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Flavio Soriga, Diavoli di Nuraiò - Sardegna Cultura

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ingrazio il cielo <strong>di</strong> essere nato a <strong>Nuraiò</strong> e mio padre<br />

buonanima <strong>di</strong> avermi buttato in groppa a Frorixeddu<br />

che ero ancora bambino e non sapevo neppure scrivere<br />

le lettere dell’alfabeto, e non è che poi abbia imparato<br />

benissimo, la penna non è il mestiere mio, ma<br />

poco male, che il pane l’ho saputo guadagnare lo stesso,<br />

da sempre, con le braccia ferme che ho e con i cavalli,<br />

magari non fossero miei, e gioie ne ho avute, e<br />

molte, girando l’Italia e l’Europa trattato come un principe,<br />

piccolo e nero che sono, chiamato signore e viziato<br />

dalle donne meglio che se sapessi scrivere canti<br />

a muttettus <strong>di</strong> quelli che fanno gonfiare il cuore e<br />

piangere, meglio che se avessi scritto il più bel romanzo<br />

del mondo<br />

sarei dovuto morire quel pomeriggio d’agosto quando<br />

il sindaco della città coi suoi due cognomi e la cravatta<br />

più elegante che avessi mai visto mi è venuto<br />

incontro e mi ha stretto la mano quasi piangendo anche<br />

lui, che gareggiavo per la sua contrada<br />

sarei dovuto morire d’infarto quella sera quando<br />

Vannina mi ha abbracciato e baciato come non aveva<br />

mai fatto, e chiesto scusa per le brutte parole del<br />

giorno prima, e io l’ho perdonata senz’altro perché in<br />

fondo in fondo sapevo che avevo vinto anche grazie a<br />

lei e alla sua lingua che con quegli insulti mi aveva<br />

messo in corpo rabbia e forza e voglia <strong>di</strong> spaccare il<br />

mondo più <strong>di</strong> qualunque droga, e se avevo corso come<br />

morsicato dal <strong>di</strong>avolo era stato anche per quello<br />

sarei dovuto morire quel giorno tra le braccia <strong>di</strong><br />

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mia madre che piangeva per la gioia più grande della<br />

sua misera vita <strong>di</strong> vedova da un’eternità, <strong>di</strong> grassa<br />

matrona che a malapena <strong>di</strong>ce due parole d’italiano<br />

ma che seduta in quel ristorante da signori guardava<br />

tutti con occhi orgogliosi e luccicanti, cupa maestosa<br />

signora coperta del suo scialle nero che era una <strong>di</strong>chiarazione<br />

<strong>di</strong> fede, credo nel mio marito morto lavorando<br />

come un mulo e nell’amore <strong>di</strong> mio figlio che<br />

ha trionfato su tutti i nobili cavallerizzi del continente,<br />

credo nell’umiltà della mia vita e della mia<br />

prossima morte, ignoro i vostri pensieri <strong>di</strong>fficili e i<br />

vostri gusti complicati, sicura che la vita e il mondo<br />

e gli uomini sono sempre gli stessi dappertutto in<br />

tutti i tempi, e che a <strong>Nuraiò</strong> non ci manca niente e<br />

niente dobbiamo chiedere<br />

sarei dovuto morire quel pomeriggio in cui non ero<br />

più il sardo, il paesano, l’isolano, il piccoletto, l’ignorante,<br />

ma solo Vinazzo re <strong>di</strong> Siena, nobile fantino principe<br />

dei cavalli furbo gentile dongiovanni, orgoglio<br />

della contrada, occhi veloci e riso sprezzante, i <strong>di</strong>fetti<br />

<strong>di</strong>ventati pregi i pregi moltiplicati per cento, la folla<br />

ai miei pie<strong>di</strong> le mie mani trofei da stringere per un secondo<br />

almeno, la mia bocca regalo per poche<br />

invece ho vissuto ancora e sono tornato nell’isola<br />

quel Natale, ho ritrovato i miei amici <strong>di</strong> una volta,<br />

come sempre ci siamo buttati a bere birra da Nando<br />

da Gianni da Tziu Antoi Crabittu, in tutti i bar del<br />

paese e dei paesi vicini, ero tornato solo per pochi<br />

giorni giusto per controllare come andavano i lavori<br />

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