Flavio Soriga, Diavoli di Nuraiò - Sardegna Cultura
Flavio Soriga, Diavoli di Nuraiò - Sardegna Cultura
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ti fai costruire un aspetto <strong>di</strong>verso, pulito, forse interessante.<br />
Lavi via lo sporco dei secoli <strong>di</strong> miseria che ti<br />
hanno preceduto, cancelli dal tuo viso le rughe che ti<br />
dànno gli incubi <strong>di</strong> povertà che continuano a camminarti<br />
affianco, visibili solo a te, sempre meno visibili,<br />
quasi trasparenti.<br />
Ti costruisci una buona pelle, un bel colorito col vino<br />
pregiato e il pesce fresco, impari a sorridere come si<br />
deve e a mostrare i denti bianchi quando senti una battuta<br />
<strong>di</strong>vertente, nessuno <strong>di</strong>rebbe che covi tristezza, tu<br />
che hai imparato a parlare così bene del niente, come<br />
gli altri. Però, gli occhi, quelli ti fottono, se trovi qualcuno<br />
capace <strong>di</strong> guardarti, <strong>di</strong> fissarti fino in fondo.<br />
In maggio, una domenica in cui il Cagliari giocava<br />
in casa una partita importante e la città respirava caldo<br />
e sale marino, io al volante della mia seicento sudo<br />
e ho paura, ma non so perché. I miei amici hanno sicuramente<br />
orecchie incollate alle ra<strong>di</strong>oline, e io invece<br />
guardo le strade deserte e il bar del Me<strong>di</strong>terraneo vuoto<br />
e penso che se sono scappato da <strong>Nuraiò</strong> posso scappare<br />
anche da questa città, dall’isola, almeno per un<br />
po’, forse. Che non si deve mai <strong>di</strong>pendere troppo da<br />
qualcuno, che chi non viaggia non vive, che ho già<br />
vissuto forse metà della mia vita, che ho lavorato tanto<br />
e posso fare quello che voglio, che non mi devo<br />
sentire legato da niente e da nessuno, che chissà cosa<br />
sta facendo Henry in questo momento, se è ancora<br />
vivo<br />
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E tante cose ancora, perché guidavo piano e il vento<br />
sulla faccia mi faceva pensare in fretta.<br />
Poi, arrivo alla porta del suo appartamento, busso,<br />
non ho risposta. Giro la maniglia, è aperta, la stanza<br />
spoglia <strong>di</strong> tutto, solo un biglietto sul tavolino in vimini:<br />
Io davvero non m’innamoro<br />
e non posso stare troppo tempo<br />
con chi mi guarda come fai tu<br />
la tristezza mi fa paura.<br />
DEVO partire subito, cerca <strong>di</strong> capirmi.<br />
Buona fortuna, ad<strong>di</strong>o.<br />
Banale, facile da <strong>di</strong>menticare, calcolai subito. Naturalmente<br />
non era così, solo un nuovo passo della danza<br />
che non sapevo <strong>di</strong> ballare: l’illusione. Poi ci fu il tormento,<br />
l’apatia, il vuoto. Vuoto per giorni e giorni,<br />
settimane, mesi <strong>di</strong> nuovo solo col mio lavoro, col calcio,<br />
con quattro amici <strong>di</strong> nessuna importanza. Con le<br />
foto maledette.<br />
A ottobre decido: parto in Messico, on the road, perché<br />
ero un neofita, dei libri e dei viaggi, e quin<strong>di</strong> fanatico<br />
incompetente e illuso, convinto davvero <strong>di</strong> poter<br />
scappare da un’ombra.<br />
Molte immagini: città caotiche marchiate dal sottosviluppo<br />
e dall’anarchia urbanistica, vecchi camioncini<br />
e grasse signore in vestiti colorati e ariosi: Lima,<br />
Mexico City, Guadalupe, Santiago, San Juan de Portorico.<br />
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