Flavio Soriga, Diavoli di Nuraiò - Sardegna Cultura

Flavio Soriga, Diavoli di Nuraiò - Sardegna Cultura Flavio Soriga, Diavoli di Nuraiò - Sardegna Cultura

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08.06.2013 Views

sempre aperto, e che non siano affatto lacrime vere ma se chiedete al vecchio se è davvero così, vedrete la sua faccia rugosa tirarsi in una smorfia indecifrabile che secondo lui dovrebbe essere un sorriso, un sorriso sferzante: ma chi le dice queste cose? poi torna subito serio a raccontarvi che quell’occhio piange senza sosta da quando la sua bella moglie Maria lo ha lasciato solo, ventisette anni fa in Argentina zio Giovanni arriva sulla collina qualche minuto prima che il sole sorga, senza bisogno di sentire alla TV a che ora succederà, da aprile a ottobre inoltrato il vecchio si sveglia giusto in tempo per mangiare il suo pane duro inzuppato nel latte, arrivare piano piano alla sua baracca di assi malferme e stuoie di canne là sulla collina, sedersi sulla sedia di legno dipinto e guardare il sole che sale, lento e maestoso, sull’acqua limpida della spiaggia del Giunco si dicono tante cose sul vecchio Giuanni, chissà quante vere, chissà si dice che quando zio Giovanni e la moglie hanno lasciato l’isola in cui erano nati tirasse un vento mai visto, che non si capiva da dove venisse e dove puntasse, un vento carico di odori forti che non si erano mai sentiti, un vento che non scaldava e non infreddoliva, un vento nuovo di malasorte, dissero i pochi parenti che li avevano accompagnati al porto di Terranova, da dove si partiva per scappare alla malaria, alla fame, al pane troppo nero c’è chi dice che i due abbiano sentito il cuore spez- 78 zarsi, quando si sono accorti che l’ultimo scoglio sardo stava scomparendo all’orizzonte, che la loro terra eterna e immobile in mezzo al mare non c’era più, che per loro diventava ricordo e basta si dice che il loro cuore si sia fermato per qualche secondo per lo spavento, per la paura del nulla, e che il cuore di Maria non si sia più ripreso, prendendo a ballare un ritmo strano, sempre più strano e irregolare in tutti quegli anni di esilio, fino a fermarsi del tutto in un sudicio letto di immigrata in una grande città straniera, ventisette anni fa zio Giovanni passa le giornate della primavera tiepida e dell’estate infuocata a cercare more e cogliere fichi d’india nelle siepi intorno alla sua capanna, frutti spinosi che le sue mani tremanti riescono a pulire di ogni piccolo aculeo sino a stringere la polpa zuccherina e portarla alla bocca con nel viso la soddisfazione di chi ha fatto un lavoro pericoloso, e l’ha fatto bene soprattutto zio Giovanni guarda il mare, recupera il tempo, dice ai pochissimi che lo vanno a trovare, e ai turisti che ogni tanto si arrampicano fino alla sua tana, curiosi di scoprire se quella figura umana è davvero una statua o un vecchio che beve il sole recupero il tempo, ha detto l’anno scorso ad un ragazzo alto alto che lo voleva intervistare per la sua tesi sull’emigrazione sarda, perché sta qui tutto il giorno? gli chiese il giovane recupero il tempo, ho passato troppi anni ad agitarmi e viaggiare senza cavarne più del pane per vivere, senza 79

sempre aperto, e che non siano affatto lacrime vere<br />

ma se chiedete al vecchio se è davvero così, vedrete<br />

la sua faccia rugosa tirarsi in una smorfia indecifrabile<br />

che secondo lui dovrebbe essere un sorriso, un<br />

sorriso sferzante: ma chi le <strong>di</strong>ce queste cose? poi torna<br />

subito serio a raccontarvi che quell’occhio piange senza<br />

sosta da quando la sua bella moglie Maria lo ha lasciato<br />

solo, ventisette anni fa in Argentina<br />

zio Giovanni arriva sulla collina qualche minuto<br />

prima che il sole sorga, senza bisogno <strong>di</strong> sentire alla<br />

TV a che ora succederà, da aprile a ottobre inoltrato<br />

il vecchio si sveglia giusto in tempo per mangiare il<br />

suo pane duro inzuppato nel latte, arrivare piano piano<br />

alla sua baracca <strong>di</strong> assi malferme e stuoie <strong>di</strong> canne<br />

là sulla collina, sedersi sulla se<strong>di</strong>a <strong>di</strong> legno <strong>di</strong>pinto e<br />

guardare il sole che sale, lento e maestoso, sull’acqua<br />

limpida della spiaggia del Giunco<br />

si <strong>di</strong>cono tante cose sul vecchio Giuanni, chissà<br />

quante vere, chissà<br />

si <strong>di</strong>ce che quando zio Giovanni e la moglie hanno<br />

lasciato l’isola in cui erano nati tirasse un vento mai<br />

visto, che non si capiva da dove venisse e dove puntasse,<br />

un vento carico <strong>di</strong> odori forti che non si erano<br />

mai sentiti, un vento che non scaldava e non infreddoliva,<br />

un vento nuovo <strong>di</strong> malasorte, <strong>di</strong>ssero i pochi<br />

parenti che li avevano accompagnati al porto <strong>di</strong> Terranova,<br />

da dove si partiva per scappare alla malaria,<br />

alla fame, al pane troppo nero<br />

c’è chi <strong>di</strong>ce che i due abbiano sentito il cuore spez-<br />

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zarsi, quando si sono accorti che l’ultimo scoglio sardo<br />

stava scomparendo all’orizzonte, che la loro terra eterna<br />

e immobile in mezzo al mare non c’era più, che per<br />

loro <strong>di</strong>ventava ricordo e basta<br />

si <strong>di</strong>ce che il loro cuore si sia fermato per qualche<br />

secondo per lo spavento, per la paura del nulla, e che<br />

il cuore <strong>di</strong> Maria non si sia più ripreso, prendendo a<br />

ballare un ritmo strano, sempre più strano e irregolare<br />

in tutti quegli anni <strong>di</strong> esilio, fino a fermarsi del<br />

tutto in un su<strong>di</strong>cio letto <strong>di</strong> immigrata in una grande<br />

città straniera, ventisette anni fa<br />

zio Giovanni passa le giornate della primavera tiepida<br />

e dell’estate infuocata a cercare more e cogliere fichi<br />

d’in<strong>di</strong>a nelle siepi intorno alla sua capanna, frutti<br />

spinosi che le sue mani tremanti riescono a pulire <strong>di</strong><br />

ogni piccolo aculeo sino a stringere la polpa zuccherina<br />

e portarla alla bocca con nel viso la sod<strong>di</strong>sfazione<br />

<strong>di</strong> chi ha fatto un lavoro pericoloso, e l’ha fatto bene<br />

soprattutto zio Giovanni guarda il mare, recupera<br />

il tempo, <strong>di</strong>ce ai pochissimi che lo vanno a trovare, e<br />

ai turisti che ogni tanto si arrampicano fino alla sua<br />

tana, curiosi <strong>di</strong> scoprire se quella figura umana è davvero<br />

una statua o un vecchio che beve il sole<br />

recupero il tempo, ha detto l’anno scorso ad un ragazzo<br />

alto alto che lo voleva intervistare per la sua tesi<br />

sull’emigrazione sarda, perché sta qui tutto il giorno?<br />

gli chiese il giovane<br />

recupero il tempo, ho passato troppi anni ad agitarmi<br />

e viaggiare senza cavarne più del pane per vivere, senza<br />

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