran parte della popolazione di un forte senso di appartenenza etnico-nazionale<br />
(cfr. in proposito Botev-Wagner 1993, secondo i quali “l’omogamia etnica è stata e rimane la norma in quella che era la<br />
Jugoslavia”, paese in cui “l’integrazione etnica non si è mai realizzata”; v. anche Simic 1994). Anzi, il senso di<br />
appartenenza etnico-nazionale è stato probabilmente rafforzato, come nota Bowen, dalla politica di integrazione<br />
titoista, basata sulla circolazione dei dirigenti politici e statali, che portava ad associare il potere con la diversità etnica,<br />
l’oppressione politica con una sorta di occupazione straniera. Per un’ampia rassegna di posizioni in proposito v.<br />
Kideckel-Halpern 1993.<br />
173 Che l’ideologia nazionalista, concepita come ancestrale o come artificiosamente imposta dai leader, sia la “causa”<br />
della guerra è una tesi fortemente avversata anche dagli studiosi croati dell’Istituto di Etnologia e Folklore di Zagabria,<br />
autori di numerosi contributi di etnografia della guerra (v. Čale Feldman, Prica, Senjković 1993; Jambrešić Kirin,<br />
Povrzanović 1996; Povrzanović 2000). Un contributo nettamente schierato contro la tesi di un’origine “dall’alto” della<br />
pulizia etnica è quello di M. Bax (2000). Per altri contributi antropologici sulla guerra jugoslava, si vedano Denich<br />
1994, Bringa 2002, Nahoum-Grappe 1997, Marta 1999, Maček 2001, Cushman 2004.
Qualcosa di simile si può affermare per il Ruanda. Si può ripetere all’infinito, e con ogni ragione,<br />
che hutu e tutsi non esistono come etnie, e che la loro contrapposizione è frutto delle politiche<br />
coloniali; e si può mostrare quanto il loro reciproco odio, tutt’altro che atavico, derivi da una serie<br />
di atti politici recenti e sia frutto, più che causa, della violenza (Vidal 1997, Fusaschi 2000, p. 124<br />
sgg.). Nondimeno, gli uomini comuni che nell’aprile 1994 impugnarono il machete vivevano in un<br />
mondo fondato sull’opposizione hutu-tutsi, o persone-scarafaggi, opposizione che sembrava godere<br />
dello statuto di un presupposto ontologico, mai messo in dubbio neppure per un istante. La<br />
propaganda radiofonica e le strutture di partito hanno reso organizzativamente possibile il<br />
genocidio, ma hanno trovato terreno fertile, e volenterosi carnefici senza nessuna incertezza su chi<br />
fosse il nemico da fare a pezzi. Hanno cioè trovato una “realtà vivente”, una struttura antropologica<br />
di base nella quale il genocidio era fin dall’inizio una possibilità concreta. L’antropologia non può<br />
trascurare il problema delle modalità della costituzione di un sentimento di appartenenza e di<br />
contrapposizione etnica così forte. E’ scontato che si tratti di un sentimento e di una<br />
contrapposizione storicamente creati e non “naturali”: ma una volta ribadito questo punto, tutto il<br />
lavoro di interpretazione della visione del mondo locale, dei significati attribuiti all’identità hutu e a<br />
quella tutsi, resta ancora da fare.<br />
Trasportati dalla corretta critica alle visioni essenzialiste dell’identità etnica, Bowen e Hayden<br />
eccedono nel ricondurre ogni aspetto delle politiche identitarie a pura ideologia inculcata dall’alto.<br />
La capacità dei leader di “convincere” e “persuadere” la gente a odiare e uccidere sembra la<br />
condizione necessaria e sufficiente del genocidio; e un simile argomento porta a trascurare la<br />
profondità del radicamento storico di appartenenze e divisioni, il grado di consolidamento della<br />
memoria o del sentimento etnico. Quest’ultimo ha una propria autonomia come ambito di<br />
motivazione di comportamenti individuali e collettivi, come elemento costitutivo delle soggettività<br />
che sono protagoniste dei genocidi 174 . Per quanto inestricabilmente intrecciato alla politica, non è<br />
neppure integralmente riducibile ad essa. Questa irriducibilità è fondamentale per la prospettiva<br />
antropologica, poiché è la stessa che si dà fra modelli culturali e astratta razionalità. Se pensassimo<br />
di poter dissolvere senza residui l’opaco spessore della cultura nella trasparenza della ragione<br />
utilitarista o economica, l’antropologia perderebbe in effetti la propria ragion d’essere. Se la nostra<br />
disciplina serve a qualcosa di fronte alla complessità del mondo contemporaneo (e della sua<br />
violenza), il suo contributo consiste nell’integrare l’universalismo della teoria politica pura con una<br />
sensibilità per le peculiarità locali – aprendo la teoria politica, come si esprime C. Geertz (1999), al<br />
lessico eterogeneo e impreciso delle differenze culturali.<br />
174 Nella recente etnografia sulla violenza, questo punto è stato espresso nel modo forse più incisivo da E. Valentine<br />
Daniel in un’ampia monografia dedicata alla memoria degli scontri etnici in Sri Lanka. Daniel lavora sulle costruzioni<br />
identitarie e sulle relative rappresentazioni del passato (o forme di memoria etnica) di tre diversi gruppi, e insiste sul<br />
fatto che la critica anti-essenzialista non deve spingere l’antropologia a ignorare la realtà storica di queste costruzioni:<br />
“nell’eccitazione di scoprire che non ci sono altro che costruzioni, si è appiattita la cultura a una sola dimensione e si è<br />
perso di vista quanto le differenti costruzioni culturali possano differire in quanto a resistenza e a grado di latenza (o<br />
profondità, come qualcuno preferirebbe chiamarla)” (Daniel 1996, p. 14). Considerazioni non dissimili a proposito<br />
delle identità religiose in India sono svolte da S. Kakar (1996), pur nel quadro di un’etnografia profondamente diversa,<br />
informata da una sensibilità psicoanalitica più che strettamente antropologica. Sulle radici etniche del “fratricidio” nello<br />
Sri Lanka si veda anche l’importante lavoro di S.J. Tambiah (1991).
4. Violenza, stato e il continuum genocida<br />
Dunque, la relazione causale che molti antropologi istituiscono fra pratiche amministrative dello<br />
Stato-nazione, politiche identitarie e violenza appare troppo schematica e determinista. Si teorizza<br />
talvolta una “violenza intransitiva, che può operare concettualmente prima di manifestarsi<br />
nell’azione” (Bowman 2001, p.27), presente in ogni istituzione promotrice di confini e identità: “la<br />
violenza non è una performance nel corso della quale una entità compatta (una persona, una<br />
comunità, uno Stato) viola l’integrità di un’altra; piuttosto, essa consiste nel processo stesso che<br />
genera tali identità compatte per mezzo della inscrizione di confini” (Ibid., p. 28). Una<br />
enunciazione come questa, a parte l’enigmatica inclusione del concetto di persona, sembra<br />
considerare la costruzione di comunità e identità sociali come una artificiosa e interessata forzatura<br />
rispetto a uno “stato naturale” di assenza di confini e, per così dire, di afflato universale<br />
dell’umanità dal quale la violenza sarebbe assente. Un assunto, questo, spesso implicitamente<br />
presente nelle posizioni di una critical anthropology tutta volta a indicare l’origine della<br />
disuguaglianza e della violenza nello Stato, in particolare nel moderno Stato-nazione e nelle sue<br />
politiche identitarie 175 . Ora, è evidente che sul piano storico non si può stabilire un nesso esclusivo<br />
e causale tra stato-nazione, politica della differenza-identità e violenza: proprio l’antropologia ci<br />
mostra la presenza di questi ultimi due elementi al di fuori della forma statuale. D’altra parte, in<br />
relazione al contesto contemporaneo, attribuire le cause della violenza e della discriminazione a un<br />
fattore così generale come lo stato non ha molto senso, e non ci pone in grado di distinguere società<br />
più o meno violente (al loro interno e nei confronti di altre); né ci consente di valutare, nelle forme<br />
“moderne” di gestione del potere, il rapporto e la tensione tra gli aspetti repressivi, da un lato, e<br />
dall’altro il riconoscimento dei diritti e della dignità degli individui (ancora una volta, e in varia<br />
misura, interni ed esterni). Pensare al nazismo, al nazionalismo balcanico o alla carneficina<br />
ruandese come al disvelamento della vera natura delle istituzioni della modernità o del liberalismo<br />
può essere un’utile provocazione, ma è di certo una prospettiva parziale, mossa da esigenze più<br />
ideologiche che analitiche.<br />
Lo stesso vale per la nota affermazione di J.L.Amselle (1990, p. 35) sul genocidio come<br />
“paradigma identitario più efficace della nostra epoca”. Una definizione che equipara senz’altro la<br />
violenza assoluta con le tensioni identitarie, identificando in queste ultime il “male” del secolo – e<br />
trascurando così altri fattori, come il totalitarismo (dal nazismo al nazionalismo hutu, le politiche<br />
dell’identità divengono genocide quando si combinano con regimi totalitari). Del resto, secondo una<br />
diffusa tesi storiografica (Sternhell 2001), le radici culturali del fascismo e del nazismo stessi<br />
starebbero nell’antiuniversalismo romantico, nelle filosofie, come quella herderiana, che vedono<br />
175 Si veda ad esempio l’autorevole e citatissmo saggio di Verena Stolcke, Talking culture, che si chiude con un vero e<br />
proprio anatema contro lo Stato. Ogni discorso sulla diversità culturale, ella afferma, implica disuguaglianza e<br />
discriminazione, ed è dunque da condannare – eccetto che in una società genuinamente democratica ed egalitaria,<br />
afferma l’autrice, chiedendosi retoricamente “se questo sia possibile nei confini del moderno stato-nazione, o, se è per<br />
questo, di ogni forma di stato” (Stolcke 1995, p.13). Sfortunatamente, Stolcke non ci dice nulla di più sulla utopia nonstatuale<br />
e cosmopolita al cui servizio l’antropologia dovrebbe a suo parere porsi.
come protagonista della storia la comunità umana localmente situata più che l’astratta e disincarnata<br />
ragione universale dell’illuminismo. Il che renderebbe equivoca e sospetta, e potenzialmente<br />
genocida, quella sensibilità per la differenza che caratterizza l’intera tradizione del pensiero<br />
antropologico, nella quale Amselle in effetti non sa vedere altro che gli aspetti classificatori ed<br />
essenzialisti e che riduce a puro strumento del potere coloniale – e addirittura, esagerandone<br />
l’importanza, a “uno dei fondamenti della dominazione europea sul resto del pianeta” (Ibid., pp. 41-<br />
42): “l’intento etnologico deve essere visto essenzialmente come il modo di realizzare praticamente<br />
il potere dei dominatori, modo che sfocia a sua volta nella etnologia come disciplina” (p. 44).<br />
Eccoci dunque di nuovo al tema della complicità. Oltre che assai semplicistica sul piano della storia<br />
delle idee, questa tesi stabilisce una serie di equazioni discutibili: l’antiuniversalismo antropologico<br />
fa tutt’uno con le politiche identitarie dello stato-nazione; e queste ultime sono assunte a cause<br />
principali della violenza genocida. Siamo così portati a trascurare il problema veramente<br />
importante: e cioè, perché all’interno di un mondo fortemente interconnesso, percorso, certo, da<br />
sentimenti identitari plasmati dalle politiche degli stati-nazione, si determinino talvolta le<br />
condizioni di pratiche genocide.<br />
Tuttavia, per quanto la critical anthropology indulga sovente in semplificazioni e scorciatoie<br />
teoriche difficilmente accettabili, il problema del nesso tra la violenza di massa contemporanea e le<br />
discipline di controllo dello stato moderno è importante e profondo. In questo volume, esso è colto<br />
nel modo più pieno da Nancy Scheper-Hughes attraverso la nozione di “continuum genocida”,<br />
riferita a quelle violenze quotidiane, nascoste e spesso autorizzate che si praticano “negli spazi<br />
sociali normativi: nelle scuole pubbliche, nelle cliniche, nei pronto soccorso, nelle corsie<br />
d’ospedale, nelle case di cura, nei tribunali, nelle prigioni, nei riformatori e negli obitori pubblici.<br />
Questo continuum rinvia alla capacità umana di ridurre gli altri allo status di non-persone, di mostri<br />
o di cose”, per mezzo di varie “forme di esclusione sociale, disumanizzazione, spersonalizzazione,<br />
pseudo-speciazione e reificazione che normalizzano il comportamento brutale e la violenza verso<br />
gli altri”.<br />
L’antropologa statunitense è tornata spesso su questo tema negli ultimi anni – fra l’altro, curando<br />
insieme a Philippe Bourgois un’antologia dal significativo titolo Violence in War and Peace<br />
(Scheper-Hughes, Bourgois 2004), che raccoglie e affianca in modo provocatorio resoconti e<br />
interpretazioni dei grandi genocidi e delle piccole violenze incastonate nella normalità quotidiana.<br />
La sua carriera di ricercatrice l’ha portata a confrontarsi sistematicamente con quest’ultimo tipo di<br />
situazioni: dal suo primo lavoro su un villaggio irlandese, caratterizzato da una socialità patogena<br />
che rendeva la vita impossibile a certe categorie di persone sfociando in un alto tasso di disturbi<br />
psichici (Scheper-Hughes 2000b [1980]), ai più recenti studi sulla mortalità infantile nelle<br />
baraccopoli brasiliane (1992) e sul commercio internazionale di organi (Scheper-Hughes 2000a,<br />
2001, 2004; Scheper-Hughes, Wacquant 2002). Ciò che caratterizza queste e analoghe forme di<br />
violenza strutturale è il legame con istituzioni e forme di potere volte a preservare privilegi, da un<br />
lato, e dall’altro la tendenza a esercitarsi secondo le linee di una classificazione gerarchica di<br />
individui e gruppi, colpendo quelli che sono considerati in qualche modo come non pienamente
umani (la strategia della “pseudospeciazione”, secondo l’espressione di E. Erikson 176 ; Scheper-<br />
Hughes, Bourgois 2004, p.21). Sono tali caratteristiche che accomunano, per qualità, questa<br />
violenza a quella che si manifesta nei grandi genocidi del ventesimo secolo 177 .<br />
Le categorie interpretative che la studiosa utilizza insistono appunto in questa direzione: è il caso<br />
della nozione di “crimini di pace”, che Franco Basaglia aveva introdotto nel 1975 in riferimento alle<br />
pratiche repressive delle istituzioni totali, ma anche a tutte quelle forme di disciplinamento dei corpi<br />
e delle menti che cancellano la dignità di individui stigmatizzati trattandoli come non-persone<br />
(Basaglia, Ongaro Basaglia 1975). Gli stessi meccanismi di distruzione dell’identità personale<br />
descritti da Primo Levi in relazione ai lager nazisti sembrano manifestarsi nel pieno della normalità<br />
quotidiana, producendo una violenza strisciante e invisibile – non solo perché praticata all’interno<br />
di istituzioni chiuse, ma perché legata a uno sfondo di consuetudine che rende difficile percepirla<br />
come tale. Beninteso, Scheper-Hughes non trascura le differenze tra i grandi genocidi e quelli<br />
“piccoli e invisibili”, come li definisce: e anzi, enuncia una serie di condizioni storicamente<br />
collegate ai primi, che consentono cioè al “potenziale genocida” di trasformarsi in atto.<br />
I genocidi sono spesso preceduti da sconvolgimenti sociali, da un declino radicale delle<br />
condizioni economiche, da disorganizzazione politica, da cambiamenti culturali<br />
improvvisi che mettono in crisi i valori tradizionali e diffondono anomia e assenza di<br />
norme. Anche i conflitti tra gruppi che competono per il controllo di risorse materiali<br />
come terra o acqua, talvolta, possono trasformarsi in eccidi di massa – se combinati con<br />
sentimenti sociali che negano la basilare umanità degli avversari (Scheper-Hughes,<br />
Bourgois 2004, p. 14)<br />
Si può notare che tali condizioni sembrano contraddire la teoria del continuum, dal momento che<br />
legano gli eventi genocidi alla rottura della normalità istituzionale e politica, alla disgregazione<br />
dell’apparato statale. Ma allora, è il potere statale o la sua assenza a produrre il genocidio? Una<br />
domanda che ci riporta alle note tesi di Annah Arendt sulla contrapposizione tra potere e violenza:<br />
lontano dal rappresentare la diretta espressione del potere, la violenza “compare dove il potere è<br />
scosso” (Arendt 1969, p. 61). Il potere, scrive la filosofa, fa parte dell’essenza di tutti i governi:<br />
non così la violenza, la quale da sola non può mai fondare un potere (ibid., pp. 54-7). Le sue<br />
osservazioni critiche sono assai pertinenti rispetto all’impianto teorico dell’odierna critical<br />
anthropology: “equiparare il potere politico all’ «organizzazione della violenza» ha senso soltanto<br />
se si segue la valutazione data da Marx dello Stato come strumento di oppressione nelle mani della<br />
classe dominante”, cosicché “l’insieme della politica e delle sue leggi e istituzioni [sarebbero] pure<br />
176 Sul nesso tra pseudo-speciazione e conflitti etici v. Tambiah 1989<br />
177 Per l’altro curatore del volume, P. Bourgois, il continuum della violenza si manifesta anche in modo più netto nella<br />
difficoltà di tracciare netti confini tra la guerra e la quotidianità. Soprattutto nel suo lavoro su El Salvador, egli insiste<br />
sulle modalità con cui la violenza della guerra civile trapassa in un dopoguerra che è solo apparentemente di pace, e in<br />
cui le politiche neoliberiste impongono ai contadini poveri sofferenze non minori di quelle del passato. La violenza<br />
bellica e quella strutturale, in definitiva, apparirebbero come due facce di un ordine mondiale di ingiustizia che, dopo la<br />
fine della guerra fredda, apparirebbe nella sua più profonda natura oppressiva (Bourgois 2001; v. Farmer 200 per una<br />
analoga prospettiva a proposito di Haiti).
e semplici sovrastrutture coercitive, manifestazioni secondarie di altre forze sottostanti” (ibid. pp.<br />
37-8).<br />
Tornando a Scheper-Hughes, tutto ciò non inficia tuttavia l’idea di continuità fra crimini di pace e<br />
di guerra. La continuità riguarda infatti la qualità specifica della violenza genocida e le motivazioni<br />
soggettive degli esecutori. A proposito di queste ultime, l’antropologa insiste sul fatto che non<br />
esiste alcun impulso specifico per la violenza di massa, la quale è semplicemente incardinata “nel<br />
senso comune della vita sociale quotidiana”, e preparata dalle più diffuse istituzioni e sentimenti<br />
sociali (Scheper-Hughes, Bourgois 2204, p. 22). Un punto che sembra del resto corroborato dagli<br />
studi sugli “uomini comuni” protagonisti della Shoah (Browning 1992), e dalle ricerche di<br />
psicologia sociale che mostrano come le aspettative di ruolo o una situazione di eteronomia o<br />
obbedienza all’autorità siano presupposti sufficienti a fondare comportamenti violenti e<br />
prevaricanti 178 . Ciò che manca invece nell’analisi di Scheper-Hughes è la dimensione storica.<br />
Intendo dire che la tesi della continuità potrebbe essere riformulata nei termini di una genealogia<br />
della violenza genocida che ha caratterizzato il ventesimo secolo. E’ questo il tema di un recente<br />
studio di Enzo Traverso (2002) che analizza le origini della violenza nazista, riconducendole a una<br />
serie di fenomeni centrali in quella che potremmo chiamare la costituzione antropologica della<br />
modernità. Si tratta in gran parte di radici ottocentesche, che ancorano il nazismo (ma anche ampia<br />
parte della violenza genocida del ventesimo secolo) alla “storia dell’Occidente, all’Europa del<br />
capitalismo industriale, del colonialismo, dell’imperialismo, della rivoluzione scientifica e<br />
tecnologica, l’Europa del darwinismo sociale e dell’eugenismo, l’Europa del «lungo» XX secolo<br />
concluso nei campi di battaglia della prima guerra mondiale” (Traverso 2002, p. 22).<br />
Il nesso tra tutti questi diversi elementi e la fenomenologia della violenza che caratterizza<br />
Auschwitz (con le peculiari trasformazioni antropologiche del lager e la pianificata esecuzione dello<br />
sterminio su scala industriale) ha a che fare con i rapporti tra potere, corpo e tecnologia. Traverso<br />
prende avvio dall’introduzione della ghigliottina, che apre un’epoca di “morte seriale” in cui la<br />
mediazione dell’apparato tecnico attenua la responsabilità morale dell’uccisore; prosegue<br />
analizzando lo sviluppo ottocentesco di istituzioni “chiuse” come le caserme, le prigioni, le<br />
workhouses o istituti di lavoro forzato e le stesse fabbriche – “tutti luoghi dominati dallo stesso<br />
principio di chiusura, di disciplina del tempo e del corpo, di divisione razionale e di<br />
meccanizzazione del lavoro, di gerarchia sociale e di sottomissione dei corpi alle macchine” (p .37).<br />
Importanza cruciale Traverso attribuisce (seguendo in ciò le tesi della stessa Hannah Arendt)<br />
all’esperienza della conquista e della dominazione coloniale, in particolare di quella conquista<br />
dell’Africa che ha accompagnato lo sviluppo del capitalismo industriale: in essa trovano per la<br />
prima volta una sintesi storica il razzismo, che declassa certi gruppi umani in nome delle obiettive<br />
verità della scienza, l’amministrazione e la burocrazia moderne e il massacro razionalmente<br />
178 I lavori più noti in questo campo sono quelli di S. Milgram (1974) e P. Zimbardo; quest’ultimo autore è intervenuto<br />
fra l’altro sul recente caso delle torture americane nel carcere iracheno di Abu Ghraib, sostenendo che la forte<br />
propensione alla violenza e alla crudeltà è determinata dal contesto stesso della prigione, in cui un gruppo di individui<br />
esercita un potere assoluto e socialmente legittimato su un altro gruppo (Zimbardo 2004; v. anche<br />
http://www.prisonexp.org/links.htm). Per un’ampia discussione delle posizioni della psicologia sociale sul problema<br />
della violenza v. E. Staub (1989) e la recente rassegna di M. Ravenna (2004).
pianificato (p. 66). Infine, decisivi appaiono gli sviluppi della pratica militare che troveranno il loro<br />
culmine nella Grande Guerra, con la formazione di eserciti di massa composti da soldati-macchina<br />
sul modello del lavoro fordista, nei quali il valore della vita umana perde radicalmente di significato<br />
e l’epica della gloriosa morte in battaglia viene sostituita dalla banalità della “morte anonima di<br />
massa” (p. 102).<br />
Nel costruire una simile genealogia della violenza nazista, Traverso intende attribuire quest’ultima<br />
alla storia dell’Occidente contemporaneo, senza per questo vedere nel nazismo il “naturale<br />
compimento” di questa storia o la sua “essenza profonda”. Si tratta piuttosto di condizioni sul cui<br />
sfondo la violenza genocida diviene possibile:<br />
La ghigliottina, il mattatoio, la fabbrica fordista, l’amministrazione razionale così come<br />
il razzismo, l’eugenismo, i massacri coloniali e quelli della Grande Guerra hanno<br />
modellato l’universo sociale e il paesaggio mentale entro i quali è stata concepita e<br />
messa in atto la «Soluzione finale»; ne hanno creato le premesse tecniche, ideologiche e<br />
culturali; hanno edificato il contesto antropologico nel quale Auschwitz è stato possibile<br />
(p. 180).<br />
Questo “contesto antropologico” ha forse a che fare con la tesi del continuum della violenza di<br />
Scheper-Hughes, con l’idea di uno stretto rapporto tra crimini di guerra e crimini di pace. E’ un<br />
simile contesto che rende sensato stabilire una relazione tra la Shoah e, poniamo, la catena di<br />
montaggio oppure la scortesia dell’infermiera di una casa di riposo che tratta i suoi assistiti come<br />
non-persone. La dimensione genealogica conferisce maggiore profondità a questa tesi,<br />
disancorandola al tempo stesso da un banale e astorico radicalismo che vede nella violenza<br />
genocida una diretta e quasi automatica manifestazione delle istituzioni dello stato moderno, o del<br />
“potere” in generale (una tentazione da cui la stessa Scheper-Hughes non appare sempre esente). Il<br />
contesto antropologico fabbricato dalla storia degli ultimi due secoli crea le condizioni per una<br />
peculiare qualità della violenza di massa, ma pone al contempo le basi per pratiche sociali<br />
completamente diverse, guidate ad esempio dalla pace, dal rispetto e dal riconoscimento dell’altro.<br />
Le stesse istituzioni di cui si denuncia la complicità nel trasmettere i sentimenti sociali che<br />
preparano gli stermini, tra cui Scheper-Hughes include, oltre all’esercito, anche la famiglia, la<br />
scuola, le chiese e gli ospedali (Scheper-Hughes, Bourgois 2004, p. 22), contengono anche le<br />
potenzialità della pace e della giustizia sociale. In quale direzione esse vengano spinte è un<br />
problema che riguarda la nostra responsabilità e le nostre scelte etico-politiche. In questo senso, è<br />
difficile sottrarsi al richiamo che Scheper-Hughes ci rivolge nel saggio di questo volume: quello a<br />
saper riconoscere una potenzialità genocida anche in noi stessi, e ad esercitare una costante<br />
“ipervigilanza difensiva” anche verso le sue forme meno visibili e meno direttamente riconoscibili.<br />
5. La sintassi della violenza.<br />
Vorrei tornare adesso al tema portante del rapporto tra violenza e costruzioni identitarie,<br />
considerando la discussione profonda e raffinata che ne propone Arjun Appadurai, nella sua opera
principale Modernity at Large e in alcuni saggi degli ultimi anni 179 . Anche per l’antropologo<br />
indiano il punto di partenza è il rifiuto delle tesi primordialiste. Non è il permanere di un’antica<br />
conflittualità radicata nelle appartenenze locali che fonda i conflitti etnici: al contrario, questi ultimi<br />
vanno compresi nel quadro delle trasformazioni indotte dalla globalizzazione e soprattutto in<br />
relazione al fenomeno del culturalismo – definito come “deliberata mobilitazione delle differenze<br />
culturali al servizio di più vaste politiche nazionali o transnazionali” (Appadurai 1996, p. 32).<br />
Appadurai rivolge una serrata critica a quella teoria politica che vede le appartenenze primordiali<br />
come residui premoderni, fattori d’inerzia che ostacolano il pieno dispiegamento della razionalità<br />
politica (lo stato) ed economica (il mercato) della modernità. Al contrario, sottolinea come “la<br />
creazione di sentimenti primordiali, lungi dall’essere un ostacolo per lo stato modernizzatore, si<br />
situa vicino al centro del progetto del moderno stato nazionale”, come strumento di controllo e di<br />
consenso (ibid., p. 188); e come l’esplosione di tali sentimenti rappresenti una delle principali<br />
reazioni dello stato agli elementi di crisi che oggi lo percorrono a fronte dei processi di<br />
globalizzazione.<br />
Tuttavia, Appadurai si rende conto che non basta considerare questi fenomeni come ideologie<br />
imposte dall’alto, e si interroga proprio su come essi possano plasmare a fondo la costituzione<br />
antropologica – culturale, emozionale e corporea - di determinati gruppi sociali. Se è in definitiva<br />
un’ampia motivazione politica a muovere le pratiche sociali, essa va però compresa nella sua<br />
capacità di inscriversi nell’esperienza fisica e psichica dei soggetti coinvolti, “fino nell’intimità<br />
degli attori sociali incarnati” (ibid., p. 191). Non si tratta di ricondurre la politica ai sentimenti<br />
primordiali, ma di seguire semmai il percorso inverso, leggendo questi ultimi sullo sfondo di<br />
foucaultiane cornici di potere e disciplina. Dunque, “la sfida è riuscire a catturare la frenesia della<br />
violenza etnica senza ridurla al nucleo universale e banale dei sentimenti profondi e primordiali.<br />
Dobbiamo preservare la sensazione della furia psichica e incarnata così come l’intuizione che i<br />
sentimenti coinvolti nella violenza etnica […] acquistano senso solo entro vasti conglomerati di<br />
ideologia, immaginazione e disciplina” (ibid., p. 192). Se in questa dichiarazione programmatica<br />
l’accento di Appadurai cade sull’opposizione al primordialismo, oggi sembra di dover piuttosto<br />
sottolineare l’altra esigenza, quella di una comprensione che preservi il senso della “furia psichica e<br />
incarnata” che nella violenza si esprime; esigenza, come detto, tanto trascurata quanto cruciale per<br />
una prospettiva che possa ancora dirsi antropologica.<br />
L’originalità della soluzione di Appadurai sta nel tentativo di legare la “furia” della violenza etnica<br />
non a certezze identitarie ataviche, bensì alle incertezze che il mondo contemporaneo porta<br />
costantemente ad esperire a proposito delle identità nostre e altrui. Mentre la gente in tutto il mondo<br />
si sente sempre più definita in termini di macro-identità inventate dagli stati nazionali, i criteri per<br />
determinare l’appartenenza o meno ad esse di specifici individui o gruppi sono sempre meno chiari.<br />
Soprattutto, sempre meno chiaro è se i nostri vicini, la gente che ci vive accanto, fa parte di “noi” o<br />
degli “altri”. Le mappe corporee e caratteriali così tipiche del repertorio dei nazionalismi,<br />
179 Di particolare rilievo il saggio “Dead certainty” (Appadurai 1998), che non è inserito in questa antologia solo perché<br />
una sua traduzione italiana è attualmente in corso, sempre presso l’editore Meltemi, nel quadro di un volume<br />
monografico dello stesso Appadurai.
classificando ogni individuo sotto la sua grande categoria etnica, non sembrano più consentire un<br />
sicuro riconoscimento. Questa incertezza diviene cruciale in situazioni di aperto conflitto, in cui il<br />
“nemico” può nascondersi fra noi; qui l’esperienza quotidiana è dominata, sostiene Appadurai, dalla<br />
sindrome dell’infiltrato, dell’agente segreto, della falsa identità – dalla possibilità che la realtà non<br />
sia mai ciò che sembra. In altre parole, si costituiscono universi morali dominati dall’orrore per<br />
l’indeterminazione e per la confusione categoriale – da quella stessa ansia cognitiva per la “materia<br />
fuori posto” che Mary Douglas ha posto alla base dei sistemi simbolici e del concetto di tabu.<br />
Qui sta per Appadurai la chiave di comprensione di quelle peculiari forme di violenza che<br />
caratterizzano i conflitti “etnici” contemporanei: una violenza che si compie fra persone che hanno<br />
spesso in precedenza vissuto fianco a fianco, negli stessi spazi sociali e in rapporti di vicinato e<br />
persino amicizia, e che implica d’altra parte forme di brutalità fisica straordinariamente crudeli, con<br />
una qualità che potremmo quasi definire rituale. Queste forme di violenza sono un modo per<br />
estrarre “certezza” da una situazione di angosciosa incertezza; non per eliminare le anomalie, come<br />
nei sistemi simbolici analizzati da Douglas, ma per dare forzatamente ordine a una realtà in cui<br />
l’anomalia è divenuta la regola. Appadurai ha qui in mente in modo particolare i materiali discussi<br />
da Liisa Malkki nel suo importante lavoro su gruppi di hutu rifugiati in Tanzania dal Burundi a<br />
seguito dei massacri etnici del 1972 (Malkki 1995a). Lavorando sulle narrazioni dei rifugiati,<br />
Malkki mostra come esse costituiscano nel loro complesso un corpus condiviso di rappresentazioni<br />
del passato di natura, come la studiosa si esprime, “mitico-storica”: vale a dire, un insieme di<br />
racconti volti a produrre un ordine morale e classificatorio, che costruiscono un passato esemplare e<br />
fondano al tempo stesso il senso dell’esistenza nel contesto presente (quello del campo profughi, in<br />
questo caso, particolarmente interessante perché in esso si costruisce un’immaginazione di<br />
appartenenza nazionale senza alcuna delle condizioni usuali che ad essa si accompagnano, come<br />
territorialità, istituzioni statuali etc.; v. anche Malkki 1995b, 1996). Questa mito-storia è focalizzata<br />
sulla continua “esplorazione, reiterazione e sottolineatura dei confini tra sé e gli altri, hutu e tutsi,<br />
bene e male”. Le due categorie principali, hutu e tutsi, sono identificate per mezzo di “astratte<br />
qualità morali”: i tutsi incorporano il male, la pigrizia, la bellezza, il pericolo e la “malignità”, gli<br />
hutu esattamente l’opposto (ibid., p.54). A loro volta, queste qualità morali si connettono a “mappe<br />
corporee” che dettagliano le differenze fisiche tra hutu e tutsi – un punto sul quale il discorso dei<br />
rifugiati insiste in continuazione, esprimendo la necessità di evitare ogni ambiguità nella distinzione<br />
categoriale (p. 78).<br />
E’ la stessa Malkki a suggerire il nesso tra queste mappe di riconoscimento basate su dettagli<br />
fisiologici e qualità caratteriali, da un lato, e dall’altro le “mappe necrografiche” attraverso le quali<br />
gli hutu descrivono i dettagli dei massacri e della violenza, le tecniche di uccisione, di mutilazione,<br />
di manipolazione del corpo del nemico. Queste sono percepite come dotate di un chiaro valore<br />
simbolico: forme di umiliazione e deumanizzazione dei nemici etnici che insistono proprio sulle<br />
peculiarità loro assegnate dalle rappresentazioni cosmologiche condivise. Una pratica atroce come<br />
quella di impalare donne e uomini con lunghi fusti di bambù, dalla vagina o dall’ano fino alla<br />
bocca, è percepita ad esempio come una violazione del corpo dei “bassi” hutu da parte di un
sostituto simbolico degli “alti” tutsi (p. 92); e si potrebbe inversamente osservare il significato<br />
simbolico dell’uso del machete nel genocidio ruandese dei tutsi nel 1994, compiuto appunto con lo<br />
strumento principale di quell’agricoltura che i tutsi non saprebbero praticare perché troppo pigri. Gli<br />
stessi assassini hutu che hanno raccontato la loro esperienza a Jean Hatzfeld hanno osservato<br />
l’analogia tra il “tagliare” nel lavoro dei campi e il “tagliare” a pezzi i corpi dei tutsi nelle paludi<br />
dove questi si rifugiavano: “il gesto era simile”, anche se molto più faticoso e la sensazione “meno<br />
scontata” (Hatzfeld 2003, p. 69). Gli stessi testimoni riportano la frequente pratica di tagliare le<br />
gambe delle vittime, “accorciandole” secondo una sorta di legge del contrappasso: “se un uccisore<br />
crudele acchiappava una vittima un po’ alta tra i canneti, poteva anche colpirla alle gambe,<br />
all’altezza delle caviglie per esempio, o anche alle braccia, e lasciarla lì, accorciata, senza darle il<br />
colpo di grazia” (ibid., p. 153).<br />
Questa percezione dei significati simbolici di specifiche forme di atrocità, sostiene Malkki, non è<br />
soltanto presente nei resoconti mitico-storici, ma nella stessa esecuzione della violenza. In altre<br />
parole, le pratiche concrete di crudeltà e violenza si strutturano già secondo una consapevolezza<br />
mitico-storica, appaiono “stilizzate e mitologicamente significative fin dalla loro messa in atto”<br />
(Malkki 1995a, p. 94). Appadurai, per tornare a lui, riprende con forza queste osservazioni<br />
collegandole al tema dell’incertezza identitaria. In una situazione in cui i corpi, della vittima come<br />
dell’assassino, sono potenzialmente ingannevoli e rischiano di tradire le stesse cosmologie che<br />
dovrebbero invece fondare, i riti atroci dei massacri si presentano come “forme brutali di<br />
disvelamento del corpo – forme di vivisezione, tecniche per esplorare, marcare, classificare e<br />
immagazzinare i corpi di quelli che possono essere i nemici ‘etnici’ ” (Appadurai 1998, p.291). In<br />
definitiva, Appadurai si avvicina ancor più di Hayden all’idea della violenza come tecnica per<br />
“immaginare una comunità”: essa consentirebbe infatti di rendere concretamente e sensorialmente<br />
presenti quelle imprecise astrazioni che sono le etichette etniche di vasta scala. “Le più orribili<br />
forme di violenza etnocida sono meccanismi per produrre persone a partire da quelle che<br />
resterebbero altrimenti etichette diffuse e di vasta scala, efficaci ma non localizzate”. In ciò, la<br />
violenza genocida manifesta una qualità autenticamente rituale, nel senso tecnico che a questo<br />
termine è attribuito dalla tradizione antropologica che fa capo a Van Gennep. I riti producono<br />
persone attraverso performance che agiscono sui corpi – anche se in questo caso ci troviamo di<br />
fronte a una orribile inversione del ciclo della vita di Van Gennep, che si trasforma in un vero e<br />
proprio “ciclo della morte” (p. 296).<br />
Il grande merito della teoria di Appadurai consiste dunque nel radicare la violenza in modelli<br />
culturali e categoriali profondi, che plasmano ai livelli più basilari la percezione dei corpi e le<br />
pratiche della quotidianità – contro la tesi che ne riconduce le cause al puro indottrinamento<br />
ideologico. In questo modo, Appadurai apre la strada a un’analisi della sintassi simbolica di<br />
specifiche pratiche di sopraffazione e crudeltà, che non sono viste come pura esplosione di furore<br />
“bestiale” e pre-culturale ma come governate da codici che solo un ampio approccio antropologico<br />
è in grado di cogliere. Non poche obiezioni si potrebbero tuttavia muovere al punto di vista espresso<br />
dallo studioso indiano. Provo ad articolarne due che mi sembrano importanti. In primo luogo, l’idea
che l’orrore per la confusione categoriale sia la forza che muove e struttura simbolicamente la<br />
violenza (una forza intesa non come fattore storico generale ma come motivazione incarnata negli<br />
attori sociali) sembra contrastare con un fatto che emerge dalla letteratura disponibile sugli<br />
esecutori stessi della violenza: questi ultimi sembrano a loro volta sperimentarla come pratica di<br />
dissolvimento dell’ordine culturale, delle categorie del mondo ordinario. Dai tedeschi del<br />
battaglione 101 di C. Browning, ai già citati hutu intervistati da J. Hatzfeld, agli archetipici<br />
massacratori rappresentati da W.Sofski (1996, pp. 156-60), l’inaudita prossimità con la morte – con<br />
i suoi più spaventosi dettagli fisici – non può non trascinare gli assassini fuori da qualunque ordine,<br />
in uno stato che a posteriori non riescono a ricordare come pienamente reale. Gli uccisori vivono<br />
una situazione di liminarità, caratterizzata da elementi pressoché universali quali l’effervescenza<br />
emotiva, la forte coesione di gruppo o senso di communitas, il consumo di alcolici e la ricerca di<br />
stati alterati di coscienza 180 . Più che nella riparazione di una normalità quotidiana minacciata dalle<br />
anomalie, essi sono impegnati nella distruzione radicale di un ordine sulla spinta del sogno di<br />
fondarne uno nuovo.<br />
Un secondo problema sollevato dalla teoria di Appadurai riguarda l’universalità della sintassi rituale<br />
della violenza. Se, come egli afferma, “colpire e mutilare i corpi etnicizzati è uno sforzo disperato<br />
di restituire validità ai contrassegni somatici dell’alterità, a fronte delle incertezze sollevate dalle<br />
definizioni dei censimenti, dai mutamenti demografici e linguistici che rendono le appartenenze<br />
etniche sempre meno corporee o somatiche, e più sociali ed elettive” (1998, p. 297) – dovremmo<br />
allora poter considerare il simbolismo di questa violenza come peculiare e distintivo dei conflitti più<br />
recenti, collocati nel contesto della globalizzazione e della crisi dello stato-nazione classico, di cui<br />
rappresenterebbero una sorta di colpo di coda. Sembra invece di trovarci di fronte a modalità<br />
simboliche meno specifiche e più universali. La bestializzazione del corpo, le inversioni categoriali<br />
cui le vittime sono sottoposte, la violazione delle sfere più protette di intimità personale e familiare<br />
fanno parte di un repertorio ben noto, ampiamente dispiegato nel corso di diverse epoche e contesti<br />
storico-culturali. Si ha l’impressione che la crudeltà esercitata sul corpo dell’altro possa assumere<br />
solo una serie limitata di forme, ricalcando in negativo il limitato numero di universali<br />
antropologici: le caratteristiche strutturali dello schema corporeo, il divieto dell’incesto,<br />
l’opposizione natura-cultura si mostrano nella fenomenologia della violenza come in un grottesco<br />
controluce.<br />
180 In quest’ottica sono da leggersi una serie di comportamenti particolarmente sconcertanti degli esecutori, come la<br />
derisione e la spettacolare umiliazione delle vittime, e gli scherzi e battute scambiate in proposito con i compagni, a fine<br />
giornata. Questo è uno dei punti di dissidio nella celebre discussione fra C. Browning e J. Goldhagen sugli uomini<br />
comuni del Battaglione 101: le loro testimonianze parlano spesso di momenti di socialità festiva che seguivano i<br />
massacri, nel corso dei quali alcuni si vantavano delle uccisioni compiute o le prendevano a oggetto di macabri scherzi.<br />
Browning ritiene impossibile che si tratti di veri festeggiamenti, e li interpreta come segno dell'ottundimento della<br />
sensibilità, dell'abbrutimento di chi era contrario al massacro o almeno ne era turbato. Goldhagen, al contrario, afferma<br />
che l'allegria è allegria, e che essa si spiega solo col fatto che i tedeschi non consideravano delittuosi quegli eccidi.<br />
“Quella non era gente abbrutita e insensibile: scherzavano su azioni che ovviamente approvavano, e alle quali avevano<br />
preso parte con evidente piacere” (1996, p. 562 nota). L’ipotesi di comportamenti legati a una situazione liminale<br />
sembra più plausibile delle interpretazioni dei due storici, i quali sembrano considerare il problema dell’espressione<br />
delle emozioni in una dimensione puramente psicologico-individuale.
Al di là di questi dubbi, il tentativo di autori come Malkki e Appadurai di decifrare la sintassi della<br />
violenza ponendola in rapporto con cosmologie locali e con tensioni sociologiche inscritte nelle<br />
soggettività e nei corpi è di grande forza, e apre un percorso di analisi della violenza peculiarmente<br />
antropologico. Su questa linea si colloca una crescente letteratura, dalla quale vorrei estrarre due<br />
ulteriori esempi. Ancora in relazione al genocidio ruandese del 1994, l’antropologo medico<br />
Christopher Taylor (2002) ha sostenuto l’esistenza di un potente nesso tra le concezioni tradizionali<br />
di corpo, salute e malattia e le più cruente modalità della violenza genocida. In sintesi, nella<br />
medicina popolare la salute è vista come un libero trascorrere di fluidi vitali attraverso il corpo,<br />
mentre la malattia è dovuta a “blocchi” che impediscono ai fluidi di scorrere. Secondo Taylor,<br />
questa idea fondamentale ha plasmato in profondità le concrete manifestazioni di violenza,<br />
funzionando come una sorta di “schema generativo” – ancora una volta, attraverso una inversione di<br />
senso che trasforma una cosmologia vitale in un macabro ordine della morte. Questo modello<br />
culturale sembra a Taylor connesso, ed esempio, all’ampio ricorso delle milizie hutu ai blocchi<br />
stradali: istituiti al di là di ogni reale funzione strategica o razionalità politica, questi ultimi<br />
divenivano luoghi privilegiati di uccisione e di esercizio del potere (p. 163). L’idea di “bloccare” i<br />
movimenti si manifesta anche nella grande diffusione di ferite inferte alle vittime alle gambe, ai<br />
piedi e ai tendini di Achille – anche in questo caso, pratica non spiegabile in una logica utilitaristica<br />
(impedire alle vittime la fuga), giacché venivano colpite in questo modo anche persone inferme,<br />
anziani e bambini molto piccoli. Si manifesta qui un potere associato, in termini simbolici, alla<br />
“capacità di ostruire” (p. 164). Infine, strettamente legata all’immaginario dei flussi e dei blocchi è<br />
la pratica dell’impalamento.Visti come “blocking beings”, al pari di minacciose figure stregonesche<br />
della tradizione, i tutsi ostruiscono l’unità cosmologica della nazione hutu, e meritano l’ostruzione<br />
del loro corpo con un palo o una lancia. Il che ricorda da vicino le metafore predilette da Hitler sugli<br />
ebrei come batteri o agenti patogeni che infettano il corpo della società tedesca: cambia solo il<br />
modello medico-culturale sottostante. Per quanto le interpretazioni di Taylor appaiano a tratti<br />
forzate, è convincente la sua proposta di leggere i macabri dettagli della violenza come messaggi<br />
inscritti sui corpi delle vittime. “I torturatori non si limitavano a uccidere le loro vittime,<br />
trasformandone invece i corpi in potenti segni in risonanza con un habitus ruandese” (p. 168) –<br />
come accade con l’inquietante macchina di tortura della Colonia penale di Kafka, che inscrive a<br />
sangue la sentenza sul corpo del condannato.<br />
Un approccio analogo è proposto da Robert L. Hinton (1998a) a proposito dei massacri dei<br />
Khmer Rossi in Cambogia. Qui il modello culturale tradizionale individuato come rilevante è quello<br />
della “vendetta sproporzionata”, una sorta di sistema di valori onore-vergogna secondo cui chi<br />
subisce un torto sviluppa un inestinguibile rancore e perde la faccia finché non riesce a procurare al<br />
suo nemico un danno assai maggiore. L’idea della vendetta sproporzionata è una specie di sfondo<br />
etico della società cambogiana tradizionale, presente nei miti e nelle narrazioni esemplari che<br />
riguardano la socialità quotidiana: in esse si suggerisce costantemente che l’unica possibile<br />
riparazione a un’offesa all’onore sia la completa distruzione del nemico e persino della sua<br />
discendenza familiare – al fine di prevenire ulteriori contro-vendette che si propagherebbero
all’infinito. Ebbene, Hinton suggerisce che tale modello abbia plasmato le motivazioni e i<br />
comportamenti dei Khmer Rossi, i quali avrebbero implicitamente equiparato l’oppressione di<br />
classe (la povertà dei contadini, la mancanza di rispetto nei loro confronti) a un’onta morale,<br />
indirizzando il risentimento verso i ceti urbani. La loro educazione politica era interamente<br />
improntata allo sviluppo di rabbia e odio verso gli oppressori, e la “lotta di classe” interpretata nei<br />
termini delle tradizionali virtù guerriere. La vendetta dei poveri contro i ricchi, dei ceti rurali contro<br />
quelli urbani, era il tema ricorrente della propaganda comunista, e mediava sul piano motivazionale<br />
l’idea stessa di rivoluzione e di fondazione di una società nuova.<br />
Anche in questo caso, è chiaramente la propaganda ad accendere l’odio e a spingere a una<br />
violenza estrema legittimata come “giustizia” storica; ma l’ideologia non potrebbe far presa se non<br />
innestandosi su modelli tradizionali che la rendono assimilabile sul piano etico e su quello delle<br />
pratiche sociali. La tesi è plausibile, e suggerisce interessanti orizzonti di ricerca anche in relazione<br />
ad altri contesti. Tuttavia, Hinton non sembra considerare un punto essenziale: nella cultura<br />
tradizionale, il modello mitico della vendetta spropositata fonda in realtà una pratica quotidiana in<br />
cui essa non si attua. I valori di onore, vergogna e vendetta fanno parte di un sistema di regole<br />
relazionali che rendono possibile una convivenza civile e non violenta (per quanto possano<br />
implicare un alto grado di violenza simbolica, soprattutto sessuale e generazionale). Il problema, per<br />
la Cambogia come per altri casi di eccidi di massa, è capire come sia possibile la transizione da tale<br />
civile convivenza alla cultura della morte e del terrore; come, dunque, i modelli culturali che<br />
usualmente mediano e gestiscono il conflitto possano trasformarsi nel loro opposto, sostenendo<br />
pratiche che fanno esplodere le strutture sociali 181 .<br />
6. L’antropologia della violenza tra epistemologia ed etica.<br />
Sono giunto a quel rituale momento in cui si dice che i limiti di un’introduzione non consentono<br />
di approfondire altri e importanti aspetti dell’argomento in questione. Ciò è particolarmente vero in<br />
questo caso. Vorrei perlomeno segnalare tre di questi ulteriori temi sollevati dai saggi qui raccolti,<br />
concludendo con alcune osservazioni su un punto già toccato in precedenza, vale a dire il<br />
complicato rapporto fra la dimensione conoscitiva e quella etica di un’antropologia della violenza.<br />
a) Violenza e genere. Il primo punto su cui occorre insistere, sollevato esplicitamente nel saggio di<br />
Veena Das ma centrale nell’intero dibattito contemporaneo, è la dimensione di genere della<br />
violenza. Abbiamo visto, nel precedente paragrafo, che la violenza agisce seguendo a ritroso il<br />
lavoro della cultura. Non si limita a distruggere materialmente i corpi, ma procede disfacendo<br />
181 La tesi di Hinton sembra fra l’altro poco coerente con quella sostenuta dallo stesso autore in un precedente articolo<br />
(1996), in cui la violenza dei massacri cambogiani è interpretata alla luce della nozione di “dissonanza psico-sociale”:<br />
gli eccessi e le forme altrimenti inspiegabili di accanimento persecutorio sarebbero la risposta al conflitto fra gli<br />
imperativi aggressivi dei Khmer rossi e i valori di solidarietà (l’ “etica della gentilezza”) largamente diffusi nella<br />
società cambogiana tradizionale. Un analogo approccio è proposto da Hinton (1998) anche in relazione al problema<br />
della “crudeltà inutile” nello sterminio nazista degli ebrei: i valori del nazismo non potevano non confliggere con più<br />
universali imperativi morali, generando così una dissonanza che si manifesta in comportamenti abnormi.
sistematicamente le costruzioni culturali del corpo, dell’identità personale, della socialità primaria;<br />
individua le più radicate fedeltà culturali come punti critici da colpire nella costruzione del terrore.<br />
E’ dunque chiaro che il terreno dell’identità sessuale e di genere, e l’ambito ad essa connesso delle<br />
relazioni familiari e di parentela, è il suo terreno elettivo – specialmente nei casi di attacco<br />
sistematico e consapevole a popolazioni civili basato sulla diffusione di una cultura del terrore, per<br />
usare ancora l’efficace formulazione di Taussig. In questi casi, dal Ruanda ai Balcani, dalle guerre<br />
sporche latino-americane agli odierni conflitti “civili” africani (e diversamente, almeno per certi<br />
fondamentali aspetti, dalla Shoah) la violenza si attua come spettacolo del terrore, e mira a colpire<br />
le colonne portanti di ciò che è culturalmente significativo, potendo penetrare, diversamente da ogni<br />
altra forma di comunicazione simbolica, fin dentro il corpo, nei recessi più profondi delle sfere di<br />
intimità personale. In queste strategie gioca ovviamente un ruolo-chiave lo stupro. Se esistono tratti<br />
universali nel congegno anti-culturale della violenza, lo stupro sicuramente è uno di essi. Come è<br />
noto, si tratta di una forma di violenza che paradossalmente produce senso di colpa nella vittima.<br />
Non solo colpisce ai livelli più profondi la dignità personale; messo in scena pubblicamente, fa<br />
esplodere il livello più basilare delle relazioni sociali, sconvolge i sentimenti di fiducia, protezione,<br />
rispetto reciproco su cui esse si fondano. Come nel caso degli “stupri etnici” nei Balcani, la<br />
violazione del corpo femminile diviene addirittura il principale strumento, simbolico e biologico al<br />
tempo stesso, di affermazione di un’identità razziale – quasi una grottesca caricatura di quelle tesi<br />
sociobiologiche che pensano di poter spiegare ogni comportamento umano in relazione all’obiettivo<br />
della massimizzazione della capacità riproduttiva.<br />
Lo stupro è anche la forma di violenza che in modo più netto collega i due ambiti dei crimini di<br />
guerra e dei crimini di pace. Per quanto i suoi significati culturali possano esser diversi nei due<br />
contesti, le indubbie continuità ci spingono a pensare alla violenza sulle donne come a una sorta di<br />
“valore aggiunto” nel quadro delle violenza di massa. Del resto, a parte la diretta aggressione<br />
sessuale, sono molti i modi in cui le donne divengono bersaglio particolare nelle “nuove guerre” e<br />
nelle strategie del terrore. Queste ultime rendono spesso semplicemente impraticabili i ruoli sociali<br />
e quelle che potremmo chiamare le posizioni morali delle donne, ad esempio impedendo di seguire<br />
l’imperativo protettivo della funzione materna. I racconti di donne costrette ad assistere, impotenti,<br />
alle violenze subite dai figli rappresentano quasi sempre il culmine della drammaticità nei resoconti<br />
dei massacri. Per converso, questo fa sì che le donne giochino spesso un ruolo fondamentale nelle<br />
forme di resistenza. Il caso paradigmatico è probabilmente quello delle madri argentine di Plaza de<br />
Mayo, un movimento il cui grande impatto si è basato proprio sulla rivendicazione delle<br />
caratteristiche attribuite alla donna dall’ideologia ultraconservatrice della giunta militare: il<br />
sentimento (apparentemente pre-politico) materno, il diritto-dovere di proteggere e piangere i figli<br />
(Robben 2000). Come mostra Veena Das, è comunque “lavoro delle donne” la ricucitura di un<br />
universo di valori quotidiani che si trova lacerato da eventi traumatici violenti – nel caso della sua<br />
ricerca, la Spartizione Indiana del 1947.
) Memoria traumatica. Nella gran parte dei casi, il lavoro antropologico sulla violenza si fonda<br />
sulle memorie di testimoni degli eventi (le vittime sopravvissute, i familiari degli uccisi, più<br />
raramente gli esecutori). Gli antropologi si trovano cioè di fronte a racconti di persone che devono<br />
fare i conti con un lacerante e spesso inestinguibile trauma esistenziale, che le ha colpite nel proprio<br />
corpo, negli affetti più cari, nei più basilari principi di socialità. I contesti di ricerca sono quelli di<br />
individui e comunità impegnate a elaborare un lutto per il quale la cultura tradizionale non offre<br />
risposte adeguate; impegnate a ricostruire un senso del passato a partire dai brandelli irrelati di una<br />
memoria insopportabile; impegnate a ristabilire un minimo di equilibrio psichico e sociale, una<br />
possibilità di esistenza in ambienti che spesso non sono più i loro (ad esempio campi profughi,<br />
centri di accoglienza per rifugiati, nuovi insediamenti più o meno provvisori). Il problema<br />
dell’antropologia della violenza finisce così per coincidere in larga parte con il problema della<br />
memoria traumatica – in un’accezione del termine che implica non solo dinamiche psichiche<br />
individuali ma anche processi socio-culturali. E’ un terreno (come, più in generale, quello dello<br />
studio della memoria culturale) su cui l’antropologia ha bisogno di recuperare un rapporto forte con<br />
la psicologia e la psicoanalisi (Antze, Lambek 1996, Robben, Suárez-Orozco 2000). L’agenda di<br />
ricerca che si apre è di grande ampiezza. Si pone prima di tutto il problema di un’analisi retorica dei<br />
racconti di testimonianza, che vanno considerati da un lato nella loro natura performativa, dall’altro<br />
nel loro intreccio con repertori narrativi e codici culturali presenti nella tradizione. Queste<br />
narrazioni culturalmente plasmate giocano un ruolo di primo piano nella trasmissione<br />
intergenerazionale non solo della memoria ma dello stesso trauma – un punto, quest’ultimo,<br />
ampiamente studiato in relazione alle generazioni di “figli della Shoah”. La psicoanalista Yolanda<br />
Gampel (2000, p. 59) ha coniato il termine radioattività per esprimere il modo in cui le esperienze<br />
traumatiche si insediano nella costituzione psichica degli individui, continuando ad agire molto<br />
tempo dopo che gli eventi sono conclusi, e penetrando, appunto, anche nelle generazioni successive.<br />
Peraltro, qui non è il solo livello delle narrazioni culturalmente accreditate ad agire: anzi, la<br />
memoria della violenza radicale sembra agire in un’area psichica in cui le parole non esistono (il<br />
“reale” lacaniano), configurandosi come un ineffabile o indicibile che si rivela attraverso immagini,<br />
emozioni, espressioni corporee.<br />
Lo studio della memoria traumatica si configura dunque da un lato come tentativo di comunicare<br />
con le soggettività ferite - un compito particolarmente delicato sul piano etico, dal momento che il<br />
classico obiettivo etnografico dell’ “estrarre informazioni” non può qui andar disgiunto da un<br />
obiettivo terapeutico (si veda in proposito il lavoro degli etnopsichiatri con i rifugiati e le vittime di<br />
tortura; Beneduce 1999). Dall’altro lato, lo studio della memoria ci porta invece verso un’etnografia<br />
delle forme pubbliche di elaborazione del lutto, delle rappresentazioni simboliche e delle pratiche<br />
rituali che sono mobilitate a tal fine. Le commemorazioni e le celebrazioni degli eventi più<br />
drammatici, nonché la costituzione di monumenti, musei o luoghi consacrati alla memoria, sono tra<br />
le principali pratiche attraverso cui una comunità cerca di far “trascendere nel valore” un cattivo<br />
passato, collocandolo in una narrazione storica (o in un modello mitico) in grado di conferire senso
al presente 182 . L’elaborazione del lutto si intreccia spesso, talvolta anche molto tempo dopo la fase<br />
più intensa delle violenze, con il perseguimento della giustizia: vale a dire con attività istituzionali,<br />
sostenute sul piano nazionale o internazionale, volte ad accertare giuridicamente le responsabilità e<br />
a punire i colpevoli. Si può dire anzi che lo svolgimento di processi e il riconoscimento istituzionale<br />
(non solo storico e morale) delle responsabilità è una delle condizioni essenziali per il superamento<br />
del trauma. Ma la giustizia non può che esser praticata in forme di compromesso. La società<br />
“normalizzata” che esce dalla violenza è infatti sempre profondamente divisa e conflittuale, per<br />
effetto delle stesse dinamiche della violenza, che si dimostrano invariabilmente capaci di prolungare<br />
il loro effetto dirompente “molto a lungo dopo che i massacri sono finiti e firmati i trattati di pace”<br />
(Suárez-Orozco, Robben 2000, p. 5; Suárez-Orozco 1990). Com’è stato osservato per l’America<br />
Latina, si verificano profonde spaccature sociali fra “quanti non vogliono ricordare e coloro che non<br />
possono dimenticare”, nutrite da “risentimenti residui per i differenti prezzi pagati nei confronti del<br />
terrore” (Viñar, Ulriksen Viñar 2001, p, 213). La memoria stessa è destinata così a restare divisa,<br />
terreno di manifestazione di conflitti rispetto ai quali la giustizia deve cercare mediazioni. Molti<br />
casi recenti, dalla commissione d’inchiesta argentina sui desaparecidos (CONADEP; Suárez-<br />
Orozco 1992, p. 236 sgg.) alla Commissione per la verità e la riconciliazione del Sudafrica (Wilson<br />
2000, 2001 Ross 2003a, 2003b), mostrano il complesso rapporto che si instaura tra le istanze<br />
strettamente giudiziarie, quelle di obiettiva ricostruzione storica e quelle di “riconciliazione”<br />
nazionale. Il che significa complesso rapporto tra giustizia, verità e politica (Wilson 2003, Flores<br />
2005, p. 115 sgg.). “Scrivere la storia” e “fare giustizia”, per quanto attività governate da propri<br />
interni criteri di coerenza e oggettività, possono allora rivelarsi come momenti di un complesso<br />
rituale di transizione tra regimi politici, che sottodetermina - come ha sostenuto il giurista Ruti<br />
Teitel (2001, pp. 272-3) - la rivelazione della conoscenza della verità.<br />
c) Violenza e diritti umani. Il saggio di Talal Asad ci introduce in uno scenario di riflessione ancora<br />
diverso, concernente il carattere storicamente e culturalmente determinato di ciò che noi intendiamo<br />
per violenza - in particolare di ciò che percepiamo come “trattamento crudele, inumano e<br />
degradante”, in riferimento alla formulazione con la quale la Dichiarazione dei diritti umani del<br />
1948 condanna la tortura e analoghe forme di crudeltà. Asad prende una posizione nettamente<br />
critica nei confronti del linguaggio universalizzante dei diritti umani. Non solo quest’ultimo è cieco<br />
di fronte alla varietà delle pratiche culturali; di più, le sue pretese di solidarietà ecumenica celano<br />
l’affermazione di un modello di individualità o di agente razionale che è fortemente e acriticamente<br />
etnocentrico, che affonda anzi le radici nel dominio coloniale dell’Occidente sul resto del mondo. Il<br />
saggio procede mostrando le ambiguità e le palesi contraddizioni della nozione di “trattamento<br />
crudele, inumano e degradante”: una nozione illuminista che, paradossalmente, è stata spesso<br />
imposta con la forza e con l’uso di sanzioni violente alle culture colonizzate. Particolarmente<br />
182 Le celebrazioni rituali e la “politica dei monumenti” sono al centro negli ultimi anni di una vasta produzione<br />
storiografica ed etnografica. Si vedano fra l’altro l’importante lavoro di J. Winter (1995) sulle commemorazioni della<br />
Grande Guerra, e i contributi raccolti in Gillis, a cura, 1994 e Lorey, Beezlet, a cura, 2002. Per una discussione del tema<br />
nel quadro di un più ampio approccio all’antropologia della memoria rimando a Dei 2004b.
interessante è per Asad il contrasto tra la condanna della crudeltà e la sua legittimazione in alcuni<br />
ambiti della modernità: da un lato quello della guerra, che si combatte con armi sempre più<br />
sofisticate ed efficaci nel distruggere i corpi e produrre sofferenza, dall’altro l’ambito delle pratiche<br />
sadomasochiste, dove infliggere e subire sofferenza è accettato come libera scelta di adulti<br />
consenzienti. Ciò mostrerebbe, a suo parere, in che misura la proibizione di crudeltà e tortura sia<br />
sottodeterminata da una certa concezione (politica ed epistemica al tempo stesso) di individuo e di<br />
“civiltà”, rispetto alla quale si definisce lo stesso significato della percezione del dolore, e se ne<br />
stabiliscono le “quantità” ammissibili.<br />
Il saggio di Asad si colloca nel quadro dell’attuale dibattito antropologico sui diritti umani, con<br />
l’assunzione di una posizione decisamente relativista da parte dell’autore – il quale si preoccupa<br />
peraltro di precisare la natura intellettuale e non morale (o pratica) del suo scetticismo verso il<br />
linguaggio universalista dei diritti. Ma è davvero possibile mantenere questa distinzione? Se li<br />
accostiamo a resoconti dettagliati di torture, da quelli del Putumayo cui ci introduce Taussig fino ai<br />
recenti casi di Abu-Ghraib, non rischiano di apparire futili le sottili distinzioni di Asad? Non c’è<br />
forse nella pratica della tortura una immediata (universale, forse) riconoscibilità? Come potremmo<br />
sbagliarci riguardo il significato di quegli atti di sopraffazione violenta che usano l’altrui corpo<br />
come strumento per la costruzione del terrore? In effetti l’argomentazione di Asad si focalizza sulla<br />
nozione liberale di “diritti umani” e sul significato del provare e infliggere dolore nella società<br />
contemporanea; e certo efficace è la sua critica alla formulazione “trattamento crudele, inumano e<br />
degradante”, con la quale la dichiarazione del 1948 tentava di dare una formulazione più ampia del<br />
concetto di tortura. Ma così il saggio finisce per perdere di vista il tema della tortura come<br />
strumento di un potere che (forse per la sua imperfezione, come suggerisce Hannah Arendt) si<br />
esercita per mezzo della violenza e del terrore. E’ questo tipo di peculiari relazioni fra esseri umani<br />
che va messo a fuoco per capire la tortura, quelle relazioni di cui ci parlano le immagini di Abu-<br />
Ghraib o quelle del quasi dimenticato Salò di Pasolini (fra l’altro, in entrambi i casi si manifesta un<br />
nesso con la pornografia sadomasochista che getta una luce diversa sullo stesso accostamento<br />
proposto da Asad).<br />
Quale teoria ci aiuta a distinguere le relazioni sociali o i sistemi politici che implicano la tortura da<br />
quelli che la escludono? E’ evidente che categorie come modernità o Occidente non servono molto<br />
a capire tutto ciò. La tortura non ha mai prosperato così bene come nella modernità, specialmente<br />
all’interno di quelle che si autodefiniscono come missioni civilizzatrici. Neppure la frattura<br />
democrazia-totalitarismo sembra decisiva, così come altre categorie politiche care al liberalismo.<br />
Asad cerca appunto di evidenziare paradossi e contraddizioni del discorso moderno e liberale. Nella<br />
linea della critical anthropology, vuol mostrare come l’astratta morale del liberalismo – e la<br />
dichiarazione universale dei diritti umani che ne è espressione – non sia in grado di tener fuori dalla<br />
modernità le pratiche “crudeli e degradanti”; e come, anzi, i principi su cui tale morale si fonda<br />
(l’universalità come correlato dei rapporti capitalistici di produzione e dunque del dominio di<br />
classe; Turner 1998, p. 344) ne ricreino costantemente le condizioni. Ma nella modernità, e per certi<br />
versi nelle democrazie liberali, coesistono cose molto diverse: guerre sempre più distruttive e
movimenti pacifisti e non violenti, torturatori di ogni tipo e attivisti per i diritti umani. Si tratta solo<br />
di ambiguità interne, come pare ad Asad, o di facce antagoniste e alternative? Una teoria della<br />
violenza, mi pare, si dovrebbe misurare anche sulla capacità di aiutarci a discernere fra queste<br />
diverse opzioni della modernità o del liberalismo; e non può limitarsi a considerare la dichiarazione<br />
dei diritti umani come una ingenua e ipocrita copertura delle reali contraddizioni che muovono la<br />
storia.<br />
Torniamo così a chiederci se per un’antropologia della violenza sia possibile separare la discussione<br />
“intellettuale”, come si esprime Asad, da un impegno pratico (politico, etico). Il problema viene<br />
esplicitamente posto in molta letteratura etnografica, in termini di inevitabile coinvolgimento<br />
personale del ricercatore e di umana solidarietà nei confronti delle vittime. Ma raramente la<br />
tensione fra i due aspetti della conoscenza e dell’impegno viene portata fino alle sue conseguenze<br />
più significative. Chi lo fa è ancora una volta Scheper-Hughes, secondo la quale la testimonianza<br />
etnografica della violenza conduce necessariamente verso una concezione militante della disciplina.<br />
Nel già ricordato recente lavoro con P.Bourgois sulla violenza in guerra e in pace, parla<br />
dell’antropologo come di una persona “responsabile, riflessiva, moralmente o politicamente<br />
impegnata”, che sappia “prender parte quando necessario e rifiutare i privilegi della neutralità”<br />
(Scheper-Hughes, Bourgois 2004, p. 26). Rispetto alla situazione etnografica classica, nei contesti<br />
di violenza diviene impossibile ottenere e mantenere ogni forma di “distanziamento” dagli<br />
interlocutori: “che tipo di osservazione partecipante, che tipo di testimonianza oculare è appropriata<br />
di fronte al genocidio e alle sue conseguenze, o anche soltanto di fronte alla violenza strutturale e<br />
all’etnocidio? Quando l’antropologo diviene testimone di crimini contro l’umanità, la pura empatia<br />
scientifica non basta più” (p. 27). L’atteggiamento del distacco trapassa troppo facilmente in quello<br />
dello spettatore, e persino del complice. Semplicemente, non si può evitare di schierarsi – il che<br />
significa porre la propria competenza e il proprio sapere al servizio di una causa, rovesciando una<br />
intera tradizione di disimpegno accademico ma restando fedeli a quello che per Scheper-Hughes è il<br />
“mandato originario” dell’antropologia:<br />
schierare saldamente noi stessi e la nostra disciplina dalla parte dell’umanità, della<br />
salvezza e della ricostruzione del mondo –anche se possiamo non esser sempre sicuri di<br />
cosa ciò significhi e di cosa ci venga richiesto in momenti particolari. In ultima analisi,<br />
possiamo solo sperare che i nostri celebrati metodi della testimonianza empatica e<br />
impegnata, dello “stare con” e dello “stare là”, per quanto possano apparire vecchi e<br />
stanchi, ci forniscano gli strumenti necessari per fare dell’antropologia una piccola<br />
pratica di liberazione umana (ibid.)<br />
La formulazione è abbastanza appassionata ma anche abbastanza modesta da risultare convincente.<br />
Nessuno negherebbe un qualche grado di impegno nei confronti delle persone di cui si<br />
rappresentano ( o si “studiano”) le sofferenze; resta tuttavia aperto il problema di quali valori e<br />
obiettivi rappresentano le fedeltà ultime dell’antropologo. Quelli della conoscenza o quelli della<br />
partecipazione? Dell’epistemologia o della politica? Per quanto non necessariamente in contrasto,
questi obiettivi hanno diversa natura e possono trovarsi a confliggere anche in modo estremamente<br />
drammatico. Scheper-Hughes parte dall’implicito presupposto che la verità è rivoluzionaria, e che la<br />
denuncia delle sopraffazioni e il sostegno alle vittime facciano tutt’uno con la ricerca<br />
dell’oggettività 183 . Questo può essere anche vero in ultima analisi, ma i percorsi del rigore<br />
metodologico e scientifico e quelli della solidarietà politica sono spesso assai diversi. Il problema si<br />
pone soprattutto in relazione alla principale fonte dell’antropologia della violenza, cioè i racconti<br />
delle vittime sopravvissute e dei testimoni diretti. L’epistemologia ci spinge a praticare verso questi<br />
racconti una critica delle fonti: ad esempio, a non assumerli immediatamente come resoconti<br />
realisti, a studiarne le forme di costruzione retorica e di adesione a modelli culturali, eventualmente<br />
a farne risaltare le interne inconsistenze e così via. Ma questo rigore metodologico non serve ai fini<br />
della solidarietà, e può anzi risultare controproducente sul piano pratico e politico (si pensi ai<br />
racconti dei rifugiati e dei richiedenti asilo; v. Daniel-Knudsen 1995), e intollerabile sul piano etico:<br />
che senso hanno le sottigliezze analitiche di fronte a persone che hanno subito violenze e lutti<br />
terribili? Di fronte alla loro tragedia e alla loro sofferenza, che importanza ha come la raccontano?<br />
L’atteggiamento critico sembra voler negare la verità assoluta di quelle esperienze; la sofisticazione<br />
teoretica sembra del tutto fuori posto, quasi immorale, a fronte della semplice enormità del Male e<br />
del Dolore che traspirano da quelle biografie.<br />
Nell’etnografia della violenza, questo punto è espresso con grande efficacia da Antonius Robben,<br />
in un intenso testo (1995) di riflessione su una ricerca condotta in Argentina sulla memoria dei<br />
crimini della giunta militare. Robben intervista tre categorie di persone: militari coinvolti più o<br />
meno direttamente nei crimini, ex-guerriglieri e parenti dei desaparecidos. Avverte con forza la<br />
tendenza di tutte e tre queste componenti a tirare e far schierare il ricercatore dalla propria parte, a<br />
chiedergli di condividere la propria visione del mondo: e conia per questa tendenza la nozione di<br />
“seduzione” (nel senso etimologico del termine) etnografica. Quest’ultima si manifesta in modo<br />
particolarmente drammatico nel rapporto con i parenti delle vittime. Robben si sofferma ad esempio<br />
sul suo incontro col padre di uno scomparso, un ragazzo della Gioventù Peronista rapito nel 1976 a<br />
diciassette anni. L’uomo racconta dei suoi tentativi di avere notizie del figlio, attraverso contatti con<br />
ufficiali dell’esercito. Il climax del suo racconto è l’incontro con un colonnello, in servizio attivo,<br />
che ha promesso attraverso la mediazione di amici di dargli informazioni:<br />
Dopo che gli ebbi raccontato tutto, [il colonnello] disse: “Guardi, immagini che suo<br />
figlio abbia il cancro [… ] e si trovi in una sala operatoria dove ci sono un macellaio e<br />
un dottore: preghi che sia il dottore a operarlo”. Quest’uomo aveva infilato un pugnale<br />
nella mia ferita e lo rigirava dentro di me. “Mi scusi, signore – dissi – ma lei sa<br />
183 Una convinzione che è implicitamente o esplicitamente condivisa da molte etnografie contemporanee della violenza.<br />
Si veda ad esempio il lavoro sui guerriglieri sick di C.K. Mahmood (1996), che teorizza un’etnografia “partigiana” e<br />
“militante”, e in cui la ricercatrice dichiara di porsi al servizio dei suoi interlocutori ex-guerriglieri, per “salvare” la loro<br />
voce e contribuire così ai loro obiettivi politici e ideologici – finalità ultima, questa, della ricerca, in contrapposizione<br />
all’ “oggettivismo” degli studi accademici e dell’antropologia classica. Ci si può chiedere fino a che punto, con tali<br />
premesse, ci troviamo ancora di fronte a un libro di antropologia (l’autrice dichiara persino di aver rivisto il testo sulla<br />
base delle “correzioni” ideologiche dei suoi interlocutori; v. Dusenbery 1997 per una critica a questi aspetti); ma<br />
soprattutto, si può notare la contraddizione tra, appunto, la critica all’oggettivismo accademico e la pretesa, più volte<br />
riaffermata dall’autrice, di parlare in nome della “verità” (v. anche Mahmood 2001).
qualcosa?” . “No, no, sto solo soppesando le possibilità e facendo una supposizione”.<br />
Avrei voluto prenderlo per la gola e strangolarlo; […] per la prima volta in vita mia<br />
provavo il desiderio di uccidere qualcuno […] perché ero disperato. Non può<br />
immaginare con quanta soddisfazione mi disse quelle cose. E lei dovrebbe analizzare il<br />
fatto che quell’uomo era in servizio attivo (ibid., pp. 92-3).<br />
“Ma io ero incapace di analizzare”, commenta Robben. Il testimone lo ha “incorporato nel suo<br />
tormento”; le domande di approfondimento che avrebbe voluto fare gli si spengono sulle labbra, e<br />
può solo “condividere in silenzio il dolore di quest’uomo” (ibid., p. 93). Se questa partecipazione<br />
può essere fondamentale per la comprensione della natura degli eventi studiati, essa implica tuttavia<br />
grandi rischi. Quando il ricercatore è sopraffatto dall’emozione, e sente di non poter fare<br />
nessun’altra domanda, perché non c’è nient’altro da chiedere di fronte all’enormità della tragedia,<br />
allora rischia di non esser più ricercatore. “In questi momenti di completo collasso della distanza<br />
critica tra i due interlocutori, perdiamo ogni dimensione dell’impresa scientifica” (ibid., p. 94);<br />
quest’ultima implica per l’appunto distanza, scetticismo, lucidità e obiettività, valori diversi rispetto<br />
a quelli della solidarietà morale e politica (v. anche Robben 1996, che rilegge il problema della<br />
seduzione etnografica alla luce dei concetti psicoanalitici di transfert e controtransfert).<br />
Malgrado le apparenze, le posizioni espresse da Scheper-Hughes e Robben non sono alternative.<br />
Esprimono invece una tensione alla quale il lavoro antropologico non può sfuggire. Robben pensa<br />
che dalla seduzione etnografica ci si debba programmaticamente difendere: ma sa bene, lui per<br />
primo, che cederle almeno per un po’ è una condizione della comprensione – soprattutto quando ciò<br />
che ci interessa non è una pura conoscenza fattuale, ma il significato della violenza nella memoria e<br />
nella vita delle persone. Per quanto riguarda Scheper-Hughes, anche il suo appello all’impegno può<br />
difficilmente essere eluso; ricordandosi però che l’antropologo può forse dare il suo piccolo<br />
contributo alla “liberazione umana” continuando a fare il suo mestiere, e non trasformandosi in un<br />
attivista politico tout court. Il che significa continuare a seguire le regole del metodo, della critica<br />
delle fonti, del rigore argomentativo; e anche mantenere quella certa dose di distacco da immediate<br />
finalità pratiche che è sempre requisito del lavoro scientifico, e di cui il vituperato disimpegno<br />
accademico non è che un’espressione. In altre parole, comprensione critica, partecipazione morale e<br />
impegno politico possono magari coesistere nella stessa persona, ma sono destinati a non fondersi<br />
mai completamente gli uni negli altri: nella loro costante tensione, vorrei suggerire, risiede la forza<br />
particolare del lavoro antropologico.<br />
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